Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

MAFIOPOLI

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

Di Antonio Giangrande

 

MAFIA: QUELLO CHE NON TI DICONO.

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Mafia non si può non parlare dei tarli che divorano il sistema Italia e le commistioni tra le cosche criminali locali con le lobbies, le caste e le massonerie deviate. Queste detengono il potere politico, economico ed istituzionale e per gli effetti si garantiscono impunità ed immunità.

Delle Caste e delle Lobbies si parla in un’inchiesta ed in un libro a parte. Della Massoneria, si parla dettagliatamente anche in altra inchiesta ed in altro libro.

 

L’ITALIA DELLE MAFIE,

OSSIA, LA MAFIA SIAMO NOI

 

 

 

 

MAFIOPOLI. LA MAFIA VIEN DALL'ALTO.

L'ITALIA DELLE MAFIE CHE NON TI ASPETTI

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

 

 

 

SOMMARIO PRIMA PARTE

 

INTRODUZIONE

LIBERA DI DON CIOTTI: “PARTITO MAFIOSO, CRIMINALE E PERICOLOSO”.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

CHI FA LE LEGGI? 

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

MAFIA, PALAZZI E POTERE.

MAFIA DEMOCRATICA.

COSE NOSTRE. C'era una volta l'antimafia.

TERRORISMO E MAFIA. CONTRASTO O COMPLICITA': LA SCONTATA SCELTA DI CAMPO.

MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.

IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.

CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.

LEZIONE DI MAFIA.

ITALIA MAFIOSA. IL PAESE DEI COMUNI SCIOLTI PER MAFIA SE AMMINISTRATI DALL’OPPOSIZIONE DI GOVERNO.

SOLITI MEDIA. TROPPA PUBBLICITA’ AL FUNERALE DI VITTORIO CASAMONICA.

CHE FINE HA FATTO IL GIUDICE PAOLO ADINOLFI?

E’ STATO LA MAFIA! LA VERA MAFIA: LO STATO ESTORTORE E CORROTTO.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO. ESAME DI AVVOCATO: 17 ANNI PER DIRE BASTA!

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E' UGUALE PER TUTTI.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

COMMISSIONE BICAMERALE ANTIMAFIA? MA MI SI FACCIA IL PIACERE….. 

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

IL RACKET DELL’IMMIGRAZIONE.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

CHI E’ IL MAGISTRATO?

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

ILARIA ALPI, NATALE DE GRAZIA E LE NAVI DEI VELENI.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

HUSCHER E LA MAFIA DEI CHIRURGHI.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

PARLIAMO DI JOE PETROSINO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. STOP A RICORSI PROLISSI ED A TESTIMONI INUTILI.

ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?

PARLA ANTONIO IOVINE. STATO CORROTTO E POLITICI TUTTI UGUALI.

IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI.

LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.

BARONATO. EXPO LA NUOVA TANGENTOPOLI. E LA GUERRA TRA TOGHE.

LA COERENZA ED IL BUON ESEMPIO DEI FORCAIOLI.

I PALADINI DELL’ANTIMAFIA. SE LI CONOSCI LI EVITI.

GERMANIA, IL PARADISO DELLA MAFIA. ITALIA, IL PARADISO DEI MAGISTRATI.

MAFIA AL NORD, VIVA L’OMERTA’. VITTIME O COLLUSI, GLI IMPRENDITORI NON DENUNCIANO.

LE ULTIME RIVELAZIONI DI RIINA.

LA TRATTATIVA E LA GUERRA TRA IMPUTATI E PM.

ITALIA E MAFIA. CENSURA E CREDIBILITA'. ITALIA. CREDIBILITA' E CENSURA. L’ANTIMAFIA DI SINISTRA E LIBERA.  GIANCARLO GIUSTI, GIUSEPPINA PESCE, MARIA CONCETTA CACCIOLA. TERRA DI OMERTA’ E CENSURA, GIUDICI MAFIOSI E DI PENTIMENTI RITRATTATI. LA NOMINA DEI GOVERNI. IL PROCESSO ALLO STATO ED I MAGISTRATI.

MAFIA. CUFFARO E LOMBARDO. LA REGIONE DEGLI ONNIPOTENTI. LA SICILIA COME METAFORA.

MAFIA E FALLIMENTI. AZIENDE SANE IN MANO AI TRIBUNALI. GESTIONE CRIMINALE?

ASSOLTI E CONFISCATI. I CAVALLOTTI: STORIE DI MAFIA O DI INGIUSTIZIA?

MAI DIRE ANTIMAFIA.

MAI DIRE MAFIA, PERCHE’ NULLA E’ COME APPARE: GIOVANNI AIELLO, BERNARDO PROVENZANO, SALVATORE RIINA, FRANCESCO MESSINEO E CAROLINA GIRASOLE.

MAFIA. SCARANTINO. TORTURATO PER MENTIRE.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI. ESPOSITO, DE MAGISTRIS, BORRELLI, BOCCASSINI......

LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.

PARLIAMO DEL GEN. C.A. CARLO ALBERTO DALLA CHIESA.

MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!

CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.

LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE, MA NON PER TUTTI.

MAGISTRATURA ED ABUSI: POTERE MAFIOSO?

TUTTO IL POTERE A TOGA ROSSA.

GIUDICI IMPUNITI.

C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!

IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.

I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.

MANETTE FACILI, IDEOLOGIA ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.

IL CAPITANO ULTIMO AVVERTE: STATE ATTENTI DA UNA CERTA ANTIMAFIA.

MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.

L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.

UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.

RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?

DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?

GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.

SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.

GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?

LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

PATRIA, ORDINE. LEGGE.

INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.

GIUSTIZIA E VELENI. LA GUERRA TRA MAGISTRATI.

BERLUSCONI ASSOLTO? COLPA DEL GIUDICE! 

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

 

SOMMARIO SECONDA PARTE

 

LA MAFIA NON ESISTE, ANZI, E' DI STATO!

ANTIMAFIOSO: SI NASCE O SI DIVENTA?

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

NOMEN OMEN: L'ANAGRAFE DEI CRIMINALI.

CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA: IL REATO CHE NON C’E’.

L’ATTENTATO A CARLO PALERMO.

LA VERITA’, OLTRAGGIATA, MINACCIATA E SOTTO SCORTA.

L'ANTIMAFIA ED IL BUSINESS DELLE PARTI CIVILI.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

MAFIA, ANTIMAFIA E LE PRESE PER IL CULO…

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI

GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?

A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA E SCAZZI. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?

COSI' HANNO TRUFFATO DI BELLA.

IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.

CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.

CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI E PER SEMPRE.

I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.

CASO MARO’. ITALIANI POPOLO DI MALEDUCATI, BUGIARDI ED INCOERENTI. DICONO UNA COSA, NE FANNO UN’ALTRA.

L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

FASCISMO, COMUNISMO, COOP ROSSE E MAFIA CAPITALE.

RITUALI D’INIZIAZIONE. I GIURAMENTI. IL GIURAMENTO DELLA MAFIA. ‘NDRANGHETA, CAMORRA, SACRA CORONA UNITA, COSA NOSTRA.

RAFFAELE CUTOLO. I SEGRETI DEL BOSS.

PENTITI E PENTITISMO: L'INTERESSE PERSONALE SPONTANEO O INDOTTO.

ECCO COME MI VOGLIONO FAR FUORI.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

PROCESSO AL COLLE.

PROTOCOLLO FARFALLA.

IMPRENDITORIA CRIMINOGENA. SEQUESTRI ED AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. A CHI CONVIENE?

LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.

IL SUCCESSO DELLA 'NDRANGHETA.

SALERNO REGGIO CALABRIA: L’ETERNA INCOMPIUTA.

LA SALERNO - REGGIO CALABRIA FINISCE NEL LATO OSCURO DEL POTERE.

MAFIE, LA GRANDE ALLEANZA.

VATTI A FIDARE. GIUSTIZIA, LEGALITA' E LOTTA ALLA MAFIA: ROSSA O BIANCA.

PROCESSI DI MAFIA: L’ALTRA VERITA’. PAROLA A MORI E LO GIUDICE.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

LE MAFIE NEL MONDO. GOVERNI ED ORDINAMENTI GIURIDICI PARALLELI.

MAFIA: GENESI, ANAMNESI, NEMESI.

DALL’ORDALIA ALLA DIA DI GIOVANNI FALCONE. STORIA DI MAFIA E DI SUPREMAZIA. LA DOTTRINA DELL'UBBIDIENZA.

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.

ITALIA, CULLA DEL DIRITTO NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.

MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.

LO STATO DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.

LA MALAGIUSTIZIA E L’ODIO POLITICO. LA VICENDA DI GIULIO ANDREOTTI.

LA MAFIA DEI RAGAZZINI.

ILLEGALITA’, VIOLENZA ED ABUSI. MA VIETATO PUNIRE I POLIZIOTTI.

LE PRIMEDONNE DELL’ANTIMAFIA.

TRATTATIVA STATO-MAFIA. PROCESSO ALLO STATO.

AGENDA ROSSA DI BORSELLINO. PROCESSO ALLO STATO: IL PROCESSO MANCATO.

LA 'NDRANGHETA VOLEVA RAPIRE BERLUSCONI.

LA MAFIA DELLE PADRINE.

IL RISVOLTO DELLA MEDAGLIA. DONNE DI MAFIA E DONNE CONTRO LA MAFIA.

IL RISVOLTO DELLA MEDAGLIA. CHI STA DENTRO UNA VITA E CHI STA FUORI SENZA PAGARE FIO.

E SE TU DENUNCI LE INGIUSTIZIE DIVENTI MITOMANE O PAZZO. IL SISTEMA E LA MASSOMAFIA TI IMPONE: SUBISCI E TACI. LA STORIA DI FREDIANO MANZI E PIETRO PALAU GIOVANETTI.

LE BORSE DEI SEGRETI TRAFUGATE DALLO STATO.

LOTTA ALLA CRIMINALITA’. PARLIAMO DEI TESTIMONI DI GIUSTIZIA ABBANDONATI.

FREDIANO MANZI UN GESTO ESTREMO CONTRO L'ABBANDONO DEGLI USURATI.

IL RACKET DELLE PAGELLE AGLI HOTEL.

MAFIA. DA SINISTRA SCHIZZI DI FANGO SULLE REGIONI DEL SUD.

IN TEMPI DI ELEZIONI: FARLOCCATE E VOTI DI SCAMBIO.

QUEI CAZZOTTI A FALCONE.

MAFIA = STATO.

MAFIA E SPAGHETTI. L’ITALIANO VISTO DAGLI ALTRI. MAFIA ED IDEOLOGIE, AUTOLESIONISMO ALL’ITALIANA. DELLA SERIE: FACCIAMOCI DEL MALE.

L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE.

MAI DIRE REPUBBLICA. DEMOCRAZIA MAFIOSA. LA MAFIA ELETTORALE: TRUFFATORI E TRUFFATI.

LA MAFIA, COME MAI L'AVETE CONOSCIUTA E CONSIDERATA. LA MAFIA COME MAI L'AVETE STUDIATA.

LA MAFIA CHE NON TI ASPETTI: COSCHE LOCALI; CASTE; LOBBIES E MASSONERIE DEVIATE.

PARLIAMO DI VOTO DI SCAMBIO: Il mercato degli eletti.

QUANDO LA MAFIA SIAMO NOI.

MAFIA: DOPPIO GIOCO TRA POLITICA, INFORMAZIONE E MAGISTRATURA.

I MAGISTRATI, MEGLIO DI CHI?

MAFIA ED ANTIMAFIA, UN RITORNELLO CHE RITORNA.

ANTIMAFIA: LOTTA POLITICA E DI MONOPOLIO. LOTTA DI PARTE E DI FACCIATA.

ALTRO CHE MAFIA. L'ITALIA E' UCCISA DAL CLIENTELISMO E DAL VOTO DI SCAMBIO.

LA MAFIA DELLE RACCOMANDAZIONI.

COSE DI COSA NOSTRA.

LA MAFIA NEL SENTIRE COMUNE.

MAFIA? NO POLITICA!!! SOLO E SEMPRE MALEDETTA POLITICA.

LOTTA ALLA MAFIA: IPOCRISIA E DISINFORMAZIONE, OSSIA LOTTA DI PARTE O DI FACCIATA.

GIUSTIZIA E MAFIA: UNA GRANDE IPOCRISIA. LA MAFIE E’ POTERE: ERGO, LOTTA ALLA MAFIA: LOTTA DI PARTE IDEOLOGICA O DI FACCIATA.

DIRITTO CERTO E UNIVERSALE. CONTRADDIZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE: CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA, UN REATO CHE ESISTE; ANZI NO!!

MAFIA E STATO: DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO, CHE DAI NEMICI MI GUARDO IO. BORSELLINO. UN'ALTRA VERITA'. ANCHE QUESTA DI PARTE O DI FACCIATA?

A PROPOSITO DI ANTIMAFIA MILITANTE.

"LO STATO": MAFIOSO, PAVIDO E BUGIARDO.

LA VERSIONE DEL GENERALE E PREFETTO MARIO MORI.

BORSELLINO, L'ULTIMA VERITÀ.

IL PATTO MAFIA-STATO, LE ORIGINI.

PARLIAMO DI MAFIA DENTRO LO STATO.

CENTRO NORD: DOVE COMANDANO LE MAFIE.

"I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA".

LA MAFIA E L'ANTIMAFIA.

L'ANTIRACKET PARTIGIANO.

IL RACKET TARGATO ANTIRACKET.

ANTIMAFIA DOUBLE FACE.

LA MAFIA E LA POLITICA.

LA MAFIA E LA MAGISTRATURA.

IL CASO BRUNO CONTRADA.

IL CASO SILVIO BERLUSCONI.

IL CASO GIULIO ANDREOTTI.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

MAGISTRATI POCO ONOREVOLI.

INTERCETTAZIONI. PIOGGIA DI FANGO SU BERLUSCONI.

ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.

CORRUZIONE A NORMA DI LEGGE.

SE NASCI IN ITALIA…

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.

PARLIAMO DI ORDINI PROFESSIONALI. 

PARLIAMO DI MAFIA ED INFORMAZIONE.

PARLIAMO DI BUROCRAZIA E DI BENI MAI CONFISCATI.

PARLIAMO DELLE BANCHE COME LA PIU' GRANDE RETE DI CONNIVENZA CON LA MAFIA.

 

 

 

 

SECONDA PARTE

 

LA MAFIA NON ESISTE, ANZI, E' DI STATO!

Mafia Capitale. Una Repubblica Ricattabile. I segreti della lista Carminati. Il ricatto alla Repubblica parte nell'estate del 1999 quando Massimo Carminati penetra nel caveau della banca a palazzo di Giustizia di Roma, e sceglie 147 cassette eccellenti. Adesso l'Espresso rivela la lista. E i suoi segreti. È un furto su commissione diretto a ricattare qualcuna delle vittime. Fra loro si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. E poi avvocati. Sono persone connesse con i più grandi misteri d’Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all’omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura. Di Lirio Abbate il 20 ottobre 2016 su Espresso TV

Il ricatto di Massimo Carminati: ecco la lista dei derubati nel furto al caveau del 1999. Il Cecato svuotò 147 cassette, colpendo magistrati, avvocati, funzionari della Giustizia. Connessi con i più grandi misteri d'Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all'omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura, scrivono Lirio Abbate r Paolo Biodani il 24 ottobre 2016 su "L'Espresso". Il colpo del secolo, era stato definito. Ma non era solo un furto clamoroso: il movente era un grande ricatto. Allo Stato e alla Giustizia. Nelle sentenze definitive i giudici scrivono di un bottino "eccezionale": «Almeno 18 miliardi di vecchie lire», mai recuperati. Sottolineano «l’audacia» di un’azione criminale «spettacolare»: un commando di banditi che riesce a svaligiare in tutta calma il caveau della banca più sorvegliata d’Italia, senza sparare, senza forzare neppure un lucchetto, senza far scattare il doppio sistema d’allarme. Vanno a colpo sicuro: hanno in mano una lista selezionata di cassette di sicurezza da svuotare. È un furto «pluriaggravato» che spinge i magistrati di ieri e di oggi a evidenziarne la «carica intimidatoria». Per «la valenza simbolica del luogo violato»: il palazzo di giustizia di Roma, in piazzale Clodio, presidiato giorno e notte da militari armati. Per «l’inquietante capacità di penetrazione corruttiva fin dentro l’Arma dei carabinieri». Per la qualità delle vittime: decine di alti magistrati, avvocati, cancellieri, consulenti, professionisti e imprenditori. E per il «potere di ricatto» che, secondo le sentenze, era il vero obiettivo di quell’assalto al cuore della giustizia italiana. Organizzato e diretto da Massimo Carminati, l’ex terrorista nero che proprio da allora diventa «un intoccabile». Un «boss carismatico» che, mentre è sotto processo con Giulio Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, svuota le cassette di sicurezza di una lista di magistrati e avvocati romani di cui vuole spiare i segreti. La genesi di "mafia Capitale" si concretizza nell’estate 1999, con questo grande colpo, mentre l’Italia s’illude di aver chiuso il libro nero della Prima Repubblica. Stragi di destra, terrorismo di sinistra e guerra fredda sono ricordi sbiaditi. A capo del governo c’è Massimo D’Alema, il primo premier post-comunista. Mentre Carminati s’infila di notte nel caveau, sul Paese c’è l’ombra della crisi e del "governo tecnico": D’Alema è preoccupato per il rinascere di un Grande centro che possa spingere la sinistra all’opposizione. Dopo decenni di debito pubblico, crisi e svalutazioni, i conti sono in ordine e l’euro alle porte sembra annunciare un’Europa forte e unita. L’economia cresce, l’euforia spinge i capitani coraggiosi della finanza a scalare ex monopoli statali come Telecom. Perfino Tangentopoli pare archiviata: nonostante le oltre mille condanne per corruzione e fondi neri del 1992-94, l’intesa bicamerale con la destra di Berlusconi ha partorito una riforma costituzionale, ribattezzata «giusto processo», in grado di annientare perfino i verbali d’accusa già raccolti dalla magistratura. Che non era mai arrivata così in alto: a Milano si processano anche i giudici corrotti della capitale, a Roma i boss impuniti della Banda della Magliana, tra Palermo e Perugia siede sul banco degli imputati addirittura il senatore a vita Giulio Andreotti per mafia e omicidio. L’attacco alla fortezza giudiziaria della capitale si consuma nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999. La "città giudiziaria" è interamente recintata da alte mura sorvegliate notte e giorno da carabinieri. All’interno c’è l’agenzia 91 della Banca di Roma. Carminati e i suoi complici arrivano dopo le 18, dentro un furgone identico a quello in uso ai carabinieri, che in questo modo evita i controlli. A mezzanotte e mezza almeno otto banditi entrano nel caveau sotterraneo, senza scassinare nulla, usando le chiavi e le combinazioni fornite da un complice: un impiegato della banca rovinato dai debiti. A guidare il commando è Carminati in persona. In mano ha un foglio di carta con una lista di nomi, scritti a penna, in rosso: sono magistrati, avvocati, cancellieri. «Queste cassette sono roba mia», intima ai complici, tutti scassinatori molto esperti. «Tutto il resto è vostro» aggiunge il "Cecato". Le sentenze spiegano che Carminati, con quel colpo, «è alla ricerca di documenti per ricattare magistrati» e «aggiustare processi»: su 900 cassette ne vengono aperte solo 147. Aperture su indicazione. Gli altri banditi puntano ai soldi: sventrano intere file di cassette, arraffano contanti, gioielli e riempiono una quindicina di borsoni sportivi. Carminati invece ha «una mappa con i numeri delle cassette»: sono quelle che gli interessano, ritrovate aperte «in ordine sparso, a macchia di leopardo». Di fronte ai carabinieri, i criminali comuni scappano. L’ex terrorista nero invece ne ha corrotti almeno quattro, reclutati da un sottufficiale cocainomane: tre accompagnano la banda nel caveau, il quarto spalanca il cancello esterno della cittadella fortificata. Alle 4 di notte la razzia è terminata: i banditi se ne vanno con calma, sul furgone con i colori dei carabinieri, con un bottino pari a oltre nove milioni di euro, di cui verranno recuperati meno di 150 mila euro. Alle 6.40 di sabato 17 luglio l’addetta alle pulizie dà l’allarme. I primi agenti di polizia trovano nel caveau gli attrezzi da scasso e un caotico cumulo di cassette svuotate. Le prime notizie raccontano di una refurtiva miliardaria, tra oro, gioielli e denaro contante, ma anche di due chili di cocaina, di cui però negli atti del processo non c’è traccia. La Roma che conta trema: le cassette di sicurezza servono a custodire non solo gioielli, ma anche pacchi di denaro nero, che è rischioso depositare sui normali conti bancari. E spesso nascondono documenti e foto scottanti. Tra i clienti di quella banca ci sono decine di magistrati, avvocati e dipendenti del tribunale. L’elenco completo non era stato mai reso pubblico. Le indagini dei pm di Perugia ipotizzano che il colpo abbia subito un’accelerazione. Quella banca restava aperta anche di sabato. Se Carminati ha agito venerdì notte, significa che aveva fretta. C’è il fondato sospetto che l’ex terrorista avesse saputo che qualche cliente eccellente, la mattina seguente, progettava di ritirare qualcosa di molto importante. I giudici dei successivi processi, celebrati a Perugia proprio «per la massiccia presenza di magistrati tra le vittime», concludono che un furto del genere era sicuramente «finalizzato alla sottrazione di documenti scottanti, utilizzabili per ricattare la vittima o terzi». Le indagini non sono riuscite a chiarire se Carminati abbia raggiunto il suo obiettivo, soprattutto perché «nessuno ha denunciato la sottrazione di documenti». Il tribunale però non ci crede, osservando che «quanti per avventura avessero detenuto siffatto materiale, ben difficilmente sarebbero poi disposti a denunciarne con entusiasmo la scomparsa». Oltre al buon senso, un indizio è il ritrovamento, tra i resti fracassati delle cassette, di lettere e altre carte private, abbandonate dai banditi sul pavimento del caveau perché appartenevano a cittadini qualunque. Quindi anche quel caveau custodiva documenti. E un mare di contanti di oscura provenienza. L’assicurazione della banca ha risarcito solo il bottino documentabile: cinque miliardi di lire su un totale di «almeno 18». Eppure a Perugia nessuna vittima si è costituita parte civile nel processo a Carminati. Quel furto nasconde un quadro criminale che le sentenze definiscono «inquietante». Proprio l’identità delle vittime giudiziarie può misurare la capacità intimidatoria di chi oggi è accusato di essere il capo di Mafia Capitale. Ciò nonostante, neppure i magistrati riuscivano a ritrovare l’elenco completo dei derubati, mentre le sentenze finali citano solo pochi nomi, pur chiarendo che la banda del caveau ha svuotato le cassette di almeno 134 persone. Adesso "l’Espresso" ha recuperato le copie degli atti più importanti, da cui emergono dati e fatti rimasti inediti e così a distanza di diciassette anni dal furto vengono svelati. Sono atti che identificano due categorie opposte di vittime. Da una parte giudici onestissimi, rigorosi, preparati, spesso con ruoli di vertice nelle corti e nei ministeri, insieme a grandi avvocati, impegnati anche come difensori di parti civili in processi per mafia o terrorismo nero, compresi casi in cui era imputato lo stesso Carminati. Dall’altra, magistrati e legali con un passato imbarazzante, in qualche caso addirittura arrestati e condannati per corruzione. La toga più famosa è il titolare della cassetta svaligiata numero 720: «Domenico Sica, magistrato, prefetto». Per tutti gli anni Settanta e Ottanta, Sica è stato il più importante pm italiano, preferito a Giovanni Falcone come primo Alto commissario antimafia. Per i giudici amici era "Nembo Sic", l’attivissimo magistrato che ha guidato tutte le indagini più scottanti della procura di Roma, dal terrorismo politico agli scandali economici. I detrattori invece lo chiamavano "Rubamazzo", da quando una sua indagine parallela permise di sottrarre ai giudici di Milano l’inchiesta sulla P2 di Licio Gelli, chiusa a Roma dopo un decennio con risultati nulli. Sica è morto nel 2014, senza che nessuno pubblicamente lo avesse mai segnalato come vittima di Massimo Carminati. È stato lui ad occuparsi anche dell’omicidio Pecorelli, del caso Moro, dell’attentato al Papa e della scomparsa di Emanuela Orlandi. Giorgio Lattanzi, intestatario con la moglie di un’altra cassetta svuotata, oggi è il vicepresidente della Corte costituzionale. Per anni è stato uno dei più autorevoli giudici della Cassazione: come presidente della sesta sezione penale, in particolare, guidava i collegi chiamati a rendere definitive (o annullare) tutte le condanne per corruzione emesse in Italia. Contattato dall’Espresso, il giudice Lattanzi, tramite un portavoce, conferma di «aver denunciato subito il fatto» e precisa che «all’epoca non aveva nessun elemento per ipotizzare qualcosa di diverso da un semplice furto, anche perché in quel periodo non trattava processi di particolare rilevanza e nella cassetta non custodiva alcun documento, mentre il reato gli causò un danno economico molto rilevante, poi risarcito dall’assicurazione». Tra i legali spiati e derubati spicca Guido Calvi, ex senatore del Pds-Ds dal 1996 al 2010, quando fu eletto al Csm. Calvi è stato avvocato di parte civile in molti processi contro il terrorismo di destra: il suo nome compare anche nell’ultimo ricorso in Cassazione contro l’assoluzione di Carminati per il più grave depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna (2 agosto 1980, 85 vittime), organizzato per evitare la condanna definitiva di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, come lui neofascisti dei Nar. Calvi è stato avvocato di Massimo D’Alema e ora presiede un comitato per il No. Il suo studio legale è parte civile nel processo a mafia Capitale. «Che il furto al caveau avesse una finalità ricattatoria è qualcosa di più che un sospetto», spiega l’avvocato Calvi, il quale aggiunge: «Il colpo al Palazzo di giustizia era chiaramente finalizzato a colpire avvocati e alti magistrati, a trovare carte segrete... Nella mia cassetta però tenevo solo gioielli di famiglia, nessun documento. Mi manca soprattutto la mia collezione di penne, di valore solo affettivo: sono un avvocato di sinistra, difendo anche clienti poveri, che poi per sdebitarsi mi regalano una Montblanc con il mio nome inciso. Erano i più bei ricordi della mia carriera. Lo dico sempre all’avvocato Naso: almeno le penne il tuo cliente potrebbe restituirmele...». Giosuè Naso è il difensore di Carminati. Il furto al caveau ha colpito anche altri prestigiosi avvocati, come Nino Marazzita, amico di Guido Calvi, che ricorda: «Abbiamo lavorato più volte insieme, anche contro la destra romana. Con Nino presentammo la prima denuncia per riaprire l’inchiesta sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, dove ero stato parte civile, nel tentativo di identificare i complici neofascisti di Pino Pelosi». Alla domanda se ritenga possibile che Carminati, con il colpo al caveau, abbia raggiunto l’obiettivo di intimidire qualche giudice, l’avvocato Calvi risponde così: «I processi sulle stragi nere e sui depistaggi dei servizi, da piazza Fontana a Bologna, sono pieni di assoluzioni assurde firmate da magistrati collusi o intimiditi. Prima del maxiprocesso di Falcone e Borsellino, anche i processi di mafia finivano sempre con l’insufficienza di prove». I primi rapporti di polizia identificano, tra le vittime del furto, 17 magistrati, 55 avvocati, 5 cancellieri, altri 17 dipendenti del tribunale, un carabiniere e un perito giudiziario. I principali danneggiati sono quattro imprenditori romani che si sono visti rubare l’equivalente in lire di 500 mila euro e un milione ciascuno. Decine di denunce risultano però presentate in ritardo, dagli effettivi proprietari di beni custoditi in cassette intestate ad altri: familiari o amici fidati. Negli atti completi, quindi, si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. Nella procura di Roma, competente a indagare su Carminati, la banda del caveau ha preso di mira tra gli altri l’aggiunto Giuseppe Volpari, capo dei pm di Tangentopoli nella capitale, spesso in contrasto con i magistrati milanesi di Mani Pulite. Stando agli atti risulta forzata ma non aperta anche la cassetta di sicurezza di Luciano Infelisi, il controverso ex pm che incriminò i vertici della Banca d’Italia, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, che nel 1979 si rifiutarono di salvare Michele Sindona, il banchiere della mafia e della P2, poi condannato per l’omicidio dell’"eroe borghese" Giorgio Ambrosoli: uno scandalo giudiziario ricostruito nel processo Andreotti. Il giudice della stessa istruttoria era Antonio Alibrandi: il padre del terrorista nero Alessandro Alibrandi, uno dei fondatori dei Nar (con Fioravanti e Carminati), ucciso nel 1981 in una sparatoria con la polizia. Tra le vittime del furto ci sono poi diversi avvocati della banda della Magliana (ormai divisa) e altri legali collegati alla P2, come Gian Antonio Minghelli, registrato nella loggia segreta di Gelli insieme al padre, un generale della Pubblica sicurezza. Oltre a derubare giudici e avvocati integerrimi, la banda di Carminati ha svuotato le cassette di magistrati già allora inquisiti. Come Orazio Savia, pm di alcune tra le più contestate indagini romane, come il caso Enimont o il misterioso suicidio nel 1993 del dirigente ministeriale Sergio Castellari. Savia nel 1997 è stato arrestato e condannato per corruzione. Svaligiati anche due forzieri di Claudio Vitalone, ex pm romano, poi senatore e ministro andreottiano, defunto nel 2008, e una terza cassetta intestata al fratello Wilfredo, avvocato, che ha presentato diverse denunce a Perugia. Al momento del furto, Carminati attendeva la sentenza di primo grado del processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, insieme ad Andreotti, lo stesso Claudio Vitalone e tre boss di Cosa nostra. Due mesi prima, i pm di Perugia avevano chiesto l’ergastolo. Il giornalista che conosceva i segreti della P2 era stato ucciso nel 1979 con speciali pallottole Gevelot, dello stesso lotto di quelle poi sequestrate nell’arsenale misto Nar-Magliana, allora gestito proprio da Carminati. Sembrava incastrato da tre pentiti della Magliana, in grado di riferire le rivelazioni di Enrico De Pedis, il boss sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, e Danilo Abbruciati, ammazzato a Milano mentre tentava di uccidere Roberto Rosone, il vicepresidente del Banco Ambrosiano. La sentenza su Pecorelli viene emessa a settembre, due mesi dopo il furto: tutti assolti. In appello addirittura la corte condanna Andreotti (poi assolto in Cassazione), ma non Carminati. Negli stessi mesi l’ex terrorista nero ha un’altra emergenza giudiziaria: è imputato di aver fornito a due ufficiali piduisti del Sismi (già condannati con Licio Gelli) il mitra e l’esplosivo che i servizi segreti fecero ritrovare su un treno, per depistare l’inchiesta sulla strage di Bologna, fabbricando una falsa «pista internazionale». Per questa vicenda nel giugno 2000 Carminati viene condannato a nove anni di reclusione. Ma nel dicembre 2001 i giudici d’appello di Bologna lo assolvono con una motivazione a sorpresa: è vero che ha prelevato dal famoso arsenale un mitra Mab modificato, ma non è certo fosse proprio identico a quello usato per il depistaggio, per cui il reato va considerato prescritto. Tutte le sentenze meritano rispetto perché il codice impone che vengono confermate o smentite dalla Cassazione. Ma in questo caso non succede. La procura generale di Bologna non ricorre contro l’assoluzione di Carminati. L’avvocatura generale, che all’epoca rappresenta il governo Berlusconi, non si presenta in udienza. Contro Carminati rimane solo il ricorso dei familiari delle vittime, ma la Cassazione lo dichiara «inammissibile»: i parenti possono piangere i morti, ma «non hanno un interesse giuridico» a contestare i depistaggi, anche se organizzati per garantire l’impunità agli stragisti. Per il furto al caveau, Carminati viene arrestato il 29 dicembre 1999, grazie alle confessioni di tre carabinieri corrotti, e torna libero il 18 gennaio 2001, con il suo bottino ancora intatto. Da quel momento c’è uno spartiacque nei suoi processi. Nel marzo 2001, prima dell’assoluzione di Bologna, la Cassazione annulla le condanne per mafia inflitte in primo e secondo grado alla Banda della Magliana. Carminati si vede dimezzare la pena, interamente scontata con la detenzione per le altre accuse ormai cadute. A Roma la mafia, almeno per la Cassazione, non c’è più. Anzi non c’è mai stata. A Perugia, nel 2005, a conclusione di un dibattimento che riserva udienza dopo udienza molte sorprese a favore dell’imputato, il boss nero viene condannato a quattro anni per il furto al caveau e la corruzione dei carabinieri. Le sentenze denunciano reticenze dei testimoni, rifiuti di deporre, depistaggi, falsi alibi accreditati perfino da un notaio e dal capo della gendarmeria di San Marino. Salta fuori che i carabinieri avevano interrogato il noleggiatore del furgone un mese prima della polizia, senza essere titolari dell’indagine e senza dire niente alla procura. Tre alti ufficiali dell’Arma vengono indagati per omessa denuncia: il tribunale di Perugia osserva «con stupore» che si sono rifiutati di testimoniare «benchè già archiviati». In aula l’unico scassinatore che aveva confessato, Vincenzo Facchini, interrogato dal pm Mario Palazzi, si rifiuta perfino di pronunciare il nome di Carminati: «Io questo signore non lo conosco, non lo voglio conoscere», risponde terrorizzato. E poi aggiunge: «Con questa domanda lei mi mette la testa sotto la ghigliottina!». La condanna per il colpo al caveau diventa definitiva il 21 aprile 2010. Ma Carminati evita il carcere grazie all’indulto Prodi-Berlusconi, che gli cancella tre anni di pena. Quindi ottiene l’affidamento nella cooperativa sociale di Salvatore Buzzi. E, secondo l’accusa, fonda Mafia Capitale.

Lista Carminati, l'elenco delle vittime del furto. Avvocati, magistrati, dipendenti del tribunale, carabinieri e ctu. Per la prima volta l'Espresso è in grado di rivelare di chi erano le cassette di sicurezza violate dal Cecato nel colpo al palazzo di Giustizia del 1999, scrive L'Espresso" il 24 ottobre 2016.

NOME – PROFESSIONE - NUMERO CASSETTA

Aldo Ambrosi Avvocato 188

Virginio Anedda Magistrato 274

Maria Luisa Arzilli Cancelliere 379

Giuseppe Altobelli Dipendente Tribunale 691

Mirella Antona Dipendente Tribunale 714

Silvio Bicchierai Commercialista 90

Giuseppina Bragagnolo Commercialista 115

Giulia Brizzi Dipendente Tribunale 125

Luigi Bartolini Cancelliere 191

Marisa Bondanese Dipendente Tribunale 985

Gualtiero Cremisini Avvocato 393

Francesco Caracciolo di Sarno Avvocato 421

Guido Calvi Avvocato 445

Giuseppe Castaldo Dipendente Tribunale 718

Enzo Carilupi Avvocato 721

Michele Caruso Avvocato 113

Silvia Castagnoli Magistrato 123

Claudia Cannarella Dipendente Tribunale 133

Giuseppe Crimi Avvocato 137

Annamaria Carpitella Avvocato 145

Maurizio Calò Avvocato 174

Cesare Romano Carello Avvocato 177

Leonardo Calzona Avvocato 233

Dario Canovi Avvocato 240

Giovanni Casciaro Magistrato 261

Antonio Cassano Magistrato 282

Carla Cochetti Dipendente Tribunale 382

Francesco De Petris Avvocato 30

Anna Maria Donato Avvocato 127

Giovanni De Rosis Morgia Avvocato 189

Lucio De Priamo Avvocato 192

Francesco d'Ajala Valva Avvocato 237

Assunta Bruno De Santis Dipendente Tribunale 385

Generoso Del Gaudio Dipendente Tribunale 693

Serapio De Roma Avvocato 713

Alessandro Fazioli Avvocato 52 e 212

Maria Frosi Avvocato 120

Torquato Falbaci Magistrato 209

Giuliano Fleres Avvocato 255 e 257

Efisio Ficus Diaz Avvocato 285

Giorgio Fini Avvocato 692

Maria Grappini Avvocato 15

Ivo Greco Magistrato 235

Giuseppe Cellerino Magistrato 126

Adalberto Gueli Magistrato 141

Aurelio Galasso Magistrato 213

Giuseppe Gianzi Avvocato 259

Francesco Giordano Avvocato 391

Vito Giustianiani Magistrato 403

Angelo Gargani Dipendente Tribunale 543

Fabrizio Hinna Danesi Magistrato 715

Michele Imparato Cancelliere 248

Maria Elisabetta Lelli Ctu 114

Stefano Latella Carabiniere 121

Giorgio Lattanzi Magistrato 215

Antonio Liistro Magistrato 258

Mauro Lambertucci Avvocato 324

Michelino Luise Avvocato 741

Antonio Loreto Avvocato 65

Vanda Maiuri Dipendente Tribunale 35

Simonetta Massaroni Avvocato 183

Nicola Mandara Avvocato 277

Antonio Minghelli Avvocato 280

Caterina Mele Avvocato 297

Luigi Mancini Avvocato 333

Giancarlo Millo Magistrato 378

Alberto Oliva Avvocato 446

Bruno Porcu Avvocato 12

Liliana Pozzessere Dipendente Tribunale 202

Francesco Palermo Avvocato 343

Enrico Parenti Magistrato 368

Valeria Rega Cancelliere 74

Bruno Riitano Avvocato 110

Agostino Rosso Di Vita Avvocato 178

Filomena Risoli Dipendente Tribunale 394

Domenico Ruggiero Avvocato 451

Gisella Rigano Dipendente Tribunale 738

Francesco Rizzacasa Avvocato 743

Antonietta Sodano Avvocato 149

Domenico Sica Magistrato 720

Vincenzo Taormina Avvocato 94

Cesare Testa Avvocato 181

Wilfredo Vitalone Avvocato 81

Claudio Vitalone Magistrato 304 e 306

Bruno Villani Avvocato 164

Fortunato Vitale Avvocato 50

Giuseppe Volpari Magistrato 281

Paolo Volpato Avvocato 380

Umberto Zaffino Avvocato 199

Edmondo Zappacosta Avvocato 236 e 322

Maurizio Zuccheretti Avvocato 252 

Per ricattare magistrati e avvocati in cambio di alleggerimenti di sentenze o sconti di pena. Furto al caveau del tribunale. A caccia di soldi e documenti. E i pm perugini adesso accusano: "I carabinieri non hanno collaborato", scrive il 10 luglio 2000 “La Repubblica. Perquisizioni e arresti per il furto nel caveau della filiale della Banca di Roma, all'interno del tribunale della capitale. In una notte, quella tra il 16 e il 17 luglio scorso, vennero saccheggiate 147 cassette di sicurezza di "proprietà" di dipendenti del palazzo. Un furto che apparve come uno schiaffo: a una banca e nel cuore del tribunale. Ma anche un colpo non semplice da mettere a segno, riuscito grazie a una infinita serie di complicità dentro e fuori il Palazzo di giustizia. E con più di un obiettivo: ricavare soldi ed entrare in possesso di documenti compromettenti per poi ricattare magistrati e avvocati. Una trama sulla quale per un anno hanno indagato la Procura della repubblica di Perugia e la Squadra mobile della capitale, che stamattina hanno dato il via a una serie di arresti e perquisizioni. Un'indagine che ha messo in luce l'esistenza di una banda a più teste: carabinieri, ex della banda della Magliana, esponenti dell'estrema destra, dipendenti dell'istituto di credito e del tribunale. E il furto nel caveau assume contorni diversi: ladri alla ricerca di soldi e gioielli ma anche di documenti compromettenti da usare come armi di ricatto verso i clienti dell'istituto, per lo più magistrati e avvocati. Un'indagine, si apprende adesso, che sarebbe andata avanti più velocemente se l'esito degli accertamenti compiuti dai carabinieri della capitale fosse stato comunicato per tempo. Questa almeno è l'accusa dei pm perugini che esprimono anche diverse "perplessità" per alcuni atti svolti dei militari. Nella loro ordinanza si parla infatti di "mancati approfondimenti investigativi" sulle notizie acquisite dai militari e la "mancata comunicazione" delle stesse alla procura del capoluogo umbro. Nonostante la mancata cooperazione, tuttavia, sotto accusa è finito Marco Vitale, 51 anni, reduce della banda della Magliana, già in carcere. Complice del furto anche un dipendente della Banca di Roma, Orlando Sembroni, 49 anni. Nella banda anche Lucio Smeraldi, 61 anni, gestore dell'edicola interna del tribunale. Gli arresti riguardano poi altri "cassettari", ricettatori, complici e basisti. Confermato, anzi aggravato, il ruolo di quattro carabinieri in servizio a Piazzale Clodio (Mercurio Digesu, di 41, Feliciano Tartaglia, di 37, Adriano Martiradonna, di 48, Flavio Amore di 30 anni, mentre un quinto militare, Roberto Cozzolino è accusato solo di concorso in furto aggravato). Il tramite con l'Arma dei carabinieri era il capo dei "cassettisti" storici romani, Stefano Virgili, 49 anni, apparentemente uscito dal giro e boss dei parcheggiatori dell'Eur con la società Mutua Nova. Nei guai un esponente dell'estrema destra Massimo Carminati, 42 anni, anch'egli interessato al contenuto delle cassette di sicurezza. Tra gli arrestati un dipendente della Corte d'appello di Roma, Reginaldo Velocchia, 64 anni. Insieme a un avvocato penalista romano Antonio Iuvara (sottoposto alla misura dell'obbligo di dimora) avrebbe fatto pressione su un presidente della Corte d'appello di Roma Tommaso Figliuzzi con un preciso motivo: alleggerire in secondo grado la condanna di Vitale nel processo per la banda della Magliana. Ottenendone magari la scarcerazione, perché proprio il Vitale avrebbe partecipato dal carcere all'operazione "cassette di sicurezza". La banda dei "cassettieri" (trenta persone coinvolte, venti arrestate e dieci indagate), cercava così di arrivare al controllo del palazzo di giustizia e stavano organizzando un nuovo colpo, secondo quanto dichiarato dagli inquirenti. Questa volta l'obiettivo era l'ufficio corpi di reato della Procura della repubblica di piazzale Clodio, dove sono custoditi i reperti sequestrati nell'ambito delle indagini giudiziarie: armi e droga. Materiale che sarebbe servito sia per ricavare denaro (dalla vendita di droga), sia per compiere azioni criminali. 

Mafia Capitale, Carminati e i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive l'11 dicembre 2014 Sabino Labia su "Panorama". In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo, vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’ sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile il ruolo di Carminati a Roma. E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20 gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e, alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174 cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati; rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi, cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco, ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato, e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.

Mafia Capitale, Massimo Carminati svaligiò la superbanca per ricattare i giudici, scrive l'08/06/2015 "Giornalettismo". Una delle rapine più misteriose della capitale d'Italia venne commessa proprio dal "Cecato": Salvatore Buzzi sa tutto, o quasi. Quali i mandanti? Quali le coperture politiche? Mafia Capitale, così Massimo Carminati svaligiò il caveau della Banca di Roma a Piazzale Clodio, una delle filiali più inespugnabili della Capitale d’Italia e meno frequentate dai “cassettari” dell’Urbe proprio per l’alto rischio necessario a “trattarla”. Ma Carminati, nel lontano 1999, riuscì a svuotare le cassette di sicurezza: per rapinare valori, oro, gioielli? No, o meglio, anche: ma principalmente documenti. Documenti importanti che potevano essere utili per ricattare proprio i giudici del Palazzaccio. Questo fu l’unico crimine per cui Massimo Carminati, detto il “cecato”, fu effettivamente condannato. La storia del colpo la racconta Salvatore Buzzi, sodale di Massimo Carminati nell’organizzazione criminale che le inchieste del Mondo di Mezzo stanno portando alla luce, nelle intercettazioni riportate dal Messaggero. Vennero svaligiate 147 cassette di sicurezza su 900. A distanza di anni, dopo indagini, arresti e tre gradi di giudizio, sono gli atti dell’inchiesta Mafia capitale a confermare quella che è sempre sembrata l’unica vera ragione del colpo: acquisire documenti per ricattare giudici e avvocati. È proprio Salvatore Buzzi, che del Nero conosce fama e misteri, a tirare in ballo la vecchia storia, mentre con l’ex brigatista Emanuela Bugitti discute su quale sia il modo più rapido per recuperare atti riferibili alla locazione di un complesso immobiliare, di nuova costruzione, a Nerola. La chiave di tutto è ancora una volta Carminati, a lui nessuno è in grado di dire di no. Ricorda Buzzi: «Lui fa na…na rapina alle cassette di sicurezza della…(furto al caveau della Banca di Roma, ndr)…trovano de tutto e de più». Aggiunge Bugitti: «Sono i giudici che mettono le cose». Allora Buzzi spiega: «Eh, qualcuno è ricattabile. Secondo te perché non è mai stato condannato. A parte questo reato, tutto il resto sempre assolto…». Sempre assolto, Carminati, tranne che nel 1999: quattro anni di galera, più volte indultati. Dal colpo la banda di Carminati porta via ingenti quantità d’oro che prova a piazzare, raccontano testimoni e pentiti interrogati dai magistrati. [Parla] Giuseppe Cillari, le cui vicende giudiziarie sono legate all’omicidio Casillo e alle attività della Banda della Magliana. «Una sera – riferì ai pm – vennero da me Pasquale Martorello, Piero Tomassi e Stefano Virgili che volevano disfarsi dell’oro. È avvenuto dopo l’arresto dei carabinieri». All’incontro erano presenti l’ex cassettaro e neo-imprenditore Virgili, che di lì a poco verrà colpito da mandato di cattura, e altri complici del colpo. Ricorda ancora Cillari: «Mi hanno parlato di 5 quintali d’oro da piazzare e io ho detto che quell’oro valeva il prezzo di mercato meno il dieci per cento. Complessivamente 50 miliardi. Mi è stato detto che c’erano anche altri 5 miliardi di certificati, più un miliardo e 200 milioni in contanti. L’oro è stato sepolto prima nei pressi di Viterbo, poi a Montalto di Castro. Martorello sa dov’è». Ma a nessuno interessa l’oro di Carminati, men che meno al “Nero” della banda della Magliana. La rapina nel caveau della Banca di Roma di Piazzale Clodio ha tutt’altra ragione. Una storia oscura, fatta di mandanti nella Roma bene e di intrecci con i servizi segreti, secondo le testimonianze. Il vero scopo – rivela il ricettatore – non erano i soldi, ma i documenti che valgono molto più dei gioielli. So che hanno documenti importanti. Il motivo per cui è stato fatto il furto è stato quello di prendere dei documenti che potessero servire a ricattare i magistrati e so che i documenti sono stati trovati. Mi è stato riferito che il furto sarebbe stato commissionato a Virgili da alcuni avvocati, due romani. So che l’interesse era rivolto a documenti di magistrati, in modo da poterli ricattare per la gestione dei processi importanti che hanno su Roma. Uno di questi si trova a Montecarlo con Tomassi e tale Giorgio Giorgi, dei servizi segreti. Ed è proprio riguardo i presunti mandanti di Carminati che il terreno per i testimoni, o comunque per chi sceglie di parlare, si fa immediatamente scivoloso. Su Carminati e presunti ispiratori “politici”, poi, nessuno ha voluto aggiungere nulla. Nemmeno Vincenzo Facchini, uno dei complici nel colpo che ha scelto di collaborare. Davanti a quel nome ha manifestato addirittura un atteggiamento ostruzionistico, e al pm Mario Palazzi che gli ha chiesto dei suoi rapporti con il Nero, ha risposto: «Dottore, questa domanda mi mette sotto la ghigliottina. Io questo signore non lo conosco e non lo voglio conoscere».

Un paese fondato sui dossier. Le liste di Sindona, Gelli, Calvi, le rivelazioni a sfondo sessuale. Così ricattare è stato, nella storia d’Italia, un modo di comandare, scrive Bruno Manfellotto su "L'Espresso" il 24 ottobre 2016. Non c’è cronista della mia generazione che non abbia sognato di mettere le mani sulla mitica lista dei 500 esportatori di capitali della Finabank di Michele Sindona, amorevolmente salvati e rimborsati dalla super andreottiana Banca di Roma un attimo prima che la bancarotta li travolgesse. Almeno toccarli, quei fogli, darci un’occhiata... Niente. Anche perché la lista è esistita, certo, ma non c’è più, solo pochi l’hanno letta, e comunque qualcuno l’ha fatta sparire. Di Ferdinando Ventriglia, dominus della Banca di Roma e della politica economica dalla metà degli anni Settanta, si raccontava addirittura che non l’avesse nemmeno voluta vedere, anzi che se la fosse letteralmente data a gambe quando gliene parlarono. Chissà. Comunque, che spettacolo vedere sulla scena il meglio di politici, imprenditori, alti prelati, barbe finte (molti riempiranno la P2 di Licio Gelli) impegnati a difendersi minacciando. Storia finita però in un nulla di fatto, senza colpevoli e senza verità, come tante altre sordide faccende di veline. E di generale omertà. Ma in fondo, quel che conta per chi alimenta le centrali della diffamazione, non è come va a finire, ma cosa succede nel frattempo, cioè dopo che la bomba è esplosa. E il dopo dura sempre molto. Una Repubblica fondata sul ricatto. Con radici antiche. Giolitti e Crispi, fine Ottocento, si fecero la guerra minacciando rivelazioni intorno al crac della Banca Romana; Fanfani e Piccioni, anni Cinquanta, si giocarono la successione a De Gasperi al vertice della Dc a colpi di memoriali sul caso di Wilma Montesi, trovata morta sul litorale di Torvajanica; i primi vagiti del centrosinistra, anni Sessanta, furono accompagnati dalle 157 mila schedature del Sifar del generale De Lorenzo, quello del “tintinnar di sciabole” di un colpo di Stato sventato. E del resto, molti anni prima, anche Mussolini aveva fatto largo uso degli archivi dell’Ovra, e li temeva perfino per se stesso e per la sua Claretta. Poi sfornare dossier è diventato abitudine, dall’artigianale agenzia “Op” di Mino Pecorelli agli otto computer di Pio Pompa, l’agente del Sismi ingaggiato contro i nemici del Cav. A ciascuno il suo dossier. Una lista pronta all’uso finiscono per farsela in casa pure Diego Anemone, cricca degli appalti pubblici, e perfino il Madoff dei Parioli. Non si sa mai. Gli argomenti cari ai fabbricanti di ricatti sono sempre le banche, cioè i soldi, e il sesso, eterno metronomo della politica. Al primo appartiene, appunto, la lista dei 500 resa nota perché chi doveva sapere sapesse quanti erano gli amici potenti alla corte di Sindona. Per arrivare al processo ci vorranno dieci anni, ma la lista non si troverà più e chi l’aveva nascosta non sarebbe stato perseguibile per intervenuta amnistia. Amen. Poi c’è il romanzo dello Ior, da Marcinkus a Gotti Tedeschi, passando per Calvi, Mennini e Pazienza, e pure la banda della Magliana di Renatino De Pedis, ogni volta con larga diffusione di carte e allusioni. E naturalmente ci sono le cassette di sicurezza del Palazzo di Giustizia di Roma opportunamente svuotate da Massimo Carminati, boss di Mafia Capitale, di cui racconta qui Lirio Abbate. Non può mancare Piero Fassino crocifisso (e poi assolto) per un’intercettazione - «Abbiamo una banca» - arrivata, ma guarda un po’, nelle mani di Berlusconi che, felice, esclama rivolto al suo pusher: «Come posso sdebitarmi per questo prezioso regalo?». Poi c’è il sesso, e funziona, anche se Roma non è Washington. E qui Berlusconi e il suo cerchio magico danno il meglio. La memoria corre ai dossier che costringono alle dimissioni il direttore di Avvenire Dino Boffo, reo di eccesso di critiche al Cav.; alla incredibile vicenda di Piero Marrazzo, vigilia delle primarie del Pd, sorpreso tra coca e trans da carabinieri-agenti provocatori che filmano un video offerto poi alla Mondadori per 200mila euro, che B. sfrutta da par suo: «Se fossi in te, Piero, cercherei di farlo sparire...»; all’odissea di Stefano Caldoro, candidato poco gradito alla guida della Regione Campania (il Pdl voleva il più potente Nicola Cosentino), al quale Denis Verdini, allora indimenticabile factotum berlusconiano, fa sapere che circolano brutte notizie sulle sue abitudini sessuali... Ma nel buco nero era finito anche Silvio Sircana, portavoce di Romano Prodi premier, paparazzato in una strada popolata di prostitute; per Gianfranco Fini, in rotta di collisione con il Capo, era bastato evocare antiche vicende “a luci rosse”; di Veronica Lario, moglie umiliata che osa ribellarsi, sono spuntate dal nulla foto a seno nudo e allusioni su un amante... La macchina del fango non si ferma mai. Oggi la cronaca ci regala il milione e 700 mila euro in un controsoffito dell’appartamento di Fabrizio Corona: arrestato per qualcosa che assomiglia all’evasione fiscale. Forse nell’Italia dei ricatti è l’unico finito in galera. In attesa del prossimo condono...

Di Lello: «C'era un teorema: la mafia non esiste. Noi lo smontammo». Intervista di Giulia Merlo del 19 ottobre 2016 su "Il Dubbio. «Nessuno si accorse che Buscetta aveva cominciato a parlare. Si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto i boss si resero conto che era sparito nel nulla». «Con quel processo smontammo la retorica de "La mafia non esiste"». A dirlo è Giuseppe Di Lello, uno dei quattro giudici istruttori del pool di Falcone e uno dei protagonisti del maxiprocesso di Palermo Sono passati trent'anni da quel 10 febbraio 1986, dal teorema Buscetta e dai 260 imputati condannati in primo grado. Un processo che ancora anima i dibattiti e che ha visto - sulle pagine di questo giornale - contrapposte le tesi dell'ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna e Tiziana Maiolo.

«La storia del maxiprocesso è anche la storia di una relazione nuova tra giustizia e informazione», ha scritto Cisterna. Da parte in causa, condivide?

«Condivido il fatto che il processo di Palermo è stato un punto di incontro tra stampa e giudici. Per la prima volta, infatti, c'è stata una vera e propria divulgazione mediatica degli eventi processuali. Niente a che vedere con il rapporto di oggi, però».

In che senso?

«Tanto per cominciare, non abbiamo mai fatto una sola conferenza stampa. Né, tantomeno, c'è mai stata una fuga di notizie dagli uffici di noi giudici istruttori. Pensi che il pentito Buscetta parlò in segreto con Falcone per tre mesi interi e nessuno, dico nessuno, ne era al corrente».

Nessuna soffiata alla stampa?

«Assolutamente no, si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto la mafia si rese conto che Buscetta era come sparito nel nulla, dopo l'arresto in Brasile. Non lo trovavano né in carcere né in ospedale e allora capirono».

Oggi sarebbe assolutamente impensabile...

«Oggi, se un pentito parla, come per magia lo sanno tutti il giorno dopo e leggono tutti i dettagli sulle pagine dei giornali».

Si è anche scritto che, in quel processo, si processò la Mafia con la M maiuscola, prima ancora che i singoli individui. Lei è d'accordo?

«All'epoca era necessario stabilire, per la prima volta nel nostro ordinamento, se l'associazione mafiosa esisteva in sé, al di sopra dei reati commessi dai singoli individui. Non dimentichiamo che alcuni, in quel periodo, continuavano a ripetere che la mafia non esisteva».

Eppure, Tiziana Maiolo ha sostenuto che sia stato un errore «pensare che il processo non sia solo il luogo dove confermare l'ipotesi accusatoria nei confronti del singolo imputato, ma l'arma con cui si combattono fenomeni sociali trasgressivi». Avete davvero processato la Mafia e non i mafiosi?

«Che assurdità. Per noi era assolutamente necessario stabilire il contesto in cui si svolgevano i fatti, non bastava vagliare solo i singoli reati. Dovevamo individuare preliminarmente se il fenomeno mafioso e il contesto in cui prendeva forma davano vita ad una associazione per delinquere. Certo, è ovvio che al banco degli imputati sedevano i singoli mafiosi, ma per ottenere il risultato dovevamo prima di tutto affermare o smentire il principio della mafia come associazione per delinquere».

Oggi la mafia come la avete conosciuta e combattuta voi è ancora presente in Sicilia?

«La mafia è fatta di tradizione, continuità e innovazione. Queste tre caratteristiche fanno sì che il fenomeno non sia più identico a quello che abbiamo conosciuto trent'anni fa».

Diversa ma non sconfitta?

«Oggi la mafia è sicuramente indebolita: tutti i boss - con eccezione di Matteo Messina Denaro - sono in carcere con la pena dell'ergastolo. Inoltre ormai è una costante il fatto che i beni proventi di mafia vengano sequestrati. Questo è un colpo durissimo, ma attenzione: Cosa Nostra non è ancora vinta».

Immagina, oggi, che si possa istruire un processo come quello di Palermo?

«Non credo sia pensabile, anzitutto perché è cambiato il rito da inquisitorio ad accusatorio. Inoltre i mafiosi da processare sono molti meno, si pensi soprattutto al fatto che da allora non si è più ricostituita una vera e propria "cupola" come quella di Riina, Provenzano, Greco e Pippo Calò».

E quindi dove e come germina oggi la mafia?

«La mafia continua ad essere molto pervasiva sul territorio ed ha grande connessione soprattutto con i singoli poteri locali. Sottolineo però anche il grande lavoro di repressione portato avanti dallo Stato e dalle forze dell'ordine che operano nelle aree più a rischio».

Oggi il concetto di "antimafia" viene utilizzato nei contesti più diversi e in alcuni casi si è rivelata un paravento per situazioni opache. Come considera l'utilizzo di questo termine?

«Certo, esiste il pericolo che l'antimafia venga brandita come arma contundente, ma io ritengo che vadano sempre fatti i dovuti distinguo».

Vi racconto quel maxi-processo di 30 anni fa, scrive Alberto Cisterna il 15 ottobre 2016 su "Il Dubbio". La lotta a Cosa Nostra: a Palermo andò in scena il capolavoro giudiziario di Falcone. Fu tutto il bene e tutto il male della magistratura. Trent'anni dall'inizio del maxiprocesso di Palermo. Alla sbarra quasi 500 imputati. I rappresentanti ed i gregari dei più importanti mandamenti della mafia siciliana. Un'impresa costata la vita a tanti servitori dello Stato, ed a Falcone e Borsellino tra i primi. Un'impresa osteggiata dentro e fuori la magistratura italiana. I nemici esterni ed interni del maxiprocesso furono tanti e questo resta ancora un capitolo oscuro di una storia che ha ormai i contorni di un'epopea. Portare alla sbarra, tutti insieme, centinaia di mafiosi, mentre si andavano spegnendo nel Paese i bagliori di sangue del terrorismo, era più che celebrare un processo. Era un progetto "politico", lungimirante ed ambizioso, per ribaltare le sorti della Sicilia e spezzare il giogo delle cosche nel Sud che, Falcone riteneva, avrebbero finito per minacciare la democrazia e le sue regole. Negare la natura "politica", ossia etica, della scelta di Falcone e i suoi di sconfiggere per sempre la mafia raccogliendo in un unico processo le dozzine di indagini, prima spezzettate in un nugolo di micro inchieste, equivarrebbe (forse) a negare il nucleo morale più denso del segnale che si voleva dare con quella intuizione così dirompente e innovativa. Sia chiaro nella storia del Paese non erano mancati processi a carico di decine e decine di imputati, anche in Sicilia e soprattutto negli anni '60. Non era in discussione, solo, un dato numerico. Per la prima volta si voleva processare la Mafia e, con essa, coloro che ne facevano parte. Un'operazione che definire solo giudiziaria, ripeto, sarebbe poca cosa. E poiché si doveva far comprendere alla mafia ed alla Nazione la portata di quella rivoluzione, i protagonisti di quella stagione adoperarono, per la prima volta, la comunicazione mediatica come strumento sistematico per rafforzare il consenso sulle proprie tesi, per far comprendere i risultati delle proprie acquisizioni e per condividere le scoperte costate il sangue di tanti. Ecco la storia del maxiprocesso è, anche, la storia di una relazione nuova, sofisticata verrebbe da dire, tra giustizia ed informazione. I vecchi cronisti di "giudiziaria" vennero poco a poco soppiantati nelle redazioni da un ceto di intellettuali, spesso raffinati, che si votarono a scrivere in modo nuovo della mafia ed elaborarono linguaggi efficaci e mai sperimentati prima. La spiccata prudenza, l'agiografia poliziesca, cedettero il passo ad analisi più profonde e radicali. Le leggi dell'economia, della politica, della sociologia, della cultura vennero indirizzate per sostenere e confermare le tesi di Falcone e del pool. L'esistenza della "Cupola", della piramide mafiosa, il cosiddetto teorema Buscetta costituirono, probabilmente, il primo caso in cui verità sociologiche e comportamentali uscirono dal recinto tecnico e grigio dei processi per spandersi nella società civile come categorie di interpretazione della realtà. Leonardo Sciascia stesso, il più fine ed integro intellettuale del tempo, restò spiazzato da un'operazione che non era solo, e non era più, una buona strategia processuale, ma soprattutto il mezzo per rendere egemone nella società italiana (e non solo) l'interpretazione della mafia e dei suoi meccanismi di potere e sangue. Ci sarà la polemica strumentale, alimentata da alcuni superficiali, dei "professionisti dell'antimafia", e poi cancellata da Giovanni Falcone con la prefazione del suo libro "Cose di cosa nostra" dedicato proprio a Sciascia. Dopo tre decenni non deve essere considerato un caso che le prime due cariche della Repubblica, il presidente Mattarella e il presidente Grasso, abbiano indissolubilmente legato le proprie esistenze a quella stagione. E' forse la vittoria più grande di quella strategia geniale del pool palermitano. Il consenso sociale che si è coagulato su queste vite spese dalla parte dello Stato è la dimostrazione più evidente che non si trattato solo di un maxiprocesso, ma di una fine intuizione "politica", ossia della consapevole realizzazione di un contesto entro cui costruire e sorreggere la convinzione che la mafia sarebbe stata sconfitta anche fuori dalle aule di giustizia. A dispetto di un fatalismo prossimo alla complicità. Di questa enorme eredità restano, come detto, segnali contraddittori. Lo strumento del maxiprocesso è stato man mano piegato ad esigenze particolari, se non personali, per dare lustro a qualche attività di polizia. Per carità cose importanti, ma che nulla hanno a che fare con quella stagione e con quella visione "alta" della società e della magistratura. Lo stesso giornalismo, nel progressivo esaurirsi della parabola straordinaria di un ceto colto e lungimirante, appare, troppe volte, la mera cassa di risonanza di indagini e di atti giudiziari destinati, abbastanza velocemente, ad essere dimenticati. Dopo 30 anni quella lezione "politica" ed etica ha ceduto il passo alla furbizia dei carrierismi e dei protagonismi individuali, mandando in fumo il senso profondo di quell'aula gremita di centinaia di mafiosi sperduti e vocianti. Come in un quadro di Salvador Dalì il tempo di quel processo appare consunto, misurato da orologi non più capaci di stare in piedi, ma solo adagiati, svuotati di senso, su rami spogli ed erosi. Visto dalla prospettiva di questa decadenza utilitaristica lo strumento del maxiprocesso appare desueto, se non addirittura denso di minacce. La bulimia del processo monstre fagocita fatti e persone, adoperando talvolta legami deboli, pregiudizi, feticci ideologici o sociologici (si pensi solo all'appeal mediatico della cosiddetta zona grigia, rimasta priva di apprezzabili conferme processuali). Esattamente l'opposto dell'ambizioso progetto del pool palermitano che puntava al nucleo centrale della mafia evitando di selezionare comportamenti, abitudini, relazioni che erano proprie dell'antropologia siciliana e meridionale in generale. Falcone ed i suoi non immaginavano alcuna contaminazione o contagio dei mafiosi verso un'immaginifica società civile, pura e innocente, preda degli appetiti dei picciotti, ma mostrarono piuttosto di avere sempre ben chiaro il punto di separazione tra la callida collusione e la succube connivenza delle collettività siciliane con la mafia. Ebbero l'ambizione di processare le cosche e non la società palermitana o un indistinto sistema di potere. Per questo, a distanza di 30 anni, appare ancora più opaca la posizione di chi scelse di fermarli o di schierarsi contro. Il maxiprocesso rappresentò una straordinaria manifestazione di forza e di efficienza di una parte della magistratura e delle forze di polizia e questo dovette allarmare non solo la mafia.

Chiedo scusa se parlo male di Falcone e del maxiprocesso..., scrive Tiziana Maiolo il 18 ottobre 2016 su "Il Dubbio". Volle passare alla storia come colui che, da magistrato, sarebbe arrivato là dove la Politica non aveva potuto o voluto arrivare: alla sconfitta della Mafia. Il Maxiprocesso di Palermo fu il Maxierrore di Giovanni Falcone. Lo fu sul piano giudiziario, politico e mediatico. Ma ancor di più da un punto di vista "psicologico", perché Falcone volle trasformare quelle indagini e quel processo in terra di Sicilia in qualcosa di eroico, in gesto epico. E volle passare alla storia come colui che, da magistrato, sarebbe arrivato là dove la Politica non aveva potuto o voluto arrivare, alla sconfitta della Mafia. E qui sta l'errore di politica giudiziaria che disvela una cultura poco laica della giustizia: il pensare cioè, che il processo non sia semplicemente il luogo dove si confermi o si bocci l'ipotesi accusatoria nei confronti di ogni singolo imputato, ma invece l'arma con cui si combattono i fenomeni sociali trasgressivi e illegali come il terrorismo o la criminalità organizzata. Una cultura, in un certo senso quasi religiosa, sicuramente da Stato etico, che mi pare appartenga anche al magistrato Alberto Cisterna, che ha scritto su questo giornale un autorevole commento nel quale, valorizzando la politicità del maxiprocesso, così esulta: «per la prima volta si voleva processare la Mafia», con la emme maiuscola. Quasi si trattasse di una signora imputata che di cognome faceva Mafia, per l'appunto. Va ricordato, solo a parziale comprensione dell'iniziativa (e della cultura di cui fu vittima) di Giovanni Falcone, che erano gli anni in cui la discussione sulle norme che regolavano il processo penale e il codice Rocco del ventennio non aveva ancora portato alla riforma, che entrò in vigore il 24 ottobre 1989, a cavallo tra la sentenza di primo e quella di secondo grado del maxiprocesso. Quando si passò da un sistema inquisitorio (quello anche della "caccia alle streghe", non dimentichiamolo mai) a uno almeno "tendenzialmente" accusatorio, la cultura di molti magistrati non era ancora pronta allo strappo. Falcone lo sarebbe invece stato, se non lo avesse accecato quel sogno eroico di dare, attraverso un processo, una svolta di legalità e di pacificazione alla sua Sicilia. Purtroppo la storia andò diversamente. Ma va anche ricordato come andarono le cose dal punto di vista giudiziario e come entrarono in scena anche la politica e addirittura un governo. Il fascicolo degli indagati da Falcone si chiamava "Abbate Giovanni più 706", ottomila pagine. Più di settecento persone che avrebbero costituito, secondo il collaboratore di giustizia Buscetta (bravo a denunciare i nemici, ma mai gli amici mafiosi) una cosca con organizzazione verticistica. Da questo gruppo mafioso 231 persone uscirono subito indenni, neppure rinviate a giudizio e altre 114 assolte dalla sentenza di primo grado (che comunque aveva accolto la tesi di Buscetta) del 16 dicembre 1987. I condannati nel processo di primo grado rimangono 260. Siamo già oltre il dimezzamento della cosca così come descritta da Buscetta e avallata dal dottor Falcone. È questo anche il momento della polemica con Leonardo Sciascia che dalle colonne del Corriere della sera lancia l'allarme: "Nulla vale di più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso". Ma Falcone e il "pool antimafia" (un magistrato non dovrebbe mai essere "anti" o "pro" qualcosa o qualcuno) hanno ormai troppo potere per poter essere scalfiti. Infatti, come ricorda ancora Alberto Cisterna, "i protagonisti di quella stagione adoperarono, per la prima volta, la comunicazione mediatica come strumento sistematico per rafforzare il consenso sulle proprie tesi?". E così il cerchio si chiude, manca solo la benedizione del Papa. Nonostante il successo mediatico, nelle aule di giustizia le cose andarono in seguito diversamente, e la Corte d'appello fece a pezzetti il "teorema Buscetta", negando il fatto che la struttura verticistica influenzasse ogni singolo atto criminoso, esaminando ogni caso individualmente e ridando una sorta di laicità al processo. Vennero così cancellati 7 ergastoli su 19 e altri 86 imputati vennero assolti. E così siamo a due terzi di innocenti sui famosi 707 dell'esordio. La storia sarebbe finita in questo modo, molto ordinario e poco eroico di un processo di criminalità organizzata, se non fosse entrata in scena la politica. Un magistrato abile e intelligente come Falcone sapeva bene che un processo costruito a quel modo, puntato solo sulla parola dei "pentiti" e con tutte quelle assoluzioni, pur con grande consenso mediatico, avrebbe potuto diventare il suo fallimento, il suo "maxierrore" qualora non avesse superato lo scoglio della Cassazione. E la prima sezione presieduta da un giudice preparato e pignolo come Corrado Carnevale era proprio quella cui venivano assegnati i processi sulla criminalità organizzata. Magistrati attenti e scrupolosi, rigorosi sulle procedure, avrebbero potuto mettere in discussione qualche superficialità, qualche approssimazione nella verifica dei riscontri alle parole dei "pentiti". Lo stesso ruolo di Buscetta avrebbe potuto uscire ridimensionato da una sentenza rigorosa. La Cassazione era sotto gli occhi di tutti, in quei giorni, e Falcone non poteva perdere quella battaglia. Fece di tutto per vincere. Aveva lasciato da un anno il palazzo di giustizia di Palermo, dopo aver subito uno schiaffo che ancora gli bruciava perché il Csm aveva privilegiato l'anzianità del collega Meli alla presidenza dell'ufficio istruzione, ed era al ministero di Giustizia quale direttore generale degli affari penali. La situazione politica era più che traballante (le camere furono sciolte il successivo 2 febbraio) e una vittoria, almeno giudiziaria, sulla mafia deve esser parsa a un governo debolissimo una piccola rivincita sulle proprie incapacità. Così il ministro di Giustizia Martelli, probabilmente su suggerimento di Falcone, ma anche sollecitato dal presidente della commissione bicamerale antimafia Luciano Violante, mise nel mirino il giudice Carnevale. Ai monitoraggi sull'attività della prima sezione di Cassazione, da cui l'alto magistrato uscì trionfante (il quotidiano La Repubblica titolò "Carnevale ha ragione"), si accompagnò la fanfara mediatica sull'"ammazzasentenze" per sottrarre il maxiprocesso alla prima sezione della Cassazione. O almeno al suo presidente. E così fu. Carnevale fece domanda per il ruolo di presidente di Corte d'appello a Roma. E il 30 gennaio, senza neppure una camera di consiglio, una sentenza frettolosa e impaurita incoronò il "teorema Buscetta" come verità politica e giudiziaria. Che importa se da quel momento la mafia, ancor più feroce, insanguinò la Sicilia e l'Italia con le sue stragi? E che importa se quella decisione, e tutte le leggi speciali che ne seguirono (ancor oggi paghiamo con l'ergastolo ostativo le conseguenze dello sciagurato decreto Scotti- Martelli) uccisero lo Stato di diritto? Importa, certo che importa. Ma forse non a tutti.

Martelli: «Falcone? Era solo, i magistrati lo avevano isolato», scrive Paola Sacchi il 23 maggio 2016 su "Il Dubbio". «Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli. Venne a lavorare con me quando in Sicilia era delegittimato». Claudio Martelli, già vicepresidente del Consiglio dei ministri e titolare del dicastero di Grazia e Giustizia, racconta a Il Dubbio chi era Giovanni Falcone e perché nel 1991 lo prese a lavorare con sé in Via Arenula. L’ex delfino di Bettino Craxi, l’autore della relazione “Meriti e bisogni”, racconta chi era “il giudice più famoso del mondo, che non usava gli avvisi di garanzia come una pugnalata”.

Onorevole Martelli, quando Falcone arrivò da lei si scatenarono molte polemiche. Perché?

«Le polemiche arrivarono dopo, quando soprattutto emerse il disegno di creare oltre alle Procure distrettuali anche una Procura nazionale Antimafia, che poi venne battezzata la Super-procura. Lì si infiammarono gli animi e in alcuni casi si intossicarono».

Gli animi di chi?

«Di chi dirigeva l’Associazione nazionale magistrati. Era Raffaele Bertoni che arrivò a dire letteralmente: di una Procura nazionale Antimafia, di un’altra cupola mafiosa non c’è alcun bisogno…»

Addirittura?

«Sì. E ci furono esponenti del Csm, in particolare il consigliere Caccia, il quale disse che Falcone non dava più garanzie di indipendenza di magistrato da quando lavorava per il ministero della Giustizia. Io dissi che questa era un’infamia. Lui mi querelò, ma alla fine vinsi. Venne indetto anche uno sciopero generale della Anm contro l’istituzione della Procura nazionale Antimafia. Uno sciopero generale, dico!»

Oggi suona come roba dell’altro mondo…

«Sì, ma questo era il clima. La tesi di fondo era che Martelli intendeva ottenere la subordinazione dei Pm al ministro della Giustizia. Questa era la più grande delle accuse. Poi c’erano quelle a Giovanni e al suo lavoro».

Il Pci e poi Pds non fu neppure tanto tenero. O no?

«Erano in prima linea i comunisti. E gli esponenti della magistratura che ho citato erano tutti di area comunista. L’Unità faceva grancassa, dopo aver osannato Falcone in passato, aveva cambiato atteggiamento già prima che Falcone venisse al ministero».

Quando?

«Quando si rompe il fronte anti-mafia e alcuni di quegli esponenti a cominciare dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, incominciano ad attaccare Giovanni».

Che successe?

«La polemica tra Orlando e Falcone sorge quando Giovanni indagando sulla base di un rapporto dei Carabinieri in merito a un appalto di Palermo osserva che con Orlando sindaco, Vito Ciancimino era tornato a imperare sugli appalti di Palermo. A quel punto il sindaco perde la testa e come era nel suo stile temerario e sino ai limiti dell’oltraggio accusa Falcone di tenere nascosti nei cassetti i nomi dei mandanti politici degli assassini eccellenti di Palermo. Cioè quelli di Carlo Alberto Dalla Chiesa di Piersanti Mattarella».

Eravamo arrivati a questo punto?

«Sì, non contento Orlando fa un esposto firmato da lui, dall’avvocato Galasso e da altri, al Csm sostenendo che Falcone aveva spento le indagini sui più importanti delitti di mafia. Il Csm convoca Falcone nell’autunno del ’91 e lo sottopone a un interrogatorio umiliante, contestandogli di non aver mandato avvisi di garanzia a tizio, caio o sempronio. Giovanni pronuncia frasi che secondo me dovrebbero restare scolpite nella memoria di tutti i magistrati italiani».

Le più significative?

«Disse Giovanni: non si usano gli avvisi di garanzia per pugnalare alla schiena qualcuno. Si riferiva in particolare al caso del costruttore siciliano Costanzo. Falcone sostenne che si mandano quando si hanno elementi sufficienti. Ancora: non si rinviano a giudizio le persone se non si ha la ragionevole convinzione e probabilità di ottenere una sentenza di condanna. Le procedure penali per Giovanni non erano un taxi e quindi non vanno a taxametro».

Ritiene che l’insegnamento di Falcone sia stato poi seguito, in passato e nei nostri giorni?

«Sì, ci sono per fortuna magistrati che hanno seguito il suo metodo molto scrupoloso nelle indagini. E quando otteneva la collaborazione dei pentiti era molto attento a verificare le loro dichiarazioni».

Faccia un esempio.

«In un caso palermitano, un pentito, tal Pellegriti, dichiarò che il mandante degli assassini di Piersanti Mattarella era l’on. Salvo Lima. Falcone gli chiese da chi, come e quando l’avesse saputo. Fa i riscontri e scopre che in quella data Pellegriti era in galera. Dopodiché lo denuncia per calunnia. Ma siccome questo pentito era già diventato un eroe dei tromboni dell’anti-mafia, quelli delle tavole rotonde…»

Intende dire gli stessi che celebrano Falcone?

«Sì, dopo ci arriviamo…allora, stavo dicendo che questi si inviperirono contro Falcone perché aveva rovinato loro il giocattolo. E quindi dopo questo episodio e quanto ho raccontato prima, lo denunciano al Csm che “processa” Falcone. Il quale a un certo punto perde la pazienza e dice: se mi delegittimate, io ho le spalle larghe, ma cosa devono pensare tutti i giovani procuratori, ufficiali di polizia giudiziaria? Falcone in quel momento era il giudice più famoso al mondo».

Ci ricordi perché.

«Era quello che aveva fatto condannare in primo grado e in appello la cupola mafiosa dei Riina, Greco e Provenzano. Grazie a lui gli americani avevano condotto l’operazione Pizza connection…. Era così autorevole e famoso che una volta in Canada un giudice di tribunale volle che si sedesse in aula posto suo. Ma poi arrivò la stagione del corvo di Palermo: le lettere anonime nelle quali si infangavano Falcone e De Gennaro».

Un clima ostile, quasi da brivido con il senno di poi…

«Ora se a questo si aggiunge che Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli, e che poi si candidò al Csm e venne bocciato, e infine a procuratore capo di Palermo gli preferirono Pietro Giammanco, si può ben capire il clima attorno a lui. Che giustifica una frase di Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci: lo Stato e la magistratura che forse ha più responsabilità di tutti ha cominciato a far morire Falcone quando gli preferirono altri candidati. Venne a lavorare con me quando a Palermo era ormai isolato, delegittimato, messo sotto stato di accusa».

È vera la leggenda che per sdrammatizzare quando arrivava in ufficio dopo pranzo alle segretarie chiedesse scherzoso: neppure oggi Kim Basinger ha chiamato per me?

«Sì, l’ho sentito anche io. Lui aveva anche una grande ironia e la faceva anche su stesso, amava molto la vita. Credo che Giovanni a Roma visse uno dei periodo fu sereni della sua esistenza, perché era messo in condizioni di lavorare».

Come vede le polemiche di oggi tra magistratura e politica?

«Certe cose con Falcone non c’entrano niente. Lui sosteneva la necessità di separare le carriere dei magistrati tra Pm e giudici. Perché il giudice deve essere terzo, imparziale, come dice la Costituzione.

Cosa pensa delle accuse indiscriminate di Piercamillo Navigo, presidente della Anm, ai politici?

«Davigo veniva definito da Antonio Di Pietro il nostro “ragioniere”. Ma io gli riconosco il merito di aver sbaragliato nel congresso dell’Anm tutte le correnti. E poi non è vero che lui accusa indiscriminatamente i politici. Dice che i politici di oggi sono peggio di quelli di ieri».

ANTIMAFIOSO: SI NASCE O SI DIVENTA?

Quando Garibaldi, i garibaldini e l’Unità d’Italia legittimarono mafia e camorra, scrive il 26 agosto 2016 Ignazio Coppola su "Time Sicilia". Ieri, nella quarta puntata della Controstoria dell’impresa dei Mille, abbiamo sottolineato il ruolo di Garibaldi e dei garibaldini in quella che, alla fine, è stata la prima trattativa tra Stato italiano allora nascente e mafia. Oggi approfondiamo l’argomento avvalendoci della testimonianza di storici e valenti magistrati che si sono occupati di mafia e di rapporti tra la stessa mafia e lo Stato. Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’Unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia e sin dai tempi dell’invasione garibaldina che si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. In Sicilia in quel lontano maggio del 1860 infatti accorsero, con i loro “famosi picciotti” in soccorso di Garibaldi i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola, di Erice; i fratelli Sant’Anna di Alcamo; i Miceli di Monreale; il famigerato Santo Mele così bene descritto da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi addirittura diverrà generale garibaldino e che verrà ucciso 3 anni dopo nell’agosto del 1863 nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose. Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro” Storia della mafia”, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o no, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e determinante contributo all’Unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale. Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo,  Giuseppe Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joeph Banana, che nel suo libro autobiografico Uomo d’onore, a cura di Sergio Lalli a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione, così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina: “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra “tradizione” (= mafia) si schierarono con  le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere. Con l’Unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese.  E di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia dei primi anni ’80 del secolo passato, una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana, ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo – ed ideatore come anzidetto del pool antimafia di cui allora fecero parte, tra gli altri, gli allora giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello – fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche. Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quell’occasione, a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima, ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora, in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e, successivamente, con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”. Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’Unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità, sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’Unità d’Italia, ha insanguinato la nostra terra per iniziare con  la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti dei pugnalatori di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palazzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che della lotta alla mafia ne hanno fatto una ragione di vita e, purtroppo, anche di estremo sacrificio, sino alla morte. Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli uomini e le donne delle rispettive scorte. Su Paolo Borsellino le nuove risultanze processuali hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi. Così abbiamo appreso che si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia”. Per essersi opposto alle connivenze tra mafia, servizi segreti deviati e omertà di Stato ha pagato con la vita il suo atto di coraggio. Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti, in una sconvolgente continuità storica, un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro. Connivenze criminali che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare, da 153 anni a questa parte, in un percorso caratterizzato, troppo spesso, da una criminale politica eversiva, la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.

LA PIU' FORTE DELLE MAFIE. Rapporti tra 'ndrangheta e altre organizzazioni criminali. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «La 'ndrangheta è un'organizzazione che non ha problemi a fare affari con gente di ogni razza e nazione.» (Saverio Morabito, pentito.) La 'ndrangheta rispetto alle altre realtà criminali si è sviluppata più tardi, ma nonostante ciò con le altre mafie si è avuto in generale un rapporto di reciproco rispetto e di parità, anche ora che viene considerata una delle più potenti organizzazioni criminali in Europa e nel mondo e la più potente in Italia. Non si è mai schierata nelle guerre di altre organizzazioni. Vi è stato nel corso della storia invece una forte collaborazione per i traffici di sigarette, droga e tutte le varie attività illecite.

Il rapporto con Cosa Nostra è stato molto stretto tanto che capibastone di spicco come Antonio Macrì, Giuseppe Piromalli, Mico Tripodo (compare d'anello di Totò Riina) si affiliarono a Cosa Nostra e viceversa, capi della mafia siciliana si affiliano alle ndrine. Quindi vi erano persone che possedevano due affiliazioni come per esempio il messinese Rosario Saporito, personaggio di spicco della cosca dei Mazzaferro o Calogero Marcenò, capo locale della cosca calabrese Zagari. La mafia messinese inoltre nacque con l'appoggio della 'ndrangheta, dalla quale apprese i riti e le usanze. Vennero sottomesse tutte le cosche messinesi grazie all'operato di un certo Gaetano Costa. A Messina inoltre la cosca di Mangialupi che opererebbe in città quasi completamente da sola ha strettissimi rapporti con le cosche dell'area jonica, tale da custodire loro arsenali.

La 'ndrangheta e la Camorra. Si è a conoscenza di doppie affiliazioni anche con la Camorra napoletana: per esempio i calabresi De Stefano e Raffaele Cutolo. I Cutolo uccisero addirittura Mico Tripodo per piacere dei De Stefano. Ci sono esempi di camorristi come Antonio Schettini affiliato ai Flachi e viceversa lo 'ndranghetista Trovato Coco affiliato alla famiglia di Carmine Alfieri.

La 'ndrangheta e la mafia lucana. I Basilischi sono una organizzazione criminale nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. I Basilischi nascono come una 'ndrina della 'ndrangheta calabrese e da essa dipendono, sono protetti e aiutati. Per nascere ha ottenuto il nulla osta dalla 'ndrina dei Pesce di Rosarno. La criminalità organizzata delle zone del materano, la Val d'Agri e del Melfese è controllata, dunque dalle cosche che fanno capo alla 'ndrangheta di Rosarno[8]. Sembra abbiano avuto contatti con essa anche con i Morabito.

La 'ndrangheta e la mafia pugliese. La 'ndrangheta con la mafia pugliese e nella fattispecie con la Sacra Corona Unita ha un rapporto ancora più influente e fondamentale che con Cosa Nostra o la Camorra, poiché né è addirittura l'artefice in parte della sua nascita. Dal rapporto del ROS dei carabinieri. Dal 1993 si è a conoscenza che la Sacra Corona Unita fu fondata da Giuseppe Rogoli, per volere di Umberto Bellocco (capobastone dell'omonima 'ndrina di Rosarno), e che inoltre all'interno della SCU vi fossero altri elementi appartenenti alla cosca calabresi come: Giuseppe Iannelli, Giosuè Rizzi, Cosio Cappellari,Antonio e Riccardo Modeo. La 'ndrangheta fu d'aiuto anche alla creazione della Rosa dei Venti, altra organizzazione criminale mafiosa che opera nel territorio pugliese, e precisamente aLecce. Fu fondata da Giovanni De Tomasi e Vincenzo Stranieri col volere e il permesso delle cosche calabresi. Praticamente Bari, Brindisi e Lecce erano sotto il controllo ndranghetista, e Taranto, tramite un accordo, fu lasciata alla Camorra.  Il 18 ottobre 2012 si conclude l'operazione Revolution che porta all'arresto 29 persone affiliate alle cosche di Bovalino, Africo e San Luca accusate di associazione mafiosa e traffico internazionale di cocaina e altri reati tra cui l'introduzione di un titolo di stato statunitense falso del valore di 500.000.000 di dollari. Da questa operazioni, oltre ad essere evidenziati i legami con narcotrafficanti sudamericano si registrano contatti con esponenti della Sacra Corona Unita sin dal 2010. Le basi logistiche europee per il traffico internazionale erano: Anversa in Belgio, Amsterdam nei Paesi Bassi, Duisburg, Oberhausen e Düsseldorf in Germania.

La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali sarde. Dall'indagine Santa Barbara del 2005[11] si è scoperta un'alleanza fra la potente ndrina dei Nirta di San Luca e la criminalità sarda di Cagliari, Nuoro e Oristano per il traffico di cocaina ed eroina. I carabinieri sospettano anche che i proventi della droga potessero servire per investire nel settore immobiliare turistico sardo.

La 'ndrangheta e la Banda della Magliana. Durante l'operatività della Banda della Magliana alcune 'ndrine hanno avuto contatti con essa. In particolare i De Stefano di Reggio Calabria e i Facchineri di Cittanova.

La 'ndrangheta e il clan dei Casamonica. Il 25 marzo 2010 viene scoperto un sodalizio tra Pietro D'Ardes, Rocco Casamonica e affiliati alla 'ndrangheta dei Piromalli-Molè e Alvaro per il riciclaggio dei proventi illeciti e costituzione di società (15 sequestrate) per la partecipazione ad appalti pubblici.

La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali internazionali.

'ndrangheta e mafia albanese. La Ndrangheta con le organizzazioni criminali albanesi ha rapporti basati sul traffico di esseri umani, prostituzioni e armi da come si evince dall'ANSA del 13 dicembre del 2005 e dall'operazione Harem. Con il beneplacito della mafia calabrese gli albanesi potevano agire in varie regioni d'Italia portando prostitute albanesi, moldave, ucraine e romene in cambio di droga ed armi. Sono state arrestate nell'operazione 80 persone di cui la metà albanesi le altre italiane legate alle 'ndrine dei paesi di Corigliano Calabro e di Cassano all'Ionio. In Lombardia commerciano anche in droga, durante l'operazione Crimine 3 sono stati scoperti in alleanza con il Locale di Erba, capeggiato da Pasquale Varca, e legato ai Nicoscia-Arena in un traffico di cocaina con i colombiani e dove i Pesce-Oppedisano che dovevano recuperarla al porto di Gioia Tauro se ne impossessarono mettendo nei guai il locale con gli stessi albanesi (i cui capi risiedono in Nord Europa) e i colombiani da cui era stata comprata. Nei Paesi Bassi per il controllo del porto di Rotterdam. Il 9 luglio 2015 si conclude l'operazione Overting, iniziata nel 2005 ha portato all'arresto di 44 persone tra cui persone legate ai Mancuso, in collaborazione con un gruppo criminale albanese di Fiano Romano per traffico internazionale di cocaina. La droga proveniva dal Cile, Venezuela e Colombia e grazie anche al broker ndranghetista Domenico Trimboli pentito dal 19 marzo 2015. L'incontro con i narcos per l'accordo sullo scambio avveniva invece in Spagna. In Calabria, a Spilinga c'era la raffineria per recupera la cocaina liquida impregnata in partite di vestiti o allo stato solido in piastrelle per pavimenti. Gli albanesi almeno una volta hanno tenuto in ostaggio un vibonese come garanzia del traffico.

'ndrangheta narcos colombiani e Autodefensas Unidas de Colombia. La collaborazione con i narcos colombiani nasce dal crescente mercato della cocaina che soprattutto in anni recenti si è sostituita all'eroina proveniente dall'Asia per i continui conflitti presenti nell'area. Portando così questa droga dei "ricchi" a diventare droga comune e diffusa. Uno dei tanti protagonisti di spicco in questi traffici è Roberto Pannunzi, un broker di origine calabrese internazionale che faceva da mediatore fra i cartelli e i gruppi calabresi dei: Morabito, Coluccio-Aquino, Romeo, Bruzzaniti, Sergi, Trimboli e Papalia. Hanno avuto contatti anche col movimento paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia tramite uno dei capi Salvatore Mancuso Gómez sempre per motivi legati al traffico di droga. Il 29 aprile 2013 viene arrestato in Colombia dal ROS dei Carabinieri e dalla Policia Nacional Grupo Siu il latitante, dal 2006, Santo Scipione (1933) detto papi accusato di gestire un vasto traffico di cocaina tra la Autodefensas Unidas de Colombia e i Mancuso per cui è stato condannato nel 2012 a 15 anni di carcere. Grazie alla stretta collaborazione con i colombiani la ndrangheta dal 2000 in poi è riuscita a ottenere il monopolio della cocaina in Europa raggiungendo cifre da capogiro. A poco a poco si è sostituita a Cosa Nostra tanto che succede a volte che per i clan siciliani e camorristici faccia da garante in caso di mancati pagamenti e addirittura convenga alle altre mafia italiane comprare la cocaina direttamente in Italia dai calabresi.

'ndrangheta e FARC. Il 17 giugno 2015 si conclude un'operazione della Dda di Reggio Calabria e del Gico di Catanzaro con il contributo della DEA statunitense e della Guardia Civilspagnola che blocca un traffico internazionale di droga tra gli Alvaro, i Pesce e i Coluccio-Aquino insieme ad un comandante delle FARC colombiane. L'organizzazione aveva basi in Brasile, Argentina, Repubblica Dominicana, Colombia, Spagna e Montenegro. Durante l'operazione è stato sequestrato un carico di cocaina presente nell'imbarcazione Pandora Lys a largo di Viana do Castelo tra Spagna e Portogallo.

'ndrangheta e Cartello del Golfo. Il 14 luglio 2011 vengono arrestate oltre 40 persone nell'ambito dell'operazione internazionale dei carabinieri Crimine 3. Le persone sono accusate di traffico di droga internazionale e associazione mafiosa e sono state arrestate per lo più in Italia, alcune in Spagna, Paesi Bassi e negli Stati Uniti. Il traffico veniva gestito insieme al Cartello del Golfo e ai cartelli colombiani, per la 'ndrangheta c'erano presunti affiliati agli Ierinò, Commisso, Coluccio, Aquino e Pesce. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.

'ndrangheta e Los Zetas. Il 17 settembre 2008 in un'operazione dell'FBI e della DEA americana, dell'ICE messicana a cui hanno partecipato anche i carabinieri del ROS sono state arrestate 200 persone appartenenti al cartello messicano dei Los Zetas e ad altre organizzazioni criminali a cui vendevano la droga, tra cui la 'Ndrangheta, nella fattispecie sono stati arrestati Vincenzo e Giulio Schirripa appartenenti all'omonima 'ndrina,la quale faceva parte di un'alleanza con i Coluccio, gli Aquino e i Macrì e con i quali avrebbero importato ogni volta 1000 chili di cocaina. I contatti fra le due organizzazioni venivano prese tramite elementi del cartello messicano a New York. Sono stati arrestati anche 16 esponenti dei Coluccio e degli Aquino tra New York e la Calabria. L'accordo con i Los Zetas è avvenuto dopo l'arresto dell'ecuadoriano Luis Calderon, principale fornitore per queste 'ndrine. Durante l'operazione Crimine 3, si scopre che il trafficante di droga calabrese Vincenzo Roccisano faceva da tramite con i Los Zetas e le 'ndrine calabresi e le cosche siciliane. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.

'ndrangheta e Mafia serba e criminalità montenegrina. Secondo Michele Altamura dell'Osservatorio Italiano la mafia serba con l'aiuto della 'ndrangheta la mafia serba è riuscita ad entrare nei traffici internazionali di stupefacenti. Negli anni '90, dai serbi acquistò armi (tra cui bazooka ed esplosivi) costruite in Serbia.

'ndrangheta e mafia russa. Dagli anni '90 la 'ndrangheta è in relazione con la mafia russa per quanto riguarda il traffico di droga e di armi.

'ndrangheta e Big Circle Boys. Sempre negli anni '90 questa organizzazione criminale era alleata anche con i Big Circle Boys per la gestione del traffico di droga in Canada.

'ndrangheta e Cosa Nostra americana. L'11 febbraio 2014 termina un'operazione della Polizia e dell'FBI statunitense contro elementi presunti affiliati agli Ursino e ai Simonetta e ed esponenti vicino ai Gambino di Cosa nostra statunitense, accusati di traffico internazionale di droga. Tra gli arrestati anche Francesco Ursino, presunto attuale capo della cosca e figlio di Antonio (in carcere) e Giovanni Morabito, nipote di Giuseppe Morabito. Il 7 maggio 2015 durante l'operazione Columbus vengono arrestate 16 persone per traffico internazionale di droga proveniente dal Costa Rica. Fu coinvolto anche il titolare della pizzeria "Cucino a modo mio" nel Queens a New York. Il proprietario della pizzera Gregorio Gigliotti, originario di Pianopoli (CZ) ma residente da 30 anni a Whitestone (New York) sarebbe stato in contatto anche con Anthony Federici, vicecapo della famiglia Genovese di cosa nostra statunitense. In Calabria era invece in contatto a Francesco e Carmine Violi vicini agli Alvaro di Sinopoli. Gigliotti avrebbe occupato nel narcotraffico il posto di Giulio Schirripa dopo il suo arresto nel 2008, il quale già doveva dei soldi allo stesso Gigliotti.

'ndrangheta e Primeiro Comando da Capital. Nel 2016 una denuncia del Ministero pubblico federale del Brasile afferma dell'esistenza di relazioni tra il gruppo criminale brasiliano del Primeiro Comando da Capital con l'organizzazione calabrese, e viene citata nel 2014 nell'operazione Oversea, la più grande operazione contro il traffico di droga in Brasile. La droga veniva importata dalla Bolivia, passava per il Brasile per giungere in Italia nel porto di Napoli...

GUERRA DEI BOSS, VINCE LA 'NDRANGHETA. Da New York all'Australia, le inchieste delle polizie di mezzo mondo ci dicono che i clan calabresi hanno sconfitto Cosa Nostra nella lotta per il controllo delle rotte mondiali del narcotraffico. Ecco come i nuovi padroni del crimine hanno messo fuori gioco i vecchi padrini, scrivono Giuliano Foschini, Marco Mensurati e Fabio Tonacci l'8 agosto 2016 su “La Repubblica”. Laval, sobborgo a nord di Montreal, Canada. Primo marzo. Lorenzo Giordano ferma il Suv Kia blu sull’asfalto innevato del parcheggio del Carrefour Multisport, vicino alla highway 440. Spegne il motore, il crocifisso legato allo specchietto retrovisore sta dondolando. Sono le 8.45, la mattinata è gelida. Un killer sbuca a lato della macchina e gli spara alla testa e alla gola, frantumando il vetro del finestrino. Lorenzo “Skunk” Giordano, 52 anni, muore poco dopo, in ospedale. Carlton, quartiere italiano di Melbourne, Australia. 15 marzo. Un signore abbronzato con i capelli ben pettinati esce dal Gelobar, la sua gelateria. Sta camminando, è da poco passata la mezzanotte. È solo, e la strada è buia. Lo freddano alle spalle sparandogli da un’auto in corsa, senza neanche fermarsi. Tre ore dopo un netturbino scende dal camioncino e si avvicina al cassonetto. Accanto c’è il cadavere di Joseph “Pino” Acquaro, 50 anni, famoso avvocato. Ancora Laval, 27 maggio. Alla fermata dell’autobus su boulevard St. Elzéar è seduto un uomo, sui trent’anni, vestito completamente di nero. Scarpe nere, pantaloni neri, giacca nera, occhiali neri. Sono le 8.30. La Bmw bianca di Rocco Sollecito, come previsto, passa sul boulevard. Il semaforo è rosso, si ferma. L’uomo nero si alza, e punta la pistola contro il finestrino della macchina. Rocco “Sauce” Sollecito, 62 anni, scivola sul sedile imbrattato del suo sangue, colpito a morte. Italiani che parlano inglese e sparano. Altri italiani che parlano inglese e muoiono. Canada, Australia, Stati Uniti. Reggio Calabria. Il terremoto di sangue ha un epicentro silente, New York. E nuovi clan emergenti che hanno preso troppo potere, come gli Ursino, ‘ndranghetisti di Gioiosa Ionica. L’onda d’urto si è propagata su tutto il pianeta. Le vite affogate nel piombo di “Skunk”, “Pino” e “Sauce” sono scosse di assestamento. La chiamano la "guerra mondiale della mafia". New York, quindi. Niente è come prima. Le cinque grandi famiglie di Cosa Nostra, Gambino, Bonanno, Lucchese, Genovese e Colombo non sono più quelle che erano. Lo documentano le ultime inchieste del Federal bureau of investigation (Fbi), condotte insieme agli investigatori del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia italiana. Giovedì scorso l’Fbi ne ha catturati altri 46, tra la Florida, il Massachusetts, il New Jersey, New York e il Connecticut: capi, mezzi capi e paranza dei Gambino, dei Genovese, dei Bonanno. È finito dentro anche il 23enne John Gotti jr, nipote dell’ultimo grande boss di Cosa Nostra americana. Assediati dalle indagini e indebolite da un ricambio generazionale difficoltoso, i siciliani stanno cedendo spazio, in maniera apparentemente quasi del tutto incruenta, alla mafia calabrese. Nella Grande Mela i clan dei Commisso e degli Aquino-Coluccio si sono insediati da anni, ma chi sta rivendicando per sé il ruolo di “sesta famiglia” sono gli Ursino di Gioiosa Ionica. E questo è un problema, per tutti. Una sesta famiglia, infatti, c’è già. Pur non ammessa nel gotha criminale di New York, i Rizzuto di Montreal, in Canada, hanno storicamente un legame stretto con i Bonanno. Se c’è da mettere in piedi un affare di un certo peso - partite di cocaina, armi clandestine, riciclaggio - i referenti sono loro. Un rapporto che da un po’ di tempo non è più così solido. Tra il 2012 e il 2013 una fonte confidenziale dell’Fbi rivela che Francesco Ursino, il boss della omonima cosca storica alleata dei Cataldo di Locri, ha chiesto ai Gambino di poter lavorare sulla piazza di New York "proprio come una sesta famiglia". Chiesto per modo di dire. A questo giro sono i siciliani di Cosa Nostra a trovarsi di fronte a un’offerta che non si può rifiutare, perché quando ha bussato alla porta dei Gambino, Francesco Ursino in realtà si era già preso tutto: le rotte del narcotraffico, i contatti con i cartelli messicani e colombiani, il controllo dei porti e dei cargo. Il boss parlava a nome non di una famiglia sola, ma di quello che gli investigatori nell’indagine New Bridge (che porterà alla cattura del capoclan) definiscono "un consorzio" di clan della Locride. Rifiutare avrebbe voluto dire per i Gambino ingaggiare una guerra senza senso, e dall’esito incerto. Meglio mettersi d’accordo e accettare il dato di fatto. Sul mercato mondiale della cocaina, ‘ndrangheta rules, comanda. Da anni i calabresi lavorano nell’ombra a New York, negli scantinati delle loro pizzerie e nei retrobottega dei loro “italian restaurant”. Volano a Bogotà e San José nel weekend, fingendosi turisti. "Se volete sapere cosa succede a New York, cercate in Centro America; se volete sapere cosa succede tra i Cartelli del Golfo guardate chi comanda a New York", spiega Anna Sergi, criminologa dell’Università dell’Essex, studiosa delle proiezioni dell’’ndrangheta all’estero. E in Centro-Sud America succede che i calabresi comandano. Marcano il territorio. Agganciano intermediari. Sparano il meno possibile. Più finanza meno casini. La gola profonda che ha spiegato alla Dea e all’Fbi cosa si stava muovendo nel ventre criminale della Grande Mela si chiama Cristopher Castellano. È proprietario di una discoteca nel Queens, il Kristal’s, che usa per nascondere quello che in realtà è: un broker dei Los Zetas, il pericolosissimo cartello messicano paramilitare dei disertori dell’esercito che si avvale di lui per commerciare stupefacenti negli States e in Europa. Con i narcotrafficanti, Cristopher ha fatto una montagna di soldi. La festa dura poco, però. Lo arrestano nel 2008, e lui, pur di uscire dalla galera, canta. Si vende ai poliziotti due calabresi: Giulio Schirripa e tale “Greg”. Racconta di questi due italiani che, usando le pizzerie come copertura e i soldi della ‘ndrangheta come garanzia, stanno muovendo tonnellate di cocaina nascosta nei barattoli di frutta trasportati dalle navi portacontainer. "Hanno una pipeline attraverso gli oceani", sostiene Castellano. Se girano grosse partite di polvere bianca che dal Costarica raggiungono gli Usa, il Canada, il Vecchio Continente e l’Australia, è roba loro. Distribuiscono, smistano, organizzano i viaggi delle navi, aprono società fittizie di import-export, corrompono doganieri. A New York vanno a cena con i Genovese. A San José si incontrano con gli uomini di Arnoldo de Jesus Guzman Rojas, il capo del cartello di Alajuela. A Reggio Calabria riferiscono al clan Alvaro. Sono dei “facilitatori”, insospettabili perché incensurati: creano le condizioni per portare la polvere bianca dai laboratori nella giungla del Costarica al naso dei consumatori. Schirripa, arrestato insieme a Castellano, è l’archetipo dell’emigrato calabrese alla conquista di New York. Gregorio “Greg” Gigliotti, l’epigono. Cristopher Castellano è diventato carne morta nel momento stesso in cui ha aperto bocca con gli agenti federali. Quattro luglio del 2010, negli Stati Uniti si festeggia il giorno dell’Indipendenza. Ad Howard Beach, nel Queens, lo spettacolo di fuochi d’artificio è iniziato poco prima di mezzanotte. Castellano però non ha gli occhi al cielo, sta frugandosi le tasche per cercare le chiavi della macchina. Un colpo solo, alla nuca. Nessuno si accorge di niente. Castellano non soffierà più all’orecchio dell’Fbi. Intanto, però, gli investigatori hanno messo sotto controllo i telefonini e riempito di cimici i ristoranti di Gigliotti nel Queens, tra cui il famoso 'Cucino a modo mio' citato nelle riviste specializzate di tendenza. "Non c’è un grammo di cocaina in Europa che non sia passata tra le mani di Gregorio", ripetono spesso i complici dell’italiano, terrorizzati dalle escandescenze di Gigliotti. Quando si arrabbia, col suo dialetto calabrese impastato di slang americano può dire cose terribili: "Una volta mi sono mangiato un pezzo di rene e un pezzo di cuore", sbraita con la moglie, irritato da un altro calabrese che sta provando a inserirsi nel suo business. Il centro dei suoi affari è il Costa Rica, dove ha contatti diretti con i narcotrafficanti grazie a una fitta rete di broker e fiduciari. "E digli che non facciano troppo i furbi…", ripete loro, quando li spedisce a trattare in Sudamerica. Lui accumula denaro, i poliziotti dello Sco e dell’Fbi ascoltano e anticipano qualcuna delle sue mosse. Porto di Anversa, 16 chili di cocaina sequestrati. Porto di Valencia 40 chili, Wilmington 44 chili. Porto di Rotterdam 3 tonnellate. Poi l’8 maggio scorso lo arrestano. Finisce dentro anche suo figlio, Angelo. Ma poche settimane dopo torna in libertà grazie a una cauzione da cinque milioni di dollari. Pagata in contanti. Fuori gioco i referenti degli Alvaro, New York se la sono presa gli Ursino. Compresi i contatti con i sudamericani. Le scosse del terremoto si riverberano in Canada, dove le gerarchie si sgretolano. E con esse la pax mafiosa. Dagli anni Ottanta i criminali italiani emigrati lì si erano divisi gli affari, tra Toronto e Montreal. Ai siciliani del clan Rizzuto la droga, ai calabresi arrivati da Siderno il gambling, il gioco d’azzardo, e l’usura. La mappa l’hanno disegnata nel 2010 gli investigatori italiani che hanno lavorato alla maxi inchiesta ‘Crimine’ (che per la prima volta individuò i vertici dell’’ndrangheta) ed è ancora valida. Tre anni fa Vito Rizzuto, il capo, muore di tumore. Nei mesi successivi, in coincidenza con l’ascesa degli Ursino nel quadrante nordamericano, quattro dei sei membri del “Consiglio” dei Rizzuto vengono uccisi. Gli altri due si salvano soltanto perché sono in galera. L’ultimo a cadere è stato Rocco “Sauce” Sollecito. Poche settimane fa a Montreal stava per finire in una bara Marco Pizzi, 46 anni, importatore di cocaina per il clan secondo la polizia, sfuggito per un soffio ai suoi sicari che lo avevano tamponato con una macchina rubata. Erano mascherati e armati. "I calabresi hanno attaccato i vecchi poteri", ragiona un investigatore. "È ‘ndrangheta contro mafia". La guerra mondiale, quindi. La scia di sangue si allunga fino all’Australia, dove il golpe calabrese sulle rotte della cocaina ha destabilizzato equilibri che si reggevano dalla fine degli anni Settanta. La famiglia Barbaro sembra aver perso il passo, e i contatti con i nuovi importatori sarebbero passati nelle mani di Tony e Frank Madafferi. A Melbourne i calabresi combattono contro i calabresi. Frank Madafferi e Pasquale “Pat” Barbaro furono indagati nel 2008 nel processo per il più grande carico di metanfetamine mai intercettato nella storia della lotta al narcotraffico: 4,4 tonnellate di ecstasy, per un controvalore di 500 milioni di dollari australiani (340 milioni di euro) in pasticche stivate in una nave che trasportava lattine di pomodori pelati. Ma quel processo non è l’unica cosa che Tony Madafferi e Pat Barbaro, poi condannato all’ergastolo, hanno in comune. A unirli, come spesso accade, anche la scelta dell’avvocato: il professionista italo- americano Joseph Acquaro. L’uomo trovato morto dal netturbino davanti alla gelateria, lo scorso marzo. Le indagini sono ferme al palo anche se un paio di elementi hanno attirato l’attenzione su Madafferi: in particolare alcune intercettazioni in cui si dichiara proprietario di Melbourne ("È mia, non di Pasquale") e si dice pronto ad uccidere il rivale ("gli mangio la gola"). Ma soprattutto il racconto di un pentito che ha spiegato alla polizia come nel sottobosco malavitoso di Melbourne tutti sapessero della taglia che Tony aveva da poco messo sulla testa dell’avvocato, colpevole a quanto pare di aver cominciato a parlare un po’ troppo con giornalisti e investigatori: 200mila dollari australiani. Chi li abbia incassati non si sa. Quello che si sa è che pochi giorni prima di quell’omicidio, all’aeroporto di Fiumicino i carabinieri di Locri avevano arrestato Antonio Vottari, 31 anni, accusato di gestire i traffici di droga tra il Sudamerica e l’Europa per conto delle cosche di San Luca. Rientrava da Melbourne, dove da anni trascorreva la sua latitanza, con un visto da studente. Le sorti della guerra mondiale della mafia le decidono in Calabria. Tutto parte da là. E tutto, prima o poi, là ritorna.

Inchiesta: i boss di Cosa nostra al servizio della ‘ndrangheta, scrive Alberto Di Pisa su “Sicilia Informazioni” il 28 giugno 2016. Intervenendo qualche giorno fa ad un convegno organizzato “In memoria di Cesare Terranova” il Procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone ha affermato che la mafia siciliana è in crisi e in difficoltà ed è subalterna alla mafia campana e calabrese. Ed ha aggiunto: “Dal mio osservatorio di Roma, quando sento di tentativi di ricostruzione di mandamenti o della vecchia Cupola, penso subito che, comunque, si tratta di tentativi non riusciti e che la situazione rispetto al passato è molto diversa, rispetto ai tempi degli omicidi eccellenti”. Questa supremazia di altre organizzazione criminali quali la Ndrangheta o la camorra, sulla mafia siciliana, sembra trovare un riscontro in quanto dichiarato dal Procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato la quale ha detto: “Possiamo affermare dalle nostre indagini che la ‘ndrangheta ha sostenuto la latitanza di Matteo Messina Denaro….Ed ancora: “I rapporti tra malavita organizzata calabrese e Matteo Messina Denaro sono basati su punti incontrovertibili, contatti con la ‘ndrangheta ci sono dai tempi di Riina, non c’è niente di nuovo”. Ed ha spiegato che “la leadership della ‘ndrangheta è dovuta al fatto che non c’è stato obiettivamente lo stesso lavoro se non da cinque sei anni, da quando è arrivato a Reggio Calabria il dottor Pignatone e adesso De Raho. Ma prima c’erano molto pochi risultati”. Lo stesso Nicola Gratteri, ex Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, oggi Procuratore della Repubblica di Catanzaro, aveva già in passato sottolineato come si fossero ormai invertiti i rapporti di forza tra calabresi e siciliani. Aveva infatti detto: “Ora è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti (….) Adesso la mafia americana si affida ai calabresi per spaccio e traffico soprattutto di cocaina”. E’ proprio quindi in virtù della potenza economica e criminale che deriva alla ‘ndrangheta dal traffico di droga a livello mondiale che Matteo Messina Denaro ha deciso di affidarsi, per la propria latitanza, agli esponenti di tale organizzazione criminale. Va poi sottolineato che fin dagli anni settanta la ‘ndrangheta è riuscita a favorire l’ingresso di propri uomini nei partiti di governo, nelle istituzioni in occasione delle competizioni elettorali. Ma a parte questa caratteristica, la ‘ndrangheta ha assunto un vero e proprio ruolo imprenditoriale per ciò che riguarda il traffico di armi e di droga, attività che, come evidenziato da Gratteri, si è estesa al di fuori dell’ambito della propria regione, così soppiantando quelle che era state alcune delle principali attività criminali della mafia siciliana che oggi ha finito con l’assumere un ruolo subalterno rispetto alla ’ndrangheta e alla camorra. Va ricordato, per quanto riguarda l’infiltrazione della ‘ndrangheta nelle istituzioni, come, in conseguenza della elezione di ‘ndranghetisti negli organi rappresentativi comunali si verificò, negli anni 80-90 lo scioglimento di diversi consigli comunali calabresi tra cui quelli di Taurianova e Lamezia Terme. Si legge in proposito nella relazione Cabras: “L’ex sindaco di Reggio Calabria, Agatino Licandro, che ha svolto davanti al Procuratore della Repubblica una dettagliata confessione sulla corruzione politico-amministrativa della città, già nel luglio del 1991 affermava: “(….) a proposito dei consiglieri comunali: ce ne sono almeno 10-15 per cento eletti consapevolmente con voti della mafia” (relazione cit., pag. 34). Per quanto riguarda il narcotraffico, mentre negli anni 60 la ‘ndrangheta era legata da un rapporto organico con la mafia siciliana per cui trafficanti calabresi e siciliani operavano su un piano di parità, oggi, proprio grazie al notevole potere economico e criminale raggiunto dalla ‘ndrangheta insieme alla situazione di difficoltà in cui versa la mafia siciliana, è quest’ultima che è costretta a rivolgersi, per rifornirsi di droga, alla ‘ndrangheta che ormai detiene il monopolio delle sostanze stupefacenti. È appena il caso di ricordare che negli anni 70- 80 il traffico di droga era monopolio della mafia palermitana che aveva realizzato, proprio a Palermo, dei laboratori dove, con l’intervento di esperti chimici francesi, veniva raffinata e trasformata in eroina la morfina base proveniente dal medio oriente, eroina che poi veniva inviata negli USA dove, attraverso le pizzerie facenti capo a mafiosi siciliani, veniva spacciata al minuto. La mafia americana, quale pagamento della droga ricevuta, inviava in Italia valige contenenti migliaia di dollari. Un pagamento di droga fu certamente il rinvenimento, da parte del Dirigente della Squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, all’aeroporto di Punta Raisi, di una valigia proveniente dagli Usa e contenente 500mila dollari. Una dimostrazione del ruolo determinante della ‘ndrangeta nel traffico di stupefacenti è dato dalla maxi operazione che, nel settembre del 2015, portò all’arresto di 48 persone con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. In questa operazione vennero colpite le famiglie potenti della fascia jonica-reggina. In occasione di tale operazione Nicola Gratteri ebbe a dichiarare: “Oggi è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti”. Questa operazione ha inoltre accertato come la ‘ndrangheta abbia estromesso Cosa Nostra dai contatti con la mafia americana nel traffico di droga indebolendo il legame che tradizionalmente esisteva, come si è visto, con quest’ultima. In occasione di altra operazione antidroga relativa ad un traffico internazionale di stupefacenti che ha visto coinvolti esponenti di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta, il comandante dei ROS ha affermato: “Il ruolo centrale ce l’hanno le cosche della ‘ndrangheta che hanno confermato ancora una volta lo straordinario livello raggiunto nel traffico internazionale di cocaina, grazie anche alla solidità di rapporti instaurata nel tempo con i broker sudamericani”. Si trattò di una operazione condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano che nell ‘ottobre del 2012 portò all’arresto di più di 50 persone. L’indagine accertò che gli esponenti delle cosche calabresi avevano creato “un cartello” con la mafia siciliana per il commercio della cocaina che avrebbe dovuto essere smistata tra Italia, Belgio, Germania, Olanda e Austria. La droga arrivava dall’Ecuador e dalla Colombia ed entrava in aereo o nei container della navi commerciali, occultata tra gamberi e banane. Ma la potenza acquisita dalla ‘ndrangheta non deriva soltanto dal traffico di droga ma anche dal fatto che ha raggiunto, in vaste aree, il controllo militare del territorio, eliminando dal mercato numerose imprese, e, come è stato scritto “ha conquistato quasi il monopolio del movimento terra, negli inerti, nell’edilizia e ha costruito un fisco parallelo a quello dello Stato imponendo un pizzo generalizzato”. La ‘ndrangheta dispone poi di killer altamente professionali e temuti che uccidono le persone designate in qualunque luogo esse si trovino anche nelle piazze dei paesi o delle città, sia di giorno che di notte. Basta ricordare l’omicidio di Francesco Fortugno, consigliere comunale e vice presidente della Regione, ucciso a Locri il 16 ottobre 2005 nel giorno delle primarie dell’Unione, all’interno del seggio, da un killer a volto coperto con cinque colpi di pistola. La DIA ha inoltre evidenziato come la ‘ndrangheta abbia parzialmente ma visibilmente, messo da parte i metodi criminali aggressivi per creare “vere e proprie Holding imprenditoriali”. Ciò, sempre secondo la DIA, avrebbe determinato una vera e propria fusione con l’economia regionale grazie alla quale i clan sono “in grado di aggiudicarsi gli appalti ed acquisire le concessioni”. La Dia ha inoltre segnalato come sia stata accertata la presenza di esponenti delle ‘ndrine in Liguria, Piemonte, Veneto, Lombardia, Toscana Lazio, Molise, esponenti attraverso i quali i clan calabresi gestiscono le loro attività illecite. In particolare, per quanto riguarda il Piemonte la DIA ha evidenziato come la ‘ndrangheta “interagisce con gli ambienti imprenditoriali lombardi (…..) e c’è il coinvolgimento di alcuni personaggi rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore (…) che hanno agevolato l’assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative” La stessa DIA aveva chiesto un razionale programma di prevenzione al fine di bloccare le possibili infiltrazioni della ‘ndrangheta in previsione delle opere previste per l’Expo 2015. Dal rapporto della DIA emerge poi come la ‘ndrangheta sia tra le organizzazioni criminali quella “meno visibile sul territorio ma la meglio strutturata e la più diffusa sia a livello nazionale che internazionale”. E si trae sempre dalla relazione della DIA come la “ndrangheta si caratterizzi, più delle altre organizzazioni criminali, per la sua straordinaria rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del cambiamento tanto che le sue ‘ndrine hanno dimostrato una elevata abilità nell’utilizzare gli strumenti delle innovazioni tecnologiche”. Gli investigatori della Direzione Investigativa Antimafia non trascurano poi di evidenziare la crescente pericolosità della ‘ndrangheta “nel panorama criminale nazionale ed internazionale” nonché la sua “grande determinazione nel volere accreditare maggiormente la propria influenza nell’area del grande crimine mafioso”. Le indagini quindi ci presentano una organizzazione criminale particolarmente viva ed attiva nel circuito della finanza internazionale e per questo estremamente pericolosa. La relazione della Commissione parlamentare antimafia parla di rapporti tra la mafia calabrese ed “esponenti del mondo bancario ed istituzionale di Milano” che è risultata essere la città di riferimento più importante per la ‘ndrangheta e la più inquinata. E sempre la suddetta Commissione, parla di “sistematica omissione di controlli da parte degli amministratori pubblici”. Si diceva dell’utilizzo, da parte della ‘ndrangheta degli strumenti delle innovazioni tecnologiche. Ebbene la ‘ndrangheta ha tentato, fortunatamente senza successo, di inserirsi nella posta elettronica della Deutsche Bank di Milano per clonare i titoli al portatore e rinegoziarli presso altre banche, tentando quindi di attuare un sofisticato sistema di riciclaggio. Per dare un idea del salto di qualità compiuto dalla ‘ndrangheta e di come la stessa si sia, a differenza di Cosa nostra, adeguata ai tempi, basta leggere quanto dichiarato da un ufficiale della Guardia di finanza il quale ha detto di avere accertato l’esistenza di 120 tonnellate metriche di oro o diamanti, o valuta libica, oppure dollari kuwaitiani scambiati contro dollari e tutto con procedure bancarie telematiche che consentono di spostare milioni di dollari senza che materialmente un euro esca dalle tasche. La Guardia di Finanza ha anche individuato conti correnti all’estero, nella Bahamas, in Russia, nella ex Jugoslavia, in Austria. Sono state inoltre accertate presenze, in alcune logge massoniche, di personaggi collegati alla ‘ndrangheta in rapporto e connivenza con uomini delle istituzioni, professionisti, avvocati, notai, imprenditori, magistrati. La ‘ndragheta ha inoltre adottato un diverso sistema di impiego degli enormi profitti che provengono dal traffico di cocaina. Questi proventi infatti non vengono più impiegati, come avveniva tradizionalmente, ripartendo il denaro tra i diversi prestanome ma inviandolo direttamente all’estero. Alcuni anni fa infatti, un commercialista milanese trasferì il capitale di 26 società della ‘ndranheta con una triangolazione Milano-Lussemburgo-Lugano avvenuta in soli 15 giorni. Le mani della ‘ndrangheta arrivarono anche al palazzo di giustizia di Milano come testimoniato dall’arresto per mafia, qualche anno fa, di un alto magistrato in pensione che era riuscito a pilotare sentenze anche dopo il pensionamento e di un legale che dopo l’omicidio del collega Raffaele Ponzio sarebbe diventato il nuovo collettore delle mazzette giudiziarie. Entrambi sono stati accusati di corruzione e di associazione mafiosa. Secondo l’accusa sarebbero stati complici esterni ma anche organici di due potenti famiglie della ‘ndrangheta. In cambio di mazzette (da un milione a un miliardo) avrebbero aggiustato processi, garantendo assoluzioni, irrogando condanne tenui, assicurando scarcerazioni. Una pentita della ’ndrangheta, Rita Di Giovine ha parlato dell’ingresso del giudice di cui sopra in una camera di consiglio tenuta da altri giudici con una bustarella consegnatagli dal boss Emilio. Ha riferito anche della scarcerazione di Antonio Morabito per la quale il giudice avrebbe ricevuto un assegno di venti milioni e dell’annullamento, in appello, delle condanne di Francesco Sergi, Antonio Parisi e Saverio Morabito, tutti affiliati alla ‘ndrangheta, che nel 1993 erano stati condannati per traffico di droga. Diverso il comportamento della ‘ndrangheta nei confronti dei magistrati incorruttibili. In questo caso si fa ricorso alle intimidazioni, agli attentati, alle bombe in ufficio. Alla luce di quanto fin qui detto la ‘ndrangheta che è sempre stata considerata la parente povera e rozza di Cosa Nostra ha compiuto un salto di qualità che ha fatto si di ridurre Cosa Nostra ad una posizione subalterna non più in posizione di preminenza tra le associazioni criminali mafiose. Nessuno oggi potrebbe più dire che la ‘ndrangheta è un residuo arcaico. Alberto Di Pisa

La 'Ndrangheta si aprì la strada al primato, dicendo no al terrorismo anti Stato di Riina, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica” il 13 gennaio 2013. Già nel 1993 le 'ndrine si potevano permettere di rifiutare gli inviti dei corleonesi. Poi in vent'anni sono cresciute, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. Che con i soldi della cocaina possono comprare tutto, soprattutto in un periodo di crisi economica. Quando gli emissari di Totò Riina chiesero alla 'Ndrangheta di entrare in guerra contro lo Stato, i calabresi risposero che loro i magistrati "non li ammazzano", ma che "se li comprano, o li distruggono minandone la credibilità". Era il 1993 e già allora la 'ndrangheta poteva dire di no ai corleonesi.  Erano potenti e avevano capito tutto. Loro avevano i soldi della cocaina e lo Stato era concentrato sulla Sicilia. Con Cosa nostra fuori gioco, per i clan dell'Aspromonte si apriva una prateria sterminata.  Territori criminali da conquistare. E in vent'anni i boss reggini hanno occupato militarmente il mercato di mezza Europa, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. L'episodio chiave dell'ascesa dei calabresi è stato raccontato anche di recente. A luglio scorso, durante il maxi processo "Meta" che si sta celebrando nell'aula bunker di Reggio Calabria, in aula c'era Nino Fiume, killer di fiducia della famiglia De Stefano del quartiere Archi, pentitosi all'inizio degli anni 2000. Fiume racconta dell'assassinio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso a Campo Calabro (pochi chilometri da Reggio), su commissione dei siciliani. Era il giudice di Cassazione che doveva gestire il Maxi processo di Palermo e Riina lo voleva morto. Un favore in nome della vecchia amicizia tra siciliani e calabresi. Non è un caso che don Mico Tripodo, capo indiscusso della 'Ndrangheta reggina (assassinato a Poggioreale, su ordine di Raffaele Cutolo e richiesta dei De Stefano), qualche anno prima era stato ospite d'onore al matrimonio di Totò u curtu e compare d'anello degli sposi. Nel '91 gli "amici" furono accontentati. Due anni dopo no. Cosa Nostra tentò di coinvolgere la 'Ndrangheta calabrese nella strategia della tensione che Fiume definisce di "attacco allo Stato".  Furono anche convocate diverse riunioni, una a Milano e due in Calabria. "Era il periodo delle stragi di Roma, Firenze, Falcone e Borsellino erano stati uccisi", ha spiegato Fiume. La prima riunione, quella di Rosarno, avvenne all'hotel Vittoria. "In quella occasione -  ricorda - c'erano i siciliani. Per i calabresi c'erano Carmine e Giuseppe De Stefano, Franco Coco, il suo braccio destro, Nino Pesce. Forse qualcuno dei Bellocco. Pietro Cacciola, che frequentava Coco Trovato a Milano". La seconda riunione, di poco successiva: "Eravamo al residence Blue Paradise di Parghelia (in provincia di Vibo Valentia). Franco Coco voleva stringere il cerchio attorno a Pasquale Condello, bisognava chiarire il progetto dei siciliani e c'era anche un traffico di droga da definire. C'erano presenti Luigi Mancuso, Peppe De Stefano, Peppe Piromalli, Pino Pesce, e Coco Trovato. Tenete presente -  spiega Fiume - che a queste riunioni si partecipa non come famiglia, ma come rappresentanti di un territorio più vasto". Ai siciliani, all'epoca, fu detto di no. Solo Franco Coco Trovato era possibilista.  Per Peppe De Stefano invece, la strategia dei siciliani era controproducente. Diceva - riferisce Fiume -che era più facile avvicinare un magistrato o al massimo distruggerlo con campagne denigratorie". Quella scelta fece la fortuna della 'Ndrangheta. Con i siciliani impegnati a fare la guerra con lo Stato, le 'ndrine si consolidarono al nord Italia e all'estero, dove furono creati dei "locali" di mafia identici, per struttura e regole, a quelli della casa madre. I broker si stabilirono direttamente in Colombia a trattare con i cartelli della "coca" che iniziò ad arrivare in Europa a tonnellate. La "droga dei ricchi non uccide", dicevano. "E noi la facciamo diventare la droga di tutti". I calabresi sono affidabili, non hanno pentiti e pagano puntuali. Per questo ottengono il monopolio. Oggi sono in grado di mettere sul mercato un grammo di cocaina tagliata a meno di 40 euro. Robaccia, ma i "poveri non guardano alla qualità". Gestendo il 70% dei carichi che arrivano in Europa, secondo la Commissione parlamentare antimafia, contano su capitali spaventosi. Con la droga sono arrivati i soldi e i soldi vanno reinvestiti. Comprano tutto e comprano da tempo. C'è un'intercettazione tra un boss della 'Ndrangheta e un suo contatto al nord, cui impartisce ordini negli anni dopo la caduta del Muro di Berlino: "Vai all'Est e compra tutto, non mi interessa cosa, compra case, ristoranti, negozi, compra quello che vuoi basta che compri". Ed è così ovunque. Tanto più con la crisi di liquidità degli ultimi anni. Sono gli unici ad avere contante, utile ad entrare nelle aziende con partecipazioni, per fare prestiti o per rilevare aziende decotte. Secondo la recente relazione della Dia che fa riferimento ai primi sei mesi del 2012, se da un lato c'è Cosa Nostra che, forse per la prima volta, "inizia a confrontarsi con un'apprezzabile perdita di consenso", dall'altro si registra un'ulteriore salto in avanti della 'Ndrangheta, che consolida la sua "evoluzione affaristico imprenditoriale". I calabresi si stanno allargando in un contesto "in cui la crisi economica e la contrazione del credito producono un effetto moltiplicatore dei fattori di rischio".  Entra nell'economia la 'ndrangheta calabrese, ma dilaga anche nella politica. "La corruzione -  scrive la Dia -  rappresenta un punto di forza delle mafie. I gruppi criminali sono adusi a coltivare cointeressenze con la cosiddetta "zona grigia" dell'imprenditoria, della pubblica amministrazione e della politica, al fine di ottenere agevolazioni e condividere gli illeciti profitti". I numeri sono solo una spia. In sei mesi le persone denunciate per scambio elettorale politico mafioso sono solo sette, ma ciò "non corrisponde alla diffusione dei fenomeni corruttivi e concussivi". Soldi amicizie importanti sono la chiave della 'ndrangheta. Gli emissari dei boss entrano dalla porta principale della politica e dell'economia. E, quando è possibile, lo fanno senza mettere bombe.

E ora la ’ndrangheta supera cosa nostra.  Intervista a cura di Sebastiano Gulisano del dicembre 2007. La struttura familiare e “orizzontale” dell’organizzazione criminale calabrese la rende meno vulnerabile, consentendole un più stretto controllo del territorio e l’espansione di traffici e affari in altre Regioni italiane, in Europa, Stati Uniti, Canada, Australia, America Latina. La strage di Duisburg, il suicidio del pentito del caso Fortugno, Bruno Piccolo, le inchieste del pm di Catazaro Luigi De Magistris e, infine, il pentimento di Angela Donato, la prima donna a tradire la ’ndrangheta, hanno, anche se a intermittenza, riacceso i riflettori su quella che viene ormai considerata la più potente organizzazione criminale italiana, con radici in Calabria e diramazioni in tutta Europa e in buona parte del mondo. Una holding criminale con un giro d’affari illegali da 30 miliardi di euro l’anno, che diventano quasi il doppio se si considerano le attività legali. La ’ndrangheta è stata a lungo la meno indagata, la più sottovalutata delle mafie italiane, anche se non meno pericolosa della camorra o di cosa nostra. A differenza delle altre organizzazioni criminali meridionali, è fortemente incentrata sulla famiglia di sangue, e ciò, da sempre, favorisce la segretezza e provoca pochissimi pentimenti. Un controllo del territorio ferreo, asfissiante, l’imposizione del pizzo a commercianti e imprenditori con una pervasività simile a quella di cosa nostra a Palermo e Catania, il controllo dei grandi lavori pubblici, come la Salerno-Reggio Calabria, “l’autostrada della ’ndrangheta”. Il recente rapporto annuale di Sos Impresa, l’associazione della Confesercenti che si occupa di racket e usura, a tal proposito, riporta una frase di Nicola Gratteri, pm della Direzione distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, che non lascia dubbi: “Qui né le imprese né la politica hanno la forza di imporsi, perché la ’ndrangheta ha un potere più asfissiante di cosa nostra. Controllano le loro zone come i cani quando fanno pipì e da lì non si passa”. La Commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Francesco Forgiane, calabrese di Rifondazione comunista, ha deciso di concentrarsi sulla ’ndrangheta, con l’obiettivo di arrivare alla prima relazione su questa potentissima organizzazione criminale. (Sempre che la legislatura non finisca prima.) Sarebbe un fatto storico. In passato, la Commissione ha fatto relazioni sulla Calabria, ma mai sull’organizzazione in quanto tale e, dunque, su tutte le sue ramificazioni anche fuori dalla regione originaria. Per capire cos’è ’ndrangheta, quale evoluzione storica ha avuto, in cosa differisce dalle altre mafie italiane, abbiamo intervistato Enzo Ciconte, storico della ’Ndrangheta, docente presso l’Università di Roma Tre, autore di numerosi saggi sull’organizzazione criminale calabrese, sulle altre mafie, sul traffico di esseri umani. E’ consulente della Commissione Antimafia.

Dottor Ciconte, don Masino Buscetta, storico pentito di mafia, raccontò al giudice Falcone che i boss di ’ndrangheta e camorra erano affiliati a Cosa Nostra, aggiungendo che non esistevano tre organizzazioni mafiose, ma una sola, quella siciliana. Tanto che quando c’era guerra in Sicilia, questa si propagava nelle altre regioni. Cos’è cambiato da allora?

«Si dà per scontato che Buscetta dicesse il vero, invece non lo diceva o non sapeva. È vero, all’epoca c’era la pratica di affiliare a cosa nostra i boss delle altre organizzazioni criminali del sud. Ma era una pratica reciproca. Il discorso di Buscetta può valere per la camorra, che allora era pulviscolare e viveva di contrabbando, dopo che all’inizio del Novecento era stata sbriciolata dal procuratore Cuoco. E ciò fino all’avvento di Cutolo…»

Dopo il terremoto dell’80 e gli affari conseguenti.

«Cutolo fonda la nuova camorra organizzata, federando i clan, e apre una polemica politica con coloro che non ci stanno, che definisce “asserviti ai siciliani”. Politica criminale, ovviamente. Il rapporto di cosa nostra con la ’ndrangheta, che ha un pedigree più solido della camorra, era invece paritario. E ci sono fatti che lo dimostrano. Negli anni Cinquanta, il dottor Michele Navarra, capomafia di Corleone, viene confinato a Gioiosa Marina dove, come racconta il collaboratore Giacomo Lauro, aveva “rapporti di affetto, amicizia e ‘rispetto’ con don Antonio Macrì”. Mico Tripodo, all’epoca capobastone di Reggio Calabria, è compare d’anello di Totò Riina: ciò non sarebbe stato possibile senza un rapporto paritario. In realtà, c’era la doppia affiliazione, una pratica che durante gli anni Novanta è andata diffondendosi fra mafiosi siciliani, calabresi, campani e pugliesi».

La pratica della doppia affiliazione ricorda la leggenda dei tre fratelli spagnoli che, nel Seicento, si stabilirono in Sicilia, Calabria e Campania dove avrebbero fondato le tre organizzazioni mafiose.

«Osso, Mastrosso e Scarcagnosso: una leggenda che ha un suo fondamento. Non dimentichiamo che, dopo le stragi, il pentito siciliano Leonardo Messina venne in Commissione Antimafia e parlò di una “mafia mondiale”. E, a proposito delle stragi, ricordiamoci che, prima, Riina e gli altri boss convocarono i capibastone della ’ndrangheta chiedendo un sostegno che non ebbero. Le organizzazioni di base sono uguali, mentre è diversa quella dei vertici; tutte hanno relazioni con la politica, la Chiesa, il padronato. I luoghi degli incontri, degli accordi, storicamente sono le carceri, le fiere e il Parlamento, ché i diversi referenti politici delle mafie si conoscono, si parlano».

Oggi è ancora così?

«Il rapporto è cambiato, oggi la ’ndrangheta è più forte: cosa nostra ha subito la forte repressione dello Stato successiva alle stragi, è stata scompaginata da tantissimi collaboratori di giustizia; la ’ndrangheta, invece, è stata meno investigata, la sua struttura familiare la rende meno vulnerabile, rende più difficile il pentitismo e, sotto l’aspetto criminale, la fa essere più affidabile di cosa nostra».

In cosa consiste l’“orizzontalità” della ’ndrangheta? Come funziona un’organizzazione criminale non verticistica?

«Nel ’91, con la “pace di Reggio Calabria”, che chiude la sanguinosa guerra degli anni precedenti, si crea una federazione tra le famiglie della Piana, della Locride e di Reggio i cui rappresentanti si riuniscono per decidere la spartizione degli affari e, quando questi riguardano l’intera regione, partecipano anche i rappresentanti delle famiglie delle altre province. A differenza di cosa nostra, dove la Cupola decideva tutto, qui ci si riunisce solo per gli interessi comuni e i grandi affari. La pace di Reggio, fra l’altro, sancisce la chiusura di tutte le faide. Per i figli di Giuseppe Grimaldi la pace è dura da digerire, il padre era stato ucciso, decapitato e la testa presa a fucilate e fatta rotolare in strada. I Grimaldi preferiscono emigrare a Genova e, dopo qualche anno, si pentono e mandano in galera i propri nemici»

La strage di Duisburg farebbe pensare alla fine della pace. O una strage all’estero – con quell’impatto mediatico – è ammissibile?

«Duisburg non è poi così lontana, “confina” con S. Luca. È a nordest di S. Luca. No, la pace non è finita. Però è vero che la Locride è il punto di maggiore sofferenza, dimostra l’incapacità della famiglia di S. Luca di governare il territorio, ed è un problema per tutta la ’ndrangheta.  Negli ultimi anni, abbiamo assistito a due fatti clamorosi che riguardano la Locride: l’omicidio di Francesco Fortugno e la strage di Duisburg. In entrambi i casi, una scelta diversa avrebbe dato significato diverso ai delitti: la strage di Duisburg non è frutto di necessità, potevano ucciderli uno alla volta, in momenti diversi; Fortugno, invece, se l’avessero ucciso un giorno prima o un giorno dopo, non sarebbe stata la stessa cosa. Assassinarlo il giorno delle primarie dell’Unione è una scelta politica. L’omicidio non è stato deciso a Locri, ma dalla cupola, saldando gli interessi della ’ndrangheta con quelli di ambienti della sanità, pubblica e privata, ma anche con ambienti e legami storici della “Santa”».

Cos’è la Santa?

«A metà degli anni Settanta la ’ndrangheta decise il suo ingresso nella massoneria. O meglio, lo decise in modo organizzato poiché pare che alcuni capibastone fossero già massoni. La decisione si accompagnò a una modificazione nella struttura di comando delle varie ’ndrine, utilizzata per creare una nuova denominazione, nuovi capi, nuove gerarchie: chi raggiungeva il grado di dantista era autorizzato a entrare nelle leggi massoniche. La ’ndrangheta, che prima era subalterna alla massoneria, decise di affrancarsi e di entrare in contatto diretto col mondo delle professioni e con gli interessi che erano direttamente rappresentati dalle logge. Per tre motivi: gli affari economici, la rappresentanza politica diretta, il rapporto coi magistrati».

Ovviamente, parliamo di logge massoniche riservate, coperte, non quelle ufficiali. Logge come la P2 di Licio Gelli.

«Un vero e proprio cambio di pelle, insomma; un cambio di ragione sociale che porta l’organizzazione ad avere rapporti diretti con la politica. E, storicamente, la ’ndrangheta ha una “colorazione” diversa da cosa nostra. La ’ndrangheta è sempre stata vicina alla destra, specie alla destra eversiva. Basti pensare ai moti di Reggio, alla partecipazione al golpe Borghese, alla protezione di Franco Freda, fuggito dopo il processo di Catanzaro per la strage di piazza Fontana; ma anche al coinvolgimento nel caso Moro o ai rapporti con la banda della Magliana. Nella Locride, dove la povertà era maggiore e forte il senso di abbandono da parte dello Stato, c’era una vicinanza al Pci, che però finì durante secondo dopoguerra. Da allora, i referenti politici della ’ndrangheta sono stati nella Dc e nel Psi e, dopo, in Forza Italia».

Facciamo un passo indietro. Che vuol dire che Duisburg confina con S. Luca?

«Semplice, vuol dire che dagli anni Sessanta in poi, oltre alla normale emigrazione, la ’ndrangheta ha spostato pezzi di cosche dalla Calabria alle città italiane e all’estero. E ormai le più importanti famiglie hanno due sedi».

Come Cutro e “Cutro due”, cioè Reggio Emilia?

«Esatto. Ma ciò accade in tante altre città, in Italia e all’estero. In tal senso Duisburg confina con S. Luca.»

Si spiega così il fatto che i due soli Consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose, fuori dalle cosiddette aree tradizionali – Bardonecchia, in Piemonte, nel ’95; Nettuno, nel basso Lazio, nel 2005 – è coinvolta la ’ndrangheta?

«È la riprova della capacità di infiltrazione e di condizionamento dell’organizzazione».

E le sue proiezioni internazionali? Oggi la ’ndrangheta viene riconosciuta come l’organizzazione leader in Europa nel traffico di cocaina. In quali nazioni è radicata?

«La ’ndrangheta è presente in tutti i Paesi europei. Ma anche in Australia, Stati Uniti, Canada, America Latina».

E con le altre mafie, con quelle non italiane, che tipo di rapporti intrattiene?

«Solo rapporti finalizzati al traffico di droga. Niente che possa lontanamente somigliare a quello con cosa nostra di cui si parlava prima».

Nel ’93 un rapporto della Dia sosteneva che il 27 per cento della popolazione calabrese sarebbe in qualche modo coinvolta con la ’ndrangheta. Una percentuale abnorme, più di un quarto della popolazione. E poi c’è il fatto che la Calabria, per la sua conformazione, è fatta di Comuni piccoli e piccolissimi, molti dei quali sotto i mille abitanti. Ciò facilita la capacità di condizionamento?

«Che significa “coinvolta”? E poi, come si fa a quantizzare? A me sembra una percentuale spropositata. Però, al di là delle dispute numeriche, c’è l’altro aspetto che è fondamentale: la più grande città calabrese è Cosenza, 120mila abitanti, cioè quanto un quartiere di Palermo. Nei piccoli centri, cioè nella maggior parte dei Comuni calabresi, basta una decina di mafiosi per esercitare un controllo fisico, visivo delle persone, per condizionargli la vita».

Come succedeva a Calanna, mille abitanti, dove il boss locale, Giuseppe Greco, imponeva una sorta di jus primae noctis, prendendosi tutte le donne che gli piacevano. Greco, in una telefonata intercettata, si vantava anche di potere controllare come votava ogni cittadino, di potere “mettere le mani nelle urne”. Avviene così in ogni Comune?

«Be’, il controllo del voto non è una sua prerogativa e nemmeno della sola ’ndrangheta. Con la preferenza multipla lo facevano anche i partiti. Ma anche con la singola preferenza lo si può fare, trovando altri tipi di combinazioni: Mario Rossi, dottor Mario Rossi, Rossi dottor Mario e così via. E poi c’è la “scheda matta”. Ci si impossessa di una scheda elettorale, si esprime il voto di preferenza, la si dà all’elettore, che la deposita nell’urna e riporta la scheda cianca che gli è stata consegnata nel seggio, in modo che il mafioso possa votarla e consegnarla a un altro elettore…»

Sembra la sorte dei comunisti di oggi…

Vogliamo fare la storia e non subirla: al lavoro! Un milione di voti comincia ad essere un carico pesante per un Partito come il nostro, scrive Benito Mussolini, pubblicata Martedì 02/08/2016 “Il Giornale”. Bando alle illusioni e parliamoci chiaro, ora che il momento è opportuno. Che il Partito Socialista abbia condotto una buona battaglia e che i suoi sforzi siano stati coronati dal più lusinghiero successo, nessuno contesta più. È un fatto. Sono cifre. Ma... son dolori se il Partito crede o s'illude di aver compiuta l'opera spazzando via dalla scena politica parecchi rappresentanti della reazione dernier cri, e i dolori aumenteranno se la elezione di 53 deputati sembrerà a taluno giustificazione sufficiente per ricadere nell'inerzia fatalistica che ha seguito sempre ogni agitazione elettorale. Diciamo la verità, noi, prima degli stessi avversari: un milione di voti comincia ad essere un carico alquanto pesante per un Partito come il nostro. Noi abbiamo vinto un po' per virtù nostra, ma moltissimo per la debolezza dei Partiti che ci stavano di fronte, e per un complesso di circostanze a noi propizie. Sulle quali si potrà - a tempo opportuno - ragionare. Noi non sappiamo se in un'altra «congiuntura» per dirla con un tedeschismo, riusciremo a strappare una così brillante vittoria. E poiché i Partiti si organizzeranno come noi, formando gruppi e federazioni; poiché la storia - checché si possa dire in contrario - non si ripete, ma presenta sempre nuove situazioni di fatto e nuovi problemi, è necessario non abbandonarci ai facili entusiasmi cui seguono immancabilmente le dolorose sorprese. È necessario agguerrirci. È necessario agguerrire il Partito che è l'organo delle nostre conquiste politiche. Questo diciamo ai deputati vecchi e nuovi, i quali hanno dispiegato un'attività veramente encomiabile durante il periodo elettorale; questo diciamo ai propagandisti - illustri o no - del Partito che hanno corso in lungo e in largo l'Italia portando la parola del socialismo dalle città ai borghi, alle campagne; questo diciamo ai quarantamila inscritti del Partito che leggono, o dovrebbero leggere, le nostre parole. Noi diciamo che paragonato a ciò che resta da fare, il già fatto è poco. Noi sappiamo una cosa sola: che la piattaforma elettorale del Partito Socialista ha trovato quello che si direbbe un ambiente «simpatico», ma niente ci autorizza a ritenere che questo ambiente sarà lo stesso domani o non sarà invece indifferente o refrattario. Noi non possiamo fare eccessivo calcolo sulla massa elettorale e per ragioni intuitive: la nostra milizia è il Partito. Ora, riflettano bene i socialisti italiani, il pericolo che si delinea è uno solo: quello, cioè, che il Partito resti schiacciato sotto il pondo inaspettato delle sue stesse vittorie elettorali. Il caso non è nuovo nella storia e nella vita. Si può cadere toccando una meta, si può morire nell'atto di dare la vita, si può essere dei vinti vincendo. Dinanzi a tali eventualità, noi, come si vede, non indugiamo molto a lanciare il nostro grido d'allarme. Prima del suffragio universale accadeva spesso di udire tra i socialisti italiani frasi di questo genere: Ah se noi avessimo un milione di voti!...Ecco: il milione di voti c'è; e, forse, abbondante. Questa enorme massa elettorale ci ha creduto, ha riposto fiducia in noi e...aspetta. Ma noi saremo incapaci di realizzare uno solo dei postulati del nostro programma elettorale, se il Partito non raddoppierà almeno i suoi contingenti; se i quarantamila inscritti non diventeranno ottanta o centomila; se questo giornale non circolerà sempre più diffusamente fra le moltitudini che l'esperimento del 26 ottobre ha lanciato nel girone della vita politica. Un Partito come il socialista, non può rassegnarsi ad avere un'influenza meramente elettorale. Prima di tutto perché le elezioni non sono che un episodio preliminare di una più vasta attività politica; in secondo luogo perché nella vita dei popoli moderni ci sono avvenimenti dai quali - pena il suicidio - il Partito non può essere dominato o travolto. Il milione di voti che noi volevamo toccare e abbiamo toccato, è cagione di legittimo orgoglio, ma è anche di gravissima preoccupazione e responsabilità. Noi non possiamo più retrocedere, e nemmeno sostare. Alle prossime elezioni politiche - diciamo prossime perché è convincimento generale che la nuova legislatura non avrà lunga vita - se noi non aumenteremo ancora il numero dei voti, gli avversari ritorneranno a cantarci più noioso e insistente l'elogio funebre. E se i nostri voti diminuissero che cosa diventerebbero - nel ricordo - i funerali simbolici che noi abbiamo fatto nei giorni scorsi agli altri? Questi interrogativi ci dicono tutta la portata e l'«urgenza» del compito che il Partito è chiamato ad assolvere. Avanzare! questa è la parola d'ordine. Gli uomini moderni vanno in fretta più che i morti della ballata di Burger e noi socialisti abbiamo più fretta degli altri. Noi vogliamo vedere trasformarsi sotto ai nostri occhi la realtà e coll'opera delle nostre mani. Noi vogliamo «fare» la storia e non subirla. Incidere sulle istituzioni e sugli uomini che ci circondano sempre più profondo il segno della nostra volontà. Al lavoro! Al lavoro! La strada è aspra e la meta è lontana. 4 novembre 1913

I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA

Una polemica scatenata dallo scrittore Leonardo Sciascia, scrive Giulia Grassi. Qualche anno prima di morire Paolo Borsellino, e tutto il pool antimafia di Palermo, sono stati coinvolti in una polemica nata da un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 10 gennaio 1987. L'articolo era intitolato "I professionisti dell'antimafia" e questa era la sua tesi di fondo: in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è dichiararsi antimafioso, usare l'"antimafia come strumento di potere", come mezzo per diventare potenti ed intoccabili. Era firmato da Leonardo Sciascia, uno scrittore molto famoso per i suoi libri nei quali aveva parlato della violenza del potere mafioso, come il bellissimo "Il giorno della civetta". Tra gli esempi di professionisti dell'antimafia Sciascia citava proprio Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato capo della Procura di Marsala al posto di un collega più anziano di età (evidentemente per la sua maggiore conoscenza del fenomeno mafioso). Probabilmente Sciascia voleva solo mettere in guardia contro il pericolo che qualche magistrato o politico disonesto potesse sfruttare la lotta alla mafia per i suoi interessi personali. Sicuramente lo scrittore era in buona fede ... ma citare Borsellino come "esempio attuale ed effettuale" di professionismo mafioso, insinuare il dubbio che il magistrato avesse fatto carriera grazie alla lotta alla mafia, è stato un errore, sfruttato abilmente dai nemici del pool. Anche i grandi intellettuali possono sbagliare. Per i 15 giorni successivi i giornali sono stati occupati da articoli contrari (pochi) e favorevoli (la maggior parte) allo scritto di Sciascia, che a sua volta ribadiva il suo pensiero in alcune interviste: "Ieri c'erano vantaggi a fingere d'ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi" (Il Messaggero); il potere fondato sulla lotta alla mafia "è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista" (Il Giornale di Sicilia); "In nome dell'antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante" (Intervista al Tg2 - secondo canale TV). E Borsellino? Non ha mai replicato a Sciascia, mai. Giuseppe Ayala, un ex magistrato che ha lavorato con Falcone e Borsellino nel pool di Palermo, nel suo libro "La guerra dei giusti" (1993) cita una frase di Borsellino: "La risposta sarà il silenzio. Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo". Ma l'amarezza deve essere stata profonda. Un mese dopo l'assassinio di Falcone, e 23 giorni prima del proprio assassinio, Borsellino dichiarava: "Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l'anno prima: quando Sciascia sul "Corriere" bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'antimafia" (Palermo, 26 giugno 1992).

“Contro l’Antimafia”. Matteo Messina Denaro, l’invisibile, è il più potente boss di Cosa nostra ancora in libertà. È a lui che dalla radio della sua città, Marsala, si rivolge ogni giorno Giacomo Di Girolamo nella trasmissione Dove sei, Matteo?, ed è a lui che si rivolge in questo libro: stavolta, però, con un’agguerrita lettera di resa. Di Girolamo non ha mai avuto paura di schierarsi dalla parte di chi si oppone alla mafia. Ma adesso è proprio quella parte che gli fa paura. Ha ancora senso l’antimafia, per come è oggi? Ha avuto grandi meriti, ma a un certo punto è accaduto qualcosa. Si è ridotta alla reiterazione di riti e mitologie, di gesti e simboli svuotati di significato. In questo circuito autoreferenziale, che mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, si insinuano impostori e speculatori. Intorno all’antimafia ci sono piccoli e grandi affari, dai finanziamenti pubblici ai «progetti per la legalità» alla gestione dei beni confiscati, e accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo che assolve tutto e tutti. Non è più questione di «professionisti dell’antimafia»: oggi comanda un’oligarchia dell’antimafia, e chiunque osi metterla in discussione viene accusato di complicità. Di Girolamo scrive allora a Matteo Messina Denaro. Scrivere al grande antagonista, al più cattivo dei cattivi, è come guardarsi allo specchio: ne emerge, riflessa, l’immagine di una generazione disorientata, che assiste inerme alla sconfitta di un intero movimento, alla banalità seriosa e inconcludente delle lezioni di legalità a scuola, alle derive di un giornalismo più impegnato a frequentare le stanze del potere, politico o giudiziario, che a raccontare il territorio. Contro l’antimafia è un libro iconoclasta, amaro, che coltiva l’atrocità del dubbio e giunge a una conclusione: per resistere alle mafie serve ripartire da zero, abbandonando la militanza settaria per abbracciare gli strumenti della cultura, della complessità, dell’onestà intellettuale, dell’impegno e della fatica.

Giacomo Di Girolamo, giornalista, si occupa di criminalità organizzata e corruzione per il portaleTp24.it e per la radio Rmc 101. Collabora con Il Mattino di Sicilia, la Repubblica e Il Sole 24 Ore. È autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro L’invisibile (2010), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella) e Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014). Per le sue inchieste ha vinto nel 2014 il Premiolino.

L’atto d’accusa contro l’antimafia di Di Girolamo, scrive Antonino Cangemi il 23 febbraio 2016. La babele dell’antimafia –folta, eterogenea, ambigua, la carovana degli antimafiosi, e legata a centri di potere talvolta di per sé non cristallini, tal’altra insospettabili– impone riflessione e indignazione. Una riflessione indignata ce la offre Giacomo Di Girolamo nel suo ultimo libro, “Contro l’antimafia”, edito da Il Saggiatore. Giacomo Di Girolamo non è uno qualsiasi. E’ un giornalista che, da un’emittente del Trapanese, conduce da tempo, senza tanti compagni di ventura, un monologo dedicato a Matteo Messina Denaro, tuttora primula rossa di Cosa nostra, di cui pare essere divenuto il numero uno. Lo segue in tutti i suoi passi, ossessivamente, dalla sua radio. Lo interroga, gli chiede spiegazioni, lo tallona, lo incalza, ricordandogli le tappe della sua escalation criminale. D’altra parte, pochi, nel mondo della carta stampata, conoscono Messina Denaro come Giacomo Di Girolamo, che al boss di Castelvetrano ha dedicato una biografia, oggi, chissà perché, introvabile, ricca di dettagli e di particolari, “L’invisibile” (Editori Riuniti, 2010). In quella biografia, Di Girolamo si rivolgeva al capomafia dandogli del tu, senza alcuna remora. In “Contro l’antimafia” –che segue altri interessanti saggi, anch’essi editi da Il Saggiatore, “Cosa grigia”, “Dormono sulla collina, 1969-2014” – Di Girolamo continua a rivolgersi all’interlocutore di sempre, Matteo Messina Denaro, e ancora dandogli del tu. Ma questa volta il giornalista spavaldo, aggressivo, sprezzante, cede il passo –apparentemente- al cronista, vinto dalla malinconia, che ammette la propria sconfitta. Il cronista che, come tantissimi della sua generazione, dalle stragi di Falcone e Borsellino, aveva individuato un nemico terribile, malefico, diabolico –la mafia- e contro di esso aveva speso ogni energia, e che ora si rende conto che – Matteo Messina Denaro ancora libero e professionisti dell’antimafia, giorno dopo giorno, smascherati nelle loro pantomime- Cosa nostra è sempre più salda e il fronte antimafia sempre più contraddittorio e fumoso. “Contro l’antimafia” è un libro scomodo, dissacratorio, impertinente – come nello stile di Di Girolamo -, non fa sconti a nessuno, rivela verità palesi e occulte, punta i riflettori sul panorama, variegato e non di rado sinistro, dell’antimafia in doppiopetto, col piglio del giornalismo investigativo e con le lenti di un sociologismo accorto. Le denunce di Di Girolamo, tuttavia, per quanto accompagnate da un’accorata e dolorosa autocritica – che rinvia alle osservazioni profetiche di Sciascia- e da un lancinante e sofferto pessimismo, hanno in sé quella potenza reattiva che, lungi dall’invitare a demordere, esorta implicitamente, pur nella consapevolezza delle tante zone grigie dell’antimafia, a duplicare il proprio impegno. Esorta quelli che ci credono davvero, naturalmente; non altri.

CONTRO L’ANTIMAFIA. Recensione di Nino Fricano. Un libro rischioso, che provocherà durissime reazioni. Ci saranno tonnellate di mugugni “privati” contro questo libro, ci saranno incazzature, indignazioni, imprecazioni. Ci sarà poi una bolgia “pubblica” sui social network, ci saranno interventi sui giornali, probabilmente fioccheranno querele, e chissà cos’altro ancora. Ma il rischio maggiore è un altro, argomentano quelli che già hanno cominciato a scagliarsi contro questo libro (almeno quelli che argomentano, molti altri insultano e basta). Il rischio maggiore è quello di contribuire a delegittimare l’antimafia “per principio”, “a prescindere”, “fare di tutta l’erba un fascio”, “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, “il cesto di mele e le mele marce”, “alimentare la macchina del fango”, e così via di luoghi comuni.

Non puoi denunciare così, senza concedere attenuanti, le tante piccole grandi magagne dell’antimafia. Le tante piccole grandi cose-che-non-vanno nell’antimafia, le sue vanità, i suoi egoismi, le sue idiozie, le sue vigliaccate, le sue furberie, le sue prese in giro, le sue arrampicate, i suoi affarismi, i suoi personaggi turpi e disonesti, le sue truffe allucinanti, incredibili. Roba che cadono le braccia a terra, che c’è da strapparsi i capelli, sbattersi la testa contro il muro. Non puoi farlo, dicevamo, perché la gente rischia di generalizzare. Non puoi attaccare così duramente l’antimafia perché questa rischia di perdere la sua credibilità e quindi la sua efficacia. Il problema però è che l’antimafia – o forse è meglio dire “il movimento antimafia”, o meglio ancora “la parte maggioritaria e più visibile e più arrivista del movimento antimafia” – ci è riuscita da sola, a perdere la propria credibilità e la propria efficacia. E l’autore lo dimostra offrendoci lo scorcio giusto, mettendo a fuoco il panorama, riunendo e collegando – cioè – le ultime notizie, gli ultimi scandali, le ultime oscenità, le ultime nostre amarissime sconfitte. È un tunnel dell’orrore. Ci sono dirigenti regionali che gestiscono beni sequestrati con logiche privatistiche e affaristiche, di sfruttamento e arricchimento personale. Ci sono amministratori delle aziende sequestrate che se ne fregano della buona gestione, che affamano il territorio, che fanno fallire le aziende sequestrate, che lasciano in mezzo alla strada 72mila lavoratori in tutta Italia. Ci sono sindaci e imprenditori che fanno proclami antimafia e poi vengono beccati a braccetto con i mafiosi. Ci sono soggetti che cavalcano le intimidazioni subite, vere o presunte, per fare affari spudoratamente, arrivando perfino a truffare sui finanziamenti ricevuti. C’è il business del progetto per la legalità. C’è il business del terreno confiscato. C’è il business della costituzione di parte civile. Ci sono i professionisti di questo grottesco business: presidi, insegnanti, ragionieri, avvocati, azzeccagarbugli, faccendieri, traffichini, intrallazzatori. E poi ci sono le cooperative antimafia, le associazioni antimafia, le manifestazioni antimafia, i comitati antimafia, i politici antimafia, i giornalisti antimafia, gli artisti antimafia. C’è l’utilizzo dell’etichetta di antimafia per portare avanti operazioni poco pulite e senza nessun controllo. C’è l’utilizzo dell’antimafia come un qualunque altro strumento della lotta politica e affaristica, e dunque una cosa come un’altra, una cosa qualunque, che può servire – come tutte le cose qualunque, in questa irrimediabile e irredimibile terra – a perseguire interessi più o meno leciti. E questi sono i furbi, i profittatori, che possono essere di grosso calibro e di piccolo calibro, spostandosi lungo l’asse che va dal semplice accattonaggio da miserabili fino alla delinquenza vera e propria, la delinquenza da delinquenti, il tutto condito da una evidente dose di sciacallaggio. Poi però ci sono i cretini, gli utili idioti. Ci sono anche loro, non mancano mai di questi tempi. Sono quelli che portano avanti un’antimafia fatta di vuote celebrazioni, manicheismo ottuso, cori da stadio, retorica, slogan. Nessuno spirito critico, nessun ragionamento, nessuna intelligenza, nessuna voglia di abbracciare la complessità del reale, nessun interrogarsi sul reale, nessuna voglia di comprendere il reale. Soltanto un insieme di dogmi, santini e ritualità. Un campo dove tutto diventa idolo, icona. E le icone, si sa, sono entità cristallizzate e iperuraniche, astrazioni incapaci di dialogare con il presente e con il concreto. Le icone sono soprammobili che si mettono su un ripiano che non dà fastidio a nessuno e sono destinate a riempirsi di polvere. Le icone sono inutili, e nel campo dell’antimafia ridurre a icone Falcone e Borsellino, Peppino Impastato e Libero Grassi, ad esempio, è più che inutile, è dannoso. Dunque, i profittatori e i cretini. Due facce della medaglia. E la medaglia è il fallimento dell’antimafia. Una cosa buona avevamo in Italia, verrebbe da dire, e abbiamo rovinato pure quella. Perché è avvenuto come uno sfasamento tra mafia e antimafia. Un processo che adesso è giunto a una fase cruciale. Se la mafia, dopo le stragi del ’92/’93 ha cambiato pelle (per l’ennesima volta nella sua storia), si è resa invisibile, liquida, meno radicata nel territorio, globalizzata e finanziaria, l’antimafia si è invece istituzionalizzata, è diventata tronfia, vuota e retorica, si è incancrenita, e molti suoi settori sono finiti in mano alla sconfortante fauna umana descritta in precedenza: sciacalli, furbi, profittatori, accattoni, delinquenti, cretini e utili idioti. Una fauna così ingombrante, chiacchierona, rumorosa – per motivi di interesse o per semplice idiozia – che rischia di seppellire definitivamente tutti i soggetti e le realtà associative che nell’antimafia avrebbero invece qualcosa di buono da dire e da fare, energie da spendere in modo utile, innovazioni e speranza da donare. Questo processo di sfasamento, di traiettorie inverse e intrecciate tra mafia e antimafia, conduce al paradosso di un’antimafia che lotta, o meglio finge di lottare, contro una mafia che non esiste più, con mille distorsioni di conseguenza. Questa la portata storica di questo libro qui. Un libro amarissimo, terribile. Un libro personalissimo, uno sfogo di uno che “c’è dentro”, una critica all’antimafia da parte di uno che fa antimafia e quindi, in qualche modo, anche una sorta di autocritica, ma anche un documento di rilevanza storica, che fotografa un ben preciso fenomeno collettivo.

Un libro che non è solo un’inchiesta giornalistica, però, che non parla soltanto di mafia, politica ed economia, ma che analizza anche un fenomeno “culturale” con passione e autorevolezza, un fenomeno che riguarda la semantica e la narrazione dell’antimafia, e più in generale la violenza e la disonestà intellettuale, la faziosità e l’intolleranza, la pigrizia e il dilettantismo che cova sotto i dibattiti pubblici dei giorni nostri. Un libro inoltre che presenta alcune tra le suggestioni più potenti in cui mi sia imbattuto negli ultimi anni (i Moai dell’Isola di Pasqua), racconti efficacissimi e strazianti (i dipendenti licenziati dal gruppo 6Gdo che emergono dal silenzio come fantasmi), pagine – insomma – di altissima letteratura. L’autore è Giacomo Di Girolamo, classe 1977, credo il migliore giornalista che ci sia in Sicilia. È uno che da vent’anni, tutti i giorni, si sporca le mani con l’informazione locale. Ha fondato e diretto un notiziario online in provincia di Trapani, conduce una trasmissione in radio (“Dove sei Matteo?”, sulle tracce di Messina Denaro), collabora con numerose testate tra cui Repubblica e Il Sole 24 Ore, ha scritto libri magnifici tra cui la prima autobiografia di (di nuovo) Matteo Messina Denaro. È un giornalista di provincia che non è mai provinciale, ha una visione chiara e luminosa delle cose, frutto di quasi vent’anni di informazione attenta, quotidiana, sul territorio. Cronache, interviste, opinioni, inchieste. Il suo “essere” antimafia è un “fare” antimafia. Il suo fare antimafia, il suo essere molto probabilmente il più grande esperto di Matteo Messina Denaro in Italia, è la logica conseguenza della sua quotidiana attività di informazione. È un giornalista che racconta la mafia e che quindi fa antimafia. E per questo può permettersi un libro come questo, sull’antimafia, contro l’antimafia. Un libro rischioso ma anche tremendamente coraggioso. E onesto. E importante. Di Girolamo, infine, è secondo me un personaggio emblematico anche per altre ragioni. È uno che vive sulla sua pelle i prezzi da pagare che ci sono per chi vuole raccontare la realtà che lo circonda in un contesto come quello della Sicilia e della provincia siciliana. E cioè, come ha scritto una volta su Facebook: “Ex amici che non ti salutano più, persone che ti odiano, tifosi di questo o quel politico che ti insultano; querele e citazioni ad ogni piè sospinto, via via sempre più pretestuose; minacce che arrivano a me, alla redazione, alle persone a me vicine, telefonate anonime, biglietti con le croci, incontri ravvicinati”. D’altronde Sciascia lo diceva tanti decenni fa, e le cose almeno da questo punto di vista non sono cambiate di tanto: “Lo scrittore in Sicilia è un delatore, un traditore, che racconta cose che l’opinione comune preferisce restino sotto un silenzio carico di commiserazione”.

Giacomo Di Girolamo il 20 maggio 2014 su “Facebook". Sono stanco di chi usa l'antimafia per conservare potere o per fare carriera. Non abbiamo bisogno di un'antimafia un tanto al chilo, fatta di simboli, di gestione di grandi e piccoli affari in nome del bene supremo che tutto assolve. Abbiamo bisogno di un'antimafia che semini dubbi, che ponga ragionamenti, dia contenuti. E siccome mi sono stancato davvero, ho deciso da un po' di tempo a questa parte che questa cosa l'andrò ripetendo ovunque ci sarà l'occasione, anche a costo di apparire più stronzo o più pazzo di quello che già sembro di mio. Non serve a cambiare le teste quadrate, perché le truppe dell'antimafia sono ben istruite dai leader di turno come una setta di Mamma Ebe e tutto assorbono senza colpo ferire e rispondendo a tono con qualche frase del vangelo di Falcone e Borsellino appena c'è un minimo di dissenso rispetto all'antimafioso pensiero dominante. Però serve, da giornalista e cittadino libero, ancora una volta, per dare un senso ad un mestiere. Parlate di mafia, parlatene ovunque, diceva lo stracitato Borsellino (del quale si conoscono i versetti principali, come Maometto...). Siccome tutti, dalle parti dell'antimafia, si divertono a completare l'assioma: ah, se Falcone fosse vivo, oggi..., ah, se Borsellino fosse vivo, oggi...Mi ci metto anch'io. Se Borsellino fosse vivo oggi, direbbe anche: parlate di antimafia, parlatene ovunque. Ecco perché lo faccio. E lo ripeto ancora una volta: oggi l'antimafia ha ragione d'essere se è antimafia di cultura, di saperi, di formazione, di studio, di analisi, di tutto ciò che richiede attenzione, tempo, fatica.

"Contro l’antimafia". Il nuovo libro di Giacomo Di Girolamo. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Pubblichiamo il prologo del nuovo libro di Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia, edito dal Saggiatore. Qui l’autore ne parla con Attilio Bolzoni.

Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Sia maledetto Goethe. Sia maledetto tutto, di quel suo viaggio in Sicilia, dalla nave che lo portò a Palermo al taccuino su cui prese appunti: «il posto più stupendo del mondo», «l’unità armonica del cielo con il mare», «la purezza dei contorni». Siano maledetti tutti i viaggiatori d’Occidente, che hanno parlato di «capolavoro della natura», «divino museo d’architettura», «nuvola di rosa sorta dal mare». Siano maledetti i paesaggi da cartolina. Le cartoline, no. Quelle non c’è bisogno di maledirle, già non esistono più. Siano maledette, però, tutte le immagini sui social, i paesaggi su Instagram, i gruppi su Facebook del tipo «Noi viviamo in paradiso». Siano maledetti i tramonti sul mare. Sia maledetta la bellezza. Sia maledetta la luce nella quale siamo immersi, che sembra una condanna. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Sia maledetto tu, Matteo Messina Denaro. Ancora una volta: che tu sia maledetto. Perché tu e i mafiosi come te ci avete condannati a non poter godere di tutto questo, a non meritare davvero il paradiso nel quale viviamo. Troppa violenza, sotto questo cielo. Troppo dolore. A che serve avere il paradiso, se ogni giorno va in scena l’inferno? Sia maledetto Goethe. Non avrebbe dovuto scriverci il diario di viaggio, in Sicilia, ma ambientare la tragica storia del Dottor Faust, in questo proscenio di nebbie e di vapori invisibili. Tu sei il diavolo, Matteo, a te abbiamo venduto l’anima. Sia maledetta la mafia, che tu rappresenti come ultimo padrino ancora in circolazione, latitante dal 1993. Sia maledetta Cosa nostra, Totò Riina e chi ne ha eseguito gli ordini di morte, i Corleonesi e la tua famiglia, che dal piccolo borgo di Castelvetrano ha costruito un impero fondato sul sangue, che mi fa vergognare di essere tuo conterraneo. Io non ho paura di te, Matteo. Ti conosco ormai come un fratello maggiore. So tutto di te, tranne dove sei. Non mi ha mai fatto paura raccontare la tua violenza, gli omicidi, quelli commessi dalla tua gente, i vostri affari sporchi, dalle estorsioni agli appalti truccati… Questo di mestiere faccio: raccontare quello che vedo, e anche se sei invisibile ti vedo e ti vedo sempre, Matteo. Mi guardo intorno e scrivo. Guardo le persone negli occhi e poi racconto il loro sguardo alla radio. Seguo i tuoi passi e scrivo. E sorrido. Sorrido per prendermi gioco della luce che non mi merito, sorrido perché penso di essere anche io un tassello della tua storia; anche io faccio parte del tuo indotto. Come le famiglie dei carcerati: senza la distribuzione dei soldi delle estorsioni, come camperebbero? Per me vale un po’ la stessa cosa: senza di te, Matteo, di cosa mi occuperei? Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Senti, mi dicono, perché non fai una nuova edizione di quel tuo libro su Matteo Messina Denaro? Va ancora alla grande, lo leggono i ragazzini, lo adottano nelle scuole. Che coraggio che hai avuto, a scrivere quel libro, tu che ti rivolgi al boss, questa conversazione senza peli sulla lingua. Tanta ferocia messa nero su bianco. E allora perché non lo riprendi, questo bel libro, lo aggiorni, ci aggiungi altre quattro-cinque cose? Già, perché non lo faccio, Matteo? Quante cose so di te che ancora non ho scritto? Io sono quello che ti chiama ogni giorno, per nome, alla radio. C’è il jingle che fa «Dove sei, Matteo?», e poi la mia voce che dà un indizio, a volte un fatto di cronaca, a volte uno scoop, a volte un modo un po’ paraculo di arrivare comunque a te («Oggi comincia la scuola, e allora perché non ricordiamo gli studi di Matteo Messina Denaro…»). La nostra conversazione non si è mai interrotta, Matteo, continua ogni giorno. Solo che non ha più senso parlare di te, della tua stramaledettissima vita criminale. Qui voglio parlare d’altro. Della mia paura. E ho bisogno di capire. Ho bisogno di parlarti di quello che succede su un fronte che non è il tuo, in quella che chiamano antimafia. Di cosa è diventata la lotta alla mafia oggi, quali mostri ha generato, quali storture si nascondono sotto l’ombrello della legalità. Ti scrivo per raccontarti questa mia paura: che la parte che ho sempre creduto giusta alla fine si sia trasformata in qualcos’altro, un luogo di compromessi al ribasso, di piccole e grandi miserie, di accordi nell’ombra per spartirsi soldi e potere. E a volte mi sembra come una piccola mafia. Ho sempre lottato da una parte. Sono nato un sabato di maggio del 1992. Da allora ho sempre lottato da una parte. E adesso è proprio quella parte che mi fa paura. Ti scrivo per sapere magari da te, che sei il male, chi sono i buoni, dove sono i buoni. E per capire come mai, in questa fogna del potere che è la mia terra, quelli che dovrebbero essere i buoni, perché tali si proclamano, perché mi hanno insegnato così, perché da qualche parte sta scritto che è così, alla fine, sembrano assomigliarti davvero tanto, Matteo. Che differenza c’è tra la legalità e questa pantomima della legalità che abbiamo messo in scena? Devo rifare i conti con tutto. Prima di tutto con me stesso. I dannati siamo noi. Mi sento come un vampiro. Scappo dalla luce, evito gli specchi. Ho paura di vedermi, di non riconoscermi più. E allora questa è una lettera di resa. Tu hai vinto, Matteo. E non solo per la sfrontatezza della tua latitanza o per il nuovo patto criminale che hai orchestrato, e che oggi coinvolge interi settori della classe dirigente e della borghesia «impegnata» del nostro paese. Hai vinto perché, più o meno inconsapevolmente, hai fatto in modo che nasca un senso di nausea ogni volta che si parla di antimafia, il tarlo del sospetto: dov’è la fottuta? Dove i tradimenti, i rospi da ingoiare, in nome di «supreme ragioni»? Hai vinto per questo, Matteo, perché abbiamo fatto dell’Italia-Sicilia, e della Sicilia, un pantano. Perché in tanti ti hanno venduto l’anima, pur di ottenere un brandello di potere; ma ne conosco molti – più bestie di qualunque bestia – che te l’hanno addirittura regalata. E sempre più spesso non me li trovo di fronte, me li trovo accanto. Sia maledetta la mafia. Sia maledetta l’antimafia. Sia maledetto anche io.

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 giugno 2016. Caro Dago, sarà perché non ho una grande opinione di tutto quanto attiene alla produzione editoriale fatta all’insegna dell’ “antimafia”, una vera e propria industria con le sue star e i suoi professionisti e i suoi occupati a pieno tempo, fatto è che appena l’ho visto citato su “Il”, il supplemento mensile de “Il Sole 24 ore” diretto da Christian Rocca, mi sono precipitato a leggere questo ultimo libro di Giacomo Di Girolamo (edito dal Saggiatore) che ha per titolo “Contro l’antimafia”. Un titolo leccornia per le mie orecchie. Un libro che sto leggendo con molto piacere e curiosità. Non conosco di persona Di Girolamo, che ha poco meno di quarant’anni, vive a Marsala e di mestiere fa il giornalista, il mestiere di chi va a vedere di persona, e cerca i dati e li mette assieme, e incontra le persone e le interroga con le domande giuste. A Marsala, in Sicilia, dove la mafia non è un’astrazione letteraria ed è di mafia che Di Girolamo si occupa da free lance. Lavora alla radio Rmc101, collabora ad alcuni quotidiani. Se capisco bene è uno che lavora alla maniera di Giancarlo Siani, il giornalista napoletano che si suicidò da quanto si reputava inerme nella sua lotta solitaria contro la camorra; alla maniera di Alessandro Bozzo, un giovane giornalista calabrese che si occupava di criminalità e che si suicidò nel 2013; alla maniera di Giuseppe Impastato macellato dalla mafia siciliana come ormai tutti voi sapete. Da quel che leggo Di Girolamo ne sa benissimo di mafia, e soprattutto di Matteo Messina Denaro, l’imprendibile primula rossa della mafia siciliana. Su di lui aveva scritto nel 2010 un libro pubblicato dagli Editori Riuniti che venne ristampato più volte e di cui non gli hanno mai pagato una sola copia. Per dire della sua vita a Marsala, i portinai del palazzo dove abita non lo salutano più da quando hanno saputo che Di Girolamo riceve continuamente minacce epistolari dai mafiosi. Non essendo una star dell’“antimafia” mi pare di capire che la vita professionale dell’ottimo Di Girolamo sia grama. A un quotidiano a tiratura nazionale cui aveva offerto la sua collaborazione, gli hanno risposto che gli avrebbero pagato un articolo lungo 11 euro e un articolo breve 6 euro. Da quanto leggo nella redazione di Rmc 101 dove Di Girolamo va tutti i giorni non c’è protezione alcuna, e chiunque potrebbe salir su in qualsiasi momento del giorno a fare quello che hanno fatto a “Charlie Hebdo”. Non mi pare, a meno che non abbia letto male, che Di Girolamo abbia la benché minima scorta. E perché mai del resto? Mica è una star, un’icona, un celebrato eroe televisivo dell’ “antimafia” 24 ore su 24? E adesso continuo a leggere il suo bel libro. Giampiero Mughini.

Senza dimenticare i misteri d'Italia.

4 agosto 1974: la strage del treno Italicus. Italicus: segreto di Stato? Fu apposto nel 1982, ma tolto nel 1985. Nell’anniversario della strage del treno si torna a parlare delle norme che tolgono il segreto di Stato. In realtà la lenta desecretazione incide poco sulla ricerca della verità, scrive Valeria Palumbo il 4 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera.” Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 il treno espresso 1486 “Italicus” stava viaggiando da Roma a Monaco di Baviera. Alle ore 1.23 mentre attraversava la galleria di San Benedetto Val di Sambro, in provincia di Bologna, una bomba ad alto potenziale esplose nella quinta carrozza. I morti furono 12, i feriti 44. Tra le vittime anche un giovane ferroviere di 24 anni, Silver Sirotti, che era sopravvissuto alla bomba, ma morì cercando di salvare i passeggeri dal terribile rogo che si era sviluppato. A Sirotti, già medaglia d’oro al valor civile, il 4 agosto 2016, è stato intitolato un parco a Forlì, la sua città (in via Ribolle): il sindaco e i familiari hanno partecipato alla cerimonia commemorativa. I colpevoli della strage non sono stati mai individuati, ma la Commissione parlamentare sulla loggia P2 scrisse negli atti che: «La strage dell’Italicus è ascrivibile ad un organizzazione terroristica di ispirazione neofascista o neonazista operante in Toscana»; che «la loggia P2 è quindi gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus e può ritenersene addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale». Il processo si concluse con l’assoluzione generale di tutti gli imputati. Ma soprattutto, a differenza di altre stragi (con cui condivide piste, depistaggi e inchieste infinite e mai conclusive), per quella dell’Italicus fu effettivamente posto il segreto di Stato: a proposito di Claudia Ajello, che fu sentita parlare della strage da una tabaccaia, e che lavorava per il Sid, l’allora servizio segreto italiano. Fu rinviata a giudizio per falsa testimonianza, prima condannata e poi assolta. Ma ciò che interessa è che l’informativa chiesta dal tribunale di Bologna ai Servizi segreti conteneva alcuni omissis. Il 14 maggio 1982 il tribunale chiese una copia integrale del testo; Nino Lugaresi, allora capo del Sismi (che nel 1977 aveva sostituito il Sid), rispose che le parti mancanti erano coperte dal segreto di Stato. La questione fu girata all’allora presidente del Consiglio, il repubblicano Giovanni Spadolini, che, in settembre, confermò il segreto. Nel 1985, però, come annunziò il Corriere della Sera in prima pagina il 5 febbraio (e richiamo in quarta), il premier Bettino Craxi fece togliere il segreto sugli omissis per l’Italicus e per Piazza Fontana. Emerse che l’Ajello era infiltrata negli ambienti degli esuli greci: proprio nel 1974, a seguito della guerra per la questione di Cipro, cadde la giunta dei colonnelli greci, che, come è emerso più volte, interessavano molto i nostri servizi segreti. Questo però risultò ininfluente per la strage dell’Italicus e la faccenda finì lì. Quindi oggi non dovrebbero esistere altri documenti inediti sull’attentato al treno, oscurati dal segreto di Stato. In realtà la relativa inutilità della rimozione anticipata del segreto di Stato, voluta dal premier Mateo Renzi nella primavera del 2014, era già stata sottolineata allora. Il segreto non era già opponibile ai magistrati sui fatti di strage, di mafia e di eversione dell’ordine democratico. Con la legge 124 del 2007, che segnava l’ennesima riforma dei servizi segreti, si stabiliva che il segreto sarebbe stato a tempo e ci sarebbe stata un progressivo slittamento dei livelli di classificazione (segretissimo-segreto-riservatissimo-riservato). In realtà non sono mai stati completati i regolamenti attuativi. Fu questo che, nel 2014, gli esperti chiesero al premier, oltre alla pubblicità di dove siano gli archivi.

Italicus: una strage, un treno, tanti binari, scrivono Paolo Rastelli e Silvia Morosi su “Il Corriere della Sera” tratto da “Poche Storie” il 4 agosto 2016. Agosto. Improvviso si sente un odore di brace. Qualcosa che brucia nel sangue e non ti lascia in pace, un pugno di rabbia che ha il suono tremendo di un vecchio boato: qualcosa che urla, che esplode, qualcosa che crolla. Un treno è saltato (Claudio Lolli, “Agosto”, 1976). Attorno all’una di notte del 4 agosto 1974, all’uscita dalla galleria degli Appennini, nei pressi della stazione di San Benedetto Val di Sambro (Bologna), un ordigno ad alto potenziale esplode nella quinta vettura del treno Espresso 1486 Italicus, diretto a Monaco di Baviera. Il punto, vale la pena ricordarlo, è lo stesso dove a distanza di dieci anni, il 23 dicembre 1984, si verificherà la strage del Rapido 904 o strage di Natale, ai danni del rapido proveniente da Napoli e diretto a Milano. L’attentato dell’Italicus, che provoca la morte di dodici viaggiatori e il ferimento di circa 50 persone (se la bomba fosse esplosa in galleria, la strage sarebbe stata ben peggiore), viene rivendicato con un volantino nel quale si legge: «Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare […] seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti». Una delle vittime, Silver Sirotti, ferroviere 25enne, era uscito incolume dall’esplosione, ma imbracciò un estintore e risalì sulla carrozza devastata salvando molte vite, prima di essere sopraffatto da fiamme e fumo. Racconta un testimone della strage: «Il vagone dilaniato dall’esplosione sembra friggere, gli spruzzi degli schiumogeni vi rimbalzano su. Su tutta la zona aleggia l’odore dolciastro e nauseabondo della morte». I due agenti di polizia che hanno assistito alla sciagura raccontano: «Improvvisamente il tunnel da cui doveva sbucare il treno si è illuminato a giorno, la montagna ha tremato, poi è arrivato un boato assordante. Il convoglio, per forza di inerzia, è arrivato fin davanti a noi. Le fiamme erano altissime e abbaglianti. Nella vettura incendiata c’era gente che si muoveva. Vedevamo le loro sagome e le loro espressioni terrorizzate, ma non potevamo fare niente poiché le lamiere esterne erano incandescenti. Dentro doveva già esserci una temperatura da forno crematorio. ‘Mettetevi in salvo’, abbiamo gridato, senza renderci conto che si trattava di un suggerimento ridicolo data la situazione. Qualcuno si è buttato dal finestrino con gli abiti in fiamme. Sembravano torce. Ritto al centro della vettura un ferroviere, la pelle nera cosparsa di orribili macchie rosse, cercava di spostare qualcosa. Sotto doveva esserci una persona impigliata. ‘Vieni via da lì’, gli abbiamo gridato, ma proprio in quel momento una vampata lo ha investito facendolo cadere accartocciato al suolo» (da “Gli anni del terrorismo” di Giorgio Bocca). Il 1974 è l’anno che molti storici identificano con l’inizio dei cosiddetti «anni di piombo», teatro, purtroppo, di omicidi mirati, attentati, stragi. Da Pasolini, a Moro, da Piazza della Loggia alla Stazione di Bologna. I processi instauratisi a seguito della strage sono stati caratterizzati da esiti diversi. Gli imputati, appartenenti a gruppi dell’estremismo di destra aretino, vengono dapprima assolti per insufficienza di prove, poi condannati in grado di appello e, infine, definitivamente assolti nel 1993. Uno degli imputati, Mario Tuti, si rende peraltro autore – durante le indagini sulla strage – degli omicidi del brigadiere Leonardo Falco e dell’appuntato Giovanni Ceravolo (che stavano procedendo a perquisizione nella sua casa) nonché, dopo l’arresto per tali delitti, dell’omicidio di uno degli imputati che in primo grado erano stati condannati per la strage di piazza della Loggia a Brescia, e che veniva ritenuto disposto a collaborare. Secondo la Relazione che il ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani tenne durante la seduta parlamentare di lunedì, 5 agosto 1974: I primi rilievi tecnici eseguiti dal personale della direzione di artiglieria e dai vigili del fuoco, basati anche sul ritrovamento di un fondo di sveglia con applicati due contatti, lasciano supporre che si sia trattato di un ordigno a tempo, caricato con notevole dose (tra i tre e i quattro chilogrammi) di tritolo. La Cassazione, pur confermando l’assoluzione degli estremisti di Arezzo per la strage sul treno Italicus, ha peraltro stabilito che l’area alla quale poteva essere fatta risalire la matrice degli attentati era «da identificare in quella di gruppi eversivi della destra neofascista». A simile conclusione era pervenuta anche la relazione di maggioranza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica “Propaganda 2″ (più nota come P2), richiamata anche in elaborati della Commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi. In mezzo a tante supposte verità e spiegazioni, negli anni se ne è fatta avanti una dai tratti oscuri. La figlia di Aldo Moro (all’epoca Ministro degli Esteri del Governo Rumor), Maria Fidia Moro, ha detto che era il padre il vero obiettivo dell’attentato all’Italicus. Aldo Moro, infatti, era solito recarsi in villeggiatura a Bellamonte, in Val di Fiemme e pare avesse scelto proprio quel treno per recarvisi. Salito sul treno alla stazione Termini, venne fatto scendere da alcuni funzionari del Ministero, suoi collaboratori, a causa di alcune carte che avrebbe dovuto firmare. Ci misero un po’ e gli fecero perdere il treno. Lo scorso 22 aprile, il Governo Renzi ha tolto il segreto di Stato su tutte le stragi degli anni ’70 e ’80, Italicus compresa. 

27 GIUGNO 1980. Ustica. «Quella notte c’era una guerra. Chiedete alla Nato», scrive Giulia Merlo il 30 luglio 2016 su "Il Dubbio”. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo rischierebbero 23 anni di carcere. Sono passati 36 anni dalla notte di venerdì 27 giugno 1980, in cui l’aereo di linea DC-9 della compagnia italiana Itavia esplose e si inabissò nel braccio di mare tra le isole di Ustica e Ponza, nel mar Tirreno. Nel disastro persero la vita tutti e 81 i passeggeri, sulle cause della strage, invece, nessun tribunale ha ancora accertato la verità. Nel corso degli anni, le teorie più dibattute sono quella di un missile stranieri, contrapposta a quella dell’attentato terroristico, con un ordigno esplosivo piazzato nella toilette. Secondo la prima tesi, ad abbattere il DC-9 sarebbe stata una testata francese, destinata ad abbattere un aereo libico con a bordo Gheddafi. La seconda ricostruzione, invece, è quella avvalorata dai fantomatici documenti cui il senatore Carlo Giovanardi ha fatto più volte riferimento. Il giornalista Andrea Purgatori, che in quegli anni era inviato per il Corriere della Sera e che ha pubblicato numerose inchieste sulla strage, smentisce in modo secco la decisività di questo dossier».

Proviamo a fare chiarezza su queste carte coperte dal segreto di Stato?

«Partiamo da un dato incontrovertibile: sulla strage di Ustica non c’è mai stato il segreto di Stato. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo quella notte, rischierebbero 23 anni di carcere. Nei documenti che ha visto Giovanardi non c’è nulla che possa davvero chiarire cosa è successo».

E quindi lei cosa pensa che contengono?

«Probabilmente si tratta di dossier che ricostruiscono i rapporti opachi intercorsi in quegli anni tra l’Italia e la Libia, ma non sarebbe certo di una novità. Io penso che quelle carte siano più importanti per capire cosa è successo alla stazione di Bologna poco più di un mese dopo, sempre nel 1980».

Lei ha sempre sconfessato la tesi della bomba nella toilette. Come mai?

«Non sono io a sconfessarla, l’ordinanza di rinvio a giudizio del 1999 parla di aereo «esploso in scenario di guerra aerea». Inoltre le perizie a sostegno dell’ipotesi della bomba sono state scartate perchè i periti sono stati dichiarati infedeli dal tribunale, per connivenze con i periti dei generali coinvolti».

La pista della presenza di caccia stranieri, invece?

«Che quella notte nei cieli italiani volassero aerei non identificati è stato confermato dalla Nato. Attualmente non esiste una sentenza su quella strage, perchè l’inchiesta è ancora in corso. In sede civile, invece, la Cassazione ha condannato nel 2015 i ministeri dei Trasporti e della Difesa al risarcimento dei danni, per responsabilità nell’«abbattimento» del DC-9 e - cito testualmente - ha definito l’ipotesi del missile come causa «congruamente provata»».

C’è chi obietta che gli alti ufficiali coinvolti sono stati tutti assolti nel 2006...

«Attenzione, sono stati assolti in Cassazione dalla condanna per depistaggio, non nel processo sulle cause della strage, tuttora in corso».

2 AGOSTO 1980. Bologna, il buco nero della strage alla stazione. 36 anni dopo, Bologna si prepara ad accogliere i famigliari delle vittime e le commemorazioni. Per non dimenticare l'atto terroristico che provocò 85 vittime. La dinamica e i mandanti, nonostante i processi e le condanne, non sono mai stati chiariti, scrive Michele Sasso l'1 agosto 2016 su “L’Espresso”. La più grande strage italiana in tempo di pace. Ottantacinque morti, più di duecento feriti. Il 2 agosto 1980, un giorno d’estate di un Paese che esiste solo nella memoria, è diventato un tutt’uno con la strage di Bologna. È un sabato quel 2 agosto di 36 anni fa. Le ferie estive che svuotano le città del Nord sono appena iniziate. Chi ha scelto il treno deve passare necessariamente per Bologna, scalo-cerniera per raggiungere l’Adriatico o puntare verso Roma. La stazione è affollatissima dalle prime ore del mattino. I voli low cost arriveranno sono trent’anni dopo. Dopo la bomba alla stazione, che provocò 85 morti, il nostro settimanale preparò un numero speciale e mise in copertina la riproduzione di un quadro di Renato Guttuso, realizzato apposta per l'occasione. Guttuso dette all'opera lo stesso titolo dell'incisione di Francisco Goya Il sonno della ragione genera mostri ed aggiunse la data della strage, 2 agosto 1980, unico riferimento al fatto specifico, vicino alla firma dell'autore. La tavola originale è esposta nel Museo Guttuso. Raffigura un mostro con sembianze da uccello e corpo di uomo, denti aguzzi, occhi sbarrati e di fuoco, che tiene un pugnale nella mano destra e una bomba a mano nella sinistra, e colpisce alcuni corpi morti o morenti, sopra i quali sta a cavalcioni Alle 10 e 25 però il tempo si ferma: 23 chili di tritolo esplodono nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria. Le lancette del grande orologio, ancora oggi, segnano quel tempo e quella stagione di morte e misteri. Un boato, sentito in ogni angolo della la città, squarcia l'aria. Crolla l'ala sinistra dell'edificio: della sala d'aspetto di seconda classe, del ristorante, degli uffici del primo piano non resta più nulla. Una valanga di macerie si abbatte anche sul treno Ancona-Basilea, fermo sul primo binario. Pochi interminabili istanti: uomini, donne e bambini restano schiacciati. La polvere e il sangue si mischiano allo stupore, alla disperazione e alla rabbia. Tanta rabbia per quell’attentato così mostruoso e vile che prende di mira turisti, pendolari, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice terroristica della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile. Cominciò quel giorno una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana. Un iter che ha portato a cinque gradi di giudizio, alla condanna all'ergastolo degli ex Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e a quella a trent'anni di Luigi Ciavardini. Con un corollario di smentite, depistaggi e disinformazione. Resta la verità giudiziaria della pista neofascista e la strategia della tensione ma rimangono senza nomi i mandanti. I responsabili dei depistaggi, invece, come stabilito dai processi, sono Licio Gelli, P2, e gli ex 007 del Sismi Francesco Pazienza, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte. Il giorno dei funerali, il 6 agosto, «non era possibile determinare quante persone fossero presenti», come scrisse Torquato Secci, che quel giorno perse il figlio e poi diventò il presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage. Non tutte le vittime ebbero, però, il funerale di Stato: solo sette le bare presenti in chiesa in mezzo alle quali camminò il presidente della Repubblica Sandro Pertini, giunto insieme a Francesco Cossiga, presidente del Consiglio dei ministri. Fuori dalla chiesa, la gente in piazza iniziava a contestare le autorità. Solo Pertini e il sindaco di Bologna, Zangheri, ricevettero degli applausi. Ancora prima dei funerali si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città. Un moto di indignazione e dolore scosse l’intero Paese. L'Espresso uscì la settimana successiva con un numero speciale: in copertina un quadro a cui Renato Guttuso ha dato lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: «Il sonno della ragione genera mostri». Trentasei anni dopo, con l’eredità di ombre, depistaggi e la strategia della tensione per controllare il Paese, si rinnova il ricordo collettivo e personale della strage. Bologna si prepara a rinnovare l’impegno con la “giornata in memoria delle vittime di tutte le stragi”, organizzata dall’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto che tenne viva la memoria e la spinta civile durante l’intero processo.

Il grande vecchio, scrive Gianni Barbacetto il 15 novembre 2009. Sono passati 20 dalla caduta del muro di Berlino. A breve saranno 40 anni dalla bomba alla Banca dell'Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano. In questi giorni dove si è celebrata la caduta del muro (e del regime comunista), mi chiedo quanti siano ancora interessati a conoscere la storia oscura del nostro paese. A dare una risposta ai tanti perché degli anni della strategia della tensione. Perché quelle morti, perché quelle bombe. Quale era la strategia che perseguivano, queste persone? Il libro di Barbacetto, che usa la metafora ancora attuale del "Grande vecchio" dà una risposta, a queste domande. “Ci avete sconfitto, ma oggi sappiamo chi siete” dice l'ex giudice che indagò sulla strage alla Stazione di Bologna Libero Mancuso “e andremo in giro a dire i vostri nomi a chiunque ce li chieda”. Compito degli storici o di quelli come me, con la passione per la storia, col vizio di voler coltivare la memoria di ciò che è stato è ricordare. E le pagine del libro, che mettono insieme i fatti di questa guerra che si è consumata, senza che nessuno (o quasi) se ne sia preso la colpa, storicamente e giuridicamente, hanno appunto questo fine: dare la parola ai magistrati che si sono occupati di queste inchieste. Sono loro, una volta tanto, a raccontare una storia di di attentati, stragi e bombe, e delle difficoltà che hanno dovuto affrontare: omertà, depistaggi e veri e propri attacchi sia da parte degli imputati (direttamente o tramite giornali “amici”), sia all'interno dello stato (come nel caso dell'ex presidente Cossiga, nella sua guerra personale contro il CSM). Per la strage di Piazza Fontana, i ricordi del giudice istruttore Giancarlo Stiz e del pm Pietro Calogero, che seguirono il filone Veneto delle indagini: i neofascisti di Ordine Nuovo Franco Freda, Giavanni Ventura, Carlo Maria Maggi, e Pino Rauti (esponente del MSI, tirato in ballo nell'inchiesta dalle confessioni del bidello Marco Pozzan) e Delfo Zorzi. Indagini riprese poi a Milano dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio e dal pm Emilio Alessandrini: i primi a intravedere la pista nera sulla strage, mentre in Italia si sbatteva il mostro in prima pagina (l'anarchico Pietro Valpreda e il "suicida reo confesso" Giuseppe Pinelli). E in mezzo i servizi che invece che aiutare l'indagine, si occupavano di esfiltrare dei testimoni: Pozzam, lo stesso agente Guido Giannettini. Processo scippato ai giudici (una costante in tante altre inchieste sull'eversione nera, in Italia) e spostata dalla Cassazione a Palermo. La strage di Piazza della Loggia a Brescia: la bomba esplosa durante il comizio antifascista il 28 maggio 1974. Raccontata attraverso il lavoro dei primi giudici: Domenico Vino e Francesco Trovato; inchiesta riaperta poi dal g.i. Francesco Zorzi, sulle confessioni del pentito Sergio Latini e Guido Izzo. Fra tutti gli episodi raccontati, è l'unico ad avere un procedimento ancora aperto: il processo a Brescia iniziato nel novembre 2008 ha portato a giudizio tra gli altri, un ex politico come Pino Rauti e un generale dei carabinieri, Francesco Delfino. L'inchiesta di Padova sulla Rosa dei venti del giudice istruttore Giovanni Tamburino, che portò alla scoperta di questa organizzazione con finalità eversive che coinvolgeva industriali, ex fascisti, vertici militari (il colonnello dell'esercito Amos Spiazzi) e vertici dei servizi (il generale del Sid Vito Miceli). L'ultimo filone di indagini su Piazza Fontana, portato avanti dal giudice istruttore Guido Salvini a fine anni 80, che si è basato sugli archivi ritrovati in via Bligny (gli archivi di Avanguardia Operaia che contenevano dossier anche sul terrorismo nero, oltre che dossier sulle Br), le rivelazioni del pentito Nico Azzi e dell'artificiere di Ordine Nuovo Carlo Digilio, sul lavoro del capitano dei Ros Massimo Giraudo. Un lavoro che ha permesso una rilettura degli anni del golpe, sempre ventilato, mai attuato, "il golpe permanente". Il golpe Borghese della notte della Madonna del 1970, al golpe bianco di Edgardo Sogno nella primavera del 1974. E prima ancora il “tintinnar di sciabole" del Piano Solo. Un lavoro che permise di rileggere episodi di cronaca, attentati dell'anno nero che fu il 1973. "Alla fine e malgrado tutto, ribadisce Salvini, «un preciso giudizio si è radicato comunque nelle carte dei processi. La strage di piazza Fontana non è un mistero senza padri, paradigma dell’insondabile o, peggio, evento attribuibile a piacimento a chiunque, che può essere dipinto con qualsiasi colore se ciò serve per qualche contingente polemica politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti – come disse nel 1995 alla Commissione stragi Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro – se non da un progetto, almeno da un clima comune». «La giustizia vuole più dolore che collera» scriveva Hannah Arendt nel 1961, all’apertura del processo al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme. Alla chiusura dei processi per le stragi, la banalità del male si presenta sotto forma di tentazione a dimenticare per sempre una vicenda con tanti morti, un’insanabile ferita alla democrazia che ha colpevoli, ma non condannati. La verità, nella sua interezza, è affidata ora agli storici. O consegnata ai capricci della memoria: che custodisce i ricordi nel tempo dell’indignazione, e poi li abbandona nel tempo della smemoratezza."

La bomba alla Questura nel 1973. L'inchiesta portata avanti dal giudice istruttore Antonio Lombardi sulla bomba alla Questura di Milano: in particolare, è questa vicenda svela bene quale fosse il disegno dietro tutti gli episodi stragistici. Ovvero addossare tutta la colpa della strage sulla sinistra: Gianfranco Bertoli, con un passato da informatore del Sifar e poi del Sid, doveva recitare la parte dell'anarchico solitario che uccide persone inermi (e il ministro Rumor, reo secondo Ordine Nuovo che aveva organizzato il teatro, di aver avviato l'iter per il loro scioglimento).

Le bombe sui treni in Italia centrale: l'Italicus (4 agosto 1974) e gli altri attentati (il fallito attentato a Vaiano, ad es.), avvenuti nella primavera estate del 1974, per mano dei neofascisti di Ordine Nero: i quattro colpi grossi (assieme alla bomba a Brescia) che avrebbero dovuto preparare il terreno l'ennesima reazione forte dello stato. Reazione che, come nel 1969, non avvenne, come non ci fu nemmeno il golpe solo minacciato dell'ex partigiano bianco Edgardo Sogno, su cui indagò il giudice Violante a Torino. Per l'Italicus, il giudice che ha indagato sulla strage si chiama Claudio Nunziata, che lavorò assieme a Rosario Minna. Ma stesso è lo scenario che si scopre, come per le precedenti inchieste: un organizzazione neofascista (Ordine Nero, di Mario Tuti e Augusto Cauchi), con coperture da parte dei carabinieri e finanziata da un imprenditore di Arezzo, tale Licio Gelli. Nunziata fu definito come un Torquemada dei treni, dai giornali della destra (come Il giornale di Indro Montanelli e di Guido Paglia, esponente di Avanguardia Nazionale). Perché era un magistrato zelante che non guardava in faccia a nessuno: nemmeno nella ricca Bologna massonica. Nunziata non si trattenne nemmeno dal criticare il comportamento della sua procura, per come venivano gestiti i carichi di lavoro e per come non venivano seguite le indagini che riguardavano l'eversione. Su di lui si concentrò un fuoco amico da parte del CSM e anche da parte dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga: fu sospeso e lasciato senza stipendio, fino alla sua riabilitazione, avvenuta anni dopo. "in fondo mi è andata bene, altri hanno pagato con la vita" il suo amaro commento.

La strage alla stazione di Bologna. Libero Mancuso iniziò la sua carriera a Napoli: seguì il rapimento da parte delle Br di Ciro Cirillo e assistì alla trattativa di esponenti dello stato con la Camorra di Cutolo per la liberazione dell'assessore. Nauseato, alla fine della vicenda, chiese il trasferimento a Bologna, in cerca di una maggiore tranquillità. Ma il 2 agosto 1980 scoppiò la bomba alla stazione. E il suo capo alla procura gli assegnò un'indagine sull'ex colonnello Amos Spiazzi (un personaggio già emerso nell'inchiesta di Tamburino sulla Rosa dei Venti). Da qui l'inizio dell'inchiesta che lo portò fino alla strage, in cui emerse il ruolo di depistaggio dei vertici del Sismi e della Loggia P2 (nonostante questo l'avvocatura di Stato chiese l'archiviazione del reato di eversione per quanto riguarda la Loggia P2 e Gelli, al processo di Appello). I processo fu, uno tra pochi, ad arrivare a giudizio con una condanna per i responsabili della strage, individuati negli estremisti dei Nar (Fioravanti, Mambro e Ciavardini). Come per altri giudici, anche per Mancuso non mancarono polemiche, diffamazioni, attacchi da parte dei Giornali (Il giornale, Il sabato ..) e persino dal capo dello stato, allora Francesco Cossiga.

La loggia P2: lo stato nello stato. Di questa storia, ne ha parlato Blu Notte recentemente: a partire dai giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone che, nella primavera del 1983, seguendo una indagine sul finto rapimento di Michele Sindona, si imbattono in questo strano, all'apparenza sconosciuto ma potente imprenditore. Licio Gelli da Arezzo. Dalla perquisizione in uno dei suoi uffici emerge una struttura che comprende i vertici dei servizi, politici, magistrati, giornalisti, politici, industriali (tra cui l'attuale presidente del Consiglio) ... Uno stato dello stato: dalla storia della P2 si capisce meglio l'evoluzione della politica filoatlantica italiana, la guerra non ortodossa compiuta sugli italiani: se nella prima metà degli anni 70 si parlava di golpe e si usavano le bombe per destabilizzare, a partire dal 1974 si usò questa loggia massonica segreta, come camera di compensazione per i poteri forti del paese. Come struttura in qui selezionare la classe dirigente del paese: l'obbiettivo non era più abbattere o sostituire le istituzioni, ma occuparle. Silenziosamente. Nella politica, nei posti chiave della magistratura, nell'informazione, nell'industria. Con l'attuazione del piano di rinascita democratica: un disegno politico quanto mai attuale.

Gladio. L'inchiesta del giovane giudice Felice Casson, a Venezia, che partendo dalla strage di Peteano e dalle confessioni del pentito (con ritardo e con ancora tanti punti aperti sulla sua sincerità), arriva a scoprire Gladio, la struttura italiana dell'organizzazione Stay Behind. Una struttura misto civile militare, addirittura fuori dall'organizzazione Nato e di cui nemmeno tutti i presidenti del Consiglio ne furono a conoscenza (come ad esempio Amintore Fanfani). Una struttura di cui l'opinione pubblica non fu informata: fino all'ammissione della sua esistenza da parte del primo ministro Giulio Andreotti nel 1990, quando ormai l'inchiesta veneziana stava arrivando al termine. Casson partì da qui partì, dai legami tra Gladio e i gruppi della destra eversiva che negli anni 70 compirono attentati in Italia. Una indagine con gli stessi protagonisti delle altre: gli ordinovisti veneti (il medico Carlo Maria Maggi, Franco Freda, Carlo Digilio, l'artificiere-confidente dei servizi); i vertici dei servizi come l'ammiraglio Fulvio Martini, legato anche al Conto Protezione di Craxi/Martelli, che avrebbe portato fino a Gelli. Cosa è Gladio? Solo una storia di arsenali nascosti sui monti del Friuli e forse qualche campo di concentramento in Sardegna, che si sarebbe dovuto usare per gli enuclenandi del Piano Solo? O forse, come in una struttura a scatole cinesi, una dentro l'altra, Gladio era solo il guscio esterno, quelle più presentabile, di altre strutture (come il Noto Servizio o Anello), più nascoste, dalle finalità più ambigue, ai limiti (se non oltre) del codice. Campagne stampa diffamatorie contro esponenti politici o sindacali da togliere di mezzo; l'utilizzo della corruzione come normale sistema di trattativa politica; l'utilizzo della malavita (come la Banda della Magliana, per l'individuazione della prigionia di Aldo Moro da parte della BR) in funzione di braccio armato, che può essere sempre reciso alla bisogna, allo stragismo e terrorismo della cui incredibile durata e virulenza nel nostro paese non è stata data ancora una plausibile spiegazione. E soprattutto, la domanda più importante: siamo sicuri che queste siano solo storie del passato? Se qualcuno, nel passato, ha pensato di mettere una bomba per spostare il baricentro della politica italiana, depistando le indagini della polizia, insabbiandone altre grazie a Procure compiacenti (vi ricordate come veniva chiamata la Procura di Roma? Il porto delle nebbie), cosa sarebbe disposto a fare oggi, per evitare tutti cambiamenti in ambito sociale e politico? Siamo sicuri che i servizi deviati (che poi non è nemmeno giusto chiamarli così, essendo stati solo al servizio di quei poteri forti già attivi nei anni 70) oggi non siano più operativi?

Ma esiste un’altra verità che i sinistroidi tacciono.

L’ultimo segreto nelle carte di Moro: “La Libia dietro Ustica e Bologna”. Da Beirut i servizi segreti avvisarono: “Tripoli controlla i terroristi palestinesi”. I parlamentari della Commissione d’inchiesta: “Renzi renda pubblici i documenti”, scrive il 05/05/2016 Francesco Grignetti su “La Stampa”. Tutto nasce da una direttiva di Matteo Renzi, che ha fatto togliere il segreto a decine di migliaia di documenti sulle stragi italiane. Nel mucchio, i consulenti della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno trovato una pepita d’oro: un cablo del Sismi, da Beirut, che risale al febbraio 1978, ossia un mese prima della strage di via Fani, in cui si mettono per iscritto le modalità del Lodo Moro. Il Lodo Moro è quell’accordo informale tra italiani e palestinesi che risale al 1973 per cui noi sostenemmo in molti modi la loro lotta e in cambio l’Olp ma anche l’Fplp, i guerriglieri marxisti di George Habbash, avrebbero tenuto l’Italia al riparo da atti di terrorismo. Ebbene, partendo da quel cablo cifrato, alcuni parlamentari della commissione Moro hanno continuato a scavare. Loro e soltanto loro, che hanno i poteri dell’autorità giudiziaria, hanno potuto visionare l’intero carteggio di Beirut relativamente agli anni ’79 e ’80, ancora coperto dal timbro «segreto» o «segretissimo». E ora sono convinti di avere trovato qualcosa di esplosivo. Ma non lo possono raccontare perché c’è un assoluto divieto di divulgazione. Chi ha potuto leggere quei documenti, spera ardentemente che Renzi faccia un passo più in là e liberalizzi il resto del carteggio. Hanno presentato una prima interpellanza. «È davvero incomprensibile e scandaloso - scrivono i senatori Carlo Giovanardi, Luigi Compagna e Aldo Di Biagio - che, mentre continuano in Italia polemiche e dibattiti, con accuse pesantissime agli alleati francesi e statunitensi di essere responsabili dell’abbattimento del DC9 Itavia a Ustica nel giugno del 1980, l’opinione pubblica non sia messa a conoscenza di quanto chiaramente emerge dai documenti secretati in ordine a quella tragedia e più in generale degli attentati che insanguinarono l’Italia nel 1980, ivi compresa la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980». Ecco il messaggio destinato al ministro degli Interni, ai servizi italiani e a quelli alleati in cui si segnala che George Habbash, capo dei guerriglieri palestinesi del Fplp, indica l’Italia come possibile obiettivo di un’«operazione terroristica». Va raccontato innanzitutto l’antefatto: nelle settimane scorse, dopo un certo tira-e-molla con Palazzo Chigi, i commissari parlamentari sono stati ammessi tra mille cautele in una sede dei servizi segreti nel centro di Roma. Dagli archivi della sede centrale, a Forte Braschi, erano stati prelevati alcuni faldoni con il marchio «segretissimo» e portati, con adeguata scorta, in un ufficio attrezzato per l’occasione. Lì, finalmente, attorniati da 007, con divieto di fotocopiare, senza cellulari al seguito, ma solo una penna e qualche foglio di carta, hanno potuto prendere visione del carteggio tra Roma e Beirut che riporta al famoso colonnello Stefano Giovannone, il migliore uomo della nostra intelligence mai schierato in Medio Oriente. Il punto è che i commissari parlamentari hanno trovato molto di più di quello che cercavano. Volevano verificare se nel dossier ci fossero state notizie di fonte palestinese per il caso Moro, cioè documenti sul 1978. Sono incappati invece in documenti che sorreggono - non comprovano, ovvio - la cosiddetta pista araba per le stragi di Ustica e di Bologna. O meglio, a giudicare da quel che ormai è noto (si veda il recente libro «La strage dimenticata. Fiumicino 17 dicembre 1973» di Gabriele Paradisi e Rosario Priore) si dovrebbe parlare di una pista libico-araba, ché per molti anni c’è stato Gheddafi dietro alcune sigle del terrore. C’era la Libia dietro Abu Nidal, per dire, come dietro Carlos, o i terroristi dell’Armata rossa giapponese. Giovanardi e altri cinque senatori hanno presentato ieri una nuova interpellanza. Ricordando le fasi buie di quel periodo, in un crescendo che va dall’arresto di Daniele Pifano a Ortona con due lanciamissili dei palestinesi dell’Fplp, agli omicidi di dissidenti libici ad opera di sicari di Gheddafi, alla firma dell’accordo italo-maltese che subentrava a un precedente accordo tra Libia e Malta sia per l’assistenza militare che per lo sfruttamento di giacimenti di petrolio, concludono: «I membri della Commissione di inchiesta sulla morte dell’on. Aldo Moro hanno potuto consultare il carteggio di quel periodo tra la nostra ambasciata a Beirut e i servizi segreti a Roma, materiale non più coperto dal segreto di Stato ma che, essendo stato classificato come segreto e segretissimo, non può essere divulgato; il terribile e drammatico conflitto fra l’Italia e alcune organizzazioni palestinesi controllate dai libici registra il suo apice la mattina del 27 giugno 1980». Dice ora il senatore Giovanardi, che è fuoriuscito dal gruppo di Alfano e ha seguito Gaetano Quagliariello all’opposizione, ed è da sempre sostenitore della tesi di una bomba dietro la strage di Ustica: «Io capisco che ci debbano essere degli omissis sui rapporti con Paesi stranieri, ma spero che il governo renda immediatamente pubblici quei documenti».

Stragi, i palestinesi dietro Ustica e Bologna? Il centrodestra: fuori le carte, scrive giovedì 5 maggio 2016 “Il Secolo D’Italia”. Reazioni, polemiche ma anche approvazione dopo che in una interpellanza presentata in vista della celebrazione solenne il 9 maggio a Montecitorio della Giornata della memoria delle vittime delle stragi e del terrorismo, i senatori Giovanardi, Quagliariello, Compagna, Augello, Di Biagio e Gasparri, hanno chiesto al Presidente del Consiglio di rendere pubbliche le carte relative alle stragi di Ustica e della stazione di Bologna. Gli interpellanti – si legge in una nota – citano gli autorevoli interventi del 2014 e 2015, in occasione della giornata della memoria e dell’anniversario di Ustica, dei Presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella e dei presidenti di Camera e Senato nei quali si chiede di arrivare alla verità «pretendendo chiarezza oltre ogni convenienza» e l’intervista del 3 maggio ultimo scorso del Ministro degli esteri Gentiloni sul caso Regeni, dove afferma testualmente: «La nostra ricerca della verità è al primo posto, e non può essere cancellata da interessi e preoccupazioni geopolitiche». Gli interpellanti ricordano poi di aver potuto consultare il carteggio dell’epoca tra la nostra Ambasciata a Beirut e i Servizi segreti a Roma, relativo ai drammatici avvenimenti del 1979 e 1980, quando si sviluppò un drammatico confronto fra l’Italia da una parte e dall’altra le frange più estreme del Movimento per la liberazione della Palestina con dietro la Libia di Gheddafi ed ambienti dell’autonomia, materiale non più coperto dal segreto di Stato, ma che, essendo stato classificato come segretissimo, rende penalmente perseguibile anche dopo 36 anni la sua divulgazione. La figlia di una vittima chiede chiarezza sulle stragi: «Sconcertata, come figlia di una vittima dell’esplosione del DC9 Itavia, e come Presidente onorario dell’Associazione per la Verità sul disastro aereo di Ustica, nell’apprendere che dopo 36 anni da quella tragedia non sono ancora divulgabili documenti che potrebbero contribuire in maniera decisiva a far piena luce su quella strage», scrive Giuliana Cavazza, presidente onorario dell’associazione citata. «Lunedì sarà celebrata a Montecitorio la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi: aggiungo la mia modesta voce a quella dei vertici istituzionali che hanno più volte sottolineato la necessità di cercare la verità al di là di ogni convenienza o calcolo politico. Mi auguro pertanto che per quella data il Presidente del Consiglio abbia già assunto la decisione di rendere noto il contenuto dei documenti che solo i membri della Commissione di inchiesta sulla morte di Aldo Moro hanno già potuto consultare». Di diverso avviso Bolognesi: «Ho letto le carte contenute nei faldoni messi a disposizione della Commissione Moro e posso affermare che su Ustica e Bologna non ci sono né segreti, né rivelazioni, né novità. I decenni passano ma i depistaggi sembrano resistere», ha detto infatti Paolo Bolognesi, deputato Pd, presidente dell’Associazione 2 agosto 1980, commentando le recenti notizie di possibili nuovi elementi sulle stragi di Ustica e Bologna contenuti nei documenti consultati dai componenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro di cui Bolognesi fa parte. C’è poi la tesi di Zamberletti: «Torniamo indietro al 2 agosto 1980, data della strage di Bologna. Era il giorno in cui io, da sottosegretario, avrei firmato un accordo italo-maltese. L’accordo, che fu poi firmato regolarmente, prevedeva da parte italiana la garanzia militare sulla sovranità aerea e marittima di Malta. La notizia della bomba alla stazione di Bologna, che ci arrivò quando eravamo a La Valletta, mi diede subito la sensazione della vendetta contro l’Italia». È questa la verità sulle stragi di Bologna e Ustica secondo Giuseppe Zamberletti, all’epoca sottosegretario agli Esteri nel governo Cossiga, in un’intervista a La Stampa. «I libici – dice – esercitavano fino a quel momento un protettorato di fatto su Malta». Zamberletti afferma di essere stato avvertito anche dall’allora direttore del Sismi, il generale Santovito, che gli chiese di soprassedere, poiché Gheddafi considerava Malta “una cosa sua”, «il governo Cossiga però decise di andare avanti. E se oggi Malta è nella Unione europea e non in Africa, tutto cominciò quel giorno. Questi documenti che sono stati desecretati sono un punto di inizio e non di arrivo. È proprio il caso di andare avanti», dice in riferimenti all’interrogazione con cui alcuni parlamentari chiedono di rendere pubblici tutti i documenti: «Nel febbraio 1978 c’era dunque questo accordo tra italiani e palestinesi, ma che ci fossero rapporti tra Gheddafi e certe schegge palestinesi è una grande novità, di cui all’epoca non avevamo assolutamente contezza».

«Vi dico la verità su Ustica: è stata una bomba e veniva da Beirut», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. «Smettetela di chiedere a me di rivelare questi documenti: mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore. È il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier». «Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha il dovere di togliere la dizione "segretissimo" da quelle carte in modo da poterle divulgare, solo così le verità nascoste per trentasei anni verranno finalmente svelate». Non ha dubbi, il senatore Carlo Giovanardi. In qualità di membro della commissione Moro, ha avuto modo di visionare dei documenti che getterebbero nuova luce sulla tragica vicenda del volo Itavia DC-9, inabissatosi nel braccio di Mar Tirreno tra Ustica e Ponza con a bordo 81 persone, il 27 giugno del 1980.

Cominciamo dal principio: cosa è successo a bordo di quell'aereo?

«Nella toilette è esplosa una bomba, che ha provocato la caduta del velivolo e la morte di tutti i passeggeri».

Eppure molte voci sostengono che, quella notte, nei cieli italiani fosse in corso una guerriglia aerea in cui erano coinvolti caccia da guerra francesi e libici e che il volo Itavia sia stato abbattuto da un missile.

«Io mi sono interessato della questione quando ero ministro e su questi fatti ho risposto in Parlamento, sulla base delle fonti ufficiali provenienti dalla Nato e dei dossier dei nostri servizi di intelligence. Ciò che sostengo è suffragato non solo da questo, ma anche da 4000 pagine di perizie, svolte dai maggiori esperti internazionali di aereonautica. Aggiungo anche che ho letto in aula le missive personali indirizzate all'allora premier Giuliano Amato dal presidente americano Bill Clinton e da quello francese Jaques Chirac, in cui entrambi giurano sul loro onore che, durante la notte della strage, nei cieli di Ustica non volavano né aerei americani né francesi».

Gli scettici hanno sostenuto che la bomba nella toilette sia smentita dal fatto che il lavandino è stato ritrovato intatto nel relitto.

«Gli americani, in un documentario prodotto dal National Geographic, hanno preso un vecchio DC-9 e riprodotto l'esplosione, verificando che è ben possibile che il lavello non si sia rotto».

E quindi il mistero riguarda quale mano abbia piazzato la bomba. La risposta sta nelle carte da lei visionate?

«Esattamente. Si tratta di documenti che nessun magistrato ha mai potuto esaminare, su cui da due anni è caduto il segreto di Stato ma che rimangono bollati come "segretissimi" e dunque sono non divulgabili. Il carteggio fa riferimento ai rapporti tra il governo italiano e la nostra ambasciata a Beirut negli anni 1979 e 1980. Io ho potuto esaminarlo in presenza dei membri dei servizi e con la possibilità di prendere appunti, ma quei dossier contengono messaggi dalla capitale libica, alcuni datati anche 27 giugno, che annunciano vittime innocenti e parlano anche di un aereo come obiettivo del Fronte nazionale per la liberazione della Palestina, organizzazione controllata dai libici».

In questi dossier ritorna la teoria del cosiddetto "lodo Moro", ovvero il patto segreto tra Italia e filopalestinesi, che permetteva ai gruppi palestinesi di trasportare e stoccare armi nel nostro territorio a patto di non commettere attentati?

«Certo che quei documenti riguardano il "lodo Moro". E' chiaro che quell'accordo non era stato siglato in carta bollata, ma la sua esistenza è chiara e dalle carte emerge anche come Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina lo considerasse violato nel 1979, quando il governo italiano sequestrò i missili trovati a Ortona e arrestò il militante del Fplp Abu Anzeh Saleh, poi detenuto nel carcere di Trani. Per questo minacciavano ritorsioni contro l'Italia. Tornando a Ustica, ricordo che l'unico governo a non rispondere alle rogatorie italiane è stato quello di Gheddafi».

Ustica è stata una rappresaglia libica, dunque?

«E' stato l'allora ministro Zamberletti a definirla così. Lo stesso che, proprio il 2 agosto (data della strage alla stazione di Bologna) firmava un accordo italo-maltese di assistenza militare e di estrazione petrolifera, che di fatto subentrava a quello tra Malta e la Libia. Secondo Zamberletti, Bologna e Ustica sono state entrambe un avvertimento dei libici al governo italiano e le due stragi sono legate da un filo rosso arabo-palestinese».

Rivelare questi documenti, dunque, fugherebbe qualsiasi ulteriore dubbio sull'ipotesi del missile sul volo Itavia?

«Certo. Eppure faccio notare che, ora che queste carte sono state lette e che io ne chiedo la desecretazione, la presidente dell'associazione delle vittime di Ustica, durante le commemorazioni delle stragi di quest'anno, non ha più chiesto che i dossier vengano pubblicati».

E questo che cosa significa?

«La senatrice Daria Bonfietti (che ha perso un fratello nella strage di Ustica ndr) sostiene che io abbia in mano un due di picche, invece io credo di avere un poker d'assi. I dossier che ho letto svelano la verità su quegli attentati ma, evidentemente, renderli pubblici potrebbe in qualche modo mettere in discussione i risarcimenti che si aggiungono ai 62 milioni di euro già percepiti. La Cassazione in sede civile, infatti, ha riconosciuto un risarcimento del danno di centinaia di milioni di euro all'Itavia, agli eredi Davanzali (ex presidente dell'Itavia) e alle famiglie delle vittime. Ciò nasce da una sciagurata sentenza civile di primo grado, scritta dal giudice onorario aggiunto Francesco Betticani, che teorizza appunto che ad abbattere l'aereo sia stato un missile non meglio identificato. L'appello viene vinto dall'Avvocatura di Stato che, però, commette un errore procedurale. La Cassazione allora annulla la sentenza di appello e rinvia alla Corte, la quale, però, può conoscere solo gli elementi portati dalle parti e non aggiungerne di nuovi. In questo modo è stata confermata in Cassazione civile l'assurda ipotesi del missile, definita "più probabile che no", totalmente smentita invece in sede penale».

In che modo l'ipotesi della bomba cambierebbe le carte in tavola per i familiari delle vittime?

«La risposta è semplice: se si fosse trattato di una bomba, come hanno stabilito le perizie tecniche, la responsabilità di non aver vigilato a Bologna avrebbe coinvolto anche la società Itavia e dunque il Ministero non dovrebbe risarcire le centinaia di milioni di danni. Aggiungo che a ogni famiglia delle persone decedute sono stati assegnati 200 mila euro e i 141 familiari superstiti godono dal 2004 di un assegno vitalizio mensile di 1.864 euro netti, rivalutabili nel tempo».

Che fare dunque ora?

«Innanzitutto smetterla di chiedere a me di rivelare questi documenti, cosa che mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore per indegnità morale. E' il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier per amore di verità, così forse - almeno - ripuliremo una volta per tutte l'immaginario collettivo su Ustica, inquinato da sceneggiati e depistaggi».

La colpevolezza dei Nar è un dogma ideologico. Le strane relazioni che intercorrevano tra l'Italia e gli arabi del Fplp, scrive il 02/08/2016 Dimitri Buffa su “Il Tempo”. Anche oggi come da 36 anni a questa parte alle 10 e 25 in punto la città di Bologna si fermerà per qualche minuto. Per commemorare gli 85 morti e i 200 feriti di un attentato che, al di là delle sentenze definitive e della colpevolezza come esecutori materiali ormai appiccicata addosso in maniera indelebile ai tre ex Nar Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Francesca Mambro, rimane ancora avvolto nel mistero. Un po’ di luce però, almeno sul movente lo può fare il libro «I segreti di Bologna», di Valerio Cutonilli e Rosario Priore, rispettivamente un avvocato e un magistrato, entrambi coraggiosi nell’andare contro corrente rispetto alla vulgata che ha voluto che questa strage fosse fascista sin dai primi istanti. Il Tempo già si era occupato di uno dei misteri di questa indagine, ossia la mancata identificazione di un cadavere e la scomparsa di un corpo di una delle vittime. Ma l’indicibile segreto di Stato che forse non sarà mai tolto, perchè è servito all’Italia a non subire più attentati da parte di terroristi palestinesi e medio orientali in genere, compresi quelli dell’Isis (toccando ferro), non è negoziabile nè rivelabile. E dopo gli anni ’70 che avevano lasciato una lunga scia di oltre sessanta morti del tutto rimossi dall’inconscio collettivo ad opera di settembre nero e altre formazioni dell’epoca, oggi se ne conosce il nome: «Lodo Moro». E colui che gli diede il nome non sapeva che un giorno, il 16 marzo 1978 ne sarebbe diventato vittima. Molte indagini infatti hanno acclarato, e il libro le elenca tutte in maniera che anche un bambino di sette anni potrebbe capire, che le armi alle Br in Italia le portarono anche i palestinesi del Fplp di George Habbash. Quel fronte popolare di resistenza palestinese di matrice marx leninista che invano nel febbraio 1978 tramite gli informatori del colonnello Stefano Giovannone, vero e proprio sacerdote della liturgia del «Lodo Moro», soffiò al Viminale della preparazione di un attentato con rapimento di un’alta personalità politica in Italia sul modello del sequestro di Hans Martin Schleyer, il presidente della Confindustria della ex Germania Ovest sequestrato nel settembre 1977 dalla Raf. Insomma se tutte le rivoluzioni finiscono per mangiarsi i propri figli il «lodo Moro» si mangiò suo padre, Aldo Moro. Il libro in questione, quindi, rivela e mette in fila tutti i segreti di Stato legati al «Lodo Moro» a cominciare dal ruolo di Carlos e di Thomas Khram e dei suoi accoliti dell’Ori, organizzazione rivoluzionaria internazionale, nella strage di Bologna, che potrebbe anche essere avvenuta per errore, cioè esplosivo in transito, cosa che spiegherebbe la mancata identificazione di almeno una delle vittime. Per non parlare degli omissis legati alle minacce di ritorsione sempre segnalate dal Sismi di Santovito, che venivano fino a tutto il luglio 1980 da parte dell’Fplp, legate alla vicenda dei missili Strela Sam 7 sequestrati qualche mese prima all’autonomo Daniele Pifano e destinati ai palestinesi. Con annessi arresto di Abu Anzeh Saleh e trattativa per farlo rilasciare dai giudici di Chieti e L’Aquila. Poi c’è la storia del trattato segreto tra Italia e Malta siglato dall’allora sottosegretario Giuseppe Zamberletti a La Valletta proprio un’ora prima della deflagrazione di Bologna. O quella dell’appoggio italiano, sottobanco, al tentato golpe contro Gheddafi fomentato dall’Egitto di Sadat, senza contare la vicenda di Ustica e via dicendo. Verità mai cercate anzi sacrificate da alcuni magistrati sull’altare della ragion di Stato. Moventi precisi, quasi certi, conosciuti da Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Giuseppe Zamberletti, Bettino Craxi, Lelio Lagorio e Giuseppe Santovito. Tragici segreti di Stato e insieme di Pulcinella. Ma che, per evitare che venissero fuori i nostri accordi sottobanco con i palestinesi dell’Olp e del Fplp, nonchè quelli con Gheddafi che includevano l’aiuto a scovare e uccidere i dissidenti libici in Italia, si preferì seppellire sotto i depistaggi ai danni dei Nar. Che in fondo, essendo tutti già condannati per altri omicidi e atti di terrorismo, erano dei capri espiatori perfetti, Ma oggi quando si chiede di togliere i segreti di Stato su Bologna, magari sperando di trovarci dietro chissà quale appoggio occulto della P2 di Licio Gelli, con quale onestà intellettuale si fanno questi appelli? Il «Lodo Moro» e il doppiogiochismo dell’Italia tra «la moglie americana e l’amante libica, e magari l’amichetta palestinese», per citare una felice battuta di Giovanni Pellegrino presidente della Stragi, rimarranno sempre segreti. L’Italia deve accontentarsi dei colpevoli di repertorio. Dimitri Buffa.

Come a sinistra si racconta sempre un'altra storia.

La strage di Bologna: l’intervista di Gianni Barbacetto al giudice Mastelloni. Ad ogni anniversario della strage di Bologna spuntano le rivelazioni su nuove piste e nuovi responsabili per la bomba. Piste e responsabili che spesso si sono rivelati sbagliati o, peggio, dei depistaggi. L'ultimo libro sulla bomba alla stazione: il saggio uscito per Chiarelettere di Rosario Priore e Valerio Cutonilli "I misteri di Bologna". L’1 agosto 2016 sul Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto (autore tra gli altri del libro "Il grande vecchio" sulle stragi e sui segreti italiani) intervista il giudice Carlo Mastelloni, che nel passato aveva indagato sul disastro di Argo 16 e sui contatti tra Br e Olp per lo scambio d'armi. Diversamente da Priore, Mastelloni ha pochi dubbi sull'origine della bomba e sui responsabili: sono stati i neofascisti dei Nar, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Quest'intervista cancella la tesi dei due autori del libro. E' la più grave delle stragi italiane: 85 morti, 200 feriti. È anche l’unica con responsabili accertati, condannati da sentenze definitive: Valerio Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini. Esecutori materiali appartenenti ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari. La strage di Bologna del 2 agosto 1980, ore 10.25, è anche l’unica per cui sono state emesse sentenze per depistaggio: condannati due uomini dei servizi segreti, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e due faccendieri della P2, Licio Gelli e Francesco Pazienza. I depistaggi: fanno parte della storia delle indagini sull’attentato di Bologna (come di tutte le stragi italiane, a partire da piazza Fontana) e arrivano fino a oggi, dopo che sono passati 36 anni. Malgrado le sentenze definitive che attribuiscono la responsabilità dell’attentato ai fascisti nutriti dalla P2, sono continuamente riproposte altre spiegazioni, fantasmagoriche “piste internazionali”. La pista palestinese, più volte presentata in passato, anche da Francesco Cossiga, torna alla ribalta oggi aggiornata dal magistrato che ha indagato sulla strage di Ustica, Rosario Priore. Continua a resistere la pervicace volontà di non guardare le prove raccolte in anni d’indagini e allineate in migliaia di pagine di atti processuali, per inseguire le suggestioni evocate da personaggi pittoreschi e depistatori di professione. Del resto Fioravanti e Mambro, che pure hanno confessato decine di omicidi feroci, continuano a proclamare la loro innocenza per la strage della stazione: non possono e non vogliono accettare di passare alla storia come i “killer della P2”. La definizione è di Vincenzo Vinciguerra, protagonista dell’altra strage italiana per cui c’è un responsabile condannato, quella di Peteano. Ma Vinciguerra ha denunciato se stesso e ha orgogliosamente rivendicato l’azione di Peteano come atto “di guerra politica rivoluzionaria” contro uomini dello Stato in divisa. Su Bologna, sulle 85 incolpevoli vittime, sui 200 feriti, invece, 36 anni dopo restano ancora all’opera i dubbi, le menzogne, i depistaggi. Non ha dubbi: “Cominciamo a mettere le cose al loro posto: la matrice neofascista della strage di Bologna è chiara”. Carlo Mastelloni è dal febbraio 2014 procuratore della Repubblica a Trieste. Non dà credito alla pista internazionale per l’attentato: il giudice Rosario Priore, in un libro scritto con l’avvocato Valerio Cutonilli, spiega la strage con una pista palestinese. “Non l’ho mai condivisa”, dice Mastelloni. In estrema sintesi, secondo i sostenitori di questa ipotesi, la Resistenza palestinese avrebbe compiuto la strage come ritorsione per l’arresto nel novembre 1979 di Abu Saleh, uomo del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), componente radicale dell’Olp di Yasser Arafat, fermato in Italia con tre missili terra-aria tipo Strela insieme a Daniele Pifano e altri due esponenti dell’Autonomia romana. La strage come vendetta per la rottura da parte italiana del cosiddetto “Lodo Moro”, cioè dell’accordo di libero transito in Italia dei guerriglieri palestinesi, in cambio della garanzia che sul territorio italiano non avrebbero compiuto attentati. “Quella pista”, ricorda Mastelloni, “si basa sul fatto che a Bologna la notte prima della strage era presente Thomas Kram; tuttavia, all’elemento certo di quella presenza si è aggiunto il nulla indiziario”. Kram è un tedesco legato al gruppo del terrorista Carlos, lo Sciacallo. Nuovi documenti, ancora secretati perché coinvolgono Stati esteri, sono stati di recente acquisiti dall’attuale Commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro: proverebbero che gli accordi con la Resistenza palestinese hanno tenuto almeno fino all’ottobre dell’80, assicura lo storico Paolo Corsini, che ha potuto leggere quelle carte in qualità di componente dell’organismo parlamentare. Racconta Mastelloni: “Quando il vertice del Sismi (il servizio segreto militare erede del Sid) dopo l’arresto di Pifano e degli altri fu costretto a rivelare la persistenza del Lodo Moro a Francesco Cossiga – che già ne era stato sommariamente informato attraverso le lettere inviate da Moro prigioniero nella primavera 1978 – questi andò su tutte le furie. Soprattutto dopo aver appreso che il transito dei missili era stato accordato al capo dell’Fplp George Habbash dal colonnello del Sid Stefano Giovannone”. La furia di Cossiga, i contatti di Giovannone. In quei mesi Cossiga era presidente del Consiglio. “Appunto. E si arrabbiò moltissimo. Di qui l’atteggiamento furioso di Habbash che rivendicò i missili e la copertura datogli “dal governo italiano” che lui evidentemente identificava in Giovannone, capocentro Sismi a Beirut. Conosco un po’ la personalità di Cossiga: gli piacevano assai certi intrighi internazionali e poi credeva di avere le stesse capacità strategiche di Moro. Per questo è assai facile che il Lodo abbia tenuto fino a tutto il 1980, almeno fino alla conclusione del mandato di Cossiga. È però da escludere che di fronte a una strage come quella di Bologna il Lodo Moro potesse essere idoneo a coprire il fatto. Mi si deve poi spiegare quale utilità avrebbe mai conseguito il Kgb – che aveva avuto alle sue dipendenze Wadi Haddad fino al 1978, così come nella sua orbita si trovava Habbash e lo stesso Arafat capo dell’Olp – colpendo la rossa Bologna”. Cossiga arrivò a dire, in un’intervista al Corriere del giugno 2008, che la strage fu la conseguenza un transito di esplosivo finito male. “Non è assolutamente plausibile. L’esplosivo usato per l’attentato poteva esplodere solo se innescato, non per altri fattori accidentali. La strage fu causata dalla deflagrazione di una valigia riempita con circa 20 chili di Compound B, esplosivo di fabbricazione militare in dotazione a istituzioni come la Nato”. Priore sostiene che l’Fplp di Habbash aveva una così forte influenza su Giovannone e, tramite questi, sul governo italiano, da pretendere che le nostre autorità rifiutassero a statunitensi e israeliani di esaminare i missili Strela sequestrati. “Il dottor Habbash è stato un capo carismatico ma, francamente, penso che i nostri alleati non avessero bisogno di analizzare gli Strela che già conoscevano. Le rivelo che spesi ogni energia –tante missive di richiesta allo Stato maggiore dell’esercito – per avere notizia dei missili sequestrati e poi inviati agli organi tecnici dell’Esercito. Dove si trovavano? Silenzio. Mi fu poi detto nel 1986, dal generale Vito Miceli, che erano stati spediti agli americani per le analisi”. L’ipotesi è che il destinatario ultimo dei missili sequestrati fosse niente di meno che il terrorista Carlos, che stava progettando un’azione clamorosa, un attentato contro i leader egiziano Sadat. “Lo escludo. Nel 1979, Carlos già da anni era stato espulso dal circuito di Fplp. Penso che quei missili fossero in transito e che gli autonomi arrestati si sarebbero dovuti limitare a trasportarli, probabilmente fino al confine svizzero. Si trovava infatti in Svizzera quella che io chiamo la testa del motore, e cioè la centrale del terrorismo palestinese. Mi pare che proprio in quel periodo a Ginevra fosse in programma un’importante conferenza internazionale cui doveva partecipare Henry Kissinger, da anni obbiettivo del Fplp. Carlos aveva assunto il comando dell’organizzazione poi chiamata Separat, vicina ai siriani, e quindi all’Unione Sovietica. Escludo perciò che Carlos avesse bisogno proprio dei due missili di Habbash così come escludo che quest’ultimo si mettesse nelle mani di Carlos per compiere un attentato eclatante nella rossa Bologna”. È dunque solida, da un punto di vista giudiziario, la matrice fascista della strage di Bologna. “Sì. Ricordiamoci innanzitutto il luogo e il contesto: agli inizi degli anni Ottanta, Bologna era ancora la capitale simbolica del Pci. Finiti gli anni del compromesso storico e degli accordi con la Dc, Enrico Berlinguer riposizionò il Partito comunista all’opposizione”. Tanti i testimoni che parlano di Giusva. Responsabile della strage, per la giustizia italiana, è il gruppo dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari di Valerio Giusva Fioravanti. “Lo provano le testimonianze di militanti di primo piano dei Nar: da Cristiano Fioravanti a Walter Sordi, da Stefano Soderini a Luigi Ciavardini. Ma decisiva appare nel contesto della strage la vicenda dell’omicidio Mangiameli. Francesco Ciccio Mangiameli, leader nazionale di Terza Posizione, fu indicato dal colonnello Amos Spiazzi nell’agosto del 1980 come coinvolto nell’attentato. Nel settembre dello stesso anno, Mangiameli venne eliminato dai fratelli Fioravanti, Francesca Mambro e Giorgio Vale a Roma, dopo essere stato attirato in una trappola. Omicidio inspiegabile, se non con il pericolo che ‘Ciccio’ rivelasse quello che sapeva sulla strage di Bologna”.  Giusva Fioravanti e Francesca Mambro erano stati a Palermo, da Mangiameli, nel mese di luglio 1980, per pianificare l’evasione di Pierluigi Concutelli, capo militare di Ordine nuovo. “Sì. Ed è proprio per paura di quanto avevano appreso durante quel viaggio in Sicilia che Giusva era deciso a eliminare anche la moglie e la bambina di Mangiameli. Questo lo ha raccontato il pentito Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva”. Cristiano Fioravanti è un personaggio drammatico, grande accusatore del fratello Giusva. È un personaggio credibile? “Certamente sì. In diverse confidenze fatte nel carcere di Palianolo si evince dalle dichiarazioni di Sergio Calore e Raffaella Furiozzi – e in parziali confessioni rese alla Corte d’assise di Bologna, poi ritrattate ma solo su fortissime pressioni del padre dei fratelli Fioravanti, Cristiano ha additato il fratello come responsabile della strage che, nelle intenzioni, non avrebbe dovuto assumere dimensioni così devastanti”. In aggiunta c’è la testimonianza di Massimo Sparti. “Ed è molto importante. Sparti parla di una richiesta urgente di documenti falsi per Francesca Mambro avanzata da un Valerio Fioravanti molto preoccupato che la ragazza fosse stata riconosciuta alla stazione di Bologna. Inoltre, è assolutamente certo che Giusva e Francesca volevano eliminare Ciavardini per aver fatto incaute rivelazioni il 1° agosto alla fidanzata. Stefano Soderini era già stato mobilitato per l’eliminazione del giovane, allora minorenne e ferito in uno scontro a fuoco durante un’azione dei Nar. Non le pare abbastanza per considerare definitiva la matrice fascista della strage?”. Alcuni ritengono però che in tutta la vicenda processuale sia apparsa indeterminata, se non assente, la figura dei mandanti e la motivazione profonda per la strage. “Resta un buco di ricostruzione storica. Ma nessuno può levarmi dalla testa che le continue e pervicaci campagne volte ad accreditare l’innocenza degli attentatori materiali neofascisti non hanno avuto altro esito – anche dopo la sentenza definitiva della Cassazione – che allontanare ancora di più la ricerca dei mandanti e dei loro scopi”. Oggi resta intoccabile quella grande lapide (“Vittime del terrorismo fascista”) all’interno della stazione, con i nomi degli 85morti di Bologna. “Sì, e aggiungo una cosa: quella lapide è tuttora scomoda per parecchi ambienti”.

«Le stragi di Ustica e Bologna? Cercate in medioriente», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il 2 agosto di 36 anni fa, la stazione di Bologna venne devastata da un'esplosione che provocò 85 morti e oltre 200 feriti. Il giudice Rosario Priore racconta la sua verità e spiega il “Lodo Moro”. Che cosa è successo alla stazione Bologna, quel 2 agosto del 1980? A 36 anni dalla strage più sanguinosa del secondo dopoguerra - in cui persero la vita in un’esplosione 85 persone e ne rimasero ferite 200 - la verità processuale è stata stabilita in via definitiva e ha riconosciuto colpevoli i militanti neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Giusva Foravanti e Francesca Mambro. Secondo l’ex magistrato Rosario Priore, titolare delle inchieste sulla strage di Ustica e autore con Valerio Cutonilli del libro I segreti di Bologna, la verità storica apre scenari completamente diversi.

Partiamo dall’inizio, perchè lei scarta la pista neofascista?

«Da magistrato rispetto la cosa giudicata, ma sul piano storico la ricostruzione presenta numerose falle, dovute probabilmente al fatto che l’istruttoria del processo è stata molto lunga, il che spesso si presta a inquinamenti di ogni genere. Gli elementi che rimandano alla pista mediorientale, invece, sono molto evidenti e in alcuni di questi mi sono imbattuto in prima persona nei processi da me istruiti».

A che cosa si riferisce?

«Principalmente alle dichiarazioni di Carlos, detto lo Sciacallo e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Non solo, però, io credo che il primo a raccontare le cose per come andarono fu il presidente Francesco Cossiga, quando parlò di esplosione prematura».

Non si trattò di una strage voluta?

«Io credo non sia stato un atto doloso per colpire deliberatamente Bologna. La mia ipotesi è che l’esplosivo si trovasse lì perchè doveva essere trasportato dai membri del Fronte Popolare fino al carcere speciale di Trani, in cui era detenuto il militante filopalestinese Abu Anzeh Saleh».

A che cosa serviva quell’esplosivo?

«Il quantitativo fa pensare alla necessità di abbattere mura robuste, come quelle del carcere di Trani. Io credo servisse a far evadere Saleh e che sia esploso per errore a Bologna».

Era così facile per forze straniere trasportare armi ed esplosivi in territorio italiano?

«In quel periodo vigeva ancora il cosiddetto “lodo Moro”, che concedeva alle organizzazioni palestinesi il libero passaggio sul suolo italiano con armi, al fine di stoccarle e usarle successivamente, a patto che non agissero in territorio italiano. Di questo patto esistono le prove, come i depositi di armi in Sardegna e in Trentino».

Possiamo parlare di una sorta di disegno internazionale?

«In quegli anni gli attori in gioco erano molti e molto complessi. Da un lato i filopalestinesi, dall’altro gli americani e la Nato. Noi ci trovavamo nel mezzo e Aldo Moro, da politico raffinato quale è stato fino alla sua morte (nel 1978) sapeva che le regole della partita andavano capite e interpretate».

Lei ha indagato anche sulla strage di Ustica, che avvenne il 27 giugno, un mese prima della strage alla stazione, e in cui persero la vita gli 81 passeggeri del volo Itavia, che viaggiava da Bologna a Palermo. In questo caso una verità processuale chiara manca e le ipotesi rimangono molte. Lei vede un legame con la strage di Bologna?

«Io credo esista un legame generale tra i due eventi, come in tutti i fatti di quegli anni. Anche in quella situazione si riverbera il “lodo Moro”, a cui ancora si ispirava la nostra politica estera. In volo quella notte c’erano velivoli stranieri non Nato, che sorvolavano i nostri cieli con il nostro benestare, sfruttando i buchi sul controllo aereo del patto Atlantico».

Quindi lei scarta decisamente la teoria della bomba a bordo dell’aereo?

«L’ipotesi della bomba non regge. Non posso dire cosa sia successo quella notte, è possibile che si sia trattato di una cosiddetta near-collision tra il volo di linea e un altro aereo militare. Anche i radar indicano questa strada, così come il ritrovamento sui monti calabresi di un aereo da guerra libico».

Tornando ai fatti di Bologna, il suo libro ha scatenato molte polemiche e il presidente dell’associazione delle vittime Paolo Bolognesi l’ha messa in guardia dal commettere il reato di depistaggio.

«Non voglio alimentare polemiche ma trovo strane queste sue affermazioni. Lui si è battuto una vita per capire cosa sia successo a Bologna, ma io ho fatto lo stesso, con intento cronachistico. Entrambi abbiamo lo stesso obiettivo, trovare la verità».  

E' nel 2014 quando Luigi Bisignani, uno degli uomini più influenti della storia italiana, decise insieme al giornalista Paolo Madron - ex firma de Il Foglio, Il Giornale, Panorama, Sole24ore e ora direttore di Lettera43 - di svelare le verità più occulte che per moltissimo tempo mossero l'Italia. Politici, industriali, papi, ministri protagonisti di un libro senza precedenti che assume i toni di un romanzo. Il titolo "L'uomo che sussurra ai potenti" è evocativo di un personaggio capo indiscusso del network che guida le nomine più importanti del Belpaese dai ministri a quelle della Rai, dalle banche all'esercito. Un capolavoro da decine di migliaia di copie, edito da Chiarelettere, "L' uomo che sussurra ai potenti. Trent'anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate". Descrizione: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è unanimemente riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c'è operazione in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell'esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In questo libro, per la prima volta, Bisignani decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti. Da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. Lui che non appare mai in tv, non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza da questo punto di vista è unica. Ecco come funziona il potere, quello vero, che non ha bisogno di parole e agisce nell'ombra.

Chi è veramente Luigi Bisignani, uomo del mistero? Un identikit dell'uomo che sussurra ai potenti, scrive "Wuz". Un libro Chiarelettere che va esaurito nel giorno stesso in cui arriva nelle librerie. Al centro della curiosità vorace dei lettori, la figura di Luigi Bisignani, affarista conosciuto e temuto da moltissimi politici. Di lui, Berlusconi ha avuto a dire che era "l'uomo più potente d'Italia"... ma quali sono le cose che sappiamo con certezza, su questo Richelieu in sedicesimo la cui discrezione è direttamente proporzionale al potere che è in grado di esercitare? Ecco un breve estratto dal libro-intervista pubblicato da Chiarelettere, e firmato dal giornalista Paolo Madron. Sono solo poche righe, per tratteggiare un carattere che vedremmo bene portato sul grande schermo da Sorrentino, magari sulla falsariga di quella grottesca commedia del potere ammirata ne Il divo (che raccontava dell'esempio cui massimamente Bisignani si è ispirato nella sua quarantennale carriera dietro le quinte, e cioè Giulio Andreotti). Quello di Bisignani è un libro la cui lettura consigliamo; ci permettiamo però di consigliare qualche cautela nel prendere per buono tutto ciò che in esso viene raccontato. Se è vero che l'uomo è arrivato dove è arrivato grazie alle sue capacità strategiche e alla sua grande cautela, infatti, è difficile pensare che all'improvviso Bisignani abbia deciso di mettere sul piatto i segreti di cui è geloso custode (e al cui mantenimento è probabilmente legato l'ascendente di cui gode presso i politici). Più facile invece che Mister B. abbia deciso, anche in seguito alle sue recenti, travagliate vicende giudiziarie, di offrire a (tutti) i suoi potenziali lettori l'assaggio di una cena che sarebbero in pochi ad aver voglia di gustare fino in fondo. Diciamo che in queste pagine si respira il fumo (saporito, non c'è che dire) di un arrosto che il nostro cuoco tiene ben caldo in forno, portata principale che immaginiamo non arriverà a tavola tanto presto. Sul libro: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c’è operazione - si dice - in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell’esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In "L'uomo che sussurra ai potenti", per la prima volta, Bisignani "vuota il sacco" e decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti: da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. L'uomo che sussurra ai potenti non appare mai in tv, naturalmente. Non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza - da questo punto di vista - è realmente unica. Quindi questo libro ci offre un cannocchiale privilegiato per gettare uno sguardo da vicino sul potere più forte e inossidabile: il potere vero, che fa economia di parole e si muove con assoluta efficacia fra le stanze di Palazzo.

IDENTIKIT – cosa il signor B. dice di sé stesso:

1. Inguaribile ottimista, amo il sole e il mare;

2. Le mie conversazioni sono rapide, in genere non superano i 15 minuti;

3. Il mio segreto è che resto sempre a disposizione dei miei amici;

4. Non cerco ritorni;

5. So come va il mondo;

6. Non mi piace apparire;

7. Non partecipo a cene con più di sei persone;

8. Gianni Barbacetto mi ha definito L’uomo dei collegamenti;

9. Maurizio Crozza dice che ho più amici di facebook;

10. Qualcuno dice che sono un battitore libero senza padroni né padrini;

11. Io direi che sono uno stimolatore d’intelligenze: quando una persona valida mi piace immagino quale ruolo potrebbe ricoprire.

L'uomo che sussurrava ai potenti. Alter ego di Letta. Regista di mezzo governo. Ispiratore dei manager pubblici. Bisignani è l'uomo ombra della seconda Repubblica. E ora fa tremare il sistema Berlusconi, scrive Marco Damilano su “L’Espresso” il 23 giugno 2011. Al suo successo avevano contribuito una congerie di potentati difficilmente collegabili tra loro, ma che lui era sempre riuscito a usare, manovrandoli come pedine su un'immaginaria scacchiera del potere...". Martedì 21 giugno, solstizio d'estate, il calendario segna san Luigi Gonzaga, ma il san Luigi di piazza di Spagna, confessore di ministre e di boiardi di Stato, non può più rispondere: è agli arresti domiciliari. E qualcuno nei palazzi romani rilegge l'incipit di un romanzo anni Ottanta denso di spioni, cardinali, belle donne, in cui l'autore sembrava volersi descrivere, consegnare la verità più profonda su di sé. "Il sigillo della porpora", si intitolava quella spy-story all'italiana che fu presentata al teatro Eliseo, e peccato che non ci fosse ancora "Cafonal" a immortalare la scena: il ministro degli Esteri Giulio Andreotti recensore entusiasta ("Il gelido protagonista si commuove solo quando gli uccidono la figlia: una pagina di toccante ed eloquente umanità"), il giovane e rampante Giuliano Ferrara, il re dei critici Enzo Siciliano, e in mezzo a loro lo scrittore, il 35enne Luigi Bisignani. Di quella serata indimenticabile resta qualche scatto, null'altro. Dalla condanna per la tangente Enimont a due anni e sei mesi (1994) Bisignani è scomparso dalle cronache: un'ombra che ha attraversato l'intera Seconda Repubblica. E ora l'Ombra torna alla luce, con l'inchiesta di Napoli dei pm Curcio e Woodcock, nel pieno di una nuova traumatica transizione politica. Spiega un notabile a Montecitorio: "Siamo come all'8 settembre: una corte in fuga, un governo che si dissolve, eserciti in rotta. Pezzi di Stato contro pezzi di Stato, apparati contro apparati. Una guerra di tutti contro tutti, che si può concludere solo con un ricambio di classe dirigente. O che soffocherà tutti nei suoi miasmi". Nei palazzi rileggono i verbali dell'inchiesta e riconoscono in controluce nella storia di Bisignani la parabola della politica di questi vent'anni. "Ai tempi di Andreotti, Bisignani era un piglia e porta. Stava in anticamera ed eseguiva. Su uno come Geronzi, Giulio ironizzava: "È come un taxi, anche se conserva la ricevuta"", spiega un ex democristiano di rango. "Dirigenti pubblici, banchieri, consiglieri di Stato, i De Lise, i Calabrò, i Catricalà, erano guidati dai politici. Svaniti i partiti con la bufera Tangentopoli hanno dovuto trovarsi altri referenti". Interessi senza volto. Comunanze e affinità che sostituiscono le sedi visibili. Filiere trasversali. Come quella, ad esempio, personificata da Cesare Previti: in apparenza dormiente e condannato, ma ancora abbastanza influente da far inserire nelle liste per la Camera del Pdl Alfonso Papa, il magistrato distaccato nel ministero di via Arenula e oggi deputato Pdl amante di Rolex e di Jaguar di cui i pm napoletani hanno richiesto l'arresto. La filiera che più si sente minacciata e desiderosa di protezione, però, è un'altra: bastava vedere il balletto improvvisato da Berlusconi nell'aula del Senato, un inconsueto giro di strette di mano tra i banchi del governo per arrivare a stringere davanti a tutti quella del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il dottor Gianni Letta. A legare il sodalizio tra i due, un quarto di secolo fa, fu Bisignani. All'imprenditore di Arcore serviva un presidio a Roma. E Bisignani non ebbe esitazioni, indicò a Silvio l'uomo giusto: il dottor Letta, appunto. Letta da direttore del "Tempo" diventa il decoder di Berlusconi nella capitale, e poi il gran ciambellano di Palazzo Chigi, il governante che nessuno ha votato e di cui nessuno conosce le idee politiche e che pure viene candidato alle più alte cariche. L'inchiesta Bisignani lo fulmina alla vigilia della possibile consacrazione istituzionale, la nomina a senatore a vita e perfino il Quirinale. E se Letta risolve i problemi di Berlusconi, l'Ombra Bisignani è il personaggio che spiccia le faccende di mezzo governo, dei vertici degli enti pubblici, del Gotha dell'impresa privata e dei servizi segreti, da Cesare Geronzi a Fabrizio Palenzona. A lui si affidano i ministri e le ministre di Berlusconi: a Gigi si rivolge con familiarità il titolare della Farnesina Franco Frattini, a lui ricorre il trio rosa Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini. Più confidenziale Stefania ("Se escono le intercettazioni sono rovinata"), più prudente Mara, più ambiziosa Mariastella. Ruota attorno all'ufficio di piazza Mignanelli lo stato maggiore della corrente del Pdl Liberamente ("Forse avrebbero dovuto chiamarsi Bisignanamente", maligna un deputato). Vicino a Bisignani è il titolare delle Infrastrutture Altero Matteoli, tramite il braccio destro Erasmo Cinque. Mentre tra i finiani di Futuro e libertà, capolavoro, si abbeverano ai consigli di Gigi entrambe le anime: il falco Italo Bocchino e la colomba Andrea Ronchi, ministro nel 2008 per grazia ricevuta, forse non solo di Gianfranco Fini. A Palazzo Grazioli l'Ombra può contare sulla vecchia conoscenza Daniela Santanchè: fu lui il regista dell'operazione Destra, quando la Sarah Palin di Cuneo si candidò premier con il partito di Francesco Storace, fu ancora lui a spingerla a fondare l'agenzia Visibilia, per raccogliere pubblicità per "Libero" degli Angelucci. E c'è il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che a leggere la testimonianza del suo ex capo di gabinetto Maurizio Basile, usava cenare a casa della mamma di Bisignani, la signora Vincenzina, per discutere del Gran premio a Roma e chiedere a san Luigi di intercedere presso Flavio Briatore. L'aggancio giusto per la F1, manco a dirlo: il figlio di Bisignani lavora in Ferrari e con il presidente del Cavallino Rampante c'è una vecchia simpatia. "Di casa a New York come a Parigi, amante delle lunghe gita in bicicletta e della scultura moderna, Luca Cordero di Montezemolo è diventato un manager tenace con un notevole carisma che, a sentire i sondaggi, l'ha imposto come uno degli italiani più conosciuti", magnificava l'allora redattore ordinario dell'Ansa Bisignani in un sobrio lancio del 15 novembre 1991. Ma c'era da capirlo: emarginato nell'agenzia dopo lo scandalo P2, costretto a occuparsi di camionisti o di poco eccitanti convegni come quello su "Etica e professione" ("Il giornalista deve liberarsi dai cordoni ombelicali del potere economico e politico", tuonava), era stato salvato da Montezemolo: "Nell'89, in occasione dei Mondiali di calcio, noi dell'organizzazione ottenemmo il suo distacco dall'Ansa", ha dichiarato l'ex presidente di Confindustria interrogato dai pm sulle richieste di raccomandazione per l'amico Gianni Punzo e per l'ex compagna Edwige Fenech. Naturale un po' di gratitudine, anche se sono trascorsi vent'anni. Come appare del tutto normale, nel Bisi-mondo, la rete ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie. E la pubblicità di 100 mila euro arrivata dall'Eni a Dagospia per interessamento di san Luigi. Più complicato da spiegare, perfino per un professionista del potere come Bisignani, perché il direttore generale della Rai Mauro Masi si rivolgesse a lui per farsi scrivere la lettera con cui puntava a licenziare Michele Santoro, lo chiamasse con l'assiduità del molestatore e con toni non certo da grand commis: "Je stamo a spaccà er culo". "Mi occupavo di Rai perché ero convinto che Masi non fosse all'altezza", ha provato a giustificarsi il povero Bisignani. E sì che Gigi ha fatto con Mauro coppia fissa: entrambi legati a Lamberto Dini e a Letta, senza trascurare la rive gauche. Tra il 2006 e il 2008 Masi è stato capo di gabinetto di Massimo D'Alema vice-premier del governo Prodi. E anche Bisignani poteva vantare ottima accoglienza dalle parti dell'ex leader Ds: fu lui a portare il direttore dell'Aise, il generale Adriano Santini, dal presidente del Copasir. "Il generale mi chiese una mano per la sua carriera e mi chiese di parlare bene di lui con Letta. Chiesi a D'Alema se potevo portargli Santini, lui mi disse di sì", ha raccontato a Curcio e Woodcock. Anche in questo caso, giurano i protagonisti, nulla di strano: "Conosco Bisignani da 35 anni", ha testimoniato D'Alema. "Lui conosceva mio padre, era presidente della commissione Finanze della Camera, Bisignani era il portavoce del ministro". Nel '77 D'Alema aveva 28 anni ed era il capo dei giovani comunisti, Bisignani ne aveva appena 23 ed era il più giovane piduista. Vite parallele, in un'Italia in cui tutti si conoscono. E in cui, nonostante l'alternanza dei diversi schieramenti al governo, certi nomi non tramontano mai. Ora siamo alla vigilia di un nuovo cambio. Se n'è discusso tre mesi fa, sussurra chi sa, in un incontro a porte chiuse all'Aspen sul tema della riforma dei servizi segreti. Pochi gli invitati, c'erano D'Alema e Giuliano Amato, c'era il prefetto Gianni De Gennaro, incrollabile punto di riferimento di questi anni travagliati anche oltre Atlantico, c'era il presidente dell'Istituto Giulio Tremonti, da molti indicato come il vero beneficiario di un terremoto che fa vacillare i suoi avversari nel governo. Assente il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, che indagò su Bisignani ai tempi Enimont e alle cui analisi il ministro dell'Economia è molto attento. In questi ambienti c'è preoccupazione per le conseguenze dell'inchiesta e si discute già della fase successiva: un governo del Presidente. "Berlusconi doveva avere il coraggio di voltare pagina. All'Italia serve un governo forte e credibile e il Cavaliere non ha più carte da giocare", ripetono. Il premier non ci sente, prova a blindarsi nel bunker di Palazzo Chigi tra un voto di fiducia e l'altro, aggrappato a una maggioranza nel caos e a un Letta vistosamente indebolito. Tremonti al Senato per il dibattito sulla verifica non si è fatto neppure vedere. E l'Ombra, intanto, continuerà a far tremare con le sue rivelazioni. Il più consapevole che il game is over, la storia è finita, è proprio lui, Bisignani. "Ora che dalla cima si poteva guardare indietro, gli capitava spesso di chiedersi, rabbrividendo, se avrebbe sfidato ancora l'azzardo come gli era capitato tante volte durante l'ascesa", aveva scritto Bisignani nel suo primo romanzo. Ma adesso il suo azzardo coinvolge un intero Sistema.

“Avrei voluto un amico come lui” – David Gramiccioli omaggia Rino Gaetano, scrive il 14 settembre 2015 "lastella". Riceviamo & pubblichiamo da David Gramiccioli. Dagli anni 70 a oggi non è cambiato niente. Ieri il braccio armato di quel potere occulto e deviato (oggi sempre meno occulto e sempre più deviato) era Franco Giuseppucci detto Er Negro, primo, indiscusso capo della banda della Magliana. Oggi Massimo Carminati, forse non è un caso che il secondo rappresenti l’ideale contiguità con quell’esperienza criminale. Negli anni 70 il fronte criminale romano si arricchì con il commercio della droga, successivamente con il business immobiliare. Oggi, che la droga sembra non essere più il filone aureo di una volta e con la profonda crisi che sta vivendo l’edilizia, si “investe” sulla disperazione umana (immigrati e zingari). Tangentopoli produsse, colossale bluff, una nuova legge elettorale per l’elezione dei sindaci, in molti esultarono all’idea che finalmente sarebbero stati i cittadini, per la prima volta nella storia repubblicana e democratica del paese, a eleggere direttamente un sindaco. In realtà si rafforzò ancora di più il potere politico di alcuni leader che avevano a cuore tutto tranne che il bene e la ripresa del paese. La televisione, il riscontro mediatico fissavano sempre di più i parametri del successo in ogni campo della nostra società. Quando parliamo del nostro paese, della nostra amata Italia, non dobbiamo dimenticarci mai cosa è accaduto dall’8 di settembre 1943 a oggi. Legge truffa subito dopo la morte di Stalin, Capocotta. Tragedia del Vajont, Giorgiana Masi…i rapporti tra massoneria-politica-criminalità. Nessuno come lui ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava: “ma chi me sente”, era consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio, ma nel profondo del suo animo Rino nutriva, lo disse pubblicamente una sera, una grande speranza; quella che un giorno grazie alla comunicazione di massa la gente potesse finalmente comprendere il significato dei testi delle sue canzoni.

Recensione di Giada Ferri dello spettacolo teatrale “Avrei voluto un amico come lui. Omaggio a Rino Gaetano” di David Gramiccioli. Finalmente uno spettacolo teatrale dai contenuti ben scelti e approfonditi che tocca con estrema professionalità e non meno stile una sequenza di vicissitudini italiane per lo più rimaste impunite. Spettacolo che dà il giusto lustro alla figura del diretto ispiratore, il cantautore Rino Gaetano, menzionato con intelligenza e garbo, non tentando di snaturarne la criptica essenza con convinzioni pregiudizievoli nei suoi confronti, ma evidenziando il suo genio nel trattare eventi, di diverse collocazioni spazio-temporali, che gli stanno a cuore. Ci si immerge infatti in un viaggio nella Memoria, condotto magistralmente da David Gramiccioli (giornalista e speaker radiofonico), attraverso alcuni dei più rilevanti fatti di cronaca nera e scandali della storia italiana, dal secondo dopoguerra agli anni ’70, per mezzo della chiave di lettura che il cantautore dà a quei fatti, trasformandoli in frasi cardine delle sue canzoni. Si pensi a “Spendi per opere assistenziali e per sciagure nazionali” (in Fabbricando case) e a “Il numero 5 sta in panchina, s’è alzato male stamattina” (in Nuntereggae più) riferite a personaggi coinvolti nella strage annunciata del Vajont oppure a “Il nostro è un partito serio” (sempre in Nuntereggae più) con tanto di imitazione dell’inflessione dell’allora dirigente del PCI Berlinguer, all’indomani del “Governo delle astensioni”, nel 1976. La stessa frase viene pronunciata anche da Cossiga, sardo pure lui e al tempo Ministro dell’Interno, quando è chiamato a rispondere degli incresciosi fatti dell’anno successivo, che vedono cadere Giorgiana Masi raggiunta da un misterioso proiettile durante una manifestazione. Ancora, ai nomi fatti in Standard, ricordandoci dello scandalo Lockheed e ai nomi censurati alla stessa Nuntereggae più, brano cardine della pièce poiché, come si vedrà, racchiude in sé allusioni anche al delitto Montesi nella sua frase ormai nota “…sulla spiaggia di Capocotta”. Ma questa non è che una modesta anticipazione di quelli che sono gli argomenti toccati dall’autore. David Gramiccioli ha conosciuto la grande forza di Rino Gaetano leggendo i suoi testi. Non ha preteso di interpretarlo ed etichettarlo, ma affronta le vicende contenute nelle sue parole senza preconcetti e infondati collegamenti, come a volte, pur di dare un senso alla sua prematura scomparsa, si sia spinti a fare, costruendone un lato oscuro invece di ammirare le sue doti straordinarie legate alla sua dedizione a tenere sempre gli occhi aperti, nella scelta coraggiosa di smascherare gli intrighi del Potere anziché farne parte. È così quindi che l’autore scrive questa sceneggiatura, con estrema lucidità e oggettività, senza attingere a dietrologie non provate e senza farcire di orpelli e convinzioni personali quegli intrecci nefasti tutti italiani, bensì lasciando lo spettatore alle proprie deduzioni, stimolandone tuttavia l’interesse a saperne di più e favorendone l’utile ragionamento circa i casi trattati. Gramiccioli, oltre ad aver creato uno spettacolo a scopo benefico, ha veramente reso “Omaggio a Rino Gaetano”. I contenuti della sceneggiatura sono fedeli al titolo. Giada Ferri.

“Avrei voluto un amico come lui”, tour itinerante della Compagnia Teatro Artistico d’Inchiesta guidata dal giornalista performer David Gramiccioli. «Nessuno come Rino Gaetano – si legge nelle note di regia – ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava “ma chi me sente”, consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio. Ma nel profondo del suo animo Rino nutriva – e lo disse pubblicamente una sera – la speranza che un giorno, grazie alla comunicazione di massa, gli italiani potessero finalmente comprendere il significato vero dei testi delle sue canzoni».

Nemmeno al mare si può stare tranquilli.

Cazzotti, toilette da incubo e sesso sfrenato Le spiagge diventano gironi infernali. I vigili di Follonica aggrediti dagli ambulanti ultimo capitolo del degrado estivo, scrive Michela Giachetta, Martedì 02/08/2016, su "Il Giornale". Agenti aggrediti da venditori abusivi in Toscana, centinaia di immigrati che, prima ancora del sorgere del sole, invadono il bagnasciuga in Liguria. Ma anche coppie che fanno sesso in riva al mare, in pieno giorno, senza curarsi dei bambini, che sono lì, a pochi metri, a giocare con la sabbia. E poi la sporcizia, le bottiglie di plastica o di vetro abbandonate, i cumuli di rifiuti che incorniciano panorami che sarebbero solo da ammirare, se non ci fosse quel degrado. Da Nord a Sud, le spiagge italiane sono in preda a incuria, trascuratezza, trattate malissimo in alcuni casi, come se non fossero uno dei nostri patrimoni da tutelare. Gli esempi negativi non mancano. A Castel Porziano, a due passi da Roma, dove c'è anche la tenuta presidenziale, prima ancora di arrivare in spiaggia si è accolti dai parcheggiatori abusivi. La situazione poi si complica se durante la giornata bisogna andare in bagno: le toilette o mancano o sono inavvicinabili per odore e sporcizia. Una situazione di degrado che si può trovare anche in altri posti. A giugno Legambiente Arcipelago ha denunciato le pessime condizioni in cui versa la spiaggia della Cala, a Marciana Marina, nella splendida isola d'Elba: quello che resta di vecchie imbarcazioni giace completamente abbandonato, così come sono abbandonate e fatiscenti le strutture che le ospitano. «Per non parlare della tettoia, ormai ridotta a pochi e pericolosi elementi di copertura». Rimanendo in Toscana, qualche giorno fa, a Follonica (Grosseto), tre agenti della polizia municipale, che stavano effettuando controlli di routine sulle spiagge, sono stati aggrediti da una decina di venditori ambulanti, che si sono opposti a quei controlli, reagendo con calci e pugni contro i vigili. Gli agenti sono riusciti a fermare solo una persona, gli altri sono tutti scappati, creando il parapiglia in spiaggia. Nella stessa località un episodio simile si era già verificato una decina di giorni prima. Scene che hanno a che fare poco col degrado, ma molto con quella serenità che dovrebbe regnare sulle spiagge. In Liguria, invece, ha raccontato La Stampa, centinaia di immigrati, per lo più del Sud America, prima dell'alba, arrivano sulla spiaggia libera di Laigueglia (Savona), per passare una giornata al mare. Partono col buio da Milano o da Torino, spesso in pullman. Quando il sole si sveglia, lì trova già tutti lì, con i loro teli, i giochi per i bambini, i frigoriferi portatili che contengono i loro pranzi fai da te. Le lamentele non mancano: perché la spiaggia a fine giornata bisogna pulirla, ma gli immigrati non hanno speso nulla nelle strutture circostanti, i bagni inoltre sono pochi e comunque insufficienti, così come i controlli. L'assenza di controlli è un leitmotiv che accompagna tutta la penisola: già a maggio, i giornali locali calabresi raccontavano il degrado e l'incuria di alcune spiagge a Vibo Marina, frazione di Vibo Valentia. A giugno a Salerno le proteste dei comitati di zona non sono mancate: nella parte orientale della città gli arenili erano ostaggio di topi scorrazzanti fra i bagnati e blatte volanti, una situazione disastrosa. Anche a Villasimius, in Sardegna, alcune spiagge sono state lasciate al più completo abbandono e piene di rifiuti. Così come a Brindisi, dove a maggio, alcune persone hanno preso il sole circondate non solo dal rumore del mare, ma anche da un cumulo di sporcizia. Non ci sono però solo l'immondizia e i rifiuti con cui fare i conti: che l'estate sia la stagione degli amori, si sa, ma capita che alcuni quel detto lo prendano fin troppo alla lettera: accade che, presi dalla passioni, si spoglino anche di quel poco che hanno indosso per fare sesso in spiaggia, in pieno giorno, sono gli occhi dei bimbi (che forse non capiscono) e sotto gli sguardi degli adulti che capiscono bene e spesso sono costretti a chiamare le autorità competenti per far cessare l'amplesso. È capitato a maggio nelle Marche, a Civitanova: due italiani sono stati denunciati. Stessa sorte di una coppia di tedeschi: in una spiaggia vicino a Venezia un uomo e una donna, completamente nudi, hanno scelto di fare sesso, completamente nudi. Spiaggia che vai, degrado che trovi. E se non è degrado, è trascuratezza. Da nord a sud. Per fortuna però le eccezioni esistono.

Come conoscere gli altri?

Chiedendogli se puoi accendere il climatizzatore in auto o in casa. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da passeggera (anche se posteriore) fa spegnere il climatizzatore in auto, accusando mal di gola, mentre all’esterno ci sono 40°, costringendo gli altri passeggeri ed il proprietario dell’auto a fare bagni di sudore. E la stessa cosa costringerà a fare negli uffici e nelle case altrui. La mancanza di rispetto per gli altri, specialmente verso i familiari, sarà costante ed alla fine, quando l’orlo è colmo e lo farai notare, lo rinnegherà esaltando le sue virtù ed, anzi, ti accuserà di intolleranza e per ritorsione ti affibbierà qualsiasi difetto innominabile.

Chiedendogli come programma le cose da fare.  Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando pretende e dà per scontato l’ausilio altrui, anche quando gli altri hanno programmi alternativi ai suoi.

Chiedendogli cosa pensa delle persone che dalla vita e dal lavoro hanno avuto soddisfazione. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da nullafacente e nullatenente sparlerà di chi ha successo nella vita e lo accuserà di aver rubato per ottenere quello che egli stesso non ha.

Salvo eccezioni.

"Fiat brava gente": così gli Agnelli hanno rapinato l'Italia lungo un intero secolo, scrive “L’Antidiplomatico il 27 luglio 2016. Hanno deciso di abbandonarla definitivamente anche come sede legale e fiscale, dopo che, scrive correttamente Giorgio Cremaschi oggi, non resta più nulla da spolpare e poi è sempre meglio essere lontano (tra Stati Uniti e Olanda) quando si tratta di chiudere i prossimi stabilimenti o licenziare i prossimi dipendenti. "Come le peggiori classi parassitarie che hanno saccheggiato questo paese nei lunghi secoli della sua spesso triste storia, gli Agnelli lasciano l'Italia dopo aver usato ed abusato del sacrificio di milioni di persone e di una montagna di soldi pubblici. Migrano come cavallette, cavallette europeiste", scrive Cremaschi. Ma la Fiat e la famiglia Agnelli hanno una storia molto lunga legata al nostro paese. In un lungo e dettagliato articolo del 2011 Maria Rosa Calderoni su Liberazione (ripreso anche da Marx 21) la ripercorreva tutto. Il 2011 è un anno importante, l'inizio della rivoluzione di Marchionne di cui subiamo ancora oggi tutti i drammatici effetti nell'Italia di Renzi.  "Mani in alto, Marchionne! Questa è una rapina", concludeva l'articolo di Calderoni. E' giunto il momento che come contribuenti e cittadini derubati ci si mobilitasse per chiedere la restituzione dei nostri soldi. Di Maria Rosa Calderoni su Liberazione. Gioanin lamiera, come scherzosamente gli operai chiamavano l'Avvocato, ha succhiato di brutto; ma prima di lui ha succhiato suo padre; e prima di suo padre, suo nonno Giovanni. Giovanni Agnelli Il Fondatore. Hanno succhiato dallo Stato, cioè da tutti noi. E' una storia della Fiat a suo modo spettacolare e violenta, tipo rapina del secolo, questa che si può raccontare - alla luce dell'ultimo blitz di Marchionne - tutta e completamente proprio in chiave di scandaloso salasso di denaro pubblico. Un salasso che dura da cent'anni. Partiamo dai giorni che corrono. Per esempio da Termini Imerese, lo stabilimento ormai giunto al drammatico epilogo (fabbrica chiusa e operai sul lastrico fuori dai cancelli). Costruito su terreni regalati dalla Regione Sicilia, nel 1970 inizia con 350 dipendenti e 700 miliardi di investimento. Dei quali almeno il 40 per cento è denaro pubblico graziosamente trasferito al signor Agnelli, a vario titolo. La fabbrica di Termini Imerese arriva a superare i 4000 posti di lavoro, ma ancora per grazia ricevuta: non meno di 7 miliardi di euro sborsati pro Fiat dal solito Stato magnanimo nel giro degli anni. Agnelli costa caro. Calcoli che non peccano per eccesso, parlano di 220 mila miliardi di lire, insomma 100 miliardi di euro (a tutt'oggi), transitati dalle casse pubbliche alla creatura di Agnelli. Nel suo libro - "Licenziare i padroni?", Feltrinelli - Massimo Mucchetti fa alcuni conti aggiornati: «Nell'ultimo decennio il sostegno pubblico alla Fiat è stato ingente. L'aiuto più cospicuo, pari a 6059 miliardi di lire, deriva dal contributo in conto capitale e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivo per gli investimenti nel Mezzogiorno in base al contratto di programma stipulato col governo nel 1988». Nero su bianco, tutto "regolare". Tutto alla luce del sole. «Sono gli aiuti ricevuti per gli stabilimenti di Melfi, in Basilicata, e di Pratola Serra, in Campania». A concorrere alla favolosa cifra di 100 miliardi, entrano in gioco varie voci, sotto forma di decreti, leggi, "piani di sviluppo" così chiamati. Per esempio, appunto a Melfi e in Campania, il gruppo Agnelli ha potuto godere di graziosissima nonché decennale esenzione dell'imposta sul reddito prevista ad hoc per le imprese del Meridione. E una provvidenziale legge n.488 (sempre in chiave "meridionalistica") in soli quattro anni, 1996-2000, ha convogliato nelle casse Fiat altri 328 miliardi di lire, questa volta sotto la voce "conto capitale". Un bel regalino, almeno 800 miliardi, è anche quello fatto da tal Prodi nel 1997 con la legge - allestita a misura di casa Agnelli, detentrice all'epoca del 40% del mercato - sulla rottamazione delle auto. Per non parlare dell'Alfa Romeo, fatta recapitare direttamente all'indirizzo dell'Avvocato come pacco-dono, omaggio sempre di tal Prodi. Sempre secondo i calcoli di Mucchetti, solo negli anni Novanta lo Stato ha versato al gruppo Fiat 10 mila miliardi di lire. Un costo altissimo è poi quello che va sotto la voce "ammortizzatori sociali", un frutto della oculata politica aziendale (il collaudato stile "privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite"): cassa integrazione, pre-pensionamenti, indennità di mobilità sia breve che lunga, incentivi di vario tipo. «Negli ultimi dieci anni le principali società italiane del gruppo Fiat hanno fatto 147,4 milioni di ore di cassa integrazione - scrive sempre Mucchetti nel libro citato - Se assumiamo un orario annuo per dipendente di 1.920 ore, l'uso della cassa integrazione equivale a un anno di lavoro di 76.770 dipendenti. E se calcoliamo in 16 milioni annui la quota dell'integrazione salariale a carico dello Stato nel periodo 1991-2000, l'onere complessivo per le casse pubbliche risulta di 1228 miliardi». Grazie, non è abbastanza. Infatti, «di altri 700 miliardi è il costo del prepensionamento di 6.600 dipendenti avvenuto nel 1994: e atri 300 miliardi se ne sono andati per le indennità di 5.200 lavoratori messi in mobilità nel periodo». Non sono che esempi. Ma il conto tra chi ha dato e chi ha preso si chiude sempre a favore della casa torinese. Ab initio. In un lungo studio pubblicato su "Proteo", Vladimiro Giacché traccia un illuminante profilo della storia (rapina) Fiat, dagli esordi ad oggi, sotto l'appropriato titolo "Cent'anni di improntitudine. Ascesa e caduta della Fiat". Nel 1911, la appena avviata industria di Giovanni Agnelli è già balzata, con la tempestiva costruzione di motori per navi e soprattutto di autocarri, «a lucrare buone commesse da parte dello Stato in occasione della guerra di Libia». Non senza aver introdotto, già l'anno dopo, 1912, «il primo utilizzo della catena di montaggio», sulle orme del redditizio taylorismo. E non senza aver subito imposto un contratto di lavoro fortemente peggiorativo; messo al bando gli "scioperi impulsivi"; e tentato di annullare le competenze delle Commissioni interne. «Soltanto a seguito di uno sciopero durato 93 giorni, la Fiom otterrà il diritto di rappresentanza e il riconoscimento della contrattazione collettiva» (anno 1913). Anche il gran macello umano meglio noto come Prima guerra mondiale è un fantastico affare per l'industria di Giovanni Agnelli, volenterosamente schierata sul fronte dell'interventismo. I profitti (anzi, i "sovraprofitti di guerra", come si disse all'epoca) furono altissimi: i suoi utili di bilancio aumentarono dell'80 per cento, il suo capitale passò dai 17 milioni del 1914 ai 200 del 1919 e il numero degli operai raddoppiò, arrivando a 40 mila. «Alla loro disciplina, ci pensavano le autorità militari, con la sospensione degli scioperi, l'invio al fronte in caso di infrazioni disciplinari e l'applicazione della legge marziale». E quando viene Mussolini, la Fiat (come gli altri gruppi industriali del resto) fa la sua parte. Nel maggio del '22 un collaborativo Agnelli batte le mani al "Programma economico del Partito Fascista"; nel '23 è nominato senatore da Mussolini medesimo; nel '24 approva il "listone" e non lesina finanziamenti agli squadristi. Ma non certo gratis. In cambio, anzi, riceve moltissimo. «Le politiche protezionistiche costituirono uno scudo efficace contro l'importazione di auto straniere, in particolare americane». Per dire, il regime doganale, tutto pro Fiat, nel 1926 prevedeva un dazio del 62% sul valore delle automobili straniere; nel '31 arrivò ad essere del 100%; «e infine si giunse a vietare l'importazione e l'uso in Italia di automobili di fabbricazione estera». Autarchia patriottica tutta ed esclusivamente in nome dei profitti Fiat. Nel frattempo, beninteso, si scioglievano le Commissioni interne, si diminuivano per legge i salari e in Fiat entrava il "sistema Bedaux", cioè il "controllo cronometrico del lavoro": ottimo per l'intensificazione dei ritmi e la congrua riduzione dei cottimi. Mussolini, per la Fiat, fu un vero uomo della Provvidenza. E' infatti sempre grazie alla aggressione fascista contro l'Etiopia, che la nuova guerra porta commesse e gran soldi nelle sue casse: il fatturato in un solo anno passa da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni, mentre la manodopera sale a 50 mila. «Una parte dei profitti derivanti dalla guerra d'Etiopia - scrive Giacché - fu impiegata (anche per eludere il fisco) per comprare i terreni dove sarebbe stato costruito il nuovo stabilimento di Mirafiori». Quello che il Duce poi definirà «la fabbrica perfetta del regime fascista». Cospicuo aumento di fatturato e di utili anche in occasione della Seconda guerra mondiale. Nel proclamarsi del tutto a disposizione, sarà Vittorio Valletta, nella sua veste di amministratore delegato, a dare subito «le migliori assicurazioni. Ponendo una sola condizione: che le autorità garantissero la disciplina nelle fabbriche attraverso la militarizzazione dei dipendenti». L'Italia esce distrutta dalla guerra, tra fame e macerie, ma la casa torinese è già al suo "posto". Nel '47 risulta essere praticamente l'unica destinataria dell'appena nato "Fondo per l'industria meccanica"; e l'anno dopo, il fatidico '48, si mette in tasca ben il 26,4% dei fondi elargiti al settore meccanico e siderurgico dal famoso Piano Marshall. E poi venne la guerra fredda, e per esempio quel grosso business delle commesse Usa per la fabbricazione dei caccia da impiegare nel conflitto con la Corea. E poi vennero tutte quelle autostrade costruite per i suoi begli occhi dalla fidata Iri. E poi venne il nuovo dazio protezionistico, un ineguagliabile 45% del valore sulle vetture straniere... E poi eccetera eccetera. Mani in alto, Marchionne! Questa è una rapina.

Terrorismo, qualcosa non torna…scrive Diego Fusaro su "Il Fatto Quotidiano" il 26 luglio 2016. Stragi su stragi. Senza tregua. Quasi una al giorno, ormai. Chissà perché, poi, questi orrendi attentati si abbattono sempre nei luoghi pubblici facendo strage di povera gente, di persone comuni, lavoratori e disoccupati, ragazzi e studenti. Mai una volta – avete notato? – che l’ira delirante dei terroristi si abbatta nei luoghi del potere e della finanza. Mai. Mai un signore della finanza colpito, mai uno statista, mai un “pezzo grosso” dell’Occidente. Strano, davvero, che i pazzi alfieri del terrorismo, che in teoria – si dice – avrebbero dichiarato guerra all’Occidente non prendano di mira chi l’Occidente davvero lo governa. Se non ci dicessero un giorno sì e l’altro pure che il terrorismo islamico ha dichiarato guerra all’Occidente si avrebbe quasi l’impressione che si tratti di una guerra di classe – gestita poi da chi? – contro lavoratori, disoccupati, classi disagiate: una lotta di classe tremenda, ordita per tenere a bada i dominati, per tenerli sotto tensione, proprio ora che, mentre stanno perdendo tutto, iniziano a sollevarsi (è il caso della Francia della “loi travail”, uno dei Paesi più colpiti dal terrorismo). E intanto, a reti unificate, ci fanno credere che il nostro nemico sia l’Islam e non il terrorismo quotidiano permanente dell’economia di mercato. Ci fanno credere che il nemico, per il giovane disoccupato cristiano, sia il giovane disoccupato islamico e non il delocalizzatore, il magnate della finanza, il fautore delle “riforme” che uccidono il mondo del lavoro: il conflitto Servo-Signore è, ancora una volta, frammentato alla base. Nell’ennesima guerra tra poveri, della quale a beneficiare sono coloro che poveri non sono. Il terrorismo, quali ne siano gli agenti, è un’arma nelle mani dei potenti: fa il loro interesse. E lo fa per più ragioni. Intanto, perché frammenta il conflitto di classe e mette i servi in lotta tra loro (Islamici vs Cristiani, Orientali vs Occidentali): lo “scontro di civiltà” di Huntington va a occultare la “lotta di classe di Marx”. Il tutto condito con le tirate à la Fallaci. In secondo luogo perché attiva il paradigma securitario, modello “Patriot Act” Usa: per garantire sicurezza, si toglie libertà. Et voilà, il gioco è fatto. In terzo luogo, si crea adesione al partito unico della produzione capitalistica anche in chi avrebbe solo motivi per contestarla: l’Occidente “buono” contro l’Oriente cattivo e terrorista. In quarto luogo, si prepara il terreno – prepariamoci – per nuove guerre: guerre in nome del terrore, come fu in Afghanistan (2001) e non molto fa con i bombardamenti in Siria. Il terrorismo diventa una “opportunità” - sit venia verbo – per guerre di aggressione imperialistiche. Questo lo scenario. V’è poco da stare allegri. Ma è meglio essere informati, se non altro.

La faida dei Ricchi, scrive Piero Sansonetti il 26 luglio 2016 su "Il Dubbio". È logico, è ragionevole che un signore che guadagna circa 18 mila euro al mese (per non fare molto: cioè, per fare il deputato...) si incazzi come un diavolo perché un direttore di telegiornale guadagna troppo, sebbene questo direttore (o questa direttrice) di telegiornale, guadagna circa la metà di lui? Vediamo prima i fatti, e poi proviamo a ragionare, giusto per poche righe. Nel fine settimana è scoppiato lo scandalo Rai. Perché l’azienda - unica in tutt’Italia - ha deciso di rendere noti gli stipendi alti dei propri dipendenti. Cioè tutti gli stipendi superiori ai 200 mila euro lordi all’anno (che, all’ingrosso, equivalgono a un po’ meno di 7000 euro al mese). L’elenco è piuttosto lungo, ma i nomi innalzati sulla croce sono una quindicina. Prima di tutti quello del direttore generale (che è colui che ha dato via libera all’operazione trasparenza) e cioè il famigerato Campo Dall’Orto che prende uno stipendio lordo di 650 mila euro. Poi il presidente, Monica Maggioni, con uno stipendio un po’ superiore ai 300 mila. Poi un gruppetto di direttori di rete o di telegiornale, tutti oscillanti, come la presidente, sui 300 mila. Infine un certo numero di presunti nullafacenti, i quali negli anni scorsi sono stati emarginati e privati dei loro incarichi (per motivi politici, o professionali, o talvolta, magari, di scarsa obbedienza) ma non licenziati in tronco. La pubblicazione di queste cifre ha scatenato un putiferio. I giornali che le hanno riportate (dal “Fatto” al “Corriere della Sera” a “Repubblica” a tutti gli altri), hanno gridato allo scandalo, al tradimento, all’estorsione. E poi hanno gridato allo scandalo i politici, a cominciare da Matteo Orfini, presidente moralizzatore del Pd, e -naturalmente – Fico e tutti i cinque stelle d’Italia. E hanno chiesto innanzitutto che tutti gli stipendi siano tagliati e riportati sotto i 240 mila euro, e poi che siano cacciati via, o comunque privati dello stipendio, i giornalisti superpagati e emarginati, compresi fior di professionisti come, ad esempio, Carmen Lasorella. E’ giusta questa levata di scudi? Il problema – credo – non sono tanto gli scudi, ma chi li leva. Nel senso che la maggior parte degli indignati prende stipendi più alti di quelli per i quali si indigna. I parlamentari, innanzitutto, ma anche i giornalisti. Voglio confessarvi un segreto: so per certo che le grandi firme dei giornali italiani, quasi tutte, guadagnano più di 20 mila euro al mese (cioè, circa mezzo milione lordo all’anno), qualcuno di loro guadagna anche di più. Voi pensate che ogni volta che vanno a ritirare la busta paga si auto-indignano? No. E se glielo fai notare, ti dicono: ma io lavoro per una azienda privata. Embe? Richiede più talento, più merito, e impone più responsabilità dirigere un telegiornale della Rai o dirigere un quotidiano privato, o scrivere un servizio per il tal giornale? E allora da dove nasce questa indignazione? Nasce da una spinta popolare. Alla quale tutti si adeguano. E strillano, strillano, per mettersi in vista. La spinta è anche giusta, intendiamoci, perché – lo ho scritto altre volte – l’eccesso di ricchezze secondo me non è una bella cosa. Il problema è che quelli che si incazzano come api sono gli stessi che urlano plaudenti e ammirati se parlano Santoro, o Floris, o Belpietro, o Giannini o – soprattutto – Crozza o Benigni. E’ questo cortocircuito che mi fa paura: l’indignazione usata come carburante del proprio potere da chi dovrebbe esserne l’oggetto. P. S. Ho una proposta: vietare il diritto all’indignazione a chiunque guadagni più di 100 mila euro all’anno. Immaginate voi che silenzio, nei giornali e in tv...

Non si spende per fare le opere, si fanno le opere per spendere, scrive Giuseppe De Tomaso il 17 luglio 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Duole dirlo in circostanze come questa. Ma la tragedia ferroviaria sulla linea Andria-Corato ha tragicamente messo in risalto l’inadeguatezza delle classi dirigenti meridionali (politiche e burocratiche). Se queste terre del Sud sono ancora le «periferie» dell’Italia, per ripetere la locuzione del Papa ripresa da monsignor Luigi Mansi, vescovo di Andria, davanti al presidente Sergio Mattarella, nell’omelia ai funerali per le vittime della strage del 12 luglio, la responsabilità non va attribuita solo allo Stato centrale, solitamente poco attento al Sud, ma anche o soprattutto alle sue diramazioni territoriali, che non possono certo ritenersi risparmiate da un altro brano dell’omelia vescovile: «Le nostre coscienze sono state addormentate da prassi che ci sembrano normali, ma non lo sono: quelle prassi dell’economia in cui non si pensa alla vita delle persone, ma alla convenienza e all’interesse, senza scrupoli e con piccole e grandi inadempienze del proprio dovere». Il disastro ferroviario di Andria è il paradigma più completo del deficit culturale dei gruppi dirigenti del Sud, un deficit, per molti versi, persino più grave di quello economico-infrastrutturale. Più grave perché stronca la fiducia, l’ottimismo. Se, anche quando i finanziamenti ci sono, si allungano spirali di ritardi, contenziosi, blocchi, da mandare in tilt un computer, figurarsi quando i soldi non ci sono, quando cioè bisogna mettersi in coda sperando in un Babbo Natale romano o europeo. Purtroppo, non si vede via d’uscita. Nel Sud, ma l’andazzo riguarda ormai l’intera nazione, spesso non si spende per fare le opere, ma si fanno le opere per spendere. L’obiettivo non è realizzare migliori servizi pubblici per i cittadini, ma utilizzare i progetti per mungere altra spesa pubblica, da destinare ad apparati privati, come possono essere i cenacoli clientelari ed elettorali in cui si danno di gomito politici di radicamento, burocrati di riferimento e (im) prenditori di sostentamento. La spesa per la spesa. Le opere al servizio della nomenklatura. Non la nomenklatura al servizio delle opere. L’istituto della concessione è istruttivo, a cominciare dalla parola stessa. In diritto amministrativo, la concessione è un atto con cui la Pubblica Amministrazione consente al concessionario l’uso di risorse e/o l’esercizio di attività non disponibili da parte dei privati, e riservate ai pubblici poteri. Traduzione: il Principe «concede» di fatto a un suo devoto il rango di feudatario, con tutti i benefìci e i privilegi che l’elargizione comporta. Oggi, quasi sempre, la concessione consente al concessionario - non solo nel settore ferroviario - di incidere, decidere lui, sui tempi di realizzazione delle opere. Più si rallentano i lavori, più ci si avvicina inadempienti alla data di consegna dell’opera, più crescono le probabilità, anzi la certezza, che alla scadenza dei termini, la concessione venga rinnovata per un altro periodo. E così all’infinito, o quasi. Nell’indifferenza generale e nella capillare complicità tra i protagonisti della vicenda. Ma siccome al peggio non c’è mai fine e a volte non si tocca mai il fondo, dal momento che dopo averlo toccato si può continuare a scavare ancora, prepariamoci nei prossimi mesi a prendere atto di una realtà vieppiù allarmante e frustrante. Da quando, nell’aprile 2016, è entrato in vigore il nuovo codice degli appalti, il numero delle gare è crollato dell’85%. Praticamente è tutto fermo. Il dato lo ha illustrato sabato 16 luglio 2016 a Bari, nel convegno organizzato dalla Guardia di Finanza, il dottor Michele Corradino, componente dell’Anac presieduta da Raffaele Cantone. Ma c’è di più, cioè di peggio. Già a partire da novembre 2015 si era registrata una flessione del 30% delle gare, dovuta all’obbligo per i Comuni di comprare attraverso centrali di committenza, non più da soli. Risultato: il binomio centralizzazione degli acquisti e nuovo codice degli appalti sta devitalizzando, paralizzando il sistema. Le burocrazie comunali temono di sbagliare, le formazioni politiche stanno a guardare. Insieme forse stanno facendo resistenza alle due riforme. Ora. È vero che l’Italia è il paradiso del positivismo giuridico (una legge per qualsiasi inezia). È vero che il ricorso alla giustizia amministrativa (Tar, Consiglio di Stato) spesso assume forme patologiche, ossessionanti e paralizzanti. È vero che il normativismo sfrenato e il proceduralismo bizantino oggi manderebbero in depressione gli antichi giuristi di Costantinopoli. È vero che ciascun comitato rionale si sente investito di un potere d’interdizione che non si sognerebbe nemmeno un taglieggiatore piazzatosi su un sentiero obbligato. Ma lo strabiliante ostruzionismo delle Caste politico-burocratiche nell’applicazione delle leggi dello Stato suscita più di un (angosciante) interrogativo. Qual è il livello di preparazione delle classi dirigenti? E qual è il loro livello di moralità? Possibile che nessuno, o quasi, sappia orientarsi fra i nuovi codici? Cosa c’è dietro lo sciopero bianco, dietro il sabotaggio di ogni novità? Non è semplice rispondere, anche se a pensar male si fa peccato, ma s’indovina. Gira e rigira, la questione non cambia. Il Sud (ma non solo il Sud) è vittima delle sue classi dirigenti, dei loro intrecci, dei loro affari, dei loro conflitti di interesse. Questo ceto dominante, che prima era agrario, poi urbano, e oggi post-industriale, è più spregiudicato di un capitano di ventura cinquecentesco. Bussa a denari non in nome delle opere da realizzare, bensì dei lavori da cominciare e mai terminare. Progettare per spendere, anziché spendere per realizzare. C’è soprattutto questa filosofia perversa dietro la stagnazione-corruzione meridionale e dietro le tragedie umane che si susseguono con una frequenza vertiginosa. Giuseppe De Tomaso.

Il nuovo Codice degli appalti? Un capolavoro: 181 errori. Imprecisioni, sviste e incongruenze di un funzionario sciatto (e anonimo) stravolgono una norma fondamentale. In Gazzetta Ufficiale è stato pubblicato un comunicato di rettifica: 181 errori nei 220 articoli del nuovo Codice degli appalti, scrive Gian Antonio Stella il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Centottantuno errori! Finisse sottomano ai maestri d’una volta, il dirigente di Palazzo Chigi che ha vistato il «Codice degli appalti», quello famoso che doveva «far ripartire l’Italia», sarebbe spedito dietro la lavagna col berretto a punta da somaro. Come si può incasinare una legge fondamentale con 181 errori su 220 articoli? C’è poi da stupirsi se il valore delle gare bandite, in questo caos, è crollato secondo l’Ance del 75%? «Voglio la testa dell’asino», dirà probabilmente Matteo Renzi nella scia del celeberrimo «Voglio la testa di Garcia» di Sam Peckinpah. Anche noi. Nome, cognome, ruolo. Per sapere se magari ha avuto lui pure il premio di «performance» come l’89% (ultimo dato disponibile) degli alti burocrati della presidenza del consiglio. Tutti bravissimi, tutti intelligentissimi, tutti preparatissimi. Sul «somarismo» non ci sono dubbi. La sentenza è della Gazzetta Ufficiale che ha appena pubblicato un umiliante «avviso di rettifica» (che vergogna…) con tutte le correzioni al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 recante: «Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto…». Cinquecentoventisei righe per mettere in fila, come dicevamo, le correzioni a centottantuno errori. Alcune frutto di demenza burocratica. Come l’introduzione di un punto e il trasloco di un punto e virgola: «alla pagina 110, all’art. 97, comma 4, lettera c), dove è scritto: “...proposti dall’offerente;” leggasi: “...proposti dall’offerente.”;» Altre dovute alla negligenza: «Alla pagina 1, nelle premesse, al settimo visto, dove è scritto: “per l’attuazione delle direttive” leggasi: “per l’attuazione delle direttive”;» Altre causate da sciatterie sfuggite alla rilettura: «servizi di ingegnera». Altre ancora generate da evidenti difficoltà grammaticali: «alla pagina 18, all’art. 16, comma 1, al secondo rigo, dove è scritto: “è tenuto ad aggiudicare”, leggasi: “...sono tenute ad aggiudicare...”». Per non dire di spropositi vari: «alla pagina 28, all’art. 25, comma 6, al quinto rigo, dove è scritto: «... in sito dire periti archeologici.” leggasi: “... in sito di reperti archeologici.”» Oppure: «alla pagina 23, all’art. 23, comma 4, al secondo rigo, dove è scritto: “... i requisitigli elaborati ...” leggasi: “... i requisiti e gli elaborati ...”». Fino alle varianti pecorecce: «alla pagina 123, all’art. 105, comma 21, all’ultimo rigo, dove è scritto “...casi di pagamento di retto dei subappaltatori” leggasi “... casi di pagamento diretto dei subappaltatori”». E via così: dov’è scritto «infrastrutture strategiche» va letto «infrastrutture prioritarie», dove «...di cui al presente Titolo...» va letto «di cui al presente capo», dove «“il progetto di base indica ...” leggasi: “Il progetto a base di gara indica”». Dove «la seconda fase, avente ad oggetto» leggasi «il secondo grado, avente ad oggetto». Un delirio, con l’aggiunta di parole rococò: «alla pagina 61, all’art. 53, il comma 7 è da intendersi espunto». Sic. Nella galleria degli orrori, tuttavia, i più mostruosi sono altri. «Alla pagina 30, all’art. 26, comma 6, lettera b), dove è scritto: “... e di cui all’articolo 24, comma 1, lettere d), e), f), g), h) ed i),” leggasi: “... e di cui all’articolo 46, comma 1”». Per capirci: perfino un genio in materie tributarie o contrattualistiche, se i riferimenti sono sbagliati, si schianta. Sbagliare su queste cose, le pietre miliari delle leggi, significa far deragliare anche i fuoriclasse del settore. E il «Codice degli appalti» è pieno di strafalcioni così. «Il “comma 28” leggasi “comma 26”». «Dove è scritto: “... articoli 152, 153, 154, 155, 156 e 157.” leggasi: “... articoli 152, 153, 154, 155 e 156”». «Dove è scritto: “...di cui all’articolo 24, comma 1, lettere d), e), f), g), h) ed i),” leggasi: “... di cui all’articolo 46, comma 1”». Al che verrebbe da urlare: ne avessi almeno indovinato uno! Ora, non c’è al mondo piastrellista che possa posare 181 piastrelle sbagliate su 220, cuoco che possa carbonizzare 181 bistecche su 220, bomber che possa sbagliare 181 rigori su 220... Sarebbero tutti buttati fuori. Tutti. Giuliano Cazzola, sul blog formiche.net ironizza: «Nel Belpaese esiste una presunzione assoluta di corruzione a carico di tutte le opere pubbliche. Il che porta, in primo luogo, a fare delle leggi assurde e inapplicabili, vero e proprio tormentone per le imprese del settore. Ecco un esempio illuminante». Ancora più sferzante il giudizio di LavoriPubblici.it che per primo ha dato la notizia denunciando, al di là degli errori grammaticali o degli svarioni nella punteggiatura, la sostanziale modifica del «44% dell’articolato». «Ciò significa che per quasi tre mesi gli operatori hanno avuto a che fare con un codice difficilmente leggibile, con conseguenze che sono sotto gli occhi di chi ha voglia di fare un’analisi libera da legacci politici», accusa durissimo il sito, «ci chiediamo, e vi chiediamo, se questo è il modo di legiferare e perché il testo originario sia stato predisposto dal dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio dei ministri espropriando il ministero delle Infrastrutture della responsabilità e competenza della predisposizione di una legge che riguarda le infrastrutture ed i trasporti». Rileggiamo il verbo: «espropriando». Segno di uno scontro termonucleare tra due burocrazie. Di qua il ministero, di là Palazzo Chigi. Ma scusate: sarebbero questi i dirigenti pubblici che, stando al dossier del commissario alla spending review Carlo Cottarelli, vengono pagati ai livelli apicali 12,63 volte più del reddito pro capite italiano cioè quasi il triplo, in proporzione, dei colleghi tedeschi? Questi i burocrati che mediamente prendono molto più che i vertici della Casa Bianca? Queste le «eccellenze» che per bocca di una sindacalista sostengono che il loro lavoro «richiede una elevata professionalità» e che «come tutte le cose pregiate, come una Porsche, ha un costo» e che «nessuno si stupisce se costa di più un diamante di una pietra di scarso pregio»? Ci si dirà: non facciamo d’ogni erba un fascio. Giusto. Per evitare generalizzazioni inique occorre però che chi aveva confezionato quello sconclusionato codice degli appalti, che secondo i costruttori ha fatto precipitare del 27% le gare bandite e del 75% il loro valore, venga subito rimosso. Anzi, per dirla a modo suo: espunto.

Mazzette nello spumante. Così pilotavano i processi. Sequestrato un elenco di sentenze a casa di Mazzocchi. Alcune riguardano Berlusconi, scrive Fiorenza Sarzanini il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Interventi al Consiglio di Stato per «aggiustare» i processi. È il nuovo e clamoroso filone di indagine avviato dai magistrati romani dopo la perquisizione effettuata a casa di Renato Mazzocchi, il funzionario di Palazzo Chigi indagato per riciclaggio perché nascondeva in casa oltre 230mila euro in contanti, bustarelle e fascicoli giudiziari. In particolare, alcune decisioni che riguardano Silvio Berlusconi. Gli accertamenti disposti dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Stefano Fava — titolari dell’inchiesta sul gruppo di faccendieri guidati da Raffaele Pizza che avrebbe truccato appalti e orientato nomine e assunzioni in enti pubblici — si concentrano sulle sentenze emesse negli ultimi due anni. E si intrecciano con quelli che hanno portato in carcere Stefano Ricucci. Anello di congiunzione sembra essere il giudice Nicola Russo, indagato e perquisito dalla Guardia di Finanza proprio perché sospettato di aver ottenuto soldi e favori, compreso il pagamento di notti in albergo con una donna, per «pilotare» l’esito dei provvedimenti. Ma i controlli riguardano adesso tutti i giudici componenti dei collegi. Il 4 luglio scorso — quando vengono arrestati Pizza, il suo presunto complice Alberto Orsini e numerosi imprenditori, mentre viene indagato il parlamentare di Ncd Antonio Marotta — gli investigatori del Nucleo Valutario coordinati dal generale Giuseppe Bottillo perquisiscono l’appartamento di Mazzocchi. Si tratta del capo della segreteria dell’allora ministro per l’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, funzionario del governo per la ricostruzione in Abruzzo. Le intercettazioni telefoniche e ambientali dimostrano che l’uomo è molto legato a Marotta, dunque si cercano eventuali elementi utili all’indagine. E la sorpresa non manca. Come viene specificato nel decreto di sequestro «all’interno di una confezione di vino “Ferrari”, di una confezione di vino “Cavelleri”, di una scatola recante il logo “Frittyna”, tutte chiuse con nastro adesivo, sono occultati 247.350 euro». Una parte del denaro è già chiuso in alcune buste e tanto basta per avvalorare il sospetto che si tratti di tangenti. Anche perché nell’appartamento c’è molto altro: lettere di raccomandazioni e un pacco di sentenze emesse dal Tar e dal Consiglio di Stato. I pubblici ministeri chiedono la convalida del sequestro. Il giudice Pina Guglielmi accoglie l’istanza e nel provvedimento elenca i documenti trovati da Mazzocchi. Ma evidenzia anche il sospetto della Procura sui processi «aggiustati», sottolineando proprio il ruolo del funzionario all’interno delle istituzioni. E tanto basta per dare corpo al sospetto sull’esistenza di una «rete» in grado di orientare le scelte di alcuni giudici amministrativi e delle commissioni tributarie. Scrive la gip: «Circa la somma sequestrata al Mazzocchi, deve osservarsi che depongono nel senso della illecita provenienza l’importo rilevante, le modalità di occultamento, i contenuti della documentazione sequestrata (curriculum vitae di alcune persone, domanda di partecipazione del concorso di tale De Stefano Damiano, ordinanze e sentenze del Tar e del Consiglio di Stato relative a contenziosi nei quali è parte Silvio Berlusconi). Detti elementi, complessivamente valutati, inducono a ritenere che Mazzocchi, grazie al lavoro che svolge (dipendente della Presidenza del Consiglio) sia il referente di persone interessate a concorsi pubblici o a giudizi amministrativi e che abbia ricevuto quel denaro di tali opachi contatti. A ciò si aggiunge che l’unica ragionevole spiegazione al fatto che Mazzocchi abbia scelto di occultare in casa una somma così rilevante, esponendosi in tal modo a tutti i gravi rischi conseguenti, può essere rappresentata solo dalla consapevolezza di non poterne dimostrare di averne acquisito la disponibilità in maniera lecita, a conferma, almeno in termini di fumus, che la somma proviene da un delitto che potrebbe essere il millantato credito o la corruzione». Nelle conversazioni di Pizza e di Marotta si parla spesso del Consiglio di Stato. Entrambi mostrano dimestichezza con i giudici. In un colloquio del 9 gennaio 2015 con Davide Tedesco, stretto collaboratore del ministro dell’Interno Angelino Alfano, Pizza dichiara: «Tanto per essere chiari io ho bloccato il sistema elettorale, se non era per me non si votava... perché vedi i miei rapporti, la dimostrazione è questa, io sono riuscito con i miei rapporti... nonostante c’erano il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il Ministero degli Interni... con i miei rapporti sono riuscito a bloccare il sistema... il Consiglio di Stato ha dato ragione a me...». In questo «sistema» emerge il ruolo Nicola Russo, il giudice accusato di aver favorito Ricucci. Molti indagati ne parlano e le verifiche svolte sul suo conto hanno fatto emergere i regali e i favori ottenuti. Come le due notti presso l’hotel Valadier di Roma «insieme all’amante Zaineb Dridi, dove Ricucci lo ha accompagnato nel marzo scorso e lo ha contatto il giorno successivo». E dove, questo è il sospetto dei magistrati, ha pagato il conto.

Un giudice tarantino nello scandalo Ricucci. Si tratta di Nicola Russo, magistrato del Consiglio di Stato: è indagato, scrive Taranto Buona Sera il 23 luglio 2016.  È tarantino il giudice coinvolto nello scandalo che ha portato agli arresti l’immobiliarista Stefano Ricucci e l’imprenditore Mirko Coppola. Il magistrato è Nicola Russo, cinquantenne, in servizio al Consiglio di Stato e componente della Commissione tributaria regionale del Lazio. L’inchiesta riguarda un giro di fatture false per un milione di euro e un presunto aggiustamento di sentenze grazie alle quali Ricucci avrebbe ottenuto enormi vantaggi economici. Il caso, come è noto, è esploso con gli arresti eseguiti dal nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza su disposizione del Gip di Roma, nell’ambito di una inchiesta sul fallimento di una delle società del Gruppo Magiste, riconducibile a Ricucci. Veniamo al ruolo che avrebbe avuto il magistrato tarantino. Da quanto emerso dagli accertamenti disposti dal procuratore Paolo Ielo, il magistrato avrebbe ottenuto favori per pilotare alcune sentenze. Ma quali favori avrebbe ottenuto da Ricucci? Soldi, innanzitutto. Secondo quanto scrive Repubblica, per gli inquirenti «è altamente probabile» che Russo «sia stato indebitamente retribuito da Stefano Ricucci in cambio della indebita rivelazione e/o anche dello sviamento della decisione in favore della società del gruppo Magiste». A questa presunta indebita retribuzione, gli inquirenti fanno risalire l’acquisto da parte del giudice Russo di una Porsche Cayenne e di un immobile. Acquisti, sempre secondo l’ipotesi accusatoria, effettuati dopo il deposito di una sentenza della Commissione Tributaria che avrebbe fatto maturare a Ricucci un credito da 20 milioni di euro. Nelle carte dell’inchiesta si fa riferimento allo «smodato tenore di vita» del magistrato. Nella storia c’è anche un particolare piuttosto piccante: Ricucci avrebbe pagato il soggiorno del magistrato in compagnia di una donna, tale Zaineb Dridi, all’hotel Valadier di Roma. Tutte circostanze che Ricucci, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera, smentisce: «Non ho mai pagato il giudice Russo e nemmeno gli ho pagato l’albergo. Russo l’avrò visto una volta in vita mia e di sicuro dopo che era già uscita la sentenza». C’è da dire che la Procura della Repubblica di Roma aveva chiesto per il magistrato l’interdizione dalla professione, richiesta non accolta dal gip. Il giudice Russo resta comunque indagato.

La verità di Zaineb Dridi, con una lettera inviata alla stampa che ha fatto il suo nome accostandolo alla vicenda Ricucci-Russo e pubblicata solo su "Affari Italiani" il 14 agosto 2016. "Spett.li redazioni in indirizzo, con la presente e-mail, io sottoscritta Zaineb Dridi, intendo chiarire il macroscopico travisamento dei fatti in base al quale sono stata assurta addirittura a prova dei legami tra Stefano Ricucci e il giudice Nicola Russo, nonché falsamente e ingiustamente apostrofata all’interno di atti giudiziari quale “amante/meretrice” di quest’ultimo, con mio grande stupore e sgomento: e io che pensavo che le indagini e la giustizia fossero una cosa seria! Non conosco assolutamente il loro grado di conoscenza - come apparirà chiaro da quanto di seguito narrato -  ma conosco ovviamente la verità dei fatti che mi riguardano e che diverge totalmente da quanto riportato da alcuni di Voi negli articoli pubblicati dal 20 al 25 luglio scorso. Anzitutto desidero precisare che solo ora, a distanza di 20 giorni, sto trovando quel minimo di forza per contattarvi e affrontare questa vicenda per me drammatica: vi posso garantire che mi avete distrutto la vita e violentata nell’animo. Vi spiego ora come stanno le cose. Io non ho nessunissima relazione con Nicola Russo se non in quanto padre della mia migliore amica: io e la figlia siamo amiche intime da ormai due anni e di conseguenza è del tutto naturale che io ne conosca anche il padre, il quale diverse volte ha accompagnato la figlia intrattenendosi con noi in alcune delle numerosissime nostre serate trascorse insieme, da padre moderno e premuroso. Dunque io non ho mai passato un istante da sola con il giudice Russo, ma sempre alla presenza della figlia! Questo che vi sto dicendo lo posso provare con centinaia di foto e video (meno male che ho questa mania) fatti con il mio telefonino, con tanto di indicazione di data, ora e luogo, compreso un video fatto nella fatidica sera dell’8 marzo (nonché fiumi di conversazioni e messaggi vocali su WhatsApp sempre con la figlia). Quella sera eravamo una grossa tavolata a cena al “Bolognese” (tra cui Nicola Russo e la figlia) e verso fine cena abbiamo incontrato, ritengo per caso, un’altra comitiva con diverse amicizie in comune con la mia e nella quale c’era anche Stefano Ricucci. Quest’ultimo è una persona che ho incontrato pochissime volte per caso nei locali romani, si contano a stento sulle dita di una mano: in due anni che frequento Roma saranno state tre o quattro volte al massimo e con lui non ho alcun grado di conoscenza, benché mi abbia chiesto il numero di telefono io non glielo ho mai dato. Tornando a quella sera, si è deciso poi di continuare la serata andando a ballare tutti insieme all’hotel “Valadier”, dove come noto si svolgono tra le più belle feste serali romane. Ci siamo dunque spostati in gruppo con diverse macchine di proprietà e taxi tutti quanti pieni e insieme. Quindi non risponde minimamente al vero che Ricucci abbia accompagnato me e Russo al predetto hotel per avere un rapporto sessuale a pagamento. Continuando la narrazione della vicenda, siamo arrivati al Valadier dove abbiamo trascorso la serata ballando tutti quanti in comitiva e come vi dicevo ho anche un video di questo. In particolare, ricordo che Nicola Russo è rimasto pochissimo lì, forse mezz’ora e poi è andato via, presumo a casa da sua moglie. Io, invece, sono rimasta a ballare insieme alla figlia e ad un’altra mia amica intima e durante la serata Ricucci ha cercato di parlare, approcciare credo con me, ma io non gli ho dato alcuna particolare confidenza se non due chiacchiere di cortesia. A fine serata, siccome si era fatto molto tardi ed eravamo stanchissime, abbiamo deciso (io, la figlia di Russo e la mia suddetta amica, pronta a testimoniare) di rimanere a dormire lì al Valadier e a quanto so il conto della camera l’ha pagato il padre della mia amica, Nicola Russo. Preciso peraltro che non è la prima volta che io e la figlia Russo o l’altra mia amica dormivamo insieme in quell’hotel (circostanze documentate con numerose foto, selfie e video fatti nelle camere dell’hotel insieme) dove sono da tempo registrata. La mattina seguente, in camera è arrivata una telefonata da parte di Ricucci, da quanto ho capito sotto intercettazione, alla quale purtroppo ho risposto io. Ed in base a questa telefonata, intercettata dalla Guardia di Finanza, e nella quale Ricucci parlando con la reception faceva il mio nome e quello di Russo, non sapendo a che nome era prenotata la stanza (ma sapendo che ero lì a dormire con la figlia), facendosi transitare l’interno con il fine di parlare con me per invitarmi a pranzo e chiedere il mio numero di cellulare, richieste che ovviamente declinavo. Ebbene, da questa telefonata hanno costruito un castello: quanto si legge nei miei riguardi negli atti giudiziari è frutto del desiderio degli investigatori di far quadrare il cerchio e provare, in qualche modo o in qualsiasi modo, che Ricucci abbia pagato Russo e con lui avesse un’amicizia intima. Sono cose che io non so assolutamente e sono stata tirata in mezzo senza neanche uno straccio di prova. Hanno costruito un castello, ripeto, su base meramente indiziaria e sono stata usata, triturata come persona per una banale telefonata: …forse perché sono di origine straniera e dunque non valgo niente, non ho una dignità di persona… o forse perché l’equivalenza straniera-prostituta viene facile…ma così non è giusto, ne ho versate di lacrime nelle notti insonni per questo…Nessun’altra prova, neanche indizio! Se fossi stata l’amante di Russo avrebbero dovuto intercettare almeno qualche nostra telefonata intima, qualche messaggino amoroso, e invece niente! O se fossi stata una “meretrice” al soldo di Ricucci doveva avere almeno il mio numero di telefono, non credete??? E invece anche qui nulla di tutto questo, neanche una telefonata intercettata tra noi! Mi chiedo allora perché farmi tutto questo…distruggere chiunque pur di provare un reato…Questa storia, da quel 20 luglio, mi ha veramente rovinato la vita. Nonostante tutta la sofferenza che sto patendo ho trovato la forza per ribellarmi a questa brutale violenza subita: ora ho capito che le parole unite alla superficialità di chi indaga possono fare più male di qualsiasi altra cosa. Non sono un’esperta, ma basta vedere un qualsiasi film poliziesco per sapere che sarebbe bastato controllare le celle telefoniche agganciate quella notte dai nostri telefoni per verificare che in quell’hotel Nicola Russo non c’era ma c’eravamo io, sua figlia e un’altra mia amica. Quanto vi sto dicendo, l’ho anche dichiarato alla Guardia di Finanza il giorno 20 pomeriggio, quando sono stata ascoltata come persona informata sui fatti dopo l’arresto di Ricucci e dopo che quell’ordinanza riportata nei quotidiani, per me fatidica, era purtroppo già stata scritta. Sperando, questa volta, che sia chiara la verità, perché questa è la verità dei fatti! Per quanto sopra esposto, confido nella pubblicazione della mie dichiarazioni, oltre che per dovere di cronaca, anche a parziale ristoro della mia reputazione e onore, gravemente lesi, e per migliorare il mio stato di salute. Distinti saluti. Zaineb Dridi"

La “casta” dei giudici sui colleghi che sbagliano. Dal caso Ricucci al caso Saguto e a quello Esposito. Il guanto di velluto sui magistrati indagati, la sanzione è un trasferimento, scrive Luciano Capone il 22 Luglio 2016 su "Il Foglio". “Che fate, m’arrestate pe’ due carte?”, avrebbe detto Stefano Ricucci ai finanzieri che l’hanno portato in carcere. Le due carte in realtà sarebbero servite al rampante odontotecnico di Zagarolo a recuperare un credito da 20 milioni di euro che la sua società in liquidazione, la Magiste, vanterebbe con l’Agenzia delle Entrate. Almeno queste sono le accuse e più specificamente: fatture false, evasione fiscale, corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio. Per riuscire in quest’operazione però si è servito, sempre secondo l’accusa, dell’aiuto dell’imprenditore Mirko Coppola, anch’egli arrestato, e del magistrato Nicola Russo che invece è solo denunciato a piede libero. Eppure il giudice del Consiglio di stato è una figura centrale in questa vicenda. Russo era infatti anche giudice relatore della commissione tributaria regionale che ha giudicato il credito vantato da Ricucci, dopo che la commissione provinciale aveva bocciato la richiesta dell’imprenditore. Secondo la procura, Russo sarebbe stato corrotto da Ricucci con donne e soldi per ribaltare la sentenza e comunicarne in anticipo l’esito per permettere a Ricucci, tramite un complice, di ricomprare per pochi soldi il credito da 20 milioni, che dopo la prima sentenza valeva poco o nulla. La sentenza favorevole viene fatta filtrare a Ricucci, che può raggranellare i soldi, e nel testo contiene “interi passaggi della memoria Ricucci, errori di battitura inclusi”. Le prove della corruzione sarebbero l’acquisto da parte del giudice di un’auto e di una casa dopo la sentenza e la presentazione da parte di Ricucci di una signorina con cui il giudice soggiorna in hotel. Per il gip però non c’è corruzione: a Russo viene attribuita “solo” la rivelazione del segreto d’ufficio, ma viene comunque respinta la sospensione interdittiva chiesta dai pm. Il processo deve fare il suo corso. Intanto Ricucci viene arrestato perché può ancora delinquere, mentre il giudice accusato di rivelare segreti d’ufficio resta a fare il suo lavoro. Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, intervistato dal Fatto all’epoca delle dichiarazioni del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo sui politici ladri, diceva: “Anche tra noi ci sono corrotti e collusi, ma noi non aspettiamo che un magistrato venga condannato in Cassazione per rimuoverlo”. E invece pare che la “casta” dei magistrati riservi a sé criteri molto più laschi di quelli richiesti alla “casta” dei politici. Un esempio è quello dell’ex pm di Milano Ferdinando Esposito – nipote dell’ex procuratore generale di Cassazione Vitaliano e figlio del giudice Antonio, presidente del collegio che ha condannato Silvio Berlusconi nel processo Mediaset – condannato pochi giorni fa a 2 anni e 4 mesi per aver indotto una persona a pagargli l’affitto. Esposito era salito agli onori delle cronache perché, prima che il padre condannasse Berlusconi, si era presentato più volte ad Arcore dal Cavaliere per ottenere (senza successo) una candidatura e quando emersero le gravi accuse e il fatto che avesse vissuto per anni in un appartamento nel centro di Milano pagatogli da un imprenditore, venne punito dal Csm con un trasferimento al tribunale di Torino, dove ora fa il giudice. E lo stesso “pugno di ferro” è stato usato in quello che probabilmente è uno dei principali scandali che ha colpito la magistratura italiana, il cosiddetto “caso Saguto”, l’inchiesta in cui l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto è indagata per aver amministrato l’immenso patrimonio sequestrato alla mafia come una proprietà privata, assegnando profitti e consulenze a parenti, amici e amici degli amici. In quella vicenda è finito indagato anche il giudice Tommaso Virga, padre di Walter, il giovane avvocato a cui la Saguto ha affidato incarichi milionari. Di fronte a condotte ritenute gravi e ricorrenti il Csm ha punito la Saguto con la sospensione e la riduzione di un terzo dello stipendio, mentre Virga padre è stato trasferito alla Corte d’Appello di Roma, quasi un premio. Invece al giornalista Pino Maniaci, grande accusatore della Saguto e di Virga dalla sua Telejato, è stato imposto il divieto di dimora per una presunta estorsione da qualche centinaio di euro. “Te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato – diceva in un’intercettazione Walter Virga – pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio 8 mila magistrati ne difendono uno”. Sicuramente esagerava, ma non più del procuratore Roberti.

Corruzione, le carte dell'inchiesta Tangenti in cassette di sicurezza e a casa le sentenze da ricopiare. Tra i documenti sequestrati, il ricorso di Berlusconi contro Bankitalia. Per i pm, i giudici del Consiglio di Stato avrebbero accontentato le richieste di politici e manager, scrive Fiorenza Sarzanini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Sentenza di accoglimento del ricorso di Silvio Berlusconi contro il provvedimento di Bankitalia che imponeva la cessione delle quote di Mediolanum. È uno dei documenti sequestrati per ordine dei magistrati romani a casa del funzionario di Palazzo Chigi Renato Mazzocchi, indagato per riciclaggio e corruzione. E tanto basta per capire quale direzione abbia imboccato l’inchiesta sulla «rete» di faccendieri e politici sospettati di aver «aggiustato» numerosi processi. Ma anche di aver pilotato appalti, assunzioni e nomine. Altre mazzette sono state trovate nella cassaforte di uno degli imprenditori arrestati il 4 luglio scorso durante il blitz del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza. Secondo il giudice sono i «fondi neri» accantonati per pagare le tangenti necessarie ad ottenere le proroghe di un appalto dell’Inps. Sono svariati i filoni di indagine aperti dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Stefano Fava. E tutti si concentrano sui contatti e i legami di Raffaele Pizza e Alberto Orsini, ritenuti le «menti» dell’organizzazione che poteva contare sulla disponibilità di politici, manager e magistrati che avrebbero accontentato le loro richieste in cambio di soldi. L’ultimo riguarda proprio l’operato dei giudici del Consiglio di Stato. Oltre ai 247 mila euro conservati nelle confezioni di spumante, Mazzocchi aveva nella propria abitazione numerose sentenze del Consiglio di Stato. Alcune sono «segnate» con appunti e «post it». Ma il sospetto maggiore riguarda il fatto che oltre agli originali (che potrebbero anche essere state scaricati dal sito internet) nei fascicoli custoditi dal funzionario c’erano anche le «minute», cioè le bozze. E dunque bisognerà scoprire in che modo si sia procurato i documenti, quali contatti abbia con i giudici di palazzo Spada e soprattutto quali compiti gli siano stati affidati dal parlamentare Ncd Antonio Marotta (indagato per associazione per delinquere, corruzione e traffico d’influenza) al quale era legato da un rapporto stretto. Anche tenendo conto che un paio di anni fa Mazzocchi avrebbe collaborato, seppur saltuariamente, proprio con uno dei magistrati amministrativi di secondo grado. Alcune sentenze non contengono l’indicazione delle parti, altre sono invece complete. La più importante è certamente quella emessa nel marzo scorso per rispondere al ricorso di Silvio Berlusconi. Dopo la condanna definitiva a quattro anni nel processo per i diritti Tv, Bankitalia impose al Cavaliere di cedere «la propria quota in Mediolanum oltre il 9,9 per cento, ovvero il 20 circa, che valeva circa 1 miliardo di euro». Era il 7 ottobre 2014. Secondo Palazzo Koch Berlusconi non era più in possesso dei «requisiti di onorabilità» necessari per essere soci al 10 per cento in un gruppo bancario e dunque doveva cedere una parte del proprio patrimonio che Fininvest poteva conferire in un trust per poi vendere. Il leader di Forza Italia decise di ricorrere al Tar, ma gli fu dato torto. Non si arrese e presentò una nuova istanza al Consiglio di Stato. Quattro mesi fa i giudici (presidente Francesco Caringella, estensore Roberto Giovagnoli) gli danno ragione, accogliendo la tesi secondo cui le quote erano già detenute prima del passaggio dal sistema assicurativo a quello bancario. Adesso sarà Mazzocchi a dover chiarire come mai custodiva tutta la documentazione — anche riservata — relativa a quel pronunciamento, da chi l’abbia avuto e soprattutto a quale scopo. E diverse spiegazioni dovrà fornirle Roberto Boggio, l’imprenditore titolare della «Transcom WorldWide» che ha ottenuto l’appalto per la gestione del call center dell’Inps nel maggio 2010 ed è indagato per emissione di fatture false per oltre 210 mila euro. Nella sua cassetta di sicurezza «presso la Banca di Credito Bergamasco, Agenzia 1, sono stati trovati contati pari a 77.880 euro». Secondo le indagini Boggio ha «subappaltato fittiziamente una parte del lavoro alla “Dacom Service”». Scrive il giudice nella convalida del sequestro dei soldi: «Dagli accertamenti bancari è risultato che il beneficiario finale delle rimesse provenienti dalle società è Raffaele Pizza per l’interessamento da questi manifestato per assicurare a Boggio le proroghe dell’appalto, sino all’ultima, in scadenza a giugno 2016». Adesso si sta cercando di scoprire con chi — all’interno dell’Inps — Pizza abbia diviso le «mazzette».

Guardia di Finanza, gli hotel pagati al generale Toschi: omaggio del socio di Verdini. Spuntano prove della sua rete di relazioni con personaggi come Riccardo Fusi, regista del sistema Grandi Appalti, poi condannato per corruzione e bancarotta fraudolenta, scrive Carlo Bonini il 22 luglio 2016 su "La Repubblica". Nel passato del Comandante Generale della Guardia di Finanza, il generale Giorgio Toschi, c'è una scatola di cartone che dice qualcosa dell'uomo, quanto basta dell'ufficiale, molto della sua rete di rapporti che ne avrebbe sconsigliato la nomina il 29 aprile scorso e che forse, e al contrario, a questo punto la spiega. In quella scatola, custodita nell'ufficio corpi di reato del Tribunale di Firenze, ci sono due fatture per altrettanti soggiorni alberghieri.  Soggiorni del luglio e del settembre del 2008 che il generale non ha mai saldato, perché qualcun altro lo faceva per lui. Un costruttore e corruttore che di nome fa Riccardo Fusi, un "pratese" che in quegli anni, a Firenze, dove Toschi era Comandante regionale, contava. Perché tasca e "socio occulto" di Denis Verdini. Perché Grande Elemosiniere toscano e perno del Sistema trasversale che presiedeva agli assetti politici e imprenditoriali lungo l'Arno. Almeno fino a quando le inchieste giudiziarie sui Grandi Appalti (2010) non lo hanno travolto insieme al suo gruppo (la BF holding e la BTP), schiantato sotto il peso dei debiti e per il cui crac Fusi risponde ora di bancarotta fraudolenta. Ultimo, ma non unico, dei processi che lo hanno visto e lo vedono imputato. Da quello che sta celebrando il suo primo grado a Firenze per la bancarotta del Credito Cooperativo Fiorentino (dove Fusi è imputato con Verdini), a quello chiuso nel febbraio scorso in Cassazione con una sentenza di condanna a 2 anni per la corruzione nell'appalto per la scuola dei Marescialli di Firenze. La scatola e il Generale, dunque. Sepolta negli atti del processo per il crack del Credito Cooperativo Fiorentino di Denis Verdini, l'evidenza è numerata "B14". E, nel 2010, è parte delle migliaia di carte che il Ros dei Carabinieri acquisisce durante le perquisizioni negli uffici del Gruppo Fusi. All'interno, una messe di fatture, molte delle quali intestate "UNA hotel", la catena alberghiera di cui Fusi è proprietario. La scatola appare da subito un formidabile strumento di lettura della rete di relazioni di Riccardo Fusi, oltre che prova del suo rapporto "a catena" con Denis Verdini. Ma non solo. Tanto è vero che, con una decisione inedita e che la dice lunga sul grado di condizionamento ambientale che Verdini e Fusi erano riusciti a imporre, l'analisi del suo contenuto "contabile" viene delegata non alla Finanza, evidentemente ritenuta non affidabile, ma alla direzione generale dell'Agenzia delle Entrate della Toscana che, il 24 maggio di quell'anno, ne redige un rapporto di una quarantina di pagine. Le ultime delle quali di particolare interesse. "Nella stessa scatola B14 - scrive l'Agenzia delle Entrate - sono stati reperiti documenti di spesa emessi da UNA spa, addebito spese alberghiere non pagate dai relativi beneficiari e addebitate alla società BF servizi srl. (altra società del Gruppo Fusi ndr.)". E di quei beneficiari a scrocco viene allegato un elenco di 50 nomi. Alcuni decisamente più importanti di altri. Accanto al figlio di Denis Verdini, Tommaso, e ai suoi amici che, di volta in volta, decideva di portare con sé all'Una hotel del Lido di Camaiore, figurano infatti due ufficiali della Guardia di Finanza. Giorgio Toschi (laconicamente indicato dall'Agenzia come "generale della Gdf") e Marco De Fila (neppure indicato come appartenente alla Finanza). Il primo, Comandante regionale in Toscana dal 2006 al 2010. Il secondo, comandante provinciale nel 2009 della Finanza di Prato, quella competente per i controlli sul Gruppo Fusi (la cui sede legale era a Calenzano). E del resto che Fusi avesse un occhio attento a Prato lo dimostra la presenza nell'elenco degli ospiti anche di Costanza Palazzo, figlia di Salvatore, Presidente del Tribunale di Prato fino all'ottobre 2013, quando si dimise dalla magistratura per far cadere al Csm l'azione disciplinare cui era stato sottoposto per avere "omesso consapevolmente di astenersi dalla trattazione e dall'emissione di numerosi decreti ingiuntivi in favore di società che, pur in concordato preventivo, erano collegate a Riccardo Fusi, cui era legato da amicizia e assidua frequentazione". Fusi, insomma, sa scegliere i suoi ospiti. E il generale Giorgio Toschi, lo è almeno due volte come documentano le fatture XRF 310520/07 e XRF453092/07. Entrambe nello stesso albergo: il quattro stelle UNA hotel di Bergamo, in via Borgo Palazzo, una costruzione in vetro e acciaio che chiuderà i battenti alla fine del 2013. La prima fattura è relativa a un soggiorno di due notti il 5 e 6 luglio 2008, un sabato e una domenica. La seconda, ancora due notti, il 9 e 10 settembre, un martedì e mercoledì, di quello stesso anno. Sempre la stessa camera. Una "matrimoniale classic" con "free upgrade in executive junior suite". Per una spesa che, in luglio, è pari a 199 euro e 50 centesimi, e in settembre a 188 euro. E in cui, perché l'ospite non abbia a rimanerne a male, tutto è compreso. Oltre al lettone, una mezza minerale e un pacchetto di patatine in luglio. Due mezze minerali e un succo di frutta in settembre. Del resto, l'ospite è così di riguardo che il lunedì 30 giugno del 2008, alla vigilia del primo soggiorno del Generale, una mail inviata dall'ufficio prenotazioni UNA all'hotel di Bergamo e allegata alla fattura trovata nella scatola "B14", raccomanda di "far trovare in camera al sig. Toschi un cesto di frutta". Non è dato sapere, né ha importanza, per quale motivo l'allora Comandante della Regione Toscana della Guardia di Finanza fosse a Bergamo e avesse bisogno di una matrimoniale con free upgrade a junior suite. Né se fossero improrogabili ragioni di servizio a spingerlo in Lombardia in un week-end estivo. Certo, si potrebbe osservare che se fossero state ragioni di ufficio a muoverlo da Firenze, non una ma due volte, il Generale avrebbe sicuramente potuto usufruire della foresteria dell'Accademia che a Bergamo ha la sua sede e che lo stesso Toschi ha comandato. In ogni caso, è singolare che un generale di divisione quale allora era Toschi, con uno stipendio netto mensile di circa 4mila e 500 euro, dovesse scroccare una camera di albergo, un pacchetto di patatine, due succhi di frutta a Riccardo Fusi e al suo Gruppo sui quali, come Comandante regionale, aveva "giurisdizione", senza che questo gli apparisse sconveniente. Non fosse altro per la formula linguistica con cui, riferendosi al Generale Toschi, la direzione della UNA Hotel di Bergamo chiede alla "Bf servizi srl" (società infragruppo di Fusi) di liquidare le fatture in sospeso dei suoi due soggiorni ("Con riferimento al soggiorno dei vostri clienti presso il nostro hotel siamo lieti di inviarvi le fatture per il relativo saldo"). Non fosse altro, perché - "cliente" o meno che fosse considerato dal Gruppo Fusi - i fatti hanno documentato come, fino al 2010 e alle indagini della Procura di Firenze e del Ros dei carabinieri, la Guardia di Finanza, che aveva in Toschi il suo ufficiale più alto in grado in Toscana, non si sia accorta di quale grumo di corruzione si fosse saldato nel rapporto tra Fusi e Verdini, tra il Gruppo BF-BTP e il Credito Cooperativo Fiorentino. È un fatto che le notti a Bergamo in carico a Fusi non sembrano uno sfortunato inciampo nella storia di Toschi. L'ufficiale era già finito in una vicenda non edificante in quel di Pisa nel 2002, dove era stato comandante Provinciale e dove una generosa archiviazione (come ha documentato il "il Fatto" il 3 maggio) lo aveva salvato da un processo per concussione. Accusato di aver chiesto e ottenuto denaro contante dalle concerie della zona per evitare verifiche (e per questo indagato), Toschi aveva dovuto spiegare per quale misteriosa ragione fosse riuscito a cambiare in cinque anni tre Mercedes nuove di pacca con formidabili sconti. Perché fosse per lui abitudine cenare con imprenditori della zona. Soprattutto, per quale ragione, non facesse altro che cambiare banconote vecchie con banconote nuove o perché, nell'arco di anni solari successivi, il suo conto corrente personale avesse registrato prelievi tra i 4 e i 10 milioni di lire. Come se l'uomo potessero campare di aria. "Ho ricevuto denaro contante dalla mia famiglia di origine", aveva sostenuto Toschi in un drammatico interrogatorio con l'allora procuratore Enzo Iannelli. In quel 2002, la spiegazione bastò. La scatola "B14" meriterà altre risposte.

Consob, il caso della funzionaria che vigila su stessa. La storia di Paola Deriu, dipendente Consob che è riuscita a vendere le azioni di Veneto Banca prima del tracollo, scrivono Milena Gabanelli e Giovanna Boursier il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Lei è Paola Deriu, promossa da Vegas nel 2013 a responsabile dell’ufficio «Vigilanza operatività mercati a pronti e derivati» della Consob. Prima era condirettore dello stesso ufficio, e prima ancora, funzionaria all’Ufficio insider trading. Il suo ufficio garantisce la correttezza delle negoziazioni, l’integrità dei mercati, vigila sui soggetti che li gestiscono. Una posizione che dovrebbe ricordarle di essere un dirigente dell’Autorità chiamata ad assicurare che i mercati e i risparmiatori sappiano quel che comprano. Nel caso della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca l’informazione che la Consob avrebbe dovuto far arrivare ai mercati era che queste banche, per far fronte alle loro difficoltà dovute a mala gestione e malaffare, gonfiavano il prezzo delle loro azioni, o le collocavano presso i loro clienti in modo non regolare. Ma a partire da quando Consob ha queste informazioni? Ci focalizziamo su Veneto banca perché è qui che la dirigente Consob ha un personale interesse. Da un’ispezione di Bankitalia del 2013 emergono gravi irregolarità, e infine una maximulta ai vertici della banca nel 2014. La voce circola, molti clienti chiedono di vendere, ma solo pochi ci riescono. Seguono le ispezioni della Bce e la richiesta di dimissioni di tutto il cda, su cui indaga la magistratura: la banca per anni ha movimentato compravendite di azioni, finanziandone l’acquisto anche per milioni di euro, o appioppandole anche ai piccoli risparmiatori che chiedevano fidi e prestiti, «datevi una mossa, avete una media troppo bassa», scrivevano le dirigenze ai dipendenti. Le stesse dirigenze, contemporaneamente, si attivavano per salvare il salvabile di amici e clienti «influenti», aiutandoli a vendere il loro pacchetto azionario prima del tracollo. Tra gli amici è noto il caso di Bruno Vespa, che con il direttore della banca Consoli condivideva una masseria in Puglia. Il giornalista a settembre 2014, 3 mesi prima che il titolo cominci a crollare rovinosamente, riesce a farsi rimborsare 8 milioni di euro quando le azioni valgono ancora 39 euro. Un mese dopo riesce a vendere anche Paola Deriu. L’operazione emerge proprio da un’ispezione Consob del 2015, notificata ai vertici e al vecchio Cda nell’ultima assemblea della banca il 5 maggio scorso, ma tenuta nel massimo riserbo. Gli ispettori esaminano in particolare 10 casi critici nella relazione con la clientela, in cui «gli addetti della banca hanno provveduto a soddisfare l’istanza di liquidazione di alcuni clienti». Tra questi c’è anche la responsabile dell’ufficio vigilanza dell’Autorità. I documenti spiegano quasi tutta la storia: la dirigente Consob l’8 maggio 2014 chiede di vendere il suo pacchetto di 585 azioni acquistate tra fine 2006 e inizio 2007 a 32 euro ciascuna, per un importo di circa 18 mila euro. Il 26 giugno sollecita, ha fretta di vendere e la banca tarda; dal suo account Consob scrive al responsabile Veneto banca area Milano Brianza: «Ribadisco che sono sempre stata rassicurata del fatto che è la banca stessa a porsi in contropartita dei clienti quando chiedono di vendere, e che ciò avviene sempre in tempi rapidi... la vendita è dettata da ragioni di urgenza, e nel caso avvenga dopo il 1° luglio incorrerò in un aggravio di tassazione dovuto alla recente modifica di fiscalità sui capital gain». Per evitarlo, intanto, il 30 giugno chiede anche la rideterminazione del valore secondo perizia appena effettuata a 39,50 euro (il valore medio era di 32 euro), e tempestivamente paga la tassa del 2%. Tassa che il giorno dopo raddoppia. L’ufficio affari legali e reclami di Veneto banca però risponde 10 giorni dopo confermando che la ricerca di un acquirente è in corso, giustifica il ritardo con la particolare natura dell’operazione, mentre specifica che il valore dell’azione è stato rideterminato entro giugno come richiesto. Così la dirigente Consob è a posto, poiché il dovuto lo ha pagato il giorno prima dell’aumento, inoltre non dovrà pagare tasse sulle plusvalenze (passate dal 20 al 26%) perché il valore dell’azione è stato aggiornato a quello di vendita, e quindi di plusvalenze non ne avrà. L’effettiva cessione avviene a fine ottobre 2014, e nella nota di Veneto banca c’è scritto: «Tra conoscenti». Di chi? Della Deriu o della banca? Gli acquirenti desiderosi di prendersi l’intero pacchetto per 23.108 euro, mentre le azioni stanno crollando, sono i cugini Francesco e Giuseppe Zinghini, due trentenni che cercano di scrollarsi di dosso una parentela ‘ndranghetista ingombrante, con l’avvio di attività di giardinaggio e pulizie nell’hinterland milanese. Giuseppe Zinghini la racconta così: «Con mio cugino siamo andati alla filiale di Veneto Banca di Corsico, dove abbiamo il conto, a chiedere un prestito di 80 mila euro a nome della società Zeta Servizi, ma la condizione era l’acquisto di quelle azioni a 39,50 euro da una di Roma. Non avevamo scelta, qualche mese dopo abbiamo provato a rivenderle ma non è stato possibile». I dubbi restano perché nella documentazione i dipendenti della banca si comunicano internamente che la cessione è stata revocata e trasformata in «trasferimento fra conoscenti». Sta di fatto che oggi quelle azioni valgono 10 centesimi, e la loro società è in liquidazione. Ha qualche colpa la signora Deriu in questa operazione? Apparentemente nessuna, se ha rispettato l’obbligo previsto per i dirigenti di un’Autorità di vigilanza di comunicare le loro operazioni di Borsa. Certo sarebbe stato più opportuno se si fosse liberata del suo pacchetto nel 2013, appena ricevuto l’incarico, perché vendere un anno dopo la pesante ispezione di Bankitalia fa venire brutti pensieri. Ancor più brutti se si considera che Consob già a febbraio del 2013 sanziona Veneto Banca per le «diffuse e reiterate condotte irregolari» nella «valutazione di adeguatezza delle operazioni disposte dalle clientela», in particolare su obbligazioni e azioni emesse dalla stessa banca. Il dirigenti della vigilanza quindi sapevano, e avrebbero dovuto approfondire per allertare i risparmiatori. Invece hanno aspettato. Nell’attesa, chi aveva il problema, grazie al privilegio della posizione (a cui la banca ha dimostrato sensibilità), lo ha rifilato al malcapitato di turno. Un peccato veniale rispetto alle responsabilità del presidente Vegas verso quelle decine di migliaia di risparmiatori delle popolari che hanno perso tutto.

LADRI ED ASSASSINI. MAFIOSI E MASSONI.

Giovanni Falcone: «La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l'eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni...La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Spero solo che la fine della mafia non coincida con la fine dell'uomo. Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia. A questa città vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini...L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza...Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad...Se poni una questione di sostanza, senza dare troppa importanza alla forma, ti fottono nella sostanza e nella forma...Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto. Contano le azioni non le parole. Se dovessimo dar credito ai discorsi, saremmo tutti bravi e irreprensibili...Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno...Chiunque è in grado di esprimere qualcosa deve esprimerlo al meglio. Questo è tutto quello che si può dire, non si può chiedere perché. Non si può chiedere ad un alpinista perché lo fa. Lo fa e basta. A scuola avevo un professore di filosofia che voleva sapere se, secondo noi, si era felici quando si è ricchi o quando si soddisfano gli ideali....Tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia...Temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall'altro, e alla resa dei conti, palpabile, l'inefficienza dello Stato...Se un pentito rivela che un candidato è stato aiutato dalla mafia per interessamento di un alto esponente del suo partito, che invece risulterebbe un suo avversario, la rivelazione batte la logica, e si va avanti lo stesso... La certezza è che così non si fa un passo avanti nella dura lotta alla mafia...Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell'esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell'amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere...L'impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata è emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dall'impressione suscitata da un dato crimine o dall'effetto che una particolare iniziativa governativa può suscitare sull'opinione pubblica...Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere...Come evitare di parlare di Stato quando si parla di mafia?...Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo, l'Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba...Il P.M. non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come invece oggi è, una specie di paragiudice. Chi, come me, richiede che (giudice e P.M.) siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell'indipendenza del Magistrato, un nostalgico della...La magistratura ha sempre rivendicato la propria indipendenza, lasciandosi in realtà troppo spesso irretire surrettiziamente dalle lusinghe del potere politico. Sotto la maschera di un'autonomia formale, il potere ci ha fatto dimenticare la mancanza di un'autonomia reale. Abbiamo sostenuto con passione la tesi del pubblico ministero indipendente...Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale..Nei momenti di malinconia mi lascio andare a pensare al destino degli uomini d’onore: perché mai degli uomini come gli altri, alcuni dotati di autentiche qualità intellettuali, sono costretti a inventarsi un’attività criminale per sopravvivere con dignità?... La mescolanza tra società sana e società mafiosa a Palermo è sotto gli occhi di tutti e l'infiltrazione di Cosa Nostra costituisce la realtà di ogni giorno...Ci si dimentica che il successo delle mafie è dovuto al loro essere dei modelli vincenti per la gente. E che lo Stato non ce la farà fin quando non sarà diventato esso stesso un «modello vincente»...Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi...La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell'adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l'uso dell'intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa...“Il dialogo Stato/mafia, con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela...»

Paolo Borsellino: «La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità...Se la gioventù le negherà il consenso, anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo...Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno...Non sono né un eroe né un Kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell'aldilà. Ma l'importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento... Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno...È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola...La paura è umana, ma combattetela con il coraggio...Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell'amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare...Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene...A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l'esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato...Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: "Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano"... È normale che esista la paura, in ogni uomo, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti...L’impegno contro la mafia, non può concedersi pausa alcuna, il rischio è quello di ritrovarsi subito al punto di partenza...I pentiti sono merce delicata, delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, non viceversa, sono degli sconfitti che abbandonano un padrone per servirne un altro, ma vogliono che sia affidabile».

Le parole. Le sue, con quella cadenza ellittica della lingua siciliana, davanti a un gruppo di studenti dall’accento vicentino. «Volevo sapere, giudice, se si sente protetto dallo Stato e ha fiducia nello Stato stesso», chiede un ragazzo. «No, io non mi sento protetto dallo Stato», risponde Paolo Borsellino. È il 26 gennaio del 1989, il video è in Rete grazie all’Archivio Antimafia. 

La ricostruzione dei giornalisti del Fatto, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, mette i brividi: Borsellino è stato ucciso perché stava indagando, formalmente, sulla trattativa Stato-Mafia, scrive "L'Infiltrato" il 19 luglio 2016. La conferma arriva dal ritrovamento di un fascicolo assegnato a Borsellino in data 8 luglio 1992 (11 giorni prima di essere ucciso…) in cui viene fuori l’ufficialità dell’indagine e i nomi delle persone coinvolte. Nomi pesanti. Nomi di capimafia. Nomi di politici. Nomi di esponenti dei servizi segreti. In piena stagione stragista, a metà giugno del ‘92, un anonimo di otto pagine scatenò fibrillazione e panico nei palazzi del potere politico-giudiziario: sosteneva che l’ex ministro dc Calogero Mannino aveva incontrato Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato (Palermo). Una sorta di prologo della trattativa. Ricordiamo che Mannino è stato assolto per “non aver commesso il fatto”. Su quell’anonimo, si scopre dai documenti prodotti dal pm Nino Di Matteo nell’aula del processo Mori, stava indagando formalmente Paolo Borsellino. Con un’indagine che il generale del Ros Antonio Subranni chiese ufficialmente di archiviare perché non meritava “l’attivazione della giustizia”. Il documento dell’assegnazione del fascicolo a Borsellino e a Vittorio Aliquò, datato 8 luglio 1992, insieme alle altre note inviate tra luglio e ottobre di quell’anno, non è stato acquisito al fascicolo processuale perché il presidente del Tribunale Mario Fontana non vi ha riconosciuto una “valenza decisiva” ai fini della sentenza sulla mancata cattura di Provenzano nel ‘95, quando si è deciso di assolvere Mori e Obinu, anche in appello nel 2016. Ma le note sono state trasmesse alla Procura nissena impegnata nella ricostruzione dello scenario che fa da sfondo al movente della strage di via D’Amelio. In aula a Caltanissetta, infatti, Carmelo Canale ha raccontato che il 25 giugno 1992, Borsellino, “incuriosito dall’anonimo” volle incontrare il capitano del Ros Beppe De Donno, in un colloquio riservato alla caserma Carini, proprio per conoscere quel carabiniere che voci ricorrenti tra i suoi colleghi indicavano come il “Corvo due”, ovvero l’autore della missiva di otto pagine. Quale fu il reale contenuto di quell’incontro? Per il pm, gli ufficiali del Ros, raccontando che con Borsellino quel giorno discussero solo della pista mafia-appalti, hanno sempre mentito: una bugia per negare l’esistenza della trattativa, come ha ribadito Di Matteo in aula, nell’ultima replica. Tre giorni dopo, il 28 giugno, a Liliana Ferraro che gli parla dell’iniziativa avviata dal Ros con don Vito, Borsellino fa capire di sapere già tutto e dice: “Ci penso io”. Il primo luglio ‘92, a Palermo il procuratore Pietro Giammanco firma una delega al dirigente dello Sco di Roma e al comandante del Ros dei Carabinieri per l’individuazione dell’anonimo. Il 2 luglio, Subranni gli risponde con un biglietto informale: “Caro Piero, ho piacere di darti copia del comunicato dell’Ansa sull’anonimo. La valutazione collima con quella espressa da altri organi qualificati. Buon lavoro, affettuosi saluti”. Nel lancio Ansa, le “soffiate” del Corvo sono definite dai vertici investigativi “illazioni ed insinuazioni che possono solo favorire lo sviluppo di stagioni velenose e disgreganti”. Come ha spiegato in aula Di Matteo, “il comandante del Ros, il giorno stesso in cui avrebbe dovuto cominciare ad indagare, dice al procuratore della Repubblica: guardate che stanno infangando Mannino”. Perché Subranni tiene a far sapere subito a Giammanco che l’indagine sul Corvo 2 va stoppata? Venerdì 10 luglio ‘92 Borsellino è a Roma e incontra proprio Subranni, che il giorno dopo lo accompagna in elicottero a Salerno. Borsellino (lo riferisce il collega Diego Cavaliero) quel giorno ha l’aria “assente”. Decisivo, per i pm, è proprio quell’incontro con Subranni, indicato come l’interlocutore diretto di Mannino. È a Subranni che, dopo l’uccisione di Salvo Lima, l’ex ministro Dc terrorizzato chiede aiuto per aprire un “contatto” con i boss. È allo stesso Subranni che Borsellino chiede conto e ragione di quella trattativa avviata con i capi mafiosi? No, secondo Basilio Milio, il difensore di Mori, che in aula ha rilanciato: “Quell’incontro romano con Subranni è la prova che Borsellino certamente non aveva alcun sospetto sul Ros”. Il 17 luglio, però, Borsellino dice alla moglie Agnese che “Subranni è punciuto”. Poche ore dopo, in via D’Amelio, viene messo a tacere per sempre. Nell’autunno successivo, il 3 ottobre, il comandante del Ros torna a scrivere all’aggiunto Aliquò, rimasto solo ad indagare sull’anonimo: “Mi permetto di proporre – lo dico responsabilmente – che la signoria vostra archivi immediatamente il tutto ai sensi della normativa vigente”.

Trattativa, ecco i documenti sul presunto patto fra lo Stato e Cosa nostra. La lettera a Scalfaro scritta nel 1993 dai familiari dei boss detenuti al 41bis. L'appunto in cui il direttore del Dap Nicolò Amato suggerisce l'alleggerimento del carcere duro. E l'elenco completo dei mafiosi che ne beneficiarono. Ilfattoquotidiano.it pubblica le carte al centro dell'inchiesta di Palermo sui presunti accordi segreti per fare cessare la stagione delle stragi, scrive Marco Lillo il 26 giugno 2012 su "Il Fatto Quotidiano". Questa è la storia di una trattativa iniziata con una lettera dei familiari dei boss in cui si parla di mutande e biancheria per far calare le braghe allo Stato. Una trattativa che la pubblicistica in voga vorrebbe sia stata chiusa dall’allora ministro Giovanni Conso con il rilascio di 334 mafiosi, usciti dal regime dell’isolamento nel novembre del 1993 e che invece potrebbe essere ancora aperta, come dimostra la storia di una strage mancata durante una partita di calcio: Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Oggi pubblichiamo i documenti che dovrebbero aprire e chiudere le danze della partita a scacchi tra istituzioni e corleonesi, cioè la lettera dei familiari dei detenuti nelle supercarceri spedita nel febbraio 1993 e l’elenco dei graziati di Conso del novembre 1993 più altri documenti disponibili sul sito internet di ilfattoquotidiano.it (guarda in fondo all’articolo) che scandiscono i momenti cruciali di quel periodo in cui la storia della mafia e quella della Repubblica si sono intrecciate inscindibilmente. Il punto di rottura degli equilibri decennali tra Stato e mafia è il 31 gennaio del 1992, quando la Cassazione infligge migliaia di anni di carcere ai boss mafiosi imputati al maxi-processo. Il 12 marzo Cosa Nostra uccide Salvo Lima. Il 23 maggio salta in aria la staffetta della scorta di Giovanni Falcone e l’onda d’urto travolge anche l’auto blindata che ospita il giudice e la sua compagna. I boss fanno circolare un elenco di vittime possibili, tra queste spiccano gli ex ministri Salvo Andò e Calogero Mannino. I Carabinieri del Ros, guidati dal generale Angelo Subranni, avviano i contatti con il Consigliori dei corleonesi, Vito Ciancimino. Paolo Borsellino, secondo le testimonianze più recenti in qualche modo è informato. Di certo, dicono tutti i suoi colleghi e amici, si sarebbe opposto con tutta la sua forza a qualsiasi forma di cedimento alla mafia. Secondo i giudici di Caltanissetta, Borsellino sapeva che lo Stato stava scendendo a patti con Cosa Nostra e anche per questa ragione, in quanto si sarebbe opposto, è stato ucciso il 19 luglio del 1992 a via D’Amelio. Cosa Nostra però non si ferma e porta il suo attacco nel “continente”. Il 14 maggio del 1993 c’è l’attentato a Maurizio Costanzo a Roma. Il 27 maggio le stragi di Firenze e Milano e il 28 luglio l’attentato contro le chiese a Roma.

Prima dell’avvio di questa seconda ondata di bombe però era arrivato un segnale che solo recentemente è stato valorizzato grazie al libro di Sebastiano Ardita, magistrato di grande esperienza, oggi procuratore aggiunto a Messina e per molti anni al Dipartimento amministrazione penitenziaria, il Dap. Nel libro Ricatto allo Stato, Ardita racconta che nel febbraio 1993 arriva una strana lettera al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: “Siamo un gruppo di familiari di detenuti che sdegnati e amareggiati da tante disavventure” è l’incipit (leggi il documento integrale). I familiari chiedono al presidente: “Quante volte in una settimana Lei cambia la biancheria intima? Quante volte cambia le lenzuola? Lo sa quanta biancheria in un mese noi possiamo portare al nostro congiunto? Soli cinque kg”. Poi si lamentano dei secondini di Pianosa, definiti “sciacalli” e chiedono di “togliere gli squadristi del dittatore Amato”, Nicolò Amato, direttore del Dap allora (leggi l’appunto di Amato sul 41 bis). A impressionare sono gli indirizzi a cui la lettera al presidente, che non si trova negli archivi del Quirinale secondo quello che dice al telefono mentre è intercettato, il consigliere del Capo di Stato, Loris D’Ambrosio, è spedita: il Papa, il Vescovo di Firenze e, tra gli altri, Maurizio Costanzo, oltre a Vittorio Sgarbi e ad altre istituzioni. L’elenco impressiona perché i destinatari sembrano altrettanti messaggi in codice decrittati poi dalle bombe contro Costanzo prima, a Firenze poi e infine davanti al Vicariato di Roma. Lo Stato cede: già nel giugno del 1992 il nuovo capo del Dap Adalberto Capriotti (Amato è sostituito come chiedevano implicitamente i familiari) chiede al capo di gabinetto del ministro della Giustizia di non prorogare i decreti per il 41 bis a centinaia di detenuti per i quali il trattamento di isolamento era in scadenza. A novembre del 1993, con una scelta della quale si è assunto la responsabilità davanti ai magistrati, l’allora ministro Giovanni Conso lascia decadere il 41 bis per ben 334 detenuti (leggi l’elenco completo). Tra questi boss del calibro di Vito Vitale di Partinico e Giuseppe Farinella che poi insieme ad altri 50 detenuti torneranno negli anni successivi al regime che gli spettava. Queste carte mostrano un segmento importante della sequenza, ma da sole non bastano a spiegare quello che è successo nel braccio di ferro tra mafia e Stato. Non è un caso se nella contestazione del reato di minacce a corpo dello Stato contro il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri (stessa accusa contestata anche per Calogero Mannino, all’ex capo del Ros dei Carabinieri Antonio Subranni, al suo vice dell’epoca Mario Mori e all’allora capitano Giuseppe De Donno) non sia definito dalla Procura di Palermo il momento in cui sarebbe terminata la cosiddetta trattativa, che sarebbe meglio definire minaccia allo Stato. Che la partita a scacchi sia rimasta aperta anche dopo la resa di Conso nel novembre 1993, lo dimostra proprio un’altra partita, stavolta di calcio, ignorata dai giornali di destra e dai politici del Pdl che vorrebbero attribuire la responsabilità del cedimento scellerato dello Stato (che pure per la Procura di Palermo ci fu) solo e soltanto all’ex ministro Conso, governo Ciampi, quindi uomo del centrosinistra. La partita che fa saltare questo schema è Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Quel giorno, come ha raccontato Gaspare Spatuzza al processo Dell’Utri, dovevano saltare in aria un centinaio di carabinieri. Per fortuna il telecomando non funzionò, ma quel tentativo di strage dimostra che la mafia non era affatto soddisfatta dei 334 detenuti liberati dal 41 bis. La trattativa non si chiude a novembre del 1993 e forse non si è chiusa ancora oggi. Da Il Fatto Quotidiano del 26 giugno 2012.

Borsellino, ecco perché ci vergogniamo. Ventiquattro anni dopo la strage il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2016 su “L’Espresso”. Siamo arrivati a 24 anni dalla strage di via D'Amelio alla celebrazione del quarto processo per esecutori e depistatori, dopo aver avuto quello per i mandanti ed organizzatori di questo attentato avvenuto il 19 luglio 1992, in cui sono stati uccisi il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli. Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La verità però ancora non emerge su molti aspetti di questa strage. Non emergono i motivi dei depistaggi, i motivi che hanno spinto piccoli pregiudicati a diventare falsi collaboratori di giustizia, perché ci sarebbero stati "suggerimenti" investigativi che hanno spostato l'asse delle indagini lontano da quelle reali. Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che "quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni". Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare. "Il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato e lo dico da figlia, mi fa vergognare", ha detto Lucia Borsellino ai commissari antimafia, ai quali ha precisato: «Nel caso della strage che ha tolto la vita a mio padre e agli uomini della scorta non è stato fatto ciò che era giusto si facesse, se siamo arrivati a questo punto vuol dire che qualcosa non è andata. Ci sono vicende che gridano vendetta anche se il termine non mi piace». Per poi concludere: «Mi auguro questa fase processuale tenti di fare chiarezza sull’accaduto, pensare ci si possa affidare ancora a ricordi di un figlio o una figlia che lottavano per ottenere un diploma di laurea è un po’ crudele, anche perché papà non riferiva a due giovani quello che stava vivendo. Non sapevo determinati fatti, è una dolenza che vivo anche da figlia e una difficoltà all’elaborazione del lutto». Oggi le indagini della procura di Caltanissetta hanno svelato che a premere il pulsante che ha fatto esplodere l'auto carica di esplosivo è stato Giuseppe Graviano, ma non si conosce il motivo che ha portato ad accelerare la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d'Amelio uomini delle istituzioni hanno parlato con i mafiosi, ma non si sa a cosa abbia portato questo "dialogo". Si è scoperto che le indagini dopo l'attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie ai giudici, ad autoaccusarsi della strage e rischiare il carcere a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia. I magistrati, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta dopo le sentenze definitive sulla strage) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che dal '92 avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Un attentato che a 24 anni di distanza ci continua a far star male, come dice Lucia Borsellino, "per il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato" e questo ci fa vergognare. 

Un giorno chiesi a Borsellino, un altro che conosceva la lingua siciliana, scrive Giorgio Bocca il 22 maggio 2002 su “La Repubblica”: "Che rapporto c'è tra politica e mafia?". Mi rispose: "Sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo. Il terreno su cui possono accordarsi è la spartizione del denaro pubblico, il profitto illegale sui pubblici lavori". La frase detta da Paolo Borsellino  “Mafia e Stato sono due poteri su uno stesso territorio, o si combattono o si mettono d’accordo.” Racchiude un’amara verità e riassume bene la storia del nostro Paese. Storicamente si può dire che di trattative Stato-mafia ce ne sono state varie. Sono iniziate dal 1861, con la nascita della Stato. Le indagini a ritroso della Procura di Palermo sono arrivate fino ai torbidi intrecci degli alleati con il bandito Salvatore Giuliano, che dopo la liberazione nazi-fascista è stato anche utilizzato dalle correnti filo-americane contro il “pericolo comunista”. La prima strage stato-mafia fu a Portella della Ginestra e rientrava in questi piani.

SCADUTO IL SEGRETO DI STATO SU PORTELLA E SULLA MORTE DI GIULIANO. Scrive Pino Sciumé il 5 luglio 2016 su “Siciliaonpress”. Mattina del 5 luglio 1950. A Castelvetrano, in provincia di Trapani, in un cortile ubicato nella via Mannone, un corpo senza vita, riverso bocconi e circondato da carabinieri, magistrati, giornalisti, abitanti del posto, fu mostrato all’opinione pubblica come un trofeo di guerra, la vittoria dello Stato contro il ricercato più pericoloso che per sette anni lo aveva tenuto in pugno. Quel corpo era del “bandito” Salvatore Giuliano. Autori della brillante operazione furono il Colonnello Ugo Luca e il Capitano Antonio Perenze, quest’ultimo dichiaratosi autore materiale dell’eliminazione fisica dell’imprendibile “re di Montelepre”. L’operazione militare, ordinata direttamente dall’allora ministro degli Interni Mario Scelba, siciliano di Caltagirone e inventore del famoso corpo di polizia denominato “La Celere”, sembrò mettere a tacere per sempre la questione del banditismo siciliano che, secondo le fonti governative, aveva provocato centinaia di morti nei sette anni precedenti, culminati con la strage di Portella delle Ginestre in cui la banda Giuliano provocò la morte di undici contadini e il ferimento di altre trenta persone. Poco prima della morte di Giuliano era cominciato a Viterbo il processo per la strage di Portella, definita da Scelba, opera di criminali comuni che nulla avevano a che fare con i politici, gli agrari e la mafia. La Corte non si preoccupò pertanto di ricercare eventuali mandanti, ma di accertare la responsabilità personale degli esecutori comminando loro la giusta condanna. Due anni dopo, dodici componenti della c.d. banda Giuliano furono condannati alla pena dell’ergastolo, dodici e non undici, quanti erano effettivamente presenti sul monte Pizzuta assieme a Giuliano. Ma uno in più, uno in meno… Le cronache di quei tempi riferiscono che nessun siciliano credeva alla colpevolezza di Giuliano perché quello di Portella era il suo popolo, la gente per cui aveva lottato contro uno Stato da lui considerato nemico e da cui voleva che la Sicilia si distaccasse. Umberto Santino, giornalista e attento osservatore, come lo fu il coraggioso Tommaso Besozzi (autore dell’articolo: “Di sicuro c’è solo che è morto” scritto all’indomani del 5 luglio 1950) così scrive in uno dei suoi pezzi “La verità giudiziaria sulla strage si è limitata agli esecutori individuati nei banditi della banda Giuliano. Nell’ottobre del 1951 Giuseppe Montalbano, ex sottosegretario, deputato regionale e dirigente comunista, presentava al Procuratore generale di Palermo una denuncia contro i monarchici Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Giacomo Cusumano Geloso come mandanti della strage e contro l’ispettore Messana come correo. Il Procuratore e la sezione istruttoria del Tribunale di Palermo decidevano l’archiviazione. Successivamente i nomi dei mandanti circoleranno solo sulla stampa e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia che comincia i suoi lavori nel 1963”. Ancora Umberto Santino, nei suoi articoli che fanno parte dell’Archivio del compianto Professor Giuseppe Casarrubea, scrive: “Nel novembre del 1969 il figlio dell’appena defunto deputato Antonio Ramirez si presenta nello studio di Giuseppe Montalbano per recapitargli una lettera riservata del padre, datata 9 dicembre 1951. Nella lettera si dice che l’esponente monarchico Leone Marchesano aveva dato mandato a Giuliano di sparare a Portella, ma solo a scopo intimidatorio, che erano costantemente in contatto con Giuliano i monarchici Alliata e Cusumano Geloso, che quanto aveva detto, nel corso degli interrogatori, il bandito Pisciotta su di loro e su Bernardo Mattarella era vero, che Giuliano aveva avuto l’assicurazione che sarebbe stato amnistiato”. E ancora: “Montalbano presenta il documento alla Commissione antimafia nel marzo del 1970, la Commissione raccoglierà altre testimonianze e nel febbraio del 1972 approverà all’unanimità una relazione sui rapporti tra mafia e banditismo, accompagnata da 25 allegati, ma verranno secretati parecchi documenti raccolti durante il suo lavoro. La relazione a proposito della strage scriveva: “Le ragioni per le quali Giuliano ordinò la strage di Portella della Ginestra rimarranno a lungo, forse per sempre, avvolte nel mistero”. La Commissione Parlamentare Antimafia istituì nel 1971 una sotto commissione sui fatti Portella presieduta da Marzio Berardinetti che tra l’altro affermò: “Il lavoro, cui il comitato di indagine sui rapporti fra mafia e banditismo si è sobbarcato in così difficili condizioni, avrebbe approdato a ben altri risultati di certezza e di giudizio se tutte le autorità, che assolsero allora a quelli che ritennero essere i propri compiti, avessero fornito documentate informazioni e giustificazioni del proprio comportamento nonché un responsabile contributo all’approfondimento delle cause che resero così lungo e travagliato il fenomeno del banditismo”. Per tali motivi, nell’intento di non andare oltre in interrogatori che potevano portare a verità scomode fu apposto il Segreto di Stato fino al 2016, fino a questo 5 luglio 2016, 66° anniversario della messinscena della morte di Salvatore Giuliano. Abbiamo sentito il nipote Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio di Mariannina e sorella di Salvatore. “Noi della famiglia siamo sicuri dell’estraneità di mio zio sui fatti di Portella. Quella fu una Strage di Stato addossata ad arte a Giuliano. Le Autorizzo a scrivere che noi conosciamo la verità fin dal 1965. Ora se lo Stato vuole aprire quegli archivi che ben venga, anche se non credo ci possa essere ormai qualcosa che non conosciamo. Ma dalla fine del prossimo settembre sarà in distribuzione in tutta Italia prima e successivamente negli Stati Uniti, un Docufilm di circa tre ore in formato DVD che farà conoscere al mondo intero la verità su mio zio Salvatore Giuliano, eroe siciliano, colonnello dell’Evis, punto fermo dell’ottenimento del mai attuato Statuto Siciliano, anche se lui ha sempre lottato per l’Indipendenza della Sicilia”. Una pagina dell’Unità del 7 luglio 1950 mostra la cronaca della morte di Salvatore Giuliano. Potrà essere risolto nel 2016, allorché cadrà il segreto di stato sulle carte conservate negli archivi dei ministeri dell’interno e della difesa, il giallo sulla morte del bandito Giuliano, uno dei tanti misteri della storia italiana sui quali recentemente la magistratura è tornata ad indagare. Ne è convinto Giuseppe Sciortino Giuliano, nipote di Salatore Giuliano, che ha appena pubblicato un libro (“Vita d’inferno. Cause ed affetti”) che si chiude con una ricostruzione secondo la quale il cadavere mostrato all’epoca alla stampa non sarebbe stato quello del celebre bandito, bensì di un sosia.

Montelepre: una “Vita D’inferno”. Ricordato Salvatore Giuliano, nel 60° anniversario della morte, con una pubblicazione del nipote Pino Sciortino Giuliano. La vicenda di Salvatore Giuliano ci riporta ad anni particolarmente “inquieti”, complessi, della storia della Sicilia e, nonostante gli innumerevoli fiumi d’inchiostro versati, su quei fatti permangono ancora molte zone d’ombra. Sono gli anni dello sbarco degli Alleati, del separatismo, della ribellione civile frettolosamente etichettata come bieco “banditismo”. Un groviglio di rapporti nebulosi – tra americani e mafia, tra patiti politici e mafia, tra Giuliano e politici senza scrupoli –, pose le basi della nascente Repubblica Italiana. Allora tutti si incontrarono, dialogarono e si accordarono: aristocratici, politici, intellettuali, operai, contadini, servizi segreti internazionali, forze di polizia e banditi. Il “caso” Giuliano servì a ognuno fino a quando considerarono conveniente l’accordo, poi… la mattina fatidica del 5 Luglio del 1950, in un cortile di Castelvetrano, il “presunto” corpo di Turiddu venne trovato crivellato di colpi, in seguito, ad un falso conflitto a fuoco sostenuto dagli agenti del Cfrb, e nell’arco di appena un decennio tanti possibili testimoni uscirono di scena con morti alquanto misteriose. In pochi si salvarono affrontando il carcere duro e solo pochissimi resistettero e tornarono a casa a fine pena. Seguì l’inevitabile volontario silenzio degli esigui superstiti. A 60 anni dalla morte del leggendario colonnello dell’Evis, il nipote di Salvatore Giuliano, Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio della sorella del bandito, Mariannina, ha presentato lo scorso 5 luglio (data ufficiale della morte di Turiddu), ad un folto pubblico proveniente da tutta la Sicilia ed anche dall’estero, l’ultimo suo libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”. Un’opera che racconta la vita degli abitanti di Montelepre, paese natale di Giuliano, dal 1943 al 1950, periodo di forti tensioni politiche e civili, caratterizzato da arresti ingiustificati, false accuse e vessazioni da parte dello Stato nei confronti della popolazione contadina dell’area monteleprina, posta in continuo stato d’assedio ed ingiustamente colpevolizzata. «Un pregevole recupero della verità storica, troppo spesso mistificata dalla storiografia ufficiale (figlia faziosa dei poteri imperanti) – ha evidenziato il relatore, prof. Salvatore Musumeci, giornalista ed esperto di storia della Sicilia, tra l’altro presidente nazionale del Mis –, che malgrado tutto si è mantenuta, pur rimanendo per parecchio tempo in uno stato di oblio. Su Salvatore Giuliano molto è stato scritto con lo scopo di intorpidire le acque. Oggi più che mai, mentre si celebrano i falsi miti dei 150 di Stato unitario, Montelepre, e non tanto la sola figura di Turiddu, ha bisogno di conoscere e di riappropriarsi della verità storica, perché per quegli eventi è stata colpevolizzata un’intera cittadina che nulla aveva a che fare con gli accadimenti che travolsero Giuliano. Ai monteleprini è successo ciò che accadde ai meridionali all’indomani della forzata annessione piemontese e per spiegarlo cito un pensiero di Pino Aprile (dal suo recente Terroni): “È accaduto che i (monteleprini) abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è più tollerabile del male subìto. Così, la resistenza all’oppressore, agli stupri, alla perdita dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è divenuta vergogna”». Fatti analoghi sono stati vissuti da Ciccu Peppi, il protagonista del libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”, e da tre quarti della popolazione monteleprina continuamente vessata dal famigerato “don Pasquale”, il brigadiere Nicola Sganga, e dallo “Sceriffo”, il maresciallo Giovanni Lo Bianco (ambedue appartenenti alla Benemerita). Sciortino, inoltre, descrive le ipotesi più attendibili sull’uccisione di Giuliano e una ricostruzione delle circostanze in cui morì Gaspare Pisciotta, braccio destro del bandito, avvelenato in cella il 9 febbraio 1954. Parla anche della strage di Portella della Ginestra e di come la banda Giuliano sarebbe stata oculatamente coinvolta al fine di giustificare il massacro. In appendice, il volume contiene una poesia scritta da un componente della Banda Giuliano, Giuseppe Cucinella che ha ispirato l’opera di Giuseppe Sciortino Giuliano. «La poesia – ha sottolineato l’autore –, è stata in qualche modo ispiratrice della stesura del libro. Devo molta riconoscenza alla figlia di Giuseppe Cucinella (la signora Giusi Cucinella, ndr), che me l’ha messa a disposizione ed io ho voluto farle il regalo di inserirla all’interno del libro. Proprio, perché dalla lettura di questa poesia si vede il patriottismo di quest’uomo, che era comune anche a tutti gli altri, e ciò per dimostrare che gli uomini di mio zio non erano volgari delinquenti ma gente che aveva un ideale e combatteva per questo ideale. All’interno della mia famiglia mi sono dovuto caricare di una responsabilità enorme, perché dovevo in qualche modo rimuovere la macchia nera di Portella delle Ginestre che aveva colpevolizzato un’intera comunità. Per cui io stesso sono diventato ricercatore della verità e man mano che gli uomini di mio zio uscivano dal carcere li avvicinavo, chiedevo, li intervistavo perché volevo capire, io per primo, quello che veramente era successo in quegli anni. Questo mi ha permesso di avere una cognizione di causa sull’argomento e sulla vita in generale di mio zio e di tutto il periodo storico e, quindi, ho potuto scrivere diversi volumi (Mio fratello Salvatore Giuliano, scritto assieme alla madre Mariannina, e Ai Siciliani non fatelo sapere, ndr)». Allo storico monteleprino, prof. Pippo Mazzola, abbiamo chiesto: quali nuove verità apprenderemo nel 2016 quando verranno desecretati i faldoni del fondo Giuliano? «Sicuramente nessuna – sorride ironico il Mazzola –. Sappiamo da fonti attendibilissime che nel corso degli anni, via via, sono spariti tutti i documenti compromettenti, tra cui il fascicolo 29 C contenente il memoriale di Gaspare Pisciotta e i suoi quattordici quaderni. Pare che siano scomparsi durante il governo D’Alema. Oggi non possiamo provarlo, ma chi vivrà vedrà». Prima di lasciare Montelepre ci fermiamo per qualche attimo al Cimitero. Incontriamo una comitiva ed una graziosa ragazza ci chiede: «Excuse me, here is the tomb of Salvatore Giuliano?». Rispondiamo: «Yes, in the chapel on the left most». Ci ringrazia e l’ascoltiamo spiegare: «Giuliano was a hero who fought for the Sicily against the abuses of the Italian State. For the Sicily’s independence. Too bad that Sicilians like him there are not more!». Lasciamo ai lettori il piacere della traduzione. Giuseppe Musumeci. Pubblicato su “Gazzettino”, settimanale regionale, Anno XXX, n. 25, Giarre sabato 10 luglio 2010 

Essere i paladini della legalità. Il lavaggio del cervello delle toghe. L’Anm indottrina i giovani. E il dogma “impresentabili” spopola, scrive "Il Foglio" il 10 Maggio 2016. "Portatore sano di legalità", era scritto sulle magliette distribuite con il pasto al sacco sabato 7 maggio a 1.500 studenti dall’Associazione nazionale magistrati per la “Notte bianca della legalità”, tour serale al tribunale romano culminato in un intervento del direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio e nel “Viaggio del fascicolo”, simulazione dell’iter di un’indagine dal pm al gip, poi al gup, e infine al giudice. Chissà se è stato anche spiegato che il “viaggio” è tra le stesse carriere, spesso le stesse persone, inquadrate dallo stesso sindacato, l’Anm appunto, oggi protagonista di un’offensiva mediatico-manettara con il suo presidente Piercamillo Davigo, con esponenti della corrente di Magistratura democratica che intendono “fermare” il governo, con pezzi da novanta, come il procuratore di Torino, Armando Spataro, che rivendicano il diritto-dovere di fare campagne politiche. Nel 2011, al Palasharp anti Cavaliere di Milano, fu mandato sul palco un tredicenne; stavolta l’operazione coinvolge i liceali (ma il 23 a Palermo si ripete, elementari comprese), ed è in apparenza più istituzionale: ministri, avvocati, sponsorizzazioni di Coni e Rai, Ambra Angiolini e Laura Morante. E Travaglio guest star. L’uso pedagogico-militante degli adolescenti ricorda sempre un po’ il sabato fascista o la Corea del nord; non è come le visite (al peggio noiosissime) al Parlamento, qui è un sindacato che organizza, come se la Cgil istruisse i giovani sul Jobs Act o il governo illustrasse la legge di Stabilità nelle scuole. C’è aria di lavaggio del cervello: Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia, ideatrice dell’etichetta di “impresentabili” per candidati con accuse magari crollate in giudizio – il governatore campano Vincenzo De Luca, che era stato bollato come “impresentabile”, si è visto chiedere dal pm l’archiviazione per il reato di abuso d’ufficio, mentre quello di peculato è già stato archiviato – dice che “le forze politiche hanno fatto a gara a portare alla Commissione le liste elettorali”, e tanto basta. L’equilibrio dei poteri, la parità tra accusa e difesa, quello che in Inghilterra è da 300 anni l’habeas corpus, e che si studia sui banchi di scuola tra le libertà naturali di ognuno; insomma lo stato di diritto: tutto questo non va bene per il pm unico nazionale, e niente notti bianche.

La legge non è uguale per tutti Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 19/08/2013, su "Il Giornale". La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge.

E poi...

L’ombra di Gomorra sui concorsi di Polizia penitenziaria e Ps. Gli accertamenti riguardano anche la ditta che si era aggiudicata l’appalto per le selezioni, con sede in Campania, e le idoneità fisiche ottenute dai candidati, scrive Damiano Aliprandi il 22 giugno 2016 su “Il Dubbio”. Ripetere al più presto le prove del concorso con video sorveglianza e assumere 800 agenti. È quello che chiede il sindacato autonomo della polizia penitenziaria (il Sappe) in merito alla questione riguardante la sospensione del concorso per gli agenti penitenziari tenuto nello scorso mese di aprile. “Abbiamo invitato il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria a rompere gli indugi e, a prescindere dalla pronuncia o meno dell’Avvocatura della Stato, annullare le procedure di svolgimento delle prove in regime di autotutela”, spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Allo stesso tempo – continua il segretario del sindacato - il Sappe ha proposto all’Amministrazione di avviare immediatamente le procedure per la ripetizione delle prove che devono essere espletate prima della fine dell’estate nella Sala concorsi della Scuola di Polizia penitenziaria di Roma, anche avvalendosi di un sistema di controllo mediante telecamere a circuito chiuso con registrazione video, allo scopo di escludere ogni candidato ripreso a commettere irregolarità”. Il Sappe denuncia che i reparti di polizia penitenziaria hanno bisogno di rinforzi al più presto e per questo chiede non solo la ripetizione del concorso, ma anche di avviare lo scorrimento delle graduatorie ancora valide degli idonei non vincitori dei concorsi precedenti al fine di avviare ai corsi di formazione almeno 800 ulteriori agenti. Ma che cosa è accaduto durante l’esame e perché è stato sospeso? Il concorso si era svolto alla Nuova Fiera di Roma il 20, 21 e 22 aprile. Vi avevano partecipato 11 mila uomini per 300 posti e duemila donne per cento posti. I dubbi su possibili irregolarità erano emersi già nei giorni precedenti visto che voci in merito giravano da qualche tempo: per questo l’amministrazione penitenziaria aveva disposto una task force composta da agenti del Nic (Nucleo investigativo centrale) e da due commissari. A quel punto è uscito fuori lo scandalo: 88 candidati sono stati denunciati perché durante le prove hanno utilizzato radiotrasmittenti, auricolari, bracciali con le risposte ai quiz, cellulari contraffatti, cover dei telefonini con le soluzioni. Ma c’è di più. Grazie alle dichiarazioni di alcuni concorrenti finiti sotto accusa, sono usciti fuori i nomi di terze persone coinvolte che puntano diritto alla camorra. Il sospetto degli inquirenti è che la criminalità organizzata abbia tentato di infiltrarsi nelle carceri italiane tramite la via ordinaria del concorso ministeriale. Secondo una ricostruzione de Il Messaggero pare che le indagini puntino anche ad accertare eventuali complicità all’interno del Dap. A suscitare allarme e forti dubbi sulla possibilità di infiltrazioni della criminalità organizzata sono state anche le cifre che sarebbero state pagate per ottenere le soluzioni ai test: in alcuni casi raggiungerebbero i 25mila euro. Soldi che difficilmente un normale concorrente, che abbia la licenza media, può permettersi di pagare per superare un concorso. Gli accertamenti riguardano pure la ditta che si era aggiudicata l’appalto per le selezioni, anche quella con sede in Campania e le idoneità fisiche ottenute dai candidati. Ma non finisce qui. Lo stesso sospetto riguarda un altro recente concorso riguardante la polizia di stato. Il 4 maggio si sono tenute le prove scritte del concorso Polizia di Stato 2016. Terminato il primo step, il 13 maggio, ufficiosamente, è stata pubblicata la graduatoria di merito. Intanto sui gruppi Facebook sono apparse le prime segnalazioni da parte dei candidati che hanno riscontrato irregolarità e procedure poco chiare. Tutto il materiale è sul tavolo del numero uno dell’anticorruzione Raffaele Cantone. A lui e al ministro dell’Interno Angelino Alfano ha scritto il sindacato Autonomo di Polizia su segnalazione dell’associazione “Militari in congedo”. In poche parole sono emerse delle anomalie appena sono uscite le graduatorie del concorso. Nonostante non fosse stata resa pubblica la banca dati su cui allenarsi per prepararsi alla prova scritta, ci si è trovati di fronte a un alto numero di ragazzi che hanno superato la stessa prova senza commettere alcun errore. Ben 194 candidati non hanno sbagliato nemmeno una delle ottanta risposte, 134 hanno commesso un solo errore e 93 ne hanno sbagliate appena due. La totalità degli idonei provengono tutti dalla Campania, regione in cui ha sede la ditta – la stessa che si è occupata anche del concorso per agenti penitenziari – che prepara la banca dati utilizzata per la somministrazione dei quiz. Gente preparatissima, al limite della genialità, oppure dei furbi? Ci penserà forse Raffaele Cantone con una indagine conoscitiva.

Claudio Martelli: “Giovanni Falcone? Era solo, i magistrati lo avevano isolato”. L’ex Ministro di giustizia che volle Falcone con sè al Ministero così racconta: “Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli. Venne a lavorare con me quando in Sicilia era delegittimato”, scrive Paola Sacchi. Claudio Martelli, già vicepresidente del Consiglio dei ministri e titolare del dicastero di Grazia e Giustizia, racconta a Il Dubbio chi era Giovanni Falcone e perché nel 1991 lo prese a lavorare con sé in Via Arenula. L’ex delfino di Bettino Craxi, l’autore della relazione “Meriti e bisogni”, racconta chi era “il giudice più famoso del mondo, che non usava gli avvisi di garanzia come una pugnalata”.

Onorevole Martelli, quando Falcone arrivò da lei si scatenarono molte polemiche. Perché?

«Le polemiche arrivarono dopo, quando soprattutto emerse il disegno di creare oltre alle Procure distrettuali anche una Procura nazionale Antimafia, che poi venne battezzata la Super-procura. Lì si infiammarono gli animi e in alcuni casi si intossicarono».

Gli animi di chi?

«Di chi dirigeva l’Associazione nazionale magistrati. Era Raffaele Bertoni che arrivò a dire letteralmente: di una Procura nazionale Antimafia, di un’altra cupola mafiosa non c’è alcun bisogno…»

Addirittura?

«Sì. E ci furono esponenti del Csm, in particolare il consigliere Caccia, il quale disse che Falcone non dava più garanzie di indipendenza di magistrato da quando lavorava per il ministero della Giustizia. Io dissi che questa era un’infamia. Lui mi querelò, ma alla fine vinsi. Venne indetto anche uno sciopero generale della Anm contro l’istituzione della Procura nazionale Antimafia. Uno sciopero generale, dico!»

Oggi suona come roba dell’altro mondo…

«Sì, ma questo era il clima. La tesi di fondo era che Martelli intendeva ottenere la subordinazione dei Pm al ministro della Giustizia. Questa era la più grande delle accuse. Poi c’erano quelle a Giovanni e al suo lavoro».

Il Pci e poi Pds non fu neppure tanto tenero. O no?

«Erano in prima linea i comunisti. E gli esponenti della magistratura che ho citato erano tutti di area comunista. L’Unità faceva grancassa, dopo aver osannato Falcone in passato, aveva cambiato atteggiamento già prima che Falcone venisse al ministero».

Quando?

«Quando si rompe il fronte anti-mafia e alcuni di quegli esponenti a cominciare dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, incominciano ad attaccare Giovanni».

Che successe?

«La polemica tra Orlando e Falcone sorge quando Giovanni indagando sulla base di un rapporto dei Carabinieri in merito a un appalto di Palermo osserva che con Orlando sindaco, Vito Ciancimino era tornato a imperare sugli appalti di Palermo. A quel punto il Sindaco perde la testa e come era nel suo stile temerario e sino ai limiti dell’oltraggio accusa Falcone di tenere nascosti nei cassetti i nomi dei mandanti politici degli assassini eccellenti di Palermo. Cioè quelli di Carlo Alberto Dalla Chiesa di Piersanti Mattarella».

Eravamo arrivati a questo punto?

«Sì, non contento Orlando fa un esposto firmato da lui, dall’avvocato Galasso e da altri, al Csm sostenendo che Falcone aveva spento le indagini sui più importanti delitti di mafia. Il Csm convoca Falcone nell’autunno del ’91 e lo sottopone a un interrogatorio umiliante, contestandogli di non aver mandato avvisi di garanzia a tizio, caio o sempronio. Giovanni pronuncia frasi che secondo me dovrebbero restare scolpite nella memoria di tutti i magistrati italiani».

Le più significative?

«Disse Giovanni: non si usano gli avvisi di garanzia per pugnalare alla schiena qualcuno. Si riferiva in particolare al caso del costruttore siciliano Costanzo. Falcone sostenne che si mandano quando si hanno elementi sufficienti. Ancora: non si rinviano a giudizio le persone se non si ha la ragionevole convinzione e probabilità di ottenere una sentenza di condanna. Le procedure penali per Giovanni non erano un taxi e quindi non vanno a taxametro».

Ritiene che l’insegnamento di Falcone sia stato poi seguito, in passato e nei nostri giorni?

«Sì, ci sono per fortuna magistrati che hanno seguito il suo metodo molto scrupoloso nelle indagini. E quando otteneva la collaborazione dei pentiti era molto attento a verificare le loro dichiarazioni».

Faccia un esempio.

«In un caso palermitano, un pentito, tal Pellegriti, dichiarò che il mandante degli assassini di Piersanti Mattarella era l’on. Salvo Lima. Falcone gli chiese da chi, come e quando l’avesse saputo. Fa i riscontri e scopre che in quella data Pellegriti era in galera. Dopodiché lo denuncia per calunnia. Ma siccome questo pentito era già diventato un eroe dei tromboni dell’anti-mafia, quelli delle tavole rotonde…»

Intende dire gli stessi che celebrano Falcone?

«Sì, dopo ci arriviamo…allora, stavo dicendo che questi si inviperirono contro Falcone perché aveva rovinato loro il giocattolo. E quindi dopo questo episodio e quanto ho raccontato prima, lo denunciano al Csm che “processa” Falcone. Il quale a un certo punto perde la pazienza e dice: se mi delegittimate, io ho le spalle larghe, ma cosa devono pensare tutti i giovani procuratori, ufficiali di polizia giudiziaria? Falcone in quel momento era il giudice più famoso al mondo».

Ci ricordi perché.

«Era quello che aveva fatto condannare in primo grado e in appello la cupola mafiosa dei Riina, Greco e Provenzano. Grazie a lui gli americani avevano condotto l’operazione Pizza connection…. Era così autorevole e famoso che una volta in Canada un giudice di tribunale volle che si sedesse in aula posto suo. Ma poi arrivò la stagione del corvo di Palermo: le lettere anonime nelle quali si infangavano Falcone e De Gennaro».

Un clima ostile, quasi da brivido con il senno di poi…

«Ora se a questo si aggiunge che Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli, e che poi si candidò al Csm e venne bocciato, e infine a procuratore capo di Palermo gli preferirono Pietro Giammanco, si può ben capire il clima attorno a lui. Che giustifica una frase di Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci: lo Stato e la magistratura che forse ha più responsabilità di tutti ha cominciato a far morire Falcone quando gli preferirono altri candidati. Venne a lavorare con me quando a Palermo era ormai isolato, delegittimato, messo sotto stato di accusa».

È vera la leggenda che per sdrammatizzare quando arrivava in ufficio dopo pranzo alle segretarie chiedesse scherzoso: neppure oggi Kim Basinger ha chiamato per me?

«Sì, l’ho sentito anche io. Lui aveva anche una grande ironia e la faceva anche su stesso, amava molto la vita. Credo che Giovanni a Roma visse uno dei periodo fu sereni della sua esistenza, perché era messo in condizioni di lavorare».

Come vede le polemiche di oggi tra magistratura e politica?

«Certe cose con Falcone non c’entrano niente. Lui sosteneva la necessità di separare le carriere dei magistrati tra Pm e giudici. Perché il giudice deve essere terzo, imparziale, come dice la Costituzione».

Cosa pensa delle accuse indiscriminate di Piercamillo Navigo, presidente della Anm, ai politici?

«Davigo veniva definito da Antonio Di Pietro il nostro “ragioniere”. Ma io gli riconosco il merito di aver sbaragliato nel congresso dell’Anm tutte le correnti. E poi non è vero che lui accusa indiscriminatamente i politici. Dice che i politici di oggi sono peggio di quelli di ieri». Intervista rilasciata al quotidiano Il Dubbio.

Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo. La mafia che c’è in noi. Quando i delinquenti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i politici dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le istituzioni ed i magistrati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando caste, lobbies e massonerie dicono: “qua è cosa nostra!”; quando gli imprenditori dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i sindacati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i professionisti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le associazioni antimafia dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i cittadini, singoli od associati, dicono: “qua è cosa nostra!”. Quando quella “cosa nostra”, spesso, è il diritto degli altri, allora quella è mafia. L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.

Se la religione è l’oppio dei popoli, il comunismo è il più grande spacciatore. Lo spaccio si svolge, sovente, presso i più poveri ed ignoranti con dazione di beni non dovuti e lavoro immeritato. Le loro non sono battaglie di civiltà, ma guerre ideologiche, demagogiche ed utopistiche. Quando il nemico non è alle porte, lo cercano nell’ambito intestino. Brandiscono l’arma della democrazia per asservire le masse e soggiogarle alle voglie di potere dei loro ipocriti leader. Lo Stato è asservito a loro e di loro sono i privilegi ed il sostentamento parassitario fiscale e contributivo. Come tutte quelle religioni con un dio cattivo, chi non è come loro è un’infedele da sgozzare. Odiano il progresso e la ricchezza degli altri. Ci vogliono tutti poveri ed al lume di candela. Non capiscono che la gente non va a votare perché questa politica ti distrugge la speranza.    

Quando il più importante sindaco di Roma, Ernesto Nathan, ai primi del ‘900 scoprì che tra le voci di spesa era stata inserita in bilancio, la TRIPPA, necessaria secondo alcuni addetti agli archivi del comune, per nutrire i gatti che dovevano provvedere a tenere lontani i topi dai documenti cartacei, prese una penna e barrò la voce di spesa, tuonando la celeberrima frase: NON C'È PIÙ TRIPPA PER GATTI, il che mise fine alla colonia felina del Comune di Roma. 

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

A proposito di Mafia e Terrorismo islamico.

L’opinione del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

A proposito delle vittime della Mafia e del Terrorismo islamico ed i soliti pregiudizi idioti. Per una volta, noi meridionali d’Italia vittime del razzismo becero ed ignorante, mettiamoci nei panni di quei mussulmani che terroristi non sono.

Il 19 marzo 2016 i media parlano della cattura di Salah Abdeslam, il terrorista islamico detto «la bestia», capo del commando che la sera del 13 novembre 2015, al grido di «Allah Akbar», assaltò a Parigi il Bataclan. In quella discoteca rimasero a terra i corpi di 93 persone. Per quattro mesi un quartiere islamico, Molenbeek, gli ha fatto da rifugio. Molenbeek, quartiere islamico di Bruxelles, a meno di un chilometro dal Parlamento Europeo. Cosa sono a Molenbeek, tutti terroristi, o anche solo estremisti, o solo gente ignara della presenza del terrorista? La risposta perentoria la dà Alessandro Sallusti su “Il Giornale” del 19 marzo 2016. “No, sono quelli che in molti definirebbero «islamici moderati», «integrati», «fratelli in altra fede» - dice Sallusti -. Sono l'equivalente di quei «cittadini onesti» che in Sicilia hanno protetto nell'omertà la latitanza di Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capimafia ricercati per anni in tutto il mondo che se ne stavano tranquillamente a casa loro”.

Certo ci ricordiamo le immagini di quando, in talune città del Sud Italia, alla cattura di qualche malvivente, in sua difesa, i suoi pochi amici e parenti si frapponevano alle forze dell’ordine. Non vuol dire, però, che il resto della cittadinanza fosse criminale e ne agevolasse la latitanza.

Certo è che l'islam è una religione, ma anche una setta: non esiste il giusto o sbagliato, il bene o il male. Vale solo «o con me o contro di me». E chi è contro è un infedele.

Ma questo vale, a ragion del vero, anche per il comunismo. Il comunismo è anch’esso una religione-setta, ma ce ne passa a considerare tutti i comunisti come terroristi durante gli anni di piombo con i morti ammazzati dalle Brigate Rosse.

L’assioma vale, addirittura, per l’idiotismo. Sì perché dell’idiotismo si fanno partiti politici che vanno per la maggiore. Incompetenti tuttologi mediatici. Se non si è padano si è meridionale o mussulmano terrorista. Fa niente se tra i padani ci sono gli stessi trapiantati arabi, africani e meridionali, la cui propria origine denigrano richiamando mafiosità e islamicità terroristica. Qualcuno dice che le altre religioni (ebrei, buddisti, ecc.) e le altre comunità (cinesi, filippini, ecc.) non si sentono per niente: dove li lasci, lì li trovi. Forse, perché, come gli scandali al nord, non si ha interesse a parlarne e la devianza, quando non è islamica o meridionale, non fa notizia?

Tra Mafia e Terrorismo Islamico, certamente nessuno deve dimenticare il terrorismo di Stato: le morti per l'ingiustizia, come per la sanità, o per la povertà e l'emarginazione.

Noi meridionali d’Italia che non siamo mafiosi e non siamo complici dei mafiosi (tipo Riina o Provenzano) né siamo collusi con gli antimafiosi che le aziende le mettono ko in nome dell'antimafia politica e dell’espropriazione proletaria; noi che non siamo tali ma additati come se lo fossimo, cosa penseremmo se qualche idiota dicesse che, per difendere la propria sicurezza, si dovrebbe andare a bombardare da Roma in giù tutto il Sud Italia come si farebbe in Siria o in Libia, perchè a Napoli come a Palermo son tutti mafiosi per antropologia? O cosa penseremmo se si dicesse che si dovrebbero cacciare tutti i meridionali dal meridione d’Italia, perchè sono biologicamente e culturalmente mafiosi, come si vorrebbe fare in Europa con tutti i mussulmani, considerati, da questi idioti, tutti terroristi?

La risposta sarebbe: queste idiozie lasciamoli uscire dalle bocche dei soliti noti. Ma altrettanto idiota sarebbe appoggiare la cazzata opposta del falso buonismo: accogliamo pecore e porci, anche quando non siamo in grado di ospitarli e di sostentarli ed in nome della multiculturalità rinunciamo in casa nostra alla nostra cultura, ai nostri usi ed alle nostre tradizioni.

Basterebbe, per buon senso, per difenderci da mafia e terrorismo islamico, solo esercitare i dovuti controlli all’entrata e far rispettare le leggi durante il soggiorno, inibendo, così, le speculazioni politiche della destra e le speculazioni economiche della sinistra. Speculazioni create ad arte per gli italioti.

“Il livello di radicamento del terrorismo jihadista a Molenbeeck è come quello della ‘ndrangheta a Platì in Calabria”. cit. On. Marco Minniti Sottosegretario di Stato del Governo Renzi. Platì e la Calabria Tutta non meritano un accostamento del genere non solo è fuori luogo, ma offende una Cittadina come Platì e la Calabria intera, che meritano ben altra attenzione per la loro condizione geografica e la povertà del loro territorio.

Nella Molenbeek della 'ndrangheta. Il senatore di Forza Italia a Platì, comune calabrese sciolto due volte per mafia. Dove i cittadini si sono sentiti offesi dalla parole del sottosegretario di Stato Marco Minniti. Colpevole di aver paragonato il radicamento jihadista nella cittadina belga a quello della 'ndrangheta nel municipio aspromontano, scrive Giovanni Tizian il 30 marzo 2016 su "L'Espresso". «Il livello di radicamento del terrorismo jihadista a Molenbeek è come quello della ‘ndrangheta a Platì in Calabria». L'analisi è del sottosegretario di Stato con delega ai servizi Marco Minniti. Tanto è bastato a scatenare la polemica tra i cittadini e i vecchi politici del paese. Per questo hanno convocato d'urgenza una manifestazione, a tre mesi dalle comunali, nella sala parrocchiale con un un ospite d'eccezione: Domenico Scilipoti. Il senatore siciliano, eletto in Calabria, ha provato, a modo suo, a difendere gli interessi del territorio. Così alla manifestazione ha fatto sentire la sua voce, definendo «infelice» l'uscita di Minniti, aggiungendo poi: «Sono sicuro che non voleva offendere nessuno e che spiegherà le sue parole. Se però l’assemblea lo ritiene opportuno, avvierò un’azione di sindacato ispettivo sulla questione». I presenti, infatti, chiedevano a gran voce persino un'interrogazione sulla vicenda. Il senatore Scilipoti nel suo discorso ha citato varie volte Gesù, ma mai una volta la parola 'ndrangheta. Perché?, a Platì esiste la 'ndrangheta?, verrebbe da chiedersi. La frase del sottosegretario potrebbe sembrare a effetto, denigratoria, ma, purtroppo, non lo è. Ragionando sui fatti e non sulle opinioni-emozioni i dati investigativi e giudiziari danno ragione a Minniti. Platì, comune dell'Aspromonte, è una delle centrali della 'ndrangheta. Vengono da qui i clan più abili nel gestire il narcotraffico a livello internazionale e quelli che hanno messo radici fino in Australia, dove ancora oggi spadroneggiano. Qui sono stati uccisi due sindaci dalle cosche. Questo è il municipio sciolto due volte per mafia e dove alle scorse comunali non si è andato a votare per mancanza di candidati. E sempre qui i latitanti fino a qualche anno fa si nascondevano nel reticolo di bunker costruiti ad hoc per le famiglie del crimine. Infine, sono di Platì i boss che hanno messo le mani sull'hinterland milanese. Che il controllo del territorio, dunque, sia totale da parte della mafia calabrese è evidente. Così come lo è nel paese belga da parte dei terroristi, dove si sentono protetti dalla rete jihadista. Con la differenza che a Molenbeek i fanatici del Califfato non godono delle complicità politiche della 'ndrangheta. Quando l'organizzazione mafiosa controlla il territorio vuol dire che gestisce anche il consenso. Cosa che avviene in tutti i comuni ad alta densità mafiosa. Da Sud a Nord. I vari Salah Abdelslam non hanno la copertura politica. Non hanno complici nelle istituzioni. Le 'ndrine sì. E in questo sono molto più simili all'Is così come lo conosciamo in Siria e Iraq, dove agisce, secondo il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, come un vero e proprio Stato-mafia. Accostare, quindi, la cittadina belga e il comune dell'Aspromonte potrebbe essere persino riduttivo per descrivere il potere criminale dei clan. Le 'ndrine, infatti, rispetto ai gruppi jihadisti sparsi in Europa hanno una capacità maggiore di condizionare le nostre vite. Solo che non ce ne accorgiamo. Perché non mettono bombe e non uccidono in maniera eclatante. Distruggono l'economia e la democrazia in silenzio, senza creare allarme sociale. Ma i primi disastri sono già evidenti, e non da ora: una regione a pezzi; giovani che emigrano; politica terrorizzata, e perciò immobile, quando non complice. Per questo invece di indignarsi per le parole di Minniti, forse è arrivato il momento di ribellarsi alla 'ndrangheta. Che è ancora viva, fa affari e corrode la libertà. A Platì a giugno si voterà. Dopo che le scorse comunali sono saltate per mancanza di candidati. Il municipio sciolto due volte per mafia, aspetta una ventata di democrazia. Annarita Leonardi, che nulla c'entra con Platì, ha deciso di candidarsi. Lei è una trentenne di Reggio Calabria, renziana e pronta al sacrificio per un comune che fino a pochi mesi fa conosceva appena. Ha buone possibilità, ma dovrà vedersela probabilmente con una vecchio volpone della politica locale di Platì: Francesco Mittica, ex sindaco di Platì, la cui amministrazione è stata sciolta per infiltrazioni mafiose. Ancora lui, insomma, per rinnovare la molenbeek della 'ndrangheta. Dove tutto scorre come prima, nonostante la visita di Scilipoti. Perché i clan a Platì amministrano senza bisogno di elezioni. Comandano, semplicemente.

PLATI' MINNITI E IL GIRONE INFERNALE DELLA LOCRIDE, scrive Aldo Varano Martedì 29 Marzo 2016 su "Zoom Sud". Il senatore Minniti, che di solito sta accuratamente lontano dai giornali e da qualsiasi tipo di esposizione mediatica, perché impegnato in un’attività nazionale straordinariamente importante per il nostro paese e la sua sicurezza, ha detto che “il livello di radicamento del terrorismo jihadista a Molenbeeck è come quello della ‘ndrangheta a Platì in Calabria”. Non se ne abbia a male Minniti e se ne faccia una ragione: è difficile accettare e convincersi che a Molembeeck, quasi 82mila abitanti, il terrorismo sia tanto radicato quanto la ‘ndrangheta a Platì. Naturalmente non mi riferisco alla realtà di Platì. Mi riferisco alla sua immagine. Un’immagine che gli è stata cucita addosso con responsabilità diffuse e non estranee alla Calabria, alla sua politica, ai suoi intellettuali. Un’immagine radicata e terribile creata da un meccanismo infernale. In quel meccanismo ci sono le inadempienze antiche dello Stato che, da una parte, non è mai intervenuto a favore dei deboli e dei faticatori di Platì per aiutarli a uscire dal tunnel dell’arretratezza e del sottosviluppo; e dall’altra si è ben guardato dall’intervenire con tutta la forza dello Stato per stroncare una malapianta mafiosa che a Platì è stata sempre potente e aggressiva condizionando pesantemente la vita dei suoi abitanti. Su questi fatti reali si è costruita un’opinione che, come tutti sanno, diventa a sua volta un altro fatto molto più potente di quello che lo ha originato. E’ l’opinione che crea le idee che muovono persone, pregiudizi, sentimenti e popoli. Quell’immagine, a cui ha fatto riferimento Minniti per il suo paragone, che è legittimo ritenere infelice, del resto, è nota a tutti in Calabria e nella Locride da dove è stata esportata in Italia e non solo. Dannoso far finta che non sia così e nascondere la testa sotto la sabbia. Il peggio che possa accadere ora è che un episodio minore possa venire strumentalizzato per costruire a Platì altri danni. Mi riferisco alle iniziative che anziché fare i conti reali con quell’immagine attraverso l’inventario e il rovesciamento degli errori che abbiamo alle spalle, puntano e sperano in un fermo-immagine della situazione dentro la quale, magari, agguantare qualche pezzetto di potere, non trasparente in più. E non si tratta, è bene precisarlo, di forze della politica, dei ceti sociali o della geografia nettamente spaccate a metà. C’è un problema gigantesco in Calabria che si riferisce prima di tutto alla Locride come girone tra i più pericolosi dell’orrido inferno calabrese. Platì viene dopo. Il problema di cui parlo è quello di un racconto veritiero della nostra terra, non viziato né dalla voglia di nascondere o attenuare le nostre responsabilità, né costruito attraverso immagini enfatiche dei fenomeni che la devastano. Un racconto veritiero non come attenuante generica, ma perché solo un racconto veritiero può dar vita a una strategia che, con un impegno corale dei cittadini, possa assestare alla ‘ndrangheta colpi di maglio decisivi e mortali. Colpisce che personalità autorevoli della Locride abbiano scelto di polemizzare in modo francamente enfatico con il senatore Minniti senza accorgersi che nello stesso giorno in cui l’hanno fatto, senza che nessuno di loro se ne preoccupasse, uno dei più grandi giornali italiani, che influisce e orienta pezzi decisivi dello Stato e del potere, ha proposto con grande evidenza in prima pagina la ricostruzione di una Calabria, più precisamente della Locride, come il delinquente dell’Italia. Una regione composta da 2milioni di abitanti compattamente dedita al delitto o comunque con esso collegata. Peso le parole. Ma se la Calabria è il motore devastante che “alimenta le voglie e le ossessioni quotidiane di tre milioni di italiani – com’è stato scritto la domenica della Resurrezione - e ne scatena l’aggressività nelle strade e nelle case, esondando dai suoi argini da Milano a Roma, da Bologna a Siena, da Napoli a Palermo per ritrovare la sua fonte rigeneratrice nella Locride e consegnare alle cosche calabresi un tesoro da 30 miliardi l’anno”, se è questo motore, la Calabria non ha più speranza. Io credo che questa analisi sia sbagliata e credo ostacoli la lotta alla ‘ndrangheta. Perché è chiaro che se le cose stanno a quel modo i cittadini non saranno mai più dalla parte della giustizia. Ma se è così lo Stato, le autorità, i governi, le Procure della Repubblica devono avere il coraggio di riconoscerlo solennemente e trarne le conseguenze. Se è così non si può essere complici. Bisogna chiedere allo Stato di lavorare a un radicale spopolamento della Calabria per rigenerarla facendola rifiorire con altre e diverse popolazioni. Non ci si può rassegnare ad accettare la ‘ndrangheta magari perché senza il suo giro economico illegale l’intera economia legale (della Calabria e non solo) andrebbe all’aria. Né si può accettare di vivere solo grazie alla diffusione di morte e dolori nel resto del paese. Sia chiaro. I calabresi e i cittadini della Locride (o quelli che ne sono originari) non abbiamo interesse a nascondere nulla. Solo chi odia la nostra terra può sottovalutare o anche solo attenuare la gravità del fenomeno mafioso. La Calabria deve continuare a chiedere la sconfitta della mafia, la sua scomparsa definitiva dall’orizzonte storico della Calabria, la sua riduzione a fenomeno irrilevante. E deve continuare a denunciare la lentezza di questa lotta di liberazione che certo diventa impossibile se la situazione dovesse veramente essere quella descritta nei giorni scorsi dalla grande stampa. Una lotta lenta anche perché quell’analisi frena necessariamente la reazione bloccando la voglia di riscatto. Solo nei romanzi si può lottare contro i mulini a vento.

E poi...Minniti chi?

TG La 7: Bufera su Marco Minniti, nel ’94 e nel ’96 i voti della ‘ndrangheta, scrive il 19 giugno 2014 Antonio Giuseppe D’Agostino su "CM News". Suscita non poche perplessità la notizia che vede coinvolto il dirigente del Partito Democratico, Marco Minniti, sottosegretario con delega ai servizi del Governo Renzi, che sta avendo eco sui vari siti internet dopo la messa in onda di un telegiornale. Ieri mattina, il TG di La delle 7.30 ha inserito il nome del sottosegretario all’interno del processo che coinvolse il deputato Amedeo Matacena. Nei verbali d’interrogatorio di un presunto ex killer della ‘ndrangheta pentito, sembrerebbe che l’attuale sottosegretario abbia avuto l’appoggio delle famiglie mafiose durante le elezioni del 1994 e del 1996. Dopo lo scalpore relativo all’EXPO e al MOSE di Venezia, il Partito democratico torna al centro degli scandali con gravi rivelazioni che, se ritenute attendibili, potrebbero colpire uno dei dirigenti più quotati dei democrat. Secondo quanto trascritto nei verbali, del presunto ex killer, verrebbe affermato al pm “noi votavamo a Matacena e Peppe Greco, il figlio di Ciccio, capo ‘ndrnagheta di Calanna, appoggiava a Minniti, all’Onorevole Minniti”. “Minniti?”, chiede il pm, e il pentito replica affermando “Marco Minniti”. Durante l’interrogatorio il collaboratore di giustizia entra nel dettaglio evidenziando come l’attuale sottosegretario “ha preso 800 voti a Calanna nel ’94 e nel ’96, e anche coso… la… Don Rocco Musolino appoggiava a Minniti che lo ha fatto uscire dal carcere tre giorni prima delle elezioni, si era impegnato a farlo uscire”. Il verbale è stato utilizzato dagli inquirenti per evidenziare i rapporti intrattenuti da Matacena con la ‘ndrangheta, un classico scambio di favori fra potere politico e potere mafioso, che ora potrebbe coinvolgere anche il sottosegretari del PD. Un connubio che garantì, nel 1996, l’elezione del deputato Matacena, ma non quella di Marco Minniti che per soli 600 voti non venne eletto, all’interno della coalizione dell’Ulivo.

Bufera sul Pd, a Minniti i voti della ‘ndrangheta? “Don Rocco Musolino lo appoggiava per averlo fatto uscire dal carcere”, scrive il 18 giugno 2014 "StrettoWeb". Una nuova bufera scuote il Partito Democratico già alle prese da settimane con i guai giudiziari che hanno coinvolto alcuni suoi esponenti prima nelle note vicende riguardanti l’Expo di Milano, poi per il Mose di Venezia. Gravissime le nuove rivelazioni fornite questa mattina, nell’edizione delle 07.30, dal tg di La Sette consultabile cliccando qui. E stavolta si tratta di Reggio Calabria. Nell’inchiesta reggina su Scajola, Matacena e Chiara Rizzo, spunta a sorpresa Marco Minniti, dirigente del Partito Democratico che negli ultimi 15 anni ha spesso ricoperto ruoli di governo. Quasi sempre sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, ruolo che ricopre anche in questo momento. Minniti calabrese di Reggio – dichiara la giornalista del TG di LA Sette – compare nel verbale di interrogatorio di un killer della ‘Ndrangheta poi collaboratore di giustizia che nel 2005 entra nel processo Matacena. Dice al pm Andrigo Antonino Zavattieri: “noi votavamo a Matacena e Peppe Greco, il figlio di Ciccio, capo ‘ndrnagheta di Calanna, appoggiava a Minniti, all’Onorevole Minniti”. Minniti? chiede il pm. “Marco Minniti” risponde il pentito, “ha preso 800 voti a Calanna nel ’94 e nel ’96, e anche coso… la… Don Rocco Musolino appoggiava a Minniti che lo ha fatto uscire dal carcere tre giorni prima delle elezioni, si era impegnato a farlo uscire”. Le accuse contro Minniti sono contenute nelle 30 pagine dell’integrazione della richiesta dell’applicazione di misure cautelari depositata dai pm reggini che domattina discuteranno davanti al riesame il ricorso per veder riconosciuta l’aggravante mafiosa bocciata dal GIP di Reggio quando inizio Maggio ordinò l’arresto di Scajola, Matacena Chiara Rizzo e altri 5 indagati. Il verbale del collaboratore di giustizia serve ai magistrati per evidenziare degli stabili rapporti intrattenuti da Matacena con la ‘Ndrangheta erano finalizzati allo sviluppo di attività imprenditoriali sia a proprio favore che a favore delle cosche, nonché ad ottenere voti. Il classico do ut des, tra politico e criminalità organizzata, alle politiche del ’96, quelle di cui parla il pentito, Minniti era candidato per l’Ulivo alla Camera dei Deputati nel collegio di Villa San Giovanni ma per 600 voti non venne eletto, risultando battuto proprio da Matacena che correva con il Popolo delle Libertà”.

“Porta a Porta” programma della Rai condotto per anni da Bruno Vespa. Il salotto buono dove la mafia è di casa. E’ prerogativa della politica dire “è cosa nostra”. Guai quando essi sono spodestati e le interviste dedicate all’altra sponda.

Porta a Porta Rai 1 del 6 aprile 2016 alle ore 23.35. Il vero giornalismo racconta i fatti, non promuove opinioni ideologiche culturalmente conformate. Ciononostante l’intervista ha suscitato l’indignazione dei mafiosi antimafiosi. Perché in Italia secondo i cittadini “onesti”, che ogni giorno salgono agli onori della cronaca, i mafiosi son sempre gli altri.

Tempa Rossa. Petrolio e mafia. Potenza, Corleto Perticara e la Basilicata. Voti di scambio mafiosi. No. Voti PD antimafiosi.

Bruno Vespa: tutte le interviste che hanno fatto scalpore. Dai Casamonica al padre di Manuel Foffo fino al figlio di Totò Riina: per "Porta a Porta" vent'anni di grandi esclusive e polemiche infuocate, scrive il 7 aprile 2016 "Panorama".

I plastici dei delitti. Ormai sono entrati di diritto nell'immaginario televisivo collettivo: sono i plastici di Vespa, modellini realizzati per ricostruire la scena dei casi di cronaca più famosi. Molti hanno scatenato critiche durissime e, ancora a distanza di anni, sono motivo di ironie e discussioni. Il più famoso è senza dubbio quello della villetta di Cogne dove il 30 gennaio del 2002 fu consumato l'omicidio del piccolo Samuele Lorenzi di tre anni per cui è stata condannata, con sentenza passata in giudicato, la madre Anna Maria Franzoni. Nella lista di quelli che hanno riscontrato il maggiore successo il plastico dell'omicidio di Meredith Kercher, uccisa a Perugia nella notte del 1º novembre 2007 mentre si trovava nella sua camera da letto, nella casa che condivideva con altri studenti; la villetta di Garlasco teatro dell'assassinio di Chiara Poggi avvenuto nell'agosto del 2007; l'abitazione di Brenda, la transessuale brasiliana coinvolta nella vicenda di sesso, droga e ricatti che costò la carriera politica all'ex presidente del Lazio Piero Marrazzo e la morte della stessa Brenda. In quel caso fu proprio l'amica della vittima, invitata da Vespa in studio a bocciare il plastico dell'appartamento. Non sono mancati nemmeno il modellino della nave da crociera Concordia, affondata nei pressi dell'Isola del Giglio con 33 passeggeri rimasti vittime e quello della casa di Avetrana, dove abitava la piccola Sarah Scazzi, uccisa nel garage dalla cugina Sabrina Misseri insieme alla madre Cosima.

Vent'anni al centro della scena televisiva italiana. Vent'anni di interviste e dirette che hanno fatto buona parte della storia della Rai degli ultimi due decenni.

Vent'anni di momenti indimenticabili come la telefonata a sorpresa di Papa Giovanni Paolo II durante la puntata del 13 ottobre 1998 dedicata al ventennale del pontificato Wojtyla.

Vent'anni di trovate a effetto: dalla scrivania che ospitò la firma del contratto con gli italiani di Silvio Berlusconi ai plastici creati ad hoc per tutti i principali casi di cronaca.

Vent'anni che hanno consacrato Porta a Porta a "terza camera del Parlamento" e regalato a tanti personaggi (avvocati, magistrati, criminologhi, cuochi, ballerini, sportivi e così via) fama e visibilità grazie allo spazio offerto loro da Bruno Vespa.

Ma anche vent'anni di polemiche per le interviste, spesso in esclusiva, realizzate dal giornalista più criticato, imitato e corteggiato d'Italia. Scorri la lista delle puntate che hanno fatto più discutere.

Il figlio di Totò Riina. L'ultimo caso risale a ieri sera. Il protagonista è Salvo Riina, figlio del boss della mafia Totò e autore di un libro in cui descrive un padre “premuroso e amorevole”. L'intervista è andata in onda nonostante le proteste infuocate rimbalzate sulle agenzie, i siti, i social per tutta la giornata. I vertici di Viale Mazzini hanno infatti dato il via libera alla scelta di Vespa: "è informazione". Ma la lista degli insorti contro l'ospitata tv del figlio del più sanguinario dei capi di Cosa Nostra è lunga: dal presidente del Senato Pietro Grasso alla presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi, dai parenti delle vittime della mafia (Maria Falcone, sorella di Giovanni ucciso a Capaci, si è detta “costernata”, Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ha parlato di caso “vergognoso”) a un ampio schieramento bipartisan di politici (invitato in studio l'ex segretario dem Pier Luigi Bersani ha disertato), dal sindacato Usigrai alla Fnsi. Già scattata la richiesta di convocazione dei vertici della Rai in Commissione parlamentare di vigilanza e, da parte di alcuni, quella di dimissioni per Bruno Vespa. Ma cosa ha detto in onda Salvo Riina? L'uomo ha rievocato la sera del 23 maggio del 1992, quando, all'altezza di Capaci, mille chili di tritolo fanno saltare in aria la strada che collega l'aeroporto di Punta Raisi a Palermo uccidendo il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tutta la scorta. “Eravamo a Palermo e sentivamo tante ambulanze e sirene, abbiamo cominciato a chiederci il perché e il titolare del bar ci disse che avevano ammazzato Falcone, eravamo tutti ammutoliti. La sera tornai a casa, c'era mio padre che guardava i telegiornali. Non mi venne mai il sospetto che lui potesse essere dietro quell'attentato”. A proposito dell'arresto del genitore ha aggiunto di non poterlo condividere.

Il padre dell'assassino di Luca Varani. Il 7 marzo è la volta di Valter Foffo. L'uomo è il padre di Manuel, uno dei due giovani che confessarono il brutale omicidio di Luca Varani, il giovane di 23 anni che, prima di essere ucciso in un appartamento a Roma, venne torturato per almeno due ore dai due che si trovavano sotto l'effetto della cocaina. A sollevare polemiche furono, anche in questo caso le parole dell'uomo, apparso ai telespettatori inspiegabilmente troppo tranquillo, che ha descritto il figlio come “un ragazzo modello, forse eccessivamente buono, con un quoziente intellettivo superiore alla media. Non uno sbandato”. Parole di affetto respinte anche dal figlio che, interrogato a Regina Coeli, confesserà di aver sfogato sul povero Luca la rabbia covata proprio contro il padre. Ma a finire sul banco degli imputati sarà soprattutto Vespa, accusato di aver offerto un palcoscenico a una tesi difensiva basata sul presupposto che a scatenare la furia omicida dell'assassino fosse stata in realtà, non un'indole criminale, ma solo l'assunzione di stupefacenti. In questo caso a scatenarsi furono soprattutto i social che accusarono il programma di Rai1 di “sciacallaggio”.

I Casamonica. Non era trascorso nemmeno un mese dal funerale di Vittorio Casamonica che bloccò un intero quartiere di Roma sollevando un vespaio di critiche e polemiche non solo sulle prime pagine di tutti i quotidiani romani ma anche sulla stampa di mezzo mondo, che ecco apparire nel salotto di Bruno Vespa figlia e nipote. I Casamonica sono una famiglia di etnia nomade originaria dell'Abruzzo che ormai si è stabilizzata da anni nella Capitale dove si è specializzata in attività criminali quali, in particolare, racket, usura e spaccio di stupefacenti. Il 20 agosto del 2015 Vittorio Casamonica viene omaggiato da una gran folla che segue il corteo funebre, con tanto di carrozza trainata dai cavalli neri, note del Padrino intonate dalla banda e lancio di petali di rosa da un elicottero in volo a pochi metri dai tetti della abitazioni, fino alla Chiesa addobbata con una gigantografia del boss in abiti papali salutato come “re di Roma”. La stessa chiesa, per altro, che rifiutò di celebrar ei funerali di Piergiorgio Welby. L'8 settembre Vera e Vittorino Casamonica, figlia e nipote di Vittorio, si presentano a “Porta a Porta” per raccontare la loro “verità” e difendere il loro congiunto dalle “tante bugie e calunnie” dette sul conto di un uomo “che tutti chiamavano Papa perché era troppo buono, come Francesco” e su quello della loro famiglia, “gente onesta”. Pd, Campidoglio, Vigilanza e Antimafia, M5S e Sel partono all'attacco. La direzione di Rai1 si schiera con il conduttore, ma decide di programmare, a scopo risarcitorio, un'intervista con l'assessore alla Legalità del Comune di Roma Alfonso Sabella. Vespa si difende: “Lasciateci fare il nostro mestiere. Quando Biagi ha intervistato Sindona, c'erano forse le vittime? E c'erano le vittime quando è stato intervistato Buscetta o quando Santoro ha intervistato Ciancimino?”.

Il nuovo fidanzato di Erika. Nel dicembre del 2001 sbarca in Commissione di vigilanza Rai il caso “Mario Gugole”. Di chi si tratta? Mario Gugole è un giovane di 24 anni, di professione meccanico con il sogno di diventare dj che fin dai primi giorni di prigionia della 16enneErika De Nardo, arrestata per aver ucciso madre e fratellino la sera del 21 febbraio del 2001 a Novi Ligure, insieme al fidanzatino di allora Omar Favaro, comincia a scriverle lettere d'amore in carcere. I due non si erano mai conosciuti prima ma nel giro di qualche mese il loro rapporto epistolare si trasforma in una sorta di relazione a distanza. Quando la storia viene svelata dai media, tutte le principali testate giornalistiche fanno a gara per intervistare Gugole. Il quale è ben contento di mettersi a disposizione ma di certo non a titolo gratuito. Le sue apparizioni a Domenica in e Porta e Porta sarebbero costate infatti alla Rai ben 25 milioni di vecchie lire. Ma non è solo questo aspetto ad attirare contro Vespa le solite critiche. Secondo l'Osservatorio sui Minori il ragazzo sarebbe infatti “accomunato ad Erika da un atteggiamento antigenitoriale che la Rai non dovrebbe diffondere”. Bruno Vespa però non ci sta e ricorda che Gugole è stato intervistato da Tg1 e Tg5, e da molti giornali: “Perché solo noi non potremmo ascoltarlo?”.

Gli assassini di Marta Russo. A tre anni dall'apertura del programma, Bruno Vespa finisce nel polverone per una puntata di “Porta a Porta” dedicata all'omicidio della studentessa romana Marta Russo avvenuto il 9 maggio del 1997 in un viale dell'Università di Roma La Sapienza. Marta rimane uccisa da un colpo di pistola sparato da una finestra dell'aula assistenti dell'istituto di filosofia del diritto. A premere il grilletto un giovane assistente, Giovanni Scattone, affiancato dall'amico Salvatore Ferraro. Entrambi vengono invitati da Vespa nel giugno del 1999 dopo la condanna in primo grado. I genitori della ragazza chiedono di bloccare la messa in onda. Non comprendono come sia possibile offrire loro “ulteriore spazio del servizio pubblico televisivo” nonostante la vicenda sia stata già ampiamente documentata dai media. In molti sono dalla loro parte ma il giornalista decide di andare dritto per la sua strada: “Bloccarci - disse allora Vespa - sarebbe un precedente mortale”. Ma le polemiche riguardarono anche il presunto cachet riservato ai due ospiti.

I plastici dei delitti. Ormai sono entrati di diritto nell'immaginario televisivo collettivo: sono i plastici di Vespa, modellini realizzati per ricostruire la scena dei casi di cronaca più famosi. Molti hanno scatenato critiche durissime e, ancora a distanza di anni, sono motivo di ironie e discussioni. Il più famoso è senza dubbio quello della villetta di Cogne dove il 30 gennaio del 2002 fu consumato l'omicidio del piccolo Samuele Lorenzi di tre anni per cui è stata condannata, con sentenza passata in giudicato, la madre Anna Maria Franzoni. Nella lista di quelli che hanno riscontrato il maggiore successo il plastico dell'omicidio di Meredith Kercher, uccisa a Perugia nella notte del 1º novembre 2007 mentre si trovava nella sua camera da letto, nella casa che condivideva con altri studenti; la villetta di Garlasco teatro dell'assassinio di Chiara Poggi avvenuto nell'agosto del 2007; l'abitazione di Brenda, la transessuale brasiliana coinvolta nella vicenda di sesso, droga e ricatti che costò la carriera politica all'ex presidente del Lazio Piero Marrazzo e la morte della stessa Brenda. In quel caso fu proprio l'amica della vittima, invitata da Vespa in studio a bocciare il plastico dell'appartamento. Non sono mancati nemmeno il modellino della nave da crociera Concordia, affondata nei pressi dell'Isola del Giglio con 33 passeggeri rimasti vittime e quello della casa di Avetrana, dove abitava la piccola Sarah Scazzi, uccisa nel garage dalla cugina Sabrina Misseri insieme alla madre Cosima.

Da Sindona a Riina jr: i volti della mafia in tv.

Enzo Biagi intervista Michele Sindona in America, nel carcere di Otisville (New York): è il 24 ottobre 1980.

Il boss Luciano Liggio con Enzo Biagi il 20 marzo del 1989: l’intervista va in onda a «Linea Diretta» su RaiUno.

Nel 1986 Enzo Biagi intervista Raffaele Cutolo in un’aula del tribunale di Napoli dove stavano processando il capo camorrista.

Nel 1991 Michele Santoro ospita a «Samarcanda» il mafioso Rosario Spatola.

Il 24 luglio 1992 Enzo Biagi intervista negli Stati Uniti per «Speciale Tg7» Tommaso Buscetta, che rifiuta di essere considerato un pentito e parla di Giovanni Falcone: «Doveva morire, voleva intraprendere una strada che parlasse di politica».

Nel 1998 Michele Santoro intervista a «Moby Dick», su Canale 5, il pentito Enzo Brusca che diede l’ordine di strangolare e sciogliere nell’acido il bambino Giuseppe Di Matteo.

Il 14 marzo 2012 Angelo Provenzano, figlio del boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, è intervistato dalla giornalista Dina Lauricella per «Servizio Pubblico», la trasmissione di Michele Santoro su La7.

Sempre per «Servizio pubblico», nel marzo 2012 Sandro Ruotolo intervista Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino: testimone di giustizia, indagato per calunnia, concorso in associazione mafiosa e concorso in riciclaggio di denaro.

Il 24 agosto 2013 Carmine Schiavone viene intervistato da SkyTg24: «Le istituzioni ci hanno abbandonato», dice l’ex boss del clan dei Casalesi e collaboratore di giustizia.

Il 30 gennaio 2014 è ospite di Michele Santoro, nello studio di «Servizio Pubblico», Vincenzo Scarantino, il pentito che con false accuse fece condannare persone innocenti per la strage di via D’Amelio. Fu arrestato alla fine della puntata.

L’8 settembre 2015 Bruno Vespa ospita a «Porta a Porta» Vera e Vittorino Casamonica, figlia e nipote del defunto boss Vittorio celebrato con esequie-kolossal a Roma il 20 agosto.

La puntata del 6 aprile 2016 di «Porta a Porta» con l’intervista a Giuseppe Salvatore Riina, figlio del superboss corleonese Totò Riina e condannato a 8 anni e 10 mesi per associazione mafiosa (pena già scontata).

Caso Vespa, l'editto della Rai "Supervisione sui giornalisti". Dopo la puntata con Riina jr, i vertici della tv di Stato scaricano il conduttore. Il dg Campo Dall'Orto: da settembre informazione controllata, scrive Fabrizio De Feo, Venerdì 8/04/2016, su "Il Giornale". Il giorno dopo la discussa intervista a Salvo Riina, figlio del boss dei boss, in commissione Antimafia va in scena il processo a Bruno Vespa. Convocati di fronte al parlamentino sono il presidente della Rai Monica Maggioni e l'amministratore delegato Antonio Campo Dall'Orto. Un appuntamento che si trasforma in un'occasione per emettere da parte dei parlamentari del Pd, di Sel e di M5S una sorta di condanna senza appello del conduttore, privo a loro dire del pedigree giornalistico per una intervista di inchiesta. Ma anche e soprattutto nel palcoscenico davanti al quale Antonio Campo Dall'Orto annuncia un cambio di rotta per il servizio pubblico radiotelevisivo e una stretta sulla libertà consentita alle trasmissioni giornalistiche di trattare determinati temi. «È una fase di transizione dove il direttore editoriale Verdelli è in carica da circa tre mesi. Prima abbiamo deciso di occuparci dell'informazione giornalistica in senso stretto, ovvero delle testate. Poi da inizio settembre bisognerà riuscire ad avere una supervisione che lavori sui contenuti giornalistici. Da quel momento si dovrà decidere insieme». Una facoltà di intervento da parte dei vertici Rai sull'autonomia delle singole trasmissioni potenzialmente foriera di pericolose implicazioni che in altri tempi avrebbe provocato inevitabili polemiche e proteste. Campo Dall'Orto spiega come dopo l'ospitata dei Casamonica e i fatti di Parigi sia nata la decisione di istituire una «direzione per l'informazione». «Non è più pensabile distinguere l'informazione dall'infotainment», dice l'ad ricordando che il direttore Carlo Verdelli è in carica da circa tre mesi. «In questo caso Verdelli ha preso una decisione su un contenuto che si è trovato sul suo tavolo, domani bisognerà agire all'origine sulla scelta di cosa fare o non fare». Rispetto al «caso Vespa» il presidente Rosy Bindi assume subito un profilo di attacco frontale, criticando un'intervista «che ha prestato il fianco al negazionismo e al riduzionismo». Una linea su cui si attestano sia il Pd che il Movimento cinquestelle concentrati su alcuni tasti ricorrenti. In particolare se le domande fossero state concordate, se ci fossero «regole di ingaggio» pre-ordinate e se il figlio di Riina sia stato pagato. Viene anche contestata l'idea di una puntata riparatrice, ma i vertici Rai spiegano che non si tratta di questo ma «di un ulteriore approfondimento sul tema della mafia». Sia Campo Dall'Orto che la Maggioni chiariscono che per l'intervista «non è stato corrisposto alcun pagamento. Le domande sono state fatte in libertà. La liberatoria è stata firmata soltanto alla fine», un punto questo che solleva diverse polemiche. Il presidente della Rai condanna, comunque, il tono complessivo dell'intervista. Tante cose «rendono insopportabile il contenuto. Dall'inizio alla fine è stata un'intervista da mafioso, quale è il signor Riina». La Maggioni, però, ferma la sortita polemica di Lucrezia Ricchiuti del Pd: «Non posso sentir dire da quest'aula che Bruno Vespa è un portavoce della mafia. È inaccettabile».

Vespa libero non piace al Pd. A Porta a Porta l'intervista ai Casamonica. La sinistra insorge, ma i "suoi" conduttori portavano i boss in studio, scrive Alessandro Sallusti, Giovedì 10/09/2015, su "Il Giornale".  Ne abbiamo viste tante ma sentire una serie di politici di seconda fila voler insegnare a Bruno Vespa come si deve fare il mestiere di giornalista è davvero troppo. Gente che non sa fare il suo di mestiere, prova ne è lo stato in cui sono ridotti il paese, il parlamento e i partiti, ha aperto ieri un processo politico contro il conduttore di Porta a Porta colpevole di aver ospitato in studio l'altra sera, nella puntata che ha inaugurato la stagione, i figli (incensurati) di Casamonica, il boss mafioso il cui funerale in pompa magna è stato il caso dell'estate. Il Pd, che di cosche romane se ne intende al punto da averci fatto affari d'oro come si evince dalle carte dell'inchiesta «mafia capitale», chiede che del caso se ne occupi il Parlamento. Il sindaco(dimezzato) Marino, uomo senza vergogna, si dice scandalizzato: cosa grave, pretendo le scuse di Vespa a Roma, ha detto tralasciando che quel famoso funerale è avvenuto con la sua autorizzazione, o comunque sotto il suo naso, e che se c'era uno che avrebbe dovuto occuparsi del Casamonica (in vita) invece che lasciarlo spadroneggiare su un pezzo di città, questi è proprio lui. In questi anni la tv ci ha propinato le peggio schifezze senza che la sinistra avesse nulla da obiettare. Anzi, spesso ha applaudito alla «libera informazione» di Santoro e compagnia che durante l'assalto a Berlusconi hanno portato in video, dal vero o in fiction, mafiosi conclamati (Spatuzza, quelli scioglieva i bambini nell'acido), pregiudicati figli di mafiosi (Ciancimino), escort e balordi a go go solo per screditare una parte politica. Qualcuno può obiettare: era tv privata, non servizio pubblico. A parte che la libertà non è privata né pubblica, ma è o non è, nella bacheca dei trofei Rai fanno giustamente ancora bella mostra le interviste di Enzo Biagi a Buscetta, cassiere della mafia, e a Sindona (il grande corruttore della finanza italiana) come quelle di Sergio Zavoli agli assassini di Aldo Moro e ai terroristi che insanguinarono l'Italia. A confronto i Casamonica sono niente, ma comunque parliamo di giornalismo di serie A. Scandaloso non è mai l'intervistato, al massimo può esserlo lo spirito che anima l'intervistatore. Non è il caso di Vespa, il cui unico giudice è il suo pubblico, non il Pd o la politica che sul caso Casamonica hanno una coda di paglia assai lunga.

Riina in tv è giornalismo, scrive Domenico Ferrara il 6 aprile 2016 su "Il Giornale". Quando è stata l’ultima volta che si è parlato di mafia in tv? Chiedetevelo. Io non me lo ricordo. Potrei azzardare quando il figlio di Vito Ciancimino faceva le sue comparsate nel salotto di Santoro. Ma parliamo già di anni fa. Non voglio comunque fare come Gasparri che, a torto o ragione, per difendere l’intervista di Vespa al figlio di Riina cita quelle dell’ex conduttore di Servizio Pubblico. Non sono i conduttori il punto, bensì gli intervistati. La mafia è una realtà atroce ma è fatta da una pluralità di racconto e quella dei figli dei mafiosi è una delle voci del racconto. Non sentirla o non trasmetterla sarebbero queste la vera forma di negazionismo della mafia. E, giornalisticamente, sapere come viveva uno dei più atroci criminali della storia mondiale durante la sua latitanza è una notizia. Seppur raccontata dal figlio. Di cosa si lamenta la Bindi? Non si lamentò per Ciancimino jr. e per il figlio di Bernardo Provenzano intervistati da Santoro e lo fa adesso per Riina? Lei, presidente della commissione antimafia, che ha dichiarato di non essere un’esperta di mafia? Ecco, Vespa le sta dando l’occasione di conoscerne un aspetto, una angolatura. Che colpa ha il conduttore di Porta a Porta? Nessuna. Come nessuna colpa ebbe Enzo Biagi quando intervistò Luciano Liggio in prima serata o come il giornalista Rai Giuseppe Marrazzo quando intervistò il camorrista Raffaele Cutolo o la rivista Rolling Stones quando ha intervistato El Chapo o SkyTg24 quando ha intervistato Carmine Schiavone. È il giornalismo, bellezza. Mentre la mafia è una montagna di merda. E non sarà il figlio di un mafioso (peraltro condannato con pena già scontata per associazione mafiosa) a ripulirla.

Quelle interviste della tv pubblica a ergastolani e terroristi rossi e neri. Chi oggi si scandalizza ha rimosso i colloqui con Cutolo, Badalamenti, Moretti, Peci, Delle Chiaie e Sindona, scrive Fabrizio De Feo, Venerdì 08/04/2016, su "Il Giornale". Indignazione, raccapriccio, condanna, richieste di sanzioni, con una morbida gradualità che va dal licenziamento, alla richiesta di radiazione dall'Ordine dei Giornalisti fino alla cancellazione hic et nunc di «Porta a Porta». L'intervista di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina scatena una vera e propria tempesta di polemiche e di attacchi che sfociano anche nl personale. Il «reato» è quello di avere ospitato il figlio di un mafioso (anche lui condannato per associazione mafiosa) sugli schermi del servizio pubblico. Una circostanza mai avvenuta prima? Ovviamente no, perché la Rai in passato ha dato spazio e ospitalità a figure condannate e condannabili, a boss mafiosi e capi delle Brigate rosse senza alzate di scudi e tempeste politico-mediatiche. L'elenco è lungo e variegato. Nel corso della sua carriera, Enzo Biagi ha incontrato la «primula rossa di Corleone», Luciano Liggio, Raffaele Cutolo e Tommaso Buscetta. Gioe Marrazzo si è confrontato con il boss calabrese Momo Piromalli, oltre alla celebre intervista a Raffaele Cutolo. Nel 1991 Michele Santoro ospita un mafioso come Rosario Spatola. Tra le celebri interviste anche quella di don Tano Badalamenti, nel 1997 a Ennio Remondino, durante la sua detenzione negli Stati Uniti. Un incontro che Remondino ebbe modo di spiegare così: «Per arrivare a un mafioso del calibro di Badalamenti, anche se in carcere, giocano tanti fattori. Il primo, che lui abbia qualche interesse a rendere noto qualcosa, poi, che possa fidarsi di te». Un altro capitolo è quelle delle interviste di Sergio Zavoli che nel 1990 realizzò una celeberrima serie che titolò La Notte della Repubblica. Puntata dopo puntata passarono sugli schermi Rai gli ex della lotta armata, rossi e neri, che ragionavano sul loro passato, spesso senza dissociarsene. Tra questi Mario Moretti, la mente del rapimento Moro che ammise il fallimento della lotta armata senza mai collaborare con gli inquirenti. Senza dimenticare le interviste di Biagi a Michele Sindona, condannato all'ergastolo quale mandante dell'omicidio Ambrosoli. O a Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale, ai brigatisti Patrizio Peci e Alberto Franceschini e al «cattivo maestro» Toni Negri. Interviste che hanno contribuito a tenere viva e trasmettere la memoria del Novecento e degli anni di piombo.

Le polemiche su Riina jr. Quando parla il figlio del boss, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia” il 7 aprile 2016. Icone, pentiti e irriducibili. Ma, quando parlano certi figli, è sempre polemica. Quando parlano i figli dei boss si scatena il putiferio. Sempre e comunque. A torto o a ragione. Da giorni la scena è tutta di Salvuccio Riina che prima sulle colonne del Corriere della Sera e poi su Rai 1, a Porta a Porta, ottiene un battage pubblicitario di lusso per il suo libro. Non si parla d'altro. In tanti si sono mossi per lanciare la crociata contro il male. Per molti, per carità, è davvero un problema di coscienza e di inquietudine provocata dalla vista del figlio del carnefice. Per altri, però, è una ghiotta vetrina. Un balcone a cui affacciarsi per gridare la propria antimafiosità di mestiere. Era già accaduto quando si seppe che Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, su iniziativa di un tour operator americano spiegava la mafia ai turisti in visita in Sicilia. Non tutti i figli sono uguali. A cominciare dal curriculum. Giuseppe Salvatore Riina mafioso lo è pure lui per via di una condanna a otto e passa anni che ha finito di scontare. Angelo Provenzano è incensurato. Hanno seguito strade diverse nella vita, ma entrambi si sono definiti fieri dei rispettivi padri e hanno raccontato la loro esistenza in cattività. Lontano da tutto e tutti, ma soprattutto lontani dalla verità che non si voleva vedere. Anche per Angelo Provenzano si sollevò il coro dello sdegno, con qualche voce isolata di dissenso. Si chiede loro, giustamente, di andare oltre il naturale amore di un figlio nei confronti di un padre. Si chiede loro, giustamente, di abiurare ciò che il padre è stato. E poi ci sono i figli che mettono d'accordo tutti. Ai quali si crede per fede. Come Massimo Ciancimino, la quasi icona dell'antimafia. Ha condannato pubblicamente il padre, si dirà. È un testimone chiave in alcuni processi, si spiegherà. Si è autoaccusato di reati, si aggiungerà. Tanto basta per perdonargli gli errori e le condanne del passato, gli scivoloni, le dimenticanze, le dichiarazioni a rate e le bugie, almeno così le definisce chi lo sta processando per calunnia. Per lui abbracci e baci. Come quello che gli riservò Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. Lo stesso fratello del magistrato che ha consegnato a Facebook l'indignazione per l'intervista a Riina jr, “figlio di un criminale, criminale a sua volta” sugli schermi del servizio pubblico.

Da ''la Zanzara - Radio24'' del 6 aprile 2016. “La Bindi è un esponente organizzata della mafia, una che ha fatto la cosa immonda di usare il suo potere contro De Luca poi scagionato. Non è un deputato, è un mafioso. Il suo è un comportamento mafioso”. Lo dice Vittorio Sgarbi a La Zanzara su Radio 24 sulle critiche del Presidente della commissione antimafia per la presenza di Salvo Riina a Porta a Porta. “Usare il proprio potere, essendo all’antimafia – dice Sgarbi -  accusare uno che non ha fatto niente, è un abuso di potere tipico del rapporto tra politica e mafia. Dovrebbe essere cacciata dal Parlamento, non ha alcuna competenza di mafia, invece ancora parla”. “Unica competenza che ha la Bindi – dice ancora - è quella di tacere, sulla mafia ha già fatto cose immonde, la sua nomina è stata una regalia, si deve vergognare”. Ma stai accostando la Bindi alla mafia, ti rendi conto? “La accosto alla mafia perché l’atteggiamento mafioso è proprio questo, abusare del proprio potere per avere un vantaggio ed è quello che ha fatto lei. Ha un comportamento tipicamente mafioso. E’ dello stesso partito di Ciancimino, la Dc.” Ciancimino è un politico condannato nel 1992 per associazione mafiosa e corruzione, ricorda Cruciani per far comprendere il paragone agli ascoltatori. Ma, secondo Sgarbi, Ciancimino fu "arrestato e condannato solo per il suo cognome".

La lettera di Bruno Vespa pubblicata su "Il Corriere della Sera" del 7 aprile 2016. «Biagi intervistò Sindona e Liggio. Ma allora nessuno batté ciglio». Bruno Vespa interviene sulle polemiche sollevate sulla sua trasmissione che ha visto ospite il figlio di Totò Riina. «Era utile che il pubblico lo conoscesse». "Caro Direttore, se Adolf Hitler risalisse per un giorno dall’inferno e mi offrisse di intervistarlo, temo che dovrei rifiutare. Vedo, infatti, che dopo il «caso Riina» vengono messi in discussione i parametri di base del giornalismo. La Storia è stata in larga parte scritta dai Cattivi. Compito dei cronisti è intervistarli per approfondire e mostrare l’immagine della Cattiveria. Aveva ragione nel gennaio del ’91 il governo Andreotti a voler bloccare (senza riuscirci) la mia intervista a Saddam Hussein alla immediata vigilia della prima Guerra del Golfo perché il dittatore iracheno era un nostro nemico? Chi ha intervistato per la Rai il dittatore libico Gheddafi o quello siriano Assad avrebbe dovuto puntare sui crimini commessi da entrambi invece di focalizzare il colloquio sulla loro politica estera? Quando l’editore del libro di Salvo Riina ha offerto una intervista esclusiva alCorriere della Sera, a Oggi e a Porta a porta, non immaginavo né di fare il colpo della vita, né di creare un turbamento sensazionale. Ho letto il libro, ho detto ai miei colleghi che era l’opera di un mafioso a 24 carati e ho informato quell’eccellente professionista che è il nuovo direttore di Raiuno che avremmo potuto mostrare per la prima volta il ritratto della più importante famiglia mafiosa della storia italiana vista dall’interno. Decidemmo allora di far seguire all’intervista un dibattito con parenti delle vittime di Riina e con dirigenti di associazioni che coraggiosamente si battono contro la mafia. Così è avvenuto. Ciascun giornalista farebbe una intervista in modo diverso. In coscienza, credo di aver mosso al giovane Riina le obiezioni di una persona di buonsenso mostrandogli anche le immagini delle stragi di Capaci e di via D’Amelio e dell’arresto di suo padre. Ho riportato dall’incontro l’impressione che avevo riportato dal libro: un mafioso con l’orgoglio di esserlo. Era utile che il pubblico conoscesse il volto della nuova mafia? A mio giudizio sì, perché solo conoscendo la mafia la gente acquisisce la consapevolezza di doverla combattere. Ho rivisto i precedenti. Guardate su Internet l’attacco dell’intervista del 1982 di Enzo Biagi a Michele Sindona. Prima di entrare nel merito ci fu una piacevole introduzione sui pasti del detenuto e sulla qualità delle sue letture. L’avvocato Ambrosoli era stato ucciso tre anni prima. La Commissione antimafia — che già esisteva — non batté ciglio. Lo stesso Biagi intervistò liberamente Luciano Liggio, il maestro di Totò Riina, il capo dei capi dei primi anni Sessanta. E Tommaso Buscetta, che spiegò come funzionava la Cupola, ma non pianse certo pentito sulla spalla del grande giornalista. Altra intervista famosa fu quella di Biagi al terrorista nero Stefano Delle Chiaie. Non ricordo che siano stati parallelamente ascoltati i parenti delle vittime. Jo Marrazzo, grande cronista della Rai, intervistò il capo della ‘ndrangheta Giuseppe Piromalli e il capo della camorra Raffaele Cutolo. Ricevette meritati complimenti. Come li ricevette Sergio Zavoli per aver intervistato tutti i terroristi (non pentiti) disposti a rispondere alle sue domande. Trascuro l’esempio più recente e discutibile: Massimo Ciancimino, figlio di Vito, è stato a lungo ospite d’onore di Michele Santoro con ampia libertà di dire l’indicibile, prima di essere arrestato nel 2013. Mi piacerebbe che tutte queste interviste fossero riviste insieme per un sereno confronto. Forse avremmo qualche sorpresa. In ogni caso, il tema è chi si può intervistare nella Rai di oggi. 

Se Riina padre fosse disponibile, pioverebbero giornalisti da mezzo mondo. E noi?"

Giù le mani da Vespa. L’intervista a Riina jr è grande televisione. Facciamo la tara all'anti-vespismo: abbiamo visto episodi di infotainment molto peggiori. E alla poca opportunità di mostrare Salvo Riina, un luogo comune censorio. Porta a porta di ieri sera ci ha portato, in maniera ben poco rassicurante, nel cuore dell'ambiguità di cosa nostra, scrive Bruno Giurato il 7 Aprile 2016 su “L’Inkiesta”. L'apparizione di Salvo Riina a Porta a Porta è la tempesta informativa perfetta, perché riassume e fa scontrare due perturbazioni dell'intelligenza comune, due correnti d'opinione che sembrano difficilmente discutibili. La prima si è formata negli anni d'oro dell'anti-berlusconismo come unica forma possibile di militanza civile. E' quella che considera Bruno Vespa il non minus ultra del giornalismo non solo televisivo. Vespa, secondo molti, è esclusivamente quello dei plastici della villetta di Cogne, quello che ha lanciato la comfort-criminologist Bruzzone, quello che da sempre intrattiene rapporti tutt'altro che schiena dritta col Potere - berlusconiano prima, renziano ora -. Quello che ha avuto l'ardire di invitare in trasmissione i Casamonica nell'after show funeralesco. L'emblema dell'informazione spazzatura, insomma. E quindi il contenitore meno adatto per mettere in scena un'intervista al figlio del mammasantissima dei mammasantissima, Totò "u curtu". Ma a favore di Vespa sarebbe il caso di dire che i modelli dell'infotainment (e anche dell'informazione pura) hanno dato parecchi esempi anche peggiori di quello che abbiamo visto su Raiuno ieri sera. L'apparizione del figlio di Ciancimino da Michele Santoro qualche anno fa, per esempio, e non come narratore di esperienze umane, ma come rivelatore di torbidi intrecci, era già assai criticabile. Per non parlare della notizia della morte di Sarah Scazzi data in diretta da Federica Sciarelli alla madre: infotainment per infotainment un esempio di televisione, oggettivamente, pessimo. Sarebbe il caso di dire che i modelli dell'infotainment (e anche dell'informazione pura) hanno dato parecchi esempi anche peggiori di Vespa: da Ciancimino con Santoro, alla Sciarelli che dà in diretta alla madre la notizia della morte di Sarah Scazzi. L'altra corrente d'opinione esiste da molto più tempo. E' quella secondo la mitizzazione dei mafiosi è il miglior alleato della mafia. E' l'idea contenutista e francamente censoria secondo cui non bisogna "dare visibilità", parole e immagini, alla delinquenza organizzata perché si rischia non solo di mancare di rispetto alle vittime, ma di suscitare compassione, emulazione, identificazione nello spettatore. È la critica che viene fuori quasi ad ogni puntata della serie Gomorra; che ha accompagnato il romanzo/film/serie Tv Romanzo Criminale. È il mugugno legalista intorno a Il Padrino, tra l'altro amatissimo anche dagli gli uomini d'onore. E, si parva licet, è anche la critica che da sempre ha seguito i libri di Leonardo Sciascia (tra l'altro gliela fece anche Camilleri): aver fornito mitologia e storytelling alla mafia. Chissà se tutti ricordano una antica puntata di Un giorno in pretura, in cui Totò Riina (lui!) sotto processo raccontava ai giudici «in carcere tutti leggevamo Sciascia». Quindi sì, il rischio di mitizzare la mafia c'è. Ma è un rischio da correre, sempre. Perché il lettore-spettatore non ha bisogno di tutor ideologici, né di "confezioni" eticamente sostenibili ai problemi. Sarebbe ora di finirla con il pensiero secondo cui la lotta alla mafia si fa con i film, in televisione e con gli ingredienti dell'immaginario. La mafia si affronta con la guerra al suo potere militare e finanziario. Il resto è appunto chiacchiera, fiction contro fiction o peggio: autoassoluzione linguistico-culturale da magagne reali. Pura rassicurazione ideologica a costo (ed effetto) zero. Sarebbe ora di finirla con il pensiero secondo cui la lotta alla mafia si fa con i film, in televisione e con gli ingredienti dell'immaginario. La mafia si affronta con la guerra al suo potere militare e finanziario. Il resto è appunto chiacchiera, fiction contro fiction o peggio: autoassoluzione linguistico-culturale da magagne reali. E quindi si torna alla tempesta perfetta, alla puntata di ieri di Porta a Porta. A Salvo Riina in studio, camicia bianca, giacca grigia, sembra un co. co. co., un precario dell'università, un praticante di studio legale nel giorno in cui non c'è udienza. È anche uno che ha scontato 8 anni e dieci mesi per mafia ed figlio di chi ha ordinato l'attentato di Capaci. È banalità del male. Con una certa "calata" palermitana nella voce, nella quale lo spettatore non può non cogliere (o proiettare) qualche ictus ambiguo, dice cose come: «c'era un tacito accordo familiare» e «Non ci facevamo mai domande, eravamo una sorta di famiglia diversa». E ancora: «era anche un divertimento non andare a scuola». E infine: «Il nostro cursus vitae ci ha portato a vivere in modo molto differente dagli altri. E anche, devo dire, in maniera molto piacevole». Molto piacevole, signori. Ecco perché, fatta la tara agli anti-vespismi, agli eventuali spaventi ideologici, e in breve alle perturbazioni dell'opinione comune, quello di ieri sera è stato un ottimo pezzo di televisione. Ottimo perché restituisce tutta l'ambiguità e i paradossi della zona grigia. E il male, innanzitutto e per lo più, è grigio.

Mafia. "Papà li scannò tutti", così parlava Riina jr prima di scrivere libri. Le frasi non dette in tv dal figlio del capo dei capi. Nelle intercettazioni esaltava la ferocia della cosca, di quelli che definiva "uomini che hanno fatto la storia della Sicilia". "Ci fu una stagione di vampe, 65 morti in una sola estate", scrive Salvo Palazzolo il 15 aprile 2016 su “La Repubblica”. "Io vengo dalla scuola di Corleone", dice nella premessa. "Oh, mio padre di Corleone è, mia madre di Corleone, che scuola posso avere?". E inizia il suo lungo racconto: "Di uomini che hanno fatto la storia della Sicilia... linea dura, ne pagano le conseguenze, però sono stati uomini, alla fin fine. E io... sulla mia pelle brucia ancora di più". Eccole, le vere parole di Giuseppe Salvatore Riina detto Salvo, il figlio del capo di Cosa nostra. Le parole che si è ben guardato dal pronunciare a Porta a Porta durante l'intervista con Bruno Vespa, le parole che non ha scritto nel suo libro. Le vere parole di Salvo Riina sono in un altro libro, conservato negli archivi polverosi del palazzo di giustizia di Palermo. Si trova in cima a uno scaffale, "Riina + 23" è scritto sulla copertina, di certo titolo meno accattivante di quello dato dalle edizioni "Anordest". Ma è in queste 1.129 pagine che ci sono le parole autentiche del giovane Riina, le parole che pronunciò dal 2000 al 2002, quando non sospettava di essere intercettato (a casa e in auto) dalla squadra mobile su ordine del pm Maurizio de Lucia, e parlava in libertà mentre organizzava la sua cosca.

L'INIZIO DELLA GUERRA. Capitolo uno: "Totuccio si fumò a tutti, li scannò". Ovvero, la guerra di mafia. Non poteva che iniziare con le gesta criminali di suo padre, Totuccio Riina. Perché quelle parole che proponeva ogni giorno ai giovani adepti del suo clan erano delle vere e proprie lezioni di mafia. E la storia bisogna conoscerla. Salvo Riina la conosce alla perfezione, nonostante in tv abbia recitato tutt'altra parte. Racconta: "C'era quel cornuto, Di Cristina, che era malantrinu e spiuni ... era uno della Cupola, un pezzo storico alleato di quelli, i Badalamenti, minchia, Totuccio si fumò a tutti, li scannò". Correva il 1978: così partì la guerra di mafia scatenata dai corleonesi, era l'inizio della loro inarrestabile ascesa. L'inizio della carneficina. "E chi doveva vincere? - dice Salvo Riina - in Sicilia, in tutta l'Italia chi sono quelli che hanno vinto sempre? I corleonesi. E allora, chi doveva vincere?".

I RIBELLI. È davvero un libro istruttivo quello che nessun editore ha ancora pubblicato, conservato nei sotterranei del palazzo di giustizia di Palermo. Riina junior racconta la verità anche su un'altra guerra di mafia, quella del 1990, quella scatenata contro gli stiddari, i ribelli di Cosa nostra. Capitolo due. "Quando gli hanno sminchiato le corna agli stiddari che c'erano in tutta la Sicilia". Da Gela a Marsala, da Riesi a Palma di Montechiaro, un racconto terribile. "Ci fu un'estate di vampe - spiega il giovane boss con grande naturalezza - Ferro e fuoco. Qualche sessantacinque morti ci furono qua, solo in un'estate". E giù con il suo racconto sugli stiddari: "Che razza - dice - qua ci vuole il revolver sempre messo dietro, ma non il revolver quello normale, qua ci vuole il 357, che con ogni revolverata ci 'a scippari u craniu". Totò Riina ordinò un vero e proprio sterminio. Anche questo racconta il figlio: "Ci fu un'estate che le revolverate... non si sapeva più chi le doveva ammazzare prima le persone". E ancora: "Minchia, appena ne sono morti due di quello, partiamo, tre morti di quell'altro... Appena gli hanno ammazzato a quelli tre, gliene andavano ad ammazzare altri cinque. Pure a Marsala gli ha dato vastunate ... era una fazione di boss perdenti... si erano messi in testa che loro dovevano rivoltare il mondo".

BUSINESS E STRAGI. Capitolo quattro: "I piccioli": "Se tu pensi quello che ha fatto mio padre di pizzo, oggi noialtri neanche possiamo fare l'uno per cento. Capitolo cinque: "I cornuti", ovvero i collaboratori di giustizia. "Quando arriva un cornuto di questi e ci leva tutto il benessere, ci fa sequestrare beni immobili, materie prime e soldi". Capitolo sei, il cuore del libro: "Le stragi Falcone e Borsellino". "Un colonnello deve sempre decidere lui e avere sempre la responsabilità lui. Deve pigliare una decisione, e la decisione fu quella: "Abbattiamoli" E sono stati abbattuti".

RITRATTO DI FAMIGLIA. Ma non è solo un libro di sangue e complotti quello che il giovane Riina ha inconsapevolmente scritto, firmando la sua condanna a 8 anni per associazione mafiosa. Ci sono anche i dialoghi in famiglia, pure questi ben lontani dalla descrizione proposta a Porta a Porta. È il capitolo finale di questo libro verità: la scena è ambientata nella sala colloqui del carcere dov'è detenuto il primogenito di casa Riina, Gianni. Sei dicembre 2000. Ninetta Bagarella si rivolge ai figli maschi: "Siete stati sempre catu e corda... ma quello che ti tirava era sempre Gianni". E Salvo: "Papà diceva che lui era il più...". La mamma chiosa: "Il più agguerrito". E non a caso il quarantenne Gianni Riina è già all'ergastolo da vent'anni, condannato per quattro omicidi. "Tu facevi il trend ", dice Salvo al fratello. E la sorella Maria Concetta corregge: "Il trainer, non il trend". Gianni ricorda una frase del padre: "Una volta mi ha detto una cosa. Che non ho mai dimenticato: "Tu hai sempre ragione per me, perciò, quale problema c'è"". Quella era un'investitura. Che anche Salvo Riina rivendicava: "Vedi che io vengo dalla scuola corleonese". E la madre certificò: "Sangue puro".

Art. 21 della Costituzione: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione…" (questo vale anche per i figli dei mafiosi, come anche per i mafiosi stessi) "La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure...". Mentre l'art. 33, comma 1, afferma che: «L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento».

In questa Italia che ci propinano i diritti, come si sa, son privilegi ad uso e consumo solo di chi detiene un potere.

Boschi: si riapre l'istruttoria sul pm Roberto Rossi, dopo l'inchiesta di Panorama. Il Csm vuole chiarire la posizione del magistrato che, come riportato dal nostro giornale, archiviò le accuse nei confronti del padre del ministro, scrive "Panorama" il 21 gennaio 2016. Giornata nera per il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, titolare delle inchieste su Banca Etruria. Il comportamento del pm è finito al vaglio del Procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo, titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati. E la Prima Commissione del Csm ha riaperto l'istruttoria sul suo conto. A mettere nei guai il procuratore, le indagini svolte negli anni passati su Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme Maria Elena ed ex vice presidente di Banca Etruria. Procedimenti conclusi con due richieste di archiviazione ma di cui il pm non aveva fatto cenno nelle sue audizioni davanti ai consiglieri del Csm, ai quali aveva invece assicurato di non conoscere "nessuno della famiglia Boschi". Poi è arrivato il servizio di copertina del nostro giornale, in edicola da oggi, in cui si racconta delle indagini di Rossi su Pierluigi Boschi per turbativa d'asta e estorsione, andate avanti dal 2007 sino al 2014 e che sarebbero state legate alla compravendita di una grande tenuta agricola dell'Università di Firenze. Venuto a conoscenza del nostro servizio, Rossi ha pensato di giocare d'anticipo inviando una lettera al Csm in cui ha scritto di essersi occupato in passato di procedimenti riguardanti Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme Maria Elena ed ex vice presidente di Banca Etruria, ma ha confermato di non aver mai avuto occasione di incontrarlo. Nella sua lettera Rossi parlerebbe di più procedimenti, sui quali ora la Commissione (che solo due giorni fa aveva deciso di archiviare il fascicolo che lo riguarda) intende fare approfondimenti, accogliendo all'unanimità la richiesta del laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin: verificare quali vicende hanno riguardato e che esito hanno avuto. Il primo passo sarà a richiesta di informazioni e della documentazione relativa al Procuratore generale di Firenze, l'organo di vertice del distretto. "Ascoltare di nuovo il procuratore Rossi? Per ora no: lo abbiamo sentito due volte e abbiamo ricevuto da lui tre comunicazioni scritte". Lo dice il presidente della Prima Commissione del Csm Renato Balduzzi, che spiega come la lettera fatta recapitare a Palazzo dei Marescialli, in cui Rossi parla di precedenti procedimenti penali riguardanti Pierluigi Boschi dei quali aveva avuto occasione di occuparsi sia il "fatto nuovo", che ha spinto oggi la Commissione a "sospendere la delibera di archiviazione e a procedere ad ulteriori approfondimenti istruttori". "Dobbiamo conoscere quali sono queste vicende e quale esito hanno avuto" dice Balduzzi, precisando che nella lettera il procuratore fornisce anche chiarimenti sul "disallineamento" tra quanto sta emergendo e le sue dichiarazioni nell'audizione di dicembre davanti al Csm. L'ottica dell'intervento della Commissione non cambia: "garantire la massima serenità alla procura di Arezzo". "Non solo Banca Etruria e massoneria deviata. Ora su papà Boschi arrivano anche le ombre, carte della DDA alla mano di aver fatto affari con uomini legati alla 'ndrangheta. A questo punto il ministro Maria Elena Boschi deve rassegnare le dimissioni, perché una pesantissima e insopportabile ombra politica aleggia sulla sua famiglia ed anche su tutte le false riforme che hanno distrutto la Costituzione repubblicana. Del resto la deforma Boschi non sarebbe mai passate senza gli accordi ed i voti del plurinquisito Denis Verdini". Lo scrive in una nota il capogruppo M5S Senato Mario Giarrusso, "dopo la pubblicazione delle notizie che nel 2007 Pierluigi Boschi portò a termine un grosso affare immobiliare insieme a un socio calabrese, Francesco Saporito, che secondo la DDA di Firenze era legato alla 'ndrangheta crotonese". Il senatore pentastellato fa riferimento ad un'inchiesta pubblicata dal settimanale Panorama. "Di questo argomento se ne dovrà far carico anche la Commissione d'inchiesta parlamentare antimafia", conclude il capogruppo M5S. 

Solita sinistra a senso unico...La denuncia di Rosy Bindi: "C'è una mafia che usa l'antimafia". Il j'accuse della presidente della Commissione d’inchiesta nell'intervista esclusiva rilasciata a l'Espresso. Troppi interessi sfruttano la lotta ai clan. Che spesso diventa una facciata per la conquista di potere, scrive Marco Damilano il 28 gennaio 2016 su "L'Espresso". Inchieste, scandali, scontri intestini. Magistrati che accusano le icone antimafia di «monopolio» dei beni confiscati. Il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, garante della legalità dell’associazione degli imprenditori a livello nazionale, indagato e perquisito e il presidente del Senato Piero Grasso che parla di «antimafia infangata». È la stagione del malcontento per il movimento anti-mafia, a trent’anni esatti dall’apertura del primo maxi processo a Palermo, voluto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Con il sospetto che siano gli stessi campioni dell’anti-mafia a infangare se stessi. A Palazzo San Macuto, sede della commissione parlamentare che indaga sui legami tra la criminalità e la politica, la presidente Rosy Bindi non è sorpresa, come spiega a Marco Damilano nell'intervista sull'Espresso in edicola da venerdì 29 gennaio 2016. «Quando un anno fa annunciai a Caltanissetta che avremmo avviato un’inchiesta ci furono molte ironie (l’antimafia che indaga sull’antimafia!) da parte di quei commentatori interessati semplicemente a indebolire il movimento. E invece il nostro obiettivo è riaffermare il valore dell’impegno di associazioni, cittadini, istituzioni e imprenditori che per venti anni ha dato un contributo fondamentale alla lotta contro la criminalità mafiosa. C’è chi vuole delegittimare queste presenze preziose. I soliti negazionisti e chi non ammette che la forza della mafia continua a essere fuori dalla mafia. Nel silenzio, nelle complicità, nelle sue relazioni sociali. Vogliamo rilegittimare l’antimafia. Ma possiamo farlo soltanto smascherando alcune ambiguità che obiettivamente esistono». Quali ambiguità? Fino a qualche mese fa si pensava all’antimafia come a un movimento monolitico. E incontaminato. «Ci muoviamo su più fronti. C’è una mafia che usa l’antimafia per prosperare, l’aspetto più grave e pericoloso. Una mafia, ad esempio, che utilizza la comunicazione per infangare chi lotta contro la mafia. Anche Roberto Saviano ne è stato vittima. C’è poi un’antimafia che dietro l’obiettivo manifesto di combattere i mafiosi nasconde la cura di altri interessi. È quanto sembra emergere in Sicilia, un caso che va approfondito. Al di là dei risvolti penali, lì c’è un movimento antimafia che si è trasformato in un movimento di potere. Cerca di determinare la formazione delle maggioranze in regione, di influenzare le scelte politiche ed economiche. C’è, infine, un’antimafia che diventa un mestiere. Una professione, ma non come intendeva dire Leonardo Sciascia».

C’è del marcio in antimafia. Ma sul “caso Libera” la Bindi fa la gnorri, scrive Francesca De Ambra venerdì 15 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. C’è del marcio in antimafia. Ma l’unica che riesce a non vederlo è proprio l’on. Rosy Bindi. Non che la presidente dell’omonima commissione manchi d’iniziativa, tutt’altro. Se lo ricorda bene Enzo De Luca che a 24 ore dal voto che lo avrebbe eletto governatore della Campania si ritrovò in una lista di “impresentabili” redatta in fretta e furia proprio dall’organismo da lei guidato. O il deputato forzista Carlo Sarro, invitato dalla Pasionaria a dimettersi dall’Antimafia dopo aver ricevuto una richiesta di arresti ai domiciliari poi demolita da un micidiale uno due Riesame-Cassazione. Dove invece la Bindi segna il passo è sulla sempre più inquietante vicenda della gestione dei beni sottratti alle mafie, deflagrata a fine estate con l’inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto. Prima della Procura nissena era stato però l’ex-direttore dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, a denunciare, i presunti conflitti d’interesse dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, l’amministratore giudiziario cui la Saguto aveva affidato la gestione di tutti i beni confiscati ricevendone – secondo la tesi dei pm – consulenze per il proprio marito. Nessuno, però, ringraziò Caruso. Neppure la Bindi, che anzi gli rinfacciò di aver innescato un «effetto delegitttimazione» attraverso «un’accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Quando scoppia la bomba dell’inchiesta di Caltanissetta, Caruso si toglie la soddisfazione dell’“avevo detto io” e intervistato da Liberoquotidiano.it rilascia una replica al curaro: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi…». Ogni riferimento, ancorché implicito, è puramente voluto. La lezione, tuttavia, non è servita. Tanto è vero che la Bindi rischia ora di ripetere lo stesso errore di superficialità commesso con Caruso. Solo che questa volta a dare l’allarme non è un prefetto ma Catello Maresca, il pm in forze alla Dda di Napoli che ha fatto arrestare boss del calibro di Michele Zagaria e Antonio Iovine, cioè proprio uno di quei «magistrati che rischiano la vita». Intervistato da Panorama, Maresca ha contestato il sistema che regola la gestione dei beni sottratti ai boss esprimendo più di una riserva su Libera di don Luigi Ciotti. Che ha annunciato querele. E la Bindi? Prima ha rivendicato il progetto di riforma della normativa sulla gestione dei patrimoni mafiosi per poi defilarsi rispetto ai rilievi mossi dal pm: «Se Maresca – ha detto – continua a spiegare e magari si incontra con Libera si fa una cosa buona». Davvero? E la commissione Antimafia che ci sta a fare? Non ha forse il dovere di capire e approfondire? O dobbiamo forse pensare che le pesanti critiche mosse da Maresca a don Ciotti siano dovute a vecchie ruggini personale, pronte però a svanire davanti al buon vino che sempre riconcilia i veri amici? Non scherziamo: la faccenda è fin troppo seria per consentire alla presidente Bindi di voltarsi dall’altra parte.

Don Ciotti e Libera osannato da tutta l'Antimafia di Facciata.

Bindi: "Don Ciotti non resterà solo. Pieno sostegno dall'Antimafia", scrive il 31 Agosto 2014 "Live Sicilia". La solidarietà della presidente della commissione parlamentare Antimafia al sacerdote fondatore di Libera. D'Alia: "Minacce da non sottovalutare". Vendola: "Cosa nostra vada all'inferno". Grasso: "Tutti al fianco di don Ciotti". Gelmini: "Non sarà mai solo". "Don Ciotti non è solo e non resterà solo nella battaglia contro i poteri mafiosi". Lo dichiara il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi commentando le intercettazioni riportate dal quotidiano 'La Repubblica', in cui Totò Riina accosta la figura di don Luigi Ciotti a quella di don Puglisi e dice:" Ciotti, Ciotti, putissimu pure ammazzarlo". "E' malvagio e cattivo - aggiunge il padrino al boss Lorusso suo compagno di passeggiate nell'ora d'aria - ha fatto strada questo disgraziato". "A don Luigi la mia affettuosa vicinanza e il pieno sostegno della Commissione parlamentare Antimafia - dice Bindi - Le minacce di Riina intercettate nel carcere di Opera lo scorso anno vanno prese sul serio, soprattutto per l'inquietante accostamento al martirio di don Pino Puglisi". "A don Ciotti - aggiunge - va assicurata tutta la protezione e il sostegno necessari, molti mesi sono passati da quando i magistrati hanno esaminato le intercettazioni e si deve capire che tipo di messaggio vuole inviare il capo di Cosa Nostra mentre inveisce contro un sacerdote così esposto sul fronte della lotta alla mafia". "So che le raccapriccianti parole di Riina - dice ancora Bindi - non faranno arretrare il suo appassionato servizio cristiano per la giustizia e la promozione della dignità umana e da oggi saremo al suo fianco con più determinazione". "L'impegno che insieme a tanti con Libera don Ciotti da anni profonde per promuovere la cultura della legalità, la memoria delle vittime innocenti e lo sviluppo solidale nelle terre confiscate alle mafie - prosegue - sono ormai punto di riferimento della coscienza civile del paese". Ed è proprio il lavoro di Libera che scatena l'odio di Riina, preoccupato per i tanti sequestri di beni alla mafia che poi vengono gestiti dalle cooperative di Libera. "La scomunica di Papa Francesco - aggiunge Rosy Bindi - ha tracciato una linea invalicabile tra la Chiesa e le mafie che dà a tutti, credenti e non credenti, più forza e coraggio nel combattere la cultura dell'omertà e della sopraffazione. Ma non possiamo abbassare la guardia, c'è una mafia silente che moltiplica affari e profitti e penetra in ogni settore della vita del paese approfittando della crisi economica. E c'è - conclude - una mafia violenta che continua a tenere sotto scacco con l'intimidazione e la paura buona parte del Mezzogiorno, dove pesano povertà e disoccupazione ma dove sono anche più vitali e preziose le esperienze di libertà e resistenza create da Libera per strappare il territorio al controllo della criminalità organizzata".

"Un abbraccio affettuoso e di vera solidarietà a Don Luigi Ciotti, ogni giorno in prima linea nella lotta alla mafia. Le minacce di Riina nei suoi confronti non possono essere in alcun modo sottovalutate. Il suo impegno quotidiano, non ultimo quello per i testimoni di giustizia che ho avuto modo di apprezzare da vicino nella mia attività di ministro, merita sostegno e protezione". Lo afferma il deputato e Presidente dell'Udc Gianpiero D'Alia.

"Un forte abbraccio don Luigi! All'inferno la mafia! L'impegno di Don Luigi ci dice che per la lotta alla mafia non servono proclami o moralismi. Bensì ogni giorno, con un umile coraggio, serve condurre la battaglia per affermare i diritti dei più deboli e affermare la legalità con fatti concreti, che anche la politica deve compiere". Così Nichi Vendola, presidente di Sinistra Ecologia Libertà, su Twitter esprime la propria solidarietà al fondatore di Libera coop dopo le minacce di Riina.

Il presidente del Senato, Pietro Grasso, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook un messaggio di solidarietà a don Luigi Ciotti in riferimento alle minacce di Riina emerse dagli organi di informazione. "Caro Luigi - si legge nel testo - sono più di venti anni che sfidi la mafia con coraggio e passione. Le minacce di Riina emerse oggi sono l'ennesimo attacco ad una storia di impegno e di memoria che coinvolge ogni anno migliaia di cittadini e che ha contribuito a rendere il nostro Paese più libero e più giusto. Ti conosco da anni e so che non ti sei lasciato intimorire nemmeno per un attimo: continuerai sulla strada della lotta alla criminalità, e tutti noi - conclude Grasso - saremo al tuo fianco. Un abbraccio, Piero".

"Le minacce di Totò Riina all'amico Don Ciotti, preoccupano certo, ma non sorprendono. Un uomo come Luigi, che da anni promuove la cultura della legalità e combatte contro le mafie attraverso azioni concrete, non può che essere un nemico per un boss di Cosa Nostra. Una persona da temere, per aver dimostrato, insieme con Libera, che i beni della criminalità possono essere riutilizzati a scopi sociali". Lo scrive sul suo profilo Fb Laura Boldrini, Presidente della Camera.

"Le parole di Riina sono inquietanti e ci dicono che non bisogna mai abbassare la guardia soprattutto nei confronti di chi si trova in prima linea nella lotta alle mafie, come il magistrato Nino Di Matteo e don Luigi Ciotti ai quali esprimo il mio pieno sostegno". Lo dice il senatore del Pd Giuseppe Lumia, componente della Commissione parlamentare antimafia, commentando le intercettazioni delle conversazione in carcere tra il boss di Cosa nostra ed il boss pugliese Alberto Lorusso. "A Riina - aggiunge - lo Stato deve dare una risposta chiara e netta con l'approvazione in tempi rapidi di un pacchetto di norme che consentano alla lotta alle mafie di far fare un salto di qualità. Alcune di queste, ad esempio il rafforzamento delle misure di prevenzione, l'autoriciclaggio ed il falso in bilancio, sono già contenute nella riforma della giustizia, ma ce ne sono tante altre da adottare. Ecco perchè - conclude Lumia - torno a chiedere una sessione dedicata in Parlamento".

"Don Ciotti non sarà mai solo: fra lui e Riina l'Italia civile ha scelto da che parte stare. Sempre contro la mafia!". Lo scrive su Twitter Mariastella Gelmini, vicecapogruppo vicario di Forza Italia alla Camera.

La capriola della Bindi su don Ciotti prova che Libera è anche una lobby, scrive Venerdì 15 Gennaio 2016 Giuseppe Sottile su Il Foglio. I beni dei mafiosi sono diventati un Tesoro Maledetto. E la bufera della polemica ha investito in pieno anche la creatura di don Ciotti. Ma la politica, prodiga di riverenza, ha preferito squadernare solidarietà incondizionata. Che cosa racconterà questo sanguigno prete torinese ai bambinetti di mezz’Italia che, sotto la sua ala benefica e protettiva, andranno a rendere omaggio anche quest’anno alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? Con quali preghiere, o con quali giaculatorie, don Luigi Ciotti, uomo di fede e di misericordia, tenterà di allontanare i sospetti che ormai da qualche tempo scuotono e avviliscono il meraviglioso mondo di Libera, l’associazione che, come i bambini forse non sanno, è anche la più potente e denarosa lobby antimafia? E come potrà questo buon sacerdote spiegare, a tutti quei ragazzi, così innocenti e già così innamorati della legalità, che Libera dopo un inizio come sempre difficile è poi diventata troppo grande e si è trovata spesso a giocare col fuoco sugli stessi terreni, sugli stessi feudi, sugli stessi patrimoni sui quali per anni padrini e picciotti avevano sparso sangue e nefandezze? Parliamoci chiaro. Sull’impegno di don Ciotti contro ogni mafia e contro ogni boss nessuno potrà mai sollevare alcun dubbio: come Papa Francesco, il fondatore di Libera conosce la strada e i problemi degli umili; con il suo Gruppo Abele ha fatto il volontariato duro e sa come si aiuta un infelice nel disperato labirinto della droga. Sa anche come si combattono le violenze, come si contrasta una intimidazione, come si restituisce dignità civile a un giovane senza lavoro e tragicamente affascinato dalla vie traverse. Ed è per questo che, dopo le stragi degli anni Novanta, è nata Libera: per sollevare Palermo dallo scoramento, per ridare fiducia a una terra segnata dal martirio e dalle lacrime. Un progetto ambizioso. Che certamente trovava sostegno e conforto in un altro torinese: in quel Gian Carlo Caselli che, di fronte alle mattanze di Capaci e via D’Amelio, aveva chiesto con coraggio al Consiglio superiore della magistratura di trasferirsi nel capoluogo siciliano e di insediarsi come procuratore in un Palazzo di giustizia sventrato prima dalle faide tra gli uffici e poi dalle bombe di Totò Riina, detto ‘u Curtu. Sono stati certamente anni eroici e straordinari quelli di Palermo. E Libera, la cui missione principale (il core business, stavo per dire) è quella di creare cooperative di lavoro sui beni confiscati alla mafia, non ha mai incontrato ostacoli. Anzi: non c’è stata istituzione che non abbia preso a cuore la causa; non c’è stato potere che non abbia guardato con riverenza ai buoni propositi di don Ciotti e non c’è stato partito politico, soprattutto a sinistra, che non abbia mostrato orgoglio nell’accettare candidature ispirate direttamente dall’associazione. Troppa grazia, sant’Antonio, si sarebbe detto una volta. Ma la troppa grazia non sempre è foriera di prosperità. Spesso, troppo spesso, dietro un eccesso di grazia c’è anche un’abbondanza di grasso. E Libera davanti a quella montagna di soldi, oltre trenta miliardi di euro, sequestrati dallo stato alle mafie, non ha saputo atteggiarsi con il necessario distacco né con la necessaria misura: era una semplice associazione antimafia ed è diventata una holding; era fatta da poveri e ora presenta bilanci milionari; era animata da un gruppo di volontari e si ritrova governata da tanti manager e, purtroppo, anche con qualche spregiudicato affarista tra i piedi. Poteva mai succedere che a margine di tanta ricchezza, piovuta come manna dal cielo, non nascessero invidie e risentimenti, gelosie e prese di distanza, storture e due o tre storiacce poco chiare? Sarà doloroso ammetterlo ma i beni dei mafiosi, sia quelli sequestrati in via provvisoria sia quelli confiscati dopo una sentenza definitiva, sono diventati una sorta di Tesoro Maledetto. Una tomba faraonica dentro la quale viene ogni giorno seppellita – cinicamente, inesorabilmente – la credibilità dell’antimafia: non solo di quella che avrebbe dovuto riaccendere una speranza politica ed è finita invece in una insopportabile impostura; ma soprattutto di quella che, dall’interno dei tribunali, avrebbe dovuto garantire rigore e legalità e ha consentito invece a un gruppo di magistrati infedeli di intramare i beni sequestrati con i propri interessi privati: certo l’inchiesta aperta questa estate dalla procura di Caltanissetta è in pieno svolgimento e le responsabilità personali sono ancora tutte da definire, ma le intercettazioni, come sempre ottime e abbondanti, ci dicono con desolante chiarezza come si amministravano fino all’altro ieri le misure di prevenzione a Palermo; con quali disinvolture e con quali coperture i figli e i fraternissimi amici dei più alti papaveri del Palazzo di giustizia affondavano le mani nei patrimoni, ricchi e scellerati, che la dottoressa Silvana Saguto, presidente della sezione, aveva strappato, con mano decisa e irrefrenabile, alla potestà di Cosa Nostra. La maledizione, e non poteva essere diversamente, ha finito per colpire anche Libera, cioè la macchina più grande ed efficiente aggrappata alla grande mammella dei beni confiscati: 1.500 tra associazioni e gruppi collegati, 1.400 ettari di terreno sui quali coltivare ogni ben di dio, 126 dipendenti e un fatturato che supera i sei milioni. Con una aggravante: che le accuse, chiamiamole così, non vengono tanto, come sarebbe persino scontato, dal maleodorante universo mafioso; arrivano piuttosto dai compagni di strada, da personaggi che rivendicano, al pari di don Ciotti, il diritto di parlare a nome dell’antimafia: come Franco La Torre, figlio del segretario del Pci ucciso a Palermo nel 1982, che non ha sopportato il silenzio di Libera sullo scandalo della Saguto e delle altre cricche nascoste dentro le misure di prevenzione; o come Catello Maresca, pubblico ministero della direzione distrettuale antimafia di Napoli e nemico numero uno del clan dei casalesi, il quale, intervistato dal settimanale Panorama, ha lanciato parole roventi: ha detto che “Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili” e ha aggiunto, senza indulgenze di casta, che forse è venuta l’ora di smascherare “gli estremisti dell’antimafia”, cioè quegli strani personaggi accucciati nelle associazioni nate per combattere la mafia ma che “hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione e tendono a farsi mafiose esse stesse”. Queste associazioni, spiega Maresca, “sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti”; e Libera, in particolare, gestisce i patrimoni “in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale”. Inevitabile e inevitata, ovviamente, la risposta di don Ciotti: “Menzogne: Noi questo signore lo denunciamo domani mattina. Ci possono essere degli errori, si può criticare, ma non può essere calpestata la verità”. Più sorprendente, se non addirittura imbarazzante invece l’atteggiamento con cui la Commissione parlamentare antimafia, presieduta da Rosy Bindi, si è posta di fronte alla polemica aperta da Maresca, un magistrato antimafia unanimemente apprezzato sia per il suo equilibrio che per il suo coraggio. Il pm napoletano, nel suo lungo colloquio con Panorama, ha sollevato questioni non secondarie: a suo avviso Libera, dopo avere scalato i vertici della montagna incantata, non ha lasciato e non lascia spazio a nessun altro; e se c’è un concorrente da stroncare lo fa senza problemi: tanto, lavorando su un bene non suo, non ha gli stessi costi del rivale. Non solo: è mai possibile che questo immenso patrimonio, continuiamo a parlare di oltre trenta miliardi di euro, non possa essere sfruttato in termini strettamente imprenditoriali per dare la possibilità allo Stato di sviluppare le aziende e ricavarci pure un ulteriore valore aggiunto? Di fronte a interrogativi così pesanti, ma anche così pertinenti, la commissione parlamentare avrebbe dovuto a dir poco avviare un dibattito, magari ascoltando oltre a don Ciotti, sentito a lungo mercoledì proprio mentre le agenzie di stampa diffondevano l’anteprima di Panorama, pure il magistrato napoletano. Quantomeno per verificare l’eventuale necessità di una modifica alle intricatissime leggi che regolano la materia. Invece no: Rosy Bindi ha preferito definire “offensive” le affermazioni di Maresca e l’ha chiusa lì. Don Ciotti certamente non avrà tutte le colpe che Maresca, più o meno volontariamente gli attribuisce. Ma la solidarietà assoluta e incondizionata squadernata l’altro ieri a San Macuto dalla presidente Bindi, e dai parlamentari che man mano si sono a lei accodati, è la prova provata che Libera è anche e soprattutto una lobby.

Beni confiscati, associazioni, coop. Libera, impero che muove 6 milioni, scrive Lunedì 16 Marzo 2015 Claudio Reale su "Live Sicilia". L'associazione raduna 1.500 sigle, ma il suo cuore economico è "Libera Terra", che fattura 5,8 milioni con i prodotti dei terreni sottratti ai boss e li reinveste per promuovere la legalità e assumere lavoratori svantaggiati. E mentre si prepara il ventesimo compleanno, don Ciotti apre alla collaborazione con il movimento di Maurizio Landini. Vent'anni da compiere fra pochi giorni. E circa 1.500 sigle radunate sotto il cartello dell'“associazione delle associazioni”, con un modello che in fondo richiama la tradizione storica dell'Arci. “Libera” è formalmente un'organizzazione non governativa che si occupa di lotta alle mafie, di promozione della legalità e di uso sociale dei beni confiscati alle mafie: sotto la sua bandiera, però, si muovono attività diversificate nello scopo e nello spazio, coprendo quasi per intero il Paese e con ramificazioni internazionali. Un mondo il cui cuore economico è “Libera Terra”, che gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati alla mafia, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che nel 2013 ha sfiorato i sei milioni di euro. Un impero sotto il segno della legalità. Che fa la parte del leone nell'assegnazione per utilità sociale dei beni confiscati e che non si sottrae allo scontro fra antimafie, in qualche caso – come ha fatto all'inizio del mese don Luigi Ciotti – facendo aleggiare l'imminenza di inchieste: "Mi pare di cogliere – ha detto il 6 marzo il presidente dell'associazione – che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di antimafia”. Uno scontro fra paladini della legalità, in quel campo minato e denso d'insidie popolato dalle sigle che concorrono all'assegnazione dei terreni sottratti ai boss.

Un mondo che, nel tempo, ha visto in diverse occasioni l'antimafia farsi politica. E se Libera non è stata esente da questo fenomeno - Rita Borsellino, fino alla candidatura alla guida della Regione e poi all'Europarlamento, dell'associazione è stata ispiratrice, fondatrice e vicepresidente – a tenere la barra dritta lontano dalle identificazioni con i partiti ci ha sempre pensato don Ciotti. Almeno fino a qualche giorno fa: sabato, infatti, sulle colonne de “Il Fatto Quotidiano”, il carismatico sacerdote veneto ha aperto a una collaborazione con il nascente movimento di Maurizio Landini. Certo, don Ciotti assicura nella stessa intervista disponibilità al dialogo con tutto l'arco costituzionale ed esclude un coinvolgimento diretto di Libera. Ma le parole di “stima e amicizia” espresse a favore del leader Fiom, osserva chi sa cogliere le sfumature degli interventi del sacerdote antimafia, sono un assoluto inedito nei vent'anni di storia dell'associazione. Ne è passato di tempo, da quel 25 marzo 1995. A fondare il primo nucleo di Libera furono appunto don Ciotti, allora “solo” numero uno del Gruppo Abele, e Rita Borsellino. Da allora l'associazione si è notevolmente diversificata: al filone principale, riconosciuto dal ministero del Welfare come associazione di promozione sociale, si sono via via aggiunti “Libera Formazione”, che raduna le scuole e ne coordina quasi cinquemila, “Libera Internazionale”, che si occupa di contrasto al narcotraffico, “Libera informazione”, che si concentra sulla comunicazione, “Libera Sport”, che organizza iniziative dilettantistiche, “Libera ufficio legale”, che assiste le vittime di mafia, e appunto “Libera Terra”, che raduna le cooperative impegnate sui campi confiscati ed è l'unico troncone a commercializzare prodotti. In Sicilia le cooperative sono sei. Dell'elenco fanno parte la “Placido Rizzotto” e la “Pio La Torre” di San Giuseppe Jato, la “Lavoro e non solo” di Corleone, la “Rosario Livatino” di Naro, la castelvetranese “Rita Atria” e la “Beppe Montana” di Lentini, alle quali si aggiungono le calabresi “Terre Joniche” e “Valle del Marro”, la brindisina “Terre di Puglia” e la campana “Le terre di don Peppe Diana”: ciascuna è destinataria di almeno un bene sottratto alla mafia e produce su quei terreni vino, pasta e altri generi alimentari commercializzati appunto sotto il marchio unico “Libera Terra”. Fuori dal mondo agroalimentare, poi, c'è la new-entry “Calcestruzzi Ericina”, confiscata a Vincenzo Virga e attiva però – col nuovo nome “Calcestruzzi Ericina Libera” – nella produzione di materiali da costruzione. A questa rete di cooperative si aggiunge la distribuzione diretta. Un network fatto di quindici punti vendita, anch'essi ospitati per lo più in immobili confiscati a Cosa nostra, sparpagliati in tutta Italia: a Bolzano, Castelfranco Veneto, Torino, Reggio Emilia, Bologna, Genova, Firenze, Pisa, Siena, Roma, Castel Volturno, Napoli, Mesagne, Reggio Calabria e nel cuore di Palermo, nella centralissima piazza Politeama, dove la bottega ha sede in un negozio confiscato a Gianni Ienna. Non solo: nel pianeta “Libera Terra” trovano posto anche una cantina (la “Centopassi”), due agriturismi (“Portella della Ginestra” e “Terre di Corleone”), un caseificio (“Le Terre” di Castel Volturno), un consorzio di cooperative (“Libera Terra Mediterraneo”, che dà lavoro a nove dipendenti e cinque collaboratori) e un'associazione di supporto (“Cooperare con Libera Terra”, onlus con 74 cooperative socie). Ne viene fuori un universo che nel 2013 ha dato uno stipendio a 126 lavoratori, 38 dei quali svantaggiati, ai quali si sono aggiunti 1.214 volontari. Tutto per produrre circa 70 prodotti – venduti nelle botteghe Libera Terra, ma anche nei punti vendita Coop, Conad e Auchan – che spaziano dalla pasta all'olio, dal vino alla zuppa di ceci in busta: ne è venuto fuori, nel 2013, un fatturato di 5.832.297 euro, proveniente per più di un quinto dalla commercializzazione all'estero. Numeri che fanno delle cooperative il cuore pulsante dell'economia targata Libera: basti pensare che l'intero bilancio dell'associazione-madre muove 2,4 milioni di euro, meno della metà del flusso di denaro che passa dai campi confiscati. Denaro che però non finisce nelle tasche dei 94 soci: se una royalty – nel 2013 di 157 mila euro – viene girata a “Libera”, il resto viene utilizzato per attività sociali come la promozione della legalità, il recupero di beni sottratti ai boss e i campi estivi. Già, perché nei terreni confiscati il clou si raggiunge d'estate. Nei mesi caldi, infatti, le cooperative siciliane (ma anche quelle pugliesi) accolgono giovani da tutta Italia per attività di volontariato sui beni sottratti ai capimafia. Il momento centrale della vita dell'associazione, però, si raggiungerà fra pochi giorni: il 21 marzo, infatti, “Libera” organizza dal 1996 una “Giornata della memoria e dell'impegno” durante la quale vengono ricordate le vittime di mafia. Quest'anno l'appuntamento è a Bologna, con una kermesse iniziata venerdì e destinata a concludersi il 22. A ridosso dei vent'anni dell'associazione. E in un momento di grandi conflitti per le antimafie.

"Fatti di inaudita gravità". Beni confiscati, una ferita aperta, scrive Sabato 30 Gennaio 2016 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Anno giudiziario. Nel giorno in cui i magistrati presentano i risultati di un anno di lavoro, a Palermo e Caltanissetta tiene banco l'inchiesta sulle Misure di prevenzione. Nel capoluogo siciliano il ministro Andrea Orlando dice: "La mafia non è vinta". È il caso Saguto a tenere banco nel giorno dell'inaugurazione dell'anno giudizio a Palermo e Caltanissetta. Palermo è la città dove lavorava l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale finita sotto inchiesta. A Caltanissetta, invece, lavorano i pubblici ministeri che con la loro indagine hanno fatto esplodere la bomba giudiziaria della gestione dei beni sequestrati alla mafia. A Palermo, davanti al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Ha fatto al sua relazione il presidente della Corte d'appello, Gioacchino Natoli. "Se le criticità emerse dai controlli seguiti alle vicende legate all'inchiesta sulla sezione misure di prevenzione dovessero essere confermate - ha detto Natoli - occorrerebbe riflettere sulla sorveglianza esercitata dalla dirigenza locale e dal consiglio giudiziario". Il magistrato ha recitato il mea culpa a nome dell'intera categoria, spiegando che "la prevenzione di certi episodi parte dai controlli a cominciare dalla valutazione della professionalità" e ammettendo che nella gestione della sezione c'erano "criticità e inefficienze nella durata dei procedimenti, nell'organizzazione e nella distribuzione degli incarichi". E il ministro è stato altrettanto duro: "E' necessario perseguire le condotte che hanno offuscato il lavoro di tanti valenti magistrati. Quello dell'aggressione ai beni mafiosi è uno dei terreni che ha dato maggiori risultati nel contrasto a Cosa Nostra". Il ministro, anche richiamando la recente normativa sui tetti ai compensi degli amministratori giudiziari, ha auspicato "una riduzione dei margini di discrezionalità in cui si sono sviluppati fenomeni allarmanti".  Poi, un passaggio dedicato alla lotta a Cosa nostra: "La mafia è stata colpita, ma non è battuta, né si tratta di un'emergenza superata anche se altre se ne profilano all'orizzonte". Nel frattempo, a Caltanissetta, interveniva il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini: "I magistrati della Procura di Caltanissetta, con un'indagine coraggiosa e difficile che è tuttora in corso, hanno consentito che emergessero fatti di inaudita gravità nella gestione delle misure di prevenzione antimafia a Palermo, permettendo che la prima Commissione e la sezione disciplinare del Csm potessero sollecitamente esercitare le funzioni di ripristino del prestigio e dell'autorevolezza di quell'ufficio". Ecco perché Legnini ha detto di avere “scelto di essere presente a Caltanissetta, per testimoniare la mia gratitudine è quella di tutto il Csm verso i magistrati che prestano servizio in questo distretto”. Sulla stessa lunghezza d'onda le parole del procuratore generale di Caltanissetta, Sergio Lari: "Gli scandali che hanno visto coinvolti i magistrati, pur trattandosi di episodi isolati, non possono essere sottovalutati e dimostrano come la massima attenzione debba essere posta alla deontologia ed alla questione morale nella magistratura, essendo inammissibili, soprattutto in un'epoca così degradata in altri ambiti istituzionali, cadute etiche da parte di chi deve svolgere l'alto compito del controllo di legalità".

L’antimafia di facciata ai pm non piace più. Apertura dell'anno giudiziario a Palermo. Il procuratore Lo Voi: persegue affari e carriera, scrive Luca Rocca il 31 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Che un giorno anche la procura di Palermo potesse destarsi e puntare il dito contro l’«antimafia di facciata», accusata di perseguire solo «affari e carriera», ci credevano in pochi. Forse nessuno. E invece è accaduto ieri in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, quando il procuratore capo Francesco Lo Voi si è scagliato proprio contro chi, nascondendosi dietro l’intoccabilità di chi quella categoria l’ha usata come una corazza, ha pensato di poter coltivare i propri interessi con la certezza di non essere sfiorato nemmeno dal sospetto. D’altronde, dopo i casi di Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo per la gestione dei beni confiscati indagata per corruzione, abuso d'ufficio e riciclaggio; quello di Roberto Helg, ex presidente della Camera di Commercio di Palermo arrestato per estorsione dopo anni di proclami contro il pizzo; o ancora di Antonello Montante, delegato nazionale per la legalità di Confindustria Sicilia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa; oppure Rosy Canale, condannata a quattro anni di carcere per truffa e malversazione dopo aver vestito i panni della paladina anti ’ndrangheta col «Movimento donne di San Luca»; dopo questi «colpi al cuore» al professionismo dell’antimafia, dicevamo, dalla procura che più di ogni altra ha incarnato la lotta alla mafia, «slittando», da un certo momento in poi, verso mete fantasiose e poco concrete, una parola di condanna non poteva più mancare. E così ieri Lo Voi (la cui nomina a capo della procura palermitana è stata resa definitiva, pochi giorni fa, dal Consiglio di Stato, che si è espresso sui ricorsi di Guido Lo Forte e Sergio Lari, procuratori rispettivamente a Messina e Caltanissetta) non ha taciuto, non ha voluto tacere: «Forse c'è stata – ha affermato il procuratore capo di Palermo - una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'auto-attribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità, a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere». Lo Voi non ci ha girato intorno, e pur senza citare, ovviamente, casi specifici, ha preso di petto la deriva di quell’antimafia che, dopo la sconfitta della mafia stragista, come sostiene da tempo lo storico Salvatore Lupo, ha perso la sua ragione d’essere: «La rincorsa è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità – ha scandito il procuratore -, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari ed a bollare come inaccettabili eventuali dissensi e opinioni diverse». Parole inequivocabili. Proprio come quelle pronunciate subito dopo e che chiamano in causa le stesse toghe: «E, spiace registrarlo, a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato». Dato a Cesare quel che è di Cesare, il procuratore capo non poteva, infine, non concedere qualche distinguo: «Antimafia è e significa rispettare le leggi e fare il proprio dovere. Gran parte del resto è sovrastruttura, che è servita a costituire categorie di presunti intoccabili, così rischiando di vanificare l'opera talora pionieristica e sicuramente coraggiosa di chi l'antimafia l'ha fatta veramente. Dire che tutta l'antimafia è inquinata è, ancora una volta, fuori dalla realtà ed è falso».

Lo Voi e l'antimafia di facciata: "È servita per affari e carriere", scrive Sabato 30 Gennaio 2016 "Live Sicilia". Intervento del procuratore all'inaugurazione dell'anno giudiziario di Palermo: "A questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale". Poi, una frecciata agli imprenditori che "pretendono" la restituzione dei beni che sono stati sequestrati per mafia. (Nella foto il procuratore Francesco Lo Voi". "C'è stata forse una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere. L'antimafia di facciata, che serve a scalare posizioni sociali e fare carriera, finisce "sotto attacco" del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi nel corso dell'inaugurazione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Ed ancora: "La rincorsa è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità, o magari a riscuotere consensi, a guadagnare posizioni, anche a fare affari; ed a bollare come inaccettabili eventuali dissensi o opinioni diverse. E, spiace registrarlo, a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per alcune indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato". Eppure, secondo Lo Voi, basterebbe poco: "Antimafia è e significa rispettare le leggi e fare il proprio dovere; gran parte del resto è sovrastruttura, che è servita a costituire categorie di presunti intoccabili, così rischiando di vanificare l'opera talora pionieristica e sicuramente coraggiosa di chi l'antimafia l'ha fatta veramente". Poi ha lanciato un monito: "Da un lato dobbiamo essere estremamente vigili, tutti, per evitare che vi siano non soltanto infiltrazioni e sostenendo e supportando coloro che fanno, anziché quelli che dicono di fare. Dall'altro lato, dobbiamo evitare il danno peggiore, che è quello della generalizzazione. Dire che tutta l'antimafia è inquinata è, ancora una volta, fuori dalla realtà ed è falso". "Mettere nel nulla i risultati ottenuti sarebbe assurdo. Pretendere, solo per fare un esempio, la restituzione dei beni sequestrati o confiscati ai mafiosi, addirittura costituendo associazioni ad hoc sarebbe ancora più assurdo", ha concluso riferendosi all'associazione costituita dopo il caso Saguto da imprenditori indiziati di contiguità mafiose ai quali erano stati sequestrati i patrimoni. 

Mea culpa di politica e magistratura, scrive Sabato 30 Gennaio 2016 di Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". La gestione dei beni confiscati alla mafia tiene banco nel giorno dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. A Palermo come a Caltanissetta autorevoli voci confermano che lo scandalo andava e poteva essere evitato, ma sono mancati i controlli. Dell'antimafia di mestiere, tutta chiacchiere e distintivo, restano le macerie. Persino la magistratura siciliana ammette i propri errori. E lo fa scegliendo il giorno della parata delle toghe. Per una volta non c'è solo retorica nei discorsi dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. È il caso Saguto ad imporlo, senza se e senza ma, sia a Palermo, la città dello scandalo che ha travolto la sezione Misure di prevenzione del Tribunale, che a Caltanissetta, dove lavorano i pm che lo scandalo hanno fatto esplodere con le indagini. Sarà l'inchiesta e l'eventuale processo a stabilire se l'ex presidente Silvana Saguto e gli altri componenti del vecchio collegio che sequestrava i beni ai mafiosi e li assegnava agli amministratori giudiziari abbiano davvero commesso i reati che i finanzieri ipotizzano. Reati pesanti che includono la concussioni, la corruzione e il riciclaggio. Dalle indagini è, però, già emerso uno spaccato di favori e clientele che fa a pugni con l'imparzialità che ci si attende da chi indossa una toga. È Giovanni Legnini, vice presidente del Csm, l'organo di autogoverno della magistratura, oggi a Caltanissetta, a parlare di “fatti di inaudita gravità”. La magistratura ammette gli errori. È lecito chiedersi, però, cosa abbia fatto per evitarli. A Palermo il presidente della corte d'appello Gioacchino Natoli ha spiegato “che se le criticità emerse dai controlli seguiti alle vicende legate all'inchiesta sulla sezione misure di prevenzione di Palermo dovessero essere confermate, occorrerebbe riflettere sulla sorveglianza esercitata dalla dirigenza locale e dal consiglio giudiziario". Insomma, secondo Natoli, chi doveva controllare non lo avrebbe fatto. A livello locale, così come anche nei palazzi romani. Sempre Legnini si è complimentato con "i magistrati della Procura di Caltanissetta” che grazie alla loro indagine "coraggiosa e difficile hanno consentito che emergessero fatti di inaudita gravità nella gestione delle misure di prevenzione antimafia a Palermo, permettendo che il Csm potesse sollecitamente esercitare le funzioni di ripristino del prestigio e dell'autorevolezza di quell'ufficio". Ripristinare, appunto, qualcosa che è venuta meno e non prevenire che ciò accadesse. E la politica? Anch'essa ammette, per bocca del ministro della Giustizia Andrea Orlando, oggi a Palermo, “la timidezza della politica negli anni passati sulla magistratura. Avere lasciato spazi di discrezionalità ampia, per esempio, non regolando attraverso norme i compensi e le modalità di affidamento degli incarichi agli amministratori giudiziari o in altre procedure che prevedano incarichi con ampio margine di discrezionalità, ha consentito che si creassero zone d'ombra. La stagione nuova che si è aperta - conclude il ministro - ci consente di ragionare, grazie anche al rinnovato dialogo con la magistratura, su questi temi allo scopo di tutelare il prestigio della giurisdizione". E così la politica e la magistratura, per bocca dei suoi stessi autorevoli rappresentanti, hanno finito per contribuire a rendere vuota di significato la parola antimafia. L'intervento più duro della giornata è arrivato dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi che fotografia le macerie dell'antimafia: "C'è stata forse una certa rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'autoattribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di antimafiosità a persone, gruppi e fenomeni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere. Rincorsa che è servita anche a tentare di crearsi aree di intoccabilità o magari a riscuotere consensi. Spiace registrarlo a questa rincorsa non si è sottratta quasi nessuna categoria sociale e, pur con tutte le cautele del caso derivanti dal rispetto per indagini ancora in corso, forse neanche qualche magistrato". 

L’Antimafia? Una, nessuna, centomila, scrive Salvo itale il 24 gennaio 2016 su Telejato. C’È QUALCOSA CHE NON FUNZIONA NEL MONDO DELL’ANTIMAFIA, DI SICURO NON FUNZIONA IL FATTO CHE CI SIA IN MEZZO IL DENARO. La vera antimafia, come sosteniamo da anni, tirandoci addosso le ire di tutte le associazioni antimafia, dovrebbe essere gratuita, in nome degli alti ideali cui fa riferimento e in nome di tutti coloro che sono morti per mano della mafia senza avere lucrato una sola lira. Recentemente lo stesso concetto è stato “scoperto” e ripetuto dal garante anticorruzione Raffaele Cantone e da un altro magistrato in prima linea contro la ‘ndrangheta, Nicola Gratteri. Un altro magistrato napoletano, Maresca, ha scatenato le ire di tutta la commissione Antimafia, a partire dalla sua presidente Rosy Bindi, e naturalmente anche di Don Ciotti, per aver affermato che anche in Libera “C’è del marcio”, ovvero che la più prestigiosa associazione antimafia dovrebbe stare un po’ più attenta nella scelta di coloro cui viene affidata la gestione di alcuni affari e di alcuni terreni confiscati alla mafia. La notizia di oggi è che il presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante, bandiera dell’antiracket e strenuo sostenitore del fatto che bisogna denunciare gli estortori, è stato sottoposto a perquisizioni domiciliari disposte dalla procura di Caltanissetta ed è sotto inchiesta, a seguito delle dichiarazioni di alcuni pentiti, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. L’indagine era partita da un articolo di Riccardo Orioles, scritto qualche anno fa, su “I Siciliani giovani” nel quale si denunciava che Montante era stato testimone di nozze del boss di Serradifalco. Montante, difeso a spada tratta dalla Procura Nazionale Antimafia e da tutti i suoi colleghi industriali, cammina sotto scorta, essendo ritenuto un soggetto esposto a ritorsioni mafiose per la sua costante attività in favore della legalità. Per anni è stato l’anello di collegamento con prefetti, questori, esponenti del governo, magistrati, industriali, tutti d’accordo ad esaltare le sue scelte antimafia e il suo coraggio. Addirittura era stato scelto da Alfano come componente dell’Agenzia Nazionale dei beni confiscati e quindi avrebbe potuto facilmente disporne l’assegnazione agli industriali suoi amici: per fortuna, dopo le polemiche sorte, non ha accettato. Ma Montante ha una serie di precedenti che dimostrano il fallimento dell’Antimafia di facciata, spesso scelta per non avere grane, per non essere sottoposto a indagini o, qualche volta, per coprire certi affari poco puliti. Il caso Helg, anche lui bandiera dell’antimafia, colto con le mani nel sacco, non è diverso da tutta una serie di altri casi che puntano alla spartizione di fondi governativi o europei al mondo delle associazioni antimafia, privilegiando quelle più vicine politicamente a certi uomini di potere. Nell’albo prefettizio, sono iscritte, solo per l’Italia meridionale oltre cento associazioni antiracket. Ma già nel marzo del 2012 le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva, mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. Allora i fondi del Pon erano stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ottenne finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro erano finiti a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta, quella di Montante. Allora si trattava di 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che facevano parte del Pon-Sicurezza, al fine di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del Mezzogiorno. Quei soldi furono distribuiti, con la benedizione dell’allora ministro Cancellieri e dall’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, del commissario antiracket Giosuè Marino, poi assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia e del presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto dallo scandalo sugli appalti pilotati dal Viminale. È cambiato qualcosa in questi anni? Niente: un mare di denaro pubblico finisce per finanziare progetti di “educazione alla legalità” preparati dalle associazioni antimafia e antiracket che vanno per la maggiore, ma i risultati sono pochi, contraddittori e senza risvolti. Per non parlare dell’antimafia da tribunale, della quale abbiamo detto tante cose, quelle legate alla gestione di Silvana Saguto e dei suoi collaboratori, con una caterva di persone che hanno succhiato a questa mammella senza ritegno, cioè magistrati, amministratori giudiziari curatori fallimentari, avvocati, affaristi, cancellieri, collaboratori a vario titolo, consulenti ecc. Per tornare alla Confindustria, dalle varie situazioni giudiziarie è uscito indenne Catanzaro, altro antimafioso che gestisce la discarica di Siculiana, scippata al comune, assieme al fratello, vicepresidente, sempre di Confindustria Sicilia. Si potrebbe dire ancora tanto, ma facciamo solo un cenno ai politici che dell’antimafia hanno fatto una loro bandiera, che sono presenti a tutte le manifestazioni e agli anniversari, che hanno costruito le loro fortune grazie a questa bandiera, ammainata quasi sempre, ma pronta a sventolare nelle grandi occasioni. Qualcuno direbbe che siamo nella terra di Sciascia, quella dei professionisti dell’antimafia, qualche altro direbbe che siamo in quella del Gattopardo, in cui si fa vedere l’illusione del cambiamento per non cambiare, o nella terra di Pirandello, dove il caciocavallo ha quattro facce, o meglio ne ha una, nessuna, centomila.

Cantone: "C'è chi usa l'antimafia, smascheriamolo". Il presidente dell'Anticorruzione interviene nella polemica sui beni confiscati alle mafie. E su Libera dice: "Ha fatto tanto ma è diventata un brand", scrive il 25 gennaio 2016 Maurizio Tortorella su "Panorama". “C’è chi usa l’antimafia e va smascherato”. Questo dice Raffaele Cantone, oggi presidente dell’Autorità anticorruzione e dal 1999 al 2007 magistrato attivo a Napoli nella lotta alla camorra. In questa intervista, Cantone parla della opaca gestione dei beni confiscati e della durissima denuncia che sulla materia ha lanciato attraverso Panorama Catello Maresca, proprio il pm che di Cantone è stato il successore alla Procura di Napoli.

Dottor Cantone, il pm Maresca attacca “gli estremisti dell’antimafia, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato”. Le sue accuse sono molto gravi. Lei è d’accordo con lui?

«Ho letto l'intervista di Catello Maresca, cui mi legano rapporti di affetto e amicizia, e anche le precisazioni dopo che è scoppiata la polemica con Libera. Condivido gran parte dell’analisi svolta da Catello e ritengo sia stato giusto e opportuno richiamare l’attenzione su cosa sta accadendo in generale nel mondo dell’Antimafia sociale e nella gestione dei beni confiscati».

Che cosa sta accadendo, secondo lei, in quel mondo?

«Si stanno verificando troppi episodi che appannano l’immagine dell’antimafia sociale e troppe volte emergono opacità e scarsa trasparenza sia nell’affidamento che nella gestione di beni confiscati. Questi ultimi, invece, di rappresentare una risorsa per il Paese, spesso finiscono per essere un altro costo; vengono in molti casi affidati a terzi gratuitamente e a questi affidamenti si accompagnano spesso anche sovvenzioni e contributi a carico di enti pubblici. Cosa che può essere anche giusta e condivisibile in astratto ma che richiede un controllo reale in concreto su come i beni e le risorse vengano gestite per evitare abusi e malversazioni. Non sono, però, d’accordo nell’aver individuato quale paradigma di queste distorsioni Libera; e il mio giudizio in questo senso non è influenzato dai rapporti personali con Luigi Ciotti né dal fatto che come Autorità anticorruzione abbiamo avviato una collaborazione con Libera, che rivendichiamo come un risultato importante».

Su Libera, Maresca ha dichiarato a Panorama: «Libera gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa». Ha torto o ha ragione?

«Sono sicuro che in questa parte il ragionamento di Catello sia stato equivocato; non mi risulta che Libera abbia il monopolio dei beni confiscati e che li gestisca in modo anticoncorrenziale; conosco alcune esperienze di gestione di beni da parte di cooperative che si ispirano a Libera (per esempio, le terre di don Peppe Diana) e li ritengo esempi positivi; beni utilizzati in una logica produttiva e che stanno anche dando lavoro a ragazzi dimostrando quale deve essere la reale vocazione dell’utilizzo dei beni confiscati. Condivido, invece, l’idea di fondo di Catello; è necessario che le norme prevedano che anche l’affidamento dei beni confiscati debba seguire procedure competitive e trasparenti, non diverse da quelle che riguardano altri beni pubblici. Ovviamente tenendo conto delle peculiarità dei beni che si affidano».

Ma lei, che alla Direzione distrettuale antimafia di Napoli occupava proprio la stanza che oggi è di Maresca, che cosa pensa di Libera?

«Libera è un’associazione che ha fatto battaglie fondamentali in questo paese; le va riconosciuto il merito di aver compreso quanto fosse utile per la lotta alla mafia l’impegno dei cittadini; e sta provando a fare la stessa cosa anche sul fronte della corruzione, cosa di cui gli siamo grati. Certo Libera è un’associazione che è cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; è diventato anche un “brand” di cui in qualche caso qualche speculatore potrebbe volersi appropriare per ragioni non necessariamente nobili. Credo che questo possa essersi in qualche caso anche verificato. E’ però il rischio di un’associazione che cresce ed è un rischio che ha ben presente anche Luigi Ciotti che in più occasioni non ne ha fatto nemmeno mistero in pubblico».

Don Ciotti ha annunciato querela contro Maresca. Viene un po’ in mente la polemica di Leonardo Sciascia del gennaio 1987 sui «professionisti dell’antimafia»: è possibile criticare l’antimafia?

«Spero che Ciotti possa rivedere la sua posizione. Sono certo che, se parlasse con Maresca, i punti di contatto sarebbero maggiori delle distanze. E lavorerò perchè questo accada. Credo che la reazione a caldo di Ciotti però si giustifichi anche perché in questo momento ci sono attacchi a Libera (che non sono quelli di Catello, sia chiaro!) che giustamente lo preoccupano. Ciò detto, l’antimafia può ben essere criticata se è necessario e parole anche dure, come quelle dette anni fa da Sciascia, non possono essere semplificativamente respinte come provenienti da “nemici”. Sciascia con quella sua frase dimostrò di essere in grado di guardare molto lontano e di aver capito i rischi della professionalizzazione di un impegno civile, anche se aveva sbagliato nettamente l’obiettivo immediato; quelle critiche si riferivano a Paolo Borsellino ed erano nei suoi confronti ingiuste ed ingenerose».

Maresca dice anche che «è necessario smascherare gli estremisti dell’antimafia». La frase è forte: ha ragione?

«Si, anche se io preferisco dire che bisogna smascherare chi l’antimafia la usa e la utilizza per fini che nulla hanno a che vedere con le ragioni di contrasto alla mafia. E negli ultimi tempi di soggetti del genere ne abbiamo visto non pochi!»

Lo scorso settembre il «caso Saguto» ha fatto emergere a Palermo lo scandalo della cattiva gestione dei beni confiscati. Il procedimento è in ancora corso. Ma lei che opinione s’è fatto?

«Il caso Saguto attende le verifiche giudiziarie, come è giusto che sia; lo spaccato che emerge può essere valutato a prescindere dagli aspetti penali ed è decisamente inquietante. Ho sempre pensato che i giudici debbano tenersi lontano dalle gestioni economiche soprattutto quando passano per incarichi lucrosi e discrezionali a terzi professionisti, con cui si rischia di creare rapporti personali oltre che professionali. Da presidente dell’Anac ho chiesto formalmente al Governo di fissare le tariffe per gli amministratori (a cui sono legati gli emolumenti per gli amministratori dei beni da noi commissariati) proprio perchè certe discrezionalità in questo settore possono aprire la strada ad abusi.»

Certi Uffici misure di prevenzione dei Tribunali sono forse diventati "enclave" con troppo potere?

«Può forse essere accaduto in qualche caso, ma le generalizzazioni rischiano di far dimenticare quanto sia stato importante il ruolo di quelle sezioni del tribunale nella lotta alla mafia. La natura temporanea di questi incarichi, prevista opportunamente da regole interne introdotte dal CSM, è un antidoto utile a favore degli stessi magistrati per evitare eccessive personalizzazioni. Ed aggiungo, io non sono affatto favorevole alla norma, in discussione in parlamento, secondo cui le sezioni in questione devono obbligatoriamente occuparsi solo di prevenzione».

Già nel marzo 2012 l’ex direttore dell’Agenzia beni confiscati Giuseppe Caruso diceva che "i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente". Possibile che per altri tre anni sia prevalso l’immobilismo?

«L’affermazione di Caruso ha un che di vero, ma è comunque esagerata. È vero che ad oggi lo Stato non è riuscito ancora a cogliere l’occasione di utilizzare in modo più proficuo i beni confiscati e che è indispensabile un cambio di passo. Non va, però, dimenticato quanto siano state importanti le confische per indebolire le mafie. Non vorrei che qualcuno pensasse di utilizzare queste criticità per indebolire la lotta alla mafia, che ha invece assoluta necessità di utilizzare le misure di prevenzione patrimoniale».

Più di recente, nel 2014, Caruso aveva denunciato l’esistenza di amministratori giudiziari "intoccabili", di "professionisti che hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi" e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. Era stato criticato ferocemente da sinistra: Rosy Bindi disse che aveva "delegittimato i magistrati e l’antimafia". Eppure Caruso aveva ragione: allora, perché è stato isolato?

«Con il senno di poi non si può dire altro che avesse ragione. Non conoscendo, però, con precisione le sue dichiarazioni non so se avesse fornito indicazioni precise che, ovviamente sarebbe stato compito della commissione antimafia approfondire, o avesse fatto affermazioni generiche che potevano essere considerate effettivamente delegittimanti. Del resto Caruso, era un prefetto ed un pubblico ufficiale e se aveva conoscenza di fatti illeciti non doveva limitarsi a segnalarli all’Antimafia, ma denunciarli alla Procura competente!»

Anche l’Associazione nazionale magistrati nel 2014 aveva criticato il prefetto: "I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori" si leggeva in un comunicato "operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro". Un comunicato che oggi grida vendetta, vero?

«Spesso scatta una sorta di riflesso condizionato, di difesa della magistratura e dei magistrati “a prescindere”. Ma io non voglio altre polemiche con l’Anm. Credo che l’Anm possa e debba svolgere un ruolo importante anche per tenere alta la questione morale in magistratura. Ho fatto parte alcuni anni fa del collegio dei probiviri dell’Anm ed ho verificato quanto fosse difficile applicare le regole deontologiche. Disponemmo un’espulsione di un magistrato dall’associazione ed avviammo altri procedimenti analoghi e per capire anche come stilare il provvedimento di espulsione cercammo precedenti che non trovammo. Fummo sicuramente noi poco diligenti nel non reperirli».

Una domanda da 30 miliardi di euro (tanto si dice sia il valore dei patrimoni sequestrati): che cosa dovrebbe fare lo Stato per gestire al meglio i beni confiscati alle mafie?

«Lo Stato deve capire quale sia la destinazione migliore e farlo anche grazie ad esperti indipendenti. In qualche caso ho avuto l’impressione che certe attività, che funzionavano chiaramente solo perchè gestite da mafiosi, siano state tenute in vita senza una logica e abbiano finito per creare solo inutili perdite. Bisogna preferire le destinazioni economiche dei beni, incentivando l’utilizzo in funzione produttiva piuttosto che destinazioni poco utili.

Per esempio?

«Quante ludoteche e centri per anziani abbiamo in passato aperto in beni confiscati? È per questo che credo che iniziative come quelle citate prima, dell’utilizzo di terreni da parte di cooperative di giovani siano assolutamente da favorire. È un segnale importante che deve dare lo Stato, di essere capace di utilizzare i beni per produrre ricchezza, non lasciandoli deperire. Quando nel mio paese vedo un immobile oggi confiscato, nel quale prima operava una scuola, e oggi è completamente vandalizzato, mi chiedo se questa non sia l’immagine peggiore che riesce a dare l’istituzione pubblica».

Non sarebbe meglio vendere tutto quel che è possibile vendere, come suggerisce Maresca?

«La vendita deve essere ammessa, ma considerata comunque eccezionale e riguardare beni che non possono essere destinati in alcun modo. Il primo impegno deve essere quello di utilizzarli per fini di utilità sociale o per avviare attività economiche a favore di giovani e soggetti svantaggiati».

Come si evita il rischio che poi, a ricomprare, siano gli stessi mafiosi o loro teste di legno?

«Il rischio è reale; ma se si fanno controlli veri, attraverso la Guardia di finanza, su chi li compra e si stabilisce, per esempio, un vincolo di non alienazione per alcuni anni, questo rischio si riduce. Eppoi questo rischio non può giustificare il lasciar andare in malora qualche bene. Meglio è, come provocatoriamente più volte ha detto Nicola Gratteri, abbatterli e destinare per esempio i terreni a parchi pubblici!»

Certo, è più facile alienare beni mobili e immobili confiscati. Lo è meno nel caso delle aziende: qui quale soluzione prospetta?

«È molto più difficile gestire un’impresa appartenuta ad un mafioso, che come ho accennato sopra, spesso si è imposta nel mercato e ha utilizzato il know-how mafioso per ottenere risultati economici. Perciò va fatta una valutazione immediata e preliminare per capire se un'impresa è in grado di funzionare. Se no è meglio chiuderla ed eventualmente vendere i beni che di essa fanno parte. Se l’impresa è sana o comunque riportabile nella legalità, lo Stato può pensare di creare condizioni favorevoli (per esempio esenzioni fiscali e crediti di imposta) per consentirle di operare secondo le regole».

Perché tante aziende mafiose confiscate falliscono (creando tra l’altro un malessere sociale di cui poi le mafie inevitabilmente si approfittano)?

«Perché gli imprenditori mafiosi utilizzano regole diverse nello svolgimento dell’attività; utilizzano i canali mafiosi per imporre i loro prodotti; non hanno bisogno di farsi dare soldi in prestito dalle banche; non devono andare in tribunale per riscuotere i crediti; né rivolgersi a sindacati per i problemi con i lavoratori. Sono imprese "drogate" e quando viene meno il doping criminale non reggono il mercato! Il loro fallimento crea sicuramente malessere sociale ma bisogna stare attenti a salvarle a tutti i costi e fare un’attenta prognosi come dicevo prima. Spesso in esse lavorano persone direttamente collegati alle cosche e si rischia, salvandole a spese pubbliche, di foraggiare indirettamente i clan».

Nel luglio 2015, due mesi prima dell’emersione dello scandalo Saguto, lei aveva chiesto al governo d’intervenire sulle elevatissime retribuzioni degli amministratori giudiziari. Aveva intravisto qualche criticità?

«Ho fatto il pubblico ministero antimafia per otto anni e pur non essendomi occupato di misure di prevenzione, mi era chiaro come un sistema con regole non chiare rischiava di aprire il varco ad abusi. In qualche caso mi era capitato di vedere liquidazioni che mi erano sembrate eccessive. Ammetto, però, che sono sobbalzato quando ho sentito di alcune liquidazioni di onorari fatti ad amministratori giudiziari».

Le leggi e la prassi permettono effettivamente agli amministratori giudiziari dei beni confiscati di raggiungere retribuzioni elevatissime: è un errore da cancellare, oppure con un calo dei compensi nessuno accetterebbe?

«Il rischio c’è: le tariffe introdotte dal provvedimento del governo sicuramente renderanno meno appetibili le amministrazioni e probabilmente allontaneranno alcuni professionisti di valore dal settore. C’è pero una certa elasticità che consente di adeguarle e forse sarà l’occasione per dare spazio a giovani professionisti che non sempre hanno avuto l’occasione di operare in tale ambito».

Non sarebbe più corretto ordinare il sequestro di un bene soltanto quando si è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa?

«No. Il sequestro resta un provvedimento necessario per togliere subito i beni ai mafiosi. Bisogna invece fare in modo che duri il meno possibile e che sia sostituito da provvedimenti definitivi di confisca».

Non sarebbe bene, anche, svincolare le competenze sui decreti di sequestro e di nomina degli amministratori dalle mani di un solo magistrato, per attribuirla a tutti i magistrati di un pool antimafia?

«Già è competenza collegiale del tribunale, quantomeno nei casi di confische di prevenzione. Il sistema prevede controlli sufficienti anche da parte dei vertici degli uffici. Basta che tutti gli attori siano realmente attenti e scrupolosi rispetto ai loro compiti. Non sempre può dirsi dopo “non me ne ero accorto” o “non avevo capito”.»

Il nuovo Codice antimafia, varato dalla Camera e in attesa di approvazione al Senato, è la soluzione?

«Va nella giusta direzione per molti aspetti. Vuole migliorare la capacità di lavoro dell’Agenzia, un’entità utile che ad oggi ha dovuto fare sforzi enormi, per difficoltà oggettive. Prevede regole più chiare sulla destinazione dei beni. Ci sono delle criticità in quella normativa, come ad esempio l’estensione automatica delle regole della prevenzione ai fatti corruttivi che rischia di creare più problemi di quanti ne risolve. Complessivamente comunque un provvedimento positivo, ma probabilmente saranno opportuni interventi modificativi da parte del Senato».

È una soluzione il divieto giacobino di affidare beni confiscati a un «commensale abituale» del giudice che decide?

«Come magistrato lo sento gravemente offensivo; non avrei mai pensato, anche senza questa regola, di affidare un incarico ad un mio commensale abituale. Certe vicende, però, giustificano persino regole che dovrebbero rientrare nella deontologia minima. Quelle vicende, però, sono l’eccezione, per fortuna, perché di queste regole la maggior parte dei magistrati non ha certo bisogno!»

Torniamo a Catello Maresca: non crede che ora rischi parecchio (e non sto parlando, ovviamente, della querela di Don Ciotti…)?

«Lo escludo. I rischi che ha corso e corre Catello sono legati al suo eccezionale impegno giudiziario e ai risultati ottenuti, quale la cattura del più importante boss dei casalesi. E su quell’aspetto non è stato lasciato solo. Nè lo sarà, assolutamente».

I guai dei paladini antimafia. Rosy Canale condannata a quattro anni. Quattro anni di galera. È la condanna inflitta all’ex paladina antimafia Rosy Canale, la donna che subito dopo la feroce strage di Duisburg del 15 agosto 2007, quando le cosche rivali Nirta-Strangio..., scrive L.R. il 23 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Quattro anni di galera. È la condanna inflitta all’ex paladina antimafia Rosy Canale, la donna che subito dopo la feroce strage di Duisburg del 15 agosto 2007, quando le cosche rivali Nirta-Strangio e Pelle-Vottari regolarono i conti in Germania con uno scontro a fuoco che provocò sei morti, fondò, nel piccolo centro aspromontano scenario della faida, il «Movimento donne di San Luca». Un barlume di luce, in apparenza, una speranza, ci si illudeva, che si chiude, tristemente, con la condanna a 4 anni per truffa e malversazione, a fronte dei 7 chiesti dal pm della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Francesco Tedesco. Dunque, per il Tribunale di Locri che l’ha processata, Rosy Canale, per anni considerata un’icona della lotta alle cosche, ha davvero utilizzato finanziamenti pubblici destinati all’attività del «suo» Movimento per scopi personali. La storia, che getta altre ombre sul mondo dell’antimafia di professione, scosso negli ultimi mesi da micidiali colpi d’immagine, inizia il 12 dicembre del 2013, giorno in cui la Dda reggina, coordinata dal procuratore Federico Cafiero de Raho, fa scattare le manette ai polsi di alcuni ex amministratori comunali, imprenditori e boss. La donna simbolo dell’antimafia, alla quale non viene contestata l’aggravante mafiosa, finisce ai domiciliari. L’inchiesta, non a caso denominata «Inganno», appare subito solida. Alla Canale i magistrati contestano di aver utilizzato 160mila euro per comprare vestiti delle più note marche e una minicar alla figlia, arredamento per la casa e oggetti di lusso. Quando il Tribunale del Riesame revoca l’arresto, la Canale va in tv a parlare di «grande montatura». La sentenza di ieri toglie, per ora, ogni dubbio. Eppure lei, la donna simbolo di San Luca, nei panni della paladina antimafia ci si era calata alla perfezione: vergando libri per raccontare la sua ribellione alla ’ndrangheta, ricevendo il premio «Paolo Borsellino» (poi ritirato). Persino il Los Angeles Times dedicò un reportage alle donne di San Luca. La pessima figura dell’«antimafia di professione», stavolta, ha varcato pure i confini nazionali.

Rosy Canale, 4 anni per truffa alla paladina della lotta alla ’Ndrangheta. La fondatrice delle «Donne di San Luca» accusata d’aver utilizzato 160 mila euro di fondi pubblici per comprare vestiti e beni di lusso: «Me ne fotto, non sono soldi miei», scrive Carlo Macrì il 22 gennaio 2016. Era considerata un'icona dell'Antimafia Rosy Canale, l'imprenditrice reggina condannata venerdì dal tribunale di Locri a quattro anni di carcere, più l'obbligo di risarcire gli Enti che ha truffato attraverso la sua Fondazione «Donne di San Luca». È proprio attraverso questo movimento che la Canale, 42 anni, riuscì a ritagliarsi un ruolo nell'Antimafia, «parlando» alle donne del centro preaspromontano all'indomani della strage di Duisburg (sei morti) dell'agosto 2007. La procura distrettuale di Reggio Calabria l'aveva arrestata a dicembre del 2013 con l'accusa di truffa aggravata e peculato per distrazione. La donna, infatti si era impossessata dei fondi pubblici comunitari e italiani erogati per finanziare la sua fondazione antimafia. Centosessanta mila euro che anziché foraggiare il laboratorio dei saponi artigianali a San Luca, sarebbero finiti nelle tasche dell'imprenditrice che li avrebbe utilizzati per l'acquisto di abiti firmati e un'auto per la figlia, vestiti per il padre e beni di lusso. E quando la madre ha cercato di fermarla - come hanno ascoltato le microspie dei carabinieri - Rosy replicava: «Me ne fotto, non sono soldi miei». Un passato da imprenditrice alle spalle, attività abbandonata dopo aver subito la violenza delle cosche reggine e un futuro da attrice. La sua storia, infatti, è diventata Malaluna, un'opera teatrale con la regia di Guglielmo Ferro e le musiche di Franco Battiato. Nel 2013, proprio per il suo impegno antimafia, aveva ricevuto il premio Borsellino. Quel giorno disse: «Vorrei che Papa Francesco venisse fra gli ultimi e i dimenticati di San Luca». Quando Rosy Canale arrivò a San Luca era una sconosciuta.  Ascoltando in chiesa il perdono di Teresa Strangio che nella strage di Duisburg perse il figlio e il fratello, l'imprenditrice capì che le donne di San Luca alla fine erano propense a rinnegare ogni violenza e a ripartire. La Prefettura le affidò un bene confiscato alla famiglia Pelle per dare inizio alle sue attività culturali. Ricami, cucina tipica, ogni donna a San Luca sembrava muoversi verso una nuova vita.  Tutto svanì. Perchè con «Inganno» l'operazione dei carabinieri che aprì le porte del carcere alla Canale, sfumarono le idee e la rinascita di un popolo per far posto all'arricchimento di una donna considerata sino a quel momento una paladina dell'Antimafia.

Condannata a 4 anni Rosy Canale, fondatrice di "Donne di San Luca". L'ormai ex simbolo dell'antimafia calabrese riconosciuta colpevole di aver utilizzato a scopi privati gran parte dei fondi pubblici destinati al suo movimento, scrive Alessia Candito il 22 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Rosy Canale Era divenuta un nome e un volto noto dell'antimafia per le sue campagne in favore delle donne di San Luca, ma con i soldi di enti e fondazioni si viziava con vestiti e borse di marca, mobili per la propria casa, viaggi e persino un'automobile. Per questo motivo, i giudici del Tribunale di Locri hanno condannato a quattro anni di carcere l'ormai ex stellina dell'antimafia Rosy Canale, smascherata dall'inchiesta della procura di Reggio Calabria che ha svelato come la donna tenesse per sé gran parte dei fondi destinati al "Movimento delle donne di San Luca". Ex titolare di una discoteca, dopo anni trascorsi tra gli Stati Uniti e Roma Rosy Canale torna in Calabria all'indomani della strage di Duisburg, l'uccisione di sei persone vicine al clan Pelle-Vottari di San Luca, che nel 2007 svela alla Germania il volto della violenza mafiosa. Anche in Italia, l'episodio impone la 'ndrangheta al centro dell'attenzione nazionale. E Canale fiuta il business. Accreditandosi come imprenditrice "con la schiena dritta", vittima di un pestaggio per aver sbarrato il passo agli spacciatori quando gestiva un noto locale reggino, la donna si precipita a San Luca dove fonda un movimento che - almeno ufficialmente - avrebbe dovuto dare speranza e lavoro alle donne del piccolo centro nei pressi di Reggio Calabria storicamente soffocato dalla 'ndrangheta. In realtà, puntava solo ad arraffare quattrini. Grazie a una strategia mediatica abilmente pianificata, condita da diverse denunce di minacce fasulle, ma strombazzate - scrivono i magistrati - "con l'unico scopo di cavalcare l'allarme sociale in modo da acquisire credibilità sia in campo politico che nel contesto dei rapporti con soggetti istituzionali", Canale si accredita in fretta. Ministero della Gioventù, Presidenza del Consiglio Regionale della Calabria, Prefettura di Reggio Calabria e Fondazione "Enel Cuore" le inviano finanziamenti per centinaia di migliaia di euro. Al centro di San Luca, ottiene anche un immobile confiscato che sarebbe dovuto diventare una ludoteca per le sue "donne di San Luca", ma dopo l'inaugurazione non entrerà mai in funzione. Canale sforna un libro, gira l'Italia con il suo spettacolo teatrale e spende senza freni. A chi, come la madre, le raccomanda prudenza e moderazione - raccontano le intercettazioni - la donna risponde, arrogante: "Me ne fotto". Ma forse, alla luce della sentenza delle Tribunale di Locri, avrebbe fatto meglio a dare ascolto a quei consigli.

La verità di Rosy Canale: "Non ho preso soldi, ma ora sono una persona finita, scrive Claudio Cordova su “Il Dispaccio” del 23 giugno 2014. "Io sono una persona finita perché è stata intaccata la mia credibilità a 360 gradi su quello che io, Dottore, ho lavorato per anni ed ho creduto con tutta me stessa". E, ancora: "Ho una sola amarezza, che ho stimato tante – col cuore, persone che lavorano qua dentro e persona che lavorano qua dentro si sono permessi di dire delle cose che non erano vere, non avevano prove documentali screditandomi a livello nazionale e internazionale". Due interrogatori. Uno al cospetto del Gip Domenico Santoro, l'altro, alcuni mesi dopo, davanti al pm Francesco Tedesco. Interrogatori lunghi e intensi che non hanno permesso, tuttavia, a Rosy Canale, ex eroina antimafia e promotrice del Movimento Donne di San Luca, di evitare l'udienza preliminare davanti al Gup Davide Lauro nell'ambito dell'indagine "Inganno" che, oltre a svelare le ingerenze delle cosche nella vita pubblica del borgo aspromontano della Locride, coinvolgerà anche la stessa Canale che, a detta della Procura, avrebbe utilizzato una parte dei finanziamenti concessi da varie Istituzioni al Movimento per proprie spese personali. A Rosy Canale, gli inquirenti arriveranno grazie ai numerosi contatti che la donna avrà con gli amministratori locali di San Luca, fino al momento dello scioglimento del Comune. Il Movimento "Donne di San Luca" otterrà - per la propria attività di sostegno alle donne vittime della 'ndrangheta – anche un bene confiscato: un immobile sottratto alla potente cosca Pelle "Gambazza" di San Luca, destinato a ludoteca, inaugurata nel 2009, ma mai entrata in funzione. Rosy Canale avrebbe ricevuto finanziamenti da un arco vastissimo di Istituzioni. Ministero della Gioventù, Presidenza del Consiglio Regionale della Calabria, Prefettura di Reggio Calabria e Fondazione "Enel Cuore". E il lungo interrogatorio dal Gip Domenico Santoro, nei giorni successivi all'ordinanza cautelare degli arresti domiciliari nei confronti della donna si sofferma sui vari finanziamenti ricevuti. A cominciare da quello del Consiglio Regionale, in quel periodo presieduto da Giuseppe Bova:

GIUDICE -. Mi dica di come nasce il finanziamento di 5.000 euro da parte della Presidenza del Consiglio Regionale.

INDAGATA CANALE -. Con una telefonata, Dottore, perché era periodo pre-elettorale e c'era gente che regalava soldi, se gliela devo proprio dire tutta in maniera sfacciata.

GIUDICE -. Ma con chi l'ha fatta questa telefonata?

INDAGATA CANALE -. Con Strangio, il segretario di...

GIUDICE -. Con l'Avvocato Giuseppe Strangio.

INDAGATA CANALE -. Esatto.

E però ci sono anche i soldi ricevuti dal Ministero della Gioventù, in quel periodo retto da Giorgia Meloni, "Giorgietta", come la chiama Rosy Canale in alcune intercettazioni. Un finanziamento che sarebbe nato da una telefonata del Capo Dipartimento del Ministero della Gioventù, Andrea Fantoma, interessato, a detta della Canale, alle attività delle Donne di San Luca:

INDAGATA CANALE -. E tra l'altro il Dottore Fantoma mi disse, proprio per chiarezza, che qualunque cosa succedeva e avevo bisogno di qualunque riferimento, l'uomo sul territorio che li rappresentava era Franco... aiutatemi... Franco... il Consigliere Regionale arrestato con l'accusa di avere collusioni...

GIUDICE -. Morelli?

INDAGATA CANALE -. Franco Morelli, esatto. Tra l'altro, Dottore, nel mio cellulare ci sono due o tre messaggi inviati al Dottor Morelli, dove io dico per conto del Dottor Fantoma mi ha detto di contattarla per dire se ci sono delle iniziative a livello regionale che ci possano aiutare in qualche modo, questa persona non mi rispondeva né telefonicamente alle chiamate e né ai messaggi, e poi un giorno mi scrisse: "Guardi, se vuole ci incontriamo" e lo può verificare agli atti, sennò le produco io il cellulare mio e lo può evidenziare, "Se vuole ci vediamo, tanto io non sono... non mi piace avere contatti telefonici" e poi voglio dire è questo.

Nel corso dell'interrogatorio di garanzia, il Gip Santoro contesta all'indagata una serie di conversazioni anche piuttosto imbarazzanti, dalle quali, secondo le indagini condotte dai pm Nicola Gratteri e Francesco Tedesco, emergerebbe l'uso disinvolto per fini personali di soldi destinati al Movimento Donne di San Luca: "Io ho un modo molto goliardico nel parlare a volte, spiritoso, che viene frainteso, è facilmente fraintendibile" si difende Rosy Canale. L'ex pasionaria antimafia, però, nega con forza di essersi appropriata di somme destinate per la lotta alla 'ndrangheta su un territorio difficile, come quello di San Luca: "Si può fare una visura patrimoniale e vedere che cos'ho, si può fare una visura di qualunque tipo, si possono prendere sotto sequestro i miei vestiti, Dottore, e vedere se ci sono cose più costose di 30 euro, vestiti come scarpe, non ho macchine intestate, cioè se io avessi preso questi soldi, che non ho preso Dottore, ci dovrebbe essere, come dire, un cambio di tenore che io non ho mai avuto, Dottore una traccia qualunque. Quando mi viene scritto qua, le ripeto, che io ho pagato una settimana bianca per mia figlia...". A proposito di antimafia e di lotta alla 'ndrangheta, nei propri racconti, spesso a ruota libera, Rosy Canale non disdegna qualche stoccata ad altri movimenti legalitari, quelli sì, a suo dire, fatti di parole e poco altro: "Io non sono stata una di quelle che scende in campo, Dottore, con i fiorellini, che va sottobraccio con i Procuratori per avere i finanziamenti di altro genere e fare le manifestazioni e poi intelligentemente e meno, come dire, sprovvedute di me, mettono le pezze d'appoggio e poi si fanno i fatti loro, io sono stata una di quelle che è scesa in campo a sporcarsi le mani a San Luca, e queste cose se si sarebbero realizzate, e magari il Signore si fossero realizzate, avrebbero cambiato il volto di quel paese, perché questi soldi... se io mettevo in campo una cosa del genere con il Ministero, che doveva fare questa cosa, perché il fatto di cavalcare la legalità molta gente la cavalca, ma la cavalca in altri sensi, Dottore, io sono andata a San Luca, ho vissuto con quella gente, io mi sono battuta lì. L'unica cosa è che Rosy Canale non ha fatto la favoletta, è andata lì sul territorio e oggi è qui a parlare con Lei per questo motivo, invece di fare le passerelle come altri". Lei avrebbe lavorato, lei si sarebbe battuta. E il Movimento sarebbe stato una cosa seria. Rosy Canale lo ribadisce anche lo scorso 30 aprile, quasi cinque mesi dopo l'emissione dell'ordinanza nell'ambito dell'operazione "Inganno": Viene scritto viene detto che il movimento delle donne è stato creato e fondato per creare con raggiri e artifizi diciamo per sottrarre dei soldi pubblici o comunque ecco allora, io brevemente sicuramente perché capisco che il tempo è prezioso per tutti però desidero che lei mi ascolti allora, io ho fondato questo movimento sono arrivata a San Luca poco dopo della strage di Duisburg per un desiderio mio personale. Già da subito avevo scritto una lettera via mail mi ero messo in contatto su facebook con il sindaco di allora che era Giuseppe Mammoliti scrivendo il mio cordiglio più profondo per tutto quello che era successo da calabrese, da persona che ama profondamente questa terra, lui mi rispose, da quel momento io ho iniziato a pensare a qualcosa che poteva che io nel mio pi piccolissimo potevo creare e fare per quella comunità". In quell'occasione, però, Rosy Canale ammetterà: "Io ho fatto un sacco di ingenuità". Con riferimento all'interrogatorio di garanzia, invece, più volte, il Gip Santoro contesta all'indagata le proprie intercettazioni, spesso dai contenuti autoaccusatori. Tutte frasi che Rosy Canale bolla come delle semplici chiacchiere, magari sconvenienti e superficiali, ma solo chiacchiere con le proprie amiche o con i propri familiari: "Le do questo aspetto, allora io e mio padre siamo molto... a volte parliamo di queste dinamiche qua, di alcuni aspetti della parte storica di quella che è una costruzione proprio... ricostruzione storica della 'ndrangheta, perché ci sono tutti degli aspetti anche, come dire, culturali, sociologici". Al Gip Santoro, però, le chiacchiere interessano poco. Interessano molto di più i fatti contestati alla donna, che, sempre secondo la Procura, avrebbe utilizzato decine di migliaia di euro per varie utilità personali: dall'acquisto due autovetture – una Smart e una Fiat 500 – a quello di vestiti e mobili, nonché la possibilità di effettuare viaggi di natura privata. "Me ne fotto". Così Rosy Canale rispondeva alla madre, che le raccomandava di spendere con attenzione i soldi che le arrivavano da Istituzioni varie: dalla Presidenza del Consiglio Regionale, alla Prefettura, passando per l'associazione "Enel Cuore". A detta dei giudici, i soldi destinati al Movimento "Donne di San Luca" "sono stati biecamente piegati ai propri interessi personali dalla presidente di quel movimento". Nell'ottobre 2009, in particolare, sarebbe arrivato un grosso finanziamento e proprio in quel momento, Rosy avrebbe sua figlia e "le chiede di che colore vuole le Hogan perché sono arrivati i soldi". La ragazza chiede "quanto si tiene lei e Rosy risponde che poi vedrà". Ma Rosy Canale si difende di fronte alle varie intercettazioni. Anche quella in cui ammetterebbe di aver tenuto per sé 3000 euro tra i fondi destinati alla ludoteca:

INDAGATA CANALE -. Aspetti, Dottore, non voglio mettere in difficoltà nessuno, però c'è una cosa, io questi 3.000 euro sono stata autorizzata dalla Prefettura a prenderli, loro mi dissero "Riserva per te, per il lavoro che stai facendo, 3.000 euro".

GIUDICE -. C'è una carta scritta?

INDAGATA CANALE -. No, non c'è niente di scritto.

GIUDICE -. Chi gliel'ha detto? Lei capisce che nel momento... o si avvale della facoltà di non rispondere o me lo dice, si sta difendendo, mi sta dando una prova d'alibi, tra virgolette.

INDAGATA CANALE -. Lo so, Dottore, però... il Dottore Priolo me lo disse.

GIUDICE -. Va bene.

INDAGATA CANALE -. Che era il mio angelo custode, mi disse... mi disse: "Guarda Rosy, tu stai facendo un lavoro grandissimo e credo che sia giusto che tu abbia qualcosa, prenditi 3.000 euro, non di più, però questi 3.000 euro prenditeli perché sono giusti".

Gianluca Calì ha acquistato all'asta un'abitazione di pregio un tempo di proprietà dei boss di Bagheria, Michelangelo Aiello e Michele Greco. Prima gli sono arrivate le minacce di sedicenti “eredi”, quindi non ne ha più potuto usufruire, perché finita in un vortice di sequestri disposti da alcuni ufficiali della Forestale poi finiti nel mirino della procura, scrive Giuseppe Pipitone il 28 giugno 2013 su “Il Fatto Quotidiano”. Ha acquistato all’asta una villa un tempo di proprietà dei boss mafiosi. Prima gli sono arrivate le minacce di sedicenti “eredi”, quindi non ha più potuto usufruire dell’abitazione, perché finita in un vortice di sequestri disposti da alcuni ufficiali della Forestale poi finiti sotto inchiesta. Da quando Gianluca Calì ha deciso di tornare a lavorare nella sua Sicilia i guai sono spuntati ad ogni angolo. Come funghi. Siamo ad Altavilla Milicia, zona costiera tra Bagheria, Casteldaccia e Palermo. È qui che Calì torna nel 2009 per aprire una succursale della sua concessionaria d’automobili milanese: la Calicar. Ma al pronti via, qualcosa comincia subito ad andare storto: a Calì arriva immediatamente una richiesta di pizzo dalla cosca mafiosa locale. “Richiesta che non mi sono mai sognato di assecondare, li ho denunciati” sottolinea lui da siciliano orgoglioso. Il 3 aprile del 2011 alcune automobili della sua concessionaria di Casteldaccia vanno a fuoco. La storia di Gianluca Calì, l’imprenditore antiracket, finisce sui giornali. “Mi è stato vicino soprattutto il centro Pio La Torre” dice lui. Intanto le indagini degli inquirenti portano in carcere 21 affiliati al clan di Bagheria: tra questi anche i suoi estorsori. Storia finita? Neanche per idea. Perché nel frattempo Calì ha avviato le pratiche per acquistare all’asta una villa vicino Casteldaccia: due piani da 160 metri quadrati l’uno. “L’idea era quella di trasformarla in una struttura ricettiva, che potesse creare un minimo di ricchezza per la nostra terra, dare lavoro e incrementare l’indotto turistico della zona”, spiega. Quella villa però non è una casa qualsiasi: apparteneva allo storico padrino di Bagheria Michelangelo Aiello e al suo sodale Michele Greco, il Papa di Cosa Nostra. Non è mai stata confiscata perché era ipotecata ed è quindi passata nelle disponibilità di un istituto di credito che lo mette all’asta. “Poco prima di presentare la mia offerta, ricevo la visita di alcuni personaggi”, racconta Calì. Si presentano come “eredi dei precedenti proprietari” e chiedono all’imprenditore di “lasciar perdere quella casa”. “Risposi di ripetere le loro parole davanti ad un giudice, dopo di ché mi aggiudicai la casa”, spiega Calì. E per un po’ sembra passare tutto liscio. La quiete però dura poco. Perché l’8 febbraio scorso la villa che fu dei boss viene sequestrata da due ispettori della Forestale. “Stato grezzo e in corso d’opera”, scrivono nel verbale di sequestro, come se la costruzione fosse stata costruita di sana pianta in maniera abusiva. Così non è, perché quella villa esiste dal 1965, e Calì sta solo attuando dei lavori di ristrutturazione. Fa opposizione al sequestro e il 4 marzo ritorna in possesso dell’immobile. I “solerti” ispettori della Forestale però non demordono. E il 15 marzo sequestrano di nuovo la villa con le stesse motivazioni. Solo un duplice intoppo burocratico? Un errore? Possibile. Il verbale di sequestro porta due firme: sono gli ispettori della Forestale di Bagheria Luigi Matranga e Giovanni Coffaro. Che a fine marzo finiscono coinvolti in un’inchiesta della procura di Palermo: alcuni dipendenti della Forestale di Bagheria ricattavano gli abitanti della zona minacciando il sequestro di immobili. In cambio chiedevano somme di denaro. “Una vicenda – scrive il gip Angela Gerardi – in cui emerge lo scarso se non inesistente senso del dovere e indegno esercizio del potere che interessa alcuni componenti dell’ufficio del corpo forestale (tra questi viene citato proprio Giovanni Coffaro) e l’irresponsabile comportamento da parte di altri (come il comandante Luigi Matranga)”. In carcere finiscono in quattro. Coffaro, uno dei due che sequestra la villa di Calì, è tra gli indagati anche se il gip ha respinto l’arresto. Nelle carte dell’inchiesta si ipotizza invece che Matranga, l’altro estensore del verbale di sequestro, fosse a conoscenza del “lavoro sporco” portato avanti dai suoi sottoposti. “Matranga non ha mai presentato una denuncia né ha mai segnalato i comportamenti dei suoi subordinati” scrive sempre il gip. A Calì però non è mai arrivata una richiesta formale di “messa a posto” per dissequestrare la villa. “Finora ho speso migliaia di euro per far valere un mio diritto contro un verbale che non sta né in cielo né in terra. Eppure questi si accontentavano di 500 euro”. Dalle maglie dell’inchiesta sui forestali però emerge anche altro: l’ombra della mafia di Bagheria. Un elemento in più se si pensa che i lavori di ristrutturazione della villa che fu di Greco sono affidati dall’imprenditore palermitano a suo fratello, l’ingegner Alessandro Calì. Che i tentacoli della piovra li ha visti da vicino qualche tempo fa, quando da presidente dell’ordine degli ingegneri ha radiato dall’albo Michele Aiello, il ricchissimo prestanome di Bernardo Provenzano. Aiello è un uomo potente e fortunato: condannato a 15 anni di carcere è riuscito a trascorrerne uno ai domiciliari, proprio nella sua Bagheria, perché affetto da favismo. Solo una coincidenza? Può darsi. Nel frattempo la villa che fu dei boss rimane sequestrata in attesa che la Cassazione si esprima nel settembre prossimo. “Io volevo soltanto provare a rilanciare la nostra terra. Ma per un imprenditore onesto, imbattersi non solo nella mafia, ma anche in infedeli servitori dello Stato non è un bel segnale”. E in Sicilia, isola che vive soprattutto di segnali, è ancora peggio.

Vatti a fidare dell'antimafia. Il ministro Orlando: "Lo scandalo dell’antimafia è un gravissimo colpo alla credibilità delle istituzioni". In un intervento su Panorama in edicola dall'8 ottobre, il Guardasigilli commenta lo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, scrive "Panorama" il 7 ottobre 2015. "Quanto sin qui è emerso a Palermo, nonostante siano ancora in corso i doverosi accertamenti, rischia di rappresentare un colpo gravissimo alla credibilità delle istituzioni su un terreno delicato come quello del contrasto alle mafie". Così si esprime Andrea Orlando, ministro della Giustizia, in un testo affidato al settimanale Panorama, che lo pubblica nel numero in edicola da giovedì 8 ottobre. Panorama aveva interpellato il Guardasigilli sullo scandalo dell’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo: da metà settembre quel Tribunale è scosso da un’inchiesta per corruzione che ha coinvolto finora cinque magistrati e ipotizza gravissimi abusi sull’attribuzione degli incarichi ai custodi giudiziari, con parcelle milionarie. Orlando aggiunge: "Il solo dubbio che nella gestione dei beni sequestrati e confiscati alle organizzazioni criminali possano essersi celati e sviluppati fenomeni di malaffare deve provocare la più vigorosa delle reazioni".

l pm antimafia Maresca: "Libera ha il monopolio della gestione dei beni sequestrati". Sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il giudizio durissimo del magistrato sull'associazione, scrive "Panorama" il 13 gennaio 2016. "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Così si esprime Catello Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra, in un’intervista che Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 14 gennaio. "Oggi" aggiunge Maresca "per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale". 

Il Pm Maresca critica Libera su Panorama e Don Ciotti si infuria. "Gestisce i beni sequestrati alle mafie in modo anticoncorrenziale". Lo denuncio, risponde il fondatore. A lui la solidarietà di Rosy Bindi e Claudio Fava, scrive "Panorama" il 13 gennaio 2016. Giornata convulsa attorno a Libera dopo l'anticipazione di un'intervista al pm antimafia Catello Maresca che Panorama pubblica sul numero in edicola il 14 gennaio. In essa Maresca dice che "Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa". Parole forti. Don Ciotti non ci sta. Lo denunciamo, dice don Ciotti. "Noi questo signore lo denunciamo domani mattina, abbiamo deciso di farlo. Uno tace una volta, due volte, tre volte, ma poi si pensa che siamo nel torto. Il fango fa il gioco dei mafiosi", ha tuonato don Ciotti, davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Oggi infatti era il giorno dell'Audizione del fondatore di Libera da parte dell'organismo presieduto da Rosy Bindi. Le parole di Maresca risuonano anche più forti in questi giorni nei quali è alta l'attenzione sul mondo dell'antimafia che ha scosso il tribunale di Palermo con il "caso Saguto". "Le dichiarazioni di questo magistrato sono sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese", aggiunge don Ciotti. Che poi ricorda che "per la gestione dei beni confiscati Libera non riceve contributi pubblici, le associazioni ricevono in gestione i beni, Libera non riceve alcun bene. Libera promuove, agisce soprattutto sulla formazione. Sono pochissimi i beni assegnati a Libera, che gestisce solo 6 strutture, di cui una a Roma e una a Catania, su 1600 associazioni che la compongono. È in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna". Il fondatore di Libera ammette tuttavia che "il tema dell'infiltrazione è reale: le nostre rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni complesse. Altri problemi vengono dalle cooperative: abbiamo scoperto che alcune situazioni erano mutate, siamo dovuti intervenire. Qualche tentativo di infiltrazione c'è ed è trasversale a molte realtà italiane. Abbiamo allontanato il consorzio Libero Mediterraneo e realtà che non avevano più i requisiti e queste gettano il fango". "Le trappole dell'antimafia sono davanti ai nostri occhi, mai come oggi. Si deve eliminare anche questa parola Antimafia, che è un fatto di coscienza", conclude Ciotti, che respinge anche le accuse di non aver tenuto gli occhi aperti su Roma: "ricordo che nel 2011, alla riapertura del Caffè de Paris, sequestrato a clan calabresi, Libera lanciò l'allarme sulle infiltrazioni mafiose nell'economia della Capitale e prima dello scoppiare dell'inchiesta su Mafia Capitale, a Corviale, denunciammo ancora questa presenza". Solidarietà a don Ciotti e a Libera è arrivata da Rosy Bindi che ha giudicato le parole del magistrato "gratuite e infondate", dal vicepresidente della Commissione Claudio Fava (Si), che ha parlato di "affermazioni calunniose e ingenerose", dal capogruppo del Pd Franco Mirabelli, che ha sottolineato tuttavia come "serva oggi un ripensamento dell'antimafia" e del Pd Davide Mattiello, che ha espresso "sconcerto per le parole del pm, salvo smentite e chiarimenti". Maresca, 43 anni e da 11 magistrato della Direzione nazionale antimafia di Napoli, è impegnato in prima linea nella lotta ai clan della camorra. Nell'intervista a Panorama aggiunge che "oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli 'estremisti dell’antimafia', i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". Il magistrato insiste: "Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento dire che 'si deve fare sempre così'". E conclude affidando a Panorama questo duro giudizio: "Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

A volte l'antimafia sembra mafia. È Il pensiero di Catello Maresca, magistrato antimafia a Napoli che ha accusato Libera: "Sono contrario a come gestisce i beni sequestrati alle mafie", scrive il 18 gennaio 2016 Carmelo Caruso su "Panorama". In quest'intervista, pubblicata sul numero di Panorama in edicola dal 14 gennaio, il magistrato Catello Maresca punta il dito contro un certo tipo di antimafia e contro Libera, l'associazione fondata da Don Ciotti che gestisce i beni sequestrati alle mafie "in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale". Le sue dichiarazioni hanno suscitato lo sdegno di Don Ciotti che ha risposto alle accuse. Ecco l'integrale dell'intervista.

Dice che i bunker lo tormentino.

"Da magistrato ho passato 10 anni a studiare quello di Michele Zagaria".

Il padrino di “Gomorra”?

"Non solo un padrino. La sua biografia criminale è l’autobiografia di un popolo e di un territorio". Le piace studiare il sottosuolo? "Mi piace perché tutta la mafia è un mondo capovolto. I mafiosi abitano sottoterra, parlano con il sottotesto, utilizzano un soprannome. La mafia si nasconde e si maschera nell’opposto".

È l’antimafia l’ultimo travestimento della mafia? 

"È stata ed è la più eccezionale via di fuga che la mafia ha escogitato per celarsi".

È più pericolosa la mafia di sotto o l’antimafia di sopra?

"Oggi per combattere la mafia è necessario smascherare gli “estremisti dell’antimafia”, i monopolisti di valori, le false cooperative con il bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Registro e osservo che associazioni nate per combattere la mafia hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose loro stesse". 

Parla di “Libera”, l’associazione fondata da Don Ciotti? 

"Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è autoattribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione e la ritengo pericolosa".

A Napoli, Catello Maresca, magistrato della direzione nazionale antimafia, ha ereditato la stanza dell’uomo più invocato e affaccendato d’Italia quel Raffaele Cantone oggi presidente dell’Anac.

"E non ho ereditato solo la stanza ma anche i fascicoli, i quadri e la sua assistente".

Come si chiama?

"Rosaria. Un esempio di pazienza e laboriosità".

Maresca assomiglia alle sue indagini che sono lente ma solide e non improvvise ma deboli. Con metodo che lui chiama scientifico ha catturato i gangster di Casal di Principe, i “Tony Montana” che canta il neomelodico Nello Liberti: "O capoclan è n’omm serio, che è cattivo nun è o ver".

Dove ha iniziato? "A Torre Annunziata. Mi occupavo di crimini finanziari".

Figlio di magistrati?

"Maestri elementari entrambi, vengo dalla provincia e mi piace ritornarci".

Maresca ha quarantatre anni e da undici è magistrato della direzione antimafia di Napoli, "una città che muore di doppiezza". Come i dati che immagazzina e assembla, Maresca si lascia crescere una barba fiamminga e dura che non taglia, "per un principio d’economia temporale" dice, ma anche per trattenere le idee e le parole che infatti sulla barba si fermano e non scivolano.

Chi è stato il suo maestro?

"Franco Roberti, un magistrato eccellente e oggi procuratore nazionale antimafia".

È ancora credibile l’antimafia dopo lo scandalo di Palermo dove a essere indagato dalla procura di Caltanissetta per induzione, corruzione, abuso d’ufficio è l’ex presidente della sezione misure di prevenzione, il giudice Silvana Saguto?

"L’antimafia è stato un fenomeno volontaristico. Credo a quella delle origini ma non credo a quella che si ostenta e che si è fatta impresa".

Per Giapeto editore, Maresca ha pubblicato “Male Capitale”, un libro che grazie alle foto di Nicola Baldieri non è solo un documento antropologico, i “tristi tropici” della camorra e delle sue tane, ma anche un campionario di non luoghi, il catalogo dei beni confiscati e inceneriti dalla cattiva procedura. Maresca stila un piccolo elenco campano: l’ex convento dei Cappellini Avella, l’hotel Zagarella, la villa di Walter Schiavone, la Calcestruzzi Po.li, l’azienda agricola La Malsana, gli autocompattatori della Eco Quattro.

"E poi ci sarebbe l’azienda Bufalina, un gioiello che venduto sarebbe stato non solo un simbolo di vittoria da parte dello Stato, ma anche un pezzo d’identità restituito alla Campania".

Le imprese sequestrate ai mafiosi si devono vendere?

"Vendere, vendere, vendere. Mi chiedo che fini sociali possa avere un capannone industriale. Oggi il tabù dell’antimafia è la parola vendita. Una volta sequestrati i beni, bisogna individuare quelli riutilizzabili per fini sociali. Dove possibile si possono costruire caserme ad esempio. Ma tutto il resto è da alienare".

Anche Maresca conosce i numeri del fallimento che hanno accompagnato la gestione dei beni sequestrati: 11 mila immobili, 2000 imprese, 90 per cento è il parametro delle aziende estinte.

"Il ciclo di vita è sempre lo stesso. Prima li divorano gli amministratori giudiziari poi le carcasse vengono divise dai tribunali fallimentari".

Non sono i magistrati a decidere la loro sorte?

"E io infatti rispondo che i magistrati non possiedono quella expertise necessaria per svolgere questo compito. Non è un caso che la gestione concreta sia poi appaltata alle associazioni".

Da “cosa nostra” a “cosa loro”?

"Purtroppo queste associazioni hanno esasperato il sistema. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti. Vedo insomma l’estremismo dei settaristi e non di un’associazione ogni qual volta sento “che si deve fare sempre così”.

Don Ciotti ha scomunicato e cacciato il figlio di Pio La Torre, Franco, per lesa maestà proprio per le stesse critiche.

"Sarò malpensante ma i malpensanti sono a volte ottimisti che non hanno fretta. Libera ha monopolizzato la gestione dei beni sequestrati alle mafie".

E però, Libera dice di non avere mai gestito beni...

"Libera li gestisce attraverso cooperative che non sempre sono affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale".

Maresca smonta anche il pregiudizio della mafia come destino, la convinzione che il suo influsso si riproduca e ritorni come la maschera sith di Dart Vader in Star Wars.

"Sinceramente trovo risibile la ragione per cui Libera si oppone alla vendita. Si dice: “I beni ritornano ai mafiosi”. Io rispondo che sono contento due volte perché lo Stato li sequestrerebbe due volte e ci guadagnerebbe il doppio. La verità è che uno Stato può, anzi, deve riuscire a controllare la vendita di un bene sequestrato. Da uomo delle istituzioni non posso pensare che lo Stato non sia nelle condizioni di farlo. È un’idea d’impotenza".

Il nuovo codice antimafia non le piace?

"Ripeto, rimane ancora tabù la parola vendita e farraginosa la gestione. Eppure un esempio virtuoso ce lo abbiamo già. È l’Anac guidata da Cantone".

Non crede che Cantone non sia più un magistrato ma un oracolo?

"Essere bravi non è una colpa diverso è quando i mediocri salgano sulle spalle dei bravi appesantendoli. Perchè non fare dell’Agenzia dei Beni confiscati una sorta di Anac?"

È il suo emendamento al nuovo codice?

"Non basterebbe solo questa modifica. Quanti beni vengono sottratti ma tenuti in bilico tra la confisca e la restituzione? Inoltre esistono termini precisi per quanto riguarda il sequestro preventivo, ma non per quello penale che si può trascinare per anni".

Maresca si muove sotto scorta sin da prima che con la semantica vigliacca, il macellaio Cesare Setola lo abbia avvisato "che tutti tengono famiglia". Il capo della camorra, Michele Zagaria, guardando la fronte alta e le guance ferme di Maresca ha detto: "Stimo il dottor Maresca. Perché voi fate un mestiere, io me ne sono scelto un altro".

Anche questo riconoscimento nasconde l’avvertimento ambiguo?

"È possibile. Di certo da magistrato ho rispettato gli avversari. Non credo nella faccia feroce del pm. Sarò ancora eretico, ma per sconfiggere le mafie e la corruzione penso che non serva inasprire le pene e neppure aumentare il termine della prescrizione. Bisogna smontare questo sistema infetto di valori, la corruzione come patrimonio trasmissivo". Ma la corruzione non è anche il vizio dello strapotere dell’uomo di legge, dei giudici? "Accade. Bisogna attendere e illuminare le ombre".

Il caso Saguto a Palermo, il caso Scognamiglio a Napoli …c’è il sottosuolo anche nella magistratura?

"Di certo viene fuori un mondo opaco. Eppure voglio ricordare che tutti i casi di corruttela che hanno riguardato giudici sono stati svelati da altri giudici. La magistratura possiede ancora gli anticorpi". Quando si ammala la magistratura? "Quando un magistrato perde l’equilibrio e sopravvaluta la sua funzione. Quando invece di farsi rapire dall’enigma della giustizia un giudice è chiamato ad amministrare patrimoni da milioni di euro. Quando la giustizia diventa l’angoscia del bunker e smette d’essere luce a mezzogiorno".

Cantone: "Per i beni confiscati alle mafie servono trasparenza e concorrenza". Il presidente dell'Anticorruzione, su "Panorama", spiega perché Libera "è diventata un brand di cui qualche speculatore potrebbe volersi appropriare", scrive "Panorama" il 20 gennaio 2016. "C’è chi usa l’antimafia, e va smascherato". Si esprime così Raffaele Cantone, oggi presidente dell’Autorità anticorruzione e dal 1999 al 2007 magistrato anticamorra attivo a Napoli, in una lunga intervista che il settimanale Panorama pubblica nel numero in edicola da domani, giovedì 21 gennaio. Cantone parla dell’opaca gestione dei beni confiscati e della durissima denuncia che sulla materia aveva lanciato attraverso Panorama Catello Maresca, il magistrato che di Cantone è stato diretto successore nella Procura di Napoli, suscitando la sdegnata reazione (e un annuncio di querela) da parte di don Luigi Ciotti, fondatore di Libera. Proprio su Libera, Cantone dice a Panorama: "È un’associazione che ha fatto battaglie fondamentali in questo Paese. Le va riconosciuto il merito di aver compreso quanto fosse utile per la lotta alla mafia l’impegno dei cittadini, e sta provando a fare la stessa cosa anche sul fronte della corruzione, cosa di cui le siamo grati. Certo, Libera è cresciuta tantissimo ed è diventata sempre più nota e visibile; è diventata anche un 'brand' di cui in qualche caso qualche speculatore potrebbe volersi appropriare per ragioni non necessariamente nobili. Credo che questo possa essersi in qualche caso anche verificato". Quanto al "caso Saguto", con l’inchiesta che a Palermo ha scoperchiato un sistema apparentemente deviato nella gestione dei beni sottratti alla mafia, Cantone dichiara a Panorama: "Il caso Saguto attende le verifiche giudiziarie, ma lo spaccato che emerge può essere valutato a prescindere dagli aspetti penali ed è decisamente inquietante. Ho sempre pensato che i giudici debbano tenersi lontano dalle gestioni economiche, soprattutto quando passano incarichi lucrosi e discrezionali a professionisti con cui si rischia di creare rapporti personali oltre che professionali".

Nessun monopolio, per allargare il fronte di chi combatte i clan. E bisogna consentire di vendere i beni sequestrati. Dopo l’inchiesta sui giudici di Palermo e le polemiche interne a Libera, interviene Giuseppe Di Lello, il magistrato del pool di Falcone e Borsellino, scrive il 21 gennaio 2016 “L'Espresso”. Le polemiche nell'antimafia dell'ultimo anno, le inchieste giudiziarie che hanno coinvolto magistrati che si occupavano a Palermo del sequestro dei beni ai mafiosi, e lo scontro interno a Libera, sono i punti che affronta Peppino Di Lello, ex magistrato dello storico pool antimafia di Caponnetto, Falcone e Borsellino, in un intervento scritto per l'Espresso che sarà pubblicato nel numero in edicola da venerdì 22 gennaio 2016. Di Lello affronta il problema dei beni sequestrati e ne propone la vendita: «Qualche rimedio sarebbe utile, rimanendo sul terreno della concretezza. Molti immobili inutilizzati o inutilizzabili, e che comunque rimangono sotto amministrazione giudiziaria procurando solo oneri per lo Stato, andrebbero alienati. Si obietta che tornerebbero ai mafiosi, ma si dimentica che per riacquistarli questi dovrebbero pagarli e quelle somme potrebbero essere utilizzate dalle amministrazioni locali per gestire altri beni destinati ad usi sociali. In più, il bene riacquistato, dato l’affinamento dei mezzi di indagini patrimoniali, potrebbe essere di nuovo sequestrato e confiscato». L'ex magistrato antimafia che ha lavorato con Falcone e Borsellino, facendo riferimento all'inchiesta che ha coinvolto il presidente del tribunale misure di prevenzione, Silvana Saguto, scrive: «Il “caso Palermo” ha fatto emergere il problema degli incarichi agli amministratori giudiziari, assegnati quasi dappertutto con una inconcepibile discrezionalità: trasparenza e obiettività possono essere realizzate solo con una legge ad hoc. Ancor più difficile sarà applicare questi principi di buona amministrazione nell’assegnazione dei beni confiscati». Di Lello poi punta sulle associazioni antimafia: «Nella giungla delle tante sigle si sono inserite persino associazioni e cooperative costituite da soggetti mafiosi e quindi sono necessarie serie riflessioni. Il “disagio” di Franco La Torre (figlio di Pio, il segretario regionale del Pci ucciso dalla mafia a Palermo nel 1982 ndr) ed altri sul ruolo di Libera, per esempio, non va demonizzato ma analizzato e verificato. Libera ha avuto ed ha grandi meriti nel campo dell’antimafia ma bisogna capire che il pericolo di monopoli o oligopoli nelle assegnazioni va contrastato, non “contro” qualcuno, ma proprio per far crescere ed allargare il fronte antimafia».

Soffiate, call Center e anonimi: viaggio nel covo di Cantone, scrive Antonello Caporale. Il ministero dell’Onestà dista un alito dalla Fontana di Trevi e solo cento passi da Palazzo Chigi. Il padrone di casa è Raffaele Cantone, personalità il cui potere avanza come le quotazioni dell’oro in tempi di crisi. Ogni giorno un po’ di più. Cantone infatti non è un magistrato ma un metallo prezioso, insieme diga anticorruzione e tutor del corso collettivo sulla moralità pubblica. Scrutatore delle coscienze sporche, selezionatore delle pratiche migliori, dei buoni propositi e delle buone persone. Tutti lo vogliono, lo cercano e, se del caso, lo annunciano. Non è solo Matteo Renzi a utilizzarlo un po’ come le casalinghe fanno con Mister Muscle, il detersivo che spurga in cinque minuti. Expo, Giubileo, Mafia Capitale, l’arbitrato per gestire il rimborso dei clienti truffati dalle banche fallite. A una grana di rilevante entità nazionale segue la convocazione di Cantone che perciò a volte sembra, immaginiamo persino contro la propria volontà, il dodicesimo giocatore della squadra di governo in campo. Col tempo, e dal momento che deviare verso di lui produce profitti, un po’ tutti aspirano a una carezza cantoniana. È esploso il caso Quarto? Ecco Cantone. E Beppe Sala, il mister Expo candidato alla carica di sindaco di Milano, ha già annunciato che con Cantone sicuramente farà un patto, stringerà ancor di più l’amicizia fattiva e gli chiederà un occhio supervigile sui costumi meneghini, sottintendendo che lui può permetterselo ma gli altri candidati? Al palazzo di questo speciale ministero che è l’Autorità nazionale anticorruzione si accede dominati dalle decorazioni liberty della galleria Sciarra, ricca di partiture architettoniche, dipinta da Giuseppe Cellini. Palazzo sontuoso e imperiale come l’inquilino che lo ospita (la sua scrivania è un Luigi XVI niente male). Qui giungono le perorazioni dell’Italia onesta, le denunce, a volte le illusioni o le delazioni di un popolo che il nostro sente “iconoclasta, votato spesso al nichilismo. Sa quanti anonimi arrivano?”. Dottor Cantone, è l’Italia del rancore che bussa alla porta? “Credo proprio di sì. Ma la nostra dev’essere una casa di vetro, si accomodi pure”. Cinque piani di trasparenza, al quinto eccoci alla sala delle riunioni. “Sono stato nominato il 24 aprile 2014 e devo dire che la macchina ha iniziato a funzionare presto e bene”. L’organico prevede 350 tra funzionari e impiegati, un numero prossimo a essere raggiunto. Sono 302 gli effettivi, naturalmente divisi in sezioni. “La nostra missione è prevenire la corruzione, anticipare le mosse, contestare e, soprattutto, suggerire buone pratiche. Il nostro più grande potere è la moral suasion, la forza di questa Autorità è la sua reputazione. L’autorevolezza conta di più di ogni norma e devo dire che i frutti che si stanno avendo non sono modesti”. Giuristi di impresa, architetti, esperti di appalti, finanzieri. “Nel primo anno abbiamo “lavorato” 120.828 atti, una enormità. Rappresenta la somma delle denunce, degli esposti, delle deduzioni e controdeduzioni, è il risultato di un lavoro meticoloso, puntiglioso. Nell’anno 2015 il numero è lievitato a 151.988. Chi denuncia? “Purtroppo molti sono anonimi, noi approfondiamo laddove avvertiamo segnalazioni circostanziate di fatti evidentemente rilevanti. Facciamo una cernita e teniamo conto. Devo dirle però che la gran parte degli anonimi esala un sentimento purtroppo comune di noi italiani: in premessa la fanfara di grandi ruberie poi stringi stringi e arrivi alla miseria del furto dell’energia elettrica”. Chiunque scriva, email o lettere, sappia che c’è un ufficio protocollo occupato da una decina di impiegati. Stanze larghe e comode come altrove non è. La capo ufficio: “Leggiamo e smistiamo per competenza. Ci dividiamo in turni”. Si smista alle sezioni e da lì si avanza. Se viene ritenuta utile e documentata la segnalazione parte il servizio ispettivo. “Controlliamo l’appalto e teniamo un lumino acceso anche in corso d’opera”, dice Angela Di Gioia, segretario generale. Il baco della corruzione ha un concepimento seriale e uno sviluppo tipico. Tardano i lavori, s’interrompono spesso, si chiede l’aggiornamento prezzi, si autorizza la variante. O ancora: si affida l’appalto producendo un progetto esecutivo finto cosicché i lavori avanzino a vista e possano deviare. Al primo piano di palazzo Sciarra fa ingresso il malcostume italico che poi viene distribuito per piano. Più sale e più acuta è la rimostranza, grave il danno alle casse pubbliche. Ai trecento militi dell’onestà si aggiungono cinquanta lavoratori di uno speciale call center che gestisce via telefono le procedure corrette. Telefonano dalle amministrazioni centrali e locali. Telefonano i funzionari e telefonano le imprese. Un grande via vai di parole a leggere i dati sul numero dei contatti. Nel 2014 risultano 432 mila telefonate, nel 2015 già lievitate a 682 mila. Cantone riceve un compenso di 180mila euro l’anno, i quattro consiglieri (un magistrato e tre professori universitari) 150mila. Il presidente ha fatto il conto, visti i tempi, pure degli scontrini. Le differenze con Renzi si notano. Il premier, quand’era presidente della Provincia di Firenze, riuscì nell’impresa di far fuori quasi un milione di euro. Cantone mangia e beve di meno e non ha avuto finora bisogno del letto a cinque stelle. Nel 2014 per vitto e alloggio ha speso 1.065 euro. Da: Il Fatto Quotidiano, 15 gennaio 2016.

Mafiosi si nasce o si diventa? Quei minori tolti a mamma mafia. Sono 30 i minori sottratti per decisione dei tribunali alle famiglie della ’ndrangheta e affidati a coppie o comunità. Per i boss l’affronto peggiore. Perché così si spezza la trasmissione della cultura criminale, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso" del 13 gennaio 2016. «Dite al Dottore che i figli non si toccano». Per un boss la famiglia conta più dei soldi e del potere. Perché figli, nipoti e mogli, garantiscono la continuità dell’impero. Per questo il capo dei capi di Reggio Calabria, Giuseppe De Stefano, ha reagito in malo modo quando il pm Giuseppe Lombardo ha chiesto al tribunale d e i minorenni di far decadere la patria potestà sui piccoli eredi. Un colpo durissimo per il padrino dello Stretto che ha sempre reagito a processi, sequestri di beni e latitanze, con un sorriso beffardo. L’affronto, senza precedenti, aveva aperto una crepa profonda in quel monolite criminale che da 40 anni dominava l’intera città. Educare la prole a un avvenire da mafioso può avere conseguenze pesanti: l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare. È questo il nuovo fronte della lotta alla ’ndrangheta. Nell’ultimo anno si sono moltiplicati i provvedimenti di questo tipo e sempre più casi sono finiti sotto la lente degli inquirenti. Il tribunale dei minorenni di Reggio Calabria è l’unico ad avere intrapreso la strada dell’allontanamento dai genitori mafiosi. Finora sono 30 i minori sottratti alle cosche e affidati a famiglie o comunità del Nord. Dalle informazioni di cui è venuto a conoscenza “l’Espresso”, il numero è destinato a crescere. I figli dei boss sottratti per legge alle famiglie, in questo modo non saranno più costretti a impugnare pistole, ad avere “confidenza” con la droga e così potranno giocare e studiare come tutti i ragazzi. Il più piccolo ha 12 anni, ma la maggior parte è nel pieno dell’adolescenza. «È una misura che non si applica mai in maniera leggera», spiega il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, che aggiunge: «Chi la critica sostiene che è una intromissione intollerabile nell’ambito familiare. Però dobbiamo capire una cosa: il clan mafioso impartisce ai suoi rampolli regole opposte a quelle naturali». Così, per esempio, se per la giovane B. il codice della ’ndrina prevedeva una vita di segregazione e silenzio, l’intervento dei giudici le ha permesso di realizzare il suo sogno: disegnare abiti. Da qualche mese la ragazza, figlia di un boss della provincia reggina, vive fuori regione, in una località sconosciuta, dove è finalmente libera di seguire la sua passione. Il procuratore, poi, ragiona su un fatto acclarato: «Ci troviamo di fronte a sedicenni che si comportano già da capi. Hanno entrambi i genitori in galera o latitanti. Lasciamo che le figure adulte continuino ad addestrarli al crimine? Più tardi si interviene più difficile è il cambiamento». Il legame di sangue in questa organizzazione non ha eguali nel mondo della criminalità. E in effetti ad ascoltare le intercettazioni registrate negli ambienti di casa ’ndrangheta, l’impressione è che il destino di molti bambini sia segnato per sempre. «Spara!». Il padre ordina, il figlio esegue. Ha solo 7 anni, ma deve già impugnare la pistola d’ordinanza. L’arte della ’ndrina si apprende tra le mura domestiche. In un’altra casa, le cimici hanno catturato in diretta una lezione di mafia: il patriarca spiegava all’erede al trono, ormai sulla soglia della maggiore età, il significato dei diversi gradi della gerarchia criminale. Ma ci sono anche ragazzini che, ai piedi dell’Aspromonte, saltano la teoria per apprendere direttamente sul campo. Come a San Luca, cuore delle tradizioni dell’onorata società, dove durante l’ultima faida i più giovani sono stati istruiti su come proteggere le abitazioni delle famiglie da incursioni nemiche durante le faide. Nel processo Fehida, che ha visto alla sbarra i carnefici della strage di Duisburg del Ferragosto 2007, c’erano anche alcuni minorenni accusati di associazione mafiosa e concorso esterno. Crescono così i figli d’onore, fanciulli di ’ndrangheta, costretti a immergersi nelle profondità più estreme dell’oceano criminale da cui spesso non riemergono più. E se ci riescono, lo fanno da cadaveri o ricompaiono, da adulti, nelle celle del 41 bis. Intere dinastie sono state falcidiate nelle guerre: in soli quindici anni, per esempio, la ’ndrina Dragone della provincia di Crotone ha perso il capo e i suoi due figli maschi. Secondo gli ultimi dati del ministero, aggiornati a ottobre 2015, in Calabria sono sei i minorenni accusati di associazione mafiosa. Addestrati da padri-padrini per i quali uccidere, morire o andare in galera, sono tappe di una carriera obbligata. La stessa che hanno scelto per i loro pargoli ancora in fasce. La «smuzzunata» è il battesimo da ’ndranghetista dei bimbi appena nati. È un diritto e un privilegio che spetta solo ai figli dei boss. Un marchio che trova legittimità in un codice parallelo, ancestrale e non scritto. Che trasforma la famiglia naturale in ’ndrina, nucleo fondante della mafia calabrese. «Quando la moglie di uno ’ndranghetista di grado elevato mette al mondo un figlio maschio, quest’ultimo viene battezzato nelle fasce con la “smuzzunata” e, per il rispetto goduto dal genitore, entra a far parte dell’associazione sin dai primi giorni di vita. Percorrerà così tutta la gerarchia mafiosa». Giuseppe Scriva, è il pentito che a metà anni ’80 ha sviscerato i segreti della più potente tra le mafie moderne. E sono proprio queste regole, tra mistero e leggenda, che hanno garantito ai clan calabresi continuità generazionale. Le nuove leve, i figli e nipoti degli anziani padrini, hanno lanciato la ’ndrangheta nel mercato della modernità, mantenendo intatto, però, il dna arcaico. Sono giovani che investono milioni di euro a Roma come a Toronto, ma legati indissolubilmente alle antiche regole della “famiglia”. Negli ultimi vent’anni il tribunale dei minorenni di Reggio ha celebrato cento processi per reati di mafia. Gli imputati erano rampolli non ancora diciottenni delle cosche più blasonate. Giovanissimi ma con un curriculum da malavitosi esperti. Le condanne non hanno, però, frenato la loro ascesa criminale. Così a distanza di tempo c’è chi è rinchiuso al carcere duro, chi, invece, è stato ucciso e chi ha conquistato il vertice. Negli stessi vent’anni l’ufficio, ora diretto dal presidente Roberto Di Bella, ha giudicato anche una cinquantina di casi di omicidio. «Il dato impressionante è che abbiamo di fronte una generazione che potevamo salvare e che invece abbiamo abbandonato», ragiona Di Bella, che dal suo insediamento ha dato vita a un protocollo unico in Italia. È convinto che il documento firmato con procura dei minori, antimafia e servizi sociali può davvero salvare molte vite dalla morte e dal carcere. «Ci troviamo davanti ai figli e ai fratelli di persone processate negli anni ’90. Questo ci fa pensare che la ’ndrangheta si eredita», racconta nel suo piccolo ufficio-trincea. L’anno della svolta è il 2012: «Da allora stiamo intervenendo con provvedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale e il conseguente allontanamento dei figli minori dal nucleo familiare. L’obiettivo è interrompere la trasmissione culturale». Una misura estrema. Che ha sollevato molte critiche, anche da parte della chiesa. È convinto che sia la strada giusta don Pino De Masi, vicario della diocesi di Oppido-Palmi e referente di Libera nel territorio caldissimo della piana di Gioia Tauro. «Dobbiamo mettere questi ragazzi nelle condizioni di scegliere un’alternativa che non sia l’interesse della cosca», è netto De Masi. «Nella mia parrocchia vengono anche i rampolli, qualcuno timidamente mi dice che il cognome che porta gli pesa. Sta a noi aiutarli a fare il passo successivo», spiega il parroco. Il fronte degli scettici, invece, ha azzardato persino un paragone: «Dalla confisca dei beni a quella dei figli». L’intervento del tribunale però non è indiscriminato. Il “salvataggio” scatta solo quando gli inquirenti entrano in possesso di notizie sull’educazione mafiosa impartita ai figli. Informazioni che i pm girano al tribunale e alla procura dei minorenni. Solo a quel punto si mette in moto il meccanismo che potrebbe portare all’allontanamento. Lezioni di mafia, minori incaricati di custodire armi e droga, ragazzini obbligati a dimostrare quanto valgono con azioni di fuoco, sono tutti segnali che allertano gli uffici giudiziari. Non sono escluse dall’indottrinamento neppure le giovani donne. Abituate a ubbidire agli ordini fin da piccole: subiscono tutto questo, si trincerano dietro il silenzio e spesso sono costrette ad accettare matrimoni che uniscono due potentati criminali. I primi giorni dopo l’allontanamento sono i più difficili. Chi conosce i casi racconta di incubi che angosciano le notti dei bambini. Sono pensieri di morte, con simboli ben precisi: bare, sangue, violenza. I brutali insegnamenti riaffiorano nella nuova vita distante dai papà-boss. Il tribunale si occupa anche dei minori colpevoli di un reato e messi alla prova come alternativa al carcere. Vengono affidati a comunità ma restano in Calabria. Continuano così a frequentare l’ambiente di provenienza. La maggior parte respira cultura mafiosa da quando è nato. Una mentalità che distorce il rapporto con le istituzioni: «Ricordo un ragazzo, ospite di una comunità, con i tatuaggi di un carabiniere sotto la pianta del piede, così da calpestare la divisa a ogni passo, e il giuramento della ’ndrangheta sul cuore», racconta un operatore sociale. A volte per ribellarsi all’omertà è sufficiente percepire la presenza dello Stato. Come spiegare altrimenti il gesto di quel gruppo di mamme che ha chiesto aiuto al presidente Di Bella. Chiedono di essere portate via insieme ai figli. Lontano dai mariti. È una piccola rivoluzione in corso. L’avanguardia è fatta da una decina di madri che hanno deciso di chiedere aiuto al tribunale e di collaborare. «È un fenomeno del tutto nuovo. Queste signore hanno esperienze terribili alle spalle, quindi vuol dire che i nostri provvedimenti stimolano a reagire. E c’è anche un lieto fine perché molti dei casi trattati, inviati al nord, non vogliono più tornare nei paesi d’origine», aggiunge il presidente. Non sempre però il finale è dei migliori. I figli di Maria Concetta Cacciola - la pentita che la famiglia ha spinto al suicidio per aver scelto di andare via da Rosarno per collaborare con la giustizia - sono tornati nel paese degli zii. Nel frattempo il padre che teneva segregata in casa Maria Concetta è tornato in libertà. Gli educatori che lavorano con i due adolescenti sono amareggiati, perché in quel contesto l’esempio esplosivo di ribellione della loro mamma è stato depotenziato. «Il figlio maschio è come se avesse rimosso la vicenda, è intriso purtroppo di quella mentalità che sua madre ha messo sotto accusa», racconta una fonte. Un’occasione di riscatto persa. Al civico 404 del corso principale di Reggio Calabria c’è un piccolo ufficio che segue la gran parte dei casi di allontanamento. Attualmente i ragazzi affidati a questa squadra sono dieci. Provengono tutti da cosche affermate nel panorama criminale. «Interveniamo immediatamente dopo la decisione del tribunale», spiega la dirigente Giuseppa Maria Garreffa, che specifica: «Alla base di ogni allontanamento c’è sempre un procedimento nei confronti dei genitori». In queste stanze si lavora ininterrottamente. «Siamo sovraccarichi», sospira Garreffa, «ma resistiamo». Finché questi giovani seguono il percorso studiato dal team del ministero tutto sembra andare per il meglio. Poi, quando compiono 18 anni, sono liberi di tornare nel paese in cui sono nati. E una volta rientrati il cognome pesa ancora come un tempo. «Il contesto in cui tornano è spesso decisivo. Vengono accolti, “rieducati”, indottrinati. Non dimenticherò mai quando un ragazzo ci disse: “grazie per quello che fate, ma io devo... non posso scegliere”. Ecco, il dovere di seguire le orme dei padri è la vera condanna di questa terra». Come in “Onora il padre” di Gay Talese, il passaggio di consegne tra padre e figlio è un automatismo che imprigiona i più giovani. Il figlio del boss, per i compaesani, è sempre il figlio del boss. E va riverito. Un meccanismo che molto spesso vanifica i risultati ottenuti lontano dell’ambiente familiare. È un investigatore a raccontarci una scena che ricorda il Padrino di Francis Ford Coppola: «In un paesone arroccato nell’Aspromonte, al termine del funerale dell’anziano del clan si è formata la fila per salutare con grande rispetto il capomafia e il suo bambino, prossimo erede, che per l’occasione aveva fatto ritorno a casa dalla struttura dei servizi sociali». Il passaggio è devastante: da un luogo e una scuola in cui amici e compagni li considerano semplici coetanei con cui giocare o fare i compiti, a una realtà in cui l’etichetta di provenienza esercita ancora fascino sugli altri. «Se i servizi sociali sono inadeguati, se non c’è lavoro, se manca il diritto alla mobilità, come possiamo pensare di lottare contro una multinazionale del crimine che offre denaro e successo immediato ai giovani?», conclude Garreffa. «Gli sforzi devono concentrarsi sul concedere, una volta finito il percorso di allontanamento, delle opportunità legali a questi giovani. Altrimenti si torna al punto di partenza», ragiona Di Bella. Una soluzione la propone il pm Lombardo, il primo ad aver intrapreso, nel 2008, la strada del distacco forzato: «Prima di arrivare alla misura estrema della revoca, si potrebbe immaginare un modello misto, flessibile. Con percorsi di sostegno ai genitori che, però, devono dimostrarsi volonterosi e pronti a tagliare con il passato». S. ha un cognome ingombrante. Nella Locride molti tremano solo a sentirlo pronunciare. Il suo sguardo però non è arrogante. Sorride spesso, preferisce parlare in dialetto, anche se con l’italiano se la cava abbastanza bene. Ha compiuto 18 anni da poco, e invece di dedicarsi allo studio e al divertimento, ragiona già da manager navigato: «Ormai in questa terra non si può più investire denaro», sussurra. Fa il cassiere nell’hotel di famiglia, dissequestrato da poco. Guadagna 1.600 euro al mese. Non male per un ragazzo così giovane, in una provincia, Reggio Calabria, ultima per qualità della vita secondo la classifica del “Sole 24 Ore”, che comprende tra gli indicatori il tenore di vita e l’occupazione. Incontriamo S. in una saletta del centro don Milani, un punto di riferimento per gli adolescenti di Gioiosa Marina e Gioiosa Ionica. Comuni attaccati, con due sindaci e due giunte differenti. Nella piazza di Gioiosa Ionica c’è un murale dedicato a Rocco Gatto: il mugnaio comunista ucciso dalla ’ndrine del paese per non essersi piegato alle loro richieste. È il simbolo dimenticato della Locride anti ’ndrangheta. Il suo omicidio doveva servire da monito per tutto il neonato movimento antimafia. All’inizio di dicembre, invece, il nuovo e giovane sindaco, Salvatore Fuda, è stato minacciato con alcuni colpi di pistola sparati sulla fiancata dell’auto. La violenza è il ponte che lega il passato e il presente di questi luoghi. S. è cresciuto a Gioiosa. Si presenta all’appuntamento ben vestito, il suo abbigliamento è tutto firmato. L’orologio costoso di metallo nero al polso destro, il bracciale d’argento in quello sinistro. S. sogna di trasferirsi in Canada, dagli zii. Per il momento si divide tra la cassa dell’albergo e il commercio di olio in società con il fratello. È finito al don Milani per tre bravate, l’ultima è guida senza patente: «Guidavo una moto 125, che sarà mai?», sorride. Il tribunale gli ha concesso la messa alla prova, che prevede un percorso di volontariato. Il responsabile del centro è Francesco Riggitano e tutto il tempo che ha disposizione lo dedica ai ragazzi di questi paesi della Locride. «Ci sono famiglie mafiose storiche, importanti, nelle quali la trasmissione mafiosa è evidente. La nostra esperienza ci dice però una cosa: si incide più facilmente sulla manovalanza, su quei ragazzi le cui famiglie non sono criminali da generazioni. Diverse mamme di questi soldatini si sono rivolte a noi per toglierli dalla strada». Il centro è frequentato da tanti ragazzi. Una risorsa straordinaria in questo deserto della Locride. D’altronde crescere qui, o a Rosarno, o tra i boschi dell’Aspromonte, oppure nel quartiere Archi di Reggio Calabria, è una lotta quotidiana. Non ci sono cinema, teatri, polisportive. Sale giochi e strade abbandonate diventano gli unici spazi di aggregazione. Al Don Milani c’è anche una squadra di calcio, la Seles (acronimo di Scuola Etica e Libera di Educazione allo Sport), diventata un punto di riferimento per bambini e adolescenti. Gli allenamenti hanno strappato i giovani dalla strada. Simbolicamente è come aver dato un calcio alla ’ndrangheta. Per Riggitano e i suoi collaboratori non è tutto facile, anzi. «Su 42 comuni della Locride, solo il 30 per cento di questi ha assistenti sociali di ruolo», denuncia Francesco. Troppo pochi per svuotare le madrasse dei clan, che trasformano ragazzini senza possibilità in picciotti d’onore.

Non crescerai mafioso: i minori tolti alla mafia. Sparano, maneggiano la droga, interpretano il ruolo di piccoli boss. Per questo i giudici dei minorenni hanno deciso di allontanarli dalle famiglie di 'ndrangheta. Togliendoli ai padri-padrini per offrirgli un'alternativa alla vita scelta per loro dagli adulti, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso" del 14 gennaio 2016. C'è un nuovo fronte nella lotta alla 'ndrangheta aperto dai magistrati di Reggio Calabria. Qui, infatti, il tribunale dei minorenni è l’unico in Italia ad avere intrapreso la strada dell’allontanamento dai genitori mafiosi. Finora sono 30 i minori sottratti alle cosche e affidati a famiglie o comunità del Nord. Un numero destinato a crescere. I figli dei boss sottratti per legge alle famiglie in questo modo non saranno più costretti a impugnare pistole o ad avere “confidenza” con la droga e così potranno giocare e studiare come tutti i ragazzi. Il più piccolo ha 12 anni, ma la maggior parte è nel pieno dell’adolescenza. «È una misura che non si applica mai in maniera leggera», spiega a “l'Espresso” il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, che aggiunge: «Chi la critica sostiene che è una intromissione intollerabile nell’ambito familiare. Però dobbiamo capire una cosa: il clan mafioso impartisce ai suoi rampolli regole opposte a quelle naturali». Così, per esempio, se per la giovane B. il codice della ’ndrina prevedeva una vita di segregazione e silenzio, l’intervento dei giudici le ha permesso di realizzare il suo sogno: disegnare abiti. Da qualche mese la ragazza, figlia di un boss della provincia reggina, vive fuori regione, in una località sconosciuta, dove è finalmente libera di seguire la sua passione. Il procuratore, poi, ragiona su un fatto acclarato: «Ci troviamo di fronte a sedicenni che si comportano già da capi. Hanno entrambi i genitori in galera o latitanti. Lasciamo che le figure adulte continuino ad addestrarli al crimine? Più tardi si interviene più difficile è il cambiamento». E in effetti ad ascoltare le intercettazioni registrate negli ambienti di casa ’ndrangheta, l’impressione è che il destino di molti bambini sia segnato per sempre. Bambini che a sette anni sono costretti a sparare, ragazzi più grandi che assistono a lezioni di mafia impartite dai papà-boss oppure adolescenti trasformati in vedette durante le faide. Crescono così i figli d’onore. Senza una vera alternativa e senza possibilità di scegliere. Addestrati da padri-padrini per i quali uccidere, morire o andare in galera sono tappe di una carriera obbligata. La stessa che hanno scelto per i loro pargoli ancora in fasce. D'altronde la 'ndrangheta è fondata sulla famiglia: i legami di sangue hanno un valore enorme in questa organizzazione, più che in qualsiasi altra mafia. Tanto che esiste un rito, la «smuzzunata», per i bimbi appena nati. È Il battesimo da 'ndranghetista, un diritto che spetta solo ai figli dei capi. «Ci troviamo davanti ai figli e ai fratelli di persone processate negli anni Novanta. Questo ci fa pensare che la ’ndrangheta si eredita», racconta Roberto Di Bella, il presidente del tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, che ha creduto fortemente in questo protocollo. «Dal 2012 stiamo intervenendo con provvedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale e il conseguente allontanamento dei figli minori dal nucleo familiare. L’obiettivo è interrompere la trasmissione culturale». L’intervento del tribunale però non è indiscriminato. Il “salvataggio” scatta solo quando gli inquirenti entrano in possesso di notizie sull’educazione mafiosa impartita ai figli. Informazioni che i pm girano al tribunale e alla procura dei minorenni. Solo a quel punto si mette in moto il meccanismo che potrebbe portare all’allontanamento. Lezioni di mafia, minori incaricati di custodire armi e droga, ragazzini obbligati a dimostrare quanto valgono con azioni di fuoco, sono tutti segnali che allertano gli uffici giudiziari. Non sono escluse dall’indottrinamento neppure le giovani donne. Abituate a ubbidire agli ordini fin da piccole: subiscono tutto questo, si trincerano dietro il silenzio e spesso sono costrette ad accettare matrimoni che uniscono due potentati criminali. Gli interventi dei giudici stanno dando i primi risultati. Hanno stimolato la reazione di diverse donne. Che hanno deciso così di chiedere aiuto e di collaborare. La ribellione, quindi, è possibile. E questo gruppo di mamme lo dimostra: una decina di mogli di alcuni importanti padrini che hanno bussato alle porte del tribunale per collaborare. Lo fanno, dicono, per salvare i figli.

Pro e contro l'allontanamento forzato. Quattro opinioni (e quattro libri) prendono posizione sul distacco dei bambini dalle famiglie mafiose, scrive Angiola Codacci-Pisanelli su "L'Espresso" del 13 gennaio 2016. «Se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo». Sembrano parole inventate per giustificare i giudici calabresi che tolgono i figli a chi è condannato per mafia per dare a quei ragazzi un futuro lontano dalla delinquenza. Invece sono parole vere, dette da un giovane mafioso che per i suoi crimini sconterà 26 anni, continuerà a sognare di costruirsi una vita migliore e alla fine, sconfitto da una burocrazia ancora più impietosa dell’ergastolo “ostativo”, uscirà come il Miché di Fabrizio De André: «Adesso che lui s’è impiccato la porta gli devono aprir...». Siamo a Torino alla fine degli anni Ottanta, ai margini di un maxi processo alla mafia catanese. Salvatore, uno dei più pericolosi tra i 242 imputati che assistono alle udienze chiusi in gabbie d’acciaio, chiede un colloquio al Presidente della Corte d’Assise, Elvio Fassone. Le sue parole, con quella nostalgia per un destino diverso da quello assegnatogli dalla «lotteria della vita», segnano un punto di svolta nel rapporto tra quel pluriomicida e il giudice che firmerà la sua condanna. Ne nasce un rapporto epistolare durato 26 anni, un libro composto e struggente (“Fine pena: ora”, Sellerio) e l’impegno personale di Fassone per mitigare una pena che «è una vera barbarie: una sentenza della corte europea del 2013 ci obbligherebbe a riesaminare caso per caso dopo 25 anni di carcere». Nel libro il rapporto malato tra infanzia e mafia torna tre volte. Nel bambino che Salvatore era e che non aveva altra strada che la delinquenza. Nei figli che non ha potuto avere dalla “ragazza perbene” che non ha fatto in tempo a sposare e che dopo anni d’attesa ha rinunciato ad aspettarlo. E nell’ansia per i nipotini, «quattro discoli» che con il padre anche lui in carcere e la madre che «si arrabatta come può» ormai «non rispettano nessuno». Salvatore si tormenta: «Dovrei esserci io insieme a loro, gli direi di studiare e di imparare a fare un lavoro altrimenti finiscono dove sono finito io». Eppure Fassone non è favorevole all’idea di togliere i figli ai mafiosi, un provvedimento che, se andasse avanti una proposta presentata nel 2014 dal deputato renziano Ernesto Carbone, potrebbe diventare legge. «Sono sempre riluttante davanti agli interventi coercitivi, anche se fatti con la certezza di “fare del bene” a un innocente», spiega Fassone. «Mi rendo conto però che quando un nucleo è radicato in ambito mafioso può essere una scelta accettabile. Purché però non si perdano i contatti con la madre. Pensiamo a questi bambini: con il padre in carcere, la madre diventa ancora più importante...». A preoccupare l’ex giudice torinese quindi non è tanto la possibilità che la perdita dei figli diventi una pena accessoria ancora più esasperante per dei condannati già difficilissimi da recuperare, quanto l’effetto sui bambini. Che oltretutto quando arriva la decisione dei giudici sono spesso già adolescenti. Non è troppo tardi? No, spiega Massimo Ammaniti, specialista di psicologia dell’età evolutiva. Nel suo “La famiglia adolescente» (Laterza), lo studioso mette a fuoco gli anni in cui «si conclude per i figli la fase del rispecchiamento e comincia - o dovrebbe cominciare - un processo diverso, la mentalizzazione». È questo il momento giusto, spiega a “l’Espresso”, «per cercare di costruire un senso civico che nasce da un’educazione a far proprie le regole e a capire il punto di vista dell’altro. Un’educazione all’empatia e alla mentalizzazione, la capacità di “leggere nella mente dell’altro” che entra in crisi fra i dodici e i quattordici anni, quando i ragazzi iniziano a prendere le distanze dal modello dei genitori». Ma il distacco forzato dai genitori è giustificato? «Sì, perché chi cresce in una famiglia mafiosa è vittima di una forma di abuso psicologico. Non è molto diverso da quello che succede ai bambini soldato della Sierra Leone. Toglierli alla famiglia è un modo per proteggerli da un meccanismo di affiliazione tanto più potente perché fa uso anche dell’affetto. E dal pericoloso senso di onnipotenza che ne deriva: appartenere a una famiglia mafiosa crea un’identificazione col gruppo che porta a un disturbo dell’identità, perché ci si sente parte di un sé grandioso». E comunque parliamo di affido temporaneo, «ben diverso dalla pulizia etnica o politica, dai bambini tolti ai nomadi in Svizzera o ai desaparecidos in Argentina». Questi distinguo non bastano a chi considera i provvedimenti «una vera barbarie, oltretutto con risultati minimi». È categorica Silvana La Spina, scrittrice catanese che nell’ultimo libro, “L’uomo che veniva da Messina” (Giunti) si è allontanata dall’attualità, ma che all’atteggiamento dei bambini di fronte alla malavita ha dedicato anni fa “La mafia spiegata ai miei figli (e anche ai figli degli altri)” (Bompiani). «Lo Stato non può pensare di salvare un solo bambino lasciando intatta la cultura malata di interi territori. Deve entrare nelle famiglie: medici, psicologi, assistenti sociali devono trovare gli “anelli deboli” che possono spezzare la catena, lavorare con le donne che sempre più spesso si oppongono silenziosamente». Allontanare un singolo bambino dal “contagio” «può creare una forma di rancore controproducente», nota la scrittrice. Che aggiunge: «Se è vero che la ‘ndrangheta ha ancora comportamenti tribali, lo Stato non può limitarsi a togliere un bambino dalla tribù. Deve aiutare la tribù intera». «I giudici calabresi hanno ragione», ribatte Melita Cavallo. «Ne sono convinta fin dagli anni Novanta: l’ho scritto chiaramente nel mio libro “Ragazzi senza”. Se si fosse intervenuti allora non vivremmo lo stato di cose di oggi». Alla vigilia dell’uscita di “Si fa presto a dire famiglia” (Laterza), ritratto delle “nuove” famiglie italiane attraverso quindici storie vere, l’ex presidente del tribunale per i minorenni di Roma da poco in pensione ha ben presente la situazione delle famiglie mafiose: «Non si può mai procedere per categorie. Il Tribunale decide sui casi singoli: non concorderei mai con un allontanamento “di massa” dei bambini da ambienti mafiosi, ‘ndranghetisti o camorristi. E comunque si nomina un tutore che fa da tramite tra la famiglia e il bambino nella sua nuova situazione: si evita così che nel piccolo si crei una ferita che non sarebbe facile risanare nel tempo». Ma c’è un altro modo di sottrarre questi piccoli alla “lotteria della vita” che li porta alla delinquenza. «Lo Stato deve intervenire pesantemente: non con esercito e polizia ma con la scuola. Una scuola che prende bambini e ragazzi dalle 8 alle 16, 30, in un territorio ricco di ludoteche, palestre e luoghi di incontro per suonare, disegnare, leggere, creare insomma un gruppo alternativo al modello familiare. Questo tipo di politica non paga subito, i suoi effetti si registreranno dopo anni, ma salverà migliaia di ragazzi». E non più solo i bambini del singolo camorrista che a vent’anni da quando lei aveva deciso l’allontanamento dei figli le scrisse dal carcere ringraziandola «perché i ragazzi si erano salvati».

Figli dei boss Luperti Riina e Company mafiosi per sempre. Brindisi e mafia, Luperti querela «Emiliano mi ha dato del mafioso». Controffensiva dell’ex assessore di Consales: «In Commissione antimafia Emiliano ha portato città indietro di vent’anni e ha fatto passare me per quello che non sono», scrive "Il Corriere del Mezzogiorno" il 22 febbraio 2016. «Posso accettare qualsiasi critica sul mio operato politico, ma nessuno dica che sono un mafioso. Mafioso no, proprio non posso accettarlo. Per me, per la mia famiglia». L’ex assessore all’Urbanistica del Comune di Brindisi, Pasquale Luperti, con questa motivazione annuncia che querelerà il presidente della Regione Michele Emiliano. Dal governatore, infatti, si sarebbe sentito offeso per i riferimenti, fatti anche in sede di Commissione antimafia, al padre Salvatore e allo zio Antonio, il primo già condannato per associazione mafiosa. I due furono uccisi alla fine degli anni novanta nell’ambito di una guerra di mafia in seno alla Scu scoppiata per la gestione del traffico di sigarette di contrabbando. Emiliano nel dicembre aveva chiesto le dimissioni di Luperti dalla giunta guidata da Mimmo Consales (Pd), arrestato per corruzione lo scorso 6 febbraio. «Con il suo racconto - spiega Luperti - Emiliano ha portato Brindisi indietro di vent'anni, facendo passare me per quello che non sono e cioè una persona collegata con la Sacra corona unita che ha potuto creare infiltrazioni nella pubblica amministrazione. Mio padre è morto 20 anni fa, e se io sono diverso lo devo anche a lui. Ci ho messo tantissimo per farmi conoscere e apprezzare. Accetto tutte le critiche ma non l'appellativo (mai detto in maniera esplicita da Emiliano, ndr) di mafioso. Quel mondo mi ha distrutto una parte di vita».

"Il giorno della civetta" e i figli dei boss, scrive di Valter Vecellio. "Lasci stare mia figlia", ruggisce il capo mafia. Il capitano dei carabinieri che gli sta di fronte, ed è venuto ad arrestarlo, gli chiede conto delle ingenti somme di denaro depositate in tre diverse banche, il suo apparente non far nulla, l'irrisoria denuncia dei redditi, nonostante il reddito reale sia elevato; e osserva che anche a nome della figlia risultano, altri, cospicui depositi, lei che studia in un costoso collegio svizzero...Poi, dopo lo scatto, il boss riprende il controllo dei nervi: "Mia figlia è come me", sibila, ma più a rassicurarsi, che a smentire il capitano; e magari, chissà, col tarlo, il dubbio, il sospetto che forse quell’uomo in divisa così diverso da lui per esperienze, cultura, nascita e accento, possa aver ragione e compreso quello che lui non ha capito e non vuole capire quando, poco prima gli aveva detto: "Immagino lei se la ritroverà davanti molto cambiate: ingentilita, pietosa verso tutto ciò che lei disprezza, rispettosa verso tutto ciò che lei non rispetta...". E’ una scena de "Il giorno della civetta" di Leonardo Sciascia, più del romanzo che del film. Nel film la ragazza si vede, compare, è devota nel porgere i calzini al padre, svegliato di soprassalto, e anche complice: il boss infatti le affida qualcosa che deve far “sparire”. Nel romanzo è invece una presenza evocata, non compare mai. Il romanzo - è bene ricordarlo - Sciascia lo scrisse più di cinquant'anni fa. Il capitano Bellodi e don Mariano Arena sono di fronte uno a l'altro, il mafioso poi descrive quelle che a suo giudizio sono le cinque categorie in cui si divide l'umanità; Bellodi individua nella legge, nel rispetto del diritto, le "armi" per sconfiggere la mafia. E’ un brano che autorizza una cauta speranza: quella che attraverso lo studio, la cultura, i figli e i nipoti di mafiosi riescano a levarsi di dosso la mafiosità dai loro padri e zii e nonni vissuti come "naturale", una pelle; e diventino appunto pietosi, rispettosi. Anni dopo, non a caso, richiesto su quello che i ragazzi potevano fare contro la mafia, Sciascia lapidario risponde: “Magari una marcia in meno, e un libro in più”. Quasi naturalmente ho pensato a quel brano de “Il giorno della civetta”, nell'apprendere che la diciassettenne figlia del boss latitante Matteo Messina Denaro (si dice erede di Totò Riina), avrebbe convinto la madre a lasciare la casa dove le due donne hanno sempre vissuto, e per andare altrove. Un po' frettolosamente si è scritto che la ragazza - e con lei la madre - si sono "ribellate": "la ragazza vuole vivere lontano dai familiari del papà. Una scelta rivoluzionaria perché suona come sfida ai codici di Cosa nostra''. Ribellione è una forzatura. La ragazza, che ha un suo profilo su facebook, il giorno del compleanno del padre, gli fa gli auguri, sotto forma di un cuoricino rosso, e scrive frasi di delicata malinconia: "Quanto vorrei l'affetto di una persona e, purtroppo, questa persona non è presente al mio fianco e non sarà mai presente per colpa del destino...". Già perchè la ragazza, a differenza di altri figli di boss (quelli di Totò Riina, o di Bernardo Provenzano, o Nitto Santapaola, per esempio) non avrebbe mai visto il padre in vita sua. Sa chi è, quello che ha fatto e fa, ma non lo ha mai visto. Con la madre ha vissuto per quasi vent'anni nella casa della madre di Messina Denaro, e con le sorelle di lui; ma ora aspira a vivere una vita normale di una normale diciassettenne. Ha un fidanzatino, vorrebbe fare quelle cose che fanno tutte le sue coetanee, fuori dalla "gabbia" della mafiosità della famiglia del padre. La sua non è una ribellione, piuttosto la richiesta di una liberazione. Qualcosa deve aver toccato il cuore spietato del boss, o "semplicemente" ha fatto i suoi conti, si è reso conto che era meglio allentare di qualche anello la catena. Perché una cosa è indubitabile: se le due donne possono andare a vivere altrove significa che il boss si è convinto che la cosa si può fare. C’è da augurarsi ora, che la ragazza, staccandosi da quell'ambiente e vivendo normalmente la sua giovinezza, come la figlia di don Mariano Arena, e nonostante l’ambiente in cui è vissuta, il retaggio, i condizionamenti patiti e subiti, ne acquisti in “gentilezza”, “pietosa” verso tutto ciò che il padre disprezza, “rispettosa” verso tutto ciò che i mafiosi non rispettano. Merito della cultura, della “lettura di qualche libro in più”? Altri figli di boss, come quelli di Bernardo Provenzano, hanno studiato e si sono laureati in Germania, e con la mafia non hanno nulla a che fare. Si sono liberati, o vogliono cercare di liberarsi, della “pelle” mafiosa. Altri, al contrario, proprio grazie a lauree e specializzazioni in prestigiose università, hanno ulteriormente affinato le tecniche criminali e ampliato gli “imperi” dei padri e dei nonni. Ad ogni modo, resta l’intuizione di Sciascia, che merita di essere approfondita e studiata. Se dicessi che già cinquant’anni fa aveva capito tutto, lui per primo inarcherebbe il sopracciglio, con un gesto di muto rimprovero. Tutto no, ma tanto, e l'essenziale, probabilmente sì.

Chi condanna i figli dei Boss, scrive Alessandro Ziniti su "La Repubblica". Il figlio di Totò Riina chiede il rilascio della certificazione antimafia. Indiscutibilmente è una notizia e, come tale, i giornali, "Repubblica" in testa, la pubblicano con il dovuto rilievo. Due settimane dopo, a Corleone, l'azienda agricola dei figli del boss e la lavanderia della moglie e dei figli di Bernardo Provenzano sono costrette a chiudere i battenti. Il prefetto e la Camera di commercio non hanno dato le necessarie autorizzazioni e le due attività, di per sé assolutamente legali, devono immediatamente cessare. Certo, è un'altra notizia che fa scalpore e che fa discutere. Ma, con altrettanta certezza, avrebbe fatto più clamore se agli eredi dei due capi assoluti di Cosa nostra fosse stata rilasciata la certificazione antimafia. Vi immaginate, lo Stato che rilascia la patente di antimafiosità ai figli di Riina e Provenzano? Impossibile. Eccole, allora, a secondo della prospettiva da cui la si guarda, le tante facce dell'ultima vicenda che ha riportato Corleone agli onori della cronaca. Lo Stato, con i provvedimenti dei giorni scorsi, ha - nei fatti - detto ai giovani figli dei capi di Cosa nostra che a loro non è consentita alcuna attività "lecita". Intendiamoci: l'azienda di macchine agricole e la lavanderia non sono state chiuse perché condotte irregolarmente ma perché i legami dei titolari con la criminalità organizzata "appaiono inequivocabili". E dunque, in assenza dei requisiti personali, non sono nelle condizioni di ottenere le certificazioni che le leggi dello Stato richiedono ad un qualunque cittadino. I figli dei boss sono dunque condannati a non potere avere un futuro da "qualunque cittadino"? I provvedimenti di questi giorni dicono di sì, ma davanti all'umano dubbio morale o alla semplicistica "solidarietà" che i giovani rampolli di Cosa nostra possono raccogliere, vale forse la pena di riflettere sul fatto che a decretare questa terribile condanna non è solo lo Stato (almeno quello che non intende abbassarsi ad alcuna "trattativa") ma, primi di tutti, i loro padri. Quei padri che, in cella o latitanti da una vita, non sono riusciti a costruire per i loro figli un futuro migliore. Certo, non deve essere stata facile la decisione del prefetto di Palermo prima, del sindaco di Corleone poi, e poi ancora del presidente della Camera di commercio: la ragion di Stato ha prevalso, e non avrebbe potuto essere diversamente, su quella del "recupero" di questi ragazzi alla società civile. Dice il sindaco di Corleone Pippo Cipriani, ogni giorno a contatto con i giovani Riina e Provenzano: "Nessuna persecuzione, per carità. Io sono stato il primo a tendere loro una mano quando sono tornati a Corleone. Certo, pretendere che questi ragazzi rinneghino i padri forse è troppo, ma da loro non è mai arrivato neanche un segnale, il più piccolo, della volontà di intraprendere una strada diversa. L'apertura di quelle attività era il loro modo di riaffermare il controllo sul territorio, un controllo che, in uno Stato civile, spetta alle istituzioni". Poche decine di giorni prima e poche centinaia di metri più in là, Giuseppe Riina, accettando per la prima volta di parlare davanti alle telecamere della Rai, mostrava orgoglioso la sua azienda e spiegava: "Noi vogliamo lavorare nella legalità, non vogliamo vivere tutta la vita con questo fardello sulle spalle, se lo Stato non vuole che lo facciamo ce lo dica chiaramente". E la risposta, inequivocabile, è arrivata poco dopo. Lo Stato non consente. Ma c'è ancora un'altra faccia della vicenda: perché questi provvedimenti arrivano solo ora se le attività, soprattutto quella dei Provenzano, era aperta da ben quattro anni senza che nessuno avesse mai mosso un dito? E ancora perché si è mossa solo l'autorità amministrativa e non anche quella giudiziaria? Riconosciuti "nullatenenti", i due boss corleonesi non hanno mai "potuto" risarcire, così come sancito da decine di sentenze, le vittime delle loro attività criminali. Le misure di prevenzione hanno colpito in tutti questi anni i loro presunti o accertati prestanome. Ma se quelle due piccole attività sono state messe su con i proventi di quelle famiglie mafiose alle quali - dicono i provvedimenti - i ragazzi sarebbero inequivocabilmente legati perché non sono state sequestrate? Tanti perché, ognuno dei quali avrà sicuramente una valida risposta. Forse le spalle di un prefetto, di un sindaco, di un presidente di Camera di commercio sono troppo esili per reggere da sole il peso del futuro di questi ragazzi o forse la vicenda di Corleone è lo specchio fedele dell'impasse dell'antimafia.

La figlia di Riina: vi sembro donna di mafia? L’ultimogenita di Salvatore e Ninetta Bagarella si racconta. La sua infanzia in clandestinità, nelle campagne palermitane, e l’arrivo a Corleone dopo la cattura del padre, il 15 gennaio 1993. L’impatto con la società e oggi il desiderio di esprimersi attraverso l’arte, scrive Siana Vanella il 4 febbraio 2014 su "Panorama". L'appuntamento è alle 12, all’entrata del paese. Ogni chilometro rappresenta metri di riflessioni e punti interrogativi. Come sarà dal vivo Lucia Riina? In fondo la sua persona ha sempre vissuto mediaticamente all’ombra del padre Salvatore, di mamma Antonietta e dei fratelli Salvo, Maria Concetta e Gianni. Il cartello «Corleone» indica che non è più tempo di pensare. «Benvenuti nella mia città, vista l’ora che ne dite di fare un salto in pescheria? Qui si trova dell’ottimo pesce». Così esordisce la più piccola di casa Riina in jeans e t-shirt nera. Da lì a poco, eccoci nella cucina decorata con maioliche blu e bianche e due chili di polipi da preparare. Mentre in pentola il pesce cuoce insieme con il pomodoro fresco fatto da mamma Ninetta, Lucia chiarisce la provenienza dei suoi occhi azzurri. «Il colore è tipico dei Riina» spiega con in mano un mestolo di legno «quelli di mio padre sono cangianti tra il marrone e il verde, anche se il taglio appartiene alla famiglia Bagarella. Da piccola ero molto magra e mamma a colazione mi dava le vitamine alla ciliegia. Ormai, da quando vivo in campagna, sono le uova della mia fattoria a darmi energia». E in realtà, ad animare le giornate di Lucia e del marito Vincenzo, alle prese con il lavoro a singhiozzo, ci pensano cani, gatti, oche e galline. Sul suo sito si legge: «Sin da quando ero bambina ho avuto la passione per il disegno, ricordo che mamma e papà cercavano di procurarmi sempre album e matite ovunque eravamo. Io ero piccola e non capivo, però mi entusiasmava l’idea che a ogni nuova residenza c’erano ad attendermi matite e album nuovi».

Che ricordo ha della sua infanzia?

«Ho un ricordo di gioia e serenità. Si respirava amore puro in casa, sembrava di vivere dentro a una fiaba: mamma mi accudiva, papà mi adorava e mia sorella Mari per farmi addormentare mi raccontava le favole accarezzandomi i capelli. Mio fratello Gianni mi metteva sulle sue gambe chiamandomi “pesciolino”, Salvo (col quale la differenza di età è di appena tre anni, ndr) era il compagno di giochi. Avevamo un cane e un gatto, per questo adoro gli animali».

Si respirava profumo di arte?

«Mamma ha conseguito il diploma magistrale, quindi ci parlava spesso di storia dell’arte e di letteratura, papà era un appassionato di libri, e trascorreva le sue serate a leggere volumi sulla storia della Sicilia. Credo di avere, comunque, ereditato l’amore per la pittura dallo zio Leoluca (Bagarella, ndr), il fratello di mia madre. In casa custodisco gelosamente alcuni suoi dipinti, regali delle zie per il mio matrimonio: sapevano che anche dal carcere lo zio avrebbe apprezzato il gesto. Da piccola si dilettava a disegnare pesci e farfalle, adesso questi soggetti sono diventati i protagonisti delle sue tavole. Rappresentano un po’ il mio carattere. Il pesce con la sua serenità e i suoi colori cangianti, la farfalla con la sua libertà e delicatezza. Da bambina li disegnavo per esprimere i miei stati d’animo, adesso per rievocare il mio passato e comunicare il fatto di essere innamorata. Se dovessi rappresentare la mia esistenza attraverso i colori utilizzerei il rosa e il celeste, ma anche il giallo, il rosso e l’arancio perché mi ritengo una persona ottimista. La vita va affrontata con coraggio e anche quando si presentano situazioni difficili bisogna sempre andare avanti».

C’è qualcosa che le manca per completare il quadro della sua serenità?

«La mia è stata sicuramente una vita articolata e piena di difficoltà. È traumatico per una bambina di 12 anni vedersi strappare, dall’oggi al domani, la persona che più adora senza conoscerne i motivi e senza potergli dare nemmeno un ultimo bacio. I mesi dopo l’arresto di papà sono stati durissimi: l’arrivo a Corleone cercando di ambientarsi in una nuova realtà, frequentare la scuola (eravamo infatti abituati alla mamma che tutti i giorni ci riuniva a un tavolo impartendoci lezioni personalizzate), l’impatto con la società. A questo aggiungete le visite in carcere. Non riesco ancora a dimenticare la prima, dopo il periodo di isolamento di papà a Rebibbia: fu atroce, anzi peggio. Inizialmente credo che la struttura non fosse organizzata ad accogliere papà, e nemmeno noi, durante i colloqui. Ricordo che fecero entrare me, i miei fratelli e la mamma in una stanza piena di sedie e con un paravento dotato di fori. Mio padre era a pochi centimetri da noi, l’avrei potuto abbracciare in un istante, ma le guardie erano tutte attorno a lui e ci imploravano di non alzarci. Abbiamo passato tutto il tempo a piangere. Certe atrocità ai bambini non si fanno. Per chi non mi conosce e si basa solo sulle polemiche sollevate dai media negli anni, Lucia Riina non è quella bambina che si è risvegliata violentemente da una fiaba e non è nemmeno la donna che oggi fa fatica, come tutti i giovani, a trovare un’occupazione complice la crisi economica e un cognome forse un po’ ingombrante. Per me l’arte diventa un modo per rappresentare il mio mondo e far conoscere agli altri realmente chi sono».

Nel suo sito afferma di non aver potuto frequentare il liceo artistico di Palermo «perché a quell’età e in quella situazione non potevo andare a studiare così lontano da casa». C’è un artista da cui ha tratto spunti creativi?

«L’ispirazione nasce dalla vita di tutti i giorni, dal luogo in cui vivo e dal fatto che sto bene con mio marito. Negli ultimi mesi sto studiando le correnti dell’astrattismo basate sugli stati d’animo espressi attraverso i colori, le pennellate e le forme indefinite. Inoltre, sono attratta da Jackson Pollock e dalla tecnica del dripping: mi piacerebbe reinterpretarla personalizzandola».

Oltre alla pittura avrebbe voluto coltivare altre passioni?

«Sicuramente la danza. Da piccola guardavo tutti i film del genere, mi mettevo davanti allo specchio e ballavo o improvvisavo coreografie davanti ai miei genitori. Ancora oggi rimango incantata dalla danza classica e se un giorno dovessi avere una bimba mi piacerebbe vederla in tutù e calzamaglia».

Che cosa pensa di avere ereditato dai suoi genitori?

«Da papà, sicuramente, la gioia di vivere e l’ottimismo. Il fatto di andare sempre avanti senza arrendersi. Con lui c’è sempre stato un feeling speciale, complice anche il fatto di essere la più piccola in famiglia. Nelle lettere che mi spedisce mi chiama ancora «Lucietta di papà» nonostante i miei 33 anni suonati. Anche dal carcere, in questi anni, ha cercato spesso di ammorbidire mamma per le classiche richieste che una figlia adolescente fa ai propri genitori. Mi riferisco all’orario di rientro il sabato sera o al permesso per andare al mare. Quando conobbi Vincenzo, mio fratello Salvo inizialmente era un po’ geloso così ne parlai durante un colloquio a papà, che rispose: «Se la mia Lucietta è contenta, fatele fare le sue scelte». Da mamma credo di aver ereditato l’amore per gli affetti e per la conoscenza che mi ha spronato sempre a interagire con nuove persone».

In questi anni sua madre ha avuto un ruolo importante in famiglia. È stata moglie, madre e dal 1993 ha dovuto pure sopperire all’assenza fisica di suo padre. Adesso i ruoli si sono un po’ invertiti: è un po’ Lucia a dover sostenere Antonietta?

«Crescendo, un figlio diventa un punto di forza per un genitore. Ci sono momenti in cui fare i conti con la mancanza di papà per mia madre diventa difficile. Il loro è stato un amore da romanzo: lei ha lasciato tutto per dedicarsi anima e corpo a noi figli e al grande amore della sua vita. Tutte le volte che è giù perchè pensa a papà o a Gianni che è in carcere le dico: «Mamma, stai tranquilla, io sarò sempre accanto a te». È il minimo che puoi fare per chi ti dà la vita.

Lei aveva deciso di devolvere a Save the children il 5 per cento del ricavato della vendita dei suoi dipinti, ma la sua scelta ha causato polemiche. Da anni seguivo le iniziative di questa associazione, così visitando la loro pagina ufficiale su internet venni a conoscenza del fatto che chiunque, munito di sito, poteva inserire il banner di Save the children per contribuire alle iniziative a favore dell’infanzia. Così, venduti i primi quadri, ho inviato una parte del compenso con un bollettino postale, cui seguì una lettera di ringraziamento intestata a me da parte dell’associazione con tanto di tessera di socio e una esortazione a continuare a contribuire. Io ero felicissima di poter aiutare bambini sfortunati e tutto mi sarei aspettata tranne che, da lì a poco, Save the children potesse reagire in quel modo. Ci sono rimasta malissimo, ho tolto il banner spiegando sul sito come sono andate le cose perché voglio essere trasparente con chi mi segue. Il mio è un lavoro onesto e da sempre il mondo dell’arte è legato alla beneficenza. Adesso sono alla ricerca di una nuova associazione da sostenere, perché mi sento realizzata quando faccio del bene».

RIINA FAMILY LIFE. Mi chiamo Salvatore Riina, sono nato a Corleone e sono il figlio secondo genito di Totò Riina e di Ninetta Bagarella. Dopo essermi consultato con la mia famiglia, soprattutto con i miei genitori, ho deciso di scrivere questa biografia per raccontare la storia della mia famiglia e dei rapporti tra noi fratelli e sorelle e mio padre Totò e mia madre. Figli, tutti, nati e cresciuti latitanti, dovendo seguire gli “spostamenti” forzati dei miei genitori. Ne parlo con l’affetto di un figlio, anche se mio padre si chiama Totò Riina. Voglio raccontare dall’interno la vita della famiglia più “conosciuta” al mondo, ma solo di nome. Io voglio invece raccontare i fatti. Davvero tante saranno le sorprese.

«La mia vita con Salvatore Riina, mio padre». Il racconto di Giuseppe Salvatore, il figlio del boss. Il figlio racconta: «Assieme nelle nottate alla tv per l’America’s Cup, non cenò mai fuori. Me lo ricordo zitto il giorno di Capaci. Le vittime? Preferisco il silenzio. Di mafia non parlo, e se lei mi domanda che cosa ne penso, io non rispondo», scrive Giovanni Bianconi il 4 aprile 2016 su “Il Corriere della Sera”. «Tra febbraio e marzo del 1992 passammo notti intere insonni davanti al televisore a seguire il Moro di Venezia gareggiare nell’America’s Cup. Papà preparava la postazione del divano solo per noi due, con un vassoio di biscotti preparato per l’occasione e due sedie piazzate a mo’ di poggiapiedi... Io non avevo ancora compiuto 15 anni e lui, Totò Riina, era il mio eroe». Che, in quegli stessi giorni, pianificava e ordinava l’omicidio di Salvo Lima, il politico democristiano assassinato per non aver saputo «aggiustare» il maxiprocesso alla mafia. Poco dopo venne il 23 maggio: «La tv era accesa su Rai1, e il telegiornale in edizione straordinaria già andava avanti da un’ora. Non facemmo domande, ma ci limitammo a guardare nello schermo. Il viso di Giovanni Falcone veniva riproposto ogni minuto, alternato alle immagini rivoltanti di un’autostrada aperta in due... Un cratere fumante, pieno di rottami e di poliziotti indaffarati nelle ricerche... Pure mio padre Totò era a casa. Stava seduto nella sua poltrona davanti al televisore. Anche lui in silenzio. Non diceva una parola, ma non era agitato o particolarmente incuriosito da quelle immagini. Sul volto qualche ruga, appena accigliato, ascoltava pensando ad altro». Era stato lui a decidere quella strage, per eliminare il magistrato che aveva portato alla sbarra Cosa nostra fino a infliggere l’ergastolo a Riina e compari. E poi il 19 luglio, mentre la famiglia era in vacanza al mare: «Fu uno di quei giorni in cui mio padre preferì rimanere a casa ad aspettarci, sempre circondato dai suoi giornali che leggeva lentamente ma con attenzione. Negli ultimi mesi era diventato più attento nelle uscite in pubblico, anche se dentro casa era sempre il solito uomo sorridente e disposto al gioco». Al ritorno dalla spiaggia ancora la tv accesa, ancora immagini di morte, fuoco e fiamme: «Il magistrato Paolo Borsellino appariva in un riquadro a fianco, ripreso in una foto di poche settimane prima... Lucia, dodicenne, era la più colpita da quelle immagini. Si avvicinò a mio padre silenzioso. “Papà, dobbiamo ripartire?”. “Perché vuoi partire?” domandò lui, finalmente rompendo la tensione con la quale fissava il televisore. “Non lo so. Dobbiamo tornare a Palermo?”. “Voi pensate a godervi le vacanze. Restiamo al mare ancora per un po’”. Lucia scoppiò in una ingenua risata e lo abbracciò... E così restammo lì fino alla fine di agosto». Anche l’eccidio di via D’Amelio era stato deciso da suo padre, Totò Riina. Ma questo particolare il figlio Giuseppe Salvatore detto Salvo, lo omette. Così come non parla di Lima, di Falcone e di tutte le altre vittime del capomafia corleonese che ha governato Cosa nostra a suon di omicidi. «Io non sono il magistrato di mio padre — dice sfilandosi gli occhiali da sole al tavolino di un bar di Padova, dove vive e lavora in libertà vigilata», divieto di lasciare la provincia e di uscire dalle 22 alle 6 —; non è competenza mia dire se è stato il capo della mafia oppure no. Lo stabiliscono le sentenze, io ho voluto parlare d’altro: la vita di una famiglia che è stata felice fino al giorno del suo arresto, raccontata come nessuno l’ha mai vista e conosciuta». È nato così il libro Riina-Family Life scritto da Salvo Riina che a maggio compirà 39 anni, mafioso anche lui per la condanna a 8 anni e 10 mesi di pena interamente scontata, papà e fratello maggiore all’ergastolo (e al «41 bis»): «Giovanni lo può incontrare in prigione, seppure con le limitazioni del “carcere duro”, io no». E nel libro lamenta: «È dal gennaio del 1993 (quando Riina fu catturato, ndr). Che non faccio una carezza a mio padre, e così le mie sorelle e mia madre». Facile replicare che nemmeno i familiari dei morti di mafia possono più accarezzare i loro cari, e chiedere un pensiero per loro: le vittime. Salvo Riina risponde quasi di getto: «Non ne voglio parlare, perché qualunque cosa dicessi sarebbe strumentalizzata». Dipende, forse. Ma lui insiste: «Meglio il silenzio, nel rispetto del loro dolore e della loro sofferenza. Anche in questo caso la meglio parola è quella che non si dice». Un motto che rievoca l’omertà mafiosa, che però Riina jr contesta: «Non è omertà, è che io ho scritto il libro non per dare conto delle condanne subite da mio padre, anche perché sarebbe inutile. A me interessava far capire che esiste ed è esistita una famiglia che non aveva niente a che fare coi processi e quello che succedeva fuori, e che nessuno conosce anche se tutti pensano di poterla giudicare». Ne viene fuori un’immagine di papà premuroso e amorevole che contrasta con la realtà giudiziaria e storica del boss protagonista delle più cruente trame criminali. «Non è quello che ho conosciuto io — ribatte convinto suo figlio —. Io sono orgoglioso di Totò Riina come uomo, non come capo della mafia. Io di mafia non parlo, se lei mi chiede che cosa ne penso non le rispondo. Io rispetto mio padre perché non mi ha fatto mai mancare niente, principalmente l’amore. Il resto l’hanno scritto i giudici, e io non me ne occupo». Quello che scrive Salvo Riina diventa così un racconto asciutto ma ricco di dettagli sulla vita fra le mura domestiche di una famiglia di latitante: Totò Riina e, di conseguenza, la moglie e i figli nati mentre lui era ricercato; continui cambi di case, ma sempre tra Palermo e dintorni; i bambini regolarmente registrati all’anagrafe ma impossibilitati ad andare a scuola, con la mamma che insegnava loro a leggere e scrivere; giochi e divertimenti garantiti ma niente amici in casa né visite a casa di amici; il papà che esce la mattina per andare a lavorare — «il geometra Bellomo», si faceva chiamare — e puntuale a cena si mette a tavola con la famiglia: «Mai saltata una sera», garantisce Salvo; l’attrazione per i motorini e le belle ragazze, i primi amori. Infanzia e adolescenza felici, assicura il figlio del boss, trascorse senza fare domande: né sull’improbabile lavoro di un «terza elementare», né sulla necessità di non avere contatti con l’esterno o sul continuo girovagare, che col passare del tempo diventa consapevolezza di una vita in fuga. «A mio padre non ho mai chiesto perché dovessimo nasconderci, e nemmeno se era vero ciò che cominciai a sentire in tv o in giro, quando ho scoperto che ci chiamavano Riina, e non Bellomo». Strano, perché? «Per rispetto e pudore». Nei confronti di chi? «Di mio padre e mia madre: siamo cresciuti abituati a non chiedere». Si potrebbe chiamare cultura mafiosa. «Io invece lo chiamo rispetto, un’educazione a valori magari arcaici e tradizionali, che però a me piacciono; valori forti e sani». Con l’arresto di Riina sr, il 15 gennaio 1993, cambiò tutto: l’arrivo a Corleone, l’esistenza non più clandestina ma sotto i riflettori del mondo e il microscopio di investigatori e giudici, che poi hanno arrestato e condannato i due figli maschi, Giovanni e lo stesso Salvo. Che adesso narra quel che vuole (anche il carcere e la pena scontata, evitando di entrare nel merito dei reati, fino al matrimonio della sorella accompagnata all’altare in sostituzione del papà, e altro ancora) ma tace su tanti particolari: dall’ultimo «covo» in cui abitò con suo padre ai commenti del capomafia intercettati in carcere, quando confessò la «fine del tonno» riservata a Falcone e altri delitti: «Non mi interessa soddisfare le curiosità altrui. Io difendo la dignità di un uomo e della sua famiglia. E la sua coerenza, quando ha rifiutato di collaborare con i magistrati. “Non ci si pente di fronte agli uomini, solo davanti a Dio”, mi ripeteva». Il risultato lo giudicheranno i lettori. L’editore, Mario Tricarico, chiarisce il senso di un’operazione che ritiene legittima e interessante: «È come se in casa del “Mostro” che ha governato l’impresa criminale forse più importante del mondo ci fosse stata una telecamera nascosta che ne registrava i momenti di normalità, e adesso chi vuole può vedere quel film». Scene di un interno mafioso che lasciano molte zone d’ombra, ma rivelano un punto di vista: il figlio del boss che non vuole parlare del boss bensì di un padre e di una madre «ai quali devo l’inizio della mia vita e l’uomo che sono», come ha scritto nel libro. Senza nessun imbarazzo? «No, nessun imbarazzo», risponde Salvo Riina rinforcando gli occhiali da sole.

"Licenziata per il cognome che porto". Parla la nipote di Totò Riina. Maria Concetta Riina, nipote del boss, è stata definita "presenza inquietante" dal prefetto di Trapani. "Non posso scontare le colpe di mio zio", scrive Carmelo Caruso il 20 luglio 2015 su "Panorama". «Chi le dice che non ci sia mai stata tra i tanti che hanno reso omaggio in silenzio e anonimamente…». Una Riina non può andare il 18 luglio in via d’Amelio a commemorare Paolo Borsellino? «Non so più se per me esista un luogo da dove non essere cacciata, inseguita e marchiata». Cambiare il cognome? «Pensa che basterebbe?». Forse no, ma la aiuterebbe. «E però, se lo facessi sarei una cattiva figlia. A quale figlia si può chiedere di dimenticare il padre?» Più semplicemente si libererebbe di suo zio Totò Riina, di Corleone, della genetica, e chissà perfino di quell’interdittiva del prefetto di Trapani, Leopoldo Falco, che ha definito la sua presenza in azienda “inquietante”. «Ho 39 anni e mio zio l’ho conosciuto solo quando lo hanno catturato. In tutta la mia vita l’ho visto solo due volte». E mentre parla Maria Concetta Riina si fa più piccola della sua statura, che è quella dei Riina, prova a sgonfiare il viso pasciuto, a rallentare gli occhi svelti e azzurri che vigilano su una fronte rotonda d’adipe mediterranea, tutta carne e salute che invece di appesantire alleggerisce, scioglie il carattere e lo pacifica. Dunque non è sguardo di mafia ma solo quello eccitato della siciliana che fuma dalle narici, quel modo tutto loro che hanno le donne nell’isola quando mettono le mani sui fianchi e implorano i santi e Dio per farsi vendicare dai torti, «sono nelle mani del Creatore». Crede? «Si, sono cattolica. Sono normale, italiana come tutte. Se vuole saperlo non vado a messa ogni domenica. È una colpa anche questa?». Suo padre Gaetano è stato arrestato nel 2011, così come i suoi cugini, e sono sempre accuse per mafia. «Conosco mio padre e sono sicura che non abbia commesso nessun reato. Oggi posso solo attendere che esca dal carcere. È un uomo di 82 anni con un tumore alla prostata, un rene malandato, una scheggia conficcata nella gamba. Accetto la sua reclusione in galera, se a stabilirlo è la giustizia, ma non posso essere condannata per la mia famiglia, perseguitata come un’appestata». Il padre Gaetano a Maria Concetta non ha trasmesso solo il cognome ma pure il nome della nonna, così come ha fatto Totò con la sua prima figlia, la matriarca dei Riina che fino a 90 anni si trascinava in tribunale e taceva, come taceva Ninetta Bagarella che di fronte al suo Salvatore si eclissava, dimenticava i suoi studi magistrali e tornava moglie, «perché questo vuol dire che deve essere il mio destino» rispondeva ai giudici la maestra Ninetta: «Ho studiato pure io. Diplomata in ragioneria. Per due anni ho frequentato la facoltà di giurisprudenza poi ho lasciato». Voleva fare l’avvocato per difendere suo zio? «Lo ripeto. Per me è stato un estraneo fino al suo arresto. Ero curiosa quanto voi di vedere la sua faccia». In Sicilia non bisognerebbe “latitare” dalla famiglia? «Mi sono allontanata e ho provato a costruirne una. Ma evidentemente non basta se un prefetto definisce la mia presenza “inquietante” costringendo il mio datore di lavoro a licenziarmi, a lasciarmi senza uno stipendio dopo dieci anni di attività». Suo zio dopo la Sicilia ha dannato anche lei. «Non posso essere dannata per ciò che ha fatto e se lo ha fatto». Vede? È prigioniera del cognome. «Io non credo che abbia potuto commettere da solo tutto quello per cui è condannato e che fosse solo lui il padreterno». Ha chiamato sua figlia con il nome della nonna? «No». L’abbigliamento di Maria Concetta Riina non è il nero castigo della letteratura di mafia, rosari e spine alle donne e lupara e velluto ai mariti, ma bensì il colore di questa estate torrida a Mazara del Vallo dove ha casa: t-shirt bianca da madre indaffarata, jeans da spesa e mercato, elastico ai capelli fulvi per afferrare meglio i venti. Di Maria Concetta Riina non esistono fotografie, che rifiuta, a differenza di sua cugina e dell’altra figlia di Totò, Lucia che si è mostrata e raccontata proprio a Panorama. «Non me lo chieda. Altro che fotografia. Vorrei scomparire e se non avessi perso il lavoro non sarei qui a parlare». Andare? «Io voglio restare. Sono incensurata, non ho neppure una multa per divieto di sosta. E poi anche andare via dalla Sicilia non basterebbe. Dopo il cognome è il viso che dovrei mutare. Più degli avvocati avrei bisogno di un chirurgo estetico che mi cambi i tratti, mi faccia perdere peso. A volte credo che anche il corpo mi imprigioni a una storia che non mi appartiene». Nello studio dell’avvocato Giuseppe La Barbera, un uomo dal corpo solido come una montagna, ad accompagnare la Riina c’è il marito, «ci siamo sposati nel 2011 e oggi abbiamo una figlia di due anni. E ho più pietà per lui che per me. Gli ho portato come dote un bollo, ha dovuto sopportare le battute degli amici». E infatti l’unico che si aggira sperduto in questo fondaco di legali e in questa giurisprudenza di concorso esterno per associazione di nome, è proprio quest’uomo di trentanove anni, magro come quegli esseri che consumandosi si asciugano nel peso ma addensano pensieri, si chiudono nel mutismo che in Sicilia è dolore acerbo, un frutto che non cade dall’albero. «Da due anni non lavora, ha il terrore ogni volta che spedisce un curriculum. Rimane in silenzio. Quale marito sarebbe felice di vedere sua moglie segnata come un’indegna». Non sapeva di sposare una Riina? «Ha sposato me e non certo mio zio o mio padre. Lui per primo mi ha imposto come precondizione di rimanere a distanza dalla mia famiglia. L’unica colpa è che si è innamorato di me». Con una disposizione del prefetto di Trapani che ha definito «inquietante» la sua presenza in azienda senza contestare reati ma solo prevedendo possibili infiltrazioni mafiose, Maria Concetta Riina è stata licenziata da segretaria nella concessionaria di automobili dove lavorava da dieci anni, licenziamento per giusta causa e che La Barbera insieme alla sua collega Michela Mazzola vogliono adesso impugnare: «Ricorreremo al giudice del lavoro, chiederemo il reintegro e un’indennità risarcitoria» spiega l’avvocato nel suo studio di Villabate, pochi chilometri da Palermo, l’unico comune d’Italia che ha avuto sia lo scioglimento per mafia che il commissario chiamato a governarlo indagato a sua volta per mafia. E certo anche La Barbera sa che è possibile rincorrere il diritto ma che è impossibile chiedere di cambiare i connotati ai clienti. «Comprendo pure il mio datore di lavoro. Lo hanno costretto a licenziarmi. Era addolorato ma non aveva scelta. Mi chiedo solo perché» dice Maria Concetta che anche quando è seduta si sente un’imputata. Non crede che l’abbia assunta per riverenza come scrive il prefetto? «Mi ha assunta dopo avermi conosciuta in spiaggia sotto l’ombrellone. Un’amicizia che è nata e che poi si è tradotta in un lavoro da segretaria, lontana da qualsiasi contatto con il pubblico. Se avesse provato riverenza nei miei confronti non avrebbe osato licenziarmi per un’interdittiva. Fin quando mi è stato possibile ho lavorato come farebbe la signora Rossi da mattina a sera. Io e mio marito siamo una delle tante famiglie normali di questo paese. 1100 euro di stipendio, un mutuo, la bambina lasciata alla nonna. E se non mi avessero licenziata sarei rimasta quella persona anonima che ho sempre cercato di essere in paese. Solo oggi agli occhi di tutti sono tornata a essere una Riina. Non esco più di casa per paura dell’ottusità della gente». La ignoravano o la temevano? «Mi presento a tutti come Maria Concetta, ormai sono abituata a omettere il mio cognome e non perché me ne vergogni, ma perché so benissimo che tutti penserebbero a mio zio e smetterebbero di vedermi come donna e madre. Oggi, dopo questa interdittiva, non sono più una donna ma un’entità». La Barbera, che mafiosi ne ha difeso, finora mai si era imbattuto nell’accusa di mafia per biologia che si dice pronto a smontare nei tribunali ma che prima ancora vorrebbe abbattere più come pregiudizio che come capo: «È evidente che qui siano gravemente compromessi i principi costituzionalmente garantiti del diritto al lavoro. Siamo di fronte ad un inorridimento delle norme giuridiche. La mia cliente cerca solo una giusta e anonima quotidianità». E anche Michela Mazzola insieme a Claudia Gasperi, due giovani avvocate determinate e specializzate in diritto del lavoro, e che adesso difendono la Riina, dicono che più delle norme di mafia qui andrebbero rilette quelle sullo statuto dei lavoratori: «Si tratta di un vero e proprio atto persecutorio a una lavoratrice», dice la Gasperi. Volete fare “guerra” allo Stato? «Agiremo contro il prefetto e il ministro degli Interni - aggiunge La Barbera a volte sfiduciato e disincantato anche lui - non ho mai visto tanta ipocrisia. Va bene il diritto, ma qui siamo alla barbarie dei nomi come destino». In Sicilia, lo ripetiamo, adesso è l’anagrafe che andrebbe bonificata. Ecco, forse dopo i migranti è arrivato il momento di assegnare lo status di rifugiato anche ai figli senza colpa, ai nipoti senza macchia come Maria Concetta Riina, concedere l’asilo dal cognome. «Ditemi cosa debbo intanto fare per vivere. Nessun azienda può assumermi. Neppure per togliere la spazzatura da un ristorante mi assumerebbero. Me lo cerchi lo Stato un posto di lavoro dove il mio nome non possa avere influenze o destare referenze. Me lo dica lo Stato». Lasciamo Palermo pensando che davvero tutto ci inquieta tranne questa donna.

Intervista di Dina Lauricella ad Angelo Provenzano figlio di Bernardo Provenzano. Il figlio del Boss Provenzano parla per la 1a volta a Servizio Pubblico il 15.3.2012. Il vero giornalismo racconta i fatti, non promuove opinioni ideologiche culturalmente conformate. Ciononostante l’intervista ha suscitato l’indignazione dei mafiosi antimafiosi. Perché in Italia secondo i cittadini “onesti”, che ogni giorno salgono agli onori della cronaca, i mafiosi son sempre gli altri.

Il figlio di Bernardo Provenzano star per turisti. E quei rapporti difficili nella famiglia del boss. Angelo Provenzano è diventato, per fare soldi, un'attrazione per gli americani che arrivano in Sicilia e vogliono immergersi nelle atmosfere del Padrino. E una vecchia intercettazione di una discussione col fratello spiega cosa significa avere il boss dei boss come padre, scrive Lirio Abbate il 30 marzo 2015 su "L'Espresso". L'attrazione per i turisti americani che pagano un viaggio di andata e ritorno per la Sicilia, anzi per Corleone, è diventato Angelo Provenzano, 39 anni, figlio del vecchio capomafia Bernardo Provenzano. Gli Yankees sono ancora legati alle immagini del film il Padrino. Immagini che raccontavano di don Corleone e del clan siciliano. Oggi un tour operator sfrutta quel mito grazie anche al fatto che il punto finale della visita guidata a Palermo è proprio Corleone, dove i turisti incontrano personalmente la star, Angelo Provenzano, ingaggiato dalla società americana. E lui racconta a modo suo la mafia, la sua vita e la latitanza del padre. Scelte personali che hanno il solo scopo di fare soldi. A sei mesi dall'arresto di Bernardo Provenzano i poliziotti avevano registrato un'interessante conversazione fra i figli del boss Angelo e suo fratello Paolo. È il 28 settembre 2005 e gli agenti ascoltano i due fratelli, mentre chiacchierano in una cabina della motonave La Suprema, il ferryboat che da Palermo li porta a Genova. Paolo sta trasferendo tutte le sue cose in Germania dove in quel momento si trasferiva per un periodo di insegnamento, ed ha chiesto al fratello di guidare con lui un’auto piena zeppa di bagagli. È una conversazione importante che alla luce del risvolto “turistico” di Angelo Provenzano è utile ricordare per analizzare la vita dei due ragazzi e della loro madre. Per comprendere che rapporto avevano con il padre, durante la latitanza. Questa intercettazione l'avevamo riportata per la prima volta nel libro “I Complici” scritto con Peter Gomez, in un capitolo che raccontava proprio di “due fratelli in barca”. Il rumore della sala macchine è un cupo ronzio confuso, i due figli del boss stanno cenando. Sul tavolino pieghevole di formica c’è il cibo che Saveria, loro madre, ha preparato a casa. I ragazzi lo guardano e pensano che nelle ultime settimane le incomprensioni in famiglia sono aumentate. Le tensioni sono ormai evidenti: a zio Simone, il fratello di Binu che li ha allevati in Germania, è stato persino vietato di entrare in casa quando Saveria è sola. Ha fatto troppe domande che non doveva, anche sull’operazione alla prostata di suo fratello Bernardo, si è lasciato sfuggire molte parole di troppo. Ma il capo dei capi lo ha scoperto, si è adirato e ha disposto l’ostracismo nei suoi confronti. «Lo zio Simone non si lamenta. Dice soltanto che ci sono delle cose mal riportate oppure che quello [Binu] è uscito folle. Altra soluzione non ne ha», spiega Paolo. «E le cose che sono mal riportate [secondo lui] da dove vengono? [Intende dire] che gliele andiamo a riportare male noi altri? Giusto». «O la mamma, Angelo». Dunque zio Binu, in quelle prime settimane di autunno, è ancora lì, vicinissimo a Corleone, tanto vicino che i suoi parenti lo vanno a trovare, discutono con lui, parlano di un’abitazione che deve essere lasciata in eredità a qualcuno, riaprono vecchie ferite, solo nascoste, ma mai del tutto rimarginate. Il suo arrivo, dopo quattordici anni di lontananza, in un nucleo familiare che ormai era riuscito a trovare da solo i propri equilibri, sta minando dalle fondamenta ogni certezza. E oltretutto Paolo, che ha solo ventitré anni e che di fatto non frequenta più il padre da quando ne aveva nove, si è dovuto confrontare con un genitore che è per lui un estraneo. Dice al fratello: «Tra l’altro, ci sono sempre state cose che a me hanno dato fastidio: perché quando lui [nel 1992] ha detto di partire [cioè di tornare a Corleone], siamo dovuti partire a prescindere da tutti nostri cazzi di problemi e nessuno se ne è mai fatto un baffo? [E anche] questa volta [quando] io sono arrivato [dal mio nuovo lavoro in Germania, era] il primo sabato [libero], va bene? E siamo dovuti andare là, siamo andati a finire là [nel suo nascondiglio]. L’interesse suo non so quale sia. Io non vedo interesse in un colloquio, in un dialogo con lui: almeno personalmente con me non c’è mai stata una cosa del genere. [...] Quando mi dovevo laureare [nel marzo del 2005] e dovevo fare l’ultimo esame, non gliene è fottuto a nessuno se io potevo avere i miei problemi e invece dovevo andare a fare la bella statuina da lui. Perché poi io vado a fare [solo quello] da lui. Tu [Angelo] bene o male, sei sempre stato più coinvolto, ma io da lui ho sempre fatto la bella statuina, fin da piccolo». Il doloroso sfogo sul difficile rapporto con un padre latitante (nel vero senso della parola) va avanti per cinque minuti buoni. La cabina della motonave si riempie di risentimenti, di recriminazioni, di frasi che forse Paolo vorrebbe non aver mai pronunciato. Poi il fratello maggiore lo interrompe: «Paolo, vuoi sapere come la penso? Lui nel posto dove si trova ci si è davvero trovato per caso». «E io dovrei essere contento di una cosa del genere? Io devo essere contento che le cose succedano per caso? Io devo essere contento che ora si sta ricostituendo questa sorta di unione [familiare]… per caso! Anzi no, io lo chiamo caso e lui la chiama invece volontà di Dio [...] e poi neanche te lo ammettono che è per caso, Angelo». «No, assolutamente perché…». «[Pensa di aver fatto per noi] tutte cose, lui. [Papà continua a ripetere:] “ora ti racconto di quando [io e gli zii] eravamo piccoli”. [Dice] che suo padre gli dava le bastonate e che lui a nove anni se ne andava a vendere i [parola incomprensibile], e invece noialtri [abbiamo avuto tutto]. [Ma] quando ti [fa] la domanda: “Ti è mai mancato niente?” [Si può] mai aspettare una risposta positiva? [Perché la fa,] perché cerca sicurezza? [...] Mi dispiace [dirlo], mi dispiace». Angelo non lo contraddice, ma invita a riflettere. In famiglia, come in ogni famiglia, tutti hanno le loro colpe, le loro responsabilità. Ce l’ha Saveria, loro madre, «che ha subito tutte le decisioni, che non ha mai avuto il coraggio di dire: “questa cosa mi piace, questa cosa non mi piace, facciamola così, facciamola colì”». E ce le hanno anche loro, perché in casa Provenzano «hanno subito tutti». «Se poi ci sono anche delle responsabilità personali questo è un discorso. [Lo possiamo] addossare al destino, alla volontà di Dio... [Ma] i dati di fatto sono che noi abbiamo subìto tutta una serie di situazioni e le continuiamo a subire. Non ci si può né ribellare né provare ad aggiustare la croce per portarla con comodo. [Io] non l’ho mai detto a nessuno, [...] ma quanti si sono resi conto che la situazione, che abbiamo vissuto noi, è addirittura peggiore di avere un padre morto?». Quante domande, quanti interrogativi senza risposta. «[Stiamo vivendo] cose assurde, Angelo. O assurdo sono io. Boh, mi piacerebbe tanto saperlo certe volte. Mi piacerebbe veramente cominciare a capire la vita come va… e se continua così». «Quando ci sveglieremo e lo avremo capito avremo settanta anni ciascuno, Paolo, e sarà troppo tardi».

“Fiero di mio padre”: il figlio di Bernardo Provenzano parla a Servizio Pubblico. L'intervista esclusiva al primogenito del boss di Cosa Nostra in onda nella puntata di stasera del programma di Santoro. "Falcone e Borsellino? Due vittime immolate sull'altare della patria, due vittime della violenza", scrive David Perluigi il 15 marzo 2012 su "Il Fatto Quotidiano". “La verità processuale dice che mio padre è stato il capo di Cosa Nostra. Certo, a pensare che oggi, a distanza di 20 anni dalle stragi, sui giornali si sta parlando di revisione, dobbiamo riscrivere qualche verità a questo punto”. Le parole sono cadenzate, intervallate da sospiri, pronunciate per la prima volta davanti a una telecamera da Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, 36 anni il primogenito del capomafia corleonese. Bell’aspetto, ben vestito, buona dialettica, lavora nel settore vinicolo. Sicuro di sé, si definisce “fiero del padre”. E’ il ritratto che se ne ricava dall’intervista video esclusiva rilasciata all’inviata di Servizio Pubblico, Dina Lauricella, che andrà in onda stasera alle 21. Mesi di tentativi, attraverso la mediazione di uno degli avvocati dei Provenzano, Rosalba Di Gregorio: un primo contatto un anno fa, un “no che lasciava comunque delle aperture” racconta al Fatto la giornalista palermitana “poi nuovi, pazienti tentativi, fino a un mese fa quando il legale di famiglia, mi dice: 'Chiami lei signorina direttamente il signor Angelo questa volta'”. Studi da geometra, incensurato, come anche il fratello più piccolo di tre anni, Francesco Paolo, “unico, e io per lui, compagno di giochi per 16 lunghi anni, gli anni anche della mia latitanza. Ho vissuto in un reality show, essere figlio di una persona latitante per 43 anni, vuol dire essere messo sotto controllo e ne sono stato consapevole. Solo dopo la fine della mia ‘latitanza’ è cominciata la mia rinascita, il contatto con la gente, prima conoscevo solo pochi volti”. Gli viene chiesto cosa ne pensa dei collaboratori di giustizia e alle loro ricostruzioni sul periodo stragista. Provenzano accenna un sorriso: “Sì, è un’anomalia tutta italiana questa dei collaboratori di giustizia. Ma stiamo parlando di uomini e si possono dare anche delle indicazioni sbagliate. In ogni cosa in cui c’è l’uomo c’è la possibilità dello sbaglio”. “Sulle stragi, sopra l’impronta della mafia, si accavalla l’ombra dello Stato”, interviene la giornalista. “In questi anni – risponde – mi sono cimentato nello studio delle cose, mi sono imbattuto nella strage di Portella della Ginestra, dopo 50 anni scopriamo, forse, che non è stata opera di un bandito, Salvatore Giuliano, ma di un pezzo dell’esercito italiano. Mi sembra che sia un copione che venga recitato la seconda volta e non è su queste cose che si può fondare una fiducia incondizionata, quando qualcosa parte dall’interno dello Stato – continua – si rischia di perdere la fiducia”. “Chi sono per lei Falcone e Borsellino?” chiede Lauricella. “Per me sono due vittime immolate sull’altare della patria. Sono due vittime della violenza”. Fa attenzione a non usare mai il termine “mafia” Angelo Provenzano; anche quando gli viene chiesto “la mafia le fa schifo?”, lui risponde: “Tutti i tipi di violenza mi danno fastidio”. Sul punto in cui Riina sostiene che sia stato Bernardo Provenzano a venderlo allo Stato, Angelo è netto: “Se riesce a ottenere il permesso dal Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), vada a rivolgere la domanda direttamente a mio padre”. Sulla possibilità che un giorno il padrino possa collaborare con la giustizia, replica: “Nello stato attuale trovo che sia difficile immaginarlo che collabori con lo Stato, sarebbe una dimensione totalmente nuova”. “Ma cosa chiede oggi lei in concreto, nei fatti?”. “Quello che io chiedo è che si faccia una perizia per capire se mio padre è capace di intendere e volere, se a livello neurologico possa essere curato. Vorrei dignità. Ma deve stabilirlo lo Stato. Noi siamo consapevoli che sarà difficile che venga scarcerato, chiediamo però che venga curato. Mio padre – prosegue – vive un decadimento neurologico tale da non poter ricevere cure chemioterapiche per il suo tumore alla prostata. Perché ci deve essere questa discriminante? Perché si chiama Provenzano? Perché è un membro di Cosa Nostra?”. “L’incapacità di intendere e volere potrebbe mettere a rischio il proseguimento di processi fondamentali?”, conclude la giornalista. “Che qualcuno si prenda allora la responsabilità di istituire la pena di morte anche ad personam”.

La giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.

A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare.

In virtù degli scandali gli Italiani dalla memoria corta periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti.

La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare?

Le aziende messe ko dallo Stato in nome dell'antimafia. In fumo 72mila posti di lavoro. Non è mai stato creato un albo degli amministratori giudiziari e neppure una tabella dei compensi. E i furbetti fanno affari e disastri, scrive Luca Fazzo, Lunedì 05/01/2015, su "Il Giornale". Serrande abbassate sul Café de Paris, nel cuore di via Veneto, a Roma. Trentadue operai al posto di 2.500 alla Colocoop di Milano. Un buco di due milioni e mezzo alla Calf di Catania, che prima macinava utili. Cos'hanno in comune un bar nella Capitale, una cooperativa di lavori stradali, una società di servizi portuali in Sicilia? Sono passate nel tritacarne della legge antimafia, quella che prevede misure draconiane per colpire gli interessi economici della criminalità. Legge sacrosanta nei princìpi. Ma che si risolve in una Caporetto quando, dopo che aziende grandi e piccole sono finite nel mirino della giustizia, accusate a ragione o a torto di essere la longa manus delle cosche, a prenderle in mano è lo Stato. Dovrebbe essere lo Stato a incarnare l'economia buona che prende il posto di quella cattiva, mandando avanti secondo legalità ciò che prima viveva nell'orbita del crimine. Risultato: un disastro. L'ultimo rapporto di Srm, l'osservatorio sull'economia meridionale di Intesa San Paolo, parla di settantaduemila posti di lavoro (diecimila più dell'intera Fiat!) persi nel passaggio delle imprese dalle mani del crimine a quelle dello Stato. Di oltre millesettecento aziende sequestrate, ne sono ancora vive trentotto. Trentotto. E va bene che la catastrofe può avere più di una spiegazione nobile: l'azienda mafiosa sta a galla più facilmente, perché non rispetta le regole, paga in nero, intimidisce i concorrenti, soggioga i clienti. Tutte armi che lo Stato non ha. Ma gli addetti ai lavori sanno bene che dietro alla catastrofe dei beni c'è anche un colossale problema di inefficienza dello Stato, che si è assunto un dovere che non è in grado di compiere. A partire dai livelli più alti. Il Codice antimafia varato nel 2011 prevedeva che venisse creato un albo nazionale degli amministratori giudiziari, i professionisti incaricati di gestire le aziende confiscate: sono passati più di tre anni, e l'albo ancora non c'è. A febbraio dello scorso anno, il governo ha promesso il varo di una tabella nazionale dei compensi da pagare agli amministratori: non si è vista neppure questa, col risultato che ogni tribunale si regola a modo suo, e a mandare avanti (e più spesso ad affossare) le aziende sono commercialisti pagati a volte cifre spropositate. Anche sui criteri di scelta ci sarebbe da discutere: nell'inchiesta su Mafia Capitale compare il nome di Luigi Lausi, uno dei professionisti cui il tribunale romano ha affidato una lunga serie di aziende confiscate, di cui Salvatore Buzzi dice «Lausi è mio». E a volte, come nel caso della Piredil di Milano, si scopre che gli amministratori inviati dal tribunale continuavano a trescare con i vecchi proprietari. Ci sono tre modi in cui lo Stato interviene per colpire gli interessi economici del crimine. Il primo, il più semplice, è l'interdittiva antimafia spiccata dalle prefetture, che non decapita le aziende ma si limita a bloccare i loro appalti pubblici: spesso è più che sufficiente per affossarle. Sacrosanto quando dietro ci sono davvero i clan; meno quando, come nel caso della Colocoop, nel frattempo i manager sospettati di essere collegati ai clan sono stati assolti. Poi c'è il sequestro disposto dai pm durante le inchieste. Infine, ed è lo strumento più usato, il provvedimento delle cosiddette «misure di prevenzione», che può scattare a prescindere dall'esistenza di un'inchiesta penale, sulla base di un semplice sospetto, o anche se il processo penale è finito in nulla. Il provvedimento ha una durata massima di diciotto mesi, quanto basta per disintegrare qualunque azienda, ed è inappellabile. Il caso più eclatante da questo punto di vista è probabilmente quello di Italgas, l'azienda di distribuzione gas di Snam, tremila addetti, messa sotto amministrazione giudiziaria dal tribunale di Palermo il 9 luglio 2014 sulla base di remoti contatti di un manager locale con una ditta in odore di mafia. Il manager non è mai stato neanche indagato, la ditta è stata assolta con formula piena, ma Italgas rimane commissariata. Per giovedì prossimo era fissata un'udienza, ma a fine dicembre i pm hanno chiesto e ottenuto il rinnovo del commissariamento per altri sei mesi; nel frattempo, secondo alcuni calcoli, gli amministratori nominati dal tribunale hanno già presentato parcelle per diversi milioni di euro. Nel corso dell'audizione davanti alla commissione Antimafia, il deputato di Scelta civica Andrea Vecchio ha motivato così il trattamento riservato all'azienda: «Mi sono arrivate chiacchiere da bar secondo le quali, in passato, la quasi totalità delle imprese che hanno messo i tubi per la Snam, da nord a sud, erano mafiose». Così, tra inchieste serie e chiacchiere da bar, l'elenco delle aziende inghiottite e distrutte in nome dell'antimafia cresce giorno per giorno. Fare i conti di questo disastroso business è quasi impossibile. Secondo le stime più caute, il valore totale dei beni confiscati è intorno ai dieci miliardi di euro, ma la commissione Antimafia parla di un totale superiore ai trenta miliardi. Una parte di questo colossale patrimonio è costituito da beni immobili, che hanno il pregio di essere poco deperibili, e di poter essere dati in affido a associazioni antimafia come Libera di don Ciotti, o usate - è uno degli ultimi casi - per alloggiare i carabinieri della compagnia di Partinico. Ma la fetta più grossa è quella delle attività imprenditoriali, ed è qui che lo Stato-manager fa i danni peggiori. Dal momento della confisca di primo grado, i beni vengono presi in mano dall'Agenzia nazionale per i beni confiscati, guidata da un prefetto. In teoria, dovrebbe esserci anche un consiglio direttivo, ma è vacante da tempo, compresi i due «qualificati esperti in materia di gestioni aziendali e patrimoniali», che dovrebbero cercare di evitare la dissipazione dei beni sequestrati. Così, nel frattempo, la distruzione va avanti. Gli amministratori giudiziari vengono pagati profumatamente, qualunque siano i danni che producono. «La verità - dice un addetto ai lavori - è che oggi fare l'amministratore dei beni confiscati è un business ambito. Si fanno un sacco di amicizie, non si rischia niente, si guadagna bene».

Antimafia, la profezia di Sciascia. È evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. Non si tratta di accuse generiche, si possono fare nomi e cognomi, scrive Paolo Mieli il 6 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". Adesso dovremmo tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Leonardo Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. E, se il presidente di Confindustria in uscita, Giorgio Squinzi, volesse fare un gesto di cortesia nei confronti del suo successore, Vincenzo Boccia, utilizzerebbe gli ultimi giorni del suo mandato per convincere il suo proconsole in Sicilia Antonello Montante — grande sostenitore della lotta a Cosa Nostra ma da oltre un anno indagato per concorso esterno in associazione mafiosa — a farsi da parte. E, nel contempo, ad abbandonare l’ingombrante incarico di delegato «per la legalità» di tutti gli industriali italiani. Non sono del tutto chiare le vere ragioni che hanno indotto Squinzi fin qui (ancora domenica sera, intervistato da Milena Gabanelli) a non esortare Montante ad affrontare la sua vicenda giudiziaria senza coinvolgere l’organizzazione che rappresenta. Ma sarebbe nobile da parte sua lasciare al presidente che verrà dopo di lui una Confindustria simile a quella di dieci anni fa quando Ivan Lo Bello, proprio in Sicilia, avviò una campagna di pulizia che ebbe un’eco di approvazione in tutto il Paese. Eviteremmo così grandi imbarazzi come quello in cui si sarebbe potuto trovare domattina il capo dello Stato, Sergio Mattarella, il quale, in visita ufficiale a Noto per rendere onore allo straordinario restauro della Cattedrale, dovrà affidarsi a un rigidissimo protocollo che — salutati il governatore della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Corrado Bonfanti — gli eviti di stringere le mani di qualche rappresentante della politica o dell’imprenditoria siciliana. Personaggi «a rischio» anche (e forse soprattutto) nel caso si presentino avvolti nelle bandiere della lotta ai padrini. Cosa sta succedendo in Sicilia? I campioni dell’antimafia «non servono più», lo ha detto persino Leoluca Orlando: «Chi si ostina a voler rimanere tale, spesso si rivela poi un impresentabile o un corrotto». Stiamo parlando di un fenomeno gustosamente descritto da Nando Dalla Chiesa: «A un convegno si presenta il tale magistrato che fu “impegnato nella trincea di Palermo ai tempi di Giovanni Falcone”. Seguono applausi… che cos’abbia fatto non si sa, magari complottava contro Falcone. Il tal’altro è invece un freelance minacciato dalla mafia e dunque censurato (magari ha solo fatto un dvd o un libro fallimentare): subito invitato nelle scuole, anche a pagamento. Un nullasapiente gioca a spararla più grossa di tutti, delirando di trame e di complotti? È l’unico che ha il coraggio di dire le cose come stanno, meno male che c’è lui. E poi il commerciante che pretende di essere in pericolo di vita e se la prende con gli “antimafiosi da tastiera” che non solidarizzano abbastanza, salvo scoprire che paga un delinquente per sparargli contro il chiosco». Giancarlo Caselli, a proposito della legge per la gestione dei beni confiscati ai mafiosi, ha constatato che «è venuta delineandosi anche un’antimafia degli affari e delle partite Iva, un mestiere, un sistema di relazioni opache». Raffaele Cantone si dice preoccupato per alcuni «fatti oggettivi»: il «coinvolgimento in indagini giudiziarie di soggetti considerati icone dell’antimafia»; le «vicende che hanno sfiorato magistrati di primissimo livello per i quali si credeva che il contrasto alle mafie fosse un valore»; la «questione dei beni confiscati e il fatto che sia stata messa in discussione persino Libera», l’associazione di don Luigi Ciotti. Tutti coloro che si occupano di mafia da vicino sanno che le cose da tempo stanno proprio così: Rosy Bindi ha messo questo tema all’ordine del giorno della Commissione da lei presieduta; lo storico Salvatore Lupo (assieme a Giovanni Fiandaca) ne ha cominciato a scrivere con coraggio. E già si pubblicano libri che denunciano questi camuffamenti: «Contro l’Antimafia» di Giacomo Di Girolamo; «Antimafia Spa» di Giovanni Tizian e Nello Trocchia; «Le trappole dell’Antimafia» di Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria. Lo studioso Rocco Sciarrone (in «Alleanze nell’ombra») dimostra, dati alla mano, che tutte ma proprio tutte le imprese della connection mafiosa in provincia di Palermo si erano «travestite» con una pronta adesione ad associazioni antiracket. Accuse generiche? No. Si possono fare nomi e cognomi. Vincenzo Artale titolare di un’azienda di calcestruzzo che da dieci anni era salito alla ribalta come grande accusatore di mafiosi e, un anno fa, era stato eletto in un ruolo dirigente dell’associazione antiracket del suo paese, è stato arrestato in provincia di Trapani per tentata estorsione «aggravata dal favoreggiamento alla mafia» (quella di Mazara del Vallo). I costruttori Virga di Marineo, a dispetto del loro sostegno alle associazioni nemiche di coppola e lupara e dei riconoscimenti ottenuti da associazioni del calibro di «Addio pizzo», di «Libero futuro» e financo dal Fai, sono stati accusati di essersi arricchiti con il sostegno del mandamento di Corleone. Mimmo Costanzo anche lui grande paladino antimafioso, è stato arrestato nell’inchiesta sulla corruzione Anas ed è al centro di indagini per i suoi rapporti con la cosca catanese. Idem Concetto Bosco Lo Giudice finito, con lo stesso genere di imputazioni, ai domiciliari. E se non è mafia, sono comunque storie di natura consimile. Carmelo Misseri imprenditore di Florida in provincia di Siracusa («ribellarsi è giusto», ripeteva in pubblico) pagava tangenti alla Dama Nera dell’Anas, Antonella Accroglianò. E, a proposito di Siracusa, c’è l’imbarazzante caso di una Confindustria locale guidata dapprima da Francesco Siracusano (dimissionato per affari sospetti), poi commissariata con Ivo Blandina (rinviato a giudizio per un’allegra gestione di fondi con i quali aveva acquistato uno yacht) e infine con Gianluca Gemelli ( il «marito» di Federica Guidi travolto, assieme alla compagna ministra, dalla vicenda Total). Il presidente della Camera di Commercio di Palermo Roberto Helg anche lui proclamatosi grande combattente contro «la piaga delle estorsioni», è stato condannato a quattro anni e otto mesi dopo che era stato filmato mentre intascava una tangente di centomila euro da un poveretto che voleva aprire una pasticceria all’aeroporto del capoluogo siciliano. E tramite il «caso Helg» si scopre una parentela tra le vicende siciliane di Confindustria e quelle di Unioncamere, altra associazione in cui si notano sintomi di diffusione dell’infestazione qui descritta. Per non farsi mancare nulla, Montante è anche presidente Unioncamere Sicilia e della Camera di Commercio di Caltanissetta. Se Squinzi volesse favorire il debutto del suo successore, potrebbe trovare l’occasione (che so?) di pronunciare a freddo un «elogio di Sciascia». Montante capirebbe l’antifona e ne trarrebbe le conseguenze. Forse.

Giuseppe Costanza ha deciso di parlare perché a suo parere troppi lo fanno a sproposito. C' è un uomo che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa sull'apparizione di Riina junior in Rai e sulla lotta alla mafia in generale. È Giuseppe Costanza, l'autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992. Costanza era a Capaci, scrive Alessandro Milan per “Libero Quotidiano” il 18 aprile 2016. Di più, Costanza era a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria sul tritolo azionato da Giovanni Brusca. Eppure in pochi lo sanno. Perché per quei paradossi tutti italiani, e siciliani in particolare, da quel giorno Costanza è stato emarginato. Non è invitato alle commemorazioni, pochi lo ricordano tra le vittime. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di essere suo ospite a cena in Sicilia e ho ricavato la sensazione di trovarmi di fronte a qualcuno che è stato più del semplice autista di Giovanni Falcone: forse un confidente, un custode di ricordi e, chissà, uno scrigno di segreti. Che però Costanza dispensa col contagocce: «Perché un conto è ciò che penso, un altro è ciò che posso provare». Un particolare mi colpisce del suo rapporto con Falcone: «Il dottore - Costanza lo chiama così - aveva diritto a essere accompagnato in macchina, oltre che da me, dal capo scorta. Ma pretendeva che ci fossi solo io».

Perché non si fidava di nessun altro?

«Quale altro motivo ci sarebbe?».

Cominciamo da Riina a "Porta a Porta"?

«Mi sono rifiutato di vederlo. Solo a sapere che questo soggetto era stato invitato da Bruno Vespa mi ha dato il voltastomaco. Vespa qualche anno fa ha invitato pure me, mi ha messo nel pubblico e non mi ha rivolto una sola domanda. Ora parla con il figlio di colui che ha cercato di uccidermi. I vertici della Rai dormono?».

Cosa proponi?

«Lo Stato dovrebbe requisire i beni che provengono dalla vendita del libro di Riina. Questo si arricchisce sulla mia pelle».

Lo ha proposto la presidente Rai Monica Maggioni.

«Meno male. Ma tanto non succederà nulla. D'altronde sono passati 24 anni da Capaci senza passi avanti».

Su che fronte?

«Hanno arrestato la manovalanza di quella strage. Ma i mandanti? Io un'idea ce l'ho».

Avanti.

«Presumo che l'attentato sia dovuto al nuovo incarico che Falcone stava per ottenere, quello di Procuratore nazionale antimafia».

Ne sei convinto?

«Una settimana prima di Capaci il dottore mi disse: "È fatta. Sarò il procuratore nazionale antimafia"».

Questa è una notizia.

«Ma non se ne parla».

Vai avanti.

«Se lui avesse avuto quell'incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone mi disse che all' Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli. Chiediti quali poteri ha avuto il Procuratore antimafia in questi anni. E pensa quali sarebbero stati se invece fosse stato Falcone».

Chi non lo voleva all'Antimafia?

«Forse politici o faccendieri. Gente collusa. Ma queste piste non le sento nominare».

Torniamo ai mandanti.

«L'attentato a Palermo è un depistaggio, per dire che è stata la mafia palermitana. Sì, la manovalanza è quella. Ma gli ordini da dove venivano? Ti racconto un altro particolare. Io personalmente, su richiesta di Falcone, gli avevo preparato una Fiat Uno da portare a Roma. E lui nella capitale si muoveva liberamente, senza scorta. Se volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Ricorda l'Addaura».

21 giugno 1989, il fallito attentato all'Addaura. Viene trovato dell'esplosivo vicino alla villa affittata da Falcone.

«Io c'ero».

All'Addaura?

«Sì, ero lì quando è intervenuto l'artificiere, un carabiniere. Eravamo io e lui. Lui ha fatto brillare il lucchetto della cassetta contenente l'esplosivo con una destrezza eccezionale. Poi ha dichiarato in tribunale che il timer è andato distrutto. Ha mentito. Io ho testimoniato la verità a Caltanissetta e lui è stato condannato».

Invece come è andata?

«L'esplosivo era intatto. Lo avrà consegnato a qualcuno, non chiedermi a chi. Evidentemente lo ha fatto dietro chissà quali pressioni».

Falcone aveva sospetti dopo l'Addaura?

«Parlò di menti raffinatissime. Io posso avere idee, ma non mi va di fare nomi senza prove. Attenzione, io non generalizzo quando parlo dello Stato. Ma ci sono uomini che si annidano nello Stato e fanno i mafiosi, quelli bisogna individuarli».

23 maggio 1992: eri a Capaci.

«Ma questo agli italiani, incredibilmente, non viene detto. Quella mattina Falcone mi chiamò a casa, alle 7, comunicandomi l'orario di arrivo. Io allertai la scorta. Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo».

Cosa ricordi?

«Falcone, sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: "Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare". Lui rispose: "Scusi, scusi" e reinserì le chiavi. In quel momento, l'esplosione. Non ricordo altro».

Perché la gente non sa che eri su quella macchina?

«Mi hanno emarginato».

Chi?

«Le istituzioni. Ti sembra giusto che la Fondazione Falcone non mi abbia considerato per tanti anni?».

La Fondazione Falcone significa Maria Falcone, la sorella di Giovanni.

«Io non la conoscevo».

In che senso?

«Negli ultimi otto anni di vita di Giovanni Falcone sono stato la sua ombra. Ebbene, non ho mai accompagnato il dottore una sola volta a casa della sorella. Andavamo spesso a casa della moglie, a trovare il fratello di Francesca, Alfredo. Ma mai dalla sorella».

Poi?

«Lei è spuntata dopo Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo anno, alle commemorazioni, non mi ha invitato».

Ma come, tu che eri l'unico sopravvissuto, non eri alle celebrazioni del 23 maggio 1993?

«Non avevo l'invito, mi sono presentato lo stesso. Mi hanno allontanato».

È incredibile.

«Per anni non hanno nemmeno fatto il mio nome. Poi due anni fa ricevo una telefonata. "Buongiorno, sono Maria Falcone". Mi ha chiesto di incontrarla e mi ha detto: "Io pensavo che ognuno di noi avesse preso la propria strada". Ma vedi un po' che razza di risposta».

E le hai chiesto perché non eri mai stato invitato prima?

«Come no. E lei: "Era un periodo un po' così. È il passato". Ventitre anni e non mi ha mai cercato. Poi quando ho iniziato a denunciare il tutto pubblicamente mi invita, guarda caso. Comunque, due anni fa vado alle celebrazioni, arrivo nell'aula bunker e scopro che manca solo la sedia con il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi aspettavo che Maria Falcone dicesse anche solo: "È presente con noi Giuseppe Costanza". Niente, ancora una volta: come se non esistessi».

L' emarginazione c'è sempre stata?

«Un anno dopo la strage di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso, poi dopo le mie proteste mi hanno ridato il quarto livello, ma ero nullafacente».

Per l'ennesima volta: perché?

«Ho avuto la sfortuna di sopravvivere».

Come sfortuna?

«Credimi, era meglio morire. Avrei fatto parte delle vittime che vengono giustamente ricordate ma che purtroppo non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Diciamola tutta, questi presunti "amici di Falcone" dove cavolo erano allora? Ma chi li conosce? Io so chi erano i suoi amici».

Chi erano?

«Lo staff del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un sibilìo».

Tu vai nelle scuole e parli ai ragazzi: cosa racconti di Falcone?

«Che era un motore trainante. Ti racconto un episodio: lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava con il carrellino per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone».

È vero che amava scherzare?

«A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze».

Tu hai servito lo Stato o Giovanni Falcone?

«Bella domanda. Io mi sentivo di servire lo Stato, che però si è dimenticato di me. E allora io mi dimentico dello Stato. L'ho fatto per quell' uomo, dico oggi. Perché lo meritava. È una persona alla quale è stato giusto dare tutto, perché lui ha dato tutto. Non a me, alla collettività».

Il presidente Mattarella non ti dà speranza?

«Io spero che il presidente della Repubblica mi conceda di incontrarlo. Quando i miei nipoti mi dicono: "Nonno, stanno parlando della strage di Capaci, ma perché non ti nominano?", per me è una mortificazione. Io chiederei al presidente della Repubblica: "Cosa devo rispondere ai miei nipoti?"».

Questo silenzio attorno a te è un atteggiamento molto siciliano?

«Ritengo di sì. Fuori dalla Sicilia la mentalità è diversa. Devo dire anche una cosa sul presidente del Senato, Piero Grasso».

Prego.

«Di recente, a Ballarò, presentando un magistrato, un certo Sabella, come colui che ha emanato il mandato di cattura per Totò Riina, mi indicava come "l'autista di Falcone".

Ma come si permette questo tizio? Io sono Giuseppe Costanza, medaglia d'oro al valor civile con un contributo di sangue versato per lo Stato e questo mi emargina così? "L'autista" mi ha chiamato. Cosa gli costava nominarmi?».

Costanza, credi nell' Antimafia?

«Non più. Inizialmente dopo le stragi c'è stata una reazione popolare sincera, vera. Poi sono subentrati troppi interessi economici, è tutto un parlare e basta. Noi sopravvissuti siamo pochi: penso a me, a Giovanni Paparcuri, autista scampato all' attentato a Rocco Chinnici, penso ad Antonino Vullo, unico superstite della scorta di Paolo Borsellino. Nessuno parla di noi».

Il 23 maggio che fai?

«Mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non vengo nemmeno considerato. Questa è la vergogna dell'Italia».

“Meno attacchi in cambio di soldi”: indagato a Palermo paladino della tv antimafia. Pino Maniaci, direttore di Telejato. Il direttore di Telejato Pino Maniaci è sospettato di aver estorto favori e compensi a due sindaci. Le conversazioni intercettate, scrive Francesco Viviano il 22 aprile 2016 “La Repubblica”. Chiedeva, e avrebbe ottenuto, "contributi" e posti di lavoro in cambio di una linea morbida della sua televisione nei confronti di alcuni sindaci del Palermitano. Pino Maniaci, giornalista e direttore di Telejato di Partinico (Palermo), tv di frontiera antimafia, è sotto inchiesta, come racconta "Repubblica" oggi in edicola. La procura di Palermo ipotizza il reato di estorsione. Un'accusa gravissima per un personaggio che, da anni, dalla sua tv conduce battaglie contro mafia e malaffare. L'ultima, quella contro la gestione dei beni confiscati in cui sono coinvolti l'ex presidente delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo Silvana Saguto (sospesa dalle funzioni e dallo stipendio dal Csm), altri tre magistrati e l'amministratore giudiziario, Gaetano Cappellano Seminara, tutti indagati per vari reati e costretti alle dimissioni. "La vendetta della Procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato", replica il direttore di Telejato a "Palermo Today". Maniaci è stato più volte ascoltato e intercettato dai carabinieri nell'ambito di altre indagini: avrebbe ottenuto favori in cambio di una "linea morbida" della sua emittente nei confronti dei due amministratori comunali, i sindaci di Partinico e Borgetto. Dalle conversazioni intercettate sarebbero emersi altri elementi a carico di Maniaci che avrebbe ottenuto dal sindaco di Partinico e da quello di Borgetto, Gioacchino De Luca, finanziamenti sotto forma di pubblicità per la sua emittente televisiva. I due sindaci, interrogati da carabinieri e magistrati, avrebbero fatto delle ammissioni. Gli inquirenti avrebbero espresso anche qualche dubbio in relazione ad uno degli ultimi atti intimidatori che Pino Maniaci avrebbe subito nel dicembre del 2014 quando due suoi cani furono avvelenati ed impiccati. Per gli investigatori non si tratterebbe di una intimidazione mafiosa, ma sarebbe legata ad una vicenda privata. Ad aggravare la posizione di Maniaci, proprio le ammissioni di Salvatore Lo Biundo e Gioacchino De Luca, rispettivamente sindaci di Partinico e Borgetto. Maniaci tuttavia si ritiene estraneo ai fatti e così commenta: “La vendetta della Procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato”. Da parte sua Pino Maniaci rispedisce le accuse al mittente: “La vendetta della procura è arrivata. Non mi è arrivato alcun avviso di garanzia e sono certo che tutto ciò non porterà ad alcun rinvio a giudizio. Ma intanto mi hanno infangato”, ha detto il giornalista a PalermoToday. “Sapevamo di questa inchiesta, nata prima dello scandalo Saguto e che parte da alcune intercettazioni ben precise. Una – ha detto ancora al quotidiano – è quella fra l’ex prefetto di Palermo Silvana Cannizzo e la stessa Saguto, che a domanda rispose: ‘Ha le ore contate’. Penso possa entrarci anche la denuncia per stalking di Cappellano Seminara, che aveva l’obiettivo di farmi mettere sotto controllo il telefono. Il piano era ed è quello di bloccarmi per impedirmi di fare il mio lavoro. Chiederemo con il mio avvocato di essere sentiti, perché siamo sicuri che quello che dicono i magistrati sulle ammissioni è totalmente falso. Qualcuno non vuole che nostra inchiesta su incarichi Ctu e sezione Fallimentare continui. Ma noi andiamo avanti”.

Telejato, Maniaci: "Io indagato? L'Antimafia mi vuole fermare". Il direttore di Telejato Pino Maniaci risponde alle accuse in un'intervista di Lorenzo Lamperti su Affaritaliani.it il 22 aprile 2016.

"Non ho ricevuto nessun avviso di garanzia". Pino Maniaci, il direttore dell'emittente tv Telejato noto per le sue scomode inchieste antimafia, commenta a caldo in un'intervista su Affaritaliani.it la notizia riportata da Repubblica secondo la quale sarebbe indagato dalla Procura di Palermo con l'ipotesi di reato di estorsione.

Pino Maniaci, Repubblica scrive che lei sarebbe indagato con l'ipotesi di reato di estorsione.

«L'avvocato mi aveva detto di aspettare e non fare dichiarazioni prima di parlare con lui ma io non sono il tipo. Non avendo nulla da nascondere non ho nessun problema a parlare».

Ha ricevuto l'avviso di garanzia?

«Io non ho ricevuto nessun avviso di garanzia, non si capisce nemmeno che inchiesta è. Vogliono tirarmi un po' di merda addosso».

Si scrive che lei avrebbe ottenuto favori in cambio di un linea morbida della sua emittente Telejato nei confronti di due amministratori comunali.

«Intanto siamo nel campo delle ipotesi, ho letto testualmente. Quindi non capisco come sul campo delle ipotesi e su delle indagini in corso ci sia questa violazione grave. Come la possiamo definire, fuga di notizie? Non so come definirla...»

Ma che cosa risponde alle accuse?

«Entrando nel merito di quello che ho letto personalmente siamo stati querelati come emittente dal presidente del consiglio comunale di Borgetto perché in un servizio abbiamo detto che sono andati in America sia il presidente sia il sindaco a incontrare dei malavitosi. Tra le altre cose, il Comune tramite il sindaco si è costituito parte civile nel processo quindi non capisco dove sarebbe questa linea morbida di cui si parla».

Nessuna linea morbida neppure verso il Comune di Partinico?

«Sul Comune di Partinico abbiamo fatto giornalmente dei servizi sulla mala gestio che sono ovviamente verificabili negli archivi di Telejato».

Si scrive anche che sua moglie sarebbe stata assunta dal Comune di Partinico.

«Tutte minchiate. Sul campo delle assunzioni, io ho tutta la famiglia disoccupata e quindi non capisco come sia venuta fuori questa cosa. O meglio, forse lo capisco...»

Che cosa vuole dire?

«Partiamo da una denuncia che ho ricevuto a suo tempo per stalking da Cappellano Seminara. Una denuncia che ha fatto sì che mi tenessero sotto controllo non per diffamazione ma, appunto, per stalking. E poi c'è la questione dell'inchiesta sui beni sequestrati. E' un'inchiesta che non è piaciuta a molti e probabilmente c'era qualcuno che voleva bloccarla. Sa che cosa mi ha detto un magistrato? Mi ha detto così: "A questo punto stai attento che non ti ammazza la mafia ma l'antimafia"».

Pino Maniaci non potrà risiedere nelle province di Palermo e Trapani. Le intercettazioni svelano che non era minacciato dai boss, ma dal marito della sua amante, che gli avrebbe bruciato l'auto e impiccato i cani. Ma lui diceva in Tv: “Sono perseguitato per le mie inchieste”. Lo aveva chiamato pure Renzi per esprimergli solidarietà e poco dopo Maniaci commentava: "Mi ha telefonato quello stronzo", scrive Salvo Palazzolo il 4 maggio 2016 su “La Repubblica”. Non sono stati i boss di Cosa nostra a bruciare l’auto di Pino Maniaci, il direttore di Telejato diventato in questi anni un simbolo dell’antimafia. Non sono stati i boss a impiccare i suoi due amati cani. La mafia non c’entra proprio niente in questa storia. Le intercettazioni disposte dalla procura di Palermo svelano che le intimidazioni a Pino Maniaci le avrebbe fatte il marito della sua amante. E lui ne era ben consapevole. Ma ai giornali e alle Tv annunciava in pompa magna: “E’ stata la mafia a minacciarmi per le inchieste del mio tg”. Quel giorno, era il 4 dicembre dell’anno scorso, gli telefonò persino il presidente del Consiglio per esprimere solidarietà. E qualche minuto dopo, lui si vantava al telefono, con un’amica: “Ora tutti, tutti in fibrillazione sono, pensa che mi ha telefonato quello stronzo di Renzi”. E’ un altro Pino Maniaci – niente affatto eroe della legalità - quello che emerge dalle intercettazioni dei carabinieri della Compagnia di Partinico. Il giornalista è indagato per estorsione nei confronti dei sindaci di Partinico e Borgetto, come anticipato nei giorni scorsi da Repubblica: avrebbe preteso soldi e favori per ammorbidire i suoi servizi televisivi. Questa mattina, gli è stato notificato un provvedimento di divieto di dimora nelle province di Palermo e Trapani. Il provvedimento è stato emesso dal gip Fernando Sestito su richiesta dei sostituti procuratori Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi, Roberto Tartaglia e dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi. Un’inchiesta che si aggiunge alle altre di questi ultimi mesi sui simboli dell’antimafia finiti nella cenere. Pino Maniaci è accusato di aver estorto al sindaco di Partinico Salvatore Lo Biundo anche un’assunzione per la sua amante. Un contratto di solidarietà al Comune per tre mesi: “Alla scadenza, non poteva essere rinnovato – ha ammesso il sindaco interrogato dai carabinieri – ma Maniaci diceva che dovevamo farla lavorare a tutti i costi e allora io e alcuni assessori ci siamo autotassati per pagarla”. Intanto, lui si vantava al telefono con l’amante: “Per quella cosa ho parlato, già a posto, stai tranquilla, si fa come dico io e basta. Qua si fa come dico io se ancora tu non l’avevi capito… decido io, non loro… loro devono fare quello che dico io, se no se ne vanno a casa”. Per i magistrati è la prova chiarissima delle “vessazioni” imposte dal giornalista antimafia. Maniaci era ormai in pieno delirio di onnipotenza. All’amante diceva di volerle fare vincere un concorso all’azienda sanitaria locale di Palermo. Grazie alle sue solite buone amicizie. “Quello che non hai capito tu è la potenza… tu non hai capito la potenza di Pino Maniaci. Stai tranquilla che il concorso te lo faccio vincere”. E spiegava di essere in partenza per ritirare un premio antimafia: “A me mi hanno invitato dall’altra parte del mondo per andare a prendere il premio internazionale del cazzo di eroe dei nostri tempi, appena intitolato l’oscar di eroe dei nostri temi”. Era il novembre 2014. In un’altra occasione: “Ormai tutti e dico tutti si cacano se li sputtano in televisione”. Nei giorni scorsi, il giornalista si è difeso sostenendo di essere vittima di un complotto, per le sue denunce sulla gestione dei beni confiscati. Ma nel novembre 2014, l’inchiesta sulla gestione allegra della sezione Misure di prevenzione di Palermo non era neanche nella mente dei magistrati di Caltanissetta, che iniziarono a indagare nel mese di maggio successivo. L'indagine su Maniaci è nata per caso, durante alcuni accertamenti dei carabinieri sulle amministrazioni comunali. E stanotte è anche scattato un blitz dei carabinieri del Gruppo Monreale, fra Partinico e Borgetto, coinvolge nove presunti mafiosi. “C’è il sindaco che mi vuole parlare – diceva ancora all’amante – per ora lo attacco perché gli ho detto che se non si mette le corna a posto lo mando a casa, hai capito? A natale non ti ci faccio arrivare, che te ne vai a casa e non ci scassi più la minchia”. Poi aggiungeva: “Mi voglio fare dare 100 euro così domani te ne vai a Palermo tranquilla”. Intercettazioni che per la procura diretta da Francesco Lo Voi non lasciano spazio a interpretazioni. Il direttore di Telejato sussurrava ancora, a proposito del sindaco: “Dice che in tasca non ne aveva e che stava andando a cercare i soldi… i piccioli li deve andare a cercare a prescindere… così ne avanzo 150 di iddu”.

Indagine su Maniaci, il giornalista: "Abbiamo toccato poteri forti, me l'aspettavo". Il direttore di TeleJato è un fiume in piena: "Non ho nulla da temere, dopo il caso Saguto mi immaginavo qualcosa del genere. A proposito, a che punto è quell'inchiesta?", scrive Francesco Viviano il 22 aprile 2016 su “La Repubblica”. Da accusatore ad accusato dalla procura di Palermo con l’ipotesi di reato di estorsione nei confronti dei sindaci di Partinico e di Borgetto dai quali avrebbe ottenuto favori e contributi, cosa succede? “Abbiamo toccato poteri forti ed ovviamente ci aspettavamo una reazione che è puntualmente arrivata”. Pino Maniaci, direttore della emittente Telejato che copre un vasto territorio del palermitano e del trapanese, è un fiume in piena, si difende poco ma attacca molto come è nel suo stile preannunciando che attraverso il suo avvocato, l’ex pm antimafia Antonino Ingroia, denuncerà i magistrati che lo hanno indagato. Intanto su Facebook e Twitter il popolo del web si divide fra colpevolisti e innocentisti.

“L’iniziativa della Procura – afferma Maniaci - è un vero e proprio agguato ed una vendetta per il lavoro che abbiamo fatto e che facciamo ancora oggi contro il malaffare e l’ illegalità anche all’ interno della magistratura come nel caso dell’ inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia dove a capo di tutto c’era l’ex presidente della sezione misure di prevenzione Silvana Saguto ed il suo clan, che è stata indagata e punita dal Csm che l’ha sospesa dalle funzioni e dallo stipendio anche se lei continua a prendere oltre 5000 mila euro al mese”.

La Procura che tende agguati e che si vendica? Mi pare un po’ eccessivo o no?

“Guarda che già nel settembre scorso qualcuno dentro la procura di Palermo mi aveva avvertito dicendomi che entro dicembre sarei stato arrestato e che sarebbe stata proprio l’antimafia e non la mafia ad attaccarmi cosa che è puntualmente accaduta”.

Ma ci sarebbero delle intercettazioni che, secondo l’accusa, dimostrerebbero che avresti compiuto dei reati, ottenendo favori dai due sindaci di Borgetto e Partinico in cambio, diciamo così, di un occhio di riguardo nei loro confronti nei tuoi servizi giornalistici.

“Allora io dal sindaco di Borgetto contro cui ho fatto dei servizi per alcuni suoi viaggi sospetti negli Stati Uniti (e per questo mi ha anche querelato) dove avrebbe incontrato alcuni mafiosi, non ho ottenuto nulla. Da sua moglie, invece si”.

Che cosa?

“Dei contratti pubblicitari per Telejato dove pagava 250 euro al mese, cifre che fanno veramente ridere”.

Ed il posto di lavoro per una sua conoscente al comune di Partinico?

“Io non ho fatto assumere nessuno e dico e ripeto che nella mia famiglia, sono tutti disoccupati”.

Quindi nessuna assunzione di favore?

“Ripeto, nella mia famiglia sono tutti disoccupati”.

Quindi nulla di illegale? Ne sei proprio certo?

“Non ho nulla da temere, queste accuse della Procura di Palermo mi fanno ridere. Non ho ricevuto nessun avviso di garanzia né di conclusione delle indagini e questa è stata una vendetta per le mie inchieste sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Le mie intercettazioni sono nate a “tavolino”. Ci aspettavamo una cosa del genere soprattutto dopo la denuncia dell’avvocato Cappellano Seminara, amico della Saguto, anche lui finito indagato, che ha dato modo e possibilità alla procura di mettere sotto controllo il mio telefono e di intercettarmi. In Italia guai a toccare i poteri forti e tra questi la magistratura ma io continuerò il mio lavoro ed anche per questa indagine, attraverso il mio avvocato, Antonino Ingroia, li denuncerò, per competenza, alla Procura di Caltanissetta”.

Con quali accuse?

“Non posso anticipare nulla per il momento, ma starete a vedere….Proprio nei giorni scorsi su Telejato abbiamo ampliato lo spettro della nostra inchiesta sulla gestione dei beni confiscati a quella sulla sezione fallimentare del Tribunale di Palermo, dove ci sono interessi enormi e dove girano gli stessi nomi e cognomi, di amici degli amici dei magistrati e di altri amministratori giudiziari. Tutto questo dà fastidio, molto fastidio, ecco perché tentano di fermarmi con indagini che non hanno nè capo nè coda”.

Ma sapevi di questa inchiesta nei tuoi confronti?

“Qualcosa avevamo intuito proprio dalle intercettazioni relative alla Saguto ed ai suoi amici che sono stati tutti indagati dalla Procura di Caltanissetta: a proposito a che punto è questa inchiesta?”.

CE LO ASPETTAVAMO DA TEMPO E ALLA FINE È ARRIVATO. Scrive Salvo Vitale il 22 aprile 2016 su "Telejato". “Quello là è questione di ore” aveva detto la signora Saguto, quando era ancora “come un dio” sull’alta sedia di Presidente dell’Ufficio misure di prevenzione. Una battaglia Portata avanti dalla redazione di Telejato aveva svelato un “sistema di potere” attorno a cui ruotavano e continuano a ruotare quelli che oggi si possono considerare la nuova classe dominante di Palermo, ovvero avvocati, magistrati, cancellieri, curatori ed amministratori giudiziari, commercialisti, giornalisti, sindaci, imprenditori e commercianti mafiosi che hanno fatto professione di antimafia, affaristi, pentiti usati con il telecomando, a seconda delle cose che gli dicono di dire. Quando è scoppiato il terremoto ed è saltato il tappo, alcuni giudici hanno dovuto lasciare la poltrona, sono stati spostati ad altri incarichi, alcuni amministratori giudiziari sono stati sostituiti, ma sono ancora al loro posto, nessuno di loro si è preoccupato di fare le consegne e pertanto è stato necessario nominare qualcuno che se ne preoccupasse. Era chiaro che, alcuni dei responsabili di questo finimondo non potevano passarla liscia. Non sappiamo che cosa succederà ai giudici di Caltanissetta, che stanno indagando sui loro colleghi, probabilmente saranno “ammorbiditi” dai loro superiori, nella stessa misura in cui Maniaci è accusato di essersi ammorbidito con due sindaci, ma sappiamo oggi che cosa è successo a Pino Maniaci. Il suo telefono, da tempo sotto controllo, probabilmente dopo la denuncia per stalking avanzata da Cappellano Seminara, avrebbe fornito chissà quali elementi, in base ai quali si poteva studiare un bel capo di accusa. Non è stata una “questione di ore”, ma, da settembre ad adesso ci sono voluti quasi nove mesi, tanti quanti ne occorrono per un parto. Sarebbe stato troppo sfacciato far partire l’accusa nel momento in cui è scoppiato lo scandalo, e perciò, in base alla norma tutta nostra, secondo cui “la vendetta è un piatto che si mangia freddo”, la procura di Palermo ha deciso di mollare il missile adesso che le acque si sono calmate, o, come si dice in siciliano, “a squagghiata di l’acquazzina”, quando la brina si è sciolta. Il metodo è sempre lo stesso: chiamare un giornalista con cui la procura è in contatto, dargli la notizia, quasi sempre anche all’insaputa dell’indagato, fornirgli anche qualche brano sospetto di intercettazioni, da trasmettere, non tutte insieme, ma un poco al giorno, per tenere la vicenda in caldo, ed è fatta. [Pino era stato sentito dai magistrati della procura di Palermo qualche mese fa e pensava di avere chiarito tutto, e invece no]. Ha dovuto nominare due difensori, uno dei quali è Antonio Ingroia, l’altro Bartolo Parrino. L’accusa è ridicola e non merita di essere commentata. Basta ascoltare i telegiornali, per rendersi conto che quotidianamente i sindaci di Partinico e di Borgetto sono “massacrati” da Pino per la loro, diciamo “presunta”, incapacità a risolvere gli enormi problemi del loro territorio. Non parliamo poi della triste vicenda dei cani impiccati: quella che circolava a Partinico, allora, era la tremenda accusa che i cani fossero stati uccisi dallo stesso Maniaci per farsi pubblicità, e un nutrito gruppo della gente di facebook si è apprestato a condividere questa infame accusa, così come oggi mostra soddisfazione per quello che è venuto fuori, con le loro idiote condivisioni. Costoro non si aspettano una condanna: Pino è già stato da loro condannato e da tempo. Fra l’altro, proprio per non farla “vastasa” si è fatta scivolare l’ipotesi che il “canicidio” sia stata opera di qualcuno che si voleva vendicare personalmente e non un’intimidazione mafiosa. Così si toglie, guarda un po’ dove arriva l’intelligenza inquirente, anche, oltre che credibilità, questa sventolata patente di giornalista antimafia che Maniaci si è guadagnata sul campo. La notizia è arrivata dopo che Maniaci, assieme a Lirio Abbate, è stato ritenuto uno dei giornalisti più impegnati in Italia, ma anche dopo che “Reporter sans frontieres” ha pubblicato la graduatoria sui paesi in cui la libertà di stampa è in pericolo: l’Italia è scivolata dal 65simo al 74esimo posto. Fare giornalismo in Sicilia è già difficile. Le querele per diffamazione fioccano e ormai non si contano più, ma quando si ci mette anche la magistratura è il caso di chiedersi se non è meglio cambiar mestiere.

RETTIFICA. Si rettifica l’affermazione, nel senso che Pino Maniaci non è stato mai sentito dalla Procura di Palermo e, sino ad oggi, non ha ricevuto alcun avviso di garanzia. Tutto quello che è venuto fuori è stato reso noto da un articolo su “La Repubblica”, a firma F. Viviano. In tal senso i legali di Maniaci hanno annunciato che lunedì prossimo sarà presentata alla Procura di Palermo una formale richiesta di accesso agli atti per sapere se esiste un capo d’imputazione, su che cosa e su quali elementi è fondato e per chiedere l’audizione dello stesso presunto imputato. Anche ai giudici di Caltanissetta sarà inviata dal collegio di difesa di Maniaci, formato da Antonio Ingroia e da Bartolo Parrino, una richiesta di accesso degli atti e alle intercettazioni da cui si evincerebbe che, da parte di alcuni settori della Procura di Palermo e di altre forze istituzionali ci sarebbero state manovre e tentativi di fermare l’azione di Telejato.

Pino Maniaci aveva previsto tutto: ecco l’intervista del 13 Novembre 2015 di Giulio Ambrosetti su "La Voce di New York". In questa intervista, ripetiamo, siamo a Novembre dell’anno scorso, commentiamo con lui le voci – già ricorrenti in quel periodo - di una inchiesta a suo carico e, addirittura, di un suo arresto. Rileggiamola:

Caso Saguto con finale pirandelliano: vogliono arrestare Pino Maniaci?

Gira voce che vogliono arrestarla…ci faccia capire, direttore, alla fine il mafioso è lei? 

Maniaci: “Che vuole che le risponda? Noi qui, ormai, ci aspettiamo di tutto. Sì, di tutto. Abbiamo toccato interessi incredibili. Personaggi che hanno fatto il bello e il cattivo tempo con la gestione dei beni sequestrati alla mafia. E sequestrati anche a imprenditori che con la mafia non c’entravano affatto. Questi signori che hanno gestito tali beni, con molta probabilità, erano protetti anche dalla Massoneria. Certo, alcuni di questi signori sono caduti in disgrazia. E si vogliono vendicare contro di me. Detto questo, il sistema è ancora in piedi”.

Sembra che a Roma, addirittura in Parlamento, alcuni deputati avrebbero chiesto notizie su di lei…

Maniaci: “La storia gliela racconto subito. La Commissione nazionale antimafia ha convocato il procuratore della Repubblica di Palermo, Franco Lo Voi”.

E perché l’avrebbe convocato?

Maniaci: “Per parlare dei problemi legati alla gestione dei beni sequestrati alla mafia”.

Scusi, invece di convocare la dottoressa Silvana Saguto, che è stata per lunghi anni protagonista della gestione, a quanto pare non entusiasmante, di questo travagliato settore, i parlamentari della Commissione nazionale Antimafia convocano il procuratore Lo Voi. Ma come funziona la politica italiana?

Maniaci: “Questo non lo deve chiedere a me: lo deve chiedere ai politici. E, segnatamente, all’ufficio di presidenza della Commissione nazionale Antimafia”.

Si riferisce all’onorevole Rosy Bindi, quella che difendeva la dottoressa Saguto e che, a proposito della gestione dei beni sequestrati alla mafia, diceva: tutto a posto, tutto bene?

Maniaci: “Per l’appunto: parliamo proprio di lei, dell’onorevole Bindi. E anche dell’onorevole Claudio Fava”.

Che ha combinato stavolta Claudio Fava?

Maniaci: “E’ stato lui, nel corso dell’audizione del procuratore Lo Voi, a chiedere allo stesso magistrato: ‘Abbiamo sentito di un’inchiesta a carico di Pi no Maniaci, lei procuratore che ci può dire?”.

E che gli ha detto il procuratore Lo Voi?

Maniaci: “Guardi, di questa storia, che se mi consente è un po’ incredibile, ho notizie frammentarie. So che c’era l’Aula di Montecitorio convocata. E che per raccontare vent’anni di antimafia, così mi hanno riferito che avrebbe detto il procuratore Lo Voi – con riferimento anche al mio operato – sarebbe servito almeno un quarto d’ora di pausa. A questo punto la presidente Bindi avrebbe detto: ‘Un quarto d’ora? Anche mezz’ora, anche due ore. Tutto il tempo che occorre”.

Però lei l’onorevole Bindi la deve capire: era una sorta di Santa Maria Goretti del PD e voi di TeleJato l’avete sputtanata a dovere. Per non parlare delle Iene, che se la stavano sbranando…

Maniaci: “Guardi, noi non abbiamo sputtanato l’onorevole Bindi: ha fatto tutto lei”.

Insomma, se non abbiamo capito male vorrebbero farla arrestare e, magari, sbaraccare TeleJato. E’ così?

Maniaci: “Non so quali siano le intenzioni. Non so che cosa abbiano in testa di fare. Ma so che la dottoressa Saguto, l’ex Prefetto Cannizzo, l’avvocato Cappellano Seminara e il colonnello della Guardia di Finanza Rosolino Nasca non mi amano. Anzi. Lo sa perché tutti mi denunciano per stolking e non per diffamazione?”.

No, ci dica.

Maniaci: “Mi denunciano per stalking per poter fare mettere sotto controllo il mio telefono”.

E ci sono riusciti?

Maniaci: “Penso proprio di sì”.

Sanno che voi di TeleJato siete molto informati. Magari perché, da giornalisti, parlate con tutti. Che cosa vogliono combinare?

Maniaci: “Vedo che lei mi ha anticipato. Noi abbiamo trattato tanti casi di mafia. E tante vicende legate alla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Il caso degli imprenditori Cavallotti, per esempio. O il caso dell’Abazia di Sant’Anastasia e via continuando con tante altre storie. Sa, equivocando si possono alzare polveroni”.

Lo sappiamo benissimo. Basti per tutti il ‘caso’ dello scioglimento del Comune di Racalmuto per mafia. Una barzelletta. Una farsa che, però, ha consentito ai comitati di affari dell’acqua e dei rifiuti di eliminare un sindaco scomodo. Torniamo alle stranezze. Cosa ci dice della vicenda Cavallotti?

Maniaci: “Pagavano il ‘pizzo’. Ma sono stati assolti. La Procura generale ha detto: restituitegli i beni”.

E glieli hanno restituiti?

Maniaci: “No.”

Sono stati assolti e non gli hanno restituito i beni?

Maniaci: “Esattamente. E hanno fatto di più”.

Cosa?

Maniaci: “Hanno venduto alcuni beni dell’azienda Cavallotti, che si occupava di metanizzazione, a Italgas. E poi hanno sequestrato i beni a Italgas”.

E perché?

Maniaci: “Perché aveva rapporti con l’azienda Cavallotti”.

Ma qui siamo oltre Pirandello. Questi amministratori giudiziari sono ‘artisti’. Meriterebbero di andare a recitare in un Teatro…

Maniaci: “Lei scherza. Ma lo sa quant’è costato questo scherzetto a Italgas? Da sei a nove milioni di Euro tra amministratori giudiziari e coadiutori”.

A proposito di affari: chi sono quelli rimasti ancora nel giro?

Maniaci: “Cominciamo con il dottore Andrea Dara, il commercialista e amministratore giudiziario che ha massacrato Villa Santa Teresa di Bagheria. In questi giorni è stato ‘promosso’: ha incassato una bella nomina ad Aci Trezza dal Prefetto Postiglione”.

E poi?

“Guardi, i casi più eclatanti restano quelli degli avvocati Cappellano Seminara e Virga”.

Ancora loro?

Maniaci: “Vero è che hanno rinunciato agli incarichi (in parte, almeno alcuni). Ma fino a quando non subentreranno i nuovi amministratori giudiziari resteranno in carica. E continueranno a gestire”.

Vuole dire qualcosa al procuratore Lo Voi e sui vent’anni di antimafia che dovrebbe illustrare a Rosy Bindi e a Claudio Fava?

Maniaci: “Prima di parlare di vent’anni di antimafia a proposito del mio operato, il procuratore Lo Voi farebbe bene ad occuparsi del verminaio che c’è presso la Sezione fallimentare del Tribunale di Palermo e degli incarichi a decine di migliaia di Euro dei Ctu (Consulenti tecnici del Tribunale). Magari arriverà prima di noi, che ce ne stiamo cominciando ad occupare”.

La doppia vita di Pino Maniaci: dalla lotta alla mafia alle estorsioni. Il direttore di Tele Jato era un paladino della legalità, accusatore di magistrati per la gestione dei beni confiscati. Ricattava i sindaci per far assumere la sua amante, scrive Felice Cavallaro il 4 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”. I cani glieli avrebbe impiccati il marito della sua amante. E per fare lavorare la stessa signora nel Comune di Borgetto avrebbe ricattato sindaco e consiglieri. Sarebbe questa la verità di una classica estorsione e di una storia di «femmine» maturate fra le pieghe di un impegno antimafia che ha visto per anni nei panni di un inflessibile paladino il direttore della piccola e combattiva emittente di Partinico, Pino Maniaci. Lo stesso implacabile accusatore di magistrati e amministratori finiti a Palermo sotto inchiesta per la gestione dei beni confiscati. A cominciare dalla ex presidente della sezione misure di prevenzione Silvana Saguto, intercettata a maggio dell’anno scorso con il prefetto: «Quando matura la cosa di Maniaci...?». Stavolta le intercettazioni sono tutte a carico di quest’altro simbolo dell’antimafia che cade sotto il sospetto di essersi inventato una parte delle intimidazioni mafiose. Una parte. Non dimentichiamo lo sfogo del boss di Partinico, Vito Vitale, soprannominato Fardazza, intercettato qualche anno fa in carcere a Torino: «Sta televisione si sta allargando troppo». Anche questo tassello deve aver pesato nel 2009 quando il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia iscrisse come «pubblicista» d’ufficio Maniaci, editore e conduttore del Tg di TeleJato, nonostante i suoi precedenti penali: furto, assegni a vuoto, truffa, omissione di atti d’ufficio. Tutto considerato ininfluente e cancellato dal rinnovato impegno antimafia. Conteso da tutte le scuole italiane per raccontare la sua vita, le continue presunte minacce ricevute e la storia dei Cento passi di Peppino Impastato, modello al quale si ispirava, Maniaci adesso non potrà nemmeno soggiornare nel suo paese accusato di estorsione «per aver ricevuto somme di denaro e agevolazioni dai sindaci di Partinico e Borgetto onde evitare commenti critici sull’operato delle amministrazioni». Si tratta però di «cifre ridicole», come le ha definite lo stesso Maniaci la scorsa settimana, intervistato in Tv dalle Iene. Di volta in volta avrebbe «strappato» al sindaco di Borgetto e ad altri personaggi politici locali poche centinaia di euro, «pezzi da 100 o 150 euro». Il sindaco di Partinico Salvatore Lo Biundo e i suoi consiglieri si sarebbero addirittura autotassati pur di pagare lo stipendio all’amante di Maniaci, dopo un corso trimestrale non rinnovabile. E questo sempre per il timore di ricatti. Accusa pesantissima di un’inchiesta condotta dai carabinieri di Monreale e Partinico, sotto il diretto controllo del procuratore Francesco Lo Voi, dell’aggiunto Vittorio Teresi e dei sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi e Roberto Tartaglia. Una squadra di magistrati al completo proprio per le ovvie ripercussioni che la notizia può determinare all’interno di un pianeta antimafia che vede ormai cadere i suoi simboli uno dopo l’altro. Dal presidente della Camera di commercio Roberto Helg alle inchieste tutte da definire contro il presidente di Confindustria Antonello Montante e del vice presidente nazionale di viale dell’Astronomia Ivan lo Bello, inciampato nella storiaccia del porto di Augusta con il compagno della dimissionaria ministra Guidi. Nel caso di Maniaci le voci delle scorse settimane erano state clamorosamente smentite dallo stesso direttore parlando di una «vendetta» covata fra i magistrati dopo le accuse alla Saguto. Le intercettazioni a suo carico sarebbero però precedenti al cosiddetto «caso Saguto» ufficialmente esploso solo nel maggio 2015. Ma è anche vero che Maniaci le sue battaglie (fondate) sulla gestione dei beni confiscati le cominciò un anno prima. Quando anche il prefetto Giuseppe Caruso denunciò gli stessi imbrogli. A prima vista sembra però che quelle denunce e le presunte estorsioni procedano su due linee parallele. Con un solo punto di incontro: l’amante e il marito tradito, disposto a impiccare due cani e bruciare l’auto di Maniaci. Storia dello scorso dicembre, quando su Tele Jato rimbalzarono le solidarietà di mezzo mondo e la telefonata di Renzi della quale parlava, ignaro di essere intercettato, il direttore-simbolo, travolto da un delirio di onnipotenza: «Ormai tutti e dico tutti si cacano se li sputtano in televisione... Ora tutti, tutti in fibrillazione sono, pensa che mi ha telefonato quello stronzo di Renzi».

TELEJATO: PESANTI OMBRE SUL PASSATO DI PINO MANIACI. Scrive Dario Milazzo il 26 aprile 2016 su l’Urlo”. Episodi inquietanti sembrerebbero contraddistinguere il passato di Pino Maniaci: l’imprenditore avrebbe commesso diversi reati quando era ancora imprenditore edile. Dopo l’indagine per estorsione spuntano altri elementi che potrebbero macchiare l’immagine di Pino Maniaci. Pino Maniaci è l’editore di Telejato, emittente comunitaria famosa per le inchieste e per le battaglie anti-mafia. Come sappiamo Maniaci risulta attualmente indagato a Palermo per il reato di estorsione (Indagato il direttore di Telejato per estorsione). Da fonti autorevoli abbiamo appreso che l’editore di Telejato avrebbe avuto in passato diversi problemi con la giustizia. Si tratterebbe di una sfilza di condanne, tutte passate in giudicato, che avrebbero portato il Maniaci a scontare pene detentive (non possiamo dire se ai domiciliari o in carcere).  Ma l’imprenditore di Partinico nel periodo “pre-Ordine” avrebbe goduto anche di indulto e di amnistia. I reati contestati sarebbero: emissione di assegni a vuoto, furto, abuso d’ufficio, truffa e ricettazione. Ricordiamoci inoltre che Pino Maniaci era stato processato nel 2009 per il reato di esercizio abusivo della professione. Come ci ha confermato l’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, Maniaci fu processato perché, dopo circa 10 anni di attività giornalistica, non aveva mai presentato le pratiche per ottenere il tesserino di giornalista commettendo così, ovvero scrivendo senza essere iscritto all’Ordine, il reato di esercizio abusivo della professione giornalistica. Dal processo per esercizio abusivo della professione giornalistica Pino Maniaci venne assolto per insussistenza del fatto. Tornando ai fatti passati, pesanti sono le accuse che sono state lanciate a Pino Maniaci dall’ingegnere Vincenzo Bonomo, ex assessore di Partinico. In base a quanto asserito dall’ingegnere ed insegnante di Partinico, l’editore di Telejato avrebbe gestito in passato un laboratorio d’analisi cliniche di Montelepre sfoggiando una falsa laurea. Da sottolineare il fatto che fra Vincenzo Bonomo e Pino Maniaci non correrebbe buon sangue: in passato l’ingegnere ha querelato per diffamazione ben 5 volte l’editore di Partinico. I guai giudiziari che in passato avrebbero coinvolto l’editore non hanno nulla a che vedere con la sua attività giornalistica e con l’indagine che lo coinvolge attualmente. Ribadiamo inoltre che Pino Maniaci ha dato tantissimo all’antimafia e alla sua Sicilia, proprio per questo motivo ci aspettiamo da lui una presa di posizione chiara e forte che sia una smentita o una conferma dei fatti contestati.

Indagini su Pino Maniaci: alcuni tasselli del mosaico, scrive Salvo Vitale il 28 aprile 2016 su "Telejato. L’ESTORSIONE È UN REATO. IL SINDACO È UN PUBBLICO UFFICIALE. SE IL SINDACO SUBISCE UNA ESTORSIONE O È AL CORRENTE CHE UNA ESTORSIONE SIA STATA COMPIUTA DA QUALSIASI CITTADINO, HA IL DOVERE DI DENUNCIARE L’ESTORTORE. Quindi, se il sindaco non denuncia rischia di diventare omissivo e compie un reato, anzi, diversi reati, a cominciare dall’omissione di atti d’ufficio. Sono passati due anni, almeno da quello che è trapelato fuori dalla presunta indagine su Pino Maniaci, della quale ancora non gli è stato notificato NULLA, così come nessuna denuncia è stata fatta dai due sindaci per il presunto tentativo di estorsione. Ergo, o il giornalista della Repubblica si è inventato tutto, o la Procura si è inventato tutto, oppure ha cercato in tutti i modi di costruire e imbastire un atto d’accusa farlocco, oppure ancora abbia interpretato male alcune frasi, oppure non è vero che i sindaci abbiano subito un’estorsione, ma rimane il fatto che se il fatto è successo, un reato, quello di non denunciare l’estortore, è stato commesso dai due sindaci. Perché questo reato non è stato loro contestato? Non dovrebbero essere oggi in galera o lì vicino? Forse quel reato non c’era, ma se non c’era tutto dovrebbe sgonfiarsi come un palloncino. SI VA DELINEANDO A POCO A POCO IL QUADRO E I VARI TASSELLI DEL PUZZLE CHE LO COMPONGONO, CON IL QUALE SI È CERCATO DI TAGLIARE L’ERBA AI PIEDI DI PINO MANIACI, DI ZITTIRE UNA BOCCA DIVENTATA TROPPO FASTIDIOSA E POSSIBILMENTE DI INCHIODARLO DISTRUGGENDO L’ALONE DI PALADINO DELL’ANTIMAFIA CHE EGLI HA CERCATO DI COSTRUIRE ATTORNO A SÉ. L’infamia ha una sua base nell’affermazione, che abbiamo letto sulla Repubblica, secondo la quale l’efferata morte dei due cani di Pino sarebbe motivata da questioni personali. Niente minacce mafiose, la mafia è innocente. Anche per tanti altri delitti, da Peppino Impastato a Mauro Rostagno, a Beppe Alfano, a Pippo Fava, all’inizio l’affermazione è stata sempre quella: la mafia è innocente. È la posizione tipica dei mascalzoni che vogliono distruggere l’immagine di una persona proprio in quello che lo caratterizza positivamente. Ma andando indietro, è il 16 febbraio 2016, si tratta di un’intervista a Pino. Emerge dalle sue dichiarazioni che non è una novità che il suo telefono è intercettato e che si sta mettendo assieme la trappola per incastrarlo. Una serie di persone che lo hanno contattato telefonicamente, come risulta dai tabulati, sono chiamate dalla Procura e sono talora invitate a confermare quanto è stato già scritto deciso a tavolino, invitate a firmare quello che dovrebbero dire, in modo abbastanza perentorio. “Sto venendo a prendere i soldi delle magliette. Vedi chi ti tappiu”. Che vogliamo di più, è una chiara richiesta di pizzo. Oppure, se vogliamo andare indietro, c’è una dichiarazione di Pino sul presidente del consiglio comunale di Borgetto: egli sostiene che è collegata a certi ambienti mafiosi. Il presidente reagisce denunciando Maniaci. I consiglieri comunali chiedono che la cosa sia chiarita, il sindaco denuncia Maniaci ritenendo che sia stato offeso il Comune, così sarà il Comune a pagare l’avvocato, e il resto, su come andrà a finire, è tutto da scrivere, ma è chiaro che le dichiarazioni non possono essere lette a pezzettini, e che fanno parte di un insieme. Quell’insieme che Silvana Saguto ha cercato di mettere su, con l’assenso e il benestare degli amici giudici di Magistratura Indipendente, tutti suoi colleghi affettuosi, Virga, Lo Voi, Petralia, ma anche con le riserve e l’opposizione di altri giudici, al punto da arrivare a farle affermare: “Se quelli lì si sbrigassero non ci sarebbe bisogno di ….”. Chi sono quelli lì che ci stanno andando con i piedi di piombo? Insomma si ha l’impressione che la nuova linea è stata lanciata, dopo che Vespa, tanto per mettere una pezza alla minchiata dell’intervista a Salvuccio Riina, chiama in televisione Angelino Alfano, e questo gli dice, più o meno che, visto che la mafia sta finendo, anche l’antimafia dovrebbe finire. Cazzate dietro cazzate con l’annuncio a cui oggi tutti i pennivendoli di regime si sono associati: l’antimafia è morta, sono tutti corrotti, tutti sono nella stessa barca che affonda, la Saguto, Pino Maniaci che l’ha impallinata, Saviano, che rilascia false notizie, Salvatore Borsellino che abbraccia Massimo Ciancimino, Helg, Montante, Lo Bello, Ciancio, ricchi e poveri, colpevoli e innocenti, boss e vittime, don Ciotti e Libera, Addio Pizzo, tutti nello stesso mucchio, tutti uguali, tutti a mare, dopo di che, dopo questa grande piazza pulita di discredito e di merda, Cosa Nostra, con i suoi colletti bianchi, con le sue toghe, con i suoi avvocaticchi, con i suoi imprenditori, con le sue aziende liberate dalla paura di finire sotto inchiesta, davanti a una magistratura intimidita potrà tornare a imperare, senza più bisogno di boss nascosti: basterà metterli bene in evidenza come componenti del sistema politico che ci regge, farli diventare onorevoli, oggi si decide a tavolino, presidenti ecc. e tutto sarà risolto. Insomma, il sogno fatto in modo un po’ rozzo da Totò Riina e in modo più sapiente da u zzu Binnu in Sicilia e da Licio Gelli nel resto d’Italia, diventerà realtà.

Pino Maniaci: il fango, la stampa e l’ignoranza, scrive Massimiliano Perna il 30 aprile 2016 su “Il Megafono”. Pino Maniaci è un delinquente, un finto paladino dell’antimafia. È anche un pregiudicato, come qualcuno, con eccitazione, sta urlando ai quattro venti in queste ore. Pino Maniaci è pure un estortore. Non presunto, per carità, lo è e basta. Lo avete deciso voi. Lo ha deciso la stampa, o almeno quella parte che non vede l’ora di beccarne un altro che possa aggiungere crepe a un movimento sempre più instabile. Lo ha deciso una parte dello stesso movimento antimafia, soprattutto quella che non è mai stata sul campo e ha fatto il proprio nido sulle tastiere e dietro uno schermo, pontificando, accusando, giudicando senza appello persone e storie, vite e vissuti. Pino, oggi, per molti colleghi e per diversi presunti antimafiosi di questo Paese non è più quel giornalista coraggioso, onesto e ostinato che da anni denuncia, a suo rischio, tutto quel che non va nella provincia palermitana e in Sicilia. Uno della cui amicizia si può andare fieri. Pino adesso, d’improvviso, è diventato un uomo da osservare con sospetto. La campagna denigratoria nei suoi confronti è di una violenza inaudita e non sono violenti soltanto gli attacchi velenosi dei detrattori o il ghigno dei nemici nascosti, ma anche i silenzi di chi dovrebbe sostenerlo e che invece preferisce non dir nulla, non esporsi. Tutti ad accettare giudizi vergognosi, senza battere ciglio. Sintomo non di cautela, ma di profonda ignoranza, che è uno dei problemi più grandi anche del movimento antimafia. Un movimento troppo affollato, dove entra chiunque e dove chiunque, solo in virtù della partecipazione a qualche evento o presidio o della lettura di qualche libro o articolo, si sente in diritto di esprimere qualsiasi giudizio nei confronti di chi la mafia la sfida ogni giorno o l’ha sfidata per anni. Sul campo. Il tutto in un Paese (e in un contesto giornalistico) che vive di antipatie, invidie, fazioni, manie, fanatismi e che perde spesso di vista la realtà. Così, in molti hanno partecipato, più o meno direttamente e senza condizionali, alla gara di lancio del fango su Pino Maniaci e Telejato. E lo hanno fatto nonostante non avessero a disposizione nient’altro che un articolo nel quale si parla di una grottesca estorsione (soldi e posti di lavoro chiesti ai sindaci di Borgetto e Partinico in cambio di una linea morbida di Telejato nei loro confronti) e si annunciano intercettazioni sensazionali. Stop. Non si fa riferimento ad altro, non si racconta la storia più recente di Pino e della sua tv, non è chiaro quale sia il contesto di queste intercettazioni, quale sia il loro contenuto, non sappiamo nemmeno se esistano davvero. C’è solo un articolo con una notizia frammentata e ciò basta a scatenare l’inferno. Poco importa che a Pino non sia arrivata alcuna notizia di indagine, non sia giunto alcun avviso di garanzia. Di sicuro, però, qualora questa indagine fosse reale, qualcuno andrebbe punito per violazione del segreto di ufficio e dovrebbe spiegare come mai la stampa abbia saputo prima del diretto interessato. Ovviamente, la maggior parte finge di ignorare che Pino, in questi ultimi due anni, ha smascherato il malaffare nella gestione dei beni confiscati alla mafia, mettendo nei guai giudici molto potenti, come Silvana Saguto, e avvocati altrettanto potenti. Sappiamo benissimo come vanno queste cose e come, quando tocchi certi ambiti, la reazione (peraltro attesa) possa in qualche modo arrivare colpendoti sempre nel tuo punto più caro. Accusano Pino, infatti, proprio delle cose contro le quali si è sempre battuto. Provano a gettare un’ombra su di lui e sul suo impegno e lo fanno comunicando alla stampa una notizia che aizza i suoi detrattori. Qualcuno poi decide di andare oltre e finisce per affondare le mani nel passato di Pino, tirando fuori storie note come se fossero sensazionali e inedite. “Pino Maniaci ha avuto problemi con la giustizia”, scrive un giornale online a cui non diamo nemmeno l’onore del nome per non fargli pubblicità (visto che lo leggono in quattro), elencando tutta una serie di presunti reati, oltre a raccogliere l’accusa non dimostrata di un nemico dichiarato di Telejato, un ex assessore del Comune di Partinico. A tal proposito, sempre l’ignoranza e la disinformazione fanno sì che la gente non presti attenzione al fatto che i comuni di Borgetto e Partinico siano attaccati quotidianamente e duramente dall’emittente Telejato. Addirittura la presidenza del consiglio comunale di Borgetto aveva querelato la tv di Pino Maniaci per diffamazione e lo stesso sindaco si era costituito parte civile contro l’emittente. Non vi pare allora quantomeno contraddittoria la storia della “linea morbida” verso i due sindaci in cambio di soldi e favori?  Ma torniamo indietro al passato “burrascoso” di Maniaci. Dove starebbe la notizia? Lo stesso Pino (nel libro Dove Eravamo – Vent’anni dopo Capaci e via D’Amelio, Caracò editore, 2012) aveva scritto e raccontato del suo passato e dei problemi vissuti, della galera per un caso di omonimia, della sua richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione e infine del suo momento di svolta, legato a quanto accaduto a Capaci e in via D’Amelio. Riportiamo qui alcuni passaggi che qualche giornalista sprovveduto farebbe bene a leggere: “…I miei delatori lo sanno bene ed ogni volta che qualcuno mi vuol attaccare, non avendo altro, subdolamente non fa che ricordare che Pino Maniaci non è altro che un pregiudicato della peggior specie e non un giornalista accreditato. Già perché io non ho fatto sempre questo mestiere. Proveniente da una famiglia non proprio agiata ma neanche mala cumminata, sin da ragazzo mi sono sempre sbracciato. […] Ho fatto mille lavori sino a diventare anche un piccolo imprenditore edile, ed è qui che cominciano i miei guai. Siamo negli anni ’80, lavorare nel settore edile e nel mio territorio non è cosa facile. I soldi non bastano mai ed è così che l’impresa che costituisco cammina sempre sul filo del rasoio. Si vive di pagherò e di assegni postdatati e ai fornitori sta pure bene”. Pino racconta di essere stato arrestato in una operazione antimafia, ma per errore, perché omonimo di un affiliato (che poi si scopre essere un suo lontano parente). Sarà Giovanni Falcone ad accorgersi dell’errore e a liberarlo. Ma mentre è in galera, fuori per l’attività di Pino le cose peggiorano: “Con me lontano, i lavori non vanno avanti, i creditori spariscono mentre rimangono i debiti e i fornitori che incassano gli assegni, ovviamente scoperti. Le cose si mettono male ed oltre a una denuncia per mafia, cominciano i miei guai per gli assegni non pagati”. Eccolo il passato “ombroso” di Pino, quello dal quale derivano la sua forza e, soprattutto, la sua scelta, dovuta alla rabbia provata per le stragi del ‘92, di ritirare la richiesta risarcitoria per ingiusta detenzione e di impegnarsi attivamente nella lotta alla mafia. Un impegno che da quel momento non si è mai fermato, che ha portato alla bellissima realtà di Telejato, palestra ed esempio per tanti giovani e per tanti giornalisti liberi. Un uomo onesto, sia nel raccontare il suo passato che nel vivere il suo presente, con coraggio e senza fare sconti a nessuno. Anche se questo atteggiamento poi, come vediamo, qualcuno glielo fa pagare. Noi, che persone come Pino le abbiamo avute accanto, le abbiamo conosciute da vicino, sul loro campo di battaglia, ci schieriamo dalla sua parte e dalla parte di chi resiste e rifiuta di farsi mettere cappelli politici o di movimento. Siamo in attesa di vedere come evolverà questa vicenda, convinti che sia solo un tentativo, anche piuttosto banale e goffo, di screditare chi ha osato troppo. Più avanti, quando tutto sarà chiarito, avremo poi tutto il tempo per ricordarci di chi oggi, senza nulla in mano, dalle tastiere e dalle pagine di certi giornali, ha già emesso illegittime sentenze e sputato calunnie.

La calunnia è un venticello. Pino Maniaci e le indagini presunte, scrive il 30 aprile 2016 Martina Annibaldi su "Stampa Critica”. Da circa vent’anni è il volto di Telejato. Unico tra gli italiani, insieme a Lirio Abbate, a finire nella lista dei 100 eroi mondiali dell’informazione stilata da Reporter Sans Frontier. Pino Maniaci è per tanti di noi il simbolo vivente di una lotta alla mafia che è fatta di impegno quotidiano e di coraggio. Quel coraggio di raccontare le distorsioni e i veleni di una terra, la propria. Anni di battaglie, di intimidazioni, di violenza, di querele a catinelle (più di duecento, ad oggi!) nel tentativo ancora mai riuscito di tappare la bocca a lui e alla sua redazione. Pino è sempre andato avanti ma, si sa, prima o poi dove non arriva la crudeltà o la minaccia arriva quel leggero venticello dell’infamia a colpire chi avrebbe dovuto tacere e non lo ha fatto. “Meno attacchi in cambio di soldi: indagato a Palermo paladino della tv antimafia”, è il titolo dell’articolo pubblicato da Repubblica venerdì 22 Aprile che apre il caso Maniaci. Secondo la ricostruzione fornita dal giornalista, Pino Maniaci sarebbe indagato dalla Procura di Palermo per estorsione ai danni del sindaco di Partinico, Salvo Lo Biundo, e del sindaco di Borgetto, Gioacchino De Luca. In cambio di soldi, il volto di Telejato, avrebbe promesso ai due primi cittadini un ammorbidimento dei servizi che li riguardavano e richiesto posti di lavoro per i propri familiari. Le indagini sarebbero state aperte dopo una serie di intercettazioni da parte dei Carabinieri e, alla luce di quanto emerso, avrebbe persino spinto gli inquirenti a ripensare la matrice delle intimidazioni violente subite dal giornalista siciliano nel 2014, quando i suoi due cani vennero prima avvelenati e poi impiccati dalla mafia. Per un istante, un solo istante di spaesamento, a molti di noi si è gelato il sangue. Ma si è trattato di un istante e nulla più. Perché in fin dei conti hanno ragione a Telejato quando dicono che se lo aspettavano. Perché la mafia ha smesso di essere solo quella dei Messina Denaro e dei Riina. La mafia ha smesso di fare patti con lo Stato. La mafia si è fatta Stato attraverso la corruzione e l’insediamento nei poteri forti. E quei poteri forti non vogliono essere toccati, perché se li tocchi ti fanno male, molto male ma senza colpo ferire. Pino Maniaci a quei poteri forti ha dato fastidio, e tanto. Lui e la sua redazione da anni si battono per portare alla luce non solo i traffici della mafia “ufficiale” ma anche i movimenti occulti di quell’antimafia intrisa di cultura mafiosa che solo di recente è finalmente venuta alla luce, permettendo di mandare a casa la ormai ex Presidente delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, finita sotto inchiesta insieme a tre magistrati e ad una serie di amministratori giudiziari per aver messo su un sistema fatto di favori, di clientelismo e di enormi quanto loschi guadagni sui beni confiscati alla mafia. È la stessa Saguto che, intercettata al telefono con l’ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo (indagata a sua volta per concussione) riferendosi a Telejato parla di “ore contate”. “Mi sembra che la storia sia chiarissima: l’avvocato Cappellano Seminara mi ha denunciato per stalking solo per fare in modo che io venissi intercettato: ma basta andare a vedere i servizi del mio telegiornale per capire che i sindaci in questione vengono attaccati almeno una volta al giorno. Senza contare che il presidente del consiglio comunale di Borgetto mi ha persino querelato di recente”, dichiara Maniaci, assistito dagli avvocati Antonio Ingroia e Bartolomeo Parrino. Finora nessun avviso di garanzia a carico del giornalista siciliano (peraltro, come già sottolineato dallo stesso Ingroia, grave violazione del segreto d’ufficio, qualora l’inchiesta esistesse realmente) solo indiscrezioni di stampa che continuano a montare nel silenzio assoluto della Procura di Palermo. Maniaci si dichiara pronto a chiarire ogni dettaglio, qualora questa inchiesta passasse dell’essere presunta all’essere reale. Certo è che, in un Paese in cui gli avvisi di garanzia, i rinvii a giudizio e persino le condanne a carico dei politici e dei potenti passano sempre in secondo piano o si gonfiano in polemiche mordi e fuggi, fa sorridere (o forse fa piangere) il polverone sorretto da presunti e da condizionali. Quello che sta montando nei confronti di Pino Maniaci ha il sapore esatto delle macchinazioni a cui la mafia, nel senso più ampio ed onnicomprensivo del termine, ci ha abituati da sempre. Infangare, affossare, calunniare. Delegittimare, insinuare il dubbio su tutto, persino sulla violenza subita. Come quei tanti giornalisti morti di mafia su cui ancora aleggia il sospetto del delitto passionale. A Maniaci i cani li hanno ammazzati per motivi personali, questa sarebbe la nuova versione dei fatti. E forse tanto basterebbe per far riflettere. E poi quella denuncia per stalking, perché per stalking? Cappellano Seminara avrebbe, forse, potuto tentare la denuncia per diffamazione ma sceglie lo stalking. Perché, si sa, non serve che il reato sia realmente accaduto, basta qualche stralcio di intercettazione qua e là, o forse neanche quello, per gettare un’ombra indelebile su alcuni personaggi. Lo scandalo è montato, e forse cadrà nell’ombra una volta raggiunto il suo apice, cadrà nell’ombra prima che arrivi la versione ufficiale, prima che la Procura faccia chiarezza su questa indagine fantasma. Pino Maniaci resta in attesa che questo silenzio venga dissipato. Altrettanto sarebbe opportuno che facesse l’intera comunità, perché non si giudichi, ancora una volta, sospinti solo da quel famoso venticello dell’infamia.

"Caso Saguto, che fine ha fatto?". L'e-mail e la ferita aperta, scrive Riccardo Lo Verso il 28 aprile 2016 su "Live Sicilia". Va bene il convegno. Va bene il confronto “meritorio” sul tema della disabilità, ma l'indagine sulla Saguto che fine ha fatto? A rivolgere la domanda al procuratore aggiunto di Caltanissetta, Lia Sava, è un magistrato di Palermo. “Cara Lia...”, comincia così la lettera che Maria Patrizia Spina, presidente della quinta sezione della Corte d'appello, ha girato a una mailing list di colleghi. Una sezione, la sua, particolarmente attenta all'argomento visto che tratta, nel secondo grado di giudizio, le decisioni che un tempo venivano prese dal collegio presieduto da Silvana Saguto, oggi sospesa dal Csm. Un collegio azzerato dall'inchiesta dei pm di Caltanissetta, coordinati proprio dalla Sava che, oltre a fare l'aggiunto, oggi è anche il capo pro tempore dei pm nisseni in attesa della nomina del nuovo procuratore. La Sava è promotrice di un convegno in programma fra qualche giorno a Palermo. Ecco perché è a lei che la Spina chiede se sia “opportuno” organizzare un convegno a Palermo “mentre si attendono gli esiti sul caso Saguto”. Caso che, in un passaggio della lettera, viene definito “sistema” e per il quale tutti “ci aspettavamo gli esiti dell'indagine”. La Spina mette per iscritto un'esigenza diffusa tra i magistrati palermitani. Quando scoppiò lo scandalo si disse che in gioco c'era la credibilità dell'intero distretto giudiziario palermitano. Non restava che aspettare che venisse fatta chiarezza nel più breve tempo possibile. Il punto è che bisogna fare i conti con i tempi delle indagini e con quelli che servono ai giudici per tirare le somme. Il fattaccio beni confiscati venne a galla nel settembre 2015, quando i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria fecero irruzione nella stanza della Saguto, al piano terra del nuovo Palazzo di giustizia. Si scoprì che c'erano le cimici nel suo ufficio. L'indagine era partita qualche mese prima, quando i pm di Palermo si accorsero che c'erano finiti dentro alcuni magistrati e trasferirono il fascicolo a Caltanissetta per competenza. La conferma dei tempi dell'inchiesta si è avuta fra dicembre e gennaio quando gli indagati - dalla Saguto all'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, dal giudice Tommaso Virga al figlio Walter, all'ex prefetto Francesca Cannizzo - ricevettero l'avviso di proroga delle indagini. I termini scadono fra giugno e luglio prossimi, ma se i pm non avranno finito di analizzare le informative dei finanzieri in teoria avrebbero l'opportunità di chiedere una nuova e ultima proroga di ulteriori sei mesi. E torniamo al tema sollevato dal giudice Spina nella sua e-mail. I magistrati, ma non solo loro, aspettano “gli esiti delle indagini”. Aspettano di conoscere il contenuto completo di quel quadro che, a giudicare da quanto finora emerso, sarebbe connotato da favori, soldi e forse anche mazzette. Tra i reati ipotizzati, infatti, c'è pure la corruzione. Il punto è che i bene informati continuano a ripetere che quanto finora trapelato è poca roba rispetto al materiale raccolto. Si vedrà. Intanto l'attesa pesa. Innanzitutto ai magistrati stessi. L'e-mail del giudice sta facendo parecchio discutere nelle stanze del Palazzo. Non sappiamo se altri colleghi abbiano contributo al dibattito on line, oppure se abbiano scelto la strada del silenzio. Il silenzio che ha caratterizzato la polemica sollevata, sempre via e-mail, dal pm Antonino Di Matteo sulla presenza del professore Giovanni Fiandaca a un evento formativo della Scuola superiore della magistratura. Invitare il "nemico" del processo sulla Trattativa Stato-mafia a "fare lezione" ai magistrati palermitani: è opportuno?, si è chiesto di Di Matteo. Fiandaca ha risposto a muso duro: "Da lui censura fascista". Nessuna risposta dai colleghi a cui il pm ha girato il messaggio di posta elettronica.

Il mare magnum del caso Saguto. Obiettivo: "Blindare" le prove, scrive Riccardo Lo Verso il 29 aprile 206 su "Live Sicilia”. Un numero maggiore di indagati di quanti finora emersi, decine di amministrazioni giudiziarie setacciate, tonnellate di carte da spulciare, un elenco sterminato di favori, o presunti tali, e assunzioni. Ed ancora: nomine, consulenze e soprattutto passaggi di denaro. Benvenuti nel mare magnum dell'inchiesta sui beni confiscati alla mafia. “Che fine ha fatto il caso Saguto?”, si chiede, come ha raccontato Livesicilia, un giudice della Corte d'appello di Palermo. Risposta complicata perché complesse sono le indagini che la Procura della Repubblica di Caltanissetta ha delegato ai finanzieri della Polizia tributaria di Palermo. Considerata la mole di lavoro, a dire il vero, gli undici mesi finora trascorsi sembrano persino pochi per potere già tirare le somme. Eppure almeno una parte delle indagini sembra destinata ad arrivare alla conclusione prima dei caldi mesi estivi, quando scadrà la proroga di sei mesi iniziata fra dicembre e gennaio scorsi. Di proroga i pm nisseni, coordinati dall'aggiunto Lia Sava, potrebbero sfruttarne un'altra, sempre di 180 giorni. Il punto è che si è partiti da un caso singolo - la gestione della concessionaria Nuova Sport Car sequestrata ai Rappa e affidata dal giudice Silvana Saguto al giovane avvocato Walter Virga, figlio di un altro giudice, Tommaso - e si è scoperto un fenomeno. Un sistema, come viene definito, dove la gestione della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo sarebbe stata piegata ad interessi personali fino a ipotizzare reati pesantissimi come la corruzione e l'autoriciclaggio. Il caso è esploso nella sua drammatica evidenza una mattina di settembre con i finanzieri che piombano nella stanza della Saguto e nella cancelleria del Tribunale. Tutti, gli indagati per primi, a quel punto sanno di essere finiti sotto inchiesta, anche se dalle intercettazioni sembrava che lo avessero già intuito da un po'. Nell'ufficio dell'ex presidente, infatti, c'erano le cimici. Perché svelarne l'esistenza e spegnere la microspia nella stanza dei bottini? Perché, evidentemente, era giunto il momento di scoprire le carte forse per stoppare qualcosa, oppure perché gli investigatori avevano ascoltato già ciò che serviva. Che deve essere molto di più di quanto finora trapelato. Le intercettazioni finora conosciute ci hanno svelato un sistema di nomine clientelari, favori, piccoli e grandi - cassette di frutta e laurea del figlio della Saguto inclusa -, ma non è tutto. Da approfondire, secondo i pm, è il corposo capitolo del presunto patto corruttivo fra Saguto e l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara che avrebbe ottenuto la gestione di grossi patrimoni in cambio di consulenze per il marito del'ex presidente, l'ingegnere Lorenzo Caramma, pure lui sotto inchiesta. Settecentocinquantamila euro: a tanto ammontano i compensi liquidati a Caramma dal 2005 al 2014, in un arco temporale che è iniziato quando la Saguto era membro del collegio delle Misure di prevenzione ed è proseguito quando dello stesso collegio il magistrato è divenuto presidente nel 2010. C'è un dato certo perché scolpito nei nastri delle intercettazioni. La famiglia della Saguto aveva un tenore di vita altissimo, che ad un certo punto divenne insostenibile. Il magistrato diceva a Elio, uno dei suoi tre figli: "Dobbiamo parlare, perché la situazione nostra economica è arrivata al limite totale, non è possibile più... voi non potete farmi spendere 12,13,14 mila euro al mese noi non li abbiamo questi introiti perché siamo indebitati persi". In realtà, dall'analisi della carta di credito del magistrato, si è scoperto che di soldi ne arrivavano a spendere in un mese fino a 18 mila euro. Per rimediare, secondo la Procura nissena, l'ex presidente avrebbe ottenuto soldi in contanti da Cappellano Seminara. E qui si innesta un altro passaggio delicato. L'ipotesi, smentita dai presunti protagonisti, è che una sera di giugno l'amministratore giudiziario possa avere portato ventimila euro in un trolley a casa Saguto. Nelle intercettazioni si parlava di “documenti”. Altra domanda: perché non bloccare Cappellano con la prova regina? Possibile risposta: perché a fini investigativi la prova, o presunta tale, poteva essere meglio cristallizzata seguendo i successivi passaggi del denaro. "Non è emersa alcuna traccia di scambi di denaro tra la mia assistita e gli amministratori giudiziari, e gli accertamenti bancari lo confermano - disse l'avvocato della Saguto, Giulia Bongiorno - le accuse sono palesemente sbagliate". In altre conversazioni fra l'ex presidente e il padre si parla di mazzettine di denaro. Non sarebbero solo i soldi in contanti, però, che i finanzieri hanno cercato per riscontrare le parole intercettate. Parole da cui emergerebbe la convinzione di potere godere dell'impunità. Una sicurezza che avrebbe spinto i protagonisti a commettere degli errori e a lasciarne traccia? Lo scopriremo e forse non si dovrà neppure attendere molto tempo ancora. Il lavoro degli inquirenti impegnati a "blindare" ciò che sarebbe già stato acquisito sembra muoversi su più livelli. C'è quello più alto dove compaiono i nomi della Saguto, di Cappellano, dei Virga e di qualche altro rappresentante delle istituzioni come l'ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo. La sola Saguto è stata sospesa, tutti gli altri trasferiti. E poi, a cascata, ci sono i livelli più bassi che arriverebbero fino ai “raccomandati” per un post di lavoro o per una consulenza. L'inchiesta potrebbe procedere per step.

Amministrazioni giudiziarie e curatele fallimentari: “U mancia mancia”, scrive il 19 aprile 2016 Salvo Vitale su Telejato. Sono state dissequestrate alcune aziende che erano finite sotto le grinfie della dott.ssa Saguto senza sufficienti motivazioni, ma solo perché alcuni protagonisti del cerchio magico, in particolare i cosiddetti “quotini”, avevano pensato di sistemarsi a vita spolpandone le risorse. Il caso del capo dei “quotini”, Cappellano Seminara è uno dei più sconvolgenti e ancora oggi aspetta di essere esplorato in tutte le sue “malefatte”. Man mano che i nuovi amministratori giudiziari, nominati per effettuare le consegne scavano per cercare di capire dove sono finiti i soldi, si configurano casi di falso in bilancio, casi di fornitori non pagati che reclamano i loro soldi, addirittura di vasche da bagno strappate dal loro posto e messe in vendita di nascosto o portate in altra struttura. Milioni di debiti che sicuramente non saranno pagati da chi ha combinato questi dissesti, ma che, come al solito graveranno sulle spalle dei proprietari cui è stato riconsegnato il bene sotto sequestro. Sono stati cambiati alcuni amministratori giudiziari, ma in qualche caso, come per i beni dei Virga, dove Rizzo è stato sostituito con Privitera, tutto è rimasto come prima, anzi peggio di prima, perché Privitera viene da Catania una volta la settimana, riceve solo chi decide lui e non vuole prendere alcuna decisione se non con l’autorizzazione di Montalbano. Addirittura a una ragazza ha fatto firmare una ricevuta di un acconto datole per il suo lavoro di cento euro, cioè l’elemosina e a qualche altra lavoratrice che reclamava un minimo di acconto e che aveva ritirato dalla scuola la figlia, perché non poteva darle nemmeno i soldi per il panino, ha detto che ci vuole sempre l’autorizzazione di Montalbano per avere un sussidio. Insomma, storie di ordinaria miseria all’ombra dell’antimafia. Ma se in questo settore si aprono spiragli, altre porte sembrano chiudersi: si presentano in redazione lavoratori disponibili e pronti a prendere in mano aziende sotto sequestro e destinate al fallimento, ma Montalbano li indirizza agli amministratori giudiziari, i quali dicono che “ci pensano loro” e che non hanno bisogno di aiuto. Spiragli di lavoro che potrebbero funzionare, ma ai quali viene chiusa ogni possibilità prima di cominciare. Ben più serrata e impenetrabile è la situazione degli uffici che si occupano di fallimenti e di curatele giudiziarie. Qua diversi avvocati, nominati, non si sa se frettolosamente o in modo complice dal tribunale, sono stati capaci di costruire le proprie ricchezze acquistando o facendo acquistare da prestanomi i beni messi in vendita, anzi svenduti in un particolare momento in cui all’asta si presentava solo chi era stato deciso che doveva acquistare. Beni immobili di milioni di euro venivano e vengono aggiudicati per pochi spiccioli e, se in qualche occasione il proprietario ha deciso di ricomprare ciò che era suo, allora il prezzo sale. Una vera e propria casta della piccola e media borghesia palermitana si è proposta e agisce come classe dominante, non facendosi scrupoli anche di amministrare e gestire le risorse di Cosa Nostra. L’arresto di alcuni professionisti fatto anche recentemente, è un semplice indizio di quanto serpeggia in modo sotterraneo. Quella che il grande Mario Mineo e poi Umberto Santino e altri chiamano “borghesia mafiosa”, è in grado persino di spremere soldi a Cosa Nostra, dal momento che i mafiosi fanno collette tra i loro amici per pagare gli avvocati dei loro parenti in carcere. Ma le nostre sono solo parole e considerazioni tratte da quanto sono venute dichiararci le persone danneggiate da queste trappole. Sicuramente sotto c’è ben altro che forse non sapremo mai, c’è un verminaio altrettanto grave di quello dei sequestri giudiziari e di cui qualche spiraglio speriamo che si apra con il nuovo presidente della sezione Fabio Marino.

Il Paladino, la mafia, le corna, scrive Vincenzo Marannano il 4 maggio 2016 su “Di Palermo”. L'indagine su Pino Maniaci, la mafia spacciata per una trita storia di amanti e di vendette e quella verità, se di verità si tratta, che arriva sempre tardi. Troppo tardi. La prima vittima eccellente, in questa ennesima storia nebulosa, è sicuramente la verità. Azzoppata intanto da mesi di indiscrezioni, colpita duramente da chi ha accreditato – con premi, patenti di legalità e attestati di stima – qualcuno che a quanto pare non era poi così accreditabile, e trafitta infine da indagini troppo lunghe. Perché – se confermata la ricostruzione degli investigatori – due anni per dirci che a bruciare un’auto non era stata la mafia ma un marito geloso forse sono un po’ troppi. E perché consentire per mesi a carovane di associazioni e rappresentanti delle istituzioni di sfilare quasi in pellegrinaggio verso la sede di una televisione che (sempre se le prove supereranno l’esame del processo) invece estorceva denaro in cambio di una linea più morbida, fa male anche e soprattutto alle credibilità delle istituzioni e alla parte sana del movimento antimafia. La verità in Italia purtroppo viaggia spesso a due velocità. Il tribunale dell’opinione pubblica, basato solitamente su semplici indiscrezioni, è molto più rapido di quello della giustizia. E un cittadino tante volte finisce per essere condannato anni prima di vedere conclusa, in un modo o nell’altro, la sua vicenda processuale. I tempi della giustizia sono lunghi. Le prove o gli indizi impiegano ancora troppo per diventare informative degli investigatori prima, richieste della Procura dopo e, infine, ordinanze dei gip. Così ci ritroviamo con reati compiuti a partire dal 2012 che, se va bene, approderanno in un’aula di tribunale dopo cinque anni. Con tutti i limiti e i problemi che questo comporta. Sia per chi i reati li commette, ma anche per chi deve discolparsi di qualcosa che non ha mai fatto. C’è poi un altro aspetto che non va sottovalutato. Nell’era di internet e dei social network – e dei pulpiti offerti a chiunque grazie a strumenti come Twitter o Facebook – qualsiasi notizia lascia ormai una traccia quasi indelebile, nel bene e nel male. Se un’inchiesta impiega cinque o vent’anni per arrivare a sentenza, fino a quel momento l’unica verità, parziale, sarà quella emersa dalle indagini o dalle indiscrezioni. A questo aggiungiamo che ogni giorno plotoni di internauti si svegliano, leggono il tema del momento e si improvvisano arbitri, giudici, allenatori, investigatori, opinionisti. E che, purtroppo, le chiacchiere da bar non si disperdono più tra un bicchiere e l’altro ma restano impresse e spesso diventano verità a uso e consumo di chi non è in grado di selezionare e capire cosa è informazione e cosa, invece, è solo opinione. O “curtiglio”. Questa leggerezza porta a condannare semplici indagati o ad esaltare modelli impresentabili. E in questa continua improvvisazione si finisce col rovinare carriere o (chissà cosa è peggio) col costruire o inventare di sana pianta eroi, paladini o semplici “bolle” che quando si sgonfiano o esplodono danneggiano tutto l’ambiente in cui hanno proliferato. La storia di Pino Maniaci non fa differenza. Autoproclamatosi paladino dell’antimafia, in questi anni è stato celebrato da un capo all’altro del Paese (e perfino all’estero) grazie anche alla ribalta concessa da televisioni nazionali abituate a fare informazione semplicemente mettendo un microfono davanti alla faccia dell’intervistato. Senza scavare o chiedere conferme. Perché a molti è bastato sentire dalla sua viva voce che la mafia aveva bruciato la sua auto per costruire una verità che invece spettava a qualcun altro accertare. Perché in un momento storico in cui comandano l’audience e i like su Facebook, è sicuramente più popolare una storia di ribellione a Cosa nostra che la solita trita e ritrita questione di corna. Perché c’è sempre qualcuno, prima degli investigatori, pronto a dire che è stata la mafia a bruciare quella macchina o a piazzare quella finta bomba. Perché – spesso anche nella categoria dei giornalisti – bisogna arrivare sempre primi (per vincere cosa?), dare una notizia in più anche se non verificata o (peggio) sostituirsi agli investigatori nelle analisi o ai giudici nelle sentenze. A scapito di una verità che, come un frutto rarissimo, purtroppo ha ancora tempi troppo lunghi per maturare.

Per l'avv. Antonio Ingroia “il corpo del reato è un video che è stato montato dai Carabinieri (c’è la firma, perché c’è lo stemma dei Carabinieri), ed è stato distribuito inserendo intercettazioni e atti giudiziari che noi ancora non conosciamo se non attraverso quel video, perché non fanno parte degli atti trasmessi al giudice e comunque non fanno parte dell’ordinanza cautelare, trattandosi di fatti penalmente irrilevanti, ma servivano soltanto a distruggere l’immagine di Pino Maniaci. Perché dentro queste indagini ci sono rancori e vendette di amministratori locali, che hanno avuto la grande occasione di liberarsi della voce libera di Telejato e di Pino Maniaci. Ma c’è stata anche un’operazione che era attesa… L’operazione era attesa, com’è noto dalle intercettazioni della Procura di Caltanissetta, sui magistrati e gli amministratori giudiziari indagati per gravissimi reati, per i quali, invece, al contrario di Pino Maniaci, sono a piede libero. La verità vera è che si voleva macchiare Pino Maniaci, e si è macchiato, per due o tre piccole presunte piccole estorsioni (parliamo di centinaia di euro) a fronte di magistrati, avvocati, professionisti e amministratori giudiziari che sono imputati per centinaia di milioni di euro, che sono stati sottratti allo Stato, e sono oggi a piede libero, e altro non aspettavano in questi mesi, che approdasse a destinazione questa indagine. E’ grave e inquietante e noi faremo denuncia di questo, per il fatto che questi, magistrati, prefetti e avvocati sapessero che c’era questa inchiesta che bolliva in pentola e gradivano che arrivasse in porto. Per questo presenteremo denuncia”.

Ingroia diventa garantista per incassare una parcella. L'ex pm è l'avvocato del direttore di "Telejato" Maniaci, icona antimafia accusata di estorsione. Ora scopre che la sua vecchia Procura fa "indagini mediatiche". E denuncia pure i carabinieri, scrive Paolo Bracalini, Sabato 07/05/2016, su "Il Giornale". Da pm d'assalto a paladino degli imputati, la rivoluzione (personale, più che civile) di Antonio Ingroia è compiuta. Si fatica a riconoscere nell'ex pasdaran della Procura di Palermo pronto a mettere sotto accusa anche il Quirinale, l'autore di esternazioni tipo «questo provvedimento (della sua ex Procura, ndr) è sproporzionato», «c'è un accanimento accusatorio», «Pino Maniaci è stato crocifisso mediaticamente», «è grave e inquietante che i magistrati sapessero prima dell'inchiesta», «siamo di fronte a gossip, ad un processo mediatico alla vita privata», e poi indignarsi perché i pm avrebbero fatto «il copia incolla delle informative dei carabinieri», infilando nell'ordinanza anche «chiacchiere senza alcuna rilevanza penale», utili solo a «sporcare l'immagine» delle persone. Dopo la carriera da pm finita con un duello (perso) col Csm e l'addio alla toga, e poi la brevissima carriera da leader politico finita con il disastro elettorale, l'incarico ricevuto da Crocetta in una partecipata regionale siciliana andato a schifìo pure quello, Ingroia è tornato in pista come avvocato. Ma nemmeno in questo campo mancano incidenti e scivoloni per 'U comunista immuruteddu (il gobbetto comunista), soprannome affettuoso che gli diede Borsellino ai tempi in cui Ingroia era il suo vice a Marsala. Tra i suoi primi assistiti, dopo aver detto che «per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti», l'ex pm si è scelto Augusto La Torre, già boss della camorra di Mondragone (spiegando che «si può condurre una battaglia antimafia anche difendendo un pentito»). E adesso è proprio lui, l'avvocato Ingroia, a difendere il direttore di Telejato, Pino Maniaci, già simbolo dell'informazione antimafia, accusato dai giudici di Palermo di aver usato la sua posizione per estorcere denaro a politici. Ingroia ha un debole per i paladini dell'antimafia, ma non sempre ci prende, anzi. Nei lunghi mesi del processo sulla presunta «trattativa Stato-mafia», sua ultima ossessione giudiziaria, Ingroia è arrivato a riconoscere «quasi un'icona dell'Antimafia» in Ciancimino jr, rivelatosi poi un testimone tutt'altro che affidabile (condannato per calunnia), dopo essere stato elevato però (anche grazie ai talk show dei giornalisti amici di Ingroia) a fonte di verità suprema sulle malefatte della politica collusa coi clan, quasi sempre di centrodestra. Ma adesso che il segugio delle trame occulte e dei segreti inconfessabili della Repubblica è passato dall'altra parte della barricata, ha sposato con lo stesso impeto il garantismo. Nel difendere Maniaci, l'ex pm minaccia sfracelli. Accusa la Procura di Palermo di «inseguire il gossip» e di aver costruito un'indagine sul nulla, minaccia la Procura di Caltanissetta («Non possiamo non denunciarne l'anomalia...), vuol portare in tribunale pure i carabinieri, «per avere distribuito lo spot promozionale dell'accusa, un video fatto intenzionalmente per distruggere Maniaci, inserendo la faccende dei cani e di Matteo Renzi (a cui Maniaci dà dello str..., ndr), faccende che non avevano alcuna rilevanza penale. La Procura ha il dovere di chiedere formalmente all'Arma chi ha predisposto questo video e poi chi lo ha distribuito». Ma non denuncia mica solo i carabinieri, mezza Sicilia: «Faremo anche una denuncia al sindaco di Borgetto e del suo addetto stampa, e denunceremo per calunnia alcune delle persone che hanno agito per motivi di rancore contro il nostro cliente». Anche qui Ingroia intravede una trattativa nascosta: «Si voleva marchiare Pino Maniaci per due o tre presunte piccole estorsioni», che invece per il suo legale corrispondono alla riscossione di diritti pubblicitari. Maniaci è stato interrogato dal gip, a cui ha esposto la sua linea: «Mi hanno buttato addosso merda perché qualcuno vuole fermarmi». Per un complotto, non c'era migliore avvocato di Ingroia. Sempre che abbia più fortuna come legale che non come pm o leader di partito.

Il mio amico Maniaci. Masaniello, Pancho Villa, il contadino o il brigante che dopo anni di ribellione viene infine scoperto dai nobili, dalla corte, scrive Riccardo Orioles il 05/05/2016 su “I Siciliani”. “Ha visto com’è spontaneo, don Alonzo? Mangia colle mani! Es un hombre del pueblo, poco da fare…”. “È un campesino, si vede. Un liberal campesino. Però potrebbe anche farsi la barba ogni giorno”. “Ed ecco a voi… Pino Maniaci! Il coraggioso giornalista di…”. “Di Partinico”. “Ecco, di Partinico! Nel cuore della Sicilia maffiosa! Ci dica, Maniaci, lei ha paura quando affronta la mafia?”. E Maniaci – e Pancho Villa, e Masaniello – risponde, come tutti si aspettano, con una parola volgare. “Eh eh – sorride il presentatùr – Pane al pane, eh? Scusate, amici telespettatori, ma stiamo parlando con un protagonista della lotta alla maffia… Uno che non bada certo a parlare da intellettuale…”. Altra malaparola di Masaniello (o di Pancho Villa, o di Maniaci), altro sorriso complice del presentatore. E lo spettacolo va avanti. Francisco Arango Arambula di San Juan del Rio in realtà era uno dei migliori generali del Ejercito Republicano. Aveva cominciato con quattro compagni, poi dieci, poi cinquanta. Abilissimo tattico, uno dopo l’altro aveva sfasciato i battaglioni del dittatore, lassù nel Norte. E ora eccolo qua, nel Palazzo Presidencial, imbarazzato e felice, lisciandosi i baffoni e cercando di rispondere alle domande dei capi liberales con l’occhialino. (E anche Gennaro Aniello, come sindacalista e politico, non era poi tanto male. L’unico, in tutta Napoli, a capire che la gabella sul pesce era la chiave di tutto, che là si doveva insistere, coprendosi con “Viva el Rey” ma senza mollare un momento). Pino Maniaci è uno dei migliori cronisti che ho conosciuto, e ne ho conosciuti un bel po’. “Dilettante” all’inizio, ma rapidamente cresciuto, e all’antica, in questo mestiere. Uno che è in giro all’alba, per colline e campagne, per prendere i particolari, non solo le grandi linee, dell’ultimo omicidio o di una cronachetta qualunque. E buona capacità, anche, di coordinare un’inchiesta grossa, di mettere insieme dati, di trarne conclusioni razionali (la dottoressa Saguto ne sa qualcosa). E ora eccolo qui, insieme a los generales e ai marchesi, coccolato e schernito (ma elegantemente): “Don Pancho!”, “Excellencia!”, “Gran Maniaci!”. Finché un bel giorno – come Tomaso Aniello, come Francisco – è scasato di testa. Come la nobiltà, del resto, pazientemente aspettava. È una storia di poveri. Decine o centinaia di euri, banconote e monete, raccolte senza osar crederci, impaurito e spavaldo. “Hai finito di stentare”, dice alla donna. Potrà lavare i pavimenti trecento euri al mese, una ricchezza. “Hai visto? Fanno quello che voglio! Comando io!”. È un nobile pure lui adesso, uno che può afferrare le cose, può comandare. Così fanno i signori, i ricchi della città, i generali, gli avvocati. E così, se dio vuole, faremo pure noialtri, d’ora in avanti. Ce lo siamo meritato. Inizia la breve ricchezza, la povera ricchezza, soldini di rame e di tolla (ma ai poveri pare oro sonante) del campesino Francisco, del pescatore Masaniello. “Comando io!”. E i nobili, con pazienza, aspettano allegramente il passo falso. “Avete visto? – si preparano a dire – Don Montante, el senor Costanzo, il barone Lo Bello: v’incazzavate con loro, voi communisti, ma in fondo che cos’è mai successo? Chi vede quattrini se li piglia, e voi non siete meglio degli altri: guardate il vostro eroe, che cos’ha fatto!”. Cosi i milioni dei ricchi si confondono colle quattro monete dei poveracci: tutta roba rubata, tutta la stessa cosa. “Vi prego, voi velocisti, telegiornali, giornali vari, che mai avete fatto inchieste… Che fate servizi fiume sull’eroe antimafia decaduto, e ci godete. Noi siamo i ragazzi di Telejunior. In quelle stanze di Telejato ci abbiamo passato giornate intere. A impappinarsi nel registrare i servizi, a fare le rassegne stampa, a montare. In giro a fare domande, a Borgetto, a San Giuseppe Jato, al tribunale di Palermo. I vostri coltelli feriscono, fanno un male che nemmeno vi immaginate. Ma io devo fare scudo. Con gli occhi gonfi, la nausea che va e viene, il naso rosso paonazzo. Io devo fare scudo ai miei ragazzi, ai ragazzi di Telejunior. Io Michela, e Salvo e Arianna e Danilo, e Marco, Ivano, Eleonora, Pasquale e Giulia e tutti gli altri”. Un altro ragazzo, un militante, da Milano: “Da me su Maniaci non avrete parole, solo dolore”. Telejato deve continuare. Come la lotta contro la gabella a Napoli, come la tierra y liberdad dei contadini. Con Masaniello, con Pancho Villa, dopo Pancho Villa, dopo Masaniello. Perché siamo noi questa lotta, noi popolo, noi banda di disperati. Non un singolo capo, che prima o poi può crollare. Voi nobili, voi giornalisti importanti, guardate solo ai capi. Ma noi abbiamo vissuto un’altra storia, un’altra grande speranza e sofferenza. Noi siamo qui, noi non molliamo. Caro Pino, rimettiti dall’ubriacatura, ingollati ‘sto caffè e torna com’eri prima. In culo alla nobiltà e a tutto il gran giornalismo italiano: noi siamo viddani zappaterra, non baroneddi. Ce ne fottiamo di comandare, non c’interessa diventare come loro, vivere è ciò che ci piace. Ti aspetto e ti stringo la mano. (Fino a un minuto fa, altro che stretta di mano, volevo salutarti con un calcio nel sedere. Ma abbiamo cavalcato insieme, stracciati e miserabili ma orgogliosi. Gliene abbiamo date, ai signori. E torneremo a dargliene. Forza, un altro caffè, tutto d’un fiato. Ti aspetto). Collega Letizia, aspetto i suoi ordini. Lei è la mia nuova direttrice. Telejato continua, non c’è bisogno di dirlo. Mi spiace per lorsignori, ma si va avanti. Sono già al computer, mi dica cosa debbo fare. “Perché, la storia di Telejato, e di tutti noi ragazzi, non si può cancellare così. Siamo tutti stretti l’uno all’altro, e rimarremo in questo modo, qualunque sia il pensiero di ciascuno, qualunque emozione. Qualunque cosa accada. Uniti. Insieme”.

Il ruolo dei Carabinieri e della Procura nella vicenda di Pino Maniaci, scrive il 10 agosto 2016 Salvo Vitale su "Telejato". MAN MANO CHE IL TEMPO PASSA ED È FINITO LO STUPORE SUSCITATO NEL MOMENTO IN CUI È VENUTA FUORI LA NOTIZIA, I MARGINI DELLA VICENDA CHE HA INTERESSATO PINO MANIACI SI FANNO PIÙ CHIARI E, PER MOLTI VERSI, PIÙ INQUIETANTI. Tutto è iniziato nel 2013, quando “per caso”, nell’ambito di una serie di intercettazioni disposte per indagare eventuali collusioni tra i mafiosi e i politici di Borgetto, viene registrata una sospetta telefonata di Maniaci al Sindaco di Borgetto. Va detto che Maniaci si era occupato, attraverso la sua emittente, di strane commistioni che vedevano un consigliere comunale che aveva preoccupanti parentele mafiosi o, addirittura, rapporti di comparaggio con un esponente delle forze dell’ordine. Non si sa le intercettazioni abbiano preso il via, grazie alle denunce di Maniaci o se siano state decise da altri canali d’indagine. La telefonata di Maniaci consentiva l’apertura di un capitolo su di lui, dal momento che vi si raffiguravano le caratteristiche dell’estorsione. Maniaci avrebbe chiesto dei soldi al sindaco di Borgetto in cambio di un ammorbidimento della linea del suo telegiornale nei suoi confronti. Da allora non un respiro, non una parola è sfuggita all’orecchio vigile degli inquisitori, che hanno accumulato oltre 4 mila pagine di intercettazioni per cercare prove e provini che potessero costituire elementi d’accusa nei suoi confronti. Ben più di quanto non ne siano state raccolte sui nove mafiosi di Borgetto, che avevano rimesso in funzione una gigantesca macchina di estorsioni e taglieggiamenti tra Borgetto e Partinico. Contemporaneamente Telejato ha, in quel periodo, aperto una serie d’inchieste sull’operato della sezione “misure di prevenzione” del tribunale di Palermo, in particolare sull’accoppiata Saguto-Cappellano Seminara e ha messo in onda una serie di interviste e di servizi di operatori economici e commerciali ai quali era stato sequestrato tutto, senza che penalmente ci fosse nessuna condanna e nessun capo d’imputazione. Una delle caratteristiche emerse dall’inchiesta è che al tribunale di Palermo tutti sapevano, ma nessuno era intervenuto né tantomeno aveva il coraggio di intervenire sulle distorsioni della giustizia che venivano consumate all’interno della citata sezione. Una convocazione, di Maniaci, da parte del tribunale di Caltanissetta, giudice Gozzo, si era conclusa con un’audizione di tre ore e con l’impegno di una nuova convocazione, cui non era seguito più nulla. Il controllo dei telefoni di Telejato consentiva agli intercettatori di ricostruire la rete di informazioni e le persone che venivano a raccontare le loro storie: i carabinieri sapevano benissimo delle visite dei Niceta, dei Giacalone, dei Virga, degli Impastato, degli operai della 6Digi di Grigoli, dei lavoratori dell’Hotel Ponte, di quelli dell’ex immobiliare Strasburgo, di Rizzacasa, di Lena, di Di Giovanni, di Ienna ecc. Dall’altro lato la Saguto sapeva benissimo che Telejato era sotto controllo e che in qualsiasi momento la procura avrebbe potuto intervenire per bloccarne le iniziative. “Quello lì è questione di ore…” diceva il prefetto Cannizzo alla Saguto, la quale poi si lamentava con la stessa per il ritardo della procura: “Se quelli lì si spicciassero…”, mentre scherzava con Cappellano sul “dover chiedere il permesso” a Telejato per prendere la decisione di un sequestro. Una corsa contro il tempo che è finita con l’apertura dell’indagine da Caltanissetta sulla Saguto e sui provvedimenti di sospensione o di trasferimento, del prefetto, dei giudici Licata e Chiaramonte e di Tommaso Virga e sul rinnovo dei magistrati di tutta la sezione. È sembrato poco opportuno, in quel momento, ai magistrati, coinvolgere Maniaci, perché la cosa avrebbe potuto avere il sapore di una ritorsione, così l’indagine è stata raffreddata e la miccia è stata accesa circa sette mesi dopo, come si dice in siciliano “’a squagghiata di l’acquazzina”, cioè quando si è sciolta la brina. CERCHIAMO DI RICOSTRUIRE, CON L’ABBUONO DELL’IMMAGINAZIONE, LA STRATEGIA DELLA PROCURA. Primo obiettivo, distruggere l’immagine del giornalista antimafia, e quindi nullificare il suo lavoro, per ribadire che l’antimafia, le indagini, le denunce non appartengono all’operato di un giornalista che si è allargato troppo, ma solo agli investigatori, alle istituzioni o agli organismi riconosciuti come soggetti istituzionalmente interlocutori. Non pare importante in ciò l’esistenza di reati penali o la presunzione d’innocenza: basta mettere insieme alcuni elementi di presunta colpevolezza e il lavoro di Telejato avrebbe dovuto crollare come un castello di carta. Mettere Maniaci assieme ai nove mafiosi di Borgetto, di cui egli stesso aveva denunciato da anni le malefatte è stato un colpo da maestri, perché si è creato di tutta l’erba un fascio e perché così si è dimostrato che tra le estorsioni dei mafiosi, per richiesta di protezione e le richieste di denaro di Maniaci non c’era nessuna differenza. Le prime garantivano protezione, da se stessi, quella di Maniaci garantiva un trattamento morbido dell’informazione sulla persona estorta. In tutto questo c’è un elemento che non quadra, che non ha il dovuto riscontro, ovvero che quel “trattamento morbido” non esiste, che non c’è alcuna trasmissione benevola nei confronti dei due sindaci di Borgetto e Partinico e che, nell’arrivare a questa affrettata conclusione, come ha detto uno dei giudici, Vittorio Teresi, “ci siamo fidati dei carabinieri”. Altra trovata: non essendoci ancora processo, bisognava pure studiare qualcosa per dimostrare all’opinione pubblica che un provvedimento era stato adottato, perché sotto c’era qualcosa di penalmente rilevante, e allora si è pensato di adottare la misura cautelare del divieto di dimora nelle province di Palermo e Trapani. Perché? Quale reato avrebbe potuto reiterare Maniaci, al punto da disporne l’allontanamento dalla sua televisione? Pare di capire che l’obiettivo non tanto occultato, è stato quello di togliere alla televisione il suo principale protagonista e provocarne la chiusura. Caduto l’elemento d’accusa, dal momento che i pochi euro “estorti” ai due sindaci riguardavano, da una parte il pagamento d’una pubblicità, dall’altra una sorta di contributo assistenziale “per comprare il latte” o qualche vestitino a una bambina malata, figlia di una donna sposata con un “malacarne” e additata a tutta Italia come la sua “amante”, si è disposta la revoca della misura, costata a Maniaci una ventina di giorni d’esilio, e si è trovato un altro escamotage per tornare a riproporne l’allontanamento: c’era un passaggio, nelle intercettazioni, tra l’ex sindaco di Borgetto Davì e il già citato Polizzi in cui si parla della commissione, da parte di Maniaci, di un blocco di magliette che non sarebbero mai state pagate, così come non erano stati pagati tre mesi d’affitto per ospitare alcuni ragazzi di Telejunior. Polizzi ha negato tutto, ma è stato indagato per le discordanze tra l’intercettazione e la sua dichiarazione, mentre Davì, che aveva concesso a Maniaci l’uso provvisorio di uno stabile affittato come sede della Protezione civile, non è stato mai sentito. A questo punto il ricorso è finito in Cassazione, la quale, ad ottobre, dovrà pronunciarsi se reiterare l’allontanamento di Maniaci, dopo che egli è rientrato da parecchio tempo in sede e non ha reiterato alcun reato. Sono vicende che sfiorano il comico e l’incredibile, ma che svelano quanta acredine e quanta determinata voglia di “fottere” Maniaci, di colpirlo e di mettere a tacere la sua emittente, ci sia dietro. Il montaggio del video e la contestuale distribuzione delle registrazioni delle intercettazioni sembra uno dei capolavori usati per avere lo strumento principe nella demolizione dell’immagine di Maniaci. C’è tutto: il sindaco di Borgetto che gli conta i soldi in bella mostra, la sparata offensiva nei confronti della telefonata di Renzi, il disprezzo per una targa-premio che gli era stata conferita, gli apprezzamenti della presunta amante sulla capacità, anzi sulla “potenza” di Maniaci nel tenere in scacco gli amministratori di Partinico, il disprezzo per tutte le istituzioni, dai politici, alle forze dell’ordine, a magistrati, definite corrotte ed espressione del malaffare e infine l’accusa più infamante, quella di avere utilizzato l’uccisione dei due cani, di cui egli conosceva l’esecutore, non come un atto di gelosia di un marito cornuto, ma come un attentato mafioso nei confronti della sua attività giornalistica… Per quest’ultimo caso viene abilmente occultata la denuncia, presentata da Maniaci, con l’indicazione della persona da lui sospettata e non si fa alcun accenno al fatto che, non essendo stata questa persona indagata, interrogata o ritenuta responsabile, avrebbero potuto essere proprio i mafiosi borgettani con i quali egli è stato messo insieme nell’operazione Kelevra, ad aver compiuto il barbaro gesto. Una volta confezionata la polpetta avvelenata ci sono, ci siamo cascati tutti, senza renderci conto che dietro tutto non c’erano reati, ma elementi d’accusa deboli, ma erano evidenti altri elementi che riguardavano il senso della morale, nei confronti di una persona atteggiatasi a fustigatore dei costumi e a giudice delle immoralità altrui. Persino i più noti antimafiosi, come Lirio Abbate, che ha chiesto a “Reporters sans Frontieres” di cancellare il nome di Maniaci dall’elenco dei giornalisti a rischio, o Claudio Fava, che, sbagliando premio, ha dichiarato Maniaci indegno di potere ricevere il premio Mario Francese hanno condiviso quanto propinato dai magistrati. Un passaggio che occorre inserire nel quadro di questa indagine è la nomina a Palermo del Procuratore Lo Voi, inframezzata dai ricorsi dei colleghi Lari e Lo Forte e dalle supplenze del procuratore Facente Funzione Leonardo Agueci, indicato da Maniaci e da qualche altro giornalista, come cugino della titolare della distilleria di Antonina Bertolino, a Partinico, uno dei suoi principali bersagli. Lo Voi, la cui nomina è stata definita come una “nomina politica”, ovvero voluta direttamente da Renzi e da Alfano, si è insediato a Palermo nel 2015. Fa parte della corrente di Magistratura Indipendente, la stessa di quella della Saguto e di Tommaso Virga. Egli ha affermato subito che l’indagine sulla Saguto è partita su segnalazione del tribunale di Palermo, da Caltanissetta si affrettano a dire, subito, che Maniaci non c’entra niente, certamente è lui ad affidare il caso “Maniaci”, più nove, a quattro magistrati, Teresi, Del Bene, Picozzi, Tartaglia e Luise, che si occupano di vicende di mafia e che con una dedizione più degna di altra causa, hanno usato i giornalisti che ruotano attorno alla procura come amplificatori di una strategia che sembra avere qualche tinta diffamatoria. La materia prima su cui muoversi è data da quanto è in mano alla caserma dei carabinieri di Partinico, la quale, per un verso non invia più le informazioni sulla propria attività a Telejato, per l’altro assicura ancora la tutela. La pubblicazione di pruriginose intercettazioni con la ragazza definita amante offre Maniaci in pasto alle possibili ritorsioni e all’eventuale rischio della vita, da parte di un soggetto che potrebbe ancora voler vendicare il proprio onore ferito. Una preoccupante sentenza di morte che avrebbe potuto essere evitata se chi ha diffuso intercettazioni che non avevano nulla di penalmente rilevabile, ma che riguardavano la vita privata, le avesse cancellate o omesse. È di questo che Maniaci accusa la Procura e i Carabinieri, in una sua denuncia. Altre cose sono in itinere, ma sembra profilarsi all’orizzonte una ben più preoccupante situazione, quella di una sorta di gioco di fioretto tra l’ex magistrato Antonio Ingroia, difensore di Maniaci, che conosce bene tutti i modi di muoversi e d’agire dei suoi ex colleghi, e quella di costoro, che forse ci tengono a dimostrare che sono più bravi di lui e che, in un modo o nell’altro troveranno come condannare Maniaci, almeno in primo appello, mentre continua all’infinito la strategia della graticola, quella su cui venne bruciato San Lorenzo, di cui oggi ricorre l’anniversario: cuocere a fuoco lento l’imputato, sino a demolirne progressivamente qualsiasi capacità di difesa. Cosa che potrebbe andare bene quando l’imputato è colpevole. Si può concludere che la motivazione strisciante di tutto quello che è successo sarà stata presa un po’ più in alto, da parte di qualcuno che ha ritenuto essere arrivato il tempo di chiudere un’emittente anomala che non sa stare in linea con il modo di agire delle altre emittenti. E cioè siamo sempre lì, nel conformismo dell’informazione, che ha relegato l’Italia agli ultimi posti per la libertà di stampa.

Sul rapporto tra i Carabinieri e Telejato, scrive il 6 agosto 2016 Salvo Vitale su Telejato. COM’ERA E COS’È CAMBIATO DOPO L’OPERAZIONE KELEVRA. Il video diffuso in tutta Italia su Pino Maniaci e i testi delle intercettazioni ripropongono il problema del ruolo che hanno avuto i carabinieri dietro tutta questa vicenda e lascia diversi interrogativi sulle motivazioni che stanno dietro le loro azioni. Va premesso che Telejato ha sempre avuto con i carabinieri uno stretto rapporto di collaborazione, che ne ha da sempre trasmesso i comunicati, anche quando questi riguardavano trascurabili vicende, tipo il sequestro di un grammo di marjuana e di 20 euro considerati come proventi della sua vendita. Ai carabinieri sono state dirottate alcune lettere anonime, ben dettagliate su nomi e affari loschi, ricevute a Telejato. Con i carabinieri, e in particolare con una figura “leggendaria”, come il capitano Cucchini, sono state portate avanti alcune attività che poi hanno condotto al sequestro dell’impianto della distilleria Bertolino, chiusa per quattro anni o all’arresto dei Fardazza e alla lotta per la demolizione delle stalle. Va detto che Cucchini aveva spostato l’allora Nucleo Operativo, che ancor oggi è composto dalle stesse persone e che scherzando abbiamo ribattezzato Nucleo aperitivo, a espletare servizi d’ufficio e si era servito di personale più giovane. Il principio da lui seguito era che dopo trent’anni, poco più poco meno, chi lavora in una caserma diventa sì un esperto del territorio e dei suoi problemi, ma può talmente affezionarsi al suo ruolo sino a mettere casa e famiglia e ad avviare contatti, richieste di lavoro per i propri familiari e conoscenze che potrebbero finire con il gettare un cono d’ombra sulla trasparenza dell’operato dal personale di cui parliamo. Non saremo noi a parlare di queste cose, in quanto, se ne hanno voglia, spetta a chi fa le indagini indagare, magari anche al proprio interno. Ottimo anche il rapporto con i carabinieri ai quali è stato affidato l’incarico di far la tutela a Maniaci. Il 2013 è un anno in cui cominciano le intercettazioni che riguardano Maniaci, ma è anche l’anno in cui vengono spediti alla caserma di Partinico il capitano De Chirico e il tenente Alimonda, i quali fra poco, ultimati i loro tre anni, saranno promossi e trasferiti. Di qualcuno di essi Telejato ha detto che a Partinico non ci volevano ragazzini di 22 anni usciti dal corso da poco, ma gente con le palle quadrate. Apriti cielo!!! A qualche altro che gli chiedeva come mai la gente si rivolge a Telejato e non ai carabinieri, Maniaci ha detto che la gente ritiene Telejato un’istituzione più seria di altre istituzioni. Anche qua apriti cielo. E tuttavia anche questo sembra troppo poco per motivare alcune azioni, come quella della diffusione del “gossip” ovvero di tutta una serie di telefonate personali tra Maniaci e la sua presunta amante, che non hanno alcuna rilevanza penale, ma tali da ingenerare nel di lei marito la volontà di arrivare all’eliminazione fisica della persona che aveva offeso il suo onore. E che tale sospetto sia, sino ad oggi, motivato, lo si può ricavare dalla fedina penale dell’interessato, che risulta, agli atti, essere tossicodipendente (è schedato al SERT come cocainomane), alcolizzato, spacciatore, individuo violento con sei denunce fatte dalla moglie per maltrattamenti vari, al punto che questa ha scelto la separazione. Ultimamente è stato beccato con otto grammi di cocaina e un coltello a serramanico ma rimesso a piede libero. Quindi è evidente, dopo la diffusione delle telefonate morbosamente registrate dai carabinieri di Partinico, che l’esposizione di Maniaci, ne comporta il rischio dell’eliminazione fisica. Inutile chiedersi se i carabinieri si sono posti il problema e come mai la loro “presa di distanze” è arrivata al punto che non vengono più fornite notizie e informazioni all’emittente Telejato, mentre, per contro, viene ancora effettuata la tutela. C’è qualcosa che non funziona.

Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

I 100 EROI DELL’INFORMAZIONE SONO 99 – GIUSTIZIALISMO TRIONFERÀ. REPORTER SENZA FRONTIERE CONDANNA PINO MANIACI ALLA DAMNATIO MEMORIAE. Quanti sono i 100 eroi mondiali dell’informazione? Sembra una domanda simile a quella sul colore del cavallo bianco di Napoleone, ma è meno scontata di quanto appaia. Perché i “100 Information heroes” selezionati da Reporters sans frontières, la nota ong che si occupa di libertà di stampa, in realtà sono 99. Ne manca uno, tra l’altro uno dei due italiani originariamente presenti nella lista, il giornalista siciliano Pino Maniaci (l’altro è Lirio Abbate, che invece mantiene lo status di eroe). Maniaci era entrato nel club dei 100 giornalisti che nel mondo si erano distinti per aver svolto il loro lavoro in contesti pericolosi e per aver affermato il principio della libertà di stampa anche a rischio della propria incolumità. Reporter senza frontiere (Rsf) descriveva Giuseppe ‘Pino’ Maniaci come il coraggioso direttore di “una piccola stazione televisiva antimafia”, Telejato, che si occupa di “omicidi e racket, che sono una parte della vita quotidiana in Sicilia”. “È stato citato in giudizio centinaia di volte e ripetutamente minacciato e una volta è stato picchiato dal figlio di un boss mafioso”. Ora però sul sito Rsf la foto di Maniaci non c’è più, al suo posto c’è uno spazio vuoto, la sua scheda è stata eliminata: i 100 eroi sono diventati 99 e la ong che si batte per la libertà di stampa non spiega da nessuna parte perché. Cos’è successo? A maggio su tutti i giornali è scoppiato il “caso Maniaci”: il giornalista impegnato da anni nella lotta alla mafia e all’illegalità è indagato dalla procura di Palermo con l’accusa di estorsione, avrebbe ricevuto da alcuni sindaci poche centinaia di euro e favori in cambio di soldi. Pochi spiccioli, ma comunque un comportamento deprecabile. Dalle intercettazioni sono emersi altri aspetti poco piacevoli, come ad esempio la possibilità che alcune intimidazioni che avrebbe subìto – e per cui aveva ricevuto la solidarietà anche del premier Matteo Renzi – in realtà non sarebbero minacce mafiose ma vendette personali del marito della sua amante. Maniaci ne era consapevole, ma ha cavalcato l’ipotesi dell’intimidazione per aumentare il proprio prestigio di giornalista antimafia. In ogni caso questi aspetti più personali, per quanto censurabili, non vengono contestati dalla procura e rispetto alle accuse di estorsione il giornalista si difende dicendo che il passaggio di denaro si riferisce all’acquisto di spazi pubblicitari. L’indagine va avanti e, come si suol dire, la giustizia farà il suo corso. Rsf invece ha già emesso una sentenza di condanna, senza però pubblicare la sentenza. Perché Maniaci è stato rimosso dal sito? Ne è stato informato? Rsf ha pubblicato un comunicato ufficiale sulla vicenda? “Ci è capitato di apprendere che l’onestà di Giuseppe Maniaci è stata seriamente messa in discussione e che lo scorso maggio è stato incriminato”, ha risposto alla richiesta di spiegazioni del Foglio il chief editor di Rsf Gilles Wullus. “Fino a quando l’indagine non sarà fnita, abbiamo scelto di ritirarlo dalla nostra lista di ‘Eroi dell’informazione’”. La scelta sarebbe anche legittima, ma restano aperte alcune questioni gravi sul modo di operare della ong che stila classifiche sulla libertà d’informazione del mondo. La prima è un dettaglio, che però indica il livello di approfondimento che Rsf ha dedicato alla vicenda: Maniaci non è “incriminato”, ha solo ricevuto un avviso di garanzia e i pm non hanno ancora chiesto il rinvio a giudizio. L’altra è la totale assenza di trasparenza: mai Rsf ha comunicato che la posizione di Maniaci è sospesa e per quali motivi, né ha chiesto spiegazioni al giornalista, sia per avere gli elementi per una valutazione giusta sia per garantire il diritto di difesa. Rsf ha semplicemente sbanchettato Maniaci, come si faceva in Unione Sovietica con le foto dei compagni caduti in disgrazia dopo le purghe, come fanno ancora oggi tutti quei regimi autoritari e totalitari nemici della libertà di stampa. Al posto della sospensione e di un giudizio pubblico e trasparente, Rsf ha scelto la damnatio memoriae, la cancellazione di ogni traccia del sospetto, come se Maniaci non fosse mai stato uno dei 100 “Eroi dell’informazione”. Che Rsf e i suoi premi non sono una cosa seria l’aveva intuito lo stesso Maniaci che, mentre in pubblico era impettito per il premio simbolo del giornalismo impegnato, in un’intercettazione diceva: “M’hanno invitato dall’altra parte del mondo per andare a prendere il premio internazionale del cazzo di eroe dei nostri tempi”. Non più dell’informazione, ma eroe della sincerità. Il Foglio Quotidiano – anno XXI numero 179 – pag. 2 – 30/07/2016 Autore: Luciano Capone

Il dito e la Luna. A proposito di Pino Maniaci di Telejato. L’opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Chi parla di Mafia e antimafia dice a sproposito la sua e non so cosa ne capisca del tema. Chi mi conosce sa che sono disponibile a dar lezione! Nel caso di Pino Maniaci ci troviamo a bella a posta a sputtanare qualcuno con notizie segretate con tanto di video e senza sentire la sua versione, così come io ho fatto. A prescindere dal caso specifico, Pino Maniaci da vero giornalista ha indicato sempre la luna e ora si sta a guardare questo cazzo di dito. Vi siete chiesti perché tutto è successo nel momento in cui è stata attaccata “Libera” ed i magistrati e tutta la carovana antimafia con i suoi carovanieri? In quel momento i paladini mediatici e scribacchini dell’antimafiosità ed i magistrati delatori (non è sempre un reato?) si son dati da fare a distruggere un mito, prima di una sentenza. I codardi, poi, che prima osannavano Pino, oggi lo rinnegano come Gesù Cristo. Comunque io sto con chi ha le palle, quindi con Pino Maniaci. Mi dispiace del fatto che a Palermo si vede la Mafia anche dove non c’è, giusto per sputtanare un popolo e fottersi i beni delle aziende sane. E di questo tutti tacciono. Se a Palermo si stanno dissequestrando i beni sequestrati dagli “Antimafiosi” è grazie a Pino. Pino colpevole, forse, anche perché in Italia nessuno può dirsi immacolato, ma guardiamo la luna e non sto cazzo di dito.

Parla l’avvocato dei boss: «Ecco i misteri di via D’Amelio che non conoscete». La guerra intestina tra Riina e Provenzano, il depistaggio di Vincenzo Scarantino, le lacune delle inchieste. E la domanda più inquietante: fu davvero una 126 ad esplodere in via D’Amelio? Il racconto dell’avvocato Rosalba Di Gregorio a Manuel Montero su “Fronte del Blog” il 30 agosto 2014. Dal suo ufficio i boss sono passati in massa. Il primo fu Giovanni Bontate, fratello di Stefano, alias il Principe di Villagrazia e gran capo di Cosa Nostra prima che i Corleonesi lo ammazzassero dando vita alla seconda guerra di mafia. Poi ci furono i Vernengo e Francesco Marino Mannoia. E ancora Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, Michele Greco detto il Papa della mafia. E ora Bernardo Provenzano, Binnu u tratturi. Dallo speciale osservatorio che si è costruita, l’avvocato Rosalba Di Gregorio ha potuto raccontare così l’ “altra faccia” delle stragi. E lo ha fatto con Dina Lauricella nel libro non a caso intitolato “Dalla parte sbagliata” (Castelvecchi), un volume che rappresenta un pugno nello stomaco per chi (quasi tutti, in verità) ritiene il 41bis un regime di detenzione degno di una società civile: ne narra gli orrori da Guantanamo, le inutili crudeltà, le indescrivibili pressioni fisiche e psicologiche. Fatte anche su chi, come abbiamo scoperto di recente, ci è finito dentro per quasi vent’anni da innocente: i sette malcapitati trascinati al 41bis dal falso pentito di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino. Ma il libro fa molto di più: mette a nudo le pecche dei pentiti, chi tra loro confessa a rate lunghissime, chi di volta in volta aggiunge, sottrae e corregge le versioni senza mai pagarne il conto. Col rischio che raccontino storie molto lontane dalla realtà. Ma è proprio sulla vicenda di Scarantino che il legale può illuminarci, dato che, alcuni di quei malcapitati innocenti, li difendeva lei.

Lei dice che si vedeva subito che le dichiarazioni di Scarantino erano una farsa.

«L’unico riscontro che esisteva alle sue parole era la 126 esplosiva che uccise Paolo Borsellino e la sua scorta. Tutto il resto erano cose surreali. Spiegò che la decisione di uccidere il magistrato era avvenuta in casa di un uomo, tale Giuseppe Calascibetta, intorno al 25 giugno 1992, a cui parteciparono capi di Cosa Nostra di qualsiasi grado, cosa già di per sé impossibile. Ma incredibile è il fatto che fu creduto quando disse di averlo sentito perché lui, che doveva aspettare fuori, ad un certo punto, avendo sete, entrò a prendere in frigorifero una bottiglia d’acqua. Anziché fermarsi o cacciarlo o qualsiasi altra iniziativa, proprio allora tutti avrebbero parlato dell’attentato da fare in via D’Amelio. Ci sarebbe da ridere se non fosse una tragedia. E il guaio è che è il meno».

Cioè?

«Scarantino raccontò le modalità con cui era stato affiliato, una specie di rimpatriata tra amici, finita al ristorante. Non era incredibile solo la narrazione, ma proprio lui, che aveva rapporti con una transessuale, cosa che un uomo d’onore non avrebbe fatto mai. Non riuscivo a credere che i magistrati lo ritenessero attendibile. E infatti non lo era. Ma quando raccontò delle torture subite per farlo confessare nessuno gli diede retta, anzi…»

Lei scrive che voi avvocati foste accusati dai giudici di cambiare le carte in tavola, per usare un eufemismo…

«Fosse solo questo. I pm Anna Palma e Nino Di Matteo ci denunciarono due volte per il caso Scarantino. La prima volta quando scoprimmo l’esistenza di tre confronti che altri pentiti avevano avuto con lui, confronti a lungo negati dai pm. Quando ne chiedemmo l’acquisizione da un altro procedimento, dissero che non servivano. Noi li denunciammo per falso, loro per calunnia. Tutto archiviato. La seconda volta accadde, quando Scarantino ritrattò la sua confessione in aula: due legali furono accusati di essere le menti occulte a disposizione di Cosa Nostra che lo avevano convinto a cambiare idea. Un’altra fesseria, archiviata per buona sorte. Oggi sappiamo che Scarantino davvero era un poveraccio, uno che di mafia non sapeva nulla, neurolabile riformato dal servizio di leva, le cui confessioni erano studiate a tavolino e per arrivare alle quali subì un trattamento orrendo nel carcere di Pianosa».

Cosa sappiamo della strage di via D’Amelio?

«Praticamente dopo tre processi non sappiamo granchè. Non si sa quando avvenne, se avvenne, una riunione deliberativa per deciderne la morte. Non sappiamo il movente. Non sappiamo da dove fu azionato il telecomando esplosivo. Non sappiamo quanti parteciparono, perché ognuno conosceva un segmento delle azioni. Non sappiamo neppure come faceva Cosa Nostra a sapere dell’arrivo di Borsellino proprio quella domenica. Le nuove indagini stanno cercando di far luce, ma sono penalizzate di ventidue anni. E da vari elementi che agli atti non si trovano».

E quelli che hanno partecipato?

«Dicono tutti di aver preso ordini da Salvatore Biondino, di solito definito l’autista di Riina, in realtà il reggente del mandamento di S.Lorenzo, il cui capomandamento Giuseppe Giacomo Gambino, era stato arrestato».

La 126 esplosiva. Nel libro lei esprime dubbi sul fatto che sia stata davvero quella l’arma usata in via D’Amelio.

«Guardi, sulla copertina del libro c’è una foto un po’ ridotta rispetto a quella che ho qui nel mio ufficio, scattata dal palazzo di fronte a quello della sorella del giudice Borsellino. È stata fatta la mattina del 20 luglio 1992. La strada è deserta. Eppure dopo le 13,30 venne recuperato lì, di fianco alla Croma che c’è sulla foto senza nulla intorno, il motore della 126, una cosa da 80 kg, non roba piccola, mi spiego? Ho chiesto di acquisire tutti i filmati e le foto del 19 luglio, il blocco motore non appare da nessuna parte. Nessuno lo vede questo motore, 80 kg che regge in tre processi. Noi sappiamo però quattro cose. La prima è che un pentito, Giovan Battista Ferrante, disse che loro l’esplosivo l’avevano piazzato in un fusto ricoperto da 200 litri di calce e non nella 126. La seconda è che il consulente di parte Ugolini chiese in aula come mai non fosse stato repertato un grosso frammento “stampato” sul cratere dell’esplosione. La terza è che la scientifica di Palermo riempì 60 sacchi della pattumiera con tutto ciò che era stato trovato a terra, ma senza mettere a verbale reperto per reperto inviandole a Roma, a disposizione solo dell’Fbi. La quarta la raccontò Scarantino in aula al momento di ritrattare la confessione. Disse che, quando era sotto protezione, godeva della compagnia sostanziale e inspiegabile dei poliziotti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino. E ricordò che uno di loro gli aveva spiegato come in realtà la 126 fosse stata fatta esplodere in una discarica e i pezzi poi portati lì per incolpare gli imputati. Naturalmente fu giudicata “ridicola” la sua affermazione. Però…».

Però?

«Ci sarebbe una quinta cosa, un’agenzia Ansa scomparsa».

Prego?

«Un’ora dopo la strage uscì un’agenzia nella quale si diceva che grazie ad una felice intuizione investigativa si era scoperto che la causa dell’esplosione era stata un’autobomba 126. Un’ora dopo! Ne feci copia, una per me e una da depositare. La mattina successiva entrai in ufficio ed entrambe erano sparite. L’agenzia sull’archivio Ansa oggi non c’è. D’altra parte c’era confusione. Il pm di turno fu avvisato della strage alle 18,40, quando sulla scena del crimine era entrato l’universo mondo. Solo un quarto d’ora dopo l’area fu recintata. Nel frattempo, mentre in via D’Amelio si addensavano centinaia e centinaia di persone, la polizia aveva capito che l’autobomba era una 126. Non me lo spiegherò mai».

Lei non crede dunque alla ricostruzione di Spatuzza?

«Certo, ma Spatuzza racconta solo del furto della 126. Ciò che accadde una volta consegnata l’auto non può saperlo e infatti non lo dice, perché fu fatto allontanare da Palermo».

Non ritiene valido neppure il teorema Buscetta sull’unitarietà e l’aspetto verticistico di Cosa Nostra.

«Con queste ultime sentenze su via D’Amelio sappiamo che il mandamento della Guadagna, quello di Pietro Aglieri, con le stragi del ’92 e ‘93 non c’entrava nulla. E non poteva che essere così, perché ad Aglieri Riina aveva chiesto di ammazzare uno dei parenti di Totuccio Contorno, condannato a morte dai Corleonesi. Ma Aglieri, quando aveva visto la vittima con il bimbo in braccio si era rifiutato di ucciderlo. Lo riferì a Provenzano e lui fu d’accordo. Ma Aglieri non entrò più nelle grazie di Riina. Fu Borsellino a dire che Riina e Provenzano erano due pugili che si guardavano in cagnesco. Si trattava di un gruppo non più unitario nelle idee e nel metodo. Io l’ho constatato in diverse sentenze, con assoluzioni del gruppo di Provenzano rispetto a fatti in cui quelli di Riina erano stati condannati. Con Riina c’erano Brusca, Graviano e Spatuzza, non Provenzano. D’altra parte il pentito Giuffrè disse che già nel 1989 Riina gli aveva chiesto a che ora Binnu uscisse di casa. Evidentemente perché lo voleva ammazzare».

L’agenda rossa di Borsellino che fine può aver fatto?

«Guardi, intanto Arnaldo La Barbera, il capo della mobile di Palermo e poi del gruppo Falcone-Borsellino, qualche giorno dopo la strage disse che l’ “agenda telefonica” di Borsellino molto probabilmente era andata distrutta nell’esplosione e che non era stata ritrovata. Un’agenda che il sostituto procuratore Ignazio De Francisci diceva essere importantissima. Poi sappiamo che l’agenda marrone era stata ritrovata e, dalla testimonianza del pm dell’epoca Fausto Cardella al Borsellino quater sappiamo che anche l’ “agenda telefonica” è stata infine trovata. Ed era nella borsa di Borsellino apparsa, non si sa come, proprio nell’ufficio di La Barbera. Ecco, intanto sappiamo questo, che La Barbera fosse o meno il collaboratore dei servizi segreti col nome di Rutilius. Ma se per via D’Amelio i misteri sono ancora moltissimi, non è che per la strage di Capaci noi si sappia poi moltissimo».

Cioè?

«Neppure lì sappiamo molto sulla riunione deliberativa per ammazzarlo. Nel senso che una sentenza di Catania che riuniva stralci delle stragi di Capaci e di via D’Amelio colloca la riunione tra il novembre e il dicembre del 1991, basandosi sulle dichiarazioni del pentito Nino Giuffrè. Giuffrè raccontò che nell’occasione si erano ritrovati tutti i capi. E Riina, avendo avuto notizie che il maxiprocesso non sarebbe stato cassato, disse che era arrivata l’ora della resa dei conti. E che era venuto il tempo di ammazzare Lima, Falcone e Borsellino. A marzo, aveva dunque mandato a Roma Gaspare Spatuzza e altri per pedinare Falcone e poi ammazzarlo per vendetta. Senonchè, alla fine, il gruppo era stato chiamato indietro da Biondino perché bisognava fare la strage di Capaci. Come si passa dalla vendetta con un colpo di pistola alla strage di Capaci? Chi, quando, dove, come e perché lo ha deciso? Non si sa».

Riina: mi fece arrestare Provenzano. Avrebbe confidato queste parole al poliziotto Bonafede nel 2013. E sul bacio di Andreotti: «Lei mi vede a baciare quell’uomo? Però sono sempre stato andreottiano», scrive “Il Corriere del Mezzogiorno” il 30 giugno 2016. La cattura, la presunta trattativa e il leggendario bacio ad Andreotti. Al processo Stato-Mafia piombano, e sono sempre macigni, le parole di Totò Riina. Utili per una serie di riscontri. In particolare, vengono riportate le confidenze che Riina avrebbe fatto al poliziotto Michele Bonafede nel carcere milanese di Opera. «A me mi hanno fatto arrestare Bernardo Provenzano e Ciancimino e non come dicono i carabinieri» avrebbe detto l’ex Capo dei capi all’agente il 21 maggio 2013. L’episodio, ricordato oggi dal poliziotto durante il processo Stato-mafia, confermerebbe quanto detto dal figlio di Ciancimino, Massimo, che per primo ha parlato del ruolo del padre e del capomafia di Corleone nella cattura di Riina. Al boss i carabinieri sarebbero arrivati grazie all’indicazione del covo segnata da Provenzano nelle mappe catastali fattegli avere dal Ros attraverso Vito Ciancimino. L’udienza si sta svolgendo nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. «Ma è vera la storia del bacio ad Andreotti?» gli chiese poi l’agente. «Appuntato, lei mi vede a baciare Andreotti? - rispose il boss - Le posso solo dire che era un galantuomo e che io sono stato dell’area andreottiana da sempre». Su un’altra frase del boss, raccolta da Bonafede e da un altro agente, Francesco Milano, il 31 maggio 2013 mentre si recavano nell’aula per le videoconferenze del carcere («Io non ho cercato nessuno, erano loro che cercavano me»), in aula sono emerse due versioni discordanti. Bonafede ricorda che il boss avrebbe aggiunto «per trattare», mentre Milano ha riferito che il capomafia disse in siciliano stretto: «Il non cercai a nuddu (nessuno,ndr), furono iddi (loro, ndr) a cercare a mia (a me, ndr)». Senza aggiungere altro, né spiegare il contesto. «Io sono stato 25 anni latitante in campagna - avrebbe riferito a Bonafede, come scritto dall’agente nella relazione di servizio - senza che nessuno mi cercasse, come è che sono responsabile di tutte queste cose? Nella strage di Capaci mi hanno condannato con la motivazione che essendo il capo di Cosa Nostra non potevo non sapere. Lei mi ci vede a confezionare la bomba di Falcone?». Poi il padrino avrebbe aggiunto: «Brusca non ha fatto tutto da solo. Lì c’era la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l’agenda del giudice Paolo Borsellino. Perché non vanno da quello che aveva in mano la borsa e non si fanno dire a chi ha consegnato l’agenda? In via D’Amelio c’entrano i servizi che si trovano a Castello Utveggio e che dopo cinque minuti dall’attentato sono scomparsi, ma subito si sono andati a prendere la borsa».

Bernardo Provenzano. Il padrino. L’ultimo atto. Una lenta agonia di Stato Così si è spento Zu Binnu. Ormai non riusciva più a nutrirsi e pesava solo 45 chili, scrive Lu. Ro. su “Il Tempo” il 14 luglio 2016. Disteso sul letto, come morto, nel reparto di medicina protetta dell’ospedale San Paolo nel carcere milanese di Opera. I capelli lunghi e addosso il camice del nosocomio. Peso: 45 chili. Incapace di muoversi, di interloquire, di capire cosa accadeva intorno a lui. E anche di nutrirsi. A farlo ci pensava un sondino naso-gastrico, che andava non più dal naso allo stomaco, ormai non funzionante, ma direttamente all’intestino. In queste condizioni il boss dei boss Bernardo Provenzano ha abbandonato questo mondo. È così che lo Stato italiano, dopo anni di dinieghi e inspiegabili prese di posizione, alibi più o meno adattabili alle drammatiche circostanze e spiegazioni inammissibili, ha voluto far morire Zu Binnu. Senza pietà. Senza compassione. Senza umanità. Non sono bastate le battaglie del suo avvocato, Rosalba Di Gregorio, a restituire un minimo di dignità umana a chi, certo, non ne ha avuta; non è stato...

Lo stato confusionale di Provenzano. Quando il boss perse la lucidità, scrive Riccardo Lo Verso il 13 Luglio 2016 su “Live Sicilia”. Pensieri sconclusionati, frasi incomplete, una sorta di balbettio scritto che lo porta a ripetere più volte una parola, uno stato confusionale che si manifestava nel non sapere dove e perché fosse detenuto. Le lettere che Bernardo Provenzano scriveva ai suoi familiari sarebbero state la prova che il padrino corleonese negli ultimi tempi era gravemente malato. “Delle due l'una: o siamo di fronte a un grande simulatore oppure a un uomo gravemente malato e dissociato dalla realtà”, diceva i legale di Provenzano, Rosalba Di Gregorio, che ha condotto una inutile battaglia per ottenere un regime carcerario meno afflittivo. Erano i giorni in cui gli esami diagnostici avevano evidenziato delle lacune cerebrali dovute a un'ischemia. Una patologia che si aggiungeva al tumore alla prostata confermato dalle perizie. A fare suonare il primo campanello d'allarme sulle condizioni di salute di Provenzano era stata una lettera del 5 marzo 2001. Al di là dei limiti grammaticali di una persona non scolarizzata, i ragionamenti erano lineari. Il boss spiegava alla moglie di essere stato sottoposto ad alcune visite mediche. In alcuni passaggi, però, si leggevano parole ripetute senza una logica: “Amore mio carissimo. E figli Angelo e Paolo con gioia ho ricevuto la vostra lettera... amore mio carissimo non ricopio a tutto quello che mi chiedi spero spero spero con il tempo di spiegarti... amore mio mi dice se sò cosa anno scritto nel diario diario non l'ho letto ma tu mi che ho avuto una eschemia, non so cosa sia...” L'11 maggio Provenzano riprendeva carta e penna. Il destinatario era ancora la moglie: “Oggi mercoledì 11 maggio. Amore mio ho ricevuto la tua lettera. Amore mio grazie delle notizie che al ritorno che avete avuto un buon viaggio. Amore mio mi dici che ero troppo sofferente e ne se addoloratissima. Che cosa mi hanno fatto, se c'erano i dottori che mi hanno visitato, se mi hanno cambiato le medicine Non lo so Amore mio vuoi sapere che sto Amore mio sento stanco...”. A un certo punto il ragionamento si interrompeva e riprendeva con una datazione diversa: “02-05-2001 tuo marito che ti pensa Amore mio e figli Angelo e paolo carissimi smetto con la penna non con il cuore... - chi scrive perde lucidità - che smetto con la presente e ne ricevo un'altra ricevuta ieri giovedì di paolo, che con il volere di Dio iniziare quella che ho ricevuto dopo da paolo e scritto te amore mio. Ora con piacere a rispondere in quella lunga tua - e lascia il periodo tronco - Con quello che mi succede nel rispondere con affetto segue i seguito...”. Il 23 maggio Provenzano sceglieva un telegramma per comunicare con il fratello Salvatore. "Mio caro fratello e Figlio come state padre e figli si unanomia si incoraggia essendo due. Io vi chedo scusa, e cioè mi prometto di scrivervi e sorte no veglio chiare vi sforzano a emesso senza scrivere e il mio pensiero s sforza e si vede la mia vecchiaia e aspetta oggi aspetta domani ho ensato di scriverti ora smetto con la penna non con il cuore augurandovi un mondo di bene per tutti vi benedica il signore che vi protegge vi benedica il signore vi protegge”. Il 9 giugno 2001 Provenzano sembrava smarrito: “Ma io sono qui da solo non so dove sono sono. Oggi c'è la videconferenza non ci vado per scrivere e voi potete parlare con l'avvocato dicci la nostra posizione ed chiedere per ottenere colloqui tra noi i mia moglie e i mie figli Angelo paolo e mamma con lo sta bene con l'avvocato perché io sono forse più malato di quello che vi dico”. Poi, fornisce il suo indirizzo ai parenti come se mai prima d'ora non avesse ricevuto le loro lettere: “Ripeto se potete parlati parlare con l'avvocato della mia posizione vi do il mio indirizzo: Sono in via Burla numero n.53.L3:100 Parma. Con questo mi potete scrivere mi potete venire attrovare ce possiamo parlare di presenza oppure uno scritto dopo che avete parlato con l'avvocato così cerchiamo la serenità che ci manca a tutti...”. Sempre a giugno Provenzano scriveva di nuovo. Forse era una risposta alla moglie e ai figli che gli chiedevano cosa volesse portato al prossimo colloquio. Il capomafia, invece, di rappresentare le sue esigenze, si limitava a ricopiare il contenuto della lettera che ha ricevuto: “Avevo tue amore mio mi dici che stai in pensiero la mia salute ma io ho pensieri per la mia salute se ho capito bene e studiare e comprendere nella mia miseria... Figlio mio mi addolora tanto con la desolazione e triste Figlio Angelo mi dici scrivi tutto quello che capita e che succede Ho chiesto ho chiesto il foglio per edere per il foglio per vedere per vedere cosa ti posso portare per il prossimo colloquio qui scrivimi quello che posso portare Amore mio chiudi la lettera augurandoti sempre di stare meglio”.

Provenzano è uscito dal carcere, scrive Simona Musco il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". Il boss alla fine è morto. Era in coma da anni ma restava al 41 bis. È già guerra sui funerali. «Qui non lo vogliamo». Bernardo Provenzano era già morto. Lo era già due giorni fa quando, ormai in coma, il giudice di sorveglianza di Milano 2 aveva respinto l’ennesima istanza presentata dall’avvocato Rosalba Di Gregorio affinché il boss di Cosa Nostra venisse scarcerato. Ma i suoi trascorsi criminali e il valore simbolico del suo percorso all’interno della mafia, per il giudice, lo avrebbero esposto ad «eventuali “rappresaglie” connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso» del quale era a capo. Provenzano è così rimasto al 41 bis, senza che moglie e figli potessero salutarlo. Il figlio Angelo, lunedì scorso, aveva fatto richiesta di un permesso straordinario, che gli era stato negato. Ed è arrivato proprio ieri, dopo la morte del padre. «I veri detenuti al 41 bis sono i parenti – denuncia ora la Di Gregorio -, il regime di restrizione è stato applicato ai figli e alla moglie impedendogli di poterlo vedere». Le condizioni di Provenzano si sono aggravate venerdì, quando a causa di un’infezione polmonare è entrato in coma irreversibile. Ma il carcere duro, ha dichiarato Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento del ministero della giustizia, «in nulla ha aggravato lo stato di salute di Provenzano: anzi nei due ospedali in cui è stato ha ricevuto cure puntuali ed efficaci». Negli ultimi anni, l’avvocato Di Gregorio ha presentato tre istanze di revoca del carcere duro e tre di sospensione dell’esecuzione della pena. Alle prime avevano dato parere favorevole le Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, ma si sono incagliate poi nel parere della Direzione nazionale antimafia. Diverse perizie, nel corso del tempo, hanno confermato la gravità delle sue condizioni: non era più ricettivo, incapace, dunque, di comandare e inviare messaggi. Il 12 maggio del 2012 le videocamere del carcere di Parma lo avevano immortalato nella sua cella intento a infilarsi un sacchetto in testa. Non un tentativo di suicidio, secondo i suoi legali, bensì i segni che non ci stava più con la testa. A dicembre dello stesso anno cadde riportando un ematoma al cervello. Entrato in coma e operato, non si è più ripreso. Il gip lo ha anche dichiarato incapace di prendere parte in maniera cosciente al processo sulla trattativa Stato-mafia. Le patologie di cui soffriva sono state definite dai «plurime e gravi di tipo invalidante». Non parlava più, faticava a muoversi. Ma la giustizia italiana non ha ceduto di un millimetro. Così, nel 2013, la famiglia si era rivolta alla Corte europea dei diritto dell’uomo, denunciando l’incompatibilità del suo stato di salute col regime del 41 bis. A gennaio 2015, il Tribunale di sorveglianza di Roma confermava l’esigenza di trattenerlo lì per questioni di sicurezza pubblica, «sussistendo il pericolo di continuità di relazioni criminali» con Cosa Nostra. A settembre, invece, la Cassazione giustificava il carcere duro proprio con la necessità di assicurargli cure adeguate. Il figlio Angelo, nominato curatore speciale del padre, tempo fa aveva anche rilasciato un’intervista shock: «anche un pluriergastolano ha diritto di essere trattato come un essere umano – aveva detto a Repubblica -. Se poi l’esistenza di mio padre dà fastidio, qualcuno abbia il coraggio di chiedere la pena di morte, anche ad personam». Ma era già morto, ribadisce la Di Gregorio, che ha appreso della morte del boss mentre era in aula a Caltanissetta per il Borsellino quater, tramite un sms inviatole proprio da Angelo. Lo era dal momento «in cui è caduto ed è stato operato al cervello. Era un vegetale. Le sue condizioni di salute si erano aggravate da circa 4 anni. Non aveva più reazioni di nessun genere». Intanto il pg di Palermo, Nico Gozzo, è intervenuto a muso duro: lo Stato, polemizza sul suo profilo Facebook, avrebbe potuto far sentire «la differenza tra uno stato di diritto» e «le belve di Cosa Nostra, che le regole le fanno solo a loro uso e consumo, calpestando sempre la vita umana. Ed invece si è voluto continuare ad applicare il 41 bis ad un uomo già morto cerebralmente, da tempo. Con ciò facendo nascere l’idea, in alcuni, che la giustizia possa essere confusa con la vendetta. O che il diritto non è uguale per tutti. E ciò, per me, è inaccettabile». Il senatore Pd Giuseppe Lumia, componente della commissione antimafia, ha invece chiesto di evitare «sontuosi funerali» nella sua città, Corleone, per evitare di trasformare il boss in un mito. Ma il sindaco Lea Savona ha messo le mani avanti: «Oggi si celebra il nostro 25 aprile. Mi opporrò alla possibilità che si celebrino qui i funerali».

Era morto ma loro non lo sapevano, scrive Tiziana Maiolo il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". Hanno voluto vederlo morto in ceppi, quel corpo ormai da tempo senz’anima e senza vita, e così è stato. Non era certo Bernardo Provenzano quell’essere ridotto a vita vegetativa il cui cuore si è fermato ieri mattina in una cella dell’ospedale San Paolo, quartiere Barona di Milano. Pure quel corpo, che non ragionava e non parlava, non si muoveva e non si nutriva, che quotidianamente veniva ripulito, riposizionato nel letto e nutrito con il sondino naso-gastrico. Quel corpo “viveva” nel regime carcerario dell’articolo 41-bis, quello applicato ai mafiosi più pericolosi. Che sia stato un capomafia tra i più pericolosi, Bernardo Provenzano, quello vero, arrestato dieci anni fa dopo quasi mezzo secolo di latitanza, non c’è dubbio. Insieme al suo socio Totò Riina è stato protagonista della più sanguinosa stagione delle stragi culminata nel 1992 con le uccisioni dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma erano altri tempi e altri personaggi. E paradossalmente chi oggi piangerà (oltre ai familiari) la scomparsa di “quel” Provenzano, saranno gli orfani, magistrati e qualche giornalista, di quella bislacca teoria della “trattativa Stato-mafia” che ormai langue sconfitta dal punto di vista processuale. Erano proprio questi orfani del complotto a cercar di tenere in vita quel corpo in cui vita non albergava più da tempo, nella vana speranza di poterlo trascinare, prima o poi (ma ormai la sua posizione era stata sensatamente stralciata dal processo) a rivelare segreti inconfessabili e quasi certamente inesistenti. Invano nei mesi scorsi la famiglia aveva cercato di far liberare “il corpo” dai ceppi dell’art. 41bis per poterlo trasferire in un reparto di lungodegenza dell’ospedale. Si era trovata davanti un muro, composto di magistrati di un po’ tutte le città italiane che avevano processato Provenzano e dalla stessa cassazione, cui si era aggiunto, un po’ sorprendentemente, lo stesso ministro guardasigilli Orlando, che si era spinto a interpretazioni sociologiche: “Seppur ristretto dal 2006 Provenzano è tuttora costantemente destinatario di varie missive dal contenuto ermetico. Cui spesso sono allegate immagini religiose e preghiere, che ben possono celare messaggi con la consorteria mafiosa”. Era il 24 marzo scorso. Pochi giorni dopo, incuriositi e increduli, siamo andati all’ospedale San Paolo di Milano, dove “il corpo” era custodito in un reparto speciale, sorvegliato all’interno da tre agenti di polizia penitenziaria e all’esterno da 28 poliziotti che si alternavano intorno al perimetro dell’ospedale. Avevamo incontrato il primario del reparto, il professor Rodolfo Casati, colui che meglio conosceva le gravi patologie cui era affetto quel detenuto così speciale. “Provenzano – ci aveva detto – non è in grado di mettere insieme soggetto predicato e complemento, borbotta qualche suono senza senso”. Che cosa ha esattamente? “Ha avuto ripetute lesioni cerebrali, è stato operato per due episodi di emorragia, inoltre è affetto dal morbo di Parkinson”. Ma dice qualche parola comprensibile? “A volte pronuncia mmmm, che sembra quasi mamma”. Queste cose il professor Casati le ha scritte in decine di relazioni, spedite nei vari tribunali d’Italia, in cassazione, al ministro. Erano considerazioni tecniche, da medico. Ma forse politicamente scorrette. Quindi inascoltate. Tanto che si è preferito custodire “il corpo” dandogli il rango di pericoloso capomafia al 41bis piuttosto che compiere un normale gesto di umanità e ammettere di aver perso per strada un altro protagonista della vagheggiata “trattativa Stato-mafia”.

«Quando hanno aperto la cella...», scrive Piero Sansonetti il 14 luglio 2016 su "Il Dubbio". Ve la ricordate quella canzone struggente di Fabrizio de André? «Quando hanno aperto la cella / era già tardi perché / con una corda sul collo / freddo pendeva Michè…». Altri tempi, naturalmente. Non esisteva ancora il “justicially correct” e qualcuno dedicava le canzoni anche ai delinquenti. De André lo faceva spesso. Era un tipaccio De André. Figuratevi che perdonò persino i suoi rapitori e si rifiutò di accusarli in tribunale. Comunque Miché era un delinquente simpatico. Aveva ucciso per amore di Maria. Provenzano no: è stato un assassino matricolato, feroce, ha devastato la Sicilia, ha seminato morte per 45 anni. Il problema è che l’ “umanità - il senso dell’umanità, che è uno dei pilastri, forse il più grande pilastro della civiltà e della modernità, e che è un sentimento, l’unico, espressamente previsto dalla nostra Costituzione - non si applica solo alle persone perbene, o a quelli che ci stanno simpatiche, ma a tutti. La forza della civiltà è lì: nell’umanità e nella cancellazione della categoria della vendetta. Quando la vendetta diventa il carburante (o addirittura lo scopo) della giustizia, la civiltà scivola via e scompare. Provenzano da molti anni era in stato semi-comatoso e poi comatoso. Applicare a lui le misure del 41 bis (concepite, ufficialmente, per ragioni di sicurezza e non di punizione) è stata una scelta illogica, illegale e crudele. La crudeltà è crudeltà e basta: che la si applichi ad Abele o a Caino, non cambia. Nei giorni scorsi il sottosegretario alla giustizia, Gennaro Migliore, è stato crocifisso (dal “Fatto Quotidiano”) perché aveva ricordato il senso del 41 bis e aveva spiegato che secondo lui deve essere corretto, mitigato, in modo che resti una misura di sicurezza e non di vendetta. Non si è alzata una voce a difesa di Migliore, né dal mondo politico né da quello del giornalismo e dell’intellettualità. Qualche giorno dopo il “Fatto” è tornato sull’argomento per farcii sapere che aveva avuto notizia di un barattolo di miele entrato proditoriamente in una cella di 41 bis, e per esprimere sdegno verso questa “mollezza”! E’ normale che esista una parte della società (e anche dell’intellettualità e della classe dirigente) che tra modernità e giustizialismo sceglie il giustizialismo. Non è normale che non esista una parte delle classi dirigenti che si oppone al giustizialismo, apertamente, senza nascondersi. Oggi, se volete rivolgervi a una autorità morale (e politica) che contrasta la ferocia e chiede civiltà, avete una sola possibilità: chiedere udienza al papa.

Ingroia: «Fu cerniera tra Stato e Cosa nostra. Ma il suo 41bis era un accanimento», scrive Giulia Merlo il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". L’ho incontrato in carcere e mi è sembrato quasi impaurito e poco sicuro di sé, a differenza dell’immagine di lui che si dava. Era però già vecchio, debole e fragile. L’ex procuratore di Palermo Antonio Ingroia e Bernardo Provenzano. Uno è il pm che gettò le basi per l’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia, l’altro il capo di Cosa Nostra e presunto ingranaggio della trattativa. I due si sono incontrati nel carcere dove Provenzano ha passato in regime di 41bis gli ultimi dieci anni, e Ingroia lo ha definito «un uomo dell’altro Stato», riconoscendo però che il carcere duro nei suoi confronti è stato un «accanimento superfluo».

Cosa intende con la definizione di «uomo dell’altro Stato»?

«Lo Stato non è un blocco monolitico. Ha una faccia pulita, che è quella di tutti gli uomini e le donne che sono caduti per difenderlo, come i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Esiste però anche una faccia cupa, fatta dei visi dei molti che hanno “trescato”, conducendo trattative di cui la mafia è stata parte. Non mi riferisco solo a quella tra Stato e mafia, ce ne sono state molte altre. Penso ad esempio allo sbarco degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale, in cui la mafia è stata un soggetto attivo».

E con questo Provenzano cosa c’entra?

«Lui è stato uno degli uomini-cerniera di questa trattativa. Provenzano ha passato la vita a difendere e proteggere gli interessi della mafia ma anche quelli di questo altro Stato. E lo ha fatto fino alla morte, non rivelando nessuno dei segreti su cui molte inchieste hanno provato a far luce».

Quando lo ha conosciuto, Provenzano era già sottoposto al regime del 41bis, che non gli è stato revocato nemmeno negli ultimi anni di vita, quando era malato. Ha condiviso questa scelta?

«Oggi tutti, con il senno di poi, diranno che la misura fosse irragionevole. Io lo dissi in tempi non sospetti e mi sono già preso molte critiche da parte dei paladini dell’antimafia. Anch’io mi considero un militante dell’antimafia, eppure credo che il regime di carcere duro sia stato eccessivo e sconsigliabile, anche per chi viene considerato il peggiore tra i boss mafiosi. Io ho conosciuto Provenzano quando era già vecchio e malato e penso che il 41bis sia stato un accanimento superfluo nei suoi confronti».

Che impressione le ha fatto quando lo ha incontrato?

«Ricordo di aver pensato che era un uomo diverso dal “zu’ Binnu u Tratturi” di cui si raccontavano i feroci assassinii. L’ho incontrato in carcere e mi è sembrato quasi impaurito e poco sicuro di sé, a differenza dell’immagine di lui che si dava. Era però già vecchio, debole e fragile. Durante l’interrogatorio, mi è anche sembrato di leggere in lui un conflitto interno, un’indecisione profonda».

Indecisione su che cosa?

«Mi sembrava indeciso sull’ipotesi di voltare pagina, aprendo un dialogo con l’altro Stato, quello pulito di cui dicevo prima, oppure rimanere coerente con se stesso e rimanere in silenzio. Alla fine è rimasto fedele, oppure è stato indotto in qualche modo a rimanere fedele alla mafia e ha portando con sé i segreti di Cosa Nostra e quelli del doppio Stato».

“Zu Binnu” si arrese per 2 milioni di euro, scrive Rocco Vazzana il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". L’intermediario all’Antimafia mise subito in chiaro le cose: per consegnarsi, il boss voleva una buona uscita e un mese di “silenzio” dal momento dell’arresto. A Roma, via Giulia, sede della Direzione nazionale antimafia. Un uomo varca il portone della Superprocura accompagnato dalla Guardia di Finanza. È il novembre del 2003 e vuole parlare con Pier Luigi Vigna, il capo della Dna. Si chiama Vittorio Crescentini, è un faccendiere, e dice di avere notizie importanti da riferire. Ma non si presenta davanti ai magistrati in veste di informatore, come pure era capitato in altre occasioni, questa volta dice di essere un mediatore, un messaggero per conto di Bernardo Provenzano. Ma l’uomo pone subito una condizione: non dirà neanche una parola in presenza di magistrati siciliani. Vigna accetta di ascoltarlo e chiede ai sostituti Vincenzo Macrì e Alberto Cisterna, entrambi calabresi, di assistere al colloquio investigativo. Provenzano è latitante da più di 40 anni, e adesso, vecchio e stanco, vorrebbe aprire «un tavolo di accomodamento» per trattare la resa. Perché un capo, anche se non più operativo, non si arrende incondizionatamente. E l’intermediario arrivato in Via Giulia mette subito in chiaro le cose: per consegnarsi, il boss pretende una buona uscita da due milioni di euro e un mese di riserbo dal momento dell’arresto. Un periodo di tempo utile a fornire elementi investigativi agli inquirenti lontano dal clamore mediatico. Gli inquirenti lo ascoltano con attenzione, sono convinti che Crescentini non sia un millantatore, perché se qualcuno si presenta in Dna dicendo di avere notizie su Provenzano non può essere un impostore, è la convinzione dei magistrati. Il faccendiere, poi, fornisce anche qualche elemento sulla latitanza del ricercato numero uno: sarebbe nascosto nel Lazio, in un luogo non meglio definito. Per Pier Luigi Vigna la cattura di Provenzano sarebbe la ciliegina sulla torta di una carriere già brillante. Nel 2003 il capo dell’Antimafia è a un passo dalla pensione e non vorrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di chiudere col botto. Ma prima deve superare l’ostacolo più grosso: la richiesta di denaro. La palla deve passare ad altre autorità, bisogna informare subito il ministero dell’Interno della faccenda. «Mi pare di ricordare che Vigna disse che avrebbe informato il ministero dell’Interno e per correttezza anche il procuratore della Repubblica di Palermo (che all’epoca era Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato, ndr) », racconterà quasi dieci anni dopo Vincenzo Macrì, uno dei magistrati presenti agli incontri con il mediatore. «Non era compito del nostro ufficio stabilire tempi e modi di un eventuale accordo. Non so con chi parlò Vigna. So che allora il capo del Sismi era Niccolò Pollari. E che i Servizi segreti diedero la loro disponibilità in linea di massima a reperire il denaro». La trattativa, dunque, si complica. Il faccendiere dice che si rifarà vivo ma passano altri otto mesi senza ricevere più notizie del boss. Vittorio Crescentini ritorna in Via Giulia nel luglio del 2004, pochi giorni prima del 71esimo compleanno di Pier Luigi Vigna, che festeggerà il primo agosto. Il secondo colloquio investigativo si conclude come il primo. È ancora un incontro interlocutorio, il messaggero non fa altro che confermare le richieste già avanzate prima, ma aggiunge un elemento: incontrare il boss è diventato più complicato anche per lui. Scopriremo solo dopo che in quel periodo il latitante corleonese non godeva di ottima salute, tanto da essere sottoposto a un intervento chirurgico in un ospedale di Marsiglia, come documentato nel 2005 dalla procura di Palermo. Ma 71 anni, per Vigna, non sono solo candeline da spegnere su una torna, significano anche un’altra ricorrenza più amara: la pensione. E nonostante una legge ad hoc (in realtà concepita per impedire a Gian Carlo Caselli di andare alle guida della Dna) conceda a Procuratore nazionale un anno di proroga, fino al primo agosto del 2005, Vigna non riuscirà a portare a termine l’arresto. L’ultimo colloquio investigativo accertato con Vittorio Crescentini, infatti, risale al novembre del 2005. Alla Direzione nazionale antimafia c’è un nuovo capo: Piero Grasso, appena arrivato da Palermo. Spetta a lui gestire l’ultimo contatto con l’uomo che dice di essere stato delegato da Provenzano. Il nuovo procuratore chiede a Macrì e Cisterna, i due pm che avevano già seguito il caso, di partecipare all’incontro. Ma Grasso, a differenza del suo predecessore, non si fida molto del faccendiere, è convinto che sia un «millantatore». E chiede all’intermediario di fornire una prova biologica del boss latitante, come racconterà anni dopo il magistrato siciliano nel corso di un’audizione al Csm: «Quando ero procuratore a Palermo, avevamo fatto un’indagine sulla presenza di Provenzano a Marsiglia», spiega Grasso. «Eravamo riusciti a ottenere un frammento di un reperto medico sanitario». In altre parole, i magistrati avevano in mano il dna del boss corleonese. «Quindi essendo in possesso di quel reperto, a colui che diceva di essere in contatto con il latitante Provenzano, dissi di farci avere qualcosa - un fazzoletto, un bicchiere, un qualcosa... Insomma, non potendo catturare tutto il latitante ne avevamo catturato un pezzetto. Per quanto ne so questo è l’ultimo incontro con l’intermediario». Il boss, ancora tutto intero, sarà catturato pochi mesi dopo, nel marzo del 2006, dal procuratore di Palermo Giuseppe Pignatone e dal capo della Squadra mobile Renato Cortese.

Il questore del blitz: «Così ho catturato Bernardo Provenzano», scrive Vincenzo R. Spagnolo il 13 luglio 2016 su "Avvenire”. ​Con la morte, oggi, di Bernardo Provenzano, esce di scena uno dei capi mafia più temuti e sanguinari. Quando venne arrestato, l'11 aprile 2006, Due giorni dopo, il 13 aprile su Avvenire comparve questa intervista al vicequestore aggiunto di Polizia, Renato Cortese. «Quando ho incrociato il suo sguardo sorpreso, sono stato certo. Per anni ho avuto il suo volto davanti negli identikit. Ha provato a chiudere la porta a vetri, ma io e il resto della squadra l'abbiamo sfondata. Allora ha abbassato le braccia, sussurrando: non sapete l'errore che state commettendo». È l'epilogo della caccia, raccontato dall'uomo che dal 1998 l'aveva condotta in silenzio, ombra fra le ombre, sulle tracce del capo di Cosa nostra. Il «cacciatore» è il vicequestore aggiunto di Polizia, Renato Cortese, a capo della squadra di 30 poliziotti del Servizio centrale operativo e della Mobile palermitana, incaricati di stanare Provenzano. Hanno passato 8 anni sulle orme del fantasma di "Binnu u tratturi", pedinando familiari, affiliati e postini. Mancandolo per un soffio più volte, come nel 2001 nelle campagne di Mezzojuso («Sapevamo che nel casale c'era un malato di prostata: pensavamo a lui e invece trovammo Benedetto Spera»), fino a martedì, quando lo spettro si è materializzato e gli «acchiappafantasmi» della Polizia gli hanno messo le manette. Cortese ha la barba scura e i capelli ricci come i suoi avi della Calabria magnogreca, ha 42 anni (lo "zu Binnu" era già uccel di bosco un anno prima che nascesse), ma di boss ne ha scovati altri: da Brusca a Spatola, da Vitale ad Aglieri, la cui cattura gli valse una promozione per meriti straordinari. Ora forse gliene toccherà un'altra: «Non so - sorride -. Piuttosto, ci ha fatto piacere la valanga di attestati di stima che sta giungendo in questura a Palermo. Non eravamo abituati. In una e-mail c'era scritto: magnifici sbirri! Già. E ci ha colpito l'accoglienza riservata dalla folla a Provenzano: fischi e epiteti che mostrano che il sentimento della gente comune sta cambiando, che la mafia è vista come il Male e non come un potere a cui appoggiarsi. La rinascita dovrà fare i conti con l'altra Sicilia, quella dell'omertà: Provenzano lo avete trovato a Corleone, a pochi chilometri da casa».

Dov'era stato in questi 43 anni?

«A parte il viaggio per le cure a Marsiglia, quasi sempre in Sicilia. Per i boss, è regola fondamentale mantenere il contatto col territorio. Spostarsi dalla propria terra è un segno di debolezza che un capo come Provenzano non poteva mostrare». 

Per il procuratore Piero Grasso, le indagini hanno rivelato una vasta rete di coperture, a livello mafioso, imprenditoriale, politico... 

«È stata una lunga investigazione, con molti filoni, che speriamo conducano presto ad altri risultati». 

Quando siete stati certi che in quel casolare c'era lui?

«Da mercoledì 5 aprile avevamo messo gli occhi su quella masseria. La catena di "postini" sorvegliati ci aveva portato lì. Ma poteva anche essere disabitata: nessuno usciva fuori. Abbiamo sorvegliato a distanza con microtelecamere, aspettando gli eventi. Una settimana dopo, il blitz». 

Perché solo allora?

«Perché martedì 11, prima delle 9, qualcuno ha messo fuori un sacchetto bianco: una conferma che il casale era abitato. E alle 10 è arrivato un uomo a noi noto, con un pacco per l'inquilino misterioso. Allora ho fatto scendere un furgone con 20 uomini. E siamo entrati dentro».

Dopo, qual è stato il suo primo pensiero?

«Ho pensato che era andata bene, che potevamo mandare in archivio 8 anni di lavoro duro, notte e giorno, senza riposi né ferie. Ho pensato ai miei uomini, ai sacrifici imposti a noi stessi e alle famiglie per arrivare al risultato. E poi ho pensato anche ad altri: a poliziotti di altissimo valore che lavorarono alla Mobile di Palermo: uomini come Boris Giuliano, Beppe Montana, Ninni Cassarà e altri ancora. La mafia li ha uccisi, è vero, ma ignora che la loro eredità si respira ogni giorno nei nostri uffici. Ecco, questa vittoria dello Stato non è solo nostra. Appartiene anche a loro». 

La pm che lo fece catturare “Dopo l’arresto ci minacciò”. Il magistrato Sabella: sono tanti i segreti che non ha svelato, scrive Guido Ruotolo il 14/07/2016 su "La Stampa".

Marzia Sabella, lei è stata uno dei pm della Procura di Palermo - insieme all’allora aggiunto Giuseppe Pignatone e al pm Michele Prestipino - a coordinare le indagini del pool di poliziotti guidati da Renato Cortese, per la cattura di Bernardo Provenzano, ’u tratturi. Chi era Provenzano?

«Come direbbe Wikipedia, “Provenzano era un criminale italiano”. Aggiungo che era un criminale latitante da 43 anni, cioè uno smacco alle leggi dello Stato che ogni giorno ci sforziamo di applicare».

Quando erano latitanti, i due Corleonesi eccellenti, Totò Riina passava per il macellaio e zu’ Binnu Provenzano per l’intellettuale, il mediatore, l’ambasciatore. I pentiti ma anche le indagini ci hanno consegnato in realtà i ritratti di due veri mafiosi con personalità diverse. Corresponsabili delle carneficine e mattanze. 

«Ecco, era una questione di personalità diverse. Ma probabilmente anche una questione strategica: un tempo, per rendere proficui gli interrogatori ci si serviva di due figure, lo “sbirro” buono e quello cattivo. Per il resto, come riferito da tanti collaboratori, “erano la stessa cosa”».  

Ambedue le catture, Provenzano e Riina, sono state accompagnate da un alone di mistero. Addirittura si sono fatti processi con ufficiali dell’Arma dei carabinieri sul banco degli imputati, per la mancata cattura di Provenzano.

«Non abbiamo ancora una ricostruzione giudiziaria definitiva. Aspettiamo di conoscerla. Per le indagini più recenti che hanno portato alla sua cattura invece non vi sono misteri ma fasi investigative tracciabili minuto per minuto. Mi piace sottolinearlo perché ogni tanto ci si diverte a dare letture alternative».

Ha mai avuto sentore che Provenzano avesse avuto contatti, rapporti con pezzi dello Stato?

«La storia di quegli anni va ancora scritta o forse va riscritta. Ma quel “sentore”, che certo ho avuto, per il magistrato è solo uno spunto investigativo. Poi ci vogliono le prove. E chi le prove vuole cercarle e chi le vuole far trovare».

Con la morte di Provenzano si è chiusa una stagione? Insomma cosa è diventata oggi Cosa nostra?

«La stagione di Provenzano non si è chiusa con la sua morte, ma con il suo arresto: la fine della sua latitanza ha azzerato il “vantaggio” rispetto a Totò Riina che era e rimane, almeno formalmente, il capo della commissione. Ma Cosa nostra resta Cosa nostra, con i suoi alti e bassi, con le perdite e i guadagni, con il mutamento di uomini e di strategie, con la sua capacità di adattarsi alle stagioni e soprattutto con il suo talento speculativo d’avanguardia. Bisogna chiedersi piuttosto se negli ultimi anni abbiamo saputo leggere questo cambiamento, peraltro fisiologico, o se abbiamo scambiato l’integrazione sociale della mafia, che è la sua più pericolosa peculiarità, con la sconfitta della mafia». 

Nel libro che ha scritto con la giornalista Serena Uccello («Nostro Onore») lei racconta il dietro le quinte del lavoro di pm a Palermo. «Solo dopo averlo visto con i miei occhi - scrive - mi sono convinta che l’avevamo preso veramente (Provenzano, ndr)». Il suo lavoro come quello degli investigatori spesso è anche tanta fatica e sudore. Ne è valsa la pena?  

«Mi scordo sempre di fare bilanci tra la fatica personale e il risultato delle indagini. Un lavoro si porta avanti comunque, anche quando il traguardo non è la cattura di un noto latitante che porta il tuo nome sui giornali. Semmai il confronto va fatto tra l’impegno dello Stato, anche in termini di costi, e la cattura. Ed è certo che, in tal caso, ne è valsa la pena nonostante Provenzano, quell’11 aprile, ci avesse detto che non sapevamo quello che stavamo facendo, forse alludendo a conseguenze negative per il Paese dalla prossima riorganizzazione di Cosa nostra». 

L’ex procuratore Piero Grasso dice che Provenzano porta con sé tanti misteri. D’accordo? Quali quelli che avrebbe voluto conoscere?  

«Certo che sono d’accordo. Sono d’accordo anche con il “tanti” perché, appunto, sono molteplici, ma non sono tutti quelli che ci servirebbero e che oltrepassano la storia di Provenzano. Non saprei scegliere tra i misteri che avrei voluto conoscere. Se ce li avesse elencati uno per uno oggi saremmo a buon punto». 

Così i picciotti di Corleone diventarono boss, scrive Paolo Delgado il 13 luglio 2016 su "Il Dubbio". Bernardo Provenzano è morto ieri in regime di carcere duro, ai sensi dell’art. 41bis, quello che nel mondo viene considerato senza mezzi termini tortura. Era entrato in carcere nel 2006, dopo 43 anni di latitanza. Da un anno sopravviveva in stato vegetativo. Con tutta la sua ferocia e i suoi crimini, non avergli permesso di morire in un carcere normale copre di vergogna lo Stato italiano. Tra i contadini di Corleone diventati imperatori di Cosa nostra, Bernardo Provenzano è il più enigmatico. Era uomo di mano e di pistola, soprannominato Binnu u tratturi perché «tratturava tutto e dove passava lui non cresceva più l’erba», come da descrizione di Antonino Calderone, fratello del capomafia di Catania Pippo, uno dei tanti fatti ammazzare dai corleonesi. Però era anche "il ragioniere", perché il suo governo di Cosa nostra è stato mite a paragone della ferrea dittatura esercitata dai compaesani Totò u Curtu Riina e Leloluca "Luchino" Bagarella. Di Riina Binnu è stato sempre il compare più fidato, eppure proprio su di lui ha sempre aleggiato il sospetto di aver dato una mano a chiudere la carriera criminale dell’onnipotente zu’ Totò. Non per sete di potere ma per mettere fine alla guerra senza prigionieri che il capo dei capi aveva dichiarato allo Stato e dalla quale Cosa nostra rischiava di uscire distrutta. Per caso o per calcolo, è un fatto che quella guerra Provenzano scelse di non combatterla, recuperando l’uso antico della mafia siciliana: scivolare sott’acqua e rendersi invisibile quando la tempesta infuria. Biografie identiche quelle di Provenzano, Riina e dei fratelli Bagarella. Tutti di Corleone, poverissimi, figli di famiglie contadine nella miseria del dopoguerra siciliano, viddani cresciuti con la puzza della fame addosso. Amici sin dall’infanzia, complici sin dai primi crimini. Erano l’ultimo gradino di Cosa nostra, un altro universo rispetto all’aristocrazia mafiosa dei Bontade di Palermo, "principi di Villagrazia", o del corleonese don Michele Navarra, tanto potente da essere soprannominato "u patri nostru", grande elettore dei notabili Dc dell’epoca incluso Bernardo Mattarella, padre dell’attuale capo dello Stato. I futuri corleonesi erano manovalanza. Picciotti reclutati e combinati mafiosi da Luciano Leggio, campiere e braccio destro di Navarra, per occuparsi dei lavori sporchi e sanguinosi. Non avevano amicizie potenti tra i politici. Nella rete di alleanze famigliari e territoriali che costella e sostanzia la mappa di Cosa nostra neppure comparivano. Le sole risorse di cui disponessero erano la ferocia e la determinazione, figlie entrambe della fame. Se c’è un giorno che segna il passaggio dalla mafia tradizionale alla moderna Cosa nostra è il 2 agosto 1958, quando un autocarro bloccò in una strada di campagna la 1100 sulla quale viaggiavano u patri nostru con un giovane collega e i viddani di Leggio trucidano il potente boss con 92 colpi. Senza chiedere il permesso a nessun padrino. Incuranti dell’alto lignaggio mafioso della vittima e delle liturgie di Cosa nostra. Contando solo sulla forza e sulla potenza implicita nel fatto compiuto. L’uccisione di Navarra registra un modus operandi che i contadini di Corleone adopereranno più volte nei decenni seguenti: disprezzo per le regole mafiose, rapidità e spietatezza nel colpire, ferocia nello sterminare i nemici. La leggenda vuole che all’uccisione del dottore sia seguita una strage con almeno un centinaio di cadaveri. Le vittime della purga furono in realtà molte di meno, ma il metodo era davvero quello: niente prigionieri. Nel 1963 Provenzano fu denunciato per l’omicidio di uno degli ultimi fedeli di Navarra. Scelse di darsi latitante e tale sarebbe rimasto per i successivi 43 anni. Ancora più di Riina, Binnu era uomo d’armi, considerato più per le doti guerresche che per quelle diplomatiche o strategiche. Quando nel 1969 la "commissione" decise di eliminare il boss che aveva innescato la prima guerra di mafia negli anni ‘60, Michele Cavataio, nascostosi a Milano, ogni capo indicò uno o più killer. Leggio spedì Provenzano e Calogero Bagarella, fratello maggiore di Leoluca e Ninetta, fidanzata e poi moglie di Riina. Arrivarono in via Lazio, dove si rifugiava la vittima, travestiti da poliziotti. Cavataio mangiò la foglia. Era un osso durissimo: pur colpito ferì a morte Bagarella, se la pistola non si fosse inceppata avrebbe eliminato anche Provenzano. Anche il mitra di Binnu si inceppò subito dopo. Provenzano non si fermò per questo. Strappò di mano a Cavataio la pistola, lo abbattè colpendolo col calcio della stessa. Il soprannome u tratturi se lo guadagnò lì. I corleonesi si erano ritagliati il loro posto nelle gerarchie di Cosa nostra, ma pur sempre di bassa forza si trattava. Quando nei ‘70, grazie all’eroina, i soldi iniziarono a diluviare sulle famiglie siciliane, i viddani dovettero accontentarsi delle briciole. A chi gli proponeva di eliminare Riina, diventato capo dei coleonesi dopo l’arresto di Leggio, Stefano Bontade, capo della famiglia di Santa Maria del Gesù, la più potente di Palermo, rispondeva con noncuranza: «Ma no, lascialo correre, tanto sempre da qui deve passare: è viddanu». Bontade, detto "il Falco", era il figlio di don Paolino Bontà, uno che prendeva pubblicamente a schiaffoni i politici poco solerti nell’obbedire. Aveva amicizie potentissime, un esercito ai suoi ordini, alleati quasi altrettanto potenti come Totuccio Inzerillo, cugino dei Gambino di New York. Riina e Provenzano lo fecero ammazzare la notte del 23 aprile 1981 inaugurando per la prima volta l’uso del Kalashnikov nell’isola. Bissarono meno di un mese dopo, adoperando la stessa arma per eliminare Inzerillo nonostante la protezione dei Gambino. La cosiddetta "seconda guerra di mafia", che cominciò con quelle raffiche di mitra, fu in realtà una mattanza a senso unico, il massacro di chiunque fosse considerato un nemico dai corleonesi. I grandi pentiti come Buscetta hanno sempre sostenuto che Cosa nostra è morta allora. Non hanno tutti i torti. La mafia siciliana, a modo suo, era sempre stata una democrazia. Nessuno aveva mai preteso di essere "capo dei capi". Il rigido rispetto delle regole era una favola, ma l’idea che persino i mafiosi dovessero adeguarsi a un codice c’era. Riina e Provenzano non conoscevano altro codice che il loro potere, la loro fu una dittatura tra le più spietate. Con lo Stato Totò u Curtu adoperò gli stessi mezzi che gli avevano assicurato l’impero su Cosa nostra. Ammazzò magistrati e poliziotti, provocò stragi, seminò terrore. Conosceva solo la forza, e con la forza tentò di costringere lo Stato a trattare. Uscito di scena lui, con l’arresto nel gennaio 1993, il cognato Bagarella decise di seguire la stessa strada. Provenzano no, e anche per questo riuscì a restare libero per 13 anni dopo la cattura di Riina, dominando con i suoi "pizzini", discretamente, senza spargere troppo sangue. Con gli anni, il sanguinario viddano morto ieri era diventato, a modo suo, un mafioso della vecchia scuola.

Massacri e pizzini, muore Provenzano il padrino dei misteri. Latitante per 43 anni, guidò i corleonesi e trattò con la politica, scrive Francesco La Licata il 13/07/2016 su "La Stampa". Con Bernardo Provenzano scompare l’ultimo padrino «Old style»: il capo, cioè, che preferisce comandare più con la persuasione che col pugno di ferro. Non che non fosse in grado di fare male a chi «deviava», anzi. Solo che lui amava accreditarsi come persona ragionevole. E allora potrebbe trovare una spiegazione la sfilza di nomignoli, anche contraddittori, che il boss si è meritato durante la sua lunga carriera.  Il nome che gli rimarrà per sempre è Binnu, diminutivo di Bernardo usato nel Corleonese. Gli amici, i familiari lo hanno sempre chiamato così. Per i sudditi era obbligatorio il don e perciò «don Binnu». Da giovane aveva un temperamento forte e, dunque, non era famoso per le doti di saggezza che gli verranno riconosciute nella maturità. No, lui era famoso come «Binnu ‘u tratturi», per la straordinaria determinazione con cui spianava gli avversari. Nel 1958 aveva 25 anni e, ricordano alcuni pentiti, «sparava come un Dio». Allora, appena tornato dal servizio militare con una lettera di esenzione per inadeguatezza fisica, preferì imbracciare le armi per combattere la guerra privata contro l’esercito del vecchio Michele Navarra, medico, segretario politico della dc e capomafia. Il suo comandante era Luciano Liggio, l’amico del cuore Totò Riina. Il sangue scorreva tra i vicoli di Corleone, Binnu compì veri «atti di valore» e durante un’azione pericolosa rimase ferito alla testa. In ospedale disse che non capiva: «Stavo camminando e ho sentito qualcosa che mi ha colpito al capo». Finì sotto processo con tutti gli altri, Riina compreso, ma al dibattimento di Bari arrivò il «liberi tutti». Ci furono altri morti, ma Binnu si era fatto ancora più furbo e quando lo cercarono era già uccel di bosco. Primavera 1963: ebbe inizio in quella data la lunga latitanza di Provenzano, conclusa a Montagna dei cavalli (Corleone, naturalmente) l’11 aprile del 2006, 43 anni dopo. Clandestinità dorata, attenzione. Perché Binnu si è sempre mosso a suo piacimento: andava a Cinisi, regno di don Tano Badalamenti, perché lì «filava» con Saveria, l’amore della sua vita e la madre dei suoi due figli, Angelo e Francesco. In clandestinità si sono sposati, Binnu e Saveria: rito religioso celebrato da preti compiacenti, matrimonio non registrato, situazione regolarizzata dopo la sua cattura. Una volta preso, gli venne chiesto se fosse coniugato e lui rispose: «Col cuore sì, per la legge no. Ma presto regolarizzerò questa situazione». E così fu: la «messa a posto» avvenne in carcere. Binnu è un maestro della clandestinità: ha abitato a Palermo, a Bagheria, a Corleone; ha girato la Sicilia in lungo e largo, è riuscito a farsi operare alla prostata in una clinica specializzata di Marsiglia, ottenendo persino il rimborso delle spese mediche dalla Asl. Ha viaggiato in barca, dentro un’auto nascosta all’interno di un furgone e nessuno lo ha mai scoperto. Teneva riunioni della cupola nei casolari di campagna e selezionava attentamente gli amici che chiedevano udienza. Con la maturità è cambiato il carattere. L’ultima volta che viene visto in azione come «’u tratturi» era il dicembre del 1969, anno della strage di viale Lazio. Lui, Totò Riina e un gruppo di «corleonesi» massacrano l’odiato Michele Cavataio e i suoi amici: quattro morti, ma muore anche Calogero Bagarella, fratello di Leoluca, luogotenente e cognato di Totò Riina. Quella volta Provenzano finisce Cavataio colpendolo alla testa col calcio della pistola che gli si era inceppata e poi tenta di dargli fuoco. Eccesso di ferocia? Anche di calcolo, visto che si sapeva che Cavataio teneva una lista scritta delle famiglie di Cosa nostra e i relativi adepti. Ecco, quel biglietto andava distrutto. Un lungo periodo di anonimato, poi si saprà agevolato, in qualche modo, dai carabinieri, precede la comparsa dell’«altro» Binnu: l’uomo riflessivo, il principe della mediazione, l’esecutore della «volontà di Dio». Il freddo calcolatore, l’uomo d’affari e, quindi, «’u ragiuniere», affidabile anche per certe istituzioni tolleranti. Il dispensatore di appalti e affari che - al chiuso degli uffici della Icre di Bagheria, un’impresa di proprietà del boss Nardo Greco - pianificava la spartizione dei lavori pubblici ottenuti tramite le sue amicizie politiche. Già, la politica. A differenza di Riina (che non vantava grandi amici), Provenzano un buon protettore, e addirittura complice, lo aveva. Era Vito Ciancimino, democristiano, sindaco e assessore al Comune di Palermo. Erano amici d’infanzia, i due. Racconterà poi Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso, che Binnu aveva una vera e propria adorazione per Vito. Si erano conosciuti da piccoli, a Corleone, quando Provenzano (terzo di sette figli) pativa la fame e Vito non gli negava biscotti e una tazza di latte. Da grandi erano rimasti amici: Binnu gli dava del lei e lo chiamava «ingegnere» anche se era soltanto geometra, l’altro gli dava del tu, imponeva la via politica e garantiva l’arricchimento dell’intera consorteria mafiosa attraverso i soldi pubblici. Ma quando Binnu e Vito «correvano» insieme, già una rete di complicità girava intorno a loro. Racconterà Massimo che il padre finì per diventare una specie di anello di congiunzione fra rappresentanti delle Istituzioni (che ambivano di stare a contatto con mafiosi e affaristi) e il vertice di Cosa nostra. Siamo nel periodo delle stragi e della svolta terroristica imposta da Totò Riina. Binnu non l’ha mai condivisa perché convinto, saggiamente, che «non si può fare la guerra allo Stato». Ma poteva esprimere soltanto pareri, visto che il momento delle decisioni spettava al capo, a Totò Riina. Raccontava il pentito Nino Giuffrè che «Provenzano a Riina spesso discutevano e non erano d’accordo, ma non si alzavano dal tavolo se non avevano raggiunto un accomodo». Chissà, forse alla vigilia delle stragi di Falcone e Borsellino, nel 1992, Binnu era riuscito ad ottenere dal capo la possibilità di tirar fuori i familiari. Sarà per questo che donna Saveria, nella primavera di quell’anno, improvvisamente torna a Corleone, riapre la casa degli avi ed esce ufficialmente dalla clandestinità, insieme coi figli che, così, assumono una vera forma. Finiscono di essere dei fantasmi per entrare nell’anagrafe del comune di Corleone, seppure offrendo pochi scampoli di verità sulla loro trascorsa latitanza. È il momento più difficile di Cosa nostra. Riina deve affrontare il suo popolo e convincerlo che non tutto è perduto con quella maledetta sentenza del maxiprocesso voluto da Falcone e Borsellino. Promette che sarà posto rimedio a quella batosta e che i «traditori politici» avranno quello che si meritano. Scatta la rappresaglia: la mafia uccide Ignazio Salvo, il deputato dc Salvo Lima, uccide Giovanni Falcone in quel modo eclatante e, soltanto 57 giorni dopo, mette in scena il bis con l’attentato a Paolo Borsellino. Questo, a sentire i collaboratori di giustizia e le risultanze di importanti indagini, è quanto imposto dalla «linea Riina», con la prudente astensione di Provenzano. Anzi, con l’opposizione sotterranea di Binnu. Così raccontano primattori e comparse dell’indagine che è già sfociata nel processo sulla «trattativa Stato-mafia». Una sceneggiatura che consegna addirittura l’immagine di un Binnu collaboratore dei carabinieri (e quindi risparmiato e tenuto libero), nel tentativo di garantire una pax mafiosa e fermare la follia stragista di Totò Riina, che avrebbe portato anche all’eliminazione fisica di alcuni politici considerati «traditori» rispetto alle promesse fatte e non mantenute. Ma questo è un capitolo ancora aperto e foriero di grandi attriti politico-istituzionali. Ha già provocato feroci discussioni e divisioni un dibattimento che annovera tra gli imputati mafiosi del calibro di Provenzano e Riina, politici come Mannino, poi assolto, Dell’Utri e gli alti ufficiali dei carabinieri Mori e Subranni. Tutti accusati di aver condotto una vera e propria trattativa sulla base anche di richieste ufficiali della mafia, ufficializzate nel cosiddetto «papello», cioè un elenco di benefici (tra l’altro l’alleggerimento del carcere duro, l’abolizione dell’ergastolo, della legge sui pentiti e sul sequestro dei beni ai mafiosi) consegnato allo Stato italiano (attraverso i carabinieri) da Vito Ciancimino, con la «benedizione» di don Binnu. Tutto ciò, ovviamente, ha appannato il prestigio di Provenzano. I suoi amici (in particolare il boss Matteo Messina Denaro) gli hanno addirittura rimproverato poca cautela nella gestione della comunicazione attraverso i suoi famigerati «pizzini». E non si può negare che qualche problema l’ha creato la scoperta dei duecento e più bigliettini trovati nel suo covo di Montagna dei cavalli. Ma quando è stato preso, don Binnu, era già votato alla «pensione». Non era più «u tratturi» e neppure «u ragiunieri»: forse si ritrovava ancora nei panni del vecchio mediatore, nell’intento di poterla sfangare e tramontare senza l’onta e il marchio del collaboratore. I pizzini, infatti, ci lasciano l’immagine che gli è più congeniale. L’eterno «moderato» che proprio se deve ordinare l’esecuzione di qualcuno lo fa congiungendo le mani sul petto e sussurrando: «Sia fatta la volontà di Dio».

Attilio Bolzoni: “Ci serve un pentito di Stato, un Presidente della Repubblica, un uomo dei servizi segreti o un Generale”. Intervista di Francesca Scoleri del 23 luglio 2016 su “T&M”.

Dott. Bolzoni, i suoi colleghi Nuzzi e Fittipaldi sono stati recentemente assolti da una accusa che il mondo del giornalismo non dovrebbe assolutamente conoscere: reperire informazioni. Lei ben conosce questo drammatico paradosso, ma a differenza dei suoi colleghi appena citati, ha dovuto affrontare il carcere per aver pubblicato le rivelazioni di un pentito. Chi non conosce la storia potrebbe pensare sia accaduta sotto il fascismo e invece eravamo quasi negli anni 90. Cosa ricorda oggi di quei giorni?

«La mia storia racconta una Palermo molto particolare. Il mio arresto e quello di Saverio Lodato – lavoravamo insieme in quel periodo – rappresenta solo uno specchio di quel momento. Noi siamo stati il capro espiatorio perchè l’obiettivo non eravamo noi. Era un segnale. Noi siamo stati arrestati innanzitutto, con un reato infamante per un giornalista: concorso con pubblico ufficiale - rimasto ignoto – in peculato. Una parola che fa venire in mente un reato economico, un giornalista che ha dimestichezza col denaro…In realtà, avevamo pubblicato la cantata di un collaboratore di giustizia, un capomafia, Nino Calderone, che parlava dei rapporti fra mafia e politica e quindi, la cosa fece infuriare molto. Il Procuratore che fece l’ordine di cattura quel 16 marzo 1988, non ha mai arrestato un solo ladro di galline a Palermo. Solo due giornalisti. Noi, lavoravamo da tanti anni su quel fronte perchè, nei primi anni 80, dopo la guerra di mafia – la città mattatoio, è nato un nuovo giornalismo a Palermo, molto più libero, quindi quello fu un avvertimento in puro stile mafioso da parte di quel magistrato. Siamo nell’88, appena pochi anni prima, nessuno parlava di mafia, nessuno scriveva di mafia ma adesso se ne parla troppo e a sproposito. Nel giro di 30 anni, si è passato dal silenzio assoluto, a un rumore fondamentalmente silenzioso. Che cos’è la mafia? Per me la mafia non è più quella dei corleonesi di Totò Riina, quella è stata una parentesi violentissima durata 25 anni. La mafia si traveste, cambia pelle e quando fa questo processo, noi non la riconosciamo mai. La cercavamo nei campi ed era già nei cantieri, la cercavamo nei cantieri ed era già a fare la droga, la cercavamo nella droga e faceva finanza. Oggi la mafia è molto più pettinata, profumata, politicamente corretta e sta nei convegni insieme a noi e il limite più grosso di una certa antimafia, è l’incapacità di riconoscerla».

Da oltre 30 anni, racconta la Sicilia e la mafia che per nostra sciagura, ha percorso la via preannunciata da Sciascia quando diceva “Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia…” Un sistema consolidato composto da criminali, colletti bianchi e imprenditoria, è questa la mafia che ha conquistato la nazione?

«Dopo le stragi, ho lavorato 10 anni sui corleonesi ma nei 10 anni successivi sono rimasto disorientato, non capivo più cos’era la mafia. Perché? I corleonesi, sono una piccola parentesi nella storia della mafia, 25 anni di violenza, ma prima dei delitti eccellenti degli anni 80, erano passati circa 80 anni dall’ultimo delitto eccellente, era il 1893 quando ci fu l’uccisione del marchese Notarbartolo, il simbolo di Palermo, del Banco di Sicilia. Quindi, la mafia si nasconde e se non la cerchi non la trovi. Invece i corleonesi, hanno rappresentato solo il braccio armato di altre forze, preliminare di un sistema politico mafioso in Sicilia. I delitti eccellenti non li hanno voluti solo i corleonesi, anche se materialmente, li hanno commessi. Se pensiamo al delitto La Torre, Mattarella, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, non possiamo pensare che siano solo questi 70 caproni di Corleone. Gente che veniva dal niente ed è tornata nel niente. La mafia oggi occupa posti chiave del potere in Sicilia e in Italia ed è una mafia che non sempre riconosciamo subito. La mafia proletaria, la mafia popolare è stata quasi decimata, ma l’aristocrazia mafiosa va avanti e c’è ancora molto da scoprire su come alcuni personaggi abbiano salvato il sistema criminale italiano».

Lei ha visitato il covo di Bernardo Provenzano dopo la sua cattura, disse che era “un covo miserabile pieno di Crocifissi, rosari e santini”. Attraverso il processo trattativa Stato-mafia e il processo sulla mancata cattura di Provenzano, scopriamo a distanza di oltre 20 anni, che Provenzano è sfuggito alla cattura in più occasioni. Le ultime sentenze su Mori e Obinu, ci consegnano un’irrilevanza penale della mancata cattura, lei che idea si è fatto?

«Prima della mancata cattura di Provenzano, c’è stata la mancata perquisizione del covo di Riina. Dietro ogni cattura eccellente, c’è sempre un mistero. Riina è stato latitante dal 1969 al 1993. Provenzano, è stato latitante dal 1963 al 2006. Non avevano lo status di latitanti, avevano lo status di capi di Stato riconosciuti perché chi è latitante per tutto questo tempo, è di fatto, un latitante libero. Solo quando hanno cominciato a cercarli li hanno presi. Tutta la vicenda della trattativa, non solo processuale ma anche storica, è strettamente legata ai misteri del covo di Riina e alla mancata cattura di Provenzano. Mi fanno sorridere quelli che dicono la trattativa non c’è. Da quando esiste lo Stato italiano, c’è un pezzo di apparati che tratta con le classi criminali italiane e questo è un dato storico.  Che poi, il dottor Di Matteo, riesca a dimostrarlo nel suo processo è un altro discorso che riguarda il corso della giustizia. Ma il fatto che lo Stato italiano, ripeto, non la mafia ma lo Stato abbia chiesto accordi e abbia trattato con la mafia, è dal 1861, accade da quando esiste l’Italia. Gli ufficiali dei carabinieri sono stati assolti sia per quel che riguarda la mancata perquisizione del covo di Riina, sia per la mancata cattura di Provenzano e questo è il risultato giudiziario. Ma da quel processo sono emerse verità che erano state nascoste. Il magistrato ha dei confini precisi che sono determinati dalla legge, dai codici, dalle regole e fuori da quel confine non può andare, ma un osservatore, uno storico, un giornalista, un esperto, può avventurarsi in altre ipotesi. Io, da cittadino italiano, non mi accontento delle sentenze su Capaci e Via D’Amelio, verità che mi hanno offerto dei magistrati anche bravissimi perché sono arrivati fin là, ma io non mi accontento perché sono convinto che a fare quelle stragi non sia stata solo Cosa nostra il che non significa che abbiano fatto male le indagini. In alcuni casi sicuramente ci sono stati depistaggi però dobbiamo capire che la verità storica non coincide mai con la verità giudiziaria. Nel 1984 arriva Buscetta e per la prima volta si rompe il muro di omertà di Cosa nostra, sono passati 32 anni ma il muro dell’omertà di Stato non si è rotto. Oggi ci serve un pentito di Stato: un Presidente della Repubblica, un Generale dei carabinieri un capo dei servizi segreti…un pentito di Stato potrebbe offrirci frammenti di verità che ad oggi non sono ancora affiorati».

Con il libro “La giustizia è cosa nostra”, lei e il compianto Giuseppe D’Avanzo, avete cercato di dimostrare come le manine del potere soccorrono abitualmente la mafia. Sono le stesse manine che intralciano il lavoro di ottimi investigatori – mi viene in mente l’attuale capo scorta di Nino Di Matteo, Saverio Masi, che accumula note di merito eccellenti fino a quando non individua il covo di Provenzano. Da quel momento in poi, viene trattato alla stregua di un delinquente. Come si fa la guerra alla mafia in queste condizioni?

«La mafia non sarebbe mafia se non avesse dei complici dentro gli apparati. Il libro è di 30 anni fa e racconta di processi aggiustati e il simbolo di questi processi aggiustati è quello che riguarda l’uccisione del Capitano Basile. E’ il processo più tormentato della storia giudiziaria per quanto riguarda la mafia. Hanno provato a condizionarlo e ad aggiustarlo da dentro il palazzo di giustizia in tutti i modi ma non ci sono riusciti. Prima dell’era Falcone, i processi a Palermo si trattavano nei corridoi, nei villini a mare…non si discutevano nelle aule di giustizia. I mafiosi stavano in carcere pochi mesi o pochi anni, ma sapevano che dovevano uscire. Dopo l’arrivo di Falcone e Borsellino, avviene una rivoluzione e si ristabiliscono le regole. Si è scoperto che un pezzo di magistratura era complice. All’epoca però, era molto più evidente la complicità del potere, oggi è molto più subdola e meno riconoscibile. Un’antimafia legata al potere ad esempio, non è una vera antimafia. Si parla dell’isolamento di Di Matteo, non posso dimenticare, un paio d’anni fa, il vecchio CSM è andato a Palermo e il vice presidente non ha stretto la mano a Di Matteo. E’ stato un bruttissimo segnale. Di Matteo non è un buon magistrato perché indaga sulla trattativa o non è un buon magistrato in assoluto? Il vice presidente che dichiara – il protocollo mi impedisce di incontrare Di Matteo – indica un atteggiamento ambiguo».

La negazione della trattativa Stato-mafia ha raccolto molti consensi, almeno quanto oggi la giustificazione della stessa. Maria Falcone, ad esempio, ha dichiarato “Se trattativa c’è stata, non credo che si sono voluti salvare i potenti, ma che si sia cercato di proteggere la sicurezza italiana”. Eppure c’è una sentenza che ne prova l’esistenza. La trattativa c’è stata. Ma l’oggetto dell’accordo qual é stato secondo lei? Lunghe latitanze e mancata perquisizione del covo di Riina per cominciare?

«Ci sono verità indicibili. Gli Stati, non solo l’Italia, hanno sempre trattato con le classi pericolose. Non sono corpi fuori dalla società. La trattativa c’è stata prima, durante e dopo le stragi che poi questa abbia rilevanza penale o meno non è fondamentale. Il negazionismo va molto di moda, ad esempio – Roma mafia capitale – è altrettanto evidente che ci sono organizzazioni mafiose radicate da decenni a Roma ma la maggior parte degli osservatori e della popolazione ne nega l’esistenza. Io ho seguito molto il processo di mafia capitale, sono andato in aula a Rebibbia e c’erano degli imputati, un famosissimo commercialista e un famosissimo consigliere comunale del PD, che si chiedevano – ma noi che ci facciamo qui? – non si rendevano nemmeno conto del perché fossero li. Non bluffano. E’ tanto fradicio il tessuto sociale e politico della Capitale che non si rendevano conto delle ragioni per le quali erano lì insieme al nero Carminati, un signore, che per 18 anni è rimasto libero e in un Paese civile, un personaggio come Carminati non può rimanere libero ma anche lì, siamo nelle zone di confine dove non sai mai chi è guardia e chi è ladro. Roma come Palermo. Gli stessi contesti».

La parola antimafia, crea molti imbarazzi ultimamente. Ma è necessaria questa etichetta per dimostrarsi ostili all’azione mafiosa?

«L’antimafia c’è sempre stata anche quando non si chiamava antimafia. L’antimafia moderna nasce subito dopo il delitto Dalla Chiesa e si è allargata estesa e diffusa dopo le stragi del 92. Io credo che abbia avuto una funzione veramente importante l’antimafia sociale in Italia fino a qualche anno fa ma poi, c’è stata una degenerazione dello spirito originario. Bisogna fare una distinzione tra la mafia che si traveste da antimafia, tra dei sistemi imprenditoriali mafiosi che occupano potere e l’antimafia che è degenerata. E’ vero che ci sono dei cerchi che mettono in relazioni queste tre realtà, però bisogna distinguerle. C’è l’antimafia dei finanziamenti pubblici da centinaia di migliaia di euro e l’antimafia dei funzionari delle grandi associazioni che provengono da un sottobosco politico. Bisognerebbe fare un esperimento: togliere per u paio d’anni un bel po di finanziamenti alle associazioni antimafia e assisteremmo ad un fuggi fuggi generale. In alcuni casi, c’è la complicità del ministero degli Interni che concede finanziamenti esorbitanti per dei progetti che, vien da chiedersi, saranno andati a buon fine con tutti i milioni stanziati? Ho conosciuto un signore di Avviso Pubblico, che gira l’Italia battendo cassa alle amministrazioni per organizzare convegni con partecipanti zero. Sono personaggi improbabili che si improvvisano esperti di mafia, che parlano di legalità e che vanno in giro per l’Italia a proporre pittoreschi kit per la legalità. Ma intorno alla maggior parte di queste realtà c’è solo un obiettivo, rastrellare denaro pubblico. Bisogna chiudere i cordoni della borsa. Poi c’è un’antimafia sociale che è ostile ad ogni dialogo, alcune realtà sembrano sette, appena uno le critica viene accusato di essere mafioso. Io non ne posso più di questi predicatori della legalità, imbonitori e saltimbanchi. Hanno messo su un circo. E a proposito dei predicatori della legalità, è molto grande la distanza tra quello che urlano nelle piazze e quello che in realtà fanno. Un altro tema interessante è quello delle costituzioni di parti civile: quando un’associazione accompagna un commerciante, un imprenditore che denuncia la mafia lungo tutto il percorso – lo porta dalla polizia, dal magistrato, lo convince a collaborare – è giustissimo che si costituisca parte civile perché ha partecipato al percorso che porta al processo. Ma questo baraccone delle parti civili che c’è oggi in Italia è scandaloso. Mi viene in mente un’associazione a Marsala che si chiama Paolo Borsellino, è formata da un solo avvocato che non fa nulla tutto l’anno, ma ha pensato bene di costituirsi parte civile al processo Aemilia e per questo ha ricevuto un risarcimento. C’è poi il caso di un comune sciolto per mafia – come quello di Brescello – che ha perfino ricevuto un indennizzo dopo la costituzione di parte civile al processo Aemilia. A questo punto credo che bisogna ridimensionare i finanziamenti alle associazioni antimafia perché sono emerse troppo vergogne».

Un sentito grazie a Sabrina D’Elpidio e Annalisa Insardà per aver contribuito alla realizzazione di questa intervista.

La giustizia è Cosa Nostra. Edito da Mondadori, 1995, di Attilio Bolzoni, Giuseppe D'Avanzo. E' un libro che si legge tutto d'un fiato. Racconta di giudici e di boss, di avvocati e di politici, di processi di mafia pilotati e di inchieste insabbiate, di Palazzi di Giustizia condizionati dal volere degli uomini d'onore. E ripercorre alcuni scabrosi episodi che, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, sono diventati clamorosi "casi giudiziari". E' scritto a quattro mani da Attilio Bolzoni e Giuseppe D'Avanzo, due tra i più bravi cronisti italiani di storie di mafia. 

Lo stato nascosto. Le trattative che portarono alla pax mafiosa. Libro di Antonio M. Moccia, Rosalia Monica Capodici. Questo è un libro diverso, particolare, una riflessione, che gronda in ogni sua pagina della passione civile degli autori, sugli aspetti più delicati dell'intero sistema criminale mafioso. Quelli che hanno condizionato, e continuano a condizionare, la nostra democrazia ed un quadro politico istituzionale sempre più esposto alla erosione del cancro mafioso. Si parla, e lo si fa con cognizione di causa e grande onestà intellettuale, dei nodi essenziali del sistema di potere mafioso: il rapporto con la politica, i tanti compromessi, la mediazione, i sotterranei "dialoghi pericolosi" tra lo Stato e la mafia, l'isolamento e la delegittimazione di tanti uomini delle istituzioni che, sull'altare della convenienza o dell'opportunità politica, sono stati traditi dallo Stato prima di essere uccisi dal tritolo o dal piombo dei mafiosi.

Recensione Libro: Lo stato nascosto. Per il politico, stringere il patto con l’organizzazione mafiosa significa insomma effettuare una precisa scelta di campo. Significa impegnare, da subito, i propri futuri comportamenti, anche sul piano istituzionale, in una logica di servizio a beneficio degli interessi dell’organizzazione. Di cosa parla Lo stato nascosto di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia. Ci sono argomenti come quello trattato nel libro Lo stato nascosto – le trattative che portarono alla pax mafiosa di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia che non solo devono essere discussi ma anche approfonditi per ricordare che bisogna lottare contro i poteri violenti e che per quanti anni siano passati dalle stragi di Falcone e Borsellino non è cambiato poi molto. Da questo libro degno di attenzione – già solo per la sfida lanciata dai due scrittori di portare alla luce fatti ai più celati che riguardano la gestione dello Stato da parte della mafia, – Capodici e Moccia sono riusciti a dare una visione globale del potere nascosto utilizzando i fatti e non le teorie. Nel libro Lo stato nascosto, infatti, si utilizzano le sentenze, i risultati dei processi, ma non quelli conosciuti ai più, al contrario si porta alla luce tutto ciò che i giornalisti hanno trascurato, non sappiamo ovviamente se la distrazione da parte della stampa è stata voluta o meno. Quel che conta adesso è sapere. Tutto ciò che viene raccontato in questo libro ci riguarda da vicino, fa parte della nostra quotidianità senza che in alcuni casi ce ne rendiamo conto ed è per questo che è fondamentale aprire gli occhi sulla verità e scoprire chi gestisce la maggior parte della nostra ricchezza, delle nostre stanze di potere, dei traffici e di parte della società. La presenza della mafia si è diffusa a qualsiasi livello e settore: che si tratti di istituzioni o quartieri non c’è distinzione, perché le organizzazioni criminali sono ormai ovunque. Le conseguenze che portano questo sistema criminale possiamo prevederlo e osservarlo continuamente, basta guardare il telegiornale, ma la mafia condiziona la democrazia anche quando non ce ne rendiamo conto, è questo che tendono a sottolineare con il loro libro Capodici e Moccia. Ciò che viene portato sotto i riflettori, e quindi alla portata di tutti i lettori, è il rapporto che intercorre tra Stato e mafia, i compromessi a cui vanno incontro chi gestisce la politica, ma nel libro Lo stato nascosto c’è anche spazio per gli eroi che hanno combattuto e purtroppo sono caduti per tradimento o isolamento sotto il nemico. Lo stato nascosto di Rosalia Monica Capodici e Antonio Michele Moccia, pubblicato dalla casa editrice Salvatore Insenga Editore va letto e discusso senza ombra di dubbio. Vorrei concludere citando una frase di Paolo Borsellino che potete leggere nella prefazione di Nino Di Matteo: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.”

La vera ‘ndrangheta e quei «quattro storti» che ci credono ancora, scrive Felice Manti il 19 luglio 2016 su “Il Giornale”. È stata una settimana horribilis per la ’ndrangheta. Altri 100 arresti tra la provincia di Cosenza e la Liguria, con le famiglie «in trasferta» che facevano affari sulle opere pubbliche grazie a una coop con interessi in settori diversissimi come movimento terra, import-export di prodotti alimentari, sale giochi e piattaforme di scommesse online, lavorazione dei marmi, autotrasporti e rifiuti speciali, produzione e commercializzazione di lampade a led. Due parlamentari come Antonio Caridi di Gal e Pino Galati di Ala considerati al servizio delle famiglie di ’ndrangheta anche a causa di un paio di intercettazioni telefoniche che non lasciano spazio a troppi dubbi. Funzionari delle Agenzie delle Entrate che trescavano con la ’ndrangheta. Il boss del pesce Franco Muto che con il suo clan controllava «ogni respiro» tra Cetraro e Scalea (in provincia di Cosenza) da 30 anni, e prima ancora una Spectre politico-affaristico-massonica guidata dall’ex deputato Psdi Paolo Romeo, già noto alle forze dell’ordine sin dall’operazione Olimpia – che sta alla ’ndrangheta come il cosiddetto maxiprocesso di Falcone e Borsellino sta alla mafia – come referente della mafia calabrese che avrebbe deciso a tavolino tutte le elezioni degli ultimi 15 anni (a volte puntando però su qualche candidato sbagliato ma tant’è) coinvolto anche nelle recentissime inchieste Fata Morgana e Reghion sul condizionamento della criminalità al Comune di Reggio, sciolto per contiguità con la ‘ndrangheta. È la prova dell’esistenza dei cosiddetti Invisibili cui dà la caccia il pm Giuseppe Lombardo, una sorta di ’ndrangheta superiore che comanda sulla fazione criminale ma di cui la stragrande maggioranza degli affiliati non conosce l’esistenza, come dimostrerebbe l’inchiesta Mammasantissima, e che avrebbe agevolato la latitanza di personaggi che fanno comodo alle cosche (vedi l’inchiesta Breakfast), da Amedeo Matacena al capo della mafia Matteo Messina Denaro, con in mezzo un peso decisivo nell’inchiesta Mafia Capitale. Allora c’è qualcosa che non torna. Facciamo un salto di sei anni. Alla fine del 2010, nel libro Madundrina scritto con Antonio Monteleone, scrivevamo: «Forze occulte, servizi deviati, poteri forti e massoneria. Come si combatte un nemico invisibile? Ma, soprattutto, come si dimostra la sua esistenza? Gli inquirenti devono dare una risposta anche a questo quesito». E già allora riportavamo una frase captata durante una delle oltre 500mila intercettazioni, contenuta nelle 52 inchieste passate al setaccio dagli inquirenti, in cui a parlare era un sindacalista, e qui riprendo da Madundrina «che viene descritto dai magistrati come “anello di congiunzione tra esponenti di spicco della locale criminalità organizzata e appartenenti al settore politico-amministrativo della fascia jonico-reggina” e promotore di “una sorta di cupola” (…) perché parte del contesto criminale (…) definito degli “invisibili”. Si chiama Sebastiano Altomonte. Intercettato al telefono con la moglie, a margine di una conversazione su alcuni dissidi locali parla anche della ’ndrangheta invisibile. “Effettivamente gli invisibili siamo cinque (…), lo sanno solo nel provinciale (…)”. Chi sono questi cinque? Che cosa vogliono? Per chi lavorano? Come fanno a sapere tutto? E quanto vale, nell’economia della ’ndrangheta, un’operazione mostruosa come quella congiunta di Milano e Reggio Calabria (parlavamo di Crimine e Infinito, nda), se i boss sapevano tutto (grazie alle rivelazioni di Giovanni Zumbo, legato ai servizi segreti, nda)? Chi comanda veramente?». Chi legge questo blog sa cosa penso delle operazioni di ’ndrangheta del 2010 che hanno ispirato il libro, recentemente definite dalla Cassazione come «sentenze storiche» perché definiscono per la prima volta l’unitarietà della ’ndrangheta. Delle due l’una. Perché o ha ragione il procuratore antimafia Ilda Boccassini quando dice che con Infinito si è smantellata la ’ndrangheta in Calabria, quella comandata dal boss scissionista Carmelo Novella, ammazzato come un cane (ma il mandante è ancora oscuro…) perché voleva sganciarsi dalla Calabria, quella del summit al centro Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano, quella zeppa di gente senza precedenti penali e senza reati fine oggi in carcere con l’accusa di associazione mafiosa che non hanno neanche mai sparato un colpo di pistola per sbaglio. E che la ‘ndrangheta calabrese fosse comandata da Domenico Oppedisano, che prima di diventare famoso come capo della ’ndrangheta vendeva piantine vicino allo svincolo di Rosarno, talmente pericoloso che di recente è uscito dal regime di carcere duro, il famigerato 41bis. Un esperto in affiliazioni, vero, uno che mangiava pane e ’ndrangheta certamente, ma non un capo. E d’altronde anche il procuratore antimafia Nicola Gratteri lo sostiene con forza. D’altronde, dell’esistenza della maxi inchiesta erano al corrente molti boss, come è emerso dalle intercettazioni. Oppure la ’ndrangheta che conta quella vera, è altro. È difficile pensare che i boss arrestati fossero veramente a capo della ’ndrangheta milanese mentre facevano il bello e il cattivo tempo altri boss del calibro di Paolo Martino, killer dormiente imparentato con il potentissimo clan dei De Stefano e considerato il vero tesoriere della ’ndrangheta a Milano (solo per fare un esempio). Oggi sappiamo con certezza che una Spectre aveva in mano i destini della politica e trescava facendo affari con parlamentari e coop, anche alle spalle dei picciotti. E se avesse ragione il boss della ’ndrangheta Pantaleone Mancuso, che intercettato dice testuale: «(Ci sono) quattro storti che ancora credono alla ‘ndrangheta… hanno fatto la massoneria… il mondo cambia…»? E se la Boccassini avesse arrestato proprio quei quattro storti, gente che non ha mai tenuto una pistola in mano?

Crocetta e i gran maestri della massoneria convocati in commissione nazionale antimafia. Il prossimo 2 agosto a Palazzo San Macuto a Roma verrà sentito il presidente della Regione, scrive Rino Giacalone il 30/07/2016 su “La Stampa”. La commissione nazionale antimafia all’indomani delle audizioni in Sicilia, ha convocato il presidente della Regione Crocetta e i gran maestri degli ordini massonici per approfondire i temi emersi nel corso della missione a Palermo e Trapani, dove tanto si è parlato di indagini giudiziarie che riguardano i contatti diventati stretti tra mafia e massoneria. Un fronte che non serve solo, hanno detto in audizione i magistrati di Trapani e Palermo, a coprire la latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro, ma rappresenta la nuova stagione criminale di Cosa nostra che se non spara più, grazie al sostegno della massoneria, «ha migliori capacità di inquinare i settori della vita politica, sociale ed economica del territorio» ha tra l’altro affermato la presidente della commissione Rosy Bindi.  Il prossimo 2 agosto a Palazzo San Macuto a Roma verrà sentito il presidente della Regione Rosario Crocetta. Certamente tra le domande che attendono il governatore siciliano quelle relative a Patrizia Monterosso segretario generale di Palazzo d’Orleans, sede della presidenza della Regione Sicilia. Il nome della Monterosso nel corso del processo a Catania contro l’ex governatore Raffaele Lombardo, è stato fatto dal pentito agrigentino Giuseppe Tuzzolino. Tuzzolino ha affermato che la Monterosso farebbe parte di una loggia massonica di Castelvetrano, dove avrebbe fatto da garante ad una serie di affari sugli impianti eolici. La Monterosso ha già smentito la circostanza: «Non appartengo alla massoneria, le uniche volte in cui mi sono imbattuta in cose che riguardano questo tipo di associazione sono state delle mail ricevute all’indirizzo istituzionale della segreteria generale, nel luglio 2015 ho ricevuto due messaggi da una loggia di Catania, c’era una lista di 17 nomi, forse si trattava di iscritti, ma io ho subito denunciato alla Polizia Postale di Catania, a novembre 2014 nella casella di posta è arrivata una email del Grande Oriente d’Italia, direttamente da Palazzo Giustiniani. Anche in questo caso ho denunciato».  In commissione nazionale antimafia però la circostanza ha suscitato attenzione. Critico è stato il leghista “siciliano” Angelo Attaguile: «Come siciliano - ha detto - sono preoccupato, i politici passano i burocrati restano, da siciliano mi preoccupo che al Governo regionale ci siano funzionari e burocrati che non dovrebbero stare al loro posto».  Mantenendo poi fede a quanto annunciato in Commissione nazionale antimafia sono stati convocati gran maestri degli ordini massonici, il prossimo 3 agosto verrà sentito in gran maestro del Grande Oriente Stefano Bisi. La presidente Bindi ha spiegato a Trapani il perché di queste convocazioni, «intendiamo sapere se siano a conoscenza di logge segrete nel trapanese, della cui esistenza abbiamo appreso dai magistrati e soprattutto come intendano comportarsi». 

Il caso Trapani: una saldatura tra mafia e massoneria. La visita della Commissione in Sicilia. Bindi: “Sui beni confiscati abbiamo dato troppa voce in capitolo all’agenzia regionale”, scrive Rino Giacalone il 21/07/2016 su “La Stampa”. La commissione nazionale antimafia è pronta ad aprire un caso Trapani e denuncia: «la latitanza di Matteo Messina Denaro è coperta da intrecci tra mafia e massoneria altolocata». Massoneria che oggi starebbe cavalcando un forte attacco contro la magistratura trapanese: «certe indagini stanno dando fastidio». Forti i toni usati dalla presidente Rosy Bindi, ma anche dal suo vice Claudio Fava, dai commissari Davide Mattiello (Pd), dai 5 Stelle Mario Giarrusso e Francesco Dell’Uva e dal leghista siciliano Angelo Attaguille. «Abbiamo sconfitto la mafia contro la quale combatterono Falcone e Borsellino, oggi - dice la presidente Bindi - abbiamo innanzi una mafia che è mutata, una mafia che uccide di meno ma incide di più nella vita sociale, politica ed economica del Paese».  Se volete venire a conoscere cos’è la nuova mafia, che c’entra tanto con le stragi del 1992, bisogna venire in provincia di Trapani. E la commissione antimafia su questo ha raccolto tanto ascoltando magistrati, giudici, investigatori. Claudio Fava: «Esiste una nuova cupola fatta di mafia e massoneria ed è strano che esista un concentrato di logge segrete a Castelvetrano, la terra del boss latitante Matteo Messina Denaro e del suo sistema di potere». «In questa provincia - dice il deputato Davide Mattiello - bisogna ricercare quell’accordo forte denunciato ieri a Palermo dal procuratore generale Scarpinato sull’esistenza di un fronte “masso-mafia” che a Messina Denaro ha garantito coperture altolocate per la sua ventennale latitanza».  I magistrati trapanesi ascoltati, a cominciare dal procuratore Viola, hanno confermato indagini aperte sul fronte della massoneria ma hanno consegnato precisi elementi dei contrasti che la magistratura trapanese subisce. «Ci siamo trovati a fare un viaggio nel tempo - racconta il senatore Mario Giarrusso - abbiamo sentito parlare nel 2016 magistrati con le stesse parole che altri giudici usavano a Trapani negli anni ’80, quando si scopriva la loggia segreta Iside 2. Abbiamo sentito i magistrati inquirenti che si sono detti non al sicuro nelle proprie stanze, che non lasciano documenti in ufficio». «C’è una Procura sotto tiro - dice il vice presidente Fava - sotto le reazioni illecite di chi con fastidio giudica il lavoro della Procura, attenzioni che arrivano da parte di ambienti inquietanti».  La presidente Bindi ha annunciato che verranno convocati i vertici degli ordini massonici, i Gran Maestri saranno convocati in commissione: «Chiederemo loro se sanno di logge segrete e se sanno perché non hanno denunciato, se invece non sanno chiederemo che agiscano per espellere questi corpi fornendo collaborazione all’autorità giudiziaria». Tanti i temi toccati, con l’annuncio, dopo avere ascoltato in giudici della Corte di Assise, Pellino e Corso, che verrà aperto un approfondito esame sui depistaggi emersi durante il processo per il delitto di Mauro Rostagno. Affrontato anche il tema della gestione dei beni confiscati, partendo dall’assedio che oggi continua a subire la Calcestruzzi Ericina, l’impresa confiscata al boss di Trapani Vincenzo Virga. C’è un progetto che prevede di mettere in rete la Calcestruzzi Ericina e tutte le imprese del settore che producono calcestruzzo, oggi sequestrate e confiscate.  Ma il progetto registra forti ritardi nell’attuazione e i ritardi stanno tutti dentro l’agenzia nazionale dei beni confiscati. La commissione ha puntato attenzione sulla sede regionale dell’agenzia e la Bindi ha chiosato: «Credo che sia stata lasciata all’agenzia regionale troppa voce in capitolo». Infine è stato affrontato il caso Castelvetrano, dove il Consiglio dopo un tira e molla si è sciolto per non far restare consigliere quel Lillo Giambalvo intercettato a esaltare la figura del latitante Matteo Messina Denaro. A Castelvetrano la commissione ha registrato attraverso le audizioni un maxi concentrato di logge, troppe per il territorio che protegge la latitanza di Matteo Messina Denaro.  La commissione ha sentito il sindaco di Castelvetrano Felice Errante e l’ex capogruppo del Pd Pasquale Calamia. «Ci saremmo aspettati una presa di distanza del sindaco di Castelvetrano che non c’è stata» ha detto la presidente Bindi e il vice presidente Fava continua: «Se Castelvetrano fosse in Baviera non ci porremmo il problema di una Giunta dove siedono tre assessori appartenenti alla massoneria, ma si tratta della città di Messina Denaro». E sul boss, latitante dal 93, la presidente Bindi aggiunge: «Aspettiamo anche noi la buona notizia della cattura».  

"Nel Trapanese una nuova cupola fatta di mafia e massoneria", scrive Rino Giacalone il su "Live Sicilia" il 20 luglio 2016. "Abbiamo sconfitto la mafia contro la quale combatterono Falcone e Borsellino, oggi abbiamo innanzi una mafia che è mutata, una mafia che uccide di meno ma incide di più nella vita sociale, politica ed economica del Paese". Sono le parole della presidente della commissione parlamentare antimafia, on. Rosy Bindi, espresse a conclusione della tre giorni siciliana, una missione durante la quale numerose sono state le audizioni ma c'è stata anche la significativa presenza alle manifestazioni a ricordo dei 24 anni dalla strage di via d'Amelio. "Abbiamo ritardi anche politici da scontare - ha detto ancora l'on. Bindi -. Falcone e Borsellino non sono stati mai ascoltati da una commissione antimafia, a 24 anni dalla strage di via d'Amelio abbiamo ascoltato Lucia Borsellino, figlia del procuratore aggiunto paolo ucciso con la sua scorta il 19 luglio del 1992, a lei abbiamo promesso il nostro impegno, ma dobbiamo anche dire che si tratta di restituire non solo a lei e alla famiglia Borsellino, e ancora alla famiglia Falcone, alle famiglie dei poliziotti uccisi, dobbiamo restituire al paese segmenti di verità che appartengono al Paese". Commissione antimafia che ha raccolto tanto sulla mafia in provincia di Trapani, ascoltando magistrati, giudici, investigatori. "Esiste una nuova cupola fatta di mafia e massoneria, anomalo che un concentrato di logge segrete esiste a Castelvetrano, la terra - ha detto il vice presidente della commissione antimafia Claudio Fava - dove il boss latitante Matteo Messina Denaro ha costruito il proprio sistema di potere". "Lavoreremo per capire meglio - ha aggiunto il deputato Pd Davide Mattiello - ma abbiamo la forte impressione che qui bisogna cercare quell'accordo forte denunciato ieri a Palermo dal procuratore generale Scarpinato sull'esistenza di un fronte “masso-mafia” che a Messina Denaro ha garantito altolocate coperture per la sua ventennale e perdurante latitanza". "Ci siamo trovati a fare un viaggio nel tempo - ha detto il senatore Mario Giarrusso di 5 Stelle -, non è possibile sentire parlare nel 2016 magistrati con le stesse parole di altri magistrati, quando a Trapani negli anni '80 si scopriva la famosa loggia segreta Iside 2". E un quadro pesante a proposito degli uffici giudiziari trapanesi emerge al termine delle audizioni fatte a Trapani dalla commissione parlamentare antimafia. Situazione che ha spinto la presidente Rosy Bindi a ipotizzare la possibilità che a parte la relazione finale prevista a fine legislatura su tutte le missioni svolte nel corso del mandato parlamentare, su Trapani potrebbe esserci una specifica relazione. Sullo scenario già descritto delle connessioni tra mafia e massoneria, si è sviluppata una attenzione che poteri occulti dedicano proprio alla Procura di Trapani, "nel 2016 - ha detto il senatore 5 Stelle Giarrusso - sentiamo magistrati inquirenti che non dicono non sentirsi al sicuro nelle proprie stanze, che non lasciano documenti in ufficio, un clima assurdo che rimanda ad altri tempi ed altre vicende". Sulle parole di Giarrusso si sono ritrovati altri commissari come Fava, vice presidente della Commissione antimafia: "Siamo preoccupati del clima pesante che riscontriamo nei confronti degli uffici giudiziari, abbiamo l'esatta percezione che c'è una Procura sotto tiro, con intrusioni e pedinamenti, sono le reazioni illecite di chi con fastidio giudica il lavoro della Procura, attenzioni che arrivano da parte di ambienti inquietanti, la Commissione avrà scrupolo e attenzione". Su questi temi sono stati sentiti dalla commissione antimafia in prefettura a Trapani il procuratore della Repubblica Marcello Viola ed i pm Marco Verzera e Andrea Tarondo, e le dichiarazioni rese dai magistrati sono state secretate. In particolare la commissione antimafia ha ascoltato i giudici della Corte di Assise che hanno processato e condannato due boss mafiosi all'ergastolo, Vincenzo Virga e Vito Mazzara, per il delitto del sociologo e giornalista Mauro Rostagno, risalente al 1988. "Abbiamo apposta voluto ascoltare i giudici Angelo Pellino e Samuele Corso, presidente e giudice a latere della Corte - ha detto il presidente Bindi - perché interessati al processo e interessati a conoscere la fase dei depistaggi". "Non escludo - ha aggiunto il vice presidente Claudio Fava - che per questo delitto si faccia ciò che è stato fatto per altri analoghi delitti". Chiaro il riferimento alla costituzione di una commissione che come è stato fatto per il delitto di Peppino Impastato, si occupi anche del delitto Rostagno.

Un'analisi organica dei rapporti fra massoneria deviata e cosche mafiose è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante, scriveva già a suo tempo Salvo Palazzolo. "Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi". Questo il punto di partenza dell'analisi proposta. "L'ingresso nelle logge di esponenti di Cosa nostra, anche di alto livello, non è un fatto episodico ed occasionale ma corrisponde ad una scelta strategica - spiega la Commissione antimafia - Il giuramento di fedeltà a Cosa nostra resta l'impegno centrale al quale gli uomini d'onore sono prioritariamente tenuti. Ma le affiliazioni massoniche offrono all'organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in ogni campo; sia per conclusione di grandi affari sia per "l'aggiustamento" dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori di giustizia. Tanto più che gli uomini d'onore nascondono l'identità dei "fratelli" massonici ma questi ultimi possono anche non conoscere la qualità di mafioso del nuovo entrato" (punto 57 della citata Relazione). Rapporti fra Cosa nostra e massoneria sono comunque emersi anche nell'ambito dei lavori di altre due Commissioni parlamentari d'inchiesta: quella sul caso Sindona e quella sulla loggia massonica P2, che già avevano approfondito la vicenda del finto rapimento del finanziere e della sua permanenza in Sicilia dal 10 agosto al 10 ottobre 1979. Agli atti, le indagini della magistratura milanese e di quella palermitana, che avevano svelato i collegamenti di Sindona con esponenti mafiosi e con appartenenti alla massoneria. Il finanziere era stato aiutato da Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontade, capomafia della famiglia palermitana di Santa Maria di Gesù e da Joseph Miceli Crimi: entrambi aderenti ad una comunione di Piazza del Gesù, "Camea" (Centro attività massoniche esoteriche accettate). Nel gennaio 1986 la magistratura palermitana dispone una perquisizione e un sequestro presso la sede palermitana del Centro sociologico italiano, in via Roma 391. Vengono sequestrati gli elenchi degli iscritti alle logge siciliane della Gran Loggia d'Italia di Piazza del Gesù. Fra gli iscritti figurano i nomi dei mafiosi Salvatore Greco e Giacomo Vitale. Nel mese di gennaio dello stesso anno, la magistratura trapanese dispone il sequestro di molti documenti presso la sede del locale Centro studi Scontrino. Il centro, presieduto da Giovanni Grimaudo, era anche la sede di sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d'Alcamo, Cafiero, Hiram. L'esistenza di un'altra loggia segreta trova poi una prima conferma nell'agenda sequestrata a Grimaudo, dove era contenuto un elenco di nominativi annotati sotto la dicitura "loggia C". Tra questi, quello di Natale L'Ala, capomafia di Campobello di Mazara. Nella loggia Ciullo d'Alcamo risultano essere affiliati: Pietro Fundarò, che operava in stretti rapporti con il boss Natale Rimi; Giovanni Pioggia, della famiglia mafiosa di Alcamo; Mariano Asaro. Nel processo, vari testimoni hanno concordato nel sostenere l'appartenenza alla massoneria di Mariano Agate, capomafia di Mazara del Vallo. Alle sei logge trapanesi e alla loggia "C" erano affiliati imprenditori, banchieri, commercialisti, amministratori pubblici, pubblici dipendenti, uomini politici (la Commissione antimafia, nella citata relazione, ricorda come l'onorevole democristiano Canino, nell'estate del '98 arrestato per collusioni con Cosa nostra, abbia ammesso l'appartenenza a quella loggia, pur non figurando il suo nome negli elenchi sequestrati). Già nel processo di Trapani e poi successivamente in quello celebrato nel '95 a Palermo contro Giuseppe Mandalari (accusato di essere il commercialista del capo della mafia, Totò Riina) sono emersi contatti fra le consorterie mafiose e massoniche di Palermo e Trapani. Mandalari, "Gran maestro dell'Ordine e Gran sovrano del rito scozzese antico e accettato" avrebbe concesso il riconocimento "ufficiale" alle logge trapanesi che facevano capo a Grimaudo. Le indagini sui rapporti mafia-massoneria continuano. Seppur fra tante difficoltà. L'unica condanna al riguardo, ottenuta dai pm palermitani Maurizio De Lucia e Nino Napoli, riguarda proprio Pino Mandalari, il commercialista di Riina attivo gran maestro. Solo nel febbraio del 2002, è stata sancita in una sentenza la pesante influenza dei "fratelli" delle logge sui giudici popolari di un processo di mafia: la Corte d'assise stava seguendo il caso dell'avvocato palermitano Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere la fiala di veleno che doveva uccidere il padrino della vecchia mafia Gerlando Alberti. Non è stata facile la ricostruzione del pm Salvatore De Luca e del gip Mirella Agliastro, che poi ha emesso sette condanne: non c'erano mai minacce esplicite, solo garbati consigli a un "atteggiamento umanitario". Questo il volto delle intimidazioni tante volte denunciate. Il caso più inquietante di cui si sono occupate le indagini è quello di una misteriosa fratellanza, la Loggia dei Trecento, anche detta Loggia dei Normanni. Il pentito Angelo Siino ha fugato ogni dubbio: il divieto per gli aderenti a Cosa nostra di fare parte della massoneria restò sempre sulla carta. "Le regole erano un po' elastiche - spiega - come la regola che non si devono avere relazioni extraconiugali". Erano soprattutto i boss della vecchia mafia, Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, ad avere intuito l'utilità di aderire alle logge. Rosario Spatola seppe da Federico e Saro Caro che Bontade "stava cercando di modernizzare Cosa nostra. Vedeva più in là, vedeva la potenza della massoneria, e magari riteneva di potere usare Cosa nostra in subordine, come una sorta di manovalanza". Per questo aveva creato una sua loggia. Era appunto la Loggia dei Trecento. Anche Siino riferisce di "averne sentito parlare: si diceva che ne facevano parte parecchi personaggi quali i cugini Salvo, Totò Greco "il senatore" e uomini delle istituzioni. La loggia non era ufficiale e non aderiva a nessuna delle due confessioni, né a quella di Piazza del Gesù né a quella di Palazzo Giustiniani". Correvano a Palermo i ruggenti anni Settanta. Il pentito Spatola conferma il ruolo di Bontade come gran maestro della Loggia dei Trecento. E spiega: "Ne facevano parte soggetti appartenenti alle categorie più disparate, e per questo era molto potente. E troppa potenza si era creata anche attorno a Stefano Bontade, per questo andava eliminato lui ma anche la loggia". Il 23 aprile 1981, Bontade fu ucciso dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ha svelato Spatola che fu proprio Provenzano, attuale capo dell'organizzazione mafiosa, a prendere l'iniziativa di sciogliere la Loggia dei Trecento. Particolare davvero inedito e curioso. Quale autorità aveva mai don Bernardo per intervenire d'autorità su una fratellanza tanto riservata? Forse era massone anche lui? Forse, già allora, aveva ben presenti rapporti e complicità eccellenti che da lì a poco avrebbero fatto a gara per riposizionarsi e ingraziarsi i nuovi potenti?

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA

Tommaso Buscetta. Nel 1984 parla per la prima volta del rapporto fra mafia e massoneria nel contesto del tentativo golpista di Junio Valerio Borghese del dicembre 1970. Il collegamento tra Cosa nostra e gli ambienti che avevano progettato il colpo era stato stabilito attraverso il fratello massone di Carlo Morana, uomo d'onore. La contropartita offerta a Cosa nostra consisteva nella revisione di alcuni processi.

Leonardo Messina. Sostiene che il vertice di Cosa nostra sia affiliato alla massoneria: Totò Riina, Michele Greco, Francesco Madonia, Stefano Bontade, Mariano Agate, Angelo Siino (oggi collaboratore di giustizia pure lui). Ritiene che spetti alla Commissione provinciale di Cosa nostra decidere l'ingresso in massoneria di un certo numero di rappresentanti per ciascuna famiglia.

Gaspare Mutolo. Conferma che alcuni uomini d'onore possono essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per "avere strade aperte ad un certo livello" e per ottenere informazioni preziose ma esclude che la massoneria possa essere informata delle vicende interne di Cosa nostra. Gli risulta che iscritti alla massoneria sono stati utilizzati per "aggiustare" processi attraverso contatti con giudici massoni. 

Le conclusioni della Commissione antimafia presieduta da Luciano Violante. "Il complesso delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia appare essere concordante su tre punti:

- intorno agli anni 1977-1979 la massoneria chiese alla commissione di Cosa nostra di consentire l'affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose; non tutti i membri della commissione accolsero positivamente l'offerta; malgrado ciò alcuni di loro ed altri uomini d'onore di spicco decisero per motivi di convenienza di optare per la doppia appartenenza, ferma restando la indiscussa fedeltà ed esclusiva dipendenza da Cosa nostra;

- nell'ambito di alcuni episodi che hanno segnato la strategia della tensione nel nostro paese, vale a dire i tentativi eversivi del 1970 e del 1974, esponenti della massoneria chiesero la collaborazione della mafia;

- all'interno di Cosa nostra era diffuso il convincimento che l'adesione alla massoneria potesse risultare utile per stabilire contatti con persone appartenenti ai più svariati ambienti che potevano favorire gli uomini d'onore". Salvo Palazzolo

Ecco a voi il "nano" e il circo dell'antimafia, scrive Simona Musco il 10 ago 2016 su “Il Dubbio”. Nino Lo Giudice, il più controverso dei collaboratori di giustizia della Procura di Reggio Calabria, accusa il poliziotto Giovanni Aiello, "Faccia di mostro", di essere l'autore della strage di via D'Amelio. «È stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias "Faccia da mostro", a far saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Fu lui a schiacciare il pulsante in via D'Amelio. Me lo confidò Pietro Scotto quando eravamo in carcere all'Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona. Aggiunse che a Palermo aveva fatto anche altre cose, fra cui l'omicidio Agostino. Ma quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi». Sono parole forti quelle riportate da Il Fatto Quotidiano, parole che portano la firma di Nino Lo Giudice, alias "il nano" il più controverso dei collaboratori di giustizia della Procura di Reggio Calabria. Parole che il due volte pentito, ex boss dell'omonimo clan, mette a verbale tra Reggio e Catanzaro e che arrivano in Sicilia, dove si indaga sulle stragi in cui hanno perso la vita i giudici Falcone e Borsellino. In quei verbali, Lo Giudice spiega i motivi della sua fuga e le sue paure. «Ho iniziato a ricevere strane visite a Macerata, la località segreta in cui vivevo. Un giorno, due mesi dopo l'incontro con Donadio (Gianfranco, ex procuratore aggiunto della Dna, ndr) mi vennero a trovare due uomini in borghese che si qualificarono come carabinieri. Pensai subito che fossero dei servizi. Mi fecero salire su una Punto e notai che erano armati di Beretta. Mi portarono fuori città. La Punto si fermò vicino a una Bravo marrone e mi fecero salire a bordo. C'erano altri due uomini ad aspettarmi. A parlarmi fu uno, testa rasata e accento laziale. Sapeva che avevo parlato di Aiello e mi disse di stare attento a toccare certi argomenti, soprattutto in futuro». Chi è "faccia da mostro" - Il nome di Aiello, 69 anni, originario di Montauro, in Calabria, in servizio al ministero degli Interni fino al 1977, finisce in diverse inchieste. Da quella sul tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino alla strage di via D'Amelio, passando per il delitto del commissario Cassarà e del poliziotto Nino Agostino. Lo chiamano "faccia da mostro" per una ferita sul volto che lo rende inconfondibile. Dopo il congedo si rifugia in Calabria, dove ufficialmente fa il pescatore. Per lunghi periodi di lui si perdono le tracce. Il suo nome, però, viene tirato in ballo più volte da diversi pentiti. Tra questi anche Consolato Villani, ex braccio destro del "nano" e autore degli attentati contro i carabinieri compiuti a Reggio Calabria tra il '93 e il 94. «Nino Lo Giudice mi parlò di ex esponenti delle forze dell'ordine, appartenenti ai servizi segreti deviati, che un uomo deformato in volto, insieme a una donna avevano avuto un ruolo nelle stragi di Falcone e Borsellino dice in udienza a novembre 2014 -. Mi disse che questi personaggi erano vicini alla cosca Laudani ed alla cosca catanese di Cosa nostra». Il pentito controverso. Ma il "nano" può ritenersi davvero credibile? Le sue parole stanno ancora confluendo nelle indagini della Dda reggina. L'ultima, in ordine di tempo, è quella che ha messo in luce l'esistenza della cupola di invisibili che governerebbe Reggio Calabria. Per il pm Giuseppe Lombardo, che ha seguito l'indagine "Mamma santissima", le parole di Lo Giudice sono attendibili. Così come lo sono quelle di Villani. Ma sul suo curriculum di pentito pesano la fuga, dopo due anni e mezzo di collaborazione, e due memoriali in cui smentisce le precedenti dichiarazioni e per i quali è indagato a Catanzaro. Il suo nome è al centro di una stagione infuocata di veleni tra toghe. Appena inizia a cantare, svela al magistrato Giuseppe Pignatone di essere l'autore degli attentati in procura del 2010. Ma il "nano" va oltre e insinua che tra il fratello Luciano ed alcuni magistrati, ci sia un rapporto "speciale". Si tratta dell'allora numero due della Dna, Alberto Cisterna, e l'attuale procuratore generale della corte d'appello di Roma, Francesco Mollace. In un vortice di dichiarazioni contrastanti, Lo Giudice arriva a dire che per far scarcerare suo fratello Maurizio, Luciano avrebbe sborsato «molti soldi» a Cisterna. Che finisce indagato, vedendo la sua carriera andare in pezzi: da vice di Pietro Grasso finisce a fare il giudice a Tivoli. Poi, però, la sua posizione viene archiviata. Mollace, dall'altro lato, finisce pure davanti ai giudici a Catanzaro, con l'accusa di aver omesso di svolgere indagini sulla cosca in cambio di favori. Anche lui, però, viene assolto perché il fatto non sussiste. Nel mezzo ci stanno i memoriali ritrovati dopo la fuga. In quelli Lo Giudice nega di essere l'autore degli attentati e le accuse alle toghe e parla di un vero e proprio complotto. «A Reggio c'erano due tronconi di magistrati che si lottavano tra di loro facendo scempio degli amici di una delle due parti». Una cricca, diceva, composta da «Di Landro, Pignatone, Prestipino, Ronchi e il dirigente della Mobile Renato Cortese». Dopo essere stato riacciuffato, si è chiuso in un lungo silenzio. Poi, alla fine dello scorso anno, ha ripreso a parlare.

Lo Giudice: ''Faccia da mostro dietro via d'Amelio''. Il pentito calabrese: "Fu lui a premere il pulsante per la strage", scrive “Antimafia Duemila” il 09 Agosto 2016. Un altro pentito torna a parlare di "faccia da mostro", l'uomo dei servizi che secondo alcuni collaboratori di giustizia (tra cui i siciliani Vito Galatolo e Vito Lo Forte, e il calabrese Consolato Villani) avrebbe preso parte a molte stragi ed omicidi eccellenti. È Nino "il nano" Lo Giudice, scrive di Walter Molino il 9 agosto 2016 su Il Fatto Quotidiano, a parlare nuovamente di quel personaggio che sarebbe stato riconosciuto nell'ex poliziotto Giovanni Aiello. “È stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro”, a far saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta" ha detto il pentito calabrese, aggiungendo che "fu lui a schiacciare il pulsante in via d’Amelio" e a confidarglielo è stato, ha precisato, "Pietro Scotto quando eravamo in carcere all’Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona" ma "quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi”. Scotto, condannato in primo grado ma poi assolto in appello per aver intercettato i telefoni di casa Borsellino, è fratello di Gaetano, imputato per l’omicidio dell'agente Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, uccisi da Cosa nostra nel 1989, oggi in libertà. La storia della collaborazione di Lo Giudice è tra le più travagliate: tre giorni prima dell'udienza, nel giugno 2013, nella quale il pentito doveva comparire a deporre al processo "Archi-Astrea" a Reggio Calabria, l'ex mafioso si era allontanato dalla località protetta senza lasciare alcuna traccia, tranne un memoriale nel quale ritrattava le sue deposizioni sostenendo che era stato costretto e “spronato da più parti”. E una pen drive con delle immagini dove il collaboratore diceva “non mi cercate, tanto non mi troverete mai”. Poi però era stato arrestato, a novembre, in un appartamento alla periferia della città. Ora che è tornato a collaborare le sue dichiarazioni sono state verbalizzate dalle procure di Reggio Calabria e Catanzaro, oltre ad essere condivise con quelle oltre lo Stretto in Sicilia. Sulle sue dichiarazioni poggiava il lavoro del sostituto Gianfranco Donadio, allora incaricato dal presidente del Senato Piero Grasso di fare luce sulle indagini riferite alle stragi del '92 e '93, in particolare sul ruolo che avrebbero ricoperto elementi riconducibili ai servizi segreti e ad ambienti “deviati” dello Stato. Lo Giudice, nel memoriale, aveva accusato proprio Donadio di averlo costretto a fare nomi di persone a lui sconosciute, tra cui anche quello di “faccia di mostro”. Il superprocuratore Franco Roberti, il 6 settembre 2013, aveva avocato su di sé le indagini. Poi ci fu una misteriosa fuga di notizie sulle colonne de Il Sole 24 ore e L’Ora della Calabria in merito al resoconto di due riunioni nel quale il pm aveva esposto gli sviluppi di un’indagine. Sarà solo a settembre 2014 che il pentito 'ndranghetista chiarirà il perchè del suo agire, spiegando ai pm di aver "iniziato a ricevere strane visite a Macerata, la località segreta in cui vivevo. Un giorno, due mesi dopo l’incontro con Donadio, mi vennero a trovare due uomini in borghese che si qualificarono come carabinieri. Pensai subito che fossero dei servizi". In seguito, proseguiva Lo Giudice, "mi portarono fuori città" dove "c’erano altri due uomini ad aspettarmi. A parlarmi fu uno, testa rasata e accento laziale. Sapeva che avevo parlato di Aiello e mi disse di stare attento a toccare certi argomenti, soprattutto in futuro. Io risposi che avevo una registrazione in cui smentivo tutto. Loro vennero a casa e gliele consegnai”. Ora il collaboratore confermerebbe di aver riferito a Donadio solo circostanze veritiere, aggiungendo poi altri dettagli su "faccia da mostro": "Pietro Scotto mi parlò di Aiello come di un calabrese con la faccia bruciata, coinvolto nella strage di via d’Amelio. Disse che era stato mandato dai servizi deviati per far saltare Borsellino. Anche Scotto e suo fratello avevano partecipato alla strage ma il pulsante, a suo dire, venne premuto da Aiello. Io lo conobbi personalmente anni dopo. Mi fu presentato dal capitano Saverio Spadaro Tracuzzi (condannato in appello a 10 di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa,ndr) che ne parlava come di un collega. Mi disse che era uno dei servizi, che si erano conosciuti in Sicilia perché Aiello aveva contatti con Cosa nostra. Io, pensando al racconto di Pietro Scotto, lo riconobbi dalla faccia bruciata”. “La seconda volta - continuava - Aiello venne a trovarmi nel 2007. Era insieme a una donna bionda, con accento calabrese, che mi presentò come Antonella” e in seguito “Aiello mi confermò quello che avevo saputo su di lui all’Asinara. Disse che a Palermo aveva fatto anche altre cose, fra cui aver ucciso l’agente Agostino”. Anche per queste dichiarazioni Lo Giudice è stato recentemente sentito dal pm di Palermo Nino Di Matteo. Ed è proprio per l'omicidio Agostino che oggi lo stesso Aiello è indagato a Palermo assieme ai boss Gaetano Scotto e Antonino Madonia. Vincenzo, padre di Nino Agostino, pochi mesi ha riconosciuto "faccia da mostro" in Aiello, durante un confronto all'americana nel quale ha confermato che si tratta dello stesso personaggio presentatosi a casa sua pochi giorni prima dell'omicidio chiedendo del figlio. Lo Giudice nelle sue dichiarazioni parla di Aiello anche in riferimento all'assassinio del commissario Ninni Cassarà, datato 6 agosto 1985, alla barbara uccisione del piccolo Claudio Domino (colpito da proiettili a 11 anni), al fallito attentato all'Addaura e alla strage di Capaci, entrambi contro il giudice Giovanni Falcone. "Il nano", tra l'altro, è il solo a dichiarare di aver ricevuto "di prima mano" le parole confidenziali di Aiello. Ma altri ex mafiosi di Cosa nostra parlano di "faccia da mostro" dichiarando che “frequentava Fondo Pipitone” a Palermo (feudo della famiglia mafiosa dei Galatolo, ndr) e che era “a disposizione della mafia anche per compiere omicidi”.

«Io prete, vi ricordo mio padre: giudice ucciso da Riina e dimenticato da tutti». Padre Giuseppe, prete a Imola, è il figlio di Alberto Giacomelli, giudice ucciso a Trapani il 14 settembre del 1988 su ordine di Totò Riina: «Mio padre non ha nulla di meno di altri magistrati uccisi dalla mafia», scrive Nino Luca l'11 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Il coraggio di una firma». Questo potrebbe essere il titolo di un libro dedicato al magistrato Alberto Giacomelli. Ma quel libro non è stato mai scritto. Nessuno l’ha potuto leggere. Nessuno ci ha pensato. Anche per questo il vile omicidio di Alberto Giacomelli è caduto nell’oblio, in mezzo ai tanti morti negli anni di fuoco della lotta tra Stato e Cosa nostra. Trovare una foto di Alberto Giacomelli su internet è una impresa. Un solo video, di un vecchio Tg Rai, racconta la sua morte. Una mattina come tante, quella del 14 settembre 1988. Alberto Giacomelli, magistrato, a sua volta figlio di un giudice, è in pensione da quindici mesi. Alle 8 del mattino, saluta la moglie ed esce dalla sua casa padronale immersa tra le palme e i gerani, nelle campagne di Trapani, frazione Locogrande. A bordo della sua Fiat Panda, percorre la strada sterrata, poi svolta a sinistra per immettersi sulla provinciale che conduce in città. Gli assassini, probabilmente due, a bordo di una vespa rally 200, lo attendono nascosti tra gli uliveti. Lo costringono a fermarsi e a scendere dall’auto, poi gli sparano tre colpi con una Taurus, calibro 38, con matricola abrasa, di fabbricazione brasiliana: alla testa, al cuore e all’addome. Quando muore Alberto Giacomelli ha 69 anni. Nessuna targa in queste strade polverose ne ricorda il sacrificio. Nel 1985 Giacomelli, presidente della sezione del tribunale di Trapani «Misure di prevenzione», aveva disposto il sequestro di una villetta e dei relativi terreni a Mazara del Vallo. Beni riconducibili a Gaetano Riina, fratello del capomafia corleonese Salvatore Riina. La sua firma doverosa sul documento di confisca derivava da una delle prime sentenze di applicazione della legge «Rognoni -La Torre». Giacomelli aveva compiuto il suo dovere di giudice. Due anni dopo i Riina impugnarono il sequestro. Gaetano, fratello per più famoso capo dei capi, cercò di mantenere il possesso della casa facendosi nominare «affidatario». Ma un’altra sentenza, di altri giudici, confermò la confisca decisa da Giacomelli. L’anno dopo la «vendetta» fu consumata. «Giacomelli - svelò il pentito di Mazara Vincenzo Sinacori - fu ammazzato per “una questione di famiglia”. Non famiglia “Cosa nostra” ma “famiglia di sangue”». Dopo 14 anni di depistaggi, il 28 marzo 2002, Totò Riina viene condannato all’ergastolo per esserne stato il mandante. La sentenza definitiva il 12 marzo 2003.Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani è stato assolto. I killer non sono stati mai individuati con certezza. Quello di Alberto Giacomelli resta l’unico caso di omicidio di un magistrato in pensione nella storia d’Italia. La sua firma di servitore dello Stato, lo condannò a morte. A distanza di 28 anni, il figlio Giuseppe, sacerdote a Imola, ha voglia di raccontare la storia del padre. Innanzitutto perché la sua figura rischia di essere dimenticata dallo Stato e dall’opinione pubblica. Poi, per ristabilire la verità, quella verità troppe volte «mascariata» (macchiata) da falsi pentiti: «Giocava alle corse clandestine di cavalli organizzate a Locogrande», si disse. Oppure: «Bisogna indagare nelle sue proprietà terriere...». Tutto falso. Un anno prima, sconosciuti avevano bruciato la villa dei Giacomelli a Custonaci: «La casa si riempì di fumo - racconta padre Giuseppe - ma allora non abbiamo dato peso eccessivo all’episodio. Mio padre riceveva qualche telefonata di minacce... ma lui riattaccava senza raccontare nulla». Oggi padre Giuseppe reclama per la propria famiglia il riconoscimento di vittima della mafia. «Il rammarico più grande - afferma dalla sacrestia della chiesa del Pio Suffragio di Imola - è l’oblio in cui è caduto l’omicidio, quasi ci fossero vittime eccellenti ed altre meno. Non c’è una gerarchia delle vittime della mafia. Lui si sentiva in missione, mandato dallo Stato per applicare la giustizia. Ed è morto da servitore dello Stato. Di fronte ad un uomo così, perché questo silenzio?».

Altre ombre sulla mancata cattura di Provenzano e Messina Denaro, scrive “Articolo 3”. Dalle dichiarazioni del generale Nicolò Gebbia, oggi in quiescenza, che dice di essersi accorto di essere stato “preso in giro e condotto per il naso verso direzioni che non erano quelle che avrebbero potuto assicurare alla giustizia i principali latitanti di mafia”, alle dichiarazioni di una decina di ufficiali e sottufficiali dei carabinieri che hanno parlato di una serie di fatti che hanno impedito di svolgere adeguate indagini. Elementi che si aggiungono alle denunce dei due sottufficiali, Saverio Masi, oggi caposcorta del pm Nino Di Matteo, e Salvatore Fiducia (indagati a loro volta per calunnia), nei confronti di cinque ufficiali accusati di avere ostacolato la cattura di Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro negli anni che vanno dal 2001 al 2008. A riportare la notizia è oggi il Fatto Quotidiano che evidenzia come per tutti, “denuncianti e denunciati, la procura di Palermo ha chiesto l’archiviazione, ritenendo non riscontrati i fatti perché avvenuti alla sola presenza dei protagonisti”. Eppure all’interno del fascicolo si parlerebbe di intercettazioni improvvisamente interrotte, pedinamenti negati, e risulterebbe anche una sparizione di un file con notizie sui latitanti nei computer investigativi (sparizione denunciata alla polizia postale e archiviata perché ritenuta uno scherzo). Inoltre si parlerebbe persino diuna microspia trovata dentro una gazzella. Tutti episodi che sarebbero avvenuti nel periodo in cui il reparto di investigatori della Carini era guidato dal colonnello Gianmarco Sottili. Secondo quanto riportato dal quotidiano vi sarebbero anche riscontri come nel caso del mancato sequestro di un computer a casa dell’ex consigliere provinciale Udc, Giovanni Tomasino, che il capitano Vincenzo Nicoletti ritenne di non sequestrare. Sarebbe stato quest’ultimo a rivolgersi a Masi facendo intendere che Provenzano non si doveva catturare (“Noi non abbiamo al- cuna intenzione di prendere Provenzano. Lo vuoi capire o no che ti devi fermare? Hai finito di fare il finto coglione? Dicci cosa vuoi che te lo diamo…”).

Il maresciallo Saverio Masi: "Ho visto Matteo Messina Denaro". L'attuale capo scorta di Di Matteo ai pm: "La caccia a Provenzano? È stata ostacolata", scrive “Live Sicilia” l’8 settembre 2016.  La pagina controversa delle indagini per la cattura di Bernardo Provenzano è stata rivisitata al processo per la trattativa Stato-mafia attraverso l'audizione del maresciallo Saverio Masi, attualmente capo della scorta del pm Nino Di Matteo. Masi, che è stato condannato recentemente per falso ideologico a sei mesi di reclusione, ha parlato soprattutto degli ostacoli creati, a suo dire, da alcuni ufficiali del gruppo dei carabinieri di Palermo rispetto alle sue iniziative investigative nella caccia a Provenzano e a Matteo Messina Denaro. Masi, che all'epoca dei fatti era in servizio alla sezione antirapine, ha ripetuto fatti già raccontati in altri processi. Ha quindi riferito che le sue iniziative non incontravano il sostegno della "scala gerarchica" soprattutto nella fase culminante degli appostamenti nelle campagne di Mezzojuso in cui si pensava che si trovasse il covo di Provenzano. A Masi sarebbero state create difficoltà e gli sarebbe stato impedito con un pretesto di piazzare una telecamera per tenere costantemente sotto controllo il casolare. Alla fine l'operazione venne abbandonata. Un ufficiale gli avrebbe detto: "Non abbiamo intenzione di catturare Provenzano. Non rompere più i c...". Oltre alla mancata cattura di Provenzano, Masi si è a lungo soffermato sui contrasti tra ufficiali del gruppo di Palermo, tra cui i colonnelli Giammarco Sottili e Antonello Angeli. Le divergenze, che sarebbero state non solo verbali ma anche "fisiche", covavano in silenzio ma sarebbero esplose in occasione di una perquisizione in casa di Massimo Ciancimino. Il colonnello Angeli avrebbe trovato copia del "papello" con le richieste della mafia per fermare le stragi. Ma il documento non sarebbe stato sequestrato. Al telefono Sottili avrebbe detto che non era necessario acquisirlo "perché già lo abbiamo". Masi ha riferito che Angeli aveva intenzione di sollevare il caso con una campagna di stampa. Ne parlarono in due incontri "all'oscuro dei superiori" ma poi la campagna non partì perché il giornalista contattato non diede la sua disponibilità. Da quel momento, ha detto Masi, Angeli cambiò atteggiamento. Non si fece neppure rintracciare. Masi è stato sentito come imputato di reato connesso su denuncia degli ufficiali chiamati in causa ma una settimana fa, ha precisato il pm Vittorio Teresi, la Procura ha chiesto l'archiviazione del procedimento. "Lo guardai in faccia e lo riconobbi". Era il 2004 quando il maresciallo dei carabinieri Saverio Masi avrebbe incontrato in una strada di Bagheria (Palermo) l'ultimo grande latitante di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. Di quell'incontro - di cui informò i superiori solo dopo alcuni giorni - Masi conserva un nitido ricordo e ne ha parlato al processo per la trattativa Stato-mafia, ribadendo quanto già dichiarato in passato. In auto, fuori servizio, Masi incrociò un'altra vettura ferma davanti a una villa con il proprietario che stava aprendo il cancello. Nel superarlo, dopo una piccola manovra, Masi guardò il conducente. "Era identico - ha detto - al fotofit di Messina Denaro pubblicato in quei giorni dai giornali". Non avvertì i suoi superiori con i quali era in cattivi rapporti ma una persona che non trovò più l'auto segnalata. Masi non si fermò. Avrebbe fatto indagini in prima persona: piazzò una telecamera davanti alla villa e identificò il proprietario originario di Castelvetrano, il paese di Messina Denaro. Avrebbe pure fermato l'attenzione su un giro persone riconducibili al boss più ricercato d'Italia. Solo dopo alcuni giorni Masi presentò una relazione di servizio che, in alcune parti, alcuni ufficiali gli avrebbero chiesto di purgare. E solo nel 2010, quando i contrasti con i superiori erano esplosi con uno scambio di denunce, Masi ha tirato fuori la relazione originale che oggi è stata prodotta in udienza dal pm Vittorio Teresi.

Mafia: Saverio Masi, ostacolato per cattura Provenzano e Messina Denaro, scrive l'8 settembre 2016 “Il Foglio”. (AdnKronos). Nel periodo precedente all'arresto del boss mafioso Bernardo Provenzano "fui ostacolato nella ricerca a la cattura di boss latitanti come Provenzano e Matteo Messina Denaro". E' la denuncia del maresciallo dei Carabinieri, Saverio Masi, capo scorta del pm Antonino Di Matteo, nel corso della sua deposizione al processo sulla trattativa tra Stato e mafia all'aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. Il sottufficiale dell'Arma, rispondendo alle domande del Procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi, racconta di "problemi avuti con i superiori sulla cattura di Provenzano". Aveva così chiesto "prima dell'arresto di Provenzano" un incontro con l'allora capitano dei Carabinieri Antonello Angeli "perché avevo saputo che anche lui aveva avuto un trattamento simile". In particolare, critica gli ex vertici del Nucleo operativo di Palermo, Giammarco Sottili e Francesco Gosciu. "Angeli aveva avuto dei problemi a causa di una indagine che riguardava le vicende investigative di Massimo Ciancimino, soprattutto una vicenda che riguardava una perquisizione a casa di Ciancimino". Tutto ruota attorno alla perquisizione a casa di Massimo Ciancimino, nel 2005, quando l'allora capitano Angeli avrebbe rinvenuto "in soffitta" il cosiddetto 'papello' di Totò Riina contenente le dodici richieste del boss allo Stato. "Quando informò i suoi superiori questi gli ordinarono di 'non sequestrarlo sostenendo che già lo avevano'", dice. "C'erano specifiche richieste in relazione a una trattativa tra Stato e mafia - dice ancora Masi - Sottili disse ad Angeli di lasciarlo lì perché già lo avevano. Ma Angeli mi disse che non ce l'avevano il papello. Mi disse anche che rimase esterrefatto dalla risposta di Sottili. Si aspettò la immediata presenza di Sottili. Invece, niente. Così, per salvaguardare la sua persona aveva fatto fotocopiare la documentazione che Sottili non voleva venisse spostata. Mandò uno dei suoi carabinieri di fare le fotocopie di nascosto degli altri suoi colleghi del Reparto operativo". "Ci siamo incontrati con Angeli di nascosto dai nostri superiori a Palermo, dopo che lui era stato trasferito a Roma - dice - Mi disse che era preoccupato perché volevano avviare una pratica sulla sua salute mentale, e avviarlo a visita psichiatrica, e lui dopo un incontro con Sottili capì che era meglio lasciare perdere e chiese il trasferimento a Roma". E continua a raccontare: "Io ero stato allontanato dalle attività investigative di un altro latitante, Matteo Messina Denaro - spiega - non fidandomi della mia scala gerarchica mi auguravo che ci fosse un ricambio, mi avevano fatto mobbing senza darmi la possibilità di cercare latitanti". Successivamente Masi e Angeli provarono "a fare pubblicare le nostre vicende da un giornale nazionale, in modo che l'autorità giudiziaria ci potesse chiamare per confermare le nostre vicende". "Cercammo un giornalista che avesse credibilità superiore e con un certa caratura. Concordammo quindi sul nome di Saverio lodato dell'Unità". Ma non se ne fece niente. "Io dopo continuai a cercare Angeli ma non si fece più trovare". Il maresciallo Saverio Masi, di recente condannato a sei mesi di reclusione per falso ideologico, racconta poi delle difficoltà che avrebbe incontrato negli appostamenti di un casolare per la ricerca del boss Provenzano. I suoi superiori gli avrebbero impedito di piazzare delle telecamere nel casolare che, ad avviso di Masi, avrebbe potuto essere il covo dell'allora latitante Provenzano. Alla fine l'operazione non si fece più. Masi viene sentito come indagato di reato connesso perché indagato per calunnia nei confronti di Sottili e altri ufficiali dei carabinieri. Ma all'inizio di settembre la Procura ha chiesto l'archiviazione.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

Le vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.

Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. Li chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio ; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell' Annie Taylor Award , il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero : «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle , la Patrie du Laïcisme , la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité , dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste , dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr ) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits , la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione . Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera, nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico» : «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.

L’ordine dei giornalisti contro Allam così si calpesta la libertà di opinione, scrive Pierluigi Battista su “Il Corriere della Sera”. Trasformare in un crimine un’opinione, per quanto criticabile, non dovrebbe rientrare nei compiti di uno Stato che voglia conservare la sua anima liberale, figurarsi di un Ordine professionale come quello dei giornalisti. E invece mettere sotto accusa le opinioni di un commentatore come Magdi Cristiano Allam è diventato l’occupazione estiva dell’Ordine dei giornalisti. Una parodia dell’Inquisizione che fa di un’associazione di categoria, nata durante il fascismo e senza eguali in nessun’altra democrazia liberale con l’eccezione del post-salazariano Portogallo, un tribunale abusivo che si permette di interpretare a suo modo i princìpi della libertà di espressione e che si permette di emettere verdetti sulle opinioni espresse da un proprio associato. Già l’Italia è caricata da una pletora di reati d’opinione mai smaltiti in tutti gli anni della Repubblica post-fascista. Non c’è bisogno di processi aggiuntivi istruiti da chi si arroga il diritto di giudicare le opinioni altrui solo perché munito del tesserino di un Ordine professionale. Se un giornalista commette un reato, dovrà essere giudicato come tutti gli altri cittadini da un Tribunale della Repubblica. Piccoli tribunali del popolo che si impancano a misuratori dell’eventuale «islamofobia» di Allam sono invece pallide imitazioni di epoche autoritarie che non distinguevano tra reato e opinione. Mentre la libertà d’opinione, dovremmo averlo imparato, è indivisibile e non dovrebbe essere manipolata a seconda delle predilezioni ideologiche. Si vuole criticare Allam? In Italia c’è il pluralismo della critica e dell’informazione e il conflitto delle idee è il sale di una democrazia liberale. La giustizia fai da te, i tribunali delle corporazioni che si permettono di intromettersi non su un comportamento, o su una grave negligenza professionale, bensì sul contenuto di un articolo, sono invece il residuo di un’intolleranza antica, e che non sopporta la diversità delle opinioni, anche delle più estreme. Per cui i censori dell’Ordine potrebbero rimettere nel cassetto i loro processi, togliersi la toga dell’inquisitore e ammettere di aver commesso un errore. Non è mai troppo tardi per la scoperta della libertà.

Caso Allam, una decisione sconcertante. Su "Il Giornale", il presidente dell'Odg: "Magdi potrà difendersi". Ma la vicenda resta sconcertante risponde Alessandro Sallusti.

Caro direttore, leggo i servizi dedicati all'Odg in relazione a una vicenda che riguarda Magdi Cristiano Allam. Debbo dirti che alcuni toni e non poche espressioni mi sconcertano. L'idea che ci siano degli intoccabili non appartiene alla mia cultura né, a leggere il Giornale, alla tua. Potrei tacere, perché solo un ignorante (nel senso che non conosce le cose) può non sapere che il Consiglio nazionale di disciplina è organismo autonomo, voluto come tale da una legge dello Stato. Ma, come ben sai personalmente, non amo le fughe, tanto da essere stato - doverosamente, a mio avviso, ma ugualmente andando contro «corrente» - accanto a te quando a Milano eri sotto processo. Se non si trattasse di Allam mi verrebbe il sospetto che questa vicenda vien cavalcata per riaccendere l'attenzione su un impegno personale e politico. Ma le cose non stanno esattamente come si afferma, pur citando correttamente i passaggi di un capo di incolpazione. Non so, essendo estraneo all'organismo, come finirà. Ma so che ad Allam sono state accordate, doverosamente, tutte le opportunità di acquisire i documenti, contenuti nel fascicolo, che riterrà utili. Di più: ha eccepito che i termini di 30 giorni non gli erano sufficienti e gli uffici, mi assicurano, gli hanno formalizzato un prolungamento che, mi riferiscono, è stato di sua soddisfazione. Ma si tende a trasmettere una informazione distorta. Allam non è stato processato. Ci si è limitati a ritenere «non manifestamente infondato» un esposto presentato da una associazione (sconosciuta, perchè sul web non c'è traccia), «Media e diritto», che si duole per alcune affermazioni contenute suoi articoli. Personalmente non mi sarei sentito oltraggiato (ma non mi sento «intoccabile», come scritto in premessa), ma, anzi, avrei colto la notizia non tanto (né solo) come l'opportunità di rivendicare la possibilità di dire quel che penso, ma anche per argomentarne più approfonditamente le ragioni. Ancor di più, non mi sarei scandalizzato perché questa procedura conferma che non ci sono «intoccabili» e che le ragioni di tutti vengono valutate con attenzione. Una differenza non marginale, ad esempio e senza generalizzazioni, con chi vive di una giustizia, sommaria e tutta sua, sgozzando davanti alla telecamera un giornalista. Enzo Iacopino, Presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti.

Caro presidente, in effetti ho provato sulla mia pelle la tua solidarietà e te ne sono riconoscente e grato. Il che non ha impedito che nostri solerti colleghi mi ri-processassero, nonostante la «grazia» che mi ha concesso il presidente Napolitano, e condannassero a due mesi di sospensione (l'appello, come saprai è a giorni). Ma questa è un'altra storia. È vero, come dici, che non ci devono essere intoccabili, ma chissà perché chi la pensa in un certo modo è più toccato di altri. E quando ad allungare le mani sono colleghi od organi che sia pure autonomi riconducibili all'Ordine dei giornalisti, allora mi preoccupo. Mi piacerebbe che l'Ordine, e tutto ciò che ruota attorno ad esso, si battesse sempre e comunque per la libertà di pensiero ed espressione, di chiunque. Perché è questo, per stare in tema, che distingue la nostra società da quella islamica, il più delle volte fondata sulla sharia. A quei signori che hanno fatto l'esposto bastava spiegare questa semplice verità non trattabile: ci spiace, ma da noi si è liberi di pensare, dire e scrivere, ciò che si crede, per eventuali reati rivolgersi alla magistratura ordinaria. Alessandro Sallusti.

Vogliono toglierci la libertà di critica. Il cardine della democrazia è mettere in discussione (anche) le religioni, scrive Ida Magli su "Il Giornale". Islamofobia: strano concetto da usare in un procedimento disciplinare. «Fobia» è, infatti, termine medico che definisce un particolare disturbo psichico, presente in genere nelle nevrastenie, e che si presenta come paura, ripulsione non infrenabile nei confronti di un qualsiasi fenomeno della realtà. Freud ha aggiunto poi, con le teorie psicoanalitiche sull'inconscio, una spiegazione ulteriore del comportamento fobico affermando che il paziente è indotto a razionalizzare la propria fobia attribuendola agli aspetti negativi degli oggetti o delle persone di cui teme. Siamo sempre nel campo della psichiatria. Da qualche anno tuttavia, in Europa, e in Italia in particolar modo, le accuse di «fobia» si sprecano. Non si può aprire bocca su un qualsiasi argomento senza incorrere in questo rischio. Sarebbe bene, invece, cominciare a ricordarsi quanto cammino abbiamo fatto, quante lotte intellettuali e fisiche abbiamo dovuto sostenere, soprattutto noi, gli italiani, per giungere alla civiltà cui oggi apparteniamo. Abbiamo sofferto e pagato con il carcere e con il sangue non tanto la libertà concreta, quanto la certezza della ricerca scientifica e delle sue conoscenze, disgiunta dal pensiero filosofico, da quello politico e da qualsiasi fede religiosa. Finalmente siamo giunti anche noi, italiani, a poter godere di una democrazia totalmente laica in cui il rispetto per le convinzioni dei singoli cittadini non comporta l'impossibilità di discuterle. Questo è il punto fondamentale di una democrazia sicura di se stessa e della forza della propria libertà: ogni cittadino può e deve poter parlare con tutti gli altri di qualsiasi argomento perché vive in un gruppo ed è la vita di gruppo che forma una società e un popolo. È secondo questi principi di convivenza nella democrazia che si ha il diritto, ma soprattutto il dovere, di discutere delle religioni. Oggi nessuno ritiene, in nessuna parte del mondo, che le religioni non facciano parte integrante delle culture e delle società. E ogni religione, proprio perché religione (religio è legame fra più individui) non è un fatto privato, né può essere trattato da nessuno, né singoli né governi né istituzioni, come un fatto privato. In Italia, poi, per la sua particolare storia, le discussioni e le critiche, anche fortissime, ad associazioni cattoliche, a vescovi, a parroci, a Papi, non sono mai mancate. Sarebbe sufficiente ricordarsi i dibattiti appassionati per la legislazione sul divorzio e sull'aborto. I cattolici hanno fatto allora tutto il possibile per sostenere le loro tesi che erano appunto fondate su norme dettate da un testo sacro, il Vangelo; altrettanto hanno fatto i partiti laici, e alla fine si sono svolti con assoluta libertà i relativi referendum. Cosa sarebbe stato dell'Italia, della democrazia in Italia, se qualcuno avesse pensato che i giornalisti non potevano discutere delle norme di un testo sacro, che bisognava porre loro il bavaglio, o intimorirli con provvedimenti disciplinari? Ho citato esplicitamente il Vangelo perché gli italiani possono supporre che il Corano, scritto diversi secoli dopo la venuta di Gesù, debba in qualche modo somigliargli, riprendere qualcuna delle sue tesi fondamentali. Siccome è vero il contrario perché il Corano è fondato sull'Antico Testamento, sulla legge del taglione, sulla vendetta contro i nemici, sull'obbligo di convertire gli infedeli, sui tabù dell'impurità, è quindi agli antipodi del Vangelo e agli antipodi della civiltà in cui viviamo. Visto che i musulmani sono già numerosissimi sul suolo italiano e aumentano ogni giorno, è dovere e diritto degli italiani sapere quali siano le norme di comportamento imposte da Maometto ai suoi fedeli, i quali, appunto in quanto fedeli, dovrebbero ritenerle giuste e averle fatte proprie. Ma chi dovrebbe informarli se non i giornalisti? L'ipocrisia non è nell'interesse di nessuno oggi in Italia. Intervengano i musulmani o i loro giornalisti (non gli imam) insieme a noi sui giornali e ci assicurino che, pur essendo fedeli a Maometto, ritengono sbagliate la giustizia del taglione, le norme sull'inferiorità e l'impurità delle donne, sulla fustigazione degli omosessuali, sulla lapidazione delle adultere, sull'uccisione degli infedeli... Noi gli crederemo.

Haisam Sakhanh, il jihadista che andava in tv all'Infedele di Gad Lerner, scrive “Libero Quotidiano”. L'orrore dei tagliagole, giorno dopo giorno, ora dopo ora, sconvolge l'Occidente. Solo poche ore fa, il video delle quattro sospette spie decapitate dai fanatici dell'Islam. Immagini strazianti, terrificanti, e che fanno ancor più paura perché è sempre più chiaro che i seguaci della jihad ce li abbiamo in casa. Sono molti, alcuni noti, altri no. C'è un Imam che giura: "Ci prenderemo il Vaticano". E c'è anche chi invece, in passato, andò in televisione. Due anni fa, per la precisione. Stiamo parlando di Haisam Sakhanh, nome di battaglia Abu Omar, che un tempo viveva nel milanese e che, una volta, si fece vedere negli studi de L'Infedele, la trasmissione di Gad Lerner su La7. Da mercoledì la procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui: la sua foto, ora, appare su tutti i giornali. Eppure era chiaro da tempo chi fosse, questo Abu Omar. Come ricorda Il Giornale, già nell'aprile del 2013 fu girato un video in cui il siriano-milanese si rese protagonista dell'orrore: assieme ad altri militanti prese parte all'esecuzione di 7 soldati filo-governativi, un colpo e testa e via, gli uomini in ginocchio vengono ammazzati. Nel 2012, inoltre, le autorità italiane non ritennero necessario svolgere qualche approfondimento su mister Haisam, ex elettricista a Cologno Monzese, e la sua rete: fu arrestato al termine di un assalto all'ambasciata di Roma. Haisam e i suoi vengono interrogati, indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata e rinviati a giudizio per direttissima. Ma non accadde nulla: tornò libero e riprese a fare proselitismi, nel nostro Paese, a Milano e hinterland. La replica di Lerner, via blog, arriva nel pomeriggio ed è velenosa. "Fra gli altri siriani che parteciparono alla trasmissione come pubblico, senza intervenire, scopriamo ora da una fotografia pubblicata su Facebook che si infiltrò un elettricista di Cologno Monzese, tale Haisam Sakhanh, che nel frattempo è entrato nella milizia Isis col nome di battaglia Abu Omar". "Naturalmente - spiega Lerner - io non ho invitato proprio nessun jihadista in trasmissione, né tre anni fa né mai. Tanto meno costui ha mai preso la parola all'Infedele. Ma per certe testate ogni occasione è buona per insultare".

Noi censurati, il jihadista invitato in tv da Lerner. L'elettricista di Cologno andato a combattere per l'Isis in Siria è indagato per terrorismo, ma due anni fa in Italia veniva trattato da eroe della rivolta, scrive Gian Micalessin su "Il Giornale. I tagliagole amici e complici dell'Isis li avevamo in casa. Vivevano e manifestavano a Milano, mentre a Roma godevano delle migliori coperture. E così quando polizia della Capitale li arrestava mentre assaltavano e devastavano le sedi diplomatiche, i magistrati li rimettevano in libertà. Del resto i ministri del governo Monti, gli stessi che rispedivano i nostri marò nella trappola indiana, ricevevano i loro capi politici alla Farnesina trattandoli alla stregua di eroi. Gad Lerner, nel frattempo, li invitava nel suo salotto televisivo. E Pier Luigi Bersani, allora segretario del Pd, non si faceva problemi ad appoggiarli concionando da un palco adornato con la bandiera dei ribelli. La stessa bandiera in cui s'avvolgevano le sprovvedute attiviste Vanessa Marzullo e Greta Ramelli inghiottite qualche settimana fa dall'inferno siriano. Ma siamo nel Belpaese. Un paese dove l'Ordine dei Giornalisti indaga chi critica l'Islam, ma si guarda bene dall'obbiettare se qualcuno da voce ad un terrorista. E dunque non succedeva nulla. E così anche quando Il Giornale , si permetteva di mostrare i volti e documentare le atrocità di questi signori tutti facevano vinta di non vedere, di non sapere, di non capire. Guardate questo signore. Il suo vero nome è Haisam Sakhanh, il suo nome di battaglia è Abu Omar. Da mercoledì, da quando l'assai sollecita procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui, tutti fanno a gara a parlarne. La sua foto campeggia dal Corriere della Sera a Repubblica e i telegiornali fanno a gara nel descriverlo come il reclutatore dei jihadisti di Milano e dintorni. Bella scoperta. Sul Giornale la sua foto era già comparsa l'11 gennaio accanto a un titolo che recitava «Cercate killer islamici? Eccone uno». Come lo sapevamo? Semplice. A differenza degli «ignari» magistrati, politici, diplomatici e di tanti colleghi, sempre pronti a chiuder gli occhi quando le notizie non sono politicamente corrette, non c'eravamo fatto scrupoli a identificare i protagonisti dell' agghiacciante video girato nell'aprile 2013 nella provincia siriana di Idlib e pubblicato lo scorso settembre sul sito web del New York Times . In quel video il siriano-milanese Sakhanh-Abu Omar è protagonista, assieme ad altri militanti guidati dal comandante Abdul Samad Hissa, della spietata esecuzione di 7 soldati governativi appena catturati. Nel filmato indossa un giubbotto marroncino, impugna il kalashnikov e ascolta il comandante che spiega a lui e altri nove militanti perché sia giusto e doveroso ammazzare i prigionieri. Subito dopo preme il grilletto e infila un proiettile nella nuca di un soldato denudato e fatto inginocchiare ai suoi piedi. A gennaio dopo la nostra denuncia nessuno muove un dito. Ma questa non è una novità. Ben più grave è che nessuno si curi di accertare i contatti e i collegamenti di Haisam alias Abu Omar nel febbraio 2012 quando il militante viene arrestato al termine di un vero e proprio assalto all'ambasciata siriana di Roma. Un assalto durante il quale guida alcuni complici all'interno degli uffici della sede diplomatica devastandoli e malmenando alcuni impiegati. Interrogati dal giudice Marina Finiti e indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata Haisam e i suoi vengono rinviati a giudizio per direttissima. Ma anche allora non succede nulla. Lui torna libero, continua a far proseliti e a guidare il suo gruppetto basato a Milano e dintorni. Tra questi si distingue l'amico Ammar Bacha che il 19 agosto 2012 non si fa problemi a pubblicare un video in cui i decapitatori dell'Isis (Stato Islamico dell'Iraq e del levante) illustrano la propria attività con il consueto corollario di atrocità e violenze. Anche stavolta tutti fanno finta di non vedere. Del resto solo pochi mesi prima, il 13 maggio 2012, il ministro Giulio Terzi ha incontrato alla Farnesina il Presidente del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), Bourhan Ghalioun, capo politico di quei ribelli già allora finanziati dal Qatar e monopolizzati dall'estremismo di Al Qaida e dell'Isis. E così qualche mese dopo pm e polizia si guardano bene dal fermare il signor Sakhanh e il suo sodale. E loro fuggono in Turchia e poi in Siria. Dove possono finalmente dedicarsi alla loro attività più congeniale. Ovvero uccidere e massacrare.

Le decapitazioni di Isis e gli allarmi della Fallaci. Il video dell'uccisione di James Foley riporta alla mente le parole (inascoltate) della scrittrice, scrive Marco Ventura su Panorama. E quindi non è "un conflitto di civiltà" quello che è sotto gli occhi di tutti in Iraq, Siria, Africa? Il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, sempre così graziosamente politically correct, nega in Parlamento la matrice di "civiltà" nei sanguinosi eventi di queste ore e nella risposta di Stati Uniti e Europa, quasi dovessimo vergognarci di difendere i valori dell'Occidente contro una versione esasperata e integralista dell'Islam globale. Ma è così? Arancione e nero. Sapete a cosa penso guardando quell’immagine surreale, terribilmente cinematografica, del giornalista americano James Foley in tuta arancione come i prigionieri di Guantanamo inginocchiato davanti a un paesaggio desertico, il busto eretto e il mento dritto, la postura fiera incongruente con le parole che deve pronunciare, e poi guardando quella figura di morte nera accanto a lui, in piedi, quel tagliagole mascherato dell’Is, coltello in mano, che si rivolge direttamente in inglese a Barack Obama (“You, Obama”) prima di decapitare la sua vittima? Penso, ecco, a Oriana Fallaci. Ai profeti inascoltati che l’Italia ha avuto, e al fatto che per vedere meglio nel futuro si sono dovuti trasferire all’estero, negli Stati Uniti, e da lì vaticinare, puntare l’indice, declamare il j’accuse, le loro omelie laiche da italiani che amano l’Italia e disprezzano però una certa Italia (e Europa). La Fallaci come Prezzolini, isolato nel suo esilio americano (e svizzero). Penso a quanti hanno criticato la Fallaci degli ultimi anni considerando i suoi scritti, le sue invettive finali (o definitive) contro l’invasione islamica, il pericolo islamico, la brutalità islamica, una sorta di metastasi del pensiero, quasi un cancro dello spirito parallelo al male che le consumava il corpo. Ascoltate (sì, ascoltate) quello che Oriana scriveva “Ai lettori” all’indomani dell’11/9, in apertura de “La rabbia e l’orgoglio” (Rizzoli): “Dall’Afghanistan al Sudan, dall’Indonesia al Pakistan, dalla Malesia all’Iran, dall’Egitto all’Iraq, dall’Algeria al Senegal, dalla Siria al Kenya, dalla Libia al Ciad, dal Libano al Marocco, dalla Palestina allo Yemen, dall’Arabia Saudita alla Somalia, l’odio per l’Occidente cresce. Si gonfia come un fuoco alimentato dal vento, e i seguaci del fondamentalismo islamico si moltiplicano come i protozoi d’una cellula che si scinde per diventare due cellule poi quattro poi otto poi sedici poi trentadue. All’infinito”. Ognuno di quei paesi evoca oggi qualcosa di terribile che è avvenuto (che avviene). I talebani comandano ancora in Afghanistan (fino in Pakistan). In Egitto la primavera araba è morta con l’avvento dei Fratelli musulmani, finalmente stroncati dalla restaurazione del generale Al-Sisi. In Libia gli islamisti proclamano il Califfato di Bengasi, guerreggiano e spargono odio e caos anche se nelle elezioni hanno dimostrato di valere poco più del 10 per cento. Tra Somalia e Kenya i guerriglieri islamisti di Al Shabaab fanno incursioni omicide lungo le strade, stragi nei centri commerciali a Nairobi. In paesi come la Nigeria che la Fallaci non citava (la sua lista oggi sarebbe più lunga) i massacri islamisti e i rapimenti delle studentesse sono firmati dalle milizie di Boko Haram. Nello Yemen dei sequestri operano cellule di Al-Qaeda. In Palestina, Hamas usa i civili come scudi umani e lancia razzi su Israele con l’obiettivo di cancellare lo Stato ebraico dalle mappe. Con l’Iran rimane il contenzioso nucleare. Di Iraq e Siria sappiamo. In Libano spadroneggiano gli Hezbollah. L’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo non sono ancora usciti dall’ambiguità, chi più e chi meno, di sostenere o chiudere un occhio sui finanziamenti alle formazioni integraliste. E così via. Dal 2001 sono passati 13 anni e le parole de “La rabbia e l’orgoglio” si avverano. “Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri…”. Oriana tuonava contro “i nuovi Mori”. Dietro le figure in nero, che c’erano anche allora, vedeva i colletti bianchi, che ci sono ancora. Ascoltiamola. “I nuovi Mori con la cravatta trovano sempre più complici, fanno sempre più proseliti. Per questo diventano sempre di più, pretendono sempre di più. E se non stiamo attenti, se restiamo inerti, troveranno sempre più complici. Diventeranno sempre di più, otterranno sempre di più, spadroneggeranno sempre di più. Fino a soggiogarci completamente. Fino a spegnere la nostra civiltà. Ergo, trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Cullarci nell’indulgenza o nella tolleranza o nella speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso”. Chissà che non dovremo darle ragione, nonostante il nostro perbenismo intellettuale, pure sui rischi dei flussi migratori. Proprio in conclusione del suo pamphlet la Fallaci scrive infatti dell’Italia che “nonostante tutto esiste. Zittita, ridicolizzata, sbeffeggiata, diffamata, insultata, ma esiste. Quindi guai a chi me la tocca. Guai a chi me la invade, guai a chi me la ruba. Perché (se non l’hai ancora capito te lo ripeto con maggiore chiarezza) che a invaderla siano i francesi di Napoleone o i tedeschi di Hitler o i compari di Osama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem”. E per finire: “Stop. Quello che avevo da dire l’ho detto… Ora basta. Punto e basta”.

Oriana Fallaci, la sua lezione su Libero Quotidiano: Maestra di libertà. la profezia sull'Islam fanatico, gli insulti della sinistra, i processi. Il testo di cui oggi iniziamo la pubblicazione - per gentile concessione di Edoardo Perazzi, nipote e erede della Fallaci - è quello di un discorso pronunciato da Oriana Fallaci nel novembre del 2005. La grande toscana fu insignita del Annie Taylor Award, un premio conferito dal Centro Studi di cultura popolare di New York. Il suo discorso, in versione integrale inglese, fu pubblicato pochi giorni dopo da Il Foglio. Poi, il primo dicembre del 2005, Libero ne pubblicò la versione italiana, col permesso della stessa Fallaci, che volle rivederne personalmente la forma (modificandola tramite memorabili telefonate con l'allora responsabile delle pagine culturali Alessandro Gnocchi). Abbiamo deciso di ripubblicare questo testo perché pensiamo che oggi, a quasi dieci anni di distanza, sia più attuale che mai. Bé: un premio intitolato a una donna che saltò sopra le Cascate del Niagara, e sopravvisse, è mille volte più prezioso e prestigioso ed etico di un Oscar o di un Nobel: fino a ieri gloriose onorificenze rese a persone di valore ed oggi squallide parcelle concesse a devoti antiamericani e antioccidentali quindi filoislamici. Insomma a coloro che recitando la parte dei guru illuminati che definiscono Bush un assassino, Sharon un criminale-di-guerra, Castro un filantropo, e gli Stati Uniti «la-potenza-più-feroce, più-barbara, più-spaventosa-che-il-mondo-abbia-mai-conosciuto». Infatti se mi assegnassero simili parcelle (graziaddio un’eventualità più remota del più remoto Buco Nero dell’Universo), querelerei subito le giurie per calunnia e diffamazione. Al contrario, accetto questo «Annie Taylor» con gratitudine e orgoglio. E pazienza se sopravvaluta troppo le mie virtù. Sì: specialmente come corrispondente di guerra, di salti ne ho fatti parecchi. In Vietnam, ad esempio, sono saltata spesso nelle trincee per evitare mitragliate e mortai. Altrettanto spesso sono saltata dagli elicotteri americani per raggiungere le zone di combattimento. In Bangladesh, anche da un elicottero russo per infilarmi dentro la battaglia di Dacca. Durante le mie interviste coi mascalzoni della Terra (i Khomeini, gli Arafat, i Gheddafi eccetera) non meno spesso sono saltata in donchisciotteschi litigi rischiando seriamente la mia incolumità. E una volta, nell’America Latina, mi sono buttata giù da una finestra per sfuggire agli sbirri che volevano arrestarmi. Però mai, mai, sono saltata sopra le Cascate del Niagara. Né mai lo farei. Troppo rischioso, troppo pericoloso. Ancor più rischioso che palesare la propria indipendenza, essere un dissidente cioè un fuorilegge, in una società che al nemico vende la Patria. Con la patria, la sua cultura e la sua civiltà e la sua dignità. Quindi grazie David Horowitz, Daniel Pipes, Robert Spencer. E credetemi quando dico che questo premio appartiene a voi quanto a me. A tal punto che, quando ho letto che quest’anno avreste premiato la Fallaci, mi sono chiesta: «Non dovrei esser io a premiare loro?». E per contraccambiare il tributo volevo presentarmi con qualche medaglia o qualche trofeo da consegnarvi. Mi presento a mani vuote perché non sapevo, non saprei, dove comprare certa roba. Con le medaglie e i trofei ho un’esigua, davvero esigua, familiarità. E vi dico perché. Anzitutto perché crediamo di vivere in vere democrazie, democrazie sincere e vivaci nonché governate dalla libertà di pensiero e di opinione. Invece viviamo in democrazie deboli e pigre, quindi dominate dal dispotismo e dalla paura. Paura di pensare e, pensando, di raggiungere conclusioni che non corrispondono a quelle dei lacchè del potere. Paura di parlare e, parlando, di dare un giudizio diverso dal giudizio subdolamente imposto da loro. Paura di non essere sufficientemente allineati, obbedienti, servili, e venire scomunicati attraverso l’esilio morale con cui le democrazie deboli e pigre ricattano il cittadino. Paura di essere liberi, insomma. Di prendere rischi, di avere coraggio. «Il segreto della felicità è la libertà. E il segreto della libertà è il coraggio», diceva Pericle. Uno che di queste cose se ne intendeva. (Tolgo la massima dal secondo libro della mia trilogia: La Forza della ragione. E da questo prendo anche il chiarimento che oltre centocinquanta anni fa Alexis de Tocqueville fornì nel suo intramontabile trattato sulla democrazia in America). Nei regimi assolutisti o dittatoriali, scrive Tocqueville, il dispotismo colpisce il corpo. Lo colpisce mettendolo in catene o torturandolo o sopprimendolo in vari modi. Decapitazioni, impiccagioni, lapidazioni, fucilazioni, Inquisizioni eccetera. E così facendo risparmia l’anima che intatta si leva dalla carne straziata e trasforma la vittima in eroe. Nelle democrazie inanimate, invece, nei regimi inertamente democratici, il dispotismo risparmia il corpo e colpisce l’anima. Perché è l’anima che vuole mettere in catene. Torturare, sopprimere. Così alle sue vittime non dice mai ciò che dice nei regimi assolutisti o dittatoriali: «O la pensi come me o muori». Dice: «Scegli. Sei libero di non pensare o di pensare come la penso io. Se non la pensi come la penso io, non ti sopprimerò. Non toccherò il tuo corpo. Non confischerò le tue proprietà. Non violenterò i tuoi diritti politici. Ti permetterò addirittura di votare. Ma non sarai mai votato. Non sarai mai eletto. Non sarai mai seguito e rispettato. Perché ricorrendo alle mie leggi sulla libertà di pensiero e di opinione, io sosterrò che sei impuro. Che sei bugiardo, dissoluto, peccatore, miserabile, malato di mente. E farò di te un fuorilegge, un criminale. Ti condannerò alla Morte Civile, e la gente non ti ascolterà più. Peggio. Per non essere a sua volta puniti, quelli che la pensano come te ti diserteranno». Questo succede, spiega, in quanto nelle democrazie inanimate, nei regimi inertamente democratici, tutto si può dire fuorché la Verità. Perché la Verità ispira paura. Perché, a leggere o udire la verità, i più si arrendono alla paura. E per paura delineano intorno ad essa un cerchio che è proibito oltrepassare. Alzano intorno ad essa un’invisibile ma insormontabile barriera dentro la quale si può soltanto tacere o unirsi al coro. Se il dissidente oltrepassa quella linea, se salta sopra le Cascate del Niagara di quella barriera, la punizione si abbatte su di lui o su di lei con la velocità della luce. E a render possibile tale infamia sono proprio coloro che segretamente la pensano come lui o come lei, ma che per convenienza o viltà o stupidità non alzano la loro voce contro gli anatemi e le persecuzioni. Gli amici, spesso. O i cosiddetti amici. I partner. O i cosiddetti partner. I colleghi. O i cosiddetti colleghi. Per un poco, infatti, si nascondono dietro il cespuglio. Temporeggiano, tengono il piede in due staffe. Ma poi diventano silenziosi e, terrorizzati dai rischi che tale ambiguità comporta, se la svignano. Abbandonano il fuorilegge, il criminale, al di lui o al di lei destino e con il loro silenzio danno la loro approvazione alla Morte Civile. (Qualcosa che io ho esperimentato tutta la vita e specialmente negli ultimi anni. «Non ti posso difendere più» mi disse, due o tre Natali fa, un famoso giornalista italiano che in mia difesa aveva scritto due o tre editoriali. «Perché?» gli chiesi tutta mesta. «Perché la gente non mi parla più. Non mi invita più a cena»). L’altro motivo per cui ho un’esigua familiarità con le medaglie e i trofei sta nel fatto che soprattutto dopo l’11 Settembre l’Europa è diventata una Cascata del Niagara di Maccartismo sostanzialmente identico a quello che afflisse gli Stati Uniti mezzo secolo fa. Sola differenza, il suo colore politico. Mezzo secolo fa era infatti la Sinistra ad essere vittimizzata dal Maccartismo. Oggi è la Sinistra che vittimizza gli altri col suo Maccartismo. Non meno, e a parer mio molto di più, che negli Stati Uniti. Cari miei, nell’Europa d’oggi v’è una nuova Caccia alle Streghe. E sevizia chiunque vada contro corrente. V’è una nuova Inquisizione. E gli eretici li brucia tappandogli o tentando di tappargli la bocca. Eh, sì: anche noi abbiamo i nostri Torquemada. I nostri Ward Churchill, i nostri Noam Chomsky, i nostri Louis Farrakhan, i nostri Michael Moore eccetera. Anche noi siamo infettati dalla piaga contro la quale tutti gli antidoti sembrano inefficaci. La piaga di un risorto nazi-fascismo. Il nazismo islamico e il fascismo autoctono. Portatori di germi, gli educatori cioè i maestri e le maestre che diffondono l’infezione fin dalle scuole elementari e dagli asili dove esporre un Presepe o un Babbo Natale è considerato un «insulto ai bambini Mussulmani». I professori (o le professoresse) che tale infezione la raddoppiano nelle scuole medie e la esasperano nelle università. Attraverso l’indottrinazione quotidiana, il quotidiano lavaggio del cervello, si sa. (La storia delle Crociate, ad esempio, riscritta e falsificata come nel 1984 di Orwell. L’ossequio verso il Corano visto come una religione di pace e misericordia. La reverenza per l’Islam visto come un Faro di Luce paragonato al quale la nostra civiltà è una favilla di sigaretta). E con l’indottrinazione, le manifestazioni politiche. Ovvio. Le marce settarie, i comizi faziosi, gli eccessi fascistoidi. Sapete che fecero, lo scorso ottobre, i giovinastri della Sinistra radicale a Torino? Assaltarono la chiesa rinascimentale del Carmine e ne insozzarono la facciata scrivendoci con lo spray l’insulto «Nazi-Ratzinger» nonché l’avvertimento: «Con le budella dei preti impiccheremo Pisanu». Il nostro Ministro degli Interni. Poi su quella facciata urinarono. (Amabilità che a Firenze, la mia città, non pochi islamici amano esercitare sui sagrati delle basiliche e sui vetusti marmi del Battistero). Infine irruppero dentro la chiesa e, spaventando a morte le vecchine che recitavano il Vespro, fecero scoppiare un petardo vicino all’altare. Tutto ciò alla presenza di poliziotti che non potevano intervenire perché nella città Politically Correct tali imprese sono considerate Libertà di espressione. (A meno che tale libertà non venga esercitata contro le moschee: s’intende). E inutile aggiungere che gli adulti non sono migliori di questi giovinastri. La scorsa settimana, a Marano, popolosa cittadina collocata nella provincia di Napoli, il Sindaco (ex seminarista, ex membro del Partito Comunista Italiano, poi del vivente Partito di Rifondazione Comunista, ed ora membro del Partito dei Comunisti Italiani) annullò tout-court l’ordinanza emessa dal commissario prefettizio per dedicare una strada ai martiri di Nassiriya. Cioè ai diciannove militari italiani che due anni fa i kamikaze uccisero in Iraq. Lo annullò affermando che i diciannove non erano martiri bensì mercenari, e alla strada dette il nome di Arafat. «Via Arafat». Lo fece piazzando una targa che disse: «Yasser Arafat, simbolo dell’Unità (sic) e della Resistenza Palestinese». Poi l’interno del municipio lo tappezzò con gigantesche foto del medesimo, e l’esterno con bandiere palestinesi. La piaga si propaga anche attraverso i giornali, la Tv, la radio. Attraverso i media che per convenienza o viltà o stupidità sono in gran maggioranza islamofili e antioccidentali e antiamericani quanto i maestri, i professori, gli accademici. Che senza alcun rischio di venir criticati o beffati passano sotto silenzio episodi come quelli di Torino o Marano. E in compenso non dimenticano mai di attaccare Israele, leccare i piedi all’Islam. Si propaga anche attraverso le canzoni e le chitarre e i concerti rock e i film, quella piaga. Attraverso uno show-business dove, come i vostri ottusi e presuntuosi e ultra-miliardari giullari di Hollywood, i nostri giullari sostengono il ruolo di buonisti sempre pronti a piangere per gli assassini. Mai per le loro vittime. Si propaga anche attraverso un sistema giudiziario che ha perduto ogni senso della Giustizia, ogni rispetto della giurisdizione. Voglio dire attraverso i tribunali dove, come i vostri magistrati, i nostri magistrati assolvono i terroristi con la stessa facilità con cui assolvono i pedofili. (O li condannano a pene irrisorie). E finalmente si propaga attraverso l’intimidazione della buona gente in buona fede. Voglio dire la gente che per ignoranza o paura subisce quel dispotismo e non comprende che col suo silenzio o la sua sottomissione aiuta il risorto nazi-fascismo a fiorire. Non a caso, quando denuncio queste cose, mi sento davvero come una Cassandra che parla al vento. O come uno dei dimenticati antifascisti che settanta e ottanta anni fa mettevano i ciechi e i sordi in guardia contro una coppia chiamata Mussolini e Hitler. Ma i ciechi restavano ciechi, i sordi restavano sordi, ed entrambi finirono col portar sulla fronte ciò che ne L’Apocalisse chiamo il Marchio della Vergogna. Di conseguenza le mie vere medaglie sono gli insulti, le denigrazioni, gli abusi che ricevo dall’odierno Maccartismo. Dall’odierna Caccia alle Streghe, dall’odierna Inquisizione. I miei trofei, i processi che in Europa subisco per reato di opinione. Un reato ormai travestito coi termini «vilipendio dell’Islam, razzismo o razzismo religioso, xenofobia, istigazione all’odio eccetera». Parentesi: può un Codice Penale processarmi per odio? Può l’odio essere proibito per Legge? L’odio è un sentimento. È una emozione, una reazione, uno stato d’animo. Non un crimine giuridico. Come l’amore, l’odio appartiene alla natura umana. Anzi, alla Vità. È l’opposto dell’amore e quindi, come l’amore, non può essere proibito da un articolo del Codice Penale. Può essere giudicato, sì. Può essere contestato, osteggiato, condannato, sì. Ma soltanto in senso morale. Ad esempio, nel giudizio delle religioni che come la religione cristiana predicano l’amore. Non nel giudizio d’un tribunale che mi garantisce il diritto di amare chi voglio. Perché, se ho il diritto di amare chi voglio, ho anche e devo avere anche il diritto di odiare chi voglio. Incominciando da coloro che odiano me. Sì, io odio i Bin Laden. Odio gli Zarkawi. Odio i kamikaze e le bestie che ci tagliano la testa e ci fanno saltare in aria e martirizzano le loro donne. Odio gli Ward Churchill, i Noam Chomsky, i Louis Farrakhan, i Michael Moore, i complici, i collaborazionisti, i traditori, che ci vendono al nemico. Li odio come odiavo Mussolini e Hitler e Stalin and Company. Li odio come ho sempre odiato ogni assalto alla Libertà, ogni martirio della Libertà. È un mio sacrosanto diritto. E se sbaglio, ditemi perché coloro che odiano me più di quanto io odi loro non sono processati col medesimo atto d’accusa. Voglio dire: ditemi perché questa faccenda dell’Istigazione all’Odio non tocca mai i professionisti dell’odio, i mussulmani che sul concetto dell’odio hanno costruito la loro ideologia. La loro filosofia. La loro teologia. Ditemi perché questa faccenda non tocca mai i loro complici occidentali. Parentesi chiusa, e torniamo ai trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle, la Patrie du Laïcisme, la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité, dove per vilipendio dell’Islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste, dove tre anni fa gli ebrei francesi della LICRA (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica sulla fronte) si unì ai mussulmani francesi del MRAP (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice Penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l’Orgueil o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: «Attenzione! Questo librò può costituire un pericolo per la vostra salute mentale». (Insieme volevano anche intascare un grosso risarcimento danni, naturalmente). Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweitz, la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il Ministro della Giustizia osò chiedere al mio Ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell’Islam viene impartita nel mio paese. (Un paese dove senza alcuna conseguenza legale qualsiasi mussulmano può staccare il crocifisso dai muri di un’aula scolastica o di un ospedale, gettarlo nella spazzatura, dire che il crocifisso «ritrae-un-cadaverino-nudo-inventato-per-spaventare-i-bambini-mussulmani». E sapete chi ha promosso il processo di Bergamo? Uno dei mai processati quindi mai condannati specialisti nel buttare via i crocifissi. L’autore di un sudicio libretto che per molto tempo ha venduto nelle moschee, nei Centri Islamici, nelle librerie sinistrorse d’Italia. Quanto alle minacce contro la mia vita cioè all’irresistibile desiderio che i figli di Allah hanno di tagliarmi la gola o farmi saltare in aria o almeno liquidarmi con un colpo di pistola nella nuca, mi limiterò a dire che specialmente quando sono in Italia devo essere protetta ventiquattro ore su ventiquattro dai Carabinieri. La nostra polizia militare. E, sia pure a fin di bene, questa è una durissima limitazione alla mia libertà personale. Quanto agli insulti, agli anatemi, agli abusi con cui i media europei mi onorano per conto della trista alleanza Sinistra-Islam, ecco alcune delle qualifiche che da quattro anni mi vengono elargite: «Abominevole. Blasfema. Deleteria. Troglodita. Razzista. Retrograda. Ignobile. Degenere. Reazionaria. Abbietta». Come vedete, parole identiche o molto simili a quelle usate da Alexis de Tocqueville quando spiega il dispotismo che mira alla Morte Civile. Nel mio paese quel dispotismo si compiace anche di chiamarmi «Iena», nel distorcere il mio nome da Oriana in «Oriena» e nello sbeffeggiarmi attraverso sardoniche identificazioni con Giovanna d’Arco. «Le bestialità della neo Giovanna d’Arco». «Taci, Giovanna d’Arco». «Ora basta, Giovanna d’Arco».

Scontro di (in)civiltà. Oriana Fallaci: le galline della sinistra in ginocchio dagli islamici. Per gentile concessione dell’erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del «Annie Taylor Award», prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Lo scorso agosto venni ricevuta in udienza privata da Ratzinger, insomma da Papa Benedetto XVI. Un Papa che ama il mio lavoro da quando lesse Lettera a un bambino mai nato e che io rispetto profondamente da quando leggo i suoi intelligentissimi libri. Un Papa, inoltre, col quale mi trovo d’accordo in parecchi casi. Per esempio, quando scrive che l’Occidente ha maturato una sorta di odio contro sé stesso. Che non ama più sé stesso, che ha perso la sua spiritualità e rischia di perdere anche la sua identità. (Esattamente ciò che scrivo io quando scrivo che l’Occidente è malato di un cancro morale e intellettuale. Non a caso ripeto spesso: «Se un Papa e un’atea dicono la stessa cosa, in quella cosa dev’esserci qualcosa di tremendamente vero»). Nuova parentesi. Sono un’atea, sì. Un’atea-cristiana, come sempre chiarisco, ma un’atea. E Papa Ratzinger lo sa molto bene. Ne La Forza della Ragione uso un intero capitolo per spiegare l’apparente paradosso di tale autodefinizione. Ma sapete che cosa dice lui agli atei come me? Dice: «Ok. (L’ok è mio, ovvio). Allora Veluti si Deus daretur. Comportatevi come se Dio esistesse». Parole da cui desumo che nella comunità religiosa vi sono persone più aperte e più acute che in quella laica alla quale appartengo. Talmente aperte ed acute che non tentano nemmeno, non si sognano nemmeno, di salvarmi l’anima cioè di convertirmi. Uno dei motivi per cui sostengo che, vendendosi al teocratico Islam, il laicismo ha perso il treno. È mancato all’appuntamento più importante offertogli dalla Storia e così facendo ha aperto un vuoto, una voragine che soltanto la spiritualità può riempire. Uno dei motivi, inoltre, per cui nella Chiesa d’oggi vedo un inatteso partner, un imprevisto alleato. In Ratzinger, e in chiunque accetti la mia per loro inquietante indipendenza di pensiero e di comportamento, un compagnon-de-route. Ammenoché anche la Chiesa manchi al suo appuntamento con la Storia. Cosa che tuttavia non prevedo. Perché, forse per reazione alle ideologie materialistiche che hanno caratterizzato lo scorso secolo, il secolo dinanzi a noi mi sembra marcato da una inevitabile nostalgia anzi da un inevitabile bisogno di religiosità. E, come la religione, la religiosità finisce sempre col rivelarsi il veicolo più semplice (se non il più facile) per arrivare alla spiritualità. Chiusa la nuova parentesi. E così ci incontrammo, io e questo gentiluomo intelligente. Senza cerimonie, senza formalità, tutti soli nel suo studio di Castel Gandolfo conversammo e l’incontro non-professionale doveva restare segreto. Nella mia ossessione per la privacy, avevo chiesto che così fosse. Ma la voce si diffuse ugualmente. Come una bomba nucleare piombò sulla stampa italiana, e indovina ciò che un petulante idiota con requisiti accademici scrisse su un noto giornale romano di Sinistra. Scrisse che il Papa può vedere quanto vuole «i miserabili, gli empi, i peccatori, i mentalmente malati» come la Fallaci. Perché «il Papa non è una persona perbene». (A dispetto di ogni dizionario e della stessa Accademia della Crusca, il «perbene» scritto "per bene"). Del resto, e sempre pensando a Tocqueville, alla sua invisibile ma insuperabile barriera dentro-la-quale-si-può-soltanto-tacere-o-unirsi-al-coro, non dimentico mai quello che quattro anni fa accadde qui in America. Voglio dire quando l’articolo La Rabbia e l’Orgoglio (non ancora libro) apparve in Italia. E il New York Times scatenò la sua Super Political Correctness con una intera pagina nella quale la corrispondente da Roma mi presentava come «a provocateur» una «provocatrice». Una villana colpevole di calunniare l’Islam... Quando l’articolo divenne libro e apparve qui, ancora peggio. Perché il New York Post mi descrisse, sì, come «La Coscienza d’Europa, l’eccezione in un’epoca dove l’onestà e la chiarezza non sono più considerate preziose virtù». Nelle loro lettere i lettori mi definirono, sì, «il solo intelletto eloquente che l’Europa avesse prodotto dal giorno in cui Winston Churchill pronunciò lo Step by Step cioè il discorso con cui metteva in guardia l’Europa dall’avanzata di Hitler». Ma i giornali e le TV e le radio della Sinistra al Caviale rimasero mute, oppure si unirono alla tesi del New York Times. Tantomeno dimentico ciò che è avvenuto nel mio paese durante questi giorni di novembre 2005. Perché, pubblicato da una casa editrice che nella maggioranza delle quote azionarie appartiene ai miei editori italiani, e da questi vistosamente annunciato sul giornale che consideravo il mio giornale, in un certo senso la mia famiglia, un altro libro anti- Fallaci ora affligge le librerie. Un libro scritto, stavolta, dall’ex vice-direttore del quotidiano che un tempo apparteneva al defunto Partito Comunista. Bé, non l’ho letto. Né lo leggerò. (Esistono almeno sei libri su di me. Quasi tutti, biografie non-autorizzate e piene di bugie offensive nonché di grottesche invenzioni. E non ne ho mai letto uno. Non ho mai neppure gettato lo sguardo sulle loro copertine). Ma so che stavolta il titolo, naturalmente accompagnato dal mio nome che garantisce le vendite, contiene le parole «cattiva maestra». So che la cattiva maestra è ritratta come una sordida reazionaria, una perniciosa guerrafondaia, una mortale portatrice di «Orianismo». E secondo l’ex vice-direttore dell’ex quotidiano ultracomunista, l’Orianismo è un virus. Una malattia, un contagio, nonché un’ossessione, che uccide tutte le vittime contaminate. (Graziaddio, molti milioni di vittime. Soltanto in Italia, la Trilogia ha venduto assai più di quattro milioni di copie in tre anni. E negli altri ventun paesi è un saldo bestseller). Ma questo non è tutto. Perché nei medesimi giorni il sindaco milanese di centro-destra mi incluse nella lista degli Ambrogini: le molto ambite medaglie d’oro che per la festa di Sant’Ambrogio la città di Milano consegna a persone note, o quasi, nel campo della cultura. E quando il mio nome venne inserito, i votanti della Sinistra sferrarono un pandemonio che durò fino alle cinque del mattino. Per tutta la notte, ho saputo, fu come guardare una rissa dentro un pollaio. Le penne volavano, le creste e i bargigli sanguinavano, i coccodè assordavano, e lode al cielo se nessuno finì al Pronto Soccorso. Poi, il giorno dopo, tornarono strillando che il mio Ambrogino avrebbe inquinato il pluriculturalismo e contaminato la festa di Sant’Ambrogio. Che avrebbe dato alla cerimonia del premio un significato anti-islamico, che avrebbe offeso i mussulmani e i premiati della Sinistra. Quest’ultimi minacciarono addirittura di respingere le ambite medaglie d’oro e promisero di inscenare una fiera dimostrazione contro la donna perversa. Infine il leader del Partito di Rifondazione Comunista dichiarò: «Dare l’Ambrogino alla Fallaci è come dare il Premio Nobel della Pace a George W. Bush». Detto questo, onde rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, devo chiarire qualcosa che certo dispiacerà ad alcuni o alla maggioranza di voi. Ecco qua. Io non sono un Conservatore. Non simpatizzo con la Destra più di quanto non simpatizzi con la Sinistra. Sebbene rifiuti ogni classificazione politica, mi considero una rivoluzionaria. Perché la Rivoluzione non significa necessariamente la Presa della Bastiglia o del Palais d’Hiver. E certamente per me non significa i capestri, le ghigliottine, i plotoni di esecuzione, il sangue nelle strade. Per me la Rivoluzione significa dire «No». Significa lottare per quel «No». Attraverso quel «No», cambiare le cose. E di sicuro io dico molti «No». Li ho sempre detti. Di sicuro vi sono molte cose che vorrei cambiare. Cioè non mantenere, non conservare. Una è l’uso e l’abuso della libertà non vista come Libertà ma come licenza, capriccio, vizio. Egoismo, arroganza, irresponsabilità. Un’altra è l’uso e l’abuso della democrazia non vista come il matrimonio giuridico dell’Uguaglianza e della Libertà ma come rozzo e demagogico egualitarismo, insensato diniego del merito, tirannia della maggioranza. (Di nuovo, Alexis de Tocqueville...). Un’altra ancora, la mancanza di autodisciplina, della disciplina senza la quale qualsiasi matrimonio dell’uguaglianza con la libertà si sfascia. Un’altra ancora, il cinico sfruttamento delle parole Fratellanza-Giustizia-Progresso. Un’altra ancora, la nescienza di onore e il tripudio di pusillanimità in cui viviamo ed educhiamo i nostri figli. Tutte miserie che caratterizzano la Destra quanto la Sinistra. Cari miei: se coi suoi spocchiosi tradimenti e le sue smargiassate alla squadrista e i suoi snobismi alla Muscadin e le sue borie alla Nouvel Riche la Sinistra ha disonorato e disonora le grandi battaglie che combatté nel Passato, con le sue nullità e le sue ambiguità e le sue incapacità la Destra non onora certo il ruolo che si vanta di avere. Ergo, i termini Destra e Sinistra sono per me due viete e antiquate espressioni alle quali ricorro solo per abitudine o convenienza verbale. E, come dico ne La Forza della Ragione, in entrambe vedo solo due squadre di calcio che si distinguono per il colore delle magliette indossate dai loro giocatori ma che in sostanza giocano lo stesso gioco. Il gioco di arraffare la palla del Potere. E non il Potere di cui v’è bisogno per governare: il Potere che serve sé stesso. Che esaurisce sé stesso in sé stesso.

Maestra di libertà. Oriana Fallaci e l'Islam: "Diventeremo l'Eurabia. Il nemico è in casa nostra e non vuole dialogare". Per gentile concessione dell'erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del Annie Taylor Award, prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Questo può apparir demagogico, semplicistico, e perfino superficiale: lo so. Ma se analizzate i fatti vedrete che la mia è pura e semplice verità. La verità del bambino che nella fiaba dei Grimm, quando i cortigiani lodano le vesti del re, grida con innocenza: Il re è nudo. Pensateci ragionando sull'attuale tragedia che ci opprime. Perbacco, nessuno può negare che l'invasione islamica dell'Europa sia stata assecondata e sia assecondata dalla Sinistra. E nessuno può negare che tale invasione non avrebbe mai raggiunto il culmine che ha raggiunto se la Destra non avesse fornito alla Sinistra la sua complicità, se la Destra non le avesse dato il imprimatur. Diciamolo una volta per sempre: la Destra non ha mai mosso un dito per impedire o almeno trattenere la crescita dell’invasione islamica. Un solo esempio? Come in molti altri paesi europei, in Italia è il leader della Destra ufficiale che imita la Sinistra nella sua impazienza di concedere il voto agli immigrati senza cittadinanza. E questo in barba al fatto che la nostra Costituzione conceda il voto ai cittadini e basta. Non agli stranieri, agli usurpatori, ai turisti col biglietto di andata senza ritorno. Di conseguenza, non posso essere associata né con la Destra né con la Sinistra. Non posso essere arruolata né dalla Destra né dalla Sinistra. Non posso essere strumentalizzata né della Destra né della Sinistra. (E guai a chi ci prova). E sono profondamente irritata con entrambe. Qualunque sia la loro locazione e nazionalità. Attualmente, per esempio, sono irritata con la Destra americana che spinge i leader europei ad accettare la Turchia come membro dell’Unione Europea. Esattamente ciò che la Sinistra europea vuole da sempre. Ma le vittime dell’invasione islamica, i cittadini europei, non vogliono la Turchia a casa loro. La gente come me non vuole la Turchia a casa sua. E Condoleezza Rice farebbe bene a smetterla di esercitare la sua Realpolitik a nostre spese. Condoleezza è una donna intelligente: nessuno ne dubita. Certo, più intelligente della maggioranza dei suoi colleghi maschi e femmine, sia qui in America che al di là dell’Atlantico. Ma sul paese che per secoli fu l’Impero Ottomano, sulla non-europea Turchia, sulla islamica Turchia, sa o finge di sapere assai poco. E sulla mostruosa calamità che rappresenterebbe l’entrata della Turchia nell’Unione Europea conosce o finge di conoscere ancora meno. Così dico: Ms. Rice, Mr. Bush, signori e signore della Destra americana, se credete tanto in un paese dove le donne hanno spontaneamente rimesso il velo e dove i Diritti Umani vengono quotidianamente ridicolizzati, prendetevelo voi. Chiedete al Congresso di annetterlo agli stati Uniti come Cinquantunesimo Stato e godetevelo voi. Poi concentratevi sull’Iran. Sulla sua lasciva nucleare, sul suo ottuso ex-sequestratore di ostaggi cioè sul suo presidente, e concentratevi sulla sua nazista promessa di cancellare Israele dalle carte geografiche. A rischio di sconfessare l’illimitato rispetto che gli americani vantano nei riguardi di tutte le religioni, devo anche chiarire ciò che segue. Come mai in un Paese dove l’85 per cento dei cittadini dicono di essere Cristiani, così pochi si ribellano all’assurda offensiva che sta avvenendo contro il Natale? Come mai così pochi si oppongono alla demagogia dei radicals che vorrebbero abolire le vacanze di Natale, gli alberi di Natale, le canzoni di Natale, e le stesse espressioni Merry Christmas e Happy Christmas, Buon Natale, eccetera?!? Come mai così pochi protestano quando quei radicals gioiscono come Talebani perché in nome dei laicismo un severo monumento a gloria dei Dieci Comandamenti viene rimosso da una piazza di Birmingham? E come mai anche qui pullulano le iniziative a favore della religione islamica? Come mai, per esempio, a Detroit (la Detroit ultra polacca e ultra cattolica le ordinanze municipali contro i rumori proibiscono il suono delle campane) la minoranza islamica ha ottenuto che i muezzin locali possano assordare il prossimo coi loro Allah-akbar dalle 6 del mattino alle 10 di sera? Come mai in un paese dove la Legge ordina di non esibire i simboli religioni nei luoghi pubblici, non consentirvi preghiere dell’una o dell’altra religione, aziende quali la Dell Computers e la Tyson Foods concedono ai propri dipendenti islamici i loro cortili nonché il tempo per recitare le cinque preghiere? E questo a dispetto del fatto che tali preghiere interrompono quindi inceppano le catene di montaggio? Come mai il nefando professor Ward Churchill non è stato licenziato dall’Università del Colorado per i suoi elogi a Bin Laden e all’11 Settembre, ma il conduttore della Washington radio Michael Graham è stato licenziato per aver detto che dietro il terrorismo islamico v’è la religione islamica? Ed ora lasciatemi concludere questa serata affrontando altri tre punti che considero cruciali. Punto numero uno. Sia a Destra che a Sinistra tutti si focalizzano sul terrorismo. Tutti. Perfino i radicali più radicali. (Cosa che non sorprende perché le condanne verbali del terrorismo sono il loro alibi. Il loro modo di pulire le loro coscienze non pulite). Ma nel terrorismo islamico non vedo l’arma principale della guerra che i figli di Allah ci hanno dichiarato. Nel terrorismo islamico vedo soltanto un aspetto, un volto di quella guerra. Il più visibile, sì. Il più sanguinoso e il più barbaro, ovvio. Eppure, paradossalmente, non il più pernicioso. Non il più catastrofico. Il più pernicioso e il più catastrofico è a parer mio quello religioso. Cioè quello dal quale tutti gli altri aspetti, tutti gli altri volti, derivano. Per incominciare, il volto dell’immigrazione. Cari amici: è l’immigrazione, non il terrorismo, il cavallo di Troia che ha penetrato l’Occidente e trasformato l’Europa in ciò che chiamo Eurabia. È l’immigrazione, non il terrorismo, l’arma su cui contano per conquistarci annientarci distruggerci. L’arma per cui da anni grido: «Troia brucia, Troia brucia». Un’immigrazione che in Europa-Eurabia supera di gran lunga l’allucinante sconfinamento dei messicani che col beneplacito della vostra Sinistra e l’imprimatur della vostra Destra invadono gli Stati Uniti. Soltanto nei venticinque paesi che formano l’Unione Europea, almeno venticinque milioni di musulmani. Cifra che non include i clandestini mai espulsi. A tutt’oggi, altri quindici milioni o più. E data l’irrefrenabile e irresistibile fertilità mussulmana, si calcola che quella cifra si raddoppierà nel 2016. Si triplicherà o quadruplicherà se la Turchia diventerà membro dell’Unione Europea. Non a caso Bernard Lewis profetizza che entro il 2100 tutta l’Europa sarà anche numericamente dominata dai musulmani. E Bassan Tibi, il rappresentante ufficiale del cosiddetto Islam Moderato in Germania, aggiunge: «Il problema non è stabilire se entro il 2100 la stragrande maggioranza o la totalità degli europei sarà mussulmana. In un modo o nell’altro, lo sarà. Il problema è stabilire se l’Islam destinato a dominare l’Europa sarà un Euro-Islam o l’Islam della Svaria». Il che spiega perché non credo nel Dialogo con l’Islam. Perché sostengo che tale dialogo è un monologo. Un soliloquio inventato per calcolo dalla Realpolitik e poi tenuto in vita dalla nostra ingenuità o dalla nostra inconfessata disperazione. Infatti su questo tema dissento profondamente dalla Chiesa Cattolica e da Papa Ratzinger. Più cerco di capire e meno capisco lo sgomentevole errore su cui la sua speranza si basa. Santo Padre: naturalmente anch’io vorrei un mondo dove tutti amano tutti e dove nessuno è nemico di nessuno. Ma il nemico c’è. Lo abbiamo qui, in casa nostra. E non ha nessuna intenzione di dialogare. Né con Lei né con noi. Di Oriana Fallaci.

Montanelli Fallaci, libro a 4 mani. Finì a “ti disprezzo” e “ti credevo migliore”, scrive Riccardo Galli su Blitz Quotidiano. Il titolo lo si sarebbe potuto trovare facilmente e avrebbe potuto, magari, suonare più o meno così: “L’impossibile libro a 4 mani”. E’, anzi era il progetto editoriale targato Rizzoli che poco meno di mezzo secolo fa avrebbe voluto dare i natali ad un libro scritto da due monumenti del giornalismo italiano: Indro Montanelli e Oriana Fallaci. Un progetto naufragato però ancor prima di reificarsi a causa delle personalità delle due “penne”. Personalità a dir poco ingombranti e, di certo, poco disponibili ad una posizione di non protagonista assoluto. Foss’anche nella stesura di un libro. Un progetto abortito e sconosciuto, almeno sino a che Paolo Di Paolo, raccogliendo materiale per un libro su Montanelli, non si è ritrovato tra le mani una lettera della Fallaci. Una lettera in cui la giornalista, da New York, scriveva alla moglie di Montanelli parlandole proprio del libro in questione: “Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra”. Da questo frammento è partita una ricerca che ha svelato la storia, o almeno parte di essa, del libro mai nato. Una storia che Di Paolo racconta sul Corriere della Sera. “Cinque anni prima – agosto 1971 – erano stati (Montanelli e la Fallaci ndr.) sul punto di scrivere un volume a quattro mani, ma il progetto naufragò. Questo libro mai nato rischiava di essere un capo lavoro: provate ad immaginare due penne simili – così sopra la media di chiunque scriva oggi, così brillanti, così feroci e libere – nello stesso spazio editoriale”. “’Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra’ precisa la Fallaci scrivendo alla moglie di Indro, Colette Rosselli, il 7 agosto del ’71,. Mentre lavoravo ad un libro su Montanelli – racconta Di Paolo sul Corriere – ho ritrovato questa curiosa lettera: l’Oriana racconta a Colette di aver tardato ad iniziare il lavoro per una serie di ragioni – una febbre tropicale presa durante un servizio in Asia, la malattia della madre e dello zio Bruno, ma anche una ‘comprensibile paura, una comprensibile timidezza che un po’ per volta mi aveva invaso’”. Da questa traccia si possono quasi immaginare i due, Montanelli e la Fallaci, uno al di qua e una al di là dell’Atlantico, da New York dove viveva, scambiarsi appassionate lettere. Internet, e con lui le e-mail, erano ancora lontani da venire e, per comunicare, i due dovevano per forza di cose ricorrere all’unico sistema allora efficiente: carta e penna. E allora lettere. Lettere in cui la Fallaci confida un pizzico di timore reverenziale alla moglie di quello che comunque, complici i 20 anni di differenza, considera in qualche modo un maestro. E lettere in cui il “maestro” manifesta comunque l’ammirazione per quella che ai suoi occhi è una “ragazzina”, seppur piena di talento. Lettere in cui dalla timidezza si passa alle idee e, rapidamente, allo scontro e alla fine ai veri e propri insulti. Una parabola in cui si possono riconoscere i caratteri dei due che, idee politiche a parte, hanno effettivamente contribuito a fare la storia del giornalismo italiano. La rabbia e l’orgoglio che, prima di divenire il titolo del libro probabilmente più celebre della Fallaci, erano parte integrante e caratterizzante della giornalista. E poi l’indisponibilità ad accettare lezioni da una “ragazzina” e le differenti visioni del mondo e, soprattutto, della Resistenza che Montanelli e che la Fallaci hanno e che saranno alla base della rottura tra i due. Dall’idea di un lavoro fatto insieme infatti a questo si arriva: ad una rottura praticamente definitiva tra i due. Anche se, entrambi, non smetteranno di riconoscere il valore dell’altro. “Ti disprezzo”, scriverà Montanelli. “Ti credevo migliore” le risponderà la Fallaci. Epitaffio di una collaborazione che avrebbe potuto essere magnifica ma che non poteva in realtà essere.

E poi c'è quello che nessuno ha mai detto. L'Oriana Fallaci che visse la storia di Gesù in diretta. "Stampo da mezzo secolo L'Evangelo di Maria Valtorta, 10 volumi. Contiene dettagli inediti che solo una testimone oculare può aver visto", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Immaginate un'Oriana Fallaci al fianco di Gesù, pronta a osservare e a riferire tutto ciò che vede, con una dovizia di particolari da lasciare attoniti; una cronista dalla penna insuperabile, molto più attenta di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, i quattro evangelisti che narrarono la vita del Nazareno in modo succinto o riferendo episodi dei quali non furono testimoni diretti. Quella donna è esistita. Si chiamava Maria Valtorta. La cosa incredibile è che nacque a Caserta il 14 marzo 1897 e morì a Viareggio il 12 ottobre 1961. Ciononostante ha lasciato 122 quaderni di scuola - in tutto 13.193 pagine - compilati in uno stato di ascesi mistica fra il 1943 e il 1947, nei quali descrive per filo e per segno l'infanzia, la predicazione, i miracoli, la passione, la morte, la resurrezione e l'ascensione al cielo del Salvatore, citando luoghi, personaggi e dialoghi che nei Vangeli non compaiono. Ho potuto vedere alcuni di questi quaderni: la grafia, sgorgata da sette penne stilografiche tuttora conservate, è nitida, regolare, senza ombra di correzioni o tremori. Eppure la Valtorta era paraplegica, rimase inchiodata nel letto per 27 anni, fino al decesso, e come scrittoio doveva usare le proprie ginocchia arcuate, che infatti al momento di chiuderla nella bara erano ancora piegate in quella posa innaturale. Emilio Pisani, 79 anni, laureato in giurisprudenza, è da sempre il curatore e l'editore unico dell'opera monumentale ricavata da questi quaderni, L'Evangelo come mi è stato rivelato. Sono 10 volumi, per un totale di 5.000 pagine. Oltre 10 milioni di caratteri. Ciò significa che il racconto valtortiano è 25 volte più lungo dei quattro Vangeli canonici. «Quante copie sono in circolazione? Non lo so, c'è chi dice milioni», si sottrae pudico lo stampatore. Una cosa è certa: dal 1956 a oggi è stato tradotto persino in arabo, cinese, coreano, giapponese, russo, lituano, ucraino, croato, indonesiano, vietnamita, malayalam, tamil, rwandese e swahili. Oltre una trentina di lingue. Pisani, fondatore del Cev, il Centro editoriale valtortiano, va considerato un editore unico anche per il fatto che nessun altro suo collega al mondo ha in catalogo un solo autore. Né mi era mai capitato d'incontrare un editore che arde nel caminetto di casa i manoscritti inediti di questo suo autore. In gioventù Maria Valtorta perse il padre molto presto e così si risolse a scrivere un romanzo autobiografico, Il cuore di una donna, dal quale sperava di ricavare qualche soldo per la famiglia. In realtà non volle mai pubblicarlo e ordinò a Marta Diciotti, la governante-infermiera che la assistette dal 1935 sino alla fine, di distruggerlo. La donna non ebbe però il coraggio di farlo. «Nel 2001, prima di morire, la Diciotti consegnò il testo a me e a mia moglie», rievoca Pisani. «Lo aprimmo soltanto 10 anni più tardi. Erano pagine fittissime. Senza leggere neppure una riga , ci parve giusto bruciarle. Le ceneri le spargemmo qui fuori, nell'aiuola delle rose, che da allora fioriscono ancora più rigogliose». La villetta dei Pisani è nel giardino in cui ha sede la casa editrice, a Isola del Liri. Dal 2012 è più vuota: Claudia Vecchiarelli, insegnante di lettere e traduttrice che aveva aiutato il marito a diffondere il verbo della Valtorta, è morta di tumore. Il suo Emilio, un uomo mite dagli occhi limpidi come l'acqua delle cascate che si ammirano nel paesino della provincia di Frosinone, le ha dedicato un libro, Lettera a Claudia, in cui ripercorre la straordinaria avventura capitata a entrambi. Insieme hanno dato vita alla Fondazione Maria Valtorta Cev onlus, che amministra l'eredità materiale e spirituale della veggente e che ha acquistato dai Servi di Maria la sua casa di Viareggio, ora trasformata in museo. Per testamento sono finiti a loro tutti i documenti autografi della «evangelista», inclusi i famosi quaderni, oggi custoditi a Isola del Liri. Proprio in questi giorni gli italiani Marco Ruopoli e Matteo Ferretti e il mauritano Mor Amar, della cooperativa Sophia di Roma, hanno ultimato di digitalizzarli in alta definizione, per cui presto saranno consultabili in Pdf. Dopodiché gli originali finiranno in un caveau climatizzato, isolati dalla luce e dalla polvere.

Com'è diventato l'editore di Maria Valtorta?

«Cominciai come correttore di bozze con mio padre Michele, che negli anni Venti aveva aperto insieme al cognato Arturo Macioce una tipografia specializzata nella stampa di vite dei santi e trattati di teologia per il Vaticano e gli istituti religiosi. Una copia dell' Evangelo, dattilografata con la carta carbone dal direttore spirituale della Valtorta, il servita padre Romualdo Migliorini, fu data in lettura a Camillo Corsanego, notaio dei conclavi e decano degli avvocati concistoriali per le cause dei santi, il quale, benché sposato e padre di 6 figli, poteva fregiarsi del titolo di monsignore. Un'altra copia andò all'arcivescovo Alfonso Carinci, che era stato insegnante del futuro Pio XII all'Almo Collegio Capranica. Un'altra ancora al famoso endocrinologo Nicola Pende, che rimase impressionato dalla “perizia con cui la Valtorta descrive, nella scena dell'agonia di Gesù sulla croce, una fenomenologia che solo pochi medici consumati saprebbero esporre”. Quando i Servi di Maria chiesero al Sant'Uffizio il permesso di pubblicare il testo, la risposta fu negativa. Al che mio padre, che era stato convocato a Roma per stamparlo, si assunse l'onere di farlo come editore in proprio e nel 1952 firmò il primo contratto di edizione con la Valtorta».

Lei l'ha conosciuta?

«Certo. Andai a trovarla a Viareggio, dove il Venerdì santo del 1943 ebbe la prima rivelazione e il primo dettato».

Fu una visione? O udì una voce?

«Penso a un fenomeno interiore. Diceva di vedere Gesù e Maria accanto a sé e di essere stata fisicamente presente agli episodi narrati nei Vangeli. Leggendo la sua Autobiografia, mi ero convinto che fosse una grande donna. Giaceva nel letto e ripeteva spesso: “Che sole c'è qui!”, anche se fuori pioveva. Era in uno stato di isolamento psichico, come se avesse offerto il suo intelletto a Dio. Non le interessava comunicare con il resto dell'umanità. Quando nel 1956 ebbe fra le mani il primo volume del suo Evangelo che avevamo appena stampato, lo guardò distrattamente e lo appoggiò sulla coperta, come se non le appartenesse».

Che cosa sa della mistica?

«Era la figlia unica di Giuseppe Valtorta, mantovano, ufficiale di cavalleria, e di Iside Fioravanti, cremonese, docente di francese. A 4 anni, nell'asilo delle orsoline a Milano, le sue coetanee erano spaventate da un Cristo deposto dalla croce, raffigurato con crudo verismo nella cappella dell'istituto. Lei, invece, avrebbe voluto aprire l'urna in cui era deposto per mettergli nella mano trafitta dal chiodo il confetto che la nonna le dava ogni mattina accompagnandola a scuola. Studiò nel collegio Bianconi di Monza e nel 1917 entrò nel corpo delle infermiere volontarie che a Firenze curavano i feriti della Grande guerra. Si fidanzò due volte e per due volte sua madre, una donna fredda, dispotica, terribile, le mandò a monte il matrimonio. Nel 1920 fu aggredita per strada da un giovane facinoroso, che le diede una mazzata sui reni gridando: “Abbasso i signori e i militari!”. A causa dell'aggressione, nel 1934 rimase paralizzata dalla cintola in giù».

Ma che ha di speciale L'Evangelo ?

«Introduce personaggi e racconti che nei Vangeli sinottici non appaiono. Giovanni dice solo che Giuda era un ladro. Nell' Evangelo si spiega che rubò del denaro a Giovanna di Cusa, moglie di un intendente di Erode. Lo stesso Giuda si accorge che il Maestro piange dopo aver resuscitato il figlio della vedova di Nain, al quale la Valtorta dà per la prima volta un nome, Daniele. Interrogato dal discepolo traditore sul motivo di quelle lacrime, Gesù risponde: “Penso a mia madre”. L' Evangelo presenta figure sconosciute, come Giovanni di Endor, ex ergastolano, e Sintica, schiava greca assai colta, convertiti al cristianesimo. Per una delazione di Giuda al sinedrio, vengono esiliati ad Antiochia, da dove inviano lettere al Nazareno in cui descrivono la città della Siria con immagini e toponimi che hanno sbalordito lo studioso francese Jean-François Lavère e il mineralogista Vittorio Tredici. Quest'ultimo era di casa in Palestina e annotò come la Valtorta superasse “la normale cognizione geografica o panoramica” facendola diventare “addirittura topografica e più ancora geologica”».

L'autrice potrebbe aver attinto questi particolari in qualche biblioteca.

«E quale, considerato che non era in grado di muoversi? I libri che teneva in casa li ho io e nessuno di essi tratta della città di Seleucia Pieria, o dei monti Casio e Sulpio, o dei colonnati di Erode. Ma la cosa più strabiliante è che la Valtorta riporta in modo minuzioso la pianta e persino il colore rosso delle pareti di un palazzo che Lazzaro di Betania, resuscitato da Gesù a quattro giorni dalla morte, possedeva sulla collina di Sion. Soltanto nel 1983 un'équipe di archeologi diretta dal professor Nahman Avigad della Hebrew University di Gerusalemme ritrovò i resti della dimora, perfettamente corrispondenti alla descrizione fattane dalla mistica 40 anni prima».

Mi sfugge il senso di tanta meticolosaggine narrativa.

«Ma non sfugge a Gesù, che il 25 gennaio 1944 impartì alla Valtorta - è lei a riportarlo - questo comando: “Ricorda di essere scrupolosa al sommo nel ripetere quanto vedi. Anche una inezia ha un valore e non è tua, ma mia. Più sarai attenta ed esatta e più sarà numeroso il numero di coloro che vengono a Me”».

L'Osservatore Romano il 6 gennaio 1960 bollò L'Evangelo come «una vita di Gesù malamente romanzata».

«Inevitabile. Pochi giorni prima, il 16 dicembre 1959, era stato condannato dal Sant'Uffizio. Fu l'ultima opera messa nell' Indice dei libri proibiti, prima che Paolo VI lo abolisse: per non liberare il carcerato, demolirono il carcere. Il tutto a causa di qualche passaggio giudicato scabroso, come il racconto di Aglae, un'ex prostituta che confida a Maria di Nazaret il modo in cui un soldato romano la adescò dopo averla vista nuda».

Però nel 1985 l'allora cardinale Joseph Ratzinger ribadì la condanna.

«Con un distinguo: spiegò che la pubblicazione fu a suo tempo vietata “al fine di neutralizzare i danni che può arrecare ai fedeli più sprovveduti”. Quindi ai fedeli più avveduti non può arrecare danno, non essendovi in essa nulla contro la fede. Il cardinale Dionigi Tettamanzi, quand'era segretario della Cei, avrebbe preteso che inserissi nel colophon una postilla per avvertire i lettori che l'opera non è di origine soprannaturale. Ma chi sono io per arrogarmi questa autorità?».

È vero che Pio XII stimava la Valtorta?

«È vero che lesse l' Evangelo in dattiloscritto e che disse a padre Migliorini: “Pubblicatelo così com'è. Chi legge capirà”. Di sicuro lo capì San Pio da Pietrelcina. La bolognese Rosi Giordani nel 1989 mi scrisse che Elisa Lucchi di Forlì chiese al frate in confessione: “Padre, ho udito parlare dei libri di Maria Valtorta. Mi consigliate di leggerli?”. La risposta fu: “Non te lo consiglio, ma te lo ordino!”».

Ha notato che i veggenti, così numerosi nei secoli scorsi, sono spariti?

«Non sono mai stato né a Lourdes, né a Fatima, né a Medjugorje, pur rispettando chi ci va. Non aggiungerebbero nulla alla mia fede. La Valtorta non ambì mai a farsi conoscere. Il suo Evangelo doveva camminare nel mondo senza essere del mondo; pretese persino che la prima edizione uscisse in forma anonima. Una sola volta lo reclamizzai con un'inserzione a pagamento su Tuttolibri della Stampa: ebbene, nelle settimane seguenti ricevetti un unico ordine, evento mai capitato in precedenza. Come se l'opera rifiutasse la pubblicità».

Sorprendente.

«Le dico di più. Nel 1973 la salma della Valtorta fu esumata a Viareggio per essere traslata a Firenze, nella Basilica della Santissima Annunziata, dove vi è il celebre affresco della Madonna, a lei molto caro, che secondo Pietro Bargellini sarebbe stato completato da un angelo. Il servita Corrado Berti si aspettava un evento straordinario, per esempio il ritrovamento del corpo incorrotto. Invece affiorarono poche ossa, che fecero l'estremo viaggio con me alla guida dell'auto, mia moglie accanto e la governante Marta sul sedile posteriore».

Perché me lo racconta?

«Perché sul letto di morte la Valtorta aveva la mano sinistra già bluastra, mentre la destra, quella con cui aveva scritto L'Evangelo, era ancora rosea, come se fosse viva: nel 1961 fu considerato un segno del cielo. E la vuol sapere una cosa? Le uniche ossa che mancavano quando la disseppellimmo erano proprio quelle della mano destra. Dissolte. Come se la mistica volesse dirci per l'ultima volta: “Non pensate a me. Pensate a Lui”».

NOMEN OMEN: L'ANAGRAFE DEI CRIMINALI.

Nomen omen, l'anagrafe criminale. L'ultimo in ordine di arrivo è "Er Cecato", ma prima di lui ci sono stati "Ciccio Boutique", "Il Corto", "Turi Cachiti", "Il Papa", "Rollò" e tanti altri. Il nostro inviato nelle cose loro racconta come nascono i soprannomi della Mala Italia, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica” IN UNA PICCOLA CITTÀ della Sicilia c'era un uomo che ci faceva molta paura. Eravamo poco più che bambini e alle nostre orecchie arrivavano mostruosi racconti. Dicevano che provava piacere nel rompere ossa umane, si divertiva a spezzare le dita delle mani ai malcapitati che non riuscivano a saldare i conti del pizzo. Quell'uomo vestiva con estrema ricercatezza, aveva dei folti capelli ricci e neri, dietro di sé lasciava una scia molto intensa di lavanda. La pelle del suo viso sembrava finta, di porcellana. Tutti lo chiamavano Bambolina. Questa Bambolina è stata la prima 'nciuria che ho sentito nella mia vita.

'Nciuria in siciliano non vuol dire ingiuria ma è semplicemente il soprannome che si dà a qualcuno per il suo aspetto, una mania, un difetto fisico, per come parla o come cammina, per una vicenda che l'ha visto fortunato o sfortunato protagonista, per la sua attività lavorativa, per un segno caratteriale e anche perché il padre e pure il nonno erano conosciuti in quel modo. Se in Sicilia, come altrove in Italia, e soprattutto nelle piccole comunità -  il più delle volte malignamente e solo in rari casi con benevolenza -  ad alcuni appiccicano la loro 'nciuria, negli ambienti mafiosi c'è addirittura un'anagrafe parallela a quella ufficiale. Sono moltissimi (per non dire quasi tutti) quelli che l'hanno cucita addosso come un marchio. Serve a cancellare un'identità per costruirne un'altra, rafforza il potere nel gruppo, rende unico -  e non uno dei tanti -  il portatore di quel soprannome. Nei miei taccuini ho sempre annotato le 'nciurie dei farabutti o dei loro compari che ho conosciuto o di cui ho scritto fra la Sicilia e la Calabria (di altri ho ricevuto preziose segnalazioni da amici e colleghi sparsi fra la Campania, la Puglia e Roma) e così mi sono ritrovato in archivio una speciale piccola mappa criminale. Dentro ci sono vecchi e nuovi personaggi della mala Italia, noti e meno noti che si sono conquistati il loro soprannome "sul campo di battaglia" o l'hanno preso in prestito più recentemente da personaggi della tivù, del cinema, dei fumetti e anche del calcio. Una carrellata di 'nciurie in ordine sparso, ovvero il talento del nominare.

Mangialasagna. Assessore regionale ai Lavori pubblici della Regione siciliana in governi di centrosinistra e di centrodestra, fra il 1996 e il 2001. Ex sindaco di Canicattì, Vincenzo Lo Giudice prima e dopo una condanna per mafia è sempre stato considerato un "manciatario". Gli piaceva mangiare. In tutti i sensi.

Totò Batteria. Gela è terra di nessuno, siamo a metà degli anni Ottanta e nelle strade si spara di giorno e di notte. Cade anche Salvatore Lauretta. Prima di prendersi una fucilata in faccia gli avevano aperto il petto per inserirgli un pacemaker. La piazza ha fatto uno più uno.

Culu musciu. Fa l'imprenditore ed è legato alle famiglie di 'Ndrangheta di Isola Capo Rizzuto, in particolare agli Arena. Uomo molto sedentario Franco Pugliese, le conseguenze della sua pigrizia si notano soprattutto dietro.

Milinciana. Melanzana, per il colore molto scuro della sua pelle tendente al violaceo. Filippo Marchese, boss di Corso dei Mille che torturava i suoi nemici in quel magazzino di Sant'Erasmo che è diventata la "camera della morte" di Palermo.

Carognetta. Cattivo ma -  stando ai racconti dei suoi fedelissimi -  non cattivissimo. Quindi Carmine Montescuro, camorrista napoletano, solo carognetta.

U' Babbu. All'anagrafe Salvatore Pesce. Quello ritenuto più tonto -  appunto babbu -  fra quattro fratelli, tutti mammasantissima della Piana di Gioia Tauro.

Babbu funnuto. Completamente scemo o scemo fuso, come i motori delle automobili. Un po' perché Pasquale Dimora -  imparentato con i Caruana e i Cuntrera, sul loro impero criminale non tramontava mai il sole -  ogni estate tornava nella sua Sicilia, a Siculiana, accompagnato da due bagasce belghe (disdicevole nei circoli mafiosi più ortodossi), un po' perché aveva un cuore molto malato.

Tè tè. Espressione dialettale barese che indica colui che parla troppo. E infatti Antonio Diomede, per quel suo vizietto è stato fatto sparire. Il suo corpo non è stato mai più ritrovato.

Ciccio Boutique. Francesco Strangio, a capo di una 'ndrina coinvolta nella strage di Duisburg del Ferragosto del 2007. Ha sempre avuti interessi in negozi di abbigliamento.

U' Patri Nostru. Medico condotto, direttore sanitario dell'Ospedale dei Bianchi, presidente dell'Associazione coltivatori diretti, fiduciario del Consorzio Agrario. E capomafia. Negli anni '50 Michele Navarra era tutto a Corleone. Come il Padre Nostro.

Er Cecato. Quello che si definiva con boria "l'ultimo re di Roma", per troppa presunzione (e per merito di magistrati e investigatori non dormienti come i loro predecessori) fra il dicembre 2014 e il giugno 2015 ha trascinato nei bracci del 41 bis capi clan rossi, neri e verdi. Mafia Capitale comincia con lui, Massimo Carminati, il personaggio che ha ispirato Romanzo Criminale e che più di una trentina di anni fa ha perso l'occhio sinistro durante una sparatoria.

Coriolano della Floresta. È il protagonista di un famoso romanzo di Luigi Natoli alias William Galt, l'autore dei Beati Paoli, opera nelle cui pagine si respira lo "spirito della mafia". E il cavalleresco Blasco di Castiglione, il misteriosissimo Coriolano della Floresta, capo degli incappucciati di quella setta dei "vendicosi" che terrorizzava i nobili nella Palermo settecentesca, è stato per lungo tempo anche Totuccio Contorno, sicario di fiducia dei Bontate e degli Inzerillo.

Celentano. Alessandro Marcianò, capo sala all'ospedale di Locri e mandante dell'omicidio del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno. Per la sua somiglianza al Molleggiato.

Girogola. Troppo grossa e troppo luccicante per passare inosservata la catena d'oro che ha sempre esibito Nicola Telegrafo, affiliato al clan Strisciuglio del quartiere Libertà di Bari.

U' Curtu. La spiegazione la dà lui stesso: "Io sono alto 1,61 nella tessera, misurato l'altro giorno al carcere sono 1,59. Se uno dice di conoscermi e poi sbaglia dieci, quindici o sedici centimetri, queste sono accuse infamanti, tragedianti, accuse fuori dal normale. Quindici centimetri per un uomo è come un metro. Scusasse presidente se mi alzo, ecco quanto è alto Salvatore Riina".

U' Tratturi. Dove passava lui -  alla faccia della sua politica criminale di inabissamento e all'intelligenza strategica attribuita a Bernardo Provenzano -  non restava più niente. Ogni volta che lo vedevano, da lontano sussurravano: "Spara come un dio ma ha il cervello di una gallina".

'A Puttana. Così i boss del clan dei Casalesi Francesco Schiavone e Francesco Bidognetti parlavano di Giuseppe Setola, un "collega" che a loro non ispirava molta fiducia.

Ciccio la Busta. Francesco Prudentino era uno dei contrabbandieri più ricchi della Puglia, viveva come una pascià a Budva, nel Montenegro. Prima di diventare il "re delle bionde" e avere al suo servizio il capo della polizia di Bar, Vaso Baosic, gestiva una pescheria a Ostuni dove infilava nelle buste di plastica orate e saraghi.

Manuzza. Cadendo da un trattore, si è fratturato una mano che non è più tornata a posto. Antonino Giuffrè, prima vice di Provenzano e poi pentito, è inevitabilmente diventato manuzza.

Turi Cachiti. Incontri Turi Pillera e te la fai addosso. Così andavano le cose durante la guerra di mafia a Catania trent'anni fa.

U' Tiradrittu. È sempre stato abile nel maneggiare la pistola Giuseppe Morabito, capo dei capi di Africo, mafia della costa ionica. Un'ottima mira.

Il Vampiro. Prima di finire imputato al maxi processo e rinchiuso all'Ucciardone, Alessandro Bronzini usciva solo di notte.

Cannarozzu d'argentu. In siciliano il cannarozzo è la gola e alla gola Giuseppe Calderone aveva subìto un'operazione che gli aveva leso le corde vocali. Parlava con un apparecchio che rendeva la sua voce metallica. Questa menomazione non gli ha impedito di diventare però il capo della Commissione regionale di Cosa Nostra, fin quando è arrivato Totò Riina e l'ha fatto fuori.

Gambazza. Boss di San Luca deceduto nel 2009, Antonio Pelle era inteso così per via di una ferita alla gamba che lo aveva reso claudicante. L'' nciuria è stata poi ereditata dai suoi figli.

U' Verru. Cioè il porco: Giovanni Brusca, l'assassino di Giovanni Falcone e del piccolo Giuseppe Di Matteo.

'O Copertone. Dai pneumatici che si bruciano nelle discariche. Ma Vincenzo Schiavone, sicario di camorra, insieme alla gomma dava fuoco anche alle sue vittime.

Il Papa. Fra le sue mani stringeva sempre un Vangelo e due breviari, nella sua cella recitava i salmi, la lode mattutina, dell'ora terza, della nona, i vespri e la compieta che è la preghiera della notte. Michele Greco, mafioso della borgata di Ciaculli, diceva di sé: "Mi chiamano il Papa ma io non posso paragonarmi ai Papi per intelligenza, per cultura e per dottrina. Per la mia coscienza serena e per la profondità della mia fede posso anche sentirmi pari a loro, se non superiore ".

Il senatore. Salvatore Greco, fratello di Michele. Aveva relazioni politiche di alto livello, a Roma.

Il sindaco. Boss del quartiere Ponticelli di Napoli, Ciro Sarno decideva chi poteva o chi non poteva occupare una casa popolare dopo il terremoto dell'Irpinia.

Zio Paperone. Enrico Colucci, contrabbandiere brindisino, trasportava montagne e montagne di soldi nascosti in sacchi neri della spazzatura.

Lo Sciancato. Il primo macellaio del clan dei Corleonesi, Luciano Liggio, zoppicava a causa del morbo di Pott che affliggeva la sua colonna vertebrale.

Rollò. Come quei dolci di ricotta siciliani avvolti nel pan di spagna che fa le pieghe. Proprio come quelle del grande ventre di Giuseppe Orilia, estorsore di Brancaccio, Palermo.

Buriani. Come Ruben, calciatore biondissimo che nel campionato 1978/79 ha vinto con il Milan lo scudetto della stella. Sembrava il suo sosia Vito De Antonis, mafiosetto che seminava il terrore nei vicoli di Bari Vecchia.

Diabolik. Ce ne sono due. Il più famoso è l'ultimo latitante di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, ricercato dal giugno 1993 per la strage ai Georgofili e le bombe di Milano e Roma. Il più tifoso è invece Fabrizio Piscitelli, capo ultras della Lazio che governava i traffici di Roma Nord. Entrambi innamorati del celebre criminale a fumetti.

Madre Natura. Gli uomini d'onore di Brancaccio s'inchinavano davanti a Giuseppe Graviano, il capo della loro famiglia e origine di loro stessi.

U' Ballerinu. A Marcello Pesce, mafioso di Rosarno, Calabria, sono sempre piaciute le discoteche.

U' Signurinu. Pietro Aglieri, ex seminarista che teorizzava la "dissociazione morbida " per salvare Cosa Nostra dalla sua scomparsa, ci ha sempre tenuto a vestire bene.

U' Dutturi. "Bastano una cucina, un paio di bacinelle d'acciaio, un po' di fuoco e ci vuole anche aria... e questo è tutto". Così comunicò un giorno ai boss di Palermo che volevano sapere come si lavorava la "pasta" per trasformare la morfina base in eroina. E da quel momento Nino Vernengo diventò il dottore.

U' Prufissuri. Insegnante di scuola media, Leoluca Di Miceli sembrava destinato a grandi cose dentro la mafia di Corleone. Ma poi non ha fatto carriera, correva troppo dietro alle donne degli altri. Commento dei padrini: "Peccato: ragiona più con la testa di sotto che con quella di sopra".

Ciccio Spara Spara. Ladro del quartiere palermitano del Borgo Vecchio, ogni volta che s'infuriava tirava fuori la pistola. Ma non ha mai ferito o ammazzato nessuno. E per questo non facciamo il suo vero nome.

Al Cafone. È un potente di Sicilia sottoposto a segretissime indagini antimafia. Arrogante e grossier.

E poi ci sono anche Chiù Chiù e Scintilluni, Scarpa e Scarpazzedda, Pavesino e Plasmon, Maciste, Cappottino e Cappottone, Sandokan, Bingo, La Dama, Kit Kat e U' Cicchiteddu, Folonari, La Luna, 'O Talebano, Faccia d'Angelo, Cicciobello e tanti, tanti altri ancora.

CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA: IL REATO CHE NON C’E’.

Concorso esterno in associazione mafiosa: il reato che "non c'è". La sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo su Bruno Contrada riapre la questione sul reato formulato solo su un "combinato disposto", scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. È da 30 anni che l’Italia si divide sul «concorso esterno in associazione mafiosa», il reato che non esiste. Non esiste perché nel Codice penale ci sono soltanto l’art. 416 bis, associazione mafiosa, e l'art. 110, concorso nel reato. Abbinandoli tra loro, con quello che i tecnici del diritto chiamano «combinato disposto», alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso la giurisprudenza ha creato e via via definito la figura criminosa del concorso esterno mafioso. Ma è sempre mancato il passaggio legislativo, democratico e chiarificatore, l’unico che avrebbe potuto stabilire tassativamente che cosa s’intenda per quel reato. Che così continua a non esistere. Già nel 1987 Giovanni Falcone, alla fine del maxiprocesso ter a Cosa nostra, sottolineava la necessità di una «tipizzazione» capace di reprimere le condotte grigie che indicava come "fiancheggiamento, collusione, contiguità". I magistrati però hanno continuato a fare un uso pieno e disinvolto del reato-che-non-esiste. Spesso nei confronti di politici di primissimo piano (da Giulio Andreotti a Giacomo Mancini, da Silvio Berlusconi a Calogero Mannino, da Marcello Dell’Utri a Renato Schifani…), suscitando ogni volta il dubbio che proprio l’ambiguità della formulazione fosse funzionale a un uso di parte. Malgrado le infinite polemiche, il Parlamento non ha mai fatto nulla. È vero che nel corso degli anni alcuni deputati e senatori, di destra e di sinistra, hanno presentato specifiche proposte di legge. Ma nessuna ha mai visto nemmeno l’avvio di un iter di approvazione. La lacuna è grave e oggi è resa ancora più evidente dalla sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo, il 14 aprile, ha stabilito che l’ex superpoliziotto Bruno Contrada, condannato nel 2007 per concorso esterno, non meritasse quel trattamento in quanto all’epoca dei fatti che gli furono contestati, tra 1979 e 1988, il reato non era «sufficientemente chiaro». Secondo la Cedu lo sarebbe divenuto soltanto dopo una famosa sentenza della Cassazione, pronunciata a sezioni unite il 5 ottobre 1994 (altre due sono venute dopo, nel 2002 e nel 2005, con qualche contraddizione), che per prima ha stabilito una prima tipizzazione coerente. Questo, è evidente, apre la strada a una nuova richiesta di revisione del processo per Contrada (i suoi avvocati ne hanno già tentate tre) e invita molti altri a fare ricorso a Strasburgo: a partire da Dell’Utri, condannato a 7 anni di carcere e recluso dal giugno 2014 per reati risalenti al periodo 1974-1992. Certo, i tempi della giustizia europea sono lunghi: il ricorso di Contrada era stato presentato nel luglio 2008 e iscritto a ruolo nel 2013. Per avere giustizia gli sono serviti quasi sette anni. Intanto la politica, che dovrebbe colmare la lacuna, continua a tacere. E anche quando non tace viene zittita malamente dalla magistratura sindacalizzata, che evidentemente ha interesse a conservare le mani libere. Nel giugno 2001 Giuliano Pisapia, allora deputato di Rifondazione, aveva presentato una proposta che introduceva nel Codice un art. 378 bis, che puniva con una pena da tre a cinque anni chi "favorisce consapevolmente con la sua condotta un’associazione di tipo mafioso o ne agevola in modo occasionale l’attività". Semplice, efficace, pulita. E ovviamente azzoppata. È stata ripresentata tale e quale nella scorsa legislatura da tre deputati di Forza Italia: ancora una volta, nulla. Nel marzo 2013 ci ha riprovato Luigi Compagna, senatore di centrodestra, riducendo la previsione di pena da uno a cinque anni. Ma il presidente Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia, ha dichiarato che quella proposta era "una vergogna" e "una fuga in avanti inopportuna". È stata ritirata.

Chi danneggia e chi favorisce il “concorso esterno”. La mafia non fu all’origine di Forza Italia, Forza Italia non fu all’origine della mafia. Quanto si è fantasticato, scritto, ipotizzato sugli abbracci tentacolari tra il partito di Silvio Berlusconi e la mafia made in Sicily. La “zona grigia”, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. La mafia non fu all’origine di Forza Italia, Forza Italia non fu all’origine della mafia. Quanto si è fantasticato, scritto, ipotizzato sugli abbracci tentacolari tra il partito di Silvio Berlusconi e la mafia made in Sicily. La “zona grigia”, che certo esiste in alcune realtà del Belpaese (perché nasconderselo?), è diventata un burrone infernale e ha fagocitato i principi basilari della democrazia e del diritto. 
A Firenze durante il processo al boss Francesco Tagliavia apprendiamo che la creatura berlusconiana non ha nulla a che fare con le stragi mafiose del ’93. Le rivelazioni dei pentiti? Prive di riscontri fattuali. E’ passato il tempo degli Spatuzza, Ciancimino jr non si aggira più per i salotti televisivi, e Santoro lo rimpiange. Sia chiaro: le stragi del ’92 e del ’93 non sono state cancellate, ci sono persone che hanno pagato con la vita. Tuttavia le risposte vanno cercate altrove, non nel debutto politico del Cavaliere. In che modo la “zona grigia” si è trasformata in un burrone infernale? La degenerazione è stata graduale, la macchina del fango con la stampa tambureggiante al ritmo delle procure d’assalto ha messo a punto l’epicedio della giustizia. Nella santa crociata contro la mafia le regole sono diventate orpelli ingombranti, un intralcio sul sentiero della lotta. Le garanzie degli imputati? Alle ortiche, basta formalismi, eppure nel diritto la forma è sostanza. Nella requisitoria sul caso Dell’Utri il procuratore generale della Cassazione Francesco Iacoviello afferma: “C’è un capo di imputazione che riempie quasi una pagina […]. Lì dentro non c’è il fatto per cui l’imputato è stato condannato. Quell’imputazione è un fiore artificiale in un vaso senza acqua”. Una condanna a sette anni fondata sulle dichiarazioni dei pentiti, che, a detta dello stesso Iacoviello, i magistrati di merito hanno preso per vere senza uno straccio di prova, per un atto di fede cristiana. Quello che dicono i pentiti dunque è oro colato, e di pentitismo si nutre quel mostro giuridico che è “il concorso esterno in associazione mafiosa”, l’etichetta perfetta per incastrare qualcuno. Dell’Utri non sarà forse uno stinco di santo, ma non può essere “incastrato” per mezzo di un’ingiustizia. Se ci sono dei fatti in base ai quali è possibile imputargli condotte criminose, di quelli egli deve rispondere, non delle illazioni mosse dalla smania di “fare piazza pulita”. La giustizia non tende agguati. Il giudice indossa la toga, non la divisa. Se Falcone e Borsellino fossero ancora vivi, chissà che cosa direbbero di una tale macroscopica deriva poliziesca. Noi non pretendiamo di saperlo, Ingroia purtroppo sì. Quel che è certo è che in un Paese di civil law come il nostro il concorso esterno rimane l’unico reato di natura giurisprudenziale. E’ un reato impossibile, “cui ormai non crede più nessuno”, parola di Iacoviello. Dell’associazione mafiosa o sei parte oppure no. Se non sei parte puoi essere ritenuto responsabile di singoli fatti (favoreggiamento, riciclaggio…), non di una ragnatela di relazioni, sul piano giuridico “farsela con la mafia” non significa nulla. La verità è un’altra: il “concorso esterno” serve, serve a colmare la lacuna dei fatti, a trovare riscontro alle parole dei pentiti che spesso non trovano riscontro. Il ricorso abnorme a questo capo d’imputazione ebbe inizio subito dopo la morte dei due magistrati siciliani per iniziativa della procura di Palermo che da allora in poi si andò specializzando nella scienza dei rapporti tra mafia e politica con una serie di indagini conclusesi perlopiù con un buco nell’acqua. Il concorso esterno, cari signori, va ben oltre dell’Utri, Cosentino e Berlusconi. Il procuratore Iacoviello parla in nome del diritto bistrattato e ucciso nel Paese dei Beccaria e dei Carra. L’Europa ci ha condannato a più riprese non per il carcere duro in sé, ma per il fine che abbiamo subdolamente assegnato al regime del 41bis, l’induzione al pentitismo. Sotto tortura, capite bene, i pentimenti fioccano, i programmi di protezione si moltiplicano…e poi i processi sfumano.

Tortura è reato. Ma il 41 bis è tortura, scrive Antonietta Denicolo, Componente della Giunta dell’Unione Camere penali, su "Il Garantista". Dopo il plauso, con diversi toni espresso per salutare l’ingresso, seppur tardivo, del reato di tortura nel nostro ordinamento, la dovuta attenzione alla tutela dei diritti di ogni singolo cittadino ed il doveroso sguardo d’insieme delle disposizioni tanto codificate, quanto normative in genere, impone a noi, operatori di diritto, di interrogarci, con laica serenità, in punto alla coesistenza nel nostro sistema del neonato reato di tortura con il mantenimento e la frequente applicazione del regime custodiale disciplinato dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Regime (il 41 bis) al quale vengono indifferentemente sottoposti tanto i soggetti condannati in via definitiva, quanto chi soffre la carcerazione cautelare. L’Unione delle Camere Penali da anni è attiva nella battaglia di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’esistenza di questo particolare regime, che previsto dal legislatore come strumento assolutamente eccezionale ed applicabile solo in relazione alla necessità di contenimento delle condotte criminali più efferate, esplicate nel contesto di associazioni di stampo mafioso, di fatto si è diffuso e si diffonde in modo spesso apodittico, e per ciò particolarmente inaccettabile. Proprio il regime al quale ex 41 bis il detenuto è sottoposto per decretazione ministeriale palesa una mistificazione della volontà di arginare le condotte lesive per la collettività con una concreta e reale tortura psicologica nei confronti del ristretto, che nulla ha a che vedere con le esigenze di tutela dei cittadini rispetto al crimine organizzato. Ammesso per ipotesi che la censura della corrispondenza, la registrazione audio-video dei colloqui del ristretto con i familiari, e le forme di restrizione idonee ad arginare la possibilità di contatto tra soggetti appartenenti alla medesima organizzazione possano astrattamente apparire tutele adeguate rispetto alla potenziale pervasività delle condotte dei soggetti inseriti in consorterie di stampo mafioso, l’adduzione di limiti obiettivamente inspiegabili trasforma la cautela in una sorta di tortura. Non si comprende perché chi è sottoposto a regime di 41-bis abbia diritto di incontrare i propri familiari solo per un’ora al mese ed in giornate preordinate e rigidamente calendarizzate. Così, se per ipotesi il mercoledì 24 di un certo mese la moglie non può fare visita al marito, il diritto di visita per quel mese “salta”, né può essere recuperato nel primo mercoledì successivo disponibile, ma dovrà collocarsi nel mese successivo in un mercoledì contiguo alla data del 24, di modo che il ristretto subirà l’assenza di contatto con i familiari non più e non solo per un mese, ma addirittura per due. Si tenga ancora conto che se chi è ristretto in regime di 41 bis ha figli in età pre adolescenziale può vivere il contatto fisico con il minore solo per dieci minuti al mese e nel contesto di quel colloquio di un’ora cui sopra si accennava, colloquio che con i parenti viene appunto gestito attraverso una parete trasparente a chiusura ermetica. Anche di fronte a questa osservazione, solo apparentemente banale, ci si chiede: è la limitazione del contatto fisico con un figlio ciò che tutela la collettività, o piuttosto in questa limitazione va letta un’afflizione aggiuntiva alla pena? Ma quando ad afflizione si aggiunge afflizione, e soprattutto quando le stesse sono smaccatamente immotivate, la pena inverte il suo ruolo istituzionale in quello di tortura. Sull’argomento relativo all’afflittività sproporzionata della pena e sui danni che comporta si è recentemente diffuso anche il Pontefice. A noi tecnicamente residua dire che quella inflitta con il regime di 41 bis O.P. è tortura nel senso pieno ed etimologico del termine: è sottoposizione del soggetto ad un male psicologico e morale così intenso, e così in grado di incidere, probabilmente in modo indelebile, sulla sua personalità – circostanza questa per la quale l’Italia sul punto è stata censurata oltre che dalla datata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche dal recente report del 19 novembre 2013 relativo alla visita effettuata in Italia dal Comitato europeo per la prevenzione e la tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti – non certamente giustificato dal diritto dello Stato di decontestualizzare il soggetto dall’ambiente criminale, ma smaccatamente proiettato a sollecitare la sua collaborazione con la giustizia. E se il principio di massima, con la censura che ne consegue, appare grave ed intollerabile nei confronti di ogni detenuto, maggiori e più inquietanti perplessità desta la prassi in via di consolidamento di collocazione in regime di 41 bis dei soggetti solo indagati, e per ciò colpiti da ordini di custodia cautelare. Ci siamo chiesti quale sia il limite di liceità etica che consente di violentare il nostro sistema, il principio costituzionale di presunzione d’innocenza sino all’intervento delle sentenze definitive di condanna, piuttosto che il diritto al silenzio negli interrogatori, sino a consentirci di inserire nei corpi di detenzione del cosiddetto “carcere duro” i cautelati in attesa di giudizio. Forse l’idea è preconcetta, ma la saggezza popolare insegna che a pensare male si fa peccato ma non sempre si sbaglia: la decretazione ministeriale che in modo apodittico colloca gli indagati in regime di 41 bis O.P. è la legittimazione di una forma di tortura. Un sistema civile, se da un lato non può che tollerare il fenomeno del cosiddetto pentitismo riconnettendolo al perseguimento dei fini di giustizia, dall’altro non può abbassarsi a torturare l’indagato con vessazioni morali del tipo di quelle accennate. L’inserimento e la debordante applicazione del regime di 41 bis agli indagati nei processi che seguono le regole del cosiddetto doppio binario (ovvero di deroghe procedurali applicate solo ad una determinata tipologia di processi) trasforma in una forma di tortura la custodia cautelare, getta una luce livida e sinistra sulla deroga alle garanzie costituzionali e trasforma il processo secondo il doppio binario in una sorta di binario 21, dal quale vorremmo che nessun treno fosse mai partito nel 1943 e dal quale pretendiamo oggi che nessun convoglio più si diriga per addentrarsi in un mondo in cui la valutazione preconcetta ed acritica condizionano l’esistenza di un uomo prima dell’intervento di una sentenza che, attraverso un giusto processo, abbia conclamato o escluso la sua responsabilità.

L’ATTENTATO A CARLO PALERMO.

L'attentato a Carlo Palermo. Margherita e il giudice sopravvissuti alla mafia. Trent'anni fa le cosche mirarono al magistrato Carlo Palermo. L'autobomba uccise una donna e i suoi bambini. Ora la figlia più grande racconta quella tragedia, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”.  Ci sono alcune storie che porto dentro, che percepisco come zavorra, come se mi intasassero il respiro, eppure sono memoria necessaria, perché dimenticare significherebbe perdersi. Quella zavorra e quel peso sono pilastro e la radice della mia vita. Sono storie che tendono a essere dimenticate per istinto di conservazione; è come dimenticare la guerra, lasciar perdere il dolore, far finta che tutto sia superato. E Sola con te in un futuro aprile di Margherita Asta e Michela Gargiulo (Fandango) racconta una storia da dimenticare, una storia preziosa. È il 2 aprile di trent’anni fa, Carlo Palermo è arrivato in Sicilia da quaranta giorni. A Trapani aveva preso il posto di un magistrato coraggioso ucciso dalla mafia, Giangiacomo Ciaccio Montalto. Due macchine della scorta parcheggiano davanti al cancello di una villetta vicino a Bonagia, a 3 chilometri di distanza dalla casa della famiglia Asta. Il giudice vive lì da appena una settimana, prima alloggiava all'interno di un aeroporto militare, a Birgi, che aveva dovuto lasciare da un giorno all'altro proprio quando le minacce contro di lui si erano fatte più concrete. La sua stanza, gli dissero, sarebbe servita al ministro della Difesa Spadolini, in visita alla base. Si mise a cercare una nuova sistemazione, ma nessuno voleva affittare la propria casa a una persona scortata e sotto minaccia. L'unico posto che riuscì a trovare era in un complesso residenziale abitato solo d'estate. C'era un giardino e finalmente avrebbe potuto tenere con sé i suoi cani, ma per arrivare in tribunale doveva percorrere sempre la stessa strada, senza possibilità di variare il percorso. Inoltre, per avere rapporti di buon vicinato era stata data disposizione alle auto di scorta di non mettere in funzione le sirene. In quel contesto arriva l'ultima telefonata di minacce che era stata ancora più esplicita e definitiva: "Dite al giudice che il regalo sta per essergli recapitato". Carlo Palermo, la mattina del 2 aprile 1985 scende di casa alle 8 e qualche minuto per andare al Tribunale di Trapani. Normalmente sale dal lato destro dell'auto, ma quella mattina per fare in fretta il suo autista, Rosario Maggio, parcheggia troppo vicino al muro. Quel giorno il giudice si accomoda dietro il sedile di guida. Prova a bloccare lo sportello, ma la sicura non funziona. Sul rettilineo di contrada Pizzolungo la macchina trova davanti a sé un'altra auto, una Volkswagen Scirocco, dentro ci sono Barbara Rizzo, giovane madre di 31 anni, e due dei suoi tre figli, i gemellini Salvatore e Giuseppe di 6 anni. Sta accompagnando i piccoli a scuola. L'autista del giudice aspetta il momento giusto per iniziare il sorpasso; c'è un'altra auto ferma, parcheggiata vicino a un muro di contenimento, che non ostacola la manovra. Le tre auto, per un unico istante, si trovano perfettamente allineate. È in quel preciso momento che viene azionato il detonatore. L'esplosione è devastante. Una bomba fatta di tritolo, T4, pentrite e Semtex, un esplosivo militare utilizzato per potenziare l'innesco. (Vengono utilizzati candelotti di brixia b5, lo stesso tipo di esplosivo del fallito attentato all'Addaura contro Giovanni Falcone e della strage avvenuta neanche quattro mesi prima, il 23 dicembre 1984, quella del rapido 904). L'utilitaria fa scudo all'auto del sostituto procuratore che si ritrova scaraventato fuori dalla macchina, in piedi, ferito ma miracolosamente vivo. Muoiono dilaniati la donna e i due bambini. Di loro restano pochi brandelli ritrovati poi a oltre cento metri dal luogo dell'esplosione. In alto, su di un muro, una macchia rossa di sangue, l'impronta terribile lasciata dal corpo di uno dei due bambini. Il botto è fortissimo, si sente fino in città. Nunzio Asta, il marito di Barbara e padre dei due bambini, è ancora a casa in quel momento. In quei giorni va a lavoro un po' più tardi, ha avuto un intervento al cuore e si sta ancora rimettendo. Sente il boato, pensa abbiano fatto esplodere una palazzina lì vicino, va in giardino e vede la colonna di fumo. Esce per andare a prestare soccorso, ma non lo lasciano avvicinare. La Volkswagen di sua moglie è stata polverizzata, non sospetta che la sua famiglia sia rimasta coinvolta. Margherita, l'altra figlia di dieci anni, in quel momento è già a scuola. Avrebbe dovuto essere a bordo anche lei, ma quella mattina i due fratellini ci mettevano troppo tempo a vestirsi, volevano indossare entrambi gli stessi pantaloni, e per non fare tardi chiede un passaggio in macchina alla mamma di una sua amica. I carabinieri arrivano in classe per contare i bambini presenti, è in questo modo che si rendono conto che almeno lei è viva. Margherita e la sua famiglia con la mafia non c'entravano niente. Per questo le parole pronunciate dal vescovo nell'omelia risuonano incomprensibili alle sue orecchie di bambina. Parlano di una "mente perversa" e di una "mano omicida", della "rabbia mafiosa" tornata a insanguinare le strade. Vorrebbe chiederne il senso a suo padre, che le stringe la mano e non sa smettere di piangere, ma ha solo dieci anni, e quella è una domanda troppo difficile da formulare. Sua madre, Barbara Rizzo, e i suoi fratellini, Salvatore e Giuseppe, sono morti in un incidente. È questo che le hanno detto, ma è successo tutto così in fretta, non ha avuto neanche il tempo di fermarsi a pensare. Di chiedersi, ad esempio, che fine avessero fatto i loro corpi, non le hanno permesso di vederli, di poterli salutare un'ultima volta. Le bare chiuse, sono ora davanti a lei, al centro quella scura, di mogano, con i gladioli rosa sopra, accanto le due più piccole, bianche, con i gigli. Margherita non può saperlo, ma lì dentro oltre ai loro vestiti non c'è quasi niente. C'è una corona di fiori con la scritta Pertini, vista così da vicino sembra immensa, e ce n'è un'altra del presidente del Consiglio Craxi. Ci sono i gonfaloni del comune, fasce tricolori, e uomini delle forze dell'ordine ovunque. Se ne rende conto solo adesso, Margherita, della folla che c'è nella cattedrale di Trapani. Tanta gente per un funerale l'ha vista solo in televisione, ma quelle erano morti importanti: celebrità, capi di Stato. Oggi, invece, sono tutti lì per sua madre e i suoi fratelli, persone normali. Forse, pensa, è per i miei fratelli, erano così piccoli che tutti avranno voluto partecipare al nostro dolore. Dopo i funerali, ritornando a casa, la macchina è costretta a rallentare. È il luogo dove è successo l'incidente, la strada è stata riaperta da poche ore. Margherita ha il tempo per guardare fuori dal finestrino: "C'è una buca enorme sull'asfalto, sembra sia esploso un vulcano". In alto, troppo in alto, sul muro di una casa c'è una macchia rossa. Margherita la vede appena, ma questa volta ha una domanda impossibile da trattenere: "Papà, è sangue nostro questo?". Margherita pensa per anni che la colpa sia del giudice, di Carlo Palermo. Ma crescendo capisce che lui non c'entrava niente, che era stata la mafia a uccidere sua madre e i suoi fratelli e a distruggere le loro vite. Lei e il giudice erano entrambi dei sopravvissuti, per loro aveva deciso il destino. Non è stato facile per Margherita cercare "quel signore". Ancor meno facile per lui è stato lasciarsi trovare, provando a superare un terribile senso di colpa. C'è un elemento su cui convergeranno le dichiarazioni dei pentiti: per uccidere Carlo Palermo non c'era bisogno di un'autobomba. Palermo viveva in una villetta isolata, gli era stata negata la vigilanza armata per mancanza di uomini e mezzi e la sera usciva da solo per portare fuori i cani. Ma l'attentato doveva essere un ammonimento, spettacolarizzare la morte moltiplica la paura. È questo che hanno fatto (e fanno) le mafie ben prima dei gruppi islamisti. Sola con te in un futuro aprile è un libro devastante e assume in alcuni momenti il profilo di un manuale di sopravvivenza a un dolore impossibile da contenere. La strada che ha trovato Margherita per sopravvivere al suo dolore è quella di raccontare la propria storia, la storia di sua madre e dei suoi fratelli, vittime innocenti. Trova un'immagine Margherita, per raccontare il modo in cui ha rimesso insieme i pezzi della sua vita. È una tecnica giapponese, il kintsugi, che si usa per riparare i vasi di ceramica che si sono rotti. Non si cerca di rincollare i pezzi nascondendo i segni della lacerazione, ma anzi si esaltano, utilizzando una pasta d'oro. Il vaso, in questo modo, diventa più prezioso. Quell'intreccio di linee dorate restituisce il mondo andato in frantumi e nasce una nuova forma, più solida di quella che c'era prima.

Quando si parla di vittime degli attentati, viene in mente sempre il nome dei magistrati uccisi. Della gente comune non gliene frega niente a nessuno. A me interessa…riportando gli articoli di cui se ne parla, nonostante in essi si fa l’apologia di “Libera” e di Don Ciotti, e di un certo modo di fare antimafia, tipico della sinistra saccente e cattiva: ossia, giustizialista.

"Sola con te in un futuro Aprile", il libro di Margherita Asta, a 30 anni da Pizzolungo. Dal 26 marzo 2015 sarà  in libreria, in occasione del trentennale dalla strage di Pizzolungo, la storia di Margherita Asta: "Sola con te in un futuro Aprile", libro scritto a quattro mani con Michela Gargiulo e pubblicato da Fandango, scrive "TP24". Il 2 Aprile 1985, alle 8 e 45, un’autobomba esplode a Pizzolungo, legando indissolubilmente le vite di un magistrato e di una bambina. Il bersaglio dell’attentato, Carlo Palermo, è vivo per miracolo. A fargli da scudo è la macchina su cui viaggia la mamma di Margherita, mentre accompagna a scuola i suoi fratellini di 6 anni, Giuseppe e Salvatore. Il 2 aprile del 1985 Margherita ha soltanto dieci anni. La sua casa di Pizzolungo, a Trapani, al mattino è invasa dalla confusione allegra di Salvatore e Giuseppe, i suoi fratelli, gemelli di sei anni. Non vogliono saperne di vestirsi e Margherita non vuole fare tardi a scuola. Chiede un passaggio a una vicina. I gemelli usciranno con l’utilitaria della mamma Barbara. Nello stesso istante due macchine della scorta vanno a prendere un magistrato. Si chiama Carlo Palermo e viene da Trento, dove ha indagato su un traffico di morfina proveniente dalla Turchia. Un fiume di droga che serve a finanziare altri traffici, armi soprattutto, e che produce altri soldi, che si intrecciano col giro delle tangenti della politica. Quando Palermo arriva a sfiorare Craxi la sua indagine arriva al capolinea. Da Trento, il giudice si fa trasferire a Trapani, dove la morfina turca viene raffinata in eroina. Per continuare a indagare su mafia, massoneria e politica. Sul lungomare di Pizzolungo le auto della scorta sfrecciano, non possono rallentare e quella utilitaria con una donna e due bambini seduti dietro va troppo piano. La sorpassano. Parcheggiata sul ciglio della strada c’è una golf con venti chili di tritolo nel bagagliaio. Qualcuno preme il tasto di un telecomando. È l’inferno. Carlo Palermo viene sbalzato fuori, è sotto choc ma si salva. Di Barbara Asta e dei piccoli Giuseppe e Salvatore restano solo frammenti. Pezzi di corpi sparsi, una macchia rossa al secondo piano di un palazzo. Anche Margherita è salva: è passata in quello stesso punto un quarto d’ora prima. Quando ha saputo il suo nome, Margherita l’ha odiato quel giudice, Carlo Palermo, ritenendolo responsabile. Ma crescendo ha voluto capire, ha iniziato a seguire il processo sui mandanti della strage. Il suo strazio non poteva rimanere un fatto privato, oggi è un’attivista di Libera. Carlo Palermo, invece, in seguito all’attentato e alle pressioni ricevute ha lasciato la magistratura. Sono riusciti a incontrarsi solo molti anni dopo, riannodando quel filo spezzato che li aveva uniti. "Avevo sempre sentito parlare di processi, indagini, sapevo che qualcuno avrebbe dovuto pagare per quello che mi avevano fatto. Ma non avvertivo ancora il peso giudiziario e la complessità sociale di quel torto. Quando ho visto mio padre sentirsi male perché avevano assolto gli assassini di Pizzolungo, allora ho cercato di capire cosa era accaduto veramente. A quel punto lo strazio non poteva rimanere più un fatto privato. Mi sono indignata. E ho cominciato a chiedere e a cercare. Era il 1993. Sono partita dai giornali che c’erano a casa con la cronaca di quella settimana. Poi gli atti del processo, fino alla sentenza. Lì c’erano le prime descrizioni, i dettagli. La ricostruzione dell’attentato, gli effetti devastanti su mia madre e i miei fratelli. A diciotto anni ho scoperto la verità. Non mi interessavano tanto i nomi degli imputati. Ma mi batteva forte in testa sempre la stessa domanda: perché? Un decimo di secondo, neanche il tempo di avere paura. Un istante e si sono polverizzati. Bum. La prima volta che sono entrata in una aula di giustizia era il 2002. Hanno riaperto il processo ai mandanti e quelle immagini erano lì fra gli atti, sotto il mio naso. Mi sentivo in grande imbarazzo. Gli imputati erano in video-conferenza. Il PM aveva il carteggio e anche le fotografie. Le ho viste tutte, non me ne sono persa una. Giù, come uno sciroppo che fa schifo ma sai che dopo ti fa bene. Per una settimana non ho avuto la forza di uscire di casa. Il corpo di mia madre a pezzi. Il volto di mio fratello una maschera flaccida di carne. La pelle e basta. Forse ho voluto fare i conti con la mia storia. E dopo mi sono sentita più forte. Quelle foto erano quello che mi ero persa. Ora sapevo, i miei ricordi avevano altri frammenti." Margherita Asta è nata a Trapani nel 1975. Ha perso la madre e i suoi 2 fratelli nella strage di Pizzolungo. Oggi vive a Parma, dove è referente dei familiari delle vittime di mafia per il nord Italia dell’associazione Libera. Prende parte a numerose iniziative in tutta Italia per chiedere giustizia e tenere viva la memoria dei suoi familiari, vittime innocenti della mafia. Michela Gargiulo è nata all’isola d’Elba 46 anni fa. È una giornalista freelance. Ha lavorato alla redazione milanese di RT, rotocalco televisivo di Enzo Biagi. Ha collaborato con il Fatto Quotidiano, La Repubblica e il Tirreno. Ha scoperto la Sicilia e le sue storie nel 2006 quando ha vinto il premio giornalistico intitolato a Maria Grazia Cutuli. In quell’occasione ha conosciuto Margherita Asta, a cui è legata da un affetto profondo.

Salvatore e Giuseppe, bambini uccisi dalla mafia: la vittima doveva essere Carlo Palermo. La storia in un libro, scrive Valeria Gandus su “Il Fatto Quotidiano”. Era il 2 aprile 1985 e i due gemelli stavano andando a scuola con la mamma, la giovane Barbara Rizzo: una bomba e di loro non è rimasto più nulla. L'attentato avrebbe dovuto colpire il Sostituto procuratore della Repubblica appena trasferito a Trapani. In 'Sola con te in un futuro aprile' Margherita Asta, sorella miracolosamente scampata alla strage, racconta il suo progressivo e doloroso avvicinamento alla verità di questo dramma. Salvatore era biondo, riccioluto e pestifero; Giuseppe moro, testardo e puntiglioso. Erano gemelli e avevano sei anni. La loro mamma, Barbara Rizzo, era bella come tutte le mamme. E giovane, 31 anni appena. Quella mattina del 2 aprile 1985 uscirono dalla loro casa di Pizzolungo, non lontano da Trapani, per andare a scuola, accompagnati in auto dalla mamma. Tre chilometri e pochi minuti dopo, di loro tre non restava quasi più nulla: una bomba, fatta esplodere da un’automobile parcheggiata lungo la strada, aveva disintegrato i loro corpi e la loro famiglia. Quella bomba non era destinata ai tre ignari passeggeri ma all’uomo che in quell’istante viaggiava sull’auto che, al momento dello scoppio, li stava superando: Carlo Palermo, Sostituto Procuratore della Repubblica appena trasferito a Trapani da Trento, dove aveva condotto un’indagine difficile e scomoda su traffico d’armi e droga arrivata a toccare poteri forti (servizi segreti, loggia P2) e a lambire Bettino Craxi. Che aveva chiesto (e ottenuto) la sua estromissione dall’inchiesta. Ora Palermo è sulle tracce di una grande raffineria di droga nel trapanese, e per quello deve morire. Invece, Carlo Palermo miracolosamente si salva. E alla morte sfugge, per caso, anche Margherita, l’altra figlia di Barbara, 11 anni, che quella fatale mattina ha preso un passaggio per la scuola dalla mamma di una compagna. Due vite salvate, ma irrimediabilmente segnate dall’evento. Due vite che si sono rincorse e scansate per decenni: la ragazzina, poi giovane donna, che inizialmente odia l’uomo nel quale vede la causa della distruzione della sua famiglia. Il magistrato che sopravviva a stento, ferito nel corpo e nell’anima, con un insopportabile senso di colpa per la tragedia che ha involontariamente causato. Lei che cerca invano di incontrarlo. Lui che non ce la fa ad affrontarla. La storia di quella ragazzina e di quell’uomo sono raccontate oggi in un libro, Sola con te in un futuro aprile (Fandango) scritto da Margherita Asta con Michela Gargiulo. Un mémoir in prima persona dove uno dei due protagonisti, Margherita, ricostruisce il suo progressivo e doloroso avvicinamento alla verità di questo doppio dramma. E insieme racconta e omaggia il co-protagonista Palermo: non più odiato ma, al contrario, celebrato come l’acuto investigatore che fin dalle sue prime indagini trentine aveva intuito i legami fra criminalità e politica. Una verità suggerita dalla sentenza finale per la strage di Pizzolungo dove si legge: “L’attentato diretto contro il dottor Carlo Palermo costituisce l’ennesima azione terroristica di Cosa nostra contro un magistrato che osava sfidarla così come aveva sfidato in precedenza i poteri forti, subendone pesanti ritorsioni. Non è escluso che con la soppressione di Carlo Palermo il vertice siciliano di Cosa nostra pensasse di rendere un favore non solo a se stesso”. Il libro è il racconto di una ragazza determinata e di un uomo (lasciato) solo. Ma anche la cronaca ragionata di vent’anni di mafia: attentati e processi, morti eccellenti (Giangiacomo Ciaccio Montalto, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Mauro Rostagno), maxi processi, sentenze non sempre esemplari. Nomi di mafiosi che ricorrono da una strage all’altra, da un processo all’altro. Alcuni catturati (Totò Riina), altri pentiti (Giovanni Brusca). Tutti, in qualche modo, collegati a quella lontana strage e a quel giudice scomodo. Anzi, ex giudice, perché dopo un breve e difficile periodo al Ministero della Giustizia, Carlo Palermo lasciò la magistratura. Margherita, che da anni collabora con l’associazione Libera, grazie a Don Luigi Ciotti è riuscita finalmente a incontrarlo solo pochi anni fa, a Trento. E l’ha ritrovato inaspettatamente al suo fianco a Trapani a una manifestazione contro la realizzazione di uno stabilimento balneare nel luogo della strage. “Quando arriva il momento del silenzio per onorare il vostro ricordo” scrive Margherita rivolgendosi idealmente ai suoi cari “sento una mano che cerca la mia. Nell’istante esatto in cui torno bambina a cercare mia madre, dentro quelle stanze piene di gente, questa volta ho trovato la mano del giudice Carlo Palermo”. Lui stretto nel suo impermeabile e lo sguardo triste, lei con gli occhiali da sole per nascondere le lacrime. “Un pezzo che ritorna al suo posto dopo tanto tempo”.

Pizzolungo, Trapani. Margherita Asta ricorda la strage del 2 aprile 1985. 2 aprile 1985, a Trapani un’autobomba della mafia uccide una madre e i suoi due figli gemelli di sei anni. Il tritolo era destinato al magistrato Carlo Palermo. L’ex giudice oggi riceverà la cittadinanza onoraria. Ci sono persone semplici alle quali la storia tragica di questo Paese, quella fatta di mafie e stragi impunite, ha inferto ferite terribili. Margherita Asta è una di queste. Oggi è una giovane donna dal volto solare. Vive a Trapani. Parla e non spreca mai le parole, ma riesce a metterti in imbarazzo quando alla fine della conversazione ti dice che «dopo l’uragano esce sempre il sole. Bisogna sperare perché la battaglia è ancora lunga». Il 2 aprile del 1985, Margherita ha poco più di dieci anni. Alle otto del mattino la sua casa è invasa dall’allegra confusione di Salvatore e Giuseppe, i suoi fratelli, gemelli di sei anni. Margherita rischia di far tardi a scuola e l’accompagna una vicina. I gemelli usciranno invece con l’utilitaria della mamma Barbara. Sono le 8 e mezza quando due macchine vanno a prendere un magistrato. Si chiama Carlo Palermo è avellinese ma viene da Trento. Lì ha indagato su un traffico di morfina base proveniente dalla Turchia e destinata alle cosche della mafia siciliana specializzate nella produzione dell’eroina, «la bianculidda». La droga lavorata dalla Sicilia viene spedita a Milano, da qui agli Stati Uniti. Un grande business. Un fiume di danaro che serve a finanziare altri traffici, armi soprattutto, e che produce altri soldi, che si intrecciano col giro delle tangenti della politica. Palermo mette le mani su tutto questo, tocca santuari importanti, viene processato dal Csm. Un importante leader politico, Bettino Craxi, si augura che venga condannato. Da Trento, il giudice decide di farsi trasferire a Trapani. Per continuare a indagare su mafia, massoneria e politica. Sono da poco passate le otto e mezza quando le macchine del magistrato e della sua scorta sfrecciano per il rettilineo di Pizzolungo. Carlo Palermo è nella città siciliana da cinquanta giorni e ha già collezionato una serie di minacce. Gli agenti della scorta sono nervosi – due anni prima a Trapani era stato ucciso un altro magistrato, Giacomo Ciaccio Montalto, anche lui indagava su mafia e sistemi di potere – non possono rallentare e quella utilitaria con una donna e due bambini seduti dietro va troppo piano. La sorpassano. Parcheggiata sul ciglio della strada c’è una golf con venti chili di tritolo nel bagagliaio. Qualcuno preme il tasto di un telecomando. È l’inferno. La macchina della famiglia Asta viene investita in pieno, fa da scudo all’auto che porta il magistrato. Carlo Palermo viene sbalzato fuori, è sotto choc ma si salva. Di Barbara Asta e dei piccoli Giuseppe e Salvatore restano solo frammenti. Una macchia rossa al quarto piano di un palazzo, pezzi di corpi sparsi. Anche Margherita si salva: è passata in quello stesso punto un quarto d’ora prima. «Da allora sono stata catapultata nel mondo degli adulti. Avevo dieci anni e mezzo, mi impedivano di vedere la tv con le immagini della strage, ma leggevo i giornali di nascosto. Parlavano di mafia, di droga, di miliardi di lire calcolati a migliaia, di magistrati e poliziotti da ammazzare. Vedevo le foto del giudice Palermo nel suo lettino di ospedale, il suo volto scavato e mi chiedevo perché. Perché mia madre, i miei fratellini, cosa c’entravano loro con questa guerra? Ricordo miopadre e le parole che non ci siamo mai dette. E ho tanti rimpianti. Voleva proteggermi dal dolore e solo una volta mi ha detto una frase che non dimenticherò mai: “Noi abbiamo una piaga dentro che ci porteremo per tutta la vita”. Nel 2003 chiesi a un pm di farmi vedere le foto dei resti della macchina di mia madre e dei gemellini. Sono stata male per giorni. Bestie, cosa avevano fatto! Oggi la mafia non uccide più,ma è cambiato poco, le mafie ti negano i diritti più elementari. Dove comandano loro anche il diritto a una vita normale è compromesso. Ricordo che nel 2006 rilasciai una intervista a “La Stampa” e quando mi chiesero se avessi voluto incontrare il giudice Carlo Palermo io risposi di sì. Don Luigi Ciotti organizzò tutto, ci vedemmo, ci stringemmo a lungo la mano e parlammo tanto. Le nostre vite erano state devastate dalla mafia, lui mi parlò dei suoi sensi di colpa e di quella lacerazione che si porterà dentro per tutta la vita. Ci consolammo a vicenda. Quando accadono le stragi i familiari delle vittime ricevono tanta solidarietà, poi vengono lasciati soli. È un fatto privato, pensa la gente. L’anno scorso il senatore D’Alì disse che la mafia serve a quell’antimafia che genera posti di lavoro. C’erano le elezioni e a Trapani non sta bene parlare di mafia e affari in campagna elettorale. Cosa è cambiato? Poco, non uccidono più perché non è più necessario. La mafia tiene in ostaggio l’Italia. Ma esce il sole, dopo l’uragano esce sempre il sole». Il 2 aprile la strage di Pizzolungo verrà ricordata con una fiaccolata e un dibattito. Il Comune di Erice conferirà la cittadinanza onoraria al giudice Carlo Palermo. Margherita Asta ci sarà col suo carico di dolore e di speranza. (Tratto da l’Unità del 2 aprile 2009)

La strage mafiosa di Pizzolungo del 2 aprile 1985 è ancora un capitolo giudiziario aperto, scrive di Rino Giacalone su “Narco Mafie”. Le sentenze che hanno condannato i mandanti Totò Riina e Vincenzo Virga, il capo della cupola siciliana e il boss capo mafia del mandamento di Trapani, e come esecutori Nino Madonia e Balduccio Di Maggio non hanno fatto luce sul movente. E’ la stessa cosa accaduta per altri delitti e altre stragi. Da quello del pubblico ministero trapanese Gian Giacomo Ciaccio Montalto, sino ad arrivare agli efferati e sanguinosi attentati di Roma, Milano e Firenze del 1993. A 29 anni da quell’attentato destinato al sostituto procuratore Carlo Palermo e che costò la vita di Barbara Rizzo e dei sui due figlioletti di sei anni, i gemellini Salvatore e Giuseppe Asta, in questi giorni come accade da sette anni, dal 2008, Erice, nel cui territorio la mafia fece scempio di quelle tre vittime, vive giornate di intenso impegno, ma su ogni cosa che si fa e viene detta aleggia l’angoscia per una verità completa che non c’è e che non è solo dei familiari delle vittime, a cominciare da Margherita, figlia e sorella degli uccisi, dilaniati dal tritolo mafioso, ma anche degli agenti della scorta sopravvissuti e che però portano ancora le ferite materiali e morali di quel “botto”, come Nino Ruggirello e Salvatore La Porta (un terzo agente Raffaele Di Mercurio è morto anni addietro di crepacuore, la stessa sorte che ha segnato Nunzio Asta il marito di barbara e il padre dei gemellini) e dello stesso Carlo Palermo che appena pochi giorni addietro abbiamo visto stravolto nel viso, colto dal pianto nel ricordare quei momenti, nell’intervista realizzata da Danilo Procaccianti nel corso della puntata di Presa Diretta diretta da Riccardo Iacona e dedicata alla lunga e perdurante latitanza del capo mafia assassino e sanguinario Matteo Messina Denaro: Carlo Palermo restò vivo ma per lo Stato era come se fosse morto, dapprima lo invitarono a cambiare generalità e a riparare in Canada, poi è stato di fatto abbandonato e costretto ad abbandonare la toga del pm e vestire quella dell’avvocato. In quella trasmissione di Presa Diretta la voce di Margherita Asta è stata chiara: “a 29 anni da quella strage ancora oggi non so perché mia madre ed i miei fratellini sono morti e non sappiamo perché un giudice come Carlo Palermo doveva essere ucciso”. Quel tritolo usato a Pizzolungo fa parte di una lunga lista di sangue, lo stesso tritolo, uscito da polveriere militari, è stato impiegato sicuramente dalla mafia e dai mafiosi nell’attentato nel dicembre 1984 al treno Rapido a San Benedetto Val di Sambro, per far saltare in aria, poche settimane dopo Pizzolungo, alla vigilia delle amministrative del 1985, la villa dell’allora sindaco di Palermo Elda Pucci, nel fallito attentato all’Addaura al giudice Falcone il 21 giugno 1989. Tutte vicende chiuse, apparentemente risolte, ma che risolte non lo sono. C’è stata l’opera di Cosa nostra dietro tutti questi “botti” ma diciamolo chiaramente non ci sarà verità piena fino a quando si dirà l’unica cosa che le sentenze pronunciate per ognuno di questi insanguinati episodi della strategia stragista, permettono di dire e che cioè a compiere gli attentati è stata la mafia. E’ fin troppo chiaro a rileggere verbali e atti giudiziari che non è stata solo Cosa nostra a decidere di colpire. I mafiosi hanno avuto altre complicità, una complicità arrivata da uomini di quelle istituzioni che hanno tradito il giuramento di fedeltà alla Repubblica, preferendo andare a servire altre entità, altre “istituzioni” segrete e criminali. Circostanze che non nasconde Carlo Palermo quando gli si chiede se per lui è possibile riaprire il capitolo di queste indagini: “Sono ancora troppo potenti le persone che volevano la mia morte, sono lì in posizioni di enorme forza”. Le indagini condotte da Carlo Palermo pur nella brevità della sua permanenza alla Procura di Trapani, appena 40 giorni, l’attentato lo subì a poco più di un mese dal suo insediamento, trasferito su sua richiesta a Trapani da Trento, quelle indagini rilette non sembrano essere così distanti da quelle di oggi, condotte sempre a Trapani da altri magistrati che non a caso in questi ultimi anni hanno subito “pesanti” segnali di intimidazione, giunte nel momento in cui le inchieste hanno conosciuto momenti di grandi passi avanti: mafia, corruzione, controllo degli appalti, riciclaggio e controllo del mondo bancario ed economico, sequestro e confisca di beni. Come dice Carlo Palermo i burattinai, mafiosi e colletti bianchi, sono ancora in auge, gli affari illeciti invece di diminuire sono aumentati, lo dicono le maxi confische decise dal Tribunale in poco tempo, le chiavi di quasi tutte le casseforti sottratte alla mafia erano nelle mani del super latitante Matteo Messina Denaro. C’è poi il clima politico che è quasi uguale a quello degli anni ’80, ieri la mafia non esisteva, oggi il messaggio che vuole essere tranquillizzante ma è solo bugiardo è quello che la mafia è stata sconfitta. Come ha raccontato il pm Andrea Tarondo la mafia riesce ancora a mandare i suoi uomini “fin dentro al Palazzo di Giustizia, per parlare con magistrati e giudici”, mentre la politica “continua a non saper mantenere la distanza di sicurezza dai mafiosi e i politici stringono mani che non dovrebbero stringere”. Un quadro che può apparire demoralizzante, ma rispetto al 1980 c’è una società civile che reagisce, che protesta, che decide di organizzare la “scorta civica” a favore dei magistrati intimiditi, c’è Libera che in silenzio e senza riflettori e palcoscenici da calcare e con i suoi volontari va nelle scuole, parla con i giovani e con gli adulti: “La mafia però potrà essere battuta – ha detto ancora il pm Tarondo  – solo quando tutta la società civile saprà dir di no a Cosa nostra e a tutte le mafie”. Oggi a 29 anni dalla strage di Pizzolungo Margherita Asta ripete la sua richiesta: una commissione d’inchiesta parlamentare che faccia luce su quell’attentato. “E’ un dovere non solo nei confronti di noi familiari, del pm Palermo e degli agenti della scorta, ma anche nei riguardi di un territorio dove la bellezza è stata sporcata dalle mafie e dagli intrecci tra mafia, politica, impresa, massoneria, servizi segreti deviati”. In commissione nazionale antimafia i deputati Mattiello e Fava hanno provato a fare accendere i riflettori su Trapani e sui misteri che resistono. Da Pizzolungo arriva il grido perché davvero questa possa accadere, agevolando il percorso che porti a rendere verità e giustizia e a far cacciare via gli infedeli servitori dello Stato che hanno sulla coscienza la morte di Barbara, Salvatore e Giuseppe. Una commissione d’inchiesta su Pizzolungo non si pensa possa essere ancora un fatto da rinviare!

Nel ventennale intervista a Margherita Asta di Marco Nebiolo su “Narco Mafie”. «In questi giorni mi domando cosa mi stia succedendo. Credevo di essere più forte. Invece mi accorgo che più ne parlo più sento il dolore crescere. Da fuori non si vede, ma dentro so solo io quello che sento». La voce di Margherita Asta si incrina per l’emozione appena ripensa a quella mattina di vent’anni fa in cui, all’età di soli dieci anni, in un istante perse la madre Barbara e i fratelli minori, i gemellini Salvatore e Giuseppe, di sei anni. Tutti travolti e uccisi dalla violenza di Cosa Nostra, in quella che viene ricordata come “la strage di Pizzolungo”. Era il 2 aprile 1985. Obiettivo dell’attentato era il sostituto procuratore di Trapani, Carlo Palermo: era per lui l’autobomba posizionata sul ciglio della strada che da Pizzolungo conduce a Trapani. Trasferitosi nel febbraio di quell’anno dalla Procura di Trento, dove si era distinto per alcune indagini importanti sul traffico d’armi e di stupefacenti, in poche settimane di lavoro si era guadagnato una condanna a morte dalla mafia. Una tragica fatalità, però, lo salvò: la sua auto incontrò lungo il tragitto l’utilitaria guidata da Barbara Asta e la superò proprio nel punto in cui i sicari avevano posizionato la vettura con l’esplosivo. Noncuranti dell’ostacolo imprevisto, gli assassini premettero comunque il pulsante, sperando di raggiungere l’obiettivo: la mafia non dà alcun valore alla vita umana, specie a quella di chi costituisce un intralcio alla realizzazione dei suoi interessi. Carlo Palermo fu solo ferito, mentre la mamma e i bambini fecero da scudo e furono dilaniati. Fu una strage di innocenti, figlia di una strategia terroristica che avrebbe raggiunto il culmine nelle stragi del ’92 e che ebbe il suo prologo in quella del 29 luglio 1983, a Palermo: un’autobomba parcheggiata davanti al palazzo in cui risiedeva Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione di Palermo, uccise, oltre al magistrato e ai carabinieri della scorta Mario Trapassi ed Edoardo Bartolotta, anche Stefano Lisacchi, l’inerme portiere dello stabile. Un’altra vittima collaterale di una guerra nella quale, spesso, i semplici cittadini non credono di poter essere coinvolti. Carlo Palermo fu profondamente scosso da quella tragedia. Se il piano fosse andato a buon fine, sarebbe stato il secondo magistrato assassinato a Trapani in due anni: il 26 gennaio 1983 era caduto a colpi di mitragliatrice Gian Giacomo Ciaccio Montalto, che indagava sulle potenti cosche dell’eroina. Poco tempo dopo l’attentato, Palermo lasciò la magistratura e la Sicilia. Margherita Asta ricorda tutto di quel giorno. Far sì che non si dimentichi fa parte del suo impegno quotidiano, da quando con l’associazione Libera cerca di promuovere, specie tra gli studenti, la cultura della legalità e dell’antimafia.

Margherita, cosa ricordi di quel giorno? 

«Che mi salvai per una pura coincidenza. Invece di andare a scuola con mia madre come al solito fui accompagnata da una vicina di casa e passai sul luogo dell’attentato un quarto d’ora prima dell’esplosione. Dopo poco mi venne a prendere la segretaria di mio padre, senza spiegarmi il motivo. Non mi feci particolari domande, mi insospettì solo il fatto che per tornare a casa facemmo un giro molto lungo, e durante il percorso notai la presenza di molti posti di blocco. Giunta a casa la sorella di mia madre mi comunicò cosa era successo. Non realizzai in che modo fossero morti. Poi, andando ai funerali il giorno dopo, facemmo la strada che passa da Pizzolungo e passammo sul luogo dell’attentato. Andando in chiesa nel primo pomeriggio avevo notato solo il cratere in terra creato dall’autobomba. Ma al ritorno vidi un particolare che ancora adesso mi fa soffrire particolarmente. Una macchia di sangue sulla parete di una abitazione. Mio padre mi spiegò che era stato il corpo di uno dei due fratellini, scaraventato contro quella casa. Solo una parte del corpo, in realtà, perché i tre cadaveri furono dilaniati e ne rimase ben poco. Furono ricomposti per modo di dire, c’era ben poco da ricomporre».

Qual è l’emozione prevalente in te quando ti guardi indietro? Rabbia, rancore?

«Impotenza. Perché non potrò sapere mai chi è stato a pigiare il pulsante».

Non esiste una verità processuale sulla strage? 

«Per quanto riguarda i mandanti c’è un processo in corso nel grado di appello. L’anno scorso sono stati condannati Di Maggio, Virga e Riina. Per quanto riguarda gli esecutori, in primo e secondo grado sono stati condannati Gioacchino Calabrò, Vincenzo Milazzo, Filippo Melodia. Ma la sentenza è stata cassata nel ’91 perché gli imputati non avrebbero commesso il fatto. Tra quei giudici c’era Corrado Carnevale (l’ex Presidente della Iª sezione della Corte di Cassazione noto negli anni 80 e 90 come “l’ammazzasentenze”, nda.)».

Le istituzioni ti sono state vicine? In che modo? 

«Mi sono sentita abbandonata. Sono passati vent’anni e ancora sul luogo dove una famiglia è stata distrutta non c’è nulla che ricordi la strage, se non una stele realizzata a nostre spese l’anno dopo. L’area è tutta piena di erbacce, si limitano a pulirla prima delle celebrazioni annuali, perché le autorità devono venire a fare la solita passerella. La volontà politica di ricordare quella tragedia è mancata. Forse perché sono morti semplici cittadini, non giudici o politici». 

Che rapporto hai avuto con Carlo Palermo?

«Con lui ha tenuto i rapporti mio padre, che è morto nel 1993. Da allora non ci siamo più sentiti: ho provato a chiamarlo l’anno scorso in occasione dell’anniversario, ma non sono riuscita a combinare un incontro. Credo che Palermo faccia ancora molta fatica a ripensare a quei giorni».

Cos’era per te la mafia prima dell’attentato? 

«La sentivo come una cosa lontanissima dalla mia famiglia. In quel periodo di mafia in Sicilia se ne parlava eccome, anche se con accenti diversi. Il sindaco di Trapani, qualche giorno dopo la strage, disse che la mafia non c’era. Ma chi aveva disintegrato i miei famigliari?»

Oggi sei impegnata con l’associazione Libera come responsabile per i comuni di Trapani ed Erice: nella tua attività di formazione e di educazione alla legalità nelle scuole, che messaggio cerchi di fare passare ai ragazzi?

«La mafia non colpisce solo i suoi avversari diretti, giudici, forze dell’ordine, politici, giornalisti, ma può colpire chiunque. Mia mamma stava accompagnando i miei fratellini a scuola, non stava facendo altro. E la nostra famiglia non aveva mai avuto nulla a che fare con la mafia, neanche lontanamente. E poiché tutti possiamo essere colpiti, ognuno di noi deve impegnarsi a combatterla, senza delegare questo impegno alla magistratura e alla polizia. I ragazzi sono molto sensibili a questi ragionamenti, molto più degli adulti».

Quando incontri i famigliari di altre vittime di mafia, cosa vi dite?

«Cerchiamo di non piangerci addosso e di pensare in positivo. Anche se il dolore è grande e non ti abbandona, reagire è una necessità».

LA VERITA’, OLTRAGGIATA, MINACCIATA E SOTTO SCORTA.

L'oltraggio alla verità.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che fossimo.

Il saluto romano di un bimbo scatena "Repubblica". Sulla vicenda avvenuta a Cantù difficile dire se è più grottesco l'episodio in sé o il resoconto che ne dà La Repubblica, scrive Paolo Granzotto su “Il Giornale”. In italiano, chiamasi grottesca la sensazione prodotta da ciò che è paradossale, sproporzionato. Squilibrato. Bene, su un episodio avvenuto in quel di Cantù - e del quale daremo subito conto - difficile dire se è più grottesco l'episodio in sé o il resoconto che ne dà La Repubblica . I fatti: la quiete e l'ordine di una scuola materna del canturino sarebbero stati turbati dalla presenza di un bimbo (quattro anni) che saluta i suoi amichetti e pare anche il bidello «col braccio proteso in avanti» e cioè, annota indignato il cronista Paolo Berizzi, «come Mussolini, come Hitler». Gesto che al bimbo (ripeto: quattro anni) avrebbe insegnato a fare il padre: un «nostalgico», come si dice. Anche scomodando Hitler e Mussolini, il saluto del «Baby Balilla» (così il Berizzi) altro non parrebbe che un inconsapevole e giocoso uzzolo infantile. Ma non a Cantù, dove diventa - e questo perché la vigilanza antifascista non dorme mai - un abominio democratico. La cui sinistra eco giunge alle orecchie dei repubblicones che ci si buttano sopra in maniera forsennata: un'intera pagina, con un richiamo in prima. Dividendo lo spazio fra la deprecazione del bambino (insisto: quattro anni) che fa il saluto romano e l'encomio per la ferma risposta della scuola materna alle provocatorie gesta del marmocchio. Stando al cronista, la prima reazione fu quella di inviare un'informativa al Provveditorato agli studi, cosa che si fa quando in normale svolgimento della attività didattica è seriamente minacciato. Ma alla fine, forse per non smentire lo spirito politicamente corretto che anima l'istituto, hanno ripiegato sullo strumento del dialogo&confronto: convocati i genitori, è stato loro fatto presente che «quel saluto è vietato dalla legge italiana». Pertanto «delle due l'una: o il bimbo (devo ripetermi: quattro anni) la smette di salutare come il Duce oppure non può più frequentare la scuola materna». In verità, reati non se ne vedono perché il saluto romano è sì vietato dalla legge del giugno 1993, ma «solo qualora compiuto con intento di rivolgere la sua attività alla esaltazione di esponenti, princìpi, fatti e metodi propri del carattere fascista». Intenzioni che sarebbe arduo attribuire ad un quattrenne e di conseguenza determinarne l'espulsione dall'asilo, naturalmente ove non cessi di salutare come a lui piace. Obiezione di nessun conto per Paolo Berizzi il quale sfodera ben altro e più solido argomento a favore dell'allontanamento: essendo l'asilo scuola pubblica, esso «si riconosce, come è ovvio, nei valori sanciti dalla Costituzione italiana il cui carattere è rigorosamente antifascista». Per cui, Carta più bella del mondo alla mano, niente asilo per il «camerata in erba» (così il Berizzi). A meno che non faccia autocritica e come un Dario Franceschini non giuri in piazza sulla Costituzione di non salutare più col «braccio destro proteso in avanti». Il sinistro andrebbe bene. E anche il destro, purché flesso. È nei dettagli che l'antifascismo vive e lotta con noi.

L’orribile “fascismo” degli antifascisti, scrive “Francesco Maria del Vigo”. “Correggere”. Un parola che già mette i brividi. Se poi la “correzione” – la rieducazione – riguarda un bambino di quattro anni le tinte diventano ancora più fosche. Partiamo dal principio. Repubblica di oggi racconta, con un certo compiacimento, una storia delirante. A Cantù un bambino di quattro anni si presenta all’asilo salutando tutti, maestre e compagni, con il braccio teso. I responsabili della scuola materna convocano i genitori del microbalilla, i quali – senza indugi – ammettono di avergli insegnato il saluto fascista: “Vogliamo dargli un’educazione rigorosa”. Non pago il padre arrotola la manica della camicia (non è dato sapere se fosse nera) e mostra una svastica tatuata sull’avambraccio. Il primo colloquio finisce in un nulla di fatto e le maestre passano al contrattacco: i genitori devono “correggere” il bambino. Correggere, come si fa con gli errori. O smette di salutare romanamente o lo sbattono fuori dall’asilo. Ora, è evidente che imporre il saluto romano a un bambino di quattro anni è demenziale. Ma anche creare un caso e “rieducare” è un comportamento da colonia penale, più che da scuola per l’infanzia. La famiglia ha sbagliato, lo Stato anche. Ed è ancora più grave. Ma questa non è solo la storia di un’educazione sui generis, è la cartella clinica di un Paese ancora diviso dal muro dell’odio. Un Paese in balìa di una tensione antifascista costante. Quando l’antifascismo dovrebbe essere morto e sepolto per evidente mancanza di fascismo. A eccezione di qualche caso marginale come la famiglia di sopra, che non costituisce certamente un pericolo politico per la gloriosa repubblica italiana. Invece, specialmente in questo settantesimo anniversario della Liberazione, l’antifascismo è tornato. Arrogante. Totalitario. E scleroticamente conservatore. Con la sua ridicola retorica, le sue bandiere rosse, le sue Belle Ciao, e le tirate moralizzatrici delle Boldrini. Fascismo è tornato a essere l’insulto più quotato. Basta prendere in mano un qualsiasi quotidiano e sembra di sfogliare un numero del Popolo d’Italia del 34. Improvvisamente sono tutti fascisti. Berlusconi lo è per definizione, Renzi anche, Salvini figuriamoci. I poveri di parole hanno sempre un “fascista” in tasca da lanciare sul muso del primo che osi superare lo stop del politicamente corretto. Il termine “fascista” è il cartellino rosso. La squalifica. Il confino intellettuale e politico, giusto per non spostarci dal Ventennio. Perché il paradosso è proprio questo: secondo i loro parametri – quelli degli antifascisti che vedono ovunque camicie nere – loro stessi sono dei fascisti. Degli squadristi culturali che mettono all’indice il dissenso e ora si prendono la briga di “correggere” i bambini di quattro anni. Come nelle dittature. Come in Unione Sovietica. Ché poi – alla fine – il problema è sempre quello.

La minaccia può venire dai magistrati.

La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca. La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Corte di Cassazione, Sezione 3 Civile, Sentenza del 22 febbraio 2008, n. 4603)

L’avv. Santo De Prezzo, in data 06 novembre 2006, denuncia e querela il dr. Antonio Giangrande per violazione della Privacy per aver pubblicato sul sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie il suo nome, nonostante il nome dell’avv. Santo De Prezzo fosse già di dominio pubblico in quanto inserito negli elenchi telefonici, anche web, e nell’elenco degli avvocati del consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Brindisi, anche web.

La dr.ssa Adele Ferraro, sostituto procuratore presso il Tribunale di Brindisi apre il proc. n. 9429/06 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., ed il 1° ottobre 2007 (un anno dopo la querela) decreta il sequestro preventivo dell’intero sito web della Associazione Contro Tutte le Mafie, arrecando immane danno di immagine. Il Decreto è nullo perché non convalidato dal GIP ed emesso il 19 ottobre 2007, successivamente al sequestro. Il decreto è rinnovato il 09/11/ 2007 e non convalidato dal giudice Katia Pinto. Poi ancora rinnovato il 28/12/2007 e convalidato da Katia Pinto il 26/02/2008, ma non notificato.

La dr.ssa Katia Pinto apre il proc. n. 1004/07 RGDT e il 19/09/2008, dopo quasi un anno dal sequestro del sito web con atti illegittimi dichiara la sua incompetenza territoriale e trasmette gli atti a Taranto, ma non dissequestra il sito web.

In questo procedimento non risulta esserci il fatto penale contestato eppure si oscura un sito web di una associazione antimafia e si persegue penalmente il suo presidente, Antonio Giangrande.

Insomma: il fatto non sussiste. Pur mancando la prova della violazione della privacy, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande.

Il Dr. Remo Epifani sostituto procuratore presso il Tribunale di Taranto apre il fascicolo n. 8483/08 RGNR, non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e decreta il rinvio a giudizio per ben due volte: il 23/06/2009 e difetta la notifica e il 28/09/2010, rinnovando  il sequestro preventivo del sito web, mai revocato.

Il Dr. Martino Rosati, Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale di Taranto  apre il proc. n. 6383/08 GIP e senza indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., dispone con proprio autonomo decreto il 14/10/2008 il sequestro preventivo del sito web.

Il processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10329/09 RGDT, si apre il 03/11/2009, ma viene chiuso per irregolarità degli atti. Il nuovo processo contraddistinto con il n. 10018/11 RGDT si apre il 01/02/2011.

Solo in data 12 luglio 2012 lo stesso Pm dr. Gioacchino Argentino chiede l’assoluzione perché il fatto non sussiste ed in pari data il giudice dr.ssa Frida Mazzuti non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande perché il fatto non sussiste. Il Dissequestro del sito web www.associazionecontrotuttelemafie.org non è mai avvenuto e l’oscuramento del sito web è ancora vigente.

Declaratoria di ASSOLUZIONE PERCHE’ IL FATTO NON SUSSISTE. Dopo 6 anni, due pubblici Ministeri, un Giudice per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione perchè denunciata da Antonio Giangrande, sostituita dalla dr.ssa Frida Mazzuti. L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente. (Esposto inviato a più Autorità Competenti. Lettera Morta)

I casi analoghi sono migliaia...

Dal pm di Messina, Brunelli, per un articolo del professionista Michele Schinella. Blog di giornalista oscurato dopo una querela. Oscurato il blog di informazione del giornalista professionista Michele Schinella, collaboratore di “Centonove” e “Corriere.it”, dopo una querela da parte del sindaco di Saponara (Messina), Nicola Venuto, seguita a un articolo del 2 ottobre scorso. L’oscuramento dell’intero blog – e non dell’articolo in questione – l’ha disposto il pm di Messina, Margherita Brunelli. “Il provvedimento – spiegano i legali di Schinella, Diego Lanza e Ciccio Rizzo – è abnorme e incomprensibile. Il provvedimento non ha un rigo di motivazione e oscure rimangono le ragioni di fatto e di diritto per cui il pm abbia ritenuto di adottare questa misura. Se il pm ha ritenuto che l’articolo fosse diffamatorio, sarebbe stato sufficiente oscurare il pezzo e non l’intero blog”. (Ansa).

La minaccia può venire, addirittura dagli stessi giornalisti...

Edicole online gratis, operazione per tutela diritti d’autore: 19 siti oscurati, scrive il 28 aprile 2015 “Il Fatto Quotidiano”. L'inchiesta "Black Press Review" delle Unità speciali delle Fiamme gialle contro i siti che ogni mattina mettono a disposizione dei navigatori i contenuti dei quotidiani. È stata denominata “Black Press Review” e nel mirino dell’operazione della Guardia di Finanza sono finite le edicole online, che consentono agli internauti di avere a disposizione interi contenuti di quotidiani e periodici, già dalle prime ore della giornata, senza corrispondere compensi agli editori. I finanzieri delle Unità Speciali stanno procedendo, su tutto il territorio nazionale, al sequestro e oscuramento di 19 siti e alle perquisizioni nei confronti dei presunti responsabili. Sarebbero per ora cinque le persone denunciate. I finanzieri delle Unità speciali, su delega della Procura della Repubblica di Roma, stanno eseguendo una complessa operazione in materia di tutela del diritto d’autore sul web, colpendo “edicole pirata” posizionate su server nazionali ed esteri (Repubblica Ceca, Russia, Moldavia, Svizzera e Stati Uniti). Con la collaborazione della Federazione italiana editori giornali (Fieg), la Guardia di Finanza ha identificato alcuni hacker che acquisivano indebitamente la copia digitale dei giornali e la pubblicavano su edicole online illegali. Le Fiamme Gialle hanno dichiarato che anche “una società che realizza servizi di rassegna stampa risulta interessata”. La Guardia di Finanza ha commentato: “Il fenomeno ha indubbi effetti negativi sul settore dell’editoria, che perde così ingenti risorse, con ricadute occupazionali, frustrando il lavoro, spesso pericoloso e duro degli operatori dell’informazione, che si vedono sottrarre, con un semplice click, il frutto del proprio impegno quotidiano sul campo da soggetti che operano illegalmente e senza fatica, nel web”.

La minaccia può venire dalla politica...

Nuovo attacco di Grillo ai giornalisti. La libertà d’informazione è… il suo blog, scrive Sandro Forte su “Il Secolo D’Italia”. Un fatto è certo: Grillo ce l’ha con i giornalisti. In nome della libertà d’informazione, il cui cavallo di battaglia è il suo blog, l’ex comico convertitosi alla politica attacca la libertà d’informazione la quale, seppure a volte propensa alla calunnia e al pettegolezzo, proprio perché tale non è passibile di censure politiche. «Taci, il giornalista ti ascolta! Si nascondono ovunque. L’unica difesa è il silenzio, il linguaggio dei segni – così scrive Grillo sul suo blog – I giornalisti non possono infestare Camera e Senato e muoversi a loro piacimento: vanno disciplinati in spazi appositi, esterni al Palazzo. Per un’intervista chiedano un appuntamento, non bracchino i parlamentari per le scale o al cesso. All’ingresso di Montecitorio e di Palazzo Madama va posto un cartello “No gossip. Il Parlamento non è un bordello. Il Parlamento è il luogo più sacro, di una sacralità profana, della Repubblica italiana, ma è sconsacrato ogni secondo, ogni minuto, frequentato impunemente, spesso senza segni di riconoscimento, da folle di gossipari e pennivendoli dei quotidiani alla ricerca della parola sbagliata, del titolo scandalistico, del sussurro captato dietro a una porta chiusa. Qualche deputato li scambia talvolta per colleghi e parla, parla per ritrovare sul giornale quella che credeva una conversazione privata. Mercanti di parole rubate». Poi, dopo aver citato la cacciata dei mercanti dal tempio, Grillo “inventa” lo sfogo di un parlamentare che si lamenta perché «nel Parlamento romano, all’ingresso o in ascensore, anche all’urinatoio con il microfono nel taschino c’è sempre un giornalista senza tesserino». A parte taluni eccessi, certamente condannabili più sotto il profilo della deontologia professionale che per la violazione della privacy (i politici sono comunque personaggi pubblici), resta il fatto che il leader del Movimento Cinque Stelle non digerisce la stampa libera e comunque vorrebbe che l’attività dei giornalisti fosse confinata in regole ben precise, a rischio della completezza dell’informazione (per il suo blog, “libero” di scrivere qualsiasi cosa, invece nessuna restrizione). La notizia di questo ennesimo attacco alla stampa è esplosa nel bel mezzo della conferenza stampa del M5S a Montecitorio: i deputati Laura Castelli, Mattia Fantinato e Carla Ruocco stavano illustrando le loro proposte in campo fiscale ma le parole al vetriolo di Grillo non potevano certo essere ignorate. Ne è scaturito un lungo “botta e risposta” tra i cronisti e i parlamentari “pentastellati”. Alla richiesta dei giornalisti di un commento sull’idea di Grillo di cacciare i giornalisti da Montecitorio e da Palazzo Madama è sorto un vero e proprio parapiglia. Per i parlamentari del M5S si trattava di «domande fatte per oscurare il lavoro svolto in Parlamento»: «Dovreste chiederci qualcosa sul fisco», ha sbottato Carla Ruocco. I cronisti hanno rivendicato la possibilità di scegliere le domande e hanno insistito sulla «difesa della libertà di stampa», chiedendo se i deputati presenti fossero d’accordo con Grillo. Ha risposto Laura Castelli: «Grillo, come noi, chiede che i giornalisti stiano nei luoghi deputati a fare informazione e non a origliare dietro le porte dei bagni. Tutte le volte che ci siamo sentiti in imbarazzo di fronte ai vostri comportamenti ci siamo rivolti agli organi che organizzano il vostro lavoro». Un dialogo apparentemente impossibile. «Ma non temete che venga danneggiata la libertà di stampa? Il post di Grillo prima definisce “mercanti del tempio” i giornalisti e poi chiude con un doppio “vaffanculo”», ha sottolineato un cronista. La replica non si è fatta attendere: «Siamo nati con il “vaffanculo”, non vi sconcerterete adesso?». Lo scontro è poi continuato a telecamere spente. I deputati si sono sfogati dicendo che alcuni giornalisti li avevano offesi; i cronisti hanno sottolineato che «soltanto durante il fascismo veniva impedito alla stampa di assistere ai lavori parlamentari». Una deputata ha sottolineato che «negli anni Cinquanta i cronisti non potevano entrare in Transatlantico». Un cronista le ha risposto: «Certo, perché i politici dell’epoca non volevano che i giornalisti scrivessero quello che accadeva nel “Palazzo”. Allora, torniamo alla mezzadria». «Meglio la mezzadria, funzionava meglio», è stata la risposta della deputata che ha poi posto fine al “dibattito”.

La minaccia...ai giornalisti.

Giornalisti minacciati, Lazio da record. Aggressioni, intimidazioni, querele pretestuose e vari danneggiamenti. Ecco come cercano di fermare i cronisti «colpevoli» di raccontare scomode verità, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Minacciati, aggrediti, intimiditi. Gli incendiano casa e gli fanno esplodere l’auto; tentano di metterli spalle al muro spedendogli proiettili o ricorrendo a telefonate minatorie. Ma li "attaccano" anche per vie legali, con querele che poggiano sul nulla. È la vita del giornalista descritta dai dati di "Ossigeno per l’informazione", l’Osservatorio sui cronisti minacciati in Italia, promosso dalla Federazione nazionale della stampa italiana e dall’Ordine dei giornalisti. Del cronista impavido che rischia fisicamente, e di quello che non arretra di fronte a una denuncia. "Penne" coraggiose che anno dopo anno rischiano la rovina e a volte la vita, come accaduto in passato.

LE INTIMIDAZIONI. I numeri rivelati da "Ossigeno" sono impressionanti. Nel 2014 i giornalisti minacciati, o in qualche modo frenati, nel nostro Paese sono stati 421, dato aggiornato al 31 ottobre scorso. Nel 2013, nello stesso arco di tempo, erano 316. Dal 2006, anno in cui è stato dato inizio al monitoraggio, ad oggi, le "penne" intimidite sono state 2085. Ma, come segnala lo stesso Osservatorio, «dietro ogni intimidazione documentata, almeno altre dieci restano ignote perché le vittime non hanno la forza di renderle pubbliche». Ma quali sono i metodi attraverso i quali i giornalisti vengono attaccati?

MINACCE E QUERELE. Si va dalla "querela per diffamazione ritenuta pretestuosa" (129 casi nel 2014 e 324 documentati dal 2011 ad oggi) all’insulto (35 quest’anno, 174 dal 2011); dall’aggressione lieve (38 quest’anno e 129 dal 2011) all’abuso del diritto (50 e 128); dalla lettera con proiettili attivi (3 e 69) alle minacce personali (17 e 83); dalle intimidazioni con striscioni e scritte (9 e 74) alla discriminazione ed esclusione arbitraria (16 e 52). Seguono intimidazioni con esplosivo (nessun caso nel 2014 ma 40 dal 2011), lettere minatorie (11 e 51), citazione in giudizio per danni considerata strumentale (20 e 47), minacce di morte (8 e 33), spari (zero e 22), danneggiamento (12 e 36), avvertimenti (11 e 30), incendio dell’auto o dell’abitazione (7 e 27). Ci sono anche le minacce via Facebook o attraverso altri social network (4 e 16) e le querele pretestuose da parte del magistrato (11 e 23). Seguono aggressioni gravi, perquisizioni invasive, furti, stalking, avvisi di garanzia per reti legati alla pubblicazione delle notizie, sequestri giudiziari di documenti e archivi, telefonate minatorie, bossoli esplosi, ecc.

AGGRESSIONI E AVVERTIMENTI. Il giornalista, in buona sostanza, si sente spesso "circondato". E le intimidazioni appaiono ancora più chiare se si analizzano per macrocategorie: le aggressioni fisiche sono passate dalle 50 del 2011 alle 43 del 2014, con un balzo fino a 63 nel 2013. Gli avvertimenti sono stati 156 nel 2011, 181 l’anno dopo, 148 nel 2013 e 121 quest’anno. I danneggiamenti nel 2014 sono stati 19 (erano 11 tre anni prima). Le denunce e le azioni legali contro giornalisti sono state 109 nel 2011, salite a 220 nell’anno in corso. Infine, gli ostacoli alla libertà d’informazione, che erano zero nel 2011, sono arrivati a 18 nel 2014. Nel "mirino" finiscono soprattutto i giornalisti della carta stampata, con 262 casi dal 2011 ad oggi, poi quelli della tv (91 casi in totale), e del web (76).

IL LAZIO PRIMEGGIA. Dal monitoraggio di "Ossigeno" emerge che nel 2014 la regione che ha registrato il numero maggiore di intimidazioni, in tutte le varie forme, è il Lazio, con 82 casi (257 dal 2011 ad oggi). A ruota seguono: Campania con 50 casi (262 dal 2011), Sicilia 43 (162 dal 2011), 42 Lombardia (230), Basilicata 34 (42), Puglia 33 (69), Veneto 33 (63), Calabria 30 (94). E ancora: 25 Emilia Romagna (60), 16 Toscana (47), 14 Piemonte (50), 11 Friuli Venezia Giulia (20), 10 Abruzzo (29), 9 Liguria (22), 5 Sardegna (14), 5 Marche (13), 2 Umbria (8), 1 Molise (13), 1 Trentino Alto Adige (4). L’unica "isola felice" è la Valle d’Aosta.

L’INCHINO E LA SCORTA. In qualche caso il nome del giornalista minacciato è noto, in altri no. Non tutti, infatti, si atteggiano a vittima e oracolo. Michele Albanese, ad esempio, del Quotidiano della Calabria , vive sotto scorta da quando ha scritto dell’"inchino" della statua della Madonna davanti casa di un boss a Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria. Oppure Guido Scarpino, de Il Garantista, al quale hanno incendiato l’auto sotto casa. Ma l’elenco è lungo, troppo lungo per una Paese libero e democratico.

GIORNALISTI OSCURATI E NOTIZIE SOTTO SCORTA di Alberto Spampinato. Nella libera Italia sono numerosi i giornalisti che rischiano la vita, subiscono minacce, intimidazioni, ritorsioni, finiscono sotto scorta e sono costretti a una vita blindata per avere pubblicato notizie sgradite a mafiosi, camorristi, clan della ‘ndrangheta. Lo conferma la vicenda di Giovanni Tizian, che dal 22 dicembre vive protetto dalla polizia 24 ore su 24 ed è il quinto giornalista minacciato in Italia dall’inizio del 2012. Altre conferme vengono dalle storie degli altri giornalisti costretti a vivere sotto scorta. Vivono così, dal 2007, Lirio Abbate, Rosaria Capacchione e Roberto Saviano e un’altra diecina di giornalisti meno noti. Altre diecine (impossibile sapere esattamente quanti siano) sono sottoposti a protezioni di polizia più blande. Molti di loro hanno pubblicato in esclusiva notizie e inchieste sgradite ai boss della mafia. Pubblicare notizie approfondite sull’attività della mafia aiuta a combattere la mafia, ma è rischioso: per questo motivo in passato in Italia sono stati uccisi nove giornalisti, l’ultimo, Beppe Alfano, l’8 gennaio 1993 in Sicilia. Da allora la mafia non ha ucciso altri giornalisti, ma non ha rinunciato a fare piani per uccidere i giornalisti più irriducibili. Non ci sono stati altri omicidi perché i boss privilegiano altri mezzi, più subdoli, per condizionare l’informazione giornalistica e anche perché, per fortuna, nel frattempo, gli inquirenti hanno sviluppato strumenti di indagine più raffinati, e così hanno sventato numerosi attentati. Sono tantissimi in Italia i giornalisti minacciati dalla mafia. Ma molti di più sono i giornalisti che subiscono intimidazioni e censure violente di altra matrice: tantissime sono, ad esempio,  le querele pretestuose e le citazioni in giudizio per danni da parte di imprenditori, uomini politici, amministratori pubblici al puro fine di mettere in difficoltà il giornalista e rendere più difficile la pubblicazione di notizie sfavorevoli. Nel 2011, in Italia,  secondo i dati dettagliati di Ossigeno per l’Informazione, i giornalisti minacciati sono stati 324. L’osservatorio è stato creato ad hoc nel 2008 dalla FNSI insieme all’Ordine nazionale dei giornalisti, proprio per accertare la natura e la dimensione di questo triste fenomeno. I risultati saranno presentati nel Rapporto 2011-2012 di imminente pubblicazione e sono riassunti nelle tabelle allegate e sul sito dell’Osservatorio e in questa cifra totale: tra il 2006 e il 2011, l’osservatorio ha accertato 230 intimidazioni con 925 giornalisti coinvolti. Questa è la parte visibile di un fenomeno che rimane in gran parte sommerso e che, secondo le stime di Ossigeno è dieci volte più grande. Le dimensioni del fenomeno sono dunque grandi e non è più possibile trascurare il problema. Non è solo questione di garantire la sicurezza e la  libertà personale di centinaia di giornalisti, ma di garantire la libertà di stampa e il diritto dei cittadini di essere informati, perché per ogni giornalista intimidito c’è l’oscuramento di un grappolo di informazioni di grande interesse pubblico. Non a caso il gran numero di giornalisti minacciati allarma le istituzioni internazionali e continua di anno in anno a fare perdere posizioni all’Italia nella graduatoria internazionale sulla libertà di stampa: l’ultimo declassamento è arrivato nei giorni scorsi da Reporters Sans Frontieres, ed è stato uno scivolone in basso di altre 12 posizioni. E’ dunque necessario affrontare il problema con maggiore attenzione e in modo diverso, sia prendendo provvedimenti di maggior garanzia in materia di organizzazione del lavoro giornalistico, sia sul piano politico e legislativo, per adeguare una normativa arcaica e inadeguata che rende fin troppo facile trascinare pretestuosamente in giudizio un giornalista, intimidirlo, ostacolare palesemente il suo lavoro di informatore dei cittadini. Occorre certamente modificare la legge sulla diffamazione, occorre proteggere più attivamente il diritto alla segretezza delle fonti confidenziali, occorre impedire l’abuso sistematico di alcune norme del diritto. Bisogna sciogliere questi nodi per restituire al giornalismo italiano la sua autonomia ed indipendenza. Ma intanto bisogna aiutare concretamente quei giornalisti che prendono il fuoco con le mani. Quelli che accettano il rischio. Quelli che si espongono di più e perciò subiscono intimidazioni, minacce e ritorsioni. E’ evidente che i giornalisti minacciati che corrono i pericoli più gravi devono essere difesi dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. Ma gli altri giornalisti e i cittadini non possono restare a guardare: devono difenderli mettendosi al loro fianco, devono proteggerli, circondandoli di solidarietà, facendo vedere che non sono soli, dimostrando che le intimidazioni non spengono la voce del giornalista preso di mira, ma anzi la amplificano, la moltiplicano per cento, per mille, e quindi le minacce sono vane e controproducenti. Ossigeno – Bologna, 29 gennaio 2012. Alberto Spampinato, consigliere della FNSI, direttore di Ossigeno per l’Informazione.

L’ossigeno che racconta i giornalisti minacciati, scritto da Marco Miggiano. Quanti sono i giornalisti minacciati? Quanti vivono sotto scorta? Quanti di loro hanno subito querele ed intimidazioni di ogni genere? Quanti hanno perso la vita o sono stati ammazzati perché erano divenuti scomodi o perché seguivano da vicino guerre o scontri di piazza? Un mondo ancora poco conosciuto, o meglio sottovalutato, in Italia quello dei giornalisti minacciati dalla mafie e non solo che deve assolutamente entrare nel dibattito, sia politico che culturale. Un primo serio tentativo di ridare dignità e visibilità a quanti rischiano ogni giorno la propria incolumità per cercare la notizia, arriva da Ossigeno per l’informazione, un osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia promosso da FNSI e Ordine nazionale dei giornalisti. Un progetto a cui partecipano e danno il loro contributo decine di giornalisti e giornaliste con il solo intento di approfondire questo triste aspetto del mondo dell’informazione italiana e far conoscere tante storie di coraggio e capacità professionale. Alcuni dati sono davvero allarmanti. Dal 2006 sono circa 1451 i giornalisti che hanno subito minacce, attentati, auto bruciate, proiettili recapitati a casa, agguati, percosse e violenze fisiche. Solo in questa metà del 2013 sono esattamente 204 i giornalisti che hanno subito violenze. 26 invece coloro che sono stati uccisi. Una lista che parte dal 1960, con l’uccisione di Cosimo Cristina a Termini Imerese (Palermo) fino ad arrivare al 15 aprile 2011 quanto a Gaza, dopo un breve rapimento, venne ucciso il giornalista e cooperante Vittorio Arrigoni. Da qualche tempo è stata scelta la data del 3 maggio come giornata della memoria e tutti coloro che hanno perso la vita durante il loro lavoro, vengono ricordati in una cerimonia pubblica a Perugia. Ossigeno per l’informazione si pone, quindi, l’obiettivo di sostenere e dare voce a quei tanti uomini e donne che praticano un giornalismo vero, quel giornalismo serio, sano, fatto sul campo, nelle strade, nei vicoli delle città, professionisti che senza paura affrontano chiunque pur di trovare la verità e fare informazione. Inoltre, l’Osservatorio analizza e approfondisce anche le nuove modalità di aggressione al mondo dell’informazione. Oggi, infatti, i meccanismi per intimidire sono molteplici e vanno oltre alle classiche e vigliacche violenze fisiche. Oggi la mafia, ma non solo, è cambiata, ha studiato come muoversi nella finanza, negli appalti, nelle aule di tribunale ed anche per quanto riguarda le intimidazioni nei confronti dei giornalisti ha mutato il suo modus operandi. Paradossalmente, per alcuni aspetti, le nuove minacce per i giornalisti non arrivano più dalla canna di una pistola ma dalla penna di un avvocato. Quello che fa più paura ad un giornalista oggi giorno è ricevere una querela ed affrontare il processo che ne segue. Uno strumento giuridico legale utilizzato per cercare di tappare la bocca a chi fa solo il proprio mestiere. Querele pretestuose, inutili, spesso infondate ma che tolgono serenità al giornalista, così come è successo a Michele Inserra che ha ricevuto ben tredici querele consecutive dalla stessa persona, per di più da un magistrato. Si è formato un vero e proprio sistema che distrugge in maniera scientifica e ragionata soprattutto i free lance, chi viene pagato a pezzo per pochi euro, ma anche chi fortunatamente ha un contratto e lavora con grandi quotidiani nazionali. Il meccanismo è il medesimo, ma con qualche tutela in più grazie agli uffici legali preposti a risolvere tali questioni. Ricevere una querela fa scattare un meccanismo di auto difesa inconscia nella mente del giornalista che porta ad auto censurarsi, a ragionare più e più volte sull’opportunità di pubblicare o meno quella notizia. Ogni querela, ogni intimidazione corrisponde ad una notizia non data o consegnata alla cronaca in maniera approssimativa. Scatta l’ansia, la paura di perdere un processo in corso e dover risarcire per migliaia di euro la controparte e ciò significa, spesso, smettere di lavorare. E’ una partita che si gioca ad armi impari ed occorre trovare dei meccanismi legislativi che riescano a tutelare il mondo del giornalismo italiano. E’ questa, infatti, una delle tante richieste portate avanti da Ossigeno per l’Informazione che è riuscita, in particolare, a presentare le proprie proposte alla Commissione Parlamentare Anti Mafia, che per la prima volta ha dedicato un’indagine specifica rivolta ai giornalisti minacciati, focalizzando l’attenzione su ciò che avviene al sud, soprattutto in Calabria, Sicilia e Campania, quest’ultima la regione con il più alto numero di giornalisti minacciati. Un’indagine iniziata già nel 2012 durante la scorsa legislatura, interrotta per la fine anticipata della stessa, ma ripresa dopo l’ultima elezione dello scorso febbraio.  Così la Commissione Antimafia, dopo aver raccolto opinioni e proposte, ha formulato una serie di richieste al Governo e al Parlamento italiano, al fine di assicurare una maggiore protezione al mondo del giornalismo nella sua totalità. Ne è nato un dossier, dal titolo “Taci o sparo” scaricabile gratuitamente dal sito ossigenoinformazione.it, che riassume nel dettaglio tutte i problemi individuati e le proposte formulate dall’Osservatorio. Il testo presentato è a cura di  Alberto Spampinato, Dario Barà, Matteo Finco, Lorenzo Di Pietro, che si sono avvalsi anche della preziosa collaborazione di alcuni di quei giornalisti minacciati in prima persona, come Giovanni Tizian ed Arnaldo Capezzuto, oltre della professionalità e competenza di Lirio Abbate  ed Angelo Agostini. Occorre aggiornare le norme relative a questo settore e parlare, raccontare, scrivere e far conoscere le storie dei giornalisti minacciati in modo che queste non siano più singole storie, singoli uomini e donne lasciati soli ad affrontare paure e processi.

Quando il cronista finisce sotto scorta. Volti noti come Sandro Ruotolo, ma anche reporter di provincia come Michele Albanese. Sono tra i 30 e i 50 i giornalisti italiani costretti a vivere sotto scorta perché ritenuti in pericolo di vita, anche se i numeri ufficiali non vengono resi noti dal ministero dell'Interno. A questi vanno aggiunti gli oltre 2300 minacciati dal 2006 ad oggi con attentati incendiari, lettere con proiettili, telefonate intimidatorie in piena notte e le più subdole cause milionarie. "Abbiamo solo fatto il nostro lavoro per come va fatto, senza nascondere nulla, senza mezze frasi, senza allusioni, ma con le notizie". L'inchiesta di Giuseppe Baldessarro e Daniele Mastrogiacomo su “La Repubblica”.

"Costretti a sentirsi un pericolo ambulante", scrive Daniele Mastrogiacomo. "Lo sai la cosa che fa più male?", si chiede ad un certo punto, la voce stretta da un groppo alla gola, Michele Albanese, cronista giudiziario del Quotidiano del Sud, da dieci mesi sotto scorta. "Fa male sentirti come un estraneo, un pericolo ambulante, essere trattato come un vero appestato". Dall'altra parte del telefono senti solo l'affanno di un collega ferito. Nell'animo e nella mente. "Il contesto culturale che ti circonda", aggiunge, "alla fine ti isola, fa terra bruciata. I conoscenti, gli amici, le stesse fonti a cui ti rivolgevi per lavoro, ti evitano. Hanno paura, temono ritorsioni. Cambia tutta la tua vita. Cambia perfino il tuo modo di pensare. A volte penso: vivo sotto scorta per quello che ho scritto. Ma siamo in Italia, nel 2015. In un paese che si vanta di essere una democrazia compiuta". Tutto è iniziato con Roberto Saviano, scrittore e commentatore, con il suo "Gomorra". Un libro impressionante. Pochi, all'inizio, ci avevano fatto caso: per le cose che raccontava sembrava quasi un romanzo di fantascienza. Fu una denuncia vera. Dettagliata e attendibile. Svelava i traffici di clan dominanti nel Casertano e a Napoli e i loro intrecci con il mondo affaristico, industriale, politico. I Casalesi reagirono e decisero di minacciarlo di morte pubblicamente. Vive sotto protezione da 9 anni. Non si conosce il numero esatto dei giornalisti scortati. Il ministero degli Interni si rifiuta di indicarlo. Ma secondo stime attendibili sarebbero almeno tra i 30 e i 50. Il sito dell'osservatorio Ossigeno curato da Alberto Spampinato, fratello di un giornalista ucciso dalla mafia nel 1972, ha addirittura un contatore che aggiorna in tempo reale le minacce e le aggressioni subite dai cronisti. Nei primi sei mesi di quest'anno sono già 156, che diventano 2.300 dal 2006. Da Palermo a Torino. Incendi dolosi a macchine e portoni di casa, lettere con proiettili, telefonate intimidatorie in piena notte, linciaggi sulle pagine di Facebook, querele milionarie, intimidazioni, aggressioni fisiche, veri pestaggi. A guardare la mappa nera dell'informazione cade anche un diffusa convinzione: la Calabria conta solo 7 minacce mentre il Lazio con 26, la Sicilia con 23, la Campania con 20, la Puglia e la Lombardia con 18 restano in testa alla lista dei proscritti. E' accaduto spesso. Anche negli Anni 80 del secolo scorso. All'epoca il pericolo arrivava dal terrorismo. Agguati mortali, azzoppamenti, sparatorie. Chi si occupava della galassia armata di destra e di sinistra rischiava in prima persona. Il clima era pesante e cupo. Prima di uscire di casa, sorretti dall'istinto di sopravvivenza, molti attendevano di ascoltare alla radio la notizia dell'ennesimo attentato. Altri giravano con la pistola. Erano cronisti giudiziari, di nera. Ma anche firme di punta dei quotidiani: basta pensare a Carlo Casalegno, vicedirettore de La Stampa, colpito da un commando delle Br nel novembre del 1977 e morto dopo 13 giorni di agonia; così accadde a Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera, assassinato nel maggio del 1980. Le scorte si contavano sulle dita di una mano. Oggi è diverso. Forse peggio. I mandanti delle minacce e delle aggressioni non si conoscono. Perché il pericolo si annida nel business della corruzione e nella zona grigia dove si muovono le cerniere di collegamento con la politica. "E' il denaro", conferma Lirio Abbate, anche lui storico cronista giudiziario, oggi inviato de L'Espresso, da 8 anni sotto scorta "a far scattare le minacce più pesanti. Quando scavi e scrivi sugli appalti, sveli i personaggi che si muovono nell'ombra, i famosi colletti bianchi, finisci per toccare interessi che devono restare segreti. Per motivi di lavoro ho cambiato spesso città. Ma mi sono reso conto che non era tanto il contesto, la singola organizzazione criminale, a provocare la violenta reazione degli intoccabili. Erano i temi. Così è successo per Cosa nostra, così per la 'Ndrangheta e la Camorra. Così per l'inchiesta Mafia Capitale, con Massimo Carminati che si accanisce sulla mia persona". Lirio Abbate non ha una vita normale. Anche lui, come Giovanni Tizian de L'Espresso e Federica Angeli de La Repubblica, cerca una spiegazione ad una realtà che non si sarebbe mai aspettato. Ha fatto solo il suo lavoro. Ha raccolto voci, informazioni, le ha verificate. Le ha scritte. Magdi Cristiano Allam, editorialista de Il Giornale, si muove da anni circondato da 4 auto blindate. Ha raccontato il tenore dei sermoni che gli imam tenevano nelle diverse moschee italiane. Di origini egiziane, conosce l'arabo. E ha spiegato, in epoca non sospetta, che nei discorsi della preghiera del venerdì si usavano spesso parole di fuoco e di incitazione alla jihad contro gli infedeli. Lo hanno minacciato di morte. Sandro Ruotolo, da sempre inviato della trasmissione di Michele Santoro, oggi a Servizio Pubblico, è l'ultimo ad essere entrato nella lista dei giornalisti sotto scorta. E' stato pesantemente minacciato dal boss dei Casalesi Michele Zagaria. Anche lui di morte. Lo ha detto ad una delle donne che era andata a parlargli in carcere. "Ero convinto", ragiona Ruotolo, "che con l'arresto di Zagaria e Iovine la Camorra fosse stata azzoppata. Ho scoperto che tra il 2008 e il 2013 erano stati catturati 5000 camorristi. Ma anche che 300 di questi sono tornati liberi, che non è stato individuato l'arsenale, che tutti quelli che non sono accusati di fatti di sangue presto lasceranno il carcere. Eppure il ministro Alfano la settimana scorsa ha fornito in Commissione alla Camera delle cifre ufficiali su Napoli. Ci sono 78 clan, 32 dei quali in città; 4000 affiliati, di cui 1600 in città. Ma questo non era mai stato raccontato ai giornalisti. I quali, evidentemente, non lo sanno. Vuol dire che abbiamo fatto un pessimo lavoro. Ma anche che il governo ci ha mentito o tenuta nascosta una realtà drammatica".

Un'intercettazione e la vita cambia per sempre, scrive Giuseppe Baldessarro. Vive sotto scorta dal 17 luglio dello scorso anno. Una data che non potrà mai dimenticare. Prima la telefonata dalla questura di Reggio Calabria: "Deve presentarsi urgentemente presso i nostri uffici per delle comunicazioni importanti". Poi l'incontro con il Prefetto, Claudio Sammartino, e con il Procuratore, Federico Cafiero de Raho: "Abbiamo buone ragioni per ritenere che la sua sicurezza personale sia a rischio. E' necessario assegnarle una scorta, ci creda non se ne può fare a meno". In pochi minuti la vita di Michele è cambiata. La sua esistenza di cronista del Quotidiano del Sud è stata travolta. Tutto diverso: la quotidianità, gli incontri con le fonti, le giornate passate in giro a caccia di notizie e storie da raccontare ai lettori. Tutto spazzato via. Qualche ora prima le cimici della Polizia avevano registrato quella frase: "A questo lo fanno zumpare (saltare) con tutta la macchina". Una frase, una sola. Detta però tra interlocutori che sapevano bene come la 'ndrangheta non avesse digerito alcuni suoi articoli. Gente che bazzica certi ambienti, che ascolta, che raccoglie umori, che sa di cosa parla. Da quella frase, da quel giorno, Michele Albanse vive blindato. C'è la scorta che va a prenderlo sotto casa ogni volta che la chiama è c'è la vigilanza che controlla ogni segnale "strano". Non può mai uscire da solo, né gli è consentito spostarsi autonomamente. Quanto basta per portarlo a vivere le giornate quasi sempre chiuso nel suo studio: le chiama "quelle quattro mura". Il suo lavoro è radicalmente cambiato. Non ci sono più notizie da scrivere, o meglio ce ne sono molte meno. Le fonti non lo incontrano più. Non davanti ai due poliziotti che lo seguono ovunque. Non si fidano, non tanto di Albanse che le ha sempre tutelate e protette, quanto, più semplicemente, di quegli uomini che lo accompagnano, "sempre poliziotti sono". Se è vero che ovunque le notizie più interessanti viaggiano sui binari della garanzia dell'anonimato, questo vale ancora di più a Cinquefrondi, paese in cui vive Albanese, e soprattutto città della Piana di Gioia Tauro. Così il cronista che da sempre si occupa dei clan dell'area tirrenica della provincia di Reggio Calabria ora è per certi versi azzoppato. I suoi articoli sono oggi il frutto di tanta esperienza accumulata, dell'archivio sterminato che possiede, di fonti aperte come i comunicati ufficiali e di pochissimo altro. Come dice lui stesso "manca la strada". Manca cioè la possibilità di andare in giro liberamente. Quella condizione che in altri termini consente di fare il lavoro come va fatto, completo. Albanese è poi una persona che ha grande rispetto delle istituzioni e "piuttosto che andarmene ovunque con l'auto blindata, per essere giudicato come quello che ne approfitta per fare il professionista dell'antimafia", se ne sta a casa, a fare "quel che si può, ma non è la stessa cosa". Certi messaggi da queste parti valgono doppi, e lui vuole essere percepito come il giornalista che è sempre stato: umiltà e olio di gomito. Non si sente un eroe, sottolinea come "ha fatto soltanto il suo lavoro per come va fatto, senza nascondere nulla, senza mezze frasi, senza allusioni, ma con le notizie". Per questo, ripete, "non c'è niente da rimproverarsi". Per questo rifarebbe tutto quello che ha fatto. Michele Albanese non è isolato. Gli amici hanno continuato a frequentarlo come sempre, i colleghi hanno fatto quadrato attorno a lui, ma "la libertà non te la può dare nessuno, la libertà non c'è più". Albanese lo dice quasi a denti stretti: "Se l'obiettivo era quello di farmi smettere di scrivere, temo che ci siano riusciti", e infine "spero che finisca presto, spero di poter tornare a fare il mio lavoro cercando di essere utile alla terra bellissima e maledetta in cui sono nato. Spero di tornare presto a essere libero".

A proposito di scorte...

«Sono Scajola, mostro perfetto. Non negai la scorta a Biagi», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Nel calcio si chiama fallo di confusione. Nella procedura penale non è previsto. Ma la Procura di Bologna è quasi riuscita a riscrivere il codice e introdurre la particolare fattispecie. Ha chiesto alla locale sezione del Tribunale dei ministri di interrogare Claudio Scajola e Gianni De Gennaro nell’ambito della nuova inchiesta sulla morte di Marco Biagi, con una postilla: domandate, hanno suggerito ai giudici il pm Gustapane e il capo dell’ufficio D’Alfonso, se intendono rinunciare alla prescrizione; se i due indagati decidono di avvalersene, hanno aggiunto i pubblici ministeri, eccovi già pronta la nostra richiesta di archiviare l’indagine. Mai visto nulla di simile. Né nel codice né nella prassi. E infatti i difensori di Scajola, Giorgio Perroni ed Elisabetta Busuito, devono farci un comunicato sopra: «Il processo che si è svolto a Bologna rappresenta qualcosa di assolutamente surreale, è noto a tutti che l’indagato non può rinunciare alla prescrizione». E infatti la corte speciale che si forma nei tribunali quando c’è di mezzo qualcuno che ha fatto o fa parte del governo – dicesi Tribunale dei ministri – ha dichiarato l’intervenuta prescrizione senza mai aver ascoltato Scajola, e neppure De Gennaro. Di una cosa si può star certi, però: il fallo di confusione fischiato dalla Procura di Bologna annulla tutto il resto e decreterà, seppur involontariamente, quanto segue: Scajola se l’è scansata perché è un vigliacco. Non è in atti ufficiali ma tutti diranno così. «Sono il mostro, il depositario di tutte le nefandezze», dice l’ex ministro dell’Interno. Con inevitabile sarcasmo.

E perché, onorevole Scajola? Perché le appioppano sempre la maschera del mostro?

«Credo per due motivi. Uno è che oggettivamente la vicenda della casa al Colosseo, così come è stata presentata, e anche con l’ingenuità con cui ho provato a spiegarla, ha creato in qualche modo il mostro».

Quella casa che, per citare la storica frase, fu pagata a sua insaputa. Se tornasse indietro lo direbbe ancora?

«Non la direi così. Ma se avesse la pazienza di leggere con attenzione la sentenza del Tribunale di Roma, verificherebbe che i giudici hanno stabilito come le cose fossero andate proprio in quel modo. Lo hanno detto dopo un’inchiesta e un processo».

E però quell’espressione le ha nuociuto, lei dice. L’altra ragione che crea il mostro Scajola?

«Ero molto impegnato politicamente, avevo un buon seguito parlamentare e locale, ero un boccone ghiotto per i nemici. E soprattutto per gli amici».

Chi doveva capire avrà capito. Il Tribunale ha appena archiviato l’accusa ipotizzata nella nuova inchiesta sull’assassinio di Marco Biagi: omicidio volontario. Eravate indagati in due: lei e De Gennaro.

«Come hanno detto i miei avvocati questa indagine non doveva neanche cominciare. Si è gettato fumo negli occhi delle persone, è stata indotta molta confusione. Ho saputo della nuova inchiesta mentre ero in cella a Reggio Calabria, dopo essere stato ingiustamente arrestato per una vicenda, quella di Matacena, a cui ero totalmente estraneo. Poi c’è stata una passerella continua di testimoni alla Procura di Bologna. Hanno sfilato tutti tranne il sottoscritto. Non ero indagato ma mi hanno messo nella condizione di chi si sente depositario di tutte le nefandezze».

Perché non l’hanno chiamata?

«Se l’avessero fatto avrebbero dovuto iscrivermi a registro degli indagati».

E lei non lo era. Altrimenti i pm bolognesi avrebbero dovuto passare le carte al Tribunale dei ministri. Non l’hanno indagata per non perdere l’inchiesta?

«Evidentemente contava far nascere il caso. Poi hanno iscritto il mio nome e quello di De Gennaro. Non avrebbero mai potuto chiedere il nostro rinvio a giudizio per omicidio volontario. Hanno contestato la cooperazione colposa in omicidio colposo. Che era prescritta da 5 anni».

Ma intanto il caso, e il mostro, erano serviti.

«Esatto. E poi cos’ha detto la Procura? Se vuole fare chiarezza sulla vicenda rinunci alla prescrizione, come se io fossi depositario di chissà quali segreti. Ma io non potevo disporre della prescrizione, è stata dichiarata d’ufficio».

Possibile che i pm ritenessero invece l’estinzione del reato a disposizione di voi indagati?

«Sono persone che si occupano di diritto per mestiere. E l’indagine che è archiviata, non la mia posizione. Che motivo c’era di fare un pandemonio simile, per un anno? Avrebbero dovuto evitarlo per il rispetto che si deve a Biagi e alla sua famiglia. Pensiamo di aver fatto del bene, alla famiglia Biagi?»

Lei non sapeva dei rischi che correva Biagi?

«Sono uno che crede in Dio. Alla fine di questa vicenda, nel prossimo week end, avremo i confessionali pieni di cattolici che hanno creato per via mediatica l’idea di una mia responsabilità. Hanno cercato di far passare che non ho voluto dare la scorta a Biagi. Eppure c’era già stata un’indagine quand’ero ministro dell’Interno. Avevo promosso un decreto legge approvato all’unanimità in Parlamento per riformare il sistema delle scorte. Solo dopo la morte di Biagi, purtroppo, ci si è resi conto che lo scambio di informazioni tra prefetture e servizi segreti non funzionava. Non fu neanche sfiorata l’ipotesi che il ministro avesse la competenza di mettere o togliere scorte. Lo dice la legge. E cosa succede? Che a 13 anni dalla morte di Biagi, e a 12 dalla chiusura della prima indagine, lo stesso pm riapre il caso per omicidio volontario, senza indagati».

Le voci secondo cui le sarebbero stati segnalati pericoli per Biagi?

«Non era competenza del ministro dare o revocare scorte, ma certo se Maroni o altri avessero avuto percezione che c’era pericolo per Biagi e mi avessero detto oh guarda potrebbero colpirlo, avrei fatto quanto meno una segnalazione agli organi preposti».

E non ha mai avuto segnalazioni di quel tipo.

«Dagli atti mi risulta, e ne ho ampie testimonianze, che nessuno abbia detto di avermi segnalato che Biagi era una persona a rischio, meritevole di particolare attenzione. Poi c’è la lettera di Luciano Zocchi».

Il suo segretario di allora.

«All’inizio di questa seconda indagine si è detto che questo appunto lo vidi e che c’era la mia sigla, il mio visto. Non è vero, non c’è alcuna mia sigla. L’appunto era stato preparato alla vigilia della mia partenza per Washington, ed era stato lasciato in segreteria, non l’avevo con me. Quand’ero negli Stati Uniti arrivò la notizia dell’assassinio di Marco Biagi».

E la segnalazione di Casini?

«Non me ne aveva mai parlato».

Come sono finite queste voci nelle carte della Procura?

«Se i pm mi avessero chiamato avrei deposto volentieri. Non lo hanno fatto. Hanno sentito Maroni, Prodi, Casini, la mia segretaria di allora. Non me».

E’ uno di quei casi in cui, come ha denunciato Armando Spataro, si cerca il titolo sui giornali più che il processo?

«Mi sono dimesso senza aver ricevuto un avviso di garanzia, sono stato indagato 12 volte, sono passato per il più grande trafficone della storia repubblicana. Cosa resta? Assolto con formula piena a Roma per la storia della casa, archiviazione per l’inchiesta di Woodcock su Finmeccanica e per altri 8 processi. Ora arriva il nulla di fatto su questo. Resta il caso di Reggio Calabria su Matacena: lì risulto essere il primo arrestato della storia per procurata inosservanza di pena, è stato chiesto il processo immediato, ci sono state 5 udienze da ottobre e non abbiamo ancora finito di sentire il primo testimone, e questo perché c’erano prove schiaccianti. A proposito della sua domanda, le dice niente il mio curriculum? Ogni volta ho avuto titoli sui giornali, poi i processi finiscono come le ho detto».

L’avvocato della famiglia Biagi ha detto: Scajola e De Gennaro non faranno i conti con il tribunale, ma con la loro coscienza sì. Cosa risponde?

«Le ho già detto nel merito che non sento di avere responsabilità per quell’assassinio. Forse qualcuno avrà detto alla famiglia Biagi che mi era stata segnalata l’esigenza della scorta e che io l’avevo negata. Se fosse così avrebbero ragione a fare quel richiamo. Io sono convinto che la famiglia Biagi sia in buonafede. Ma che qualche pelandrone ha riferito loro che mi aveva chiesto di dare la scorta. Siccome non lo ha fatto, avrà detto che ero stato io a negarla».

Ha in mente l’identikit del soggetto?

«Aspetto di leggere le carte. Finora sono arrivate solo manine, veline, sussurri».

Ha smesso con la politica, vero?

«Voglio acquisire la piena verginità giudiziaria. Ma già domenica sono venute un centinaio di persone a casa mia ad Imperia. In Liguria faremo un buon risultato, come centrodestra. Poi si vedrà. Non mi piace lo scenario politico che si prefigura, mi piacerebbe che moderati e riformisti potessero disegnarne uno migliore».

Al giornalista Sandro Ruotolo, stretto collaboratore di Michele Santoro nella trasmissione di La7 «Servizio Pubblico», è stata assegnata una scorta. La decisione è stata presa dal prefetto di Roma, Franco Gabrielli, a seguito delle minacce di morte che il giornalista ha ricevuto da parte del capo del clan dei casalesi, Michele Zagaria, scrive “Il Mattino”. La decisione è stata presa in attesa della riunione del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza. A darne conferma è, in un tweet, la stessa redazione di «Servizio Pubblico». «Il nostro giornalista Sandro Ruotolo - si legge sul social network - è sotto scorta». Le minacce di morte al giornalista televisivo sono arrivate dal capo del clan dei Casalesi, Michele Zagaria, che, intercettato in carcere, ha detto: «'O vogl' squartat' viv'». All'origine delle minacce, un reportage di Servizio pubblico sulla Terra dei Fuochi, recentemente andato in onda su La7, che conteneva un'intervista di Ruotolo a Carmine Schiavone. «Ci sono tracce recenti di rapporti tra Zagaria, quando era latitante, e i servizi segreti. Ma parliamo degli anni Duemila», dice il giornalista in uno dei passaggi. «Non ti posso dire più niente. Lo saprai al momento opportuno», è la risposta di Schiavone, pentito del clan, morto lo scorso febbraio 2016. Messaggi di solidarietà sono subito giunti al giornalista de La7. «La camorra è più che mai attiva e vuole colpire le persone che denunciano la sua attività, un copione vecchio e che conosco bene». Così Rosaria Capacchione, senatrice del Pd e componente della commissione Antimafia, commenta la notizia che il giornalista Sandro Ruotolo è stato messo sotto scorta ,sulla base di minacce alla sua persona estrapolate da alcune intercettazioni. «La forza dello Stato - aggiunge Capacchione - si misura anche sulla base della sua capacità di proteggere chi è impegnato in prima linea non solo nelle indagini, ma anche chi ha denunciato e denuncia pubblicamente i crimini e l'illegalità. La scorta è una misura difensiva; in Campania, soprattutto nella Terra dei Fuochi, è forse ora di fare qualcosa di più contro Zagaria e gli altri clan». Su Twitter il senatore del Pd Nicola Latorre scrive: «Vicini a Sandro Ruotolo, da sempre impegnato in prima linea nelle inchieste più difficili. Con lui sempre più determinati contro i poteri criminali». Soldiarietà è stata espressa anche da Emanuele Fiano, deputato pd e responsabile Sicurezza della segreteria nazionale del Pd «Ci affidiamo alla competenza delle forze dell'ordine affinché venga salvaguardata anche in questo caso nel nostro Paese la libertà di cronaca e di inchiesta contro chi opera per inquinare la nostra democrazia». Infine sempre su Twitter il capogruppo dei deputati di Sel Arturo Scotto «Solidale con Sandro Ruotolo, grande giornalista minacciato dalla camorra. Caro Sandro, questi bastardi non fermeranno mai il tuo coraggio».

Camorra, scorta al giornalista Sandro Ruotolo Minacciato di morte dal boss Zagaria. Il braccio destro di Michele Santoro a Servizio Pubblico nel mirino del capomafia per l'inchiesta sulla Terra dei Fuochi. Dopo le intercettazioni, provvedimento d'urgenza adottato da prefetto Gabrielli, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Ancora una volta quando l'Informazione è fatta bene, dimostra che può dare fastidio ai mafiosi. A tenerli sulla corda, a innervosirli, perché non sempre sono abituati a essere maltrattati dalla stampa. E si agitano, i boss, anche quando sono detenuti e sottoposti al 41 bis, il duro regime carcerario. Questa volta ad andare su tutte le furie è stato il boss camorrista Michele Zagaria, che ha puntato il dito contro Sandro Ruotolo, giornalista di grande esperienza, colonna portante di Servizio Pubblico al fianco di Michele Santoro. A Zagaria “capastorta” sembra non essere andato giù, e forse gli è rimasta sulla pancia, un'inchiesta giornalistica che Sandro ha mandato in onda nelle scorse settimane sulla terra dei fuochi, dove il boss ha messo le mani e fatto illegalmente tanti affari speculando sulla pelle dei campani. Dopo questa lunga inchiesta giornalistica i magistrati della Procura antimafia di Napoli hanno registrato le minacce di Zagaria contro Sandro Ruotolo. E pure contro i pm Catello Maresca e Cesare Sirignano. Il boss è andato in escandescenza, ha inveito contro il giornalista, fino a minacciarlo di morte: «O vogl' squartat' vivo». Per questo motivo investigatori e magistrati hanno subito ravvisato un grave pericolo per Ruotolo. Un pericolo che il prefetto di Roma, Franco Gabrielli, competente per il territorio in cui lavora il giornalista, ha subito valutato, provvedendo ad assicurare a Sandro protezione, assegnandogli un servizio di scorta che sarò svolto dai carabinieri. Sulla vicenda il pool di magistrati anticamorra di Napoli sono già a lavoro per fare luce su queste minacce. Da quanto si apprende da ambienti giudiziari, Zagaria da diversi mesi appare in cella molto nervoso, forse perché è messo sotto pressione dalle numerose inchieste che lo riguardano. In particolare, come aveva già raccontato la giornalista Rosaria Capacchione sul Mattino, oggi senatrice Pd, Zagaria potrebbe essere coinvolto in una possibile trattativa sui rifiuti. Capacchione ha documentato incontri segreti, tra il 2007 e il 2009, tra il potente boss, allora latitante, Michele Zagaria o un suo emissario, uomini dei servizi segreti deviati, e delegati del commissariato. Vertici che sarebbero stati finalizzati a subappalti in cambio del silenzio per la realizzazione di siti di smaltimento. Domande e circostanze ancora senza risposta a cui anche Sandro Ruotolo ha tentato di dare una lettura di questi fatti con un servizio mandato in onda proprio da Servizio Pubblico. Ancora una volta ci ritroviamo davanti ad un giornalista minacciato solo perché ha fatto bene il suo lavoro, mettendo in crisi un mafioso. E come tutti i mafiosi l'unico modo che conoscono è quello di reagire, o almeno tentare di farlo, con la forza e la violenza. Per comprendere quanto questo boss è sensibile a quello che scrivono i giornalisti, durante la latitanza Zagaria ha telefonato ad un cronista per “rimproverarlo” di ciò che aveva scritto su di lui. E lo aveva fatto senza aver paura di essere intercettato, ma solo per il gusto, a senso suo, di minacciare il giornalista e far notare la sua potenza e presenza sul territorio. Zagaria poi è stato arrestato, come capita prima o poi a tutti i latitanti, e adesso dubito che possa uscire presto dal carcere in cui è rinchiuso. Sono certo però che Sandro Ruotolo non si tirerà indietro e continuerà a raccontare le mafie e il loro malaffare come ha fatto fino adesso, tenendo la schiena dritta e raccontando quello che agli altri, e per gli altri intendiamo i criminali, appare scomodo.

Sandro Ruotolo, la vicinanza di Grasso: “Giornalisti liberi illuminano professione”, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Alla presentazione del premio "Giustizia e verità - Franco Giustolisi" il presidente del Senato spiega che "in Italia i giornalisti veri corrono dei rischi quotidianamente: ci sono regioni in cui chi cerca di descrivere la realtà senza veli rischia la vita". Giornalisti che finiscono sotto scorta, come Sandro Ruotolo bersaglio del boss Michele Zagaria, cronisti minacciati, reporter a cui vengono bruciate le auto o hanno già letto il loro necrologio. Sarà a questi che pensa il presidente del Senato, Pietro Grasso, quando dice: “Parafrasando Longanesi potremmo dire che non è la libertà di stampa che manca in Italia, pur con i problemi che sappiamo: mancano i giornalisti liberi. Ma quelli che ci sono, e non sono pochi, illuminano una professione fondamentale se vogliamo nutrire ancora la speranza di migliorare il nostro Paese”.  Alla presentazione del premio di giornalismo di inchiesta “Giustizia e verità – Franco Giustolisi”. – Grasso spiega che “in Italia i giornalisti veri corrono dei rischi quotidianamente: ci sono regioni in cui chi cerca di descrivere la realtà senza veli rischia la vita, in cui si combatte una battaglia quotidiana tra il dovere dell’informazione e la pretesa del silenzio, in cui si arriva a minacce, intimidazioni, querele temerarie“. E in particolare l’ex procuratore antimafia manifesta “vicinanza” proprio a Ruotolo. “Il lavoro del giornalista, quando non è asservito al potere o al potente di turno, è un lavoro prezioso per la democrazia, per l’opinione pubblica, per i cittadini”, puntualizza Grasso che indica in Franco Giustolisi un esempio, evidenziandone “il coraggio, la passione, la determinazione, lo scrupolo della verifica, il non piegarsi anche quando si sa di pagare un prezzo o correre un rischio, il non avere timore né dei padroni né dei padrini”. E ripercorrendo il percorso umano di Franco Giustolisi, autore delle inchieste sull'”Armadio della vergogna“, Grasso sottolinea: “Era un giornalista vero, scomodo, che ha dedicato la sua vita a scoprire il lato oscuro del potere e della società attraverso le sue inchieste, iniziando su Paese Sera, poi a L’Ora di Palermo, un giornale eretico che tra le sue firme ha visto ben tre giornalisti uccisi dalla mafia: Cosimo Cristina, Mauro de Mauro e Giovanni Spampinato. Andò poi a Il Giorno, da lì alla Rai, dove fu impegnato nei primi approfondimenti televisivi con inchieste dure di informazione e di denuncia, poi all’Espresso, dove ha lavorato per più di 30 anni”.

Il nostalgico Ruotolo non stringe la mano al candidato “fascista”…, scrive Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Siamo nel 2013? A giudicare da certi atteggiamenti sembrerebbe proprio di no. Accade infatti che, alla tribuna elettorale del Tgr Lazio, il giornalista Sandro Ruotolo, candidato di Rivoluzione civile e già inviato Rai per Michele Santoro, abbia rifiutato di stringere la mano al candidato di Casapound Simone Di Stefano con la seguente motivazione: “Sono orgogliosamente antifascista”. Quindi ha fatto riferimento alle accuse omofobe comparse su Facebook contro Nichi Vendola, ha dato la colpa al movimento di Iannone (lo stesso che in passato organizzò dibattiti con la deputata Pd paladina dei diritti gay Paola Concia) e ne ha tratto le conseguenze per lui ovvie, come se fosse la cosa più naturale del mondo: “E allora io dico, non ti stringo la mano”. Di Stefano ha replicato: “Ruotolo è antifascista? Problema suo. Però Zingaretti me l’ha stretta la mano”. Atteggiamenti di discriminazione che ricordano le tribune politiche in cui i giornalisti si alzavano e se ne andavano per protesta contro la partecipazione di Giorgio Almirante o, ancora, la mancata stretta di mano tra il primo ministro belga Di Rupo e Pinuccio Tatarella che da post-missino si introduceva con timidezza nel consesso istituzionale europeo.

I giornalisti liberi? Sono solo quelli di sinistra. Così dice Pietro Grasso…, scrive Annamaria Gravino su “Il Secolo D’Italia”. Contrordine compagni: in Italia non manca la libertà di stampa, mancano giornalisti liberi. A sostenerlo è stato il presidente del Senato Pietro Grasso, intervenendo alla presentazione del premio di giornalismo d’inchiesta “Giustizia e verità – Franco Giusolisi”. Le parole di Grasso. «Parafrasando Longanesi potremmo dire che non è la libertà di stampa che manca in Italia, pur con i problemi che sappiamo: mancano i giornalisti liberi», ha detto Grasso, aggiungendo che però «quelli che ci sono, e non sono pochi, illuminano una professione fondamentale se vogliamo nutrire ancora la speranza di migliorare il nostro Paese». Grasso quindi ha ricordato i rischi corsi dai «giornalisti veri» in Italia, dove ci sono «regioni in cui chi cerca di descrivere la realtà senza veli rischia la vita», e ha espresso la sua vicinanza a Sandro Ruotolo, di recente finito sotto scorta per le minacce ricevute dal boss Zagaria. «Il lavoro del giornalista, quando non è asservito al potere o al potente di turno, è un lavoro prezioso per la democrazia, per l’opinione pubblica, per i cittadini», ha aggiunto Grasso, portando l’esempio positivo di Franco Giustolisi.

L'intervista del poliziotto sul Magazine del Corriere: "Saviano non doveva avere la scorta". Il titolo che i lettori del Corriere troveranno a pagina 78 del Magazine, a introdurre «L’intervista » di Vittorio Zincone, è: «Saviano non doveva avere la scorta». Nell’occhiello c’è il nome e cognome di chi sostiene questa tesi: Vittorio Pisani, capo della Squadra Mobile di Napoli. Pisani è un funzionario di grande spessore e sicuramente di grande futuro. Un patrimonio della Polizia, se a nemmeno quarant’anni (oggi ne ha 42) gli fu affidato il comando di uno degli uffici investigativi più importanti d’Italia. È un calabrese taciturno e poco avvezzo alla ribalta mediatica, ma nell’intervista a Magazine sceglie di incamminarsi su un terreno che inevitabilmente proprio su quella ribalta lo espone. Andare contro­corrente sul tema Saviano è impegnativo. Però Pisani non parla per sentito dire. Spiega: «A noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta». E in tre anni non sembra aver cambiato idea: «Resto perplesso quando vedo scortare persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni». Nemmeno di Gomorra pare entusiasta: «Ha avuto un peso mediatico eccessivo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori». È la prima volta che un uomo dello Stato mette in discussione il fenomeno Saviano, sia per quanto avrebbe inciso con il suo libro nella lotta alla camorra, sia per i rischi ai quali quel libro lo avrebbe esposto. Ma Pisani rischia di rimanere solo. Saviano, contattato dal Corriere per una replica, sceglie ufficialmente il silenzio, ma è chiaro che l’ha presa malissimo. E comunque ci tiene a far sapere di avere avuto in questi anni conferme di essere stato condannato a morte dai casalesi, anche da persone in passato vicine al clan capeggiato da Francesco «Sandokan» Schiavone e dai superlatitanti Mario Iovine e Michele Zagaria. Non risponde direttamente a Pisani, ma prende chiaramente le distanze, invece, il procuratore di Salerno Franco Roberti, fino a pochi mesi fa capo della Direzione distrettuale antimafia di Napoli. «Non commento l’opinione personale del dottor Pisani — dice — ma vorrei ricordare che il comitato presieduto dal prefetto che assegnò la scorta a Saviano lo fece sulla base di una serie di informazioni anche confidenziali e tutte convergenti. E quindi non ho dubbi che lo siamo di fronte a un soggetto da proteggere assolutamente». Del resto la decisione di assegnare o meno la scorta a qualcuno viene presa anche considerando un contesto ambientale che può non avere riscontri certi dal punto di vista giudiziario. Per esempio non sono mai stati individuati gli autori delle scritte contro Saviano sui muri di Casal di Principe, né dei volantini trovati nella buca delle lettere dei genitori dello scrittore. Ma quegli episodi rappresentano una minaccia. Come fu una minaccia il proclama in aula durante il processo Spartacus contro Saviano, il giudice Raffaele Cantone e la giornalista Rosaria Capacchione. Per quell’episodio, però, un risvolto giudiziario c’è e c’è un’inchiesta che vede imputati Iovine e l’altro boss dei casalesi Francesco Bidognetti. Archiviata, invece, l’indagine sulla preparazione di un attentato con autobomba per uccidere lo scrittore. Se ne parlò come della confidenza di un pentito, ma in realtà non era vero niente. Non solo l’organizzazione dell’attentato ma nemmeno la confidenza del pentito.

La parlamentare Pd: «A che serve la scorta a Saviano se non ci sono minacce dei boss?» Sulla pagina della deputata democrat Giovanna Palma appare un post urticante. Poi cancellato dopo le prime furiose polemiche. Lei: non l’ho scritto né lo condivido, scrive “Il Corriere della Sera”. Un post apparso sulla pagina Fb di una parlamentare Pd e riguardante il processo per le minacce a Roberto Saviano è divenuto un piccolo «caso» politico. Protagonista Giovanna Palma, avvocato e parlamentare Pd originaria di Giugliano in Campania. Sulla sua pagina Fb, per alcuni minuti, è apparso il seguente post: «Ieri un tribunale ha assolto il boss Bidognetti dall’accusa di aver minacciato Saviano condannando un avvocato…Un flop direi, dopo che per anni ci hanno fatto credere che lo scrittore era nel mirino dei clan più sanguinari». Poi l’affondo finale che non mancherà di provocare polemiche: «In assenza di minacce di un boss a che può servire la scorta?». Va detto che il post è scomparso (forse cancellato?) dopo pochi minuti, ma sta continuando a “rimbalzare” sul web. La stessa parlamentare interpellata da un lettore sul social network dice: «Non l’ho nè scritto né lo condivido». Lasciando così intendere - anche attraverso le parole del portavoce - che si è trattato di un «fake» o di un’intrusione non autorizzata sulla sua pagina Facebook. Si attende ora una denuncia alla polizia postale per l’hackeraggio della pagina della parlamentare. Ad agosto scorso quando era stata emessa un’ordinanza di arresto nei confronti di Luigi Cesaro aveva commentato: «Il garantismo è un metodo e va applicato agli amici di partito e agli avversari. La vicenda Cesaro andava affrontata con doveroso rispetto umano da parte della politica e la doverosa terzietà da parte dei magistrati. E così è stato. Non conosco i fatti dei quali Cesaro è accusato e quindi mi astengo da ogni commento ma si tratta di una notizia positiva perché riconferma la terzietà della magistratura dimostrando che non può esistere nessuna persecuzione giudiziaria in mancanza di indizi». Parole che non erano piaciute all’interno del Pd. Palma era stata criticata sia da Luisa Bossa che da Rosaria Capacchione: «Non ho espresso alcuna solidarietà a Cesaro - aveva – sottolineato lei – ma ho posto una questione di carattere generale. Qualcuno ha strumentalizzato le mie dichiarazioni”. Trentotto anni, originaria di Giugliano, avvocato, sposata e con figli. È stata eletta per la prima volta alla Camera nel 2012. È componente della Commissione Agricoltura e della Commissione d’Inchiesta sui rifiuti.

Minacce a Roberto Saviano: boss assolti, ma lui insiste con la scorta, scrive "Imola Oggi". I boss dei Casalesi Antonio Iovine e Francesco Bidognetti sono stati assolti nel processo per le minacce allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista, ora senatrice del Pd Rosaria Capacchione. I pm avevano chiesto alla terza sezione penale del tribunale di Napoli la condanna a un anno e sei mesi per Bidognetti e l’assoluzione per Iovine, che ora è collaboratore di giustizia. Condannato invece l’avvocato del boss Bidognetti, Michele Santonastaso a un anno di reclusione, con pena sospesa, per le minacce a Saviano lette durante un processo. “Spero che questa sentenza sia un primo passo verso la libertà, spero ci sia per me una nuova vita” dice a Napoli Saviano, “Sono un po’ frastornato – ribadisce Saviano – tutte le forze civili, la società civile, sono riuscite a creare un corto circuito e a sollevare l’attenzione. Dare la scorta a chi scrive, significa garantire un diritto costituzionale“. (agi)

E poi "Imola Oggi" acclude vari articoli che riguardano Saviano.

Plagio in Gomorra: Roberto Saviano condannato a pagare 60mila euro. La Corte d’Appello di Napoli, sezione specializzata in materia di proprietà industriale e intellettuale, ha condannato lo scrittore Roberto Saviano e la casa editrice Mondadori per plagio. Ovvero «illecita riproduzione» di tre articoli, pubblicati dai quotidiani locali “Cronache di Napoli” e “Corriere di Caserta”, all’interno del libro “Gomorra”, il best seller sulla camorra che ha consacrato lo scrittore campano. Saviano e Mondadori sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro più parte delle spese legali. In più, nelle edizioni di “Gomorra” dovrà essere indicato il nome dell’autore degli articoli, dell’editore – la Libra Editrice scarl, difesa dall’avvocato Barbara Taglialatela – e della testata da cui sono stati tratti. Lo scrittore ha già annunciato pubblicamente che ricorrerà in Cassazione contro la sentenza d’Appello. Il primo grado era stato favorevole per lui e per Mondadori. (fanpage.it)

Gip di Roma: imputazione coatta per Roberto Saviano, Mauro e Viviano. Il gip di Roma Stefano Aprile ha disposto l’imputazione coatta nei confronti del giornalista di ‘Repubblica’ Francesco Viviano, del direttore del quotidiano, Ezio Mauro e dello scrittore Roberto Saviano per diffamazione nei confronti di Umberto Marconi, ex presidente della Corte d’Appello di Salerno e oggi consigliere della Corte d’Appello di Napoli. La vicenda risale al 2010 ed è relativa all’inchiesta sul dossier preparato, secondo l’accusa, dall’ex sottosegretario del Pdl Nicola Cosentino per screditare Stefano Caldoro e ottenere al suo posto la candidatura a presidente della Regione Campania. Il gip ha ravvisato gli estremi del reato di diffamazione in due articoli a firma di Viviano e Saviano pubblicati il 16 e il 17 luglio del 2010; il 16 luglio, in particolare, il sommario del titolo di apertura di prima pagina recitava: Nell’ufficio di un magistrato fabbricato il dossier anti-Caldoro. Il pm Erminio Amelio aveva invece chiesto l’archiviazione. (ansa)

Roberto Saviano accusato di plagio, richiamato da Rossi con una lettera-denuncia. Stavolta Saviano, non nuovo ad accuse di plagio, per la realizzazione del monologo sul caso Eternit mandato in onda nell’ultima puntata di “Quello che non ho“, avrebbe preso spunto dai lavori di Giampiero Rossi senza citare l’autore. Dalle pagine del loro quotidiano, Antonio Padellaro e Peter Gomez, fanno notare che, se si confrontano le parole scritte da Rossi nel suo libro “La lana della salamandra” pubblicato nel 2008 e il monologo sull’amianto di Saviano si scopre che alcune parti sono addirittura coincidenti. Nella sua lettera denuncia Giampiero Rossi scrive: “Ho trovato assai meno piacevole una certa mancanza di riconoscimento per chi quel lavoro lo ha realizzato. Tu lo sai bene, fare un’inchiesta, una ricostruzione storica, un racconto completo di vicende complicate ed enormi, come questa, comporta davvero tanta pazienza, volontà, tempo, passione. Perché, dunque, non riconoscere a chi ha investito tanto, almeno la paternità di quel suo lavoro? Eppure non sono pochi i particolari che hai scelto di utilizzare nel tuo racconto e che, guarda caso, sono tutti presenti in quei due libri (nel primo soprattutto) e non altrove, perché si tratta di racconti, confidenze, piccole sfumature emerse dalla mia lunga frequentazione della gente di Casale“. Roberto Saviano non ha ancora risposto e per ora non si è pronunciato sulle accuse. Saviano fu accusato di plagio anche dal giornalista Alket Aliu, direttore del settimanale Investigim, che  lanciò  pesanti accuse allo scrittore italiano, proprio all’interno del suo editoriale, asserendo: “Saviano riconosce il diritto d’autore solo quando si tratta di firmare contratti milionari con aziende di Berlusconi. Mentre il diritto d’autore non si applica ai giornalisti albanesi”. Aggiunge ancora: “Le imprecisioni sono molte e sono conseguenza della tipica arroganza di chi pensa di saper tutto e parla di tutto ed è stato raccomandato per prendere in giro spudoratamente gli albanesi. E’ un insulto al giornalismo e agli albanesi. Se c’è un modo per fare soldi è parlando della mafia, Saviano lo ha trovato. Conviene non solo a lui, ma anche a chi paga questo spettacolo, chi vuole spostare l’attenzione sulla criminalità di strada, sulla mafia di basso profilo, mentre la vera mafia passa attraverso le banche”. (Imola Oggi)

Gomorra, Saviano condannato per diffamazione nei confronti di Boccolato. Gomorra, confermata condanna per diffamazione a Roberto Saviano. Confermata una condanna per diffamazione a Roberto Saviano. Il risarcimento da versare è di 30mila euro. C’è infatti una persona che si sente diffamata da Gomorra, il best seller di Saviano. Si tratta di Vincenzo Boccolato, al quale nel libro veniva attribuita l’appartenenza al Clan camorristico dei La Torre e con questi coinvolto, “con un ruolo non marginale, in relazione al traffico internazionale di cocaina”. Gli avvocati Santoro e Salvigni difensori del signor Vicenzo Boccolato comunicano che con sentenza n 1977/14 del 28-05-2014 la II sezione civile della Corte d’Appello di Milano, presieduta dal dr. De Ruggiero Luigi, relatrice la dott.ssa Interlandi Caterina, ha confermato la sentenza di condanna per diffamazione di Roberto Saviano, in solido con la Mondadori S.p.A. in danno del signor Vincenzo Boccolato, nel celebre libro “Gomorra”. Come scrive nottecriminale: La sentenza della I sezione civile del Tribunale di Milano aveva accertato sussistere la portata lesiva per la reputazione e l’onore di Vincenzo Boccolato per quanto scritto dal Saviano nel capitolo “Aberdeen Mondragone”, nel quale veniva attribuita al signor Vincenzo Boccolato l’appartenenza al Clan camorristico dei La Torre e con questi coinvolto, “con un ruolo non marginale, in relazione al traffico internazionale di cocaina”.I legali poi aggiungono: In realtà il signor Vincenzo Boccolato che vive da diversi anni in Venezuela, risulta incensurato e soprattutto estraneo a qualsiasi attività camorristica. L’avv. Alessandro Santoro, difensore del signor Vincenzo Boccolato, preso atto che Saviano e la Mondadori, noncuranti delle due sentenze di condanna già intervenute, reiterano la diffamazione del signor Vincenzo Boccolato attraverso continue ristampe del celebre libro “Gomorra”, senza provvedere alla cancellazione delle frasi “accertate come diffamatorie” dal Tribunale di Milano il 28.10.13 e confermate dalla Corte di Appello e, senza neanche citare nelle ristampe la sentenza di condanna per diffamazione già intervenuta, se non altro per una più puntuale informazione “della verità” per i nuovi lettori, rende noto di aver ricevuto regolare mandato per chiedere un nuovo risarcimento dei danni subiti e subendi per la reiterata diffamazione in danno di Vincenzo Boccolato (today.it)

Un’altra condanna per Saviano, stavolta per diffamazione in Gomorra. Lo scrittore Roberto Saviano è stato condannato per diffamazione a risarcire con 30mila euro una persona citata nel suo best seller Gomorra. Lo ha deciso il Tribunale di Milano al termine di una causa civile intentata da Enzo Boccolato, assistito dall’avvocato Alessandro Santoro. Il giudice della prima sezione civile, Orietta Miccichè, ha infatti «accertato – come si legge nel dispositivo della sentenza – il contenuto diffamatorio in danno di Enzo Boccolato della frase contenuta a pagina 291 del libro intitolato Gomorra», nella parte in cui «l’autore prospetta che Enzo Boccolato insieme ad Antonio La Torre si preparavano anche a tessere una grande rete di traffico di cocaina». Il giudice ha quindi condannato «Saviano e Arnoldo Mondadori Editore Spa (editore del libro, ndr) in via tra loro solidale al risarcimento del danno subito da Enzo Boccolato e a corrispondergli la somma di 30mila euro». Il giudice ha anche ordinato «la pubblicazione dell’intestazione e del dispositivo della presente sentenza a cura e spese dei convenuti una volta a caratteri doppi del normale sul quotidiano La Repubblica entro 30 giorni della notifica in forma esecutiva della presente sentenza». A carico dei «convenuti» anche le spese legali del procedimento. «Nel libro Gomorra Saviano – ha spiegato l’avvocato Santoro – aveva infatti descritto il Boccolato, che è incensurato e che da vari anni vive in Venezuela conducendo una florida attività nel campo ittico e del tutto estraneo ad ogni attività camorristica, come collegato ai La Torre in relazione al traffico internazionale di cocaina, sostenendo che questo, unitamente ai La Torre si preparava anche a tessere una grande rete di traffico di cocaina».

Ecc…ecc…ecc…

San Roberto dalla Campania. Note sulla fenomenologia di un eroe contemporaneo. La costruzione mediatica del personaggio ero’ Roberto Saviano di Davide Pinardi(Paginauno n. 16, febbraio - marzo 2010). Lo sguardo è penetrante, l’espressione sofferta. È chiaro, con la vita che fa, con quella scorta che ha tolto ogni rifugio alla sua esistenza, che gli impedisce il nido di una casa, il calore di una famiglia...L’estetica fotografica con la quale viene ritratto è barocca e sempre uguale: il volto ha tratti caravaggeschi ed è illuminato da una luce che giunge da lontano, che sottolinea la barba lunga, soffertamente impegnata, del nostro eroe e gli dà rilievo nel mezzo di un oceano di ombre. Sì, lui è il Cavaliere della Bellezza – illuminato da una Grazia superiore – che lotta contro il buio del Male. Il suo sito internet è ricco, ben curato, con versioni in tedesco, francese, inglese e spagnolo. La sua agenzia editoriale è la più alla moda del Paese. Ma tutto ciò è necessario: Roberto Saviano – di lui stiamo parlando – non è più un personaggio di cronaca locale ma un fenomeno globale, un vero protagonista del nostro tempo, e rappresenta la storia edificante ed esemplare di un giovanotto che, pur nato nell’infame, immonda, zozza provincia campana, sa levarsi animato da una superiore caratura etica, sa riscattarsi con le proprie forze dalle colpe della sua terra, sa ergersi a coscienza etica del mondo...Giovanni Di Lorenzo, il direttore del settimanale tedesco Die Zeit, nella sua laudatio per il premio Fratelli Scholl – assegnato nel 2007 ad Anna Politkovskaja, senza scorta e assassinata – sostiene che “al momento non c’è nessuno in Italia con una storia che mi commuova e mi indigni quanto quella di Roberto Saviano. […] Si ritrova, lui che ha ancora trent’anni, a portare due fardelli, di quelli che uno solo basterebbe a schiacciare un uomo”. Pur avendo nome e cognome italiano, il direttore conosce poco e soprattutto male il nostro Paese. In poche ore trascorse non nei salotti ma per le strade, il bravo giornalista potrebbe raccogliere mille e mille storie italiane molto più commoventi e degne di indignazione. Storie di persone con fardelli che schiaccerebbero non uno ma cento uomini. Storie di extracomunitari annegati, di rom perseguitati, di piccoli commercianti taglieggiati, di precari disperati, di prostitute massacrate, di detenuti dimenticati...Storie di poveretti infelici, microscopici e sfigati, che, purtroppo per loro, non sono sostenuti dalla più grande industria editoriale nazionale di proprietà del capo di governo, non sono idolatrati da grandi giornali di opposizione (opposizione?), non sono ospitati sulle reti pubbliche in prima serata da trasmissioni nazionali e portati in scena con complesse scenografie teatrali. Roberto Saviano dice di odiare il suo libro Gomorra perché (se anche lo ha reso ricco) gli ha rovinato la vita: “Lo detesto. Quando lo vedo nella vetrina di una libreria guardo subito dall’altra parte”. C’è da domandarsi quanti siano i testimoni in processi al crimine organizzato che odiano il giorno in cui hanno accettato di denunciare ed esporsi, in cui hanno dovuto cambiare nome, sparire dalla circolazione, abbandonare luoghi, radici, parenti e amicizie: e che non ricevono né plausi, né nobili inviti, né ammirazione (quasi) generale ma si ritrovano invece nella solitudine (e nella povertà). Saviano è amato da quasi tutti. Va bene come merce da esportazione: ‘ah, meno male che c’è anche un’Italia pulita...’; va bene all’opposizione ufficiale, che supplisce alla propria inesistenza (o connivenza) politica con il plauso ebete alle icone comiche, culturali e televisive (con le quali bisognerebbe solidarizzare perché perseguitate dal Presidente/Imperatore); va bene a coloro che, con un click telematico al giorno a favore di testi di cui forse non capiscono bene il senso, si sentono sinceramente convinti di contribuire a migliorare il Paese; va bene alla fondazione FareFuturo che lo trova “un grande pensatore di destra”; va bene perfino ai leghisti, perché si erge come l’esule schifato di una cultura meridionale corrotta e inetta (purché non dica che Milano è una città del Sud!). Va bene infine a chi è al governo, perché esprime un’alata testimonianza ‘di coscienza’ che vola alta, altissima, e non si abbassa mai a una concreta contrapposizione ai veri rapporti di potere – dopo l’appello lanciato su Repubblica contro la legge sul processo breve, il ministro Bondi affettuosamente lo invita a “non abbandonare il suo impegno civile e culturale tanto più limpido e ascoltato quanto più alieno da pregiudizi ideologici”; Saviano risponde ringraziando, apprezzando “il tono rispettoso e dialogante”, affermando che “certe questioni non possono né devono essere considerate appannaggio di una parte politica” e che “schierarsi non significa ideologicamente”.  Bisogna riconoscerlo, Saviano sa scegliere con cura le cause per le quali ergersi commosso: apertamente a favore di quelle potenzialmente molto ‘popolari’, sparisce in un silenzio di tomba rispetto a quelle impopolari (simile in questo all’altro pezzo di quarzo Nanni Moretti, che si indigna soltanto quando sta per uscire un suo film da ‘promozionare’). Saviano con caschetto da pompiere e molto ben accolto dalla Protezione civile denuncia le vergogne collegate al terremoto in Abruzzo: chi può non essere d’accordo? (Anche se poi si fa prendere la mano e aggiunge generiche considerazioni sulla presenza storica della mafia in quella regione che lasciano basiti molti abruzzesi: tutti conniventi con la criminalità organizzata?) Qualcuno l’ha sentito invece in occasione del quasi pogrom contro i rom di Ponticelli? Qualcuno lo ha sentito dire che lo sfruttamento neo-schiavista degli extracomunitari è dovuto a un sistema economico che in Italia è fisiologico e non patologico? Qualcuno lo ha sentito denunciare la tragedia del precariato? Preferisce una puntatina a Barcellona per una toccante intervista al calciatore Lionel Messi, Pallone d’Oro 2009...In televisione cita Varlam Salamov e Ken Saro-Wiwa (e si legittima implicitamente come eroico ‘scrittore civile’). Piccolo particolare: Varlam Salamov ha fatto diciotto anni di gulag sotto Stalin, Saro-Wiwa è stato impiccato in Nigeria dopo un processo farsa. Nessuno di loro ha avuto la scorta dal ministero degli Interni. Settimane fa il comune di Milano – tra Ambrogini d’oro che premiano Marina Berlusconi e i nuclei di vigili che danno la caccia ai clandestini (si badi, gente che viene presa a caso sui tram e messa in gabbia senza aver commesso alcun reato) – ha votato all’unanimità per offrirgli la cittadinanza onoraria: l’offerta non è stata respinta con sdegno. Pochi criticano Saviano. L’ha fatto Vittorio Pisani, capo della Squadra mobile di Napoli, che afferma di aver dato parere negativo alla concessione allo scrittore della scorta: “Ho arrestato centinaia di delinquenti. Ho scritto, testimoniato e giro per la città con mia moglie e con i miei figli senza scorta. Non sono mai stato minacciato. […] Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la Camorra da anni”. L’ha osato fare anche Nicola Tanzi, segretario generale del Sap, Sindacato autonomo di polizia: Saviano “non è un eroe, al contrario dei poliziotti che stanno tutti i giorni in prima linea sul campo. […] La lotta alla Camorra non si fa col varietà, con le luci abbaglianti degli studi televisivi e le paillettes di prima serata, né l’impegno antimafia ha bisogno di showman. La vera lotta si svolge in trincea ed è sostenuta giorno per giorno da migliaia di poliziotti e di appartenenti alle forze dell’ordine che sul campo contrastano il crimine organizzato”. Qualcuno ha avuto dei dubbi davanti a queste dichiarazioni? Neanche per sogno. In compenso i due poliziotti sono stati quasi additati come complici, più o meno coscienti, della Camorra. Saviano ha denunciato di sentire l’inizio di un abbandono, di un isolamento, di uno sgretolarsi di quella compattezza istituzionale e civile che fino ad allora l’aveva protetto, ricordando che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani “hanno pagato con la vita la loro solitudine”; subito si sono mossi opinione pubblica, giornali, capo della Polizia...Ma se Saviano è così spaventosamente pericoloso, per la Camorra, perché questa – impossibilitata dalla scorta a colpire lui – non minaccia il presentatore Fabio Fazio, l’indifesa agenzia letteraria, il regista Matteo Garrone (che, anzi, ha avuto via libera per tutte le riprese a Scampia), l’ufficio commerciale di Mondadori, le librerie che espongono il suo libro, eccetera? Perché non minaccia le redazioni di Repubblica e de L’Espresso che pubblicano i suoi preziosi articoli? Perché non intimidisce chi lo propone come candidato alla presidenza della Regione Campania? Quando lui cercava casa a Napoli (al Vomero, il quartiere bene della città), dopo aver visto sei appartamenti (alcuni dei quali non andavano bene a lui...) ne ha scelto uno che però gli sarebbe stato rifiutato dalla proprietaria perché i vicini le avevano detto che “nella via si sarebbe persa la pace”. Saviano, indignato per il rifiuto, avrebbe interrotto la ricerca dichiarando di voler espatriare, andarsene via per sempre. Non l’ha fatto. Ma intanto era subito scattata una grande solidarietà nei suoi confronti. Gennaro Capodanno, presidente del Comitato valori collinari di Napoli, si era dichiarato amareggiato e deluso offrendosi per una collaborazione alla ricerca di una casa se Saviano avesse cambiato idea. Il sindaco di Giffoni Valle Piana aveva offerto a titolo gratuito un antico casale ristrutturato, immerso tra gli ulivi secolari del borgo medioevale di Terravecchia e di proprietà del comune, “da cui si gode il paesaggio mozzafiato e il castello federiciano. Siamo certi che in quest’oasi di pace e tranquillità Saviano ritroverà nuovi stimoli per poterci consegnare altri capolavori. Lo invitiamo, pertanto, fin da ora a partecipare alla prossima edizione del Giffoni Film Festival...”. E la Camorra a loro non dice niente? Ma che cosa possono pensare i tanti senzacasa napoletani, o quelli che soltanto con abusi edilizi si sono messi un tetto sulla testa? Loro sono gli infami, gli zozzi, gli ignoranti. Loro non meritano una casa regolare. Tanto più un casale gratis, un’oasi di pace... no. Loro meritano l’Inferno in cui vivono. Il caso di Saviano – a mio avviso – è esemplare dell’ipocrisia di quest’epoca, dei suoi precipitosi innamoramenti mediatici, della sua incapacità di analizzare senza schemi precostituiti, della sistematica mancanza di approfondimento critico in tanti operatori dell’informazione, della rapidità nella costruzione di miti ‘facili’ per distrarre dai veri tragici disastri politici, sociali ed economici del presente.

Roberto Saviano e la produzione del sapere ai tempi del consumismo di Walter G. Pozzi(2 luglio 2010, poi pubblicato su Paginauno n. 19, ottobre - novembre 2010). Come ricorda un vecchio adagio, è sempre meglio lasciar stare i santi. Di quanto ciò sia vero ha avuto modo di accorgersene chiunque abbia tentato di sollevare dubbi sulla veracità della figura mediatica di Roberto Saviano, per veracità intendendo i molteplici aspetti, le mille ambiguità inevitabilmente nascoste dietro un successo planetario come quello dello scrittore napoletano. Il sociologo Alessandro Dal Lago ne ha affrontato in un saggio – piuttosto claudicante quando entra nel merito dell’analisi di Gomorra (come documentato dalla redazione di Carmilla) – la funzione sociale e politica. Su PaginaUno Davide Pinardi ha criticato la sapiente oculatezza con la quale sembra scegliersi le cause da sposare – solo quelle potenzialmente molto popolari – e ha sollevato alcuni dubbi sin dalla radice del meccanismo creativo del personaggio Saviano. Si è chiesto come mai la minaccia non si sia mai estesa oltre lo scrittore, allargandosi a coloro che gli garantiscono visibilità come la redazione di Repubblica o il presentatore Fabio Fazio; come mai nemmeno un mattone sia stato lanciato contro la vetrina di una libreria napoletana che ne espone i libri. Marco Clementi, dal sito della casa editrice Odradek (che ha aperto una piattaforma di discussione), si è spinto anche oltre, entrando nel merito dei suoi testi e delle sue parole, sollevando dubbi sull’attendibilità di alcune affermazioni. Come era prevedibile, tuttavia, il dibattito sulla funzione politica e culturale che la società ha finito per riconoscere a Saviano – investitura a cui egli non si è sottratto – ha immediatamente incontrato un forte contraddittorio, non sempre impostato sulla confutazione degli argomenti, nella ferrea pretesa che ogni critica mossa a Saviano altro non possa essere che uno sterile bizantinismo. Naturale che la polemica finisse per arenarsi trasformandosi in una sorta di aut aut – tra chi è pro e chi è contro Saviano – inevitabilmente mettendo fuori fuoco un problema, tipicamente moderno, che da una trentina d’anni costringe la letteratura, e la narrativa in particolare, a una drammatica impasse. Un problema che coinvolge profondamente la cultura e la sua impotenza di fronte a quel complesso di forze, strumento invisibile manovrato dal potere, che Horkheimer e Adorno definivano industria culturale. Parlare di Saviano in termini critici, quindi, può servire a patto di assumerlo come esempio di una realtà più ampia. Anche perché resta difficile stabilire la colpa di un individuo che perde il controllo della propria immagine nel momento in cui entra a far parte del polifonico e fagocitatorio sistema mediatico, diventando una star; sia che ciò avvenga per la difficoltà di sottrarsene, sia perché il successo è un giochino che premia i suoi prescelti ripagandoli abbondantemente, lasciando al beneficato l’illusione (che si trasforma in un facile alibi) che comunque le idee e i concetti siano in grado di mantenere una loro purezza, malgrado il medium; che il messaggio arrivi pulito così come magari era partito. A questa stregua, se c’è qualcosa che si possa imputare a Saviano, è il fatto di esserci cascato, permettendo al sistema di trasformarlo, a lungo andare, in un simbolo vuoto, condannato a reiterare un se stesso sempre più simile a un qualunque prodotto di consumo da grande distribuzione. Strumento di compensazione del malcontento sociale, fino a diventare addirittura utile al potere. Di quanto complicato sia il rapporto moderno che inevitabilmente lega la produzione del sapere e il sistema consumistico aveva parlato anche Pier Paolo Pasolini agli inizi degli anni Settanta: “La televisione è un medium di massa e come tale non può che mercificarci e alienarci”. Aveva compreso, Pasolini, che per capire una società occorre capire quali merci vengono prodotte e come vengono distribuite. Nel caso specifico, la merce non è il pensiero di Saviano, bensì Saviano stesso con tutto il portato emotivo che la sua storia è ormai in grado di evocare. Storia di martire, quindi di santo virtuale. Intorno a Saviano girano ormai molti soldi, e sebbene sia sbagliato contestargli i lauti compensi, il suo essere per il sistema una gallina dalle uova d’oro rende, per ragioni che di seguito vedremo, inevitabilmente ambiguo ogni suo intervento in scena. Troppo stretta la commistione tra la struttura etica e morale dei suoi discorsi e la moneta che circola intorno alle sue parole e alla sua presenza. Il dubbio, insomma, che, per qualcuno, più di affari si tratti che non di alti valori, inevitabilmente sorge. E dato che gli esempi valgono più di mille parole – a dimostrazione di come il potere fagociti la cultura per trasformarla in merce, disinnescandone i contenuti – può essere interessante rivisitare la querelle tra lo scrittore e il suo editore Berlusconi dello scorso 16 aprile, venerdì. Una polemica che ha occupato le pagine di Repubblica per quattro giorni. La bomba esplode nella sala stampa di palazzo Chigi, quando Berlusconi rilancia un evergreen del suo vasto repertorio, secondo cui la mafia avrebbe goduto di “un supporto promozionale che l’ha portata a essere un fattore di giudizio molto negativo per il nostro Paese. Ricordiamoci le otto serie della Piovra, programmate dalle televisioni di centosessanta Paesi nel mondo, e tutto il resto, tutta la letteratura, il supporto culturale, Gomorra e tutto il resto”. Un sempreverde che contiene, però, una novità: per la prima volta include Gomorra tra le opere nefaste per l’italianità all’estero. Un’aggiunta che riguarda da vicino la questione affrontata in queste righe. Infatti, la prima cosa che colpisce, da parte del presidente del Consiglio, è l’innocenza: come se egli nulla avesse a che fare con il marchio Mondadori, quello che a Saviano garantisce asilo letterario e che a fine marzo, proprio poco tempo prima della zuffa verbale, ha pubblicato – edizioni Einaudi, sempre Berlusconi quindi – la nuova fatica dello scrittore napoletano: una bella confezione libro + dvd. Una stupidata? Una gaffe? Forse è qualcosa di molto peggio e di più grave, che potrebbe non riguardare solo lui. Alle parole del premier, com’era da attendersi, apriti cielo. Saviano si indigna e sabato 17 prontamente ribatte dalle pagine di Repubblica. Seguendo il filo dei suoi argomenti, ricorda le vittime di mafia, quanto sia importante denunciare (e qui cita la sua ultima opera appena uscita per Einaudi…) ed esterna il dubbio se per lui valga ancora la pena pubblicare con la casa editrice del presidente del Consiglio. Parole bellissime, importanti e cariche di pathos, capaci di smuovere la sensibilità di altri scrittori, da Starnone giù giù fino all’innocuo Ammaniti, qui e là su stampa varia. Dimostrando grande fiuto (cos’altro?) e disobbedendo ai dettami suggeriti il giorno prima dal loro datore di lavoro, gli addetti al marketing del gruppo Mondadori rincarano la dose e comprano sulla prima pagina di Repubblica – con cui lo scrittore collabora attivamente – lo spazio pubblicitario più costoso, per picchiarvi impunemente la pubblicità dell’ultimo nato di Saviano. Nel frattempo, recitato il proprio ruolo di battitore, Berlusconi esce di scena con stile e lascia spazio alla figlia, che della Mondadori è ufficiale responsabile. Il giorno seguente, domenica 18, gli uomini della Mondadori raddoppiano la puntata, e comprano spazi per pubblicizzare Gomorra sia sulla prima pagina di Repubblica che su quella del Corsera, dimostrando quanto il loro araldo sia sempre un buon affare. Ancora una volta l’ufficio marketing di Segrate dimostra doti di lungimiranza se non di preveggenza. Come poteva sapere che il proprio presidente Marina Berlusconi avrebbe scritto, in risposta a Saviano, una lettera in difesa del padre e della libertà di critica che sempre Mondadori ha riconosciuto ai propri scrittori? E anche considerando che gli uffici di una casa editrice non sono compartimenti stagni, come potevano sapere a Segrate che Saviano avrebbe risposto nella stessa pagina lo stesso giorno, approfittando della disponibilità di Repubblica (ideologicamente coinvolta dall’importanza degli alti valori in gioco), per ribadire il proprio ruolo di difensore della libertà? A rinforzare il sospetto di stare assistendo a una farsa, più che a un dibattito sulla libertà di opinione (in cui ognuno afferma di essere un campione di democrazia), intervengono i tempi tecnici per prenotare uno spazio pubblicitario in prima pagina. La Manzoni, agenzia pubblicitaria a cui si affida il gruppo L’Espresso, apre le prenotazioni degli spazi pubblicitari nel periodo di novembre/dicembre dell’anno precedente. In prima pagina il box a disposizione riservato alla pubblicità culturale (scusate l’ossimoro) è uno solo e occorre precipitarsi ad acquistarlo con largo anticipo. Ora: pur ammettendo che una grande azienda come il Gruppo Mondadori sia solita prenotare un buon numero di spazi per poi riempirli a seconda delle esigenze e delle occasioni, occorre riconoscere l’immensa fortuna degli uomini marketing di Segrate, nonché immaginare la loro gioia insperata, nel momento in cui hanno sentito alla televisione il loro padrone in pectore attaccare Saviano proprio in coincidenza della campagna pubblicitaria dell'ultimo libro dello scrittore. Ancora di più quando si sono accorti che Repubblica aveva deciso di seguire passo dopo passo l’intera polemica lanciata da Berlusconi contro il loro autore (sì, autore un po’ dell’uno e un po’ dell’altro); compreso il carteggio tra lui e Marina Berlusconi. La statura morale di Saviano impone di pensare che egli fosse all’oscuro di tutto, e di ammirare piuttosto il suo impegno nel momento in cui, con grande velocità si è messo sotto a rispondere a Marina, con il poco tempo rimastogli dal momento dell’arrivo della lettera del suo editore a Repubblica, della decisione dei redattori di Repubblica di girargliela, e l’ora di chiusura del giornale. A meno che Marina non sia stata così premurosa da inserire lo scrittore direttamente in copia nella sua mail indirizzata alla redazione del quotidiano diretto da Ezio Mauro. E se anche si fosse trattato di semplice marketing – il che naturalmente non è, visti gli alti contenuti – bisognerebbe rendere onore anche alla formidabile larghezza di vedute del nostro premier, nonché alla sua natura di uomo profondamente liberale, nel momento in cui, pur di permettere a uno dei maggiori scrittori della sua scuderia di lanciare un importante appello ai valori democratici, addirittura accetta di figurare come bersaglio ideale dell’attacco, mosso proprio dalle pagine dell’odiato quotidiano, suo più feroce oppositore politico. Questo detto, ça va sans dire, senza voler mettere in dubbio nemmeno la buona fede di Repubblica, il cui palcoscenico è talmente ampio e liberale da ospitare, il giorno dopo ancora, lunedì 19, il direttore generale Libri Trade Mondadori, Ricky Cavallero, pronto a chiedere a Saviano di non lasciare una casa editrice che sempre gli ha garantito supporto e riconosciuto grande libertà di espressione; e contemporaneamente conservare un angolino libero per lo scrittore Sebastiano Vassalli, uno dei pochi di vero valore del panorama italiano. Non sfugge tuttavia la coincidenza, non essendo, il suddetto, figura usa a venir chiamata su giornali e televisioni. Scontata e doverosa la difesa di Saviano da parte di uno scrittore tanto importante, un po’ meno la notizia, annunciata dal giornalista, dell’imminente uscita del nuovo romanzo di Vassalli, pubblicato proprio da Einaudi. Quest’esempio potrebbe bastare – il giorno dopo, martedì, leggere l’articolo di Sofri, il più dotto, indurrà quasi a tenerezza, considerato il contesto in cui si va a inserire – ma manca ancora un tocco di classe. E il colpo di tacco, puntuale, persino beffardo, arriva con un corposo articolo al centro della pagina che ricorda il gran numero di mail, arrivate dai fan di Saviano, i quali non hanno mancato di dimostragli tutto il loro affetto. Al punto che, ricorda l’estensore del testo, le vendite dei suoi libri negli ultimi tre giorni sono sensibilmente aumentate. E infatti (secondo i dati forniti dall’inserto Tuttolibri de La Stampa) il 26 aprile finalmente, sembra niente dirlo, anche l’ultimo parto dello scrittore entra in classifica. Torna alla mente il film di Elio Petri: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Anche quando l’assassino si toglie la maschera e si rivela, nessuno ha interesse a riconoscerlo.

Semel in anno savianico licet insanire. Narrazione savianica: tra fatti, informazioni, verità e verosimiglianza, tra costruzione del senso e descrizione pornografica della società di Massimiliano Monaco (Paginauno n. 22, aprile - maggio 2011). Accidenti, ieri un elicottero dell’esercito, parcheggiato dentro il parco, lo ha inquinato mezzo facendo ruotare le sue pale per diversi minuti, e le mie per molto di più, prima di tornare da dove era venuto. Per fortuna stavo correndo e sono scappato nella metà libera dai fumi. Una volta lì però mi sono dovuto rassegnare all’evidenza olfattiva che nel frattempo mi ha raggiunto e ho deciso di prendere la via verso casa, dove mi stavano aspettando il mio cane e i suoi bisogni. Cosa stessi facendo prima di prendere quella decisione è chiaro soltanto in parte, sì stavo correndo, scappando, ma soprattutto pensando a questo articolo, confermo scappando, già iniziato, la cui sostanza era smangiucchiata qua e là. Molte pretese, poca sostanza. Il pensiero era, ed è, su come affrontare il savianesimo provando a liberarmi dal pregiudizio che Saviano sia un santo, e del conseguente senso di colpa per averlo pensato. Ahimè non sono un suo ammiratore, men che meno di chi lo santifica, ma non sono nemmeno un ammiratore di chi lo impallina con motivazioni che definisco del sospetto, delle quali però condivido la sostanza degli argomenti che utilizzano. Insomma un pasticcio principalmente emotivo dal quale non è semplice venire fuori. Come dice qualcuno di cui non ricordo il nome, anche il cuore ha i suoi pregiudizi, e il mio ne è zeppo. A complicare la situazione ci sono stati gli straordinari interventi di Benigni e Abbado alla trasmissione Vieni via con me, dopo i quali è diventato ancora più difficile accettare di avere un pensiero, seppur piccolo, non pro Saviano. Lemme lemme dico le cose che mi sono rimaste impresse di Vieni via con me: il grande sforzo di Abbado, Benigni che da del tu a Sandokan mentre Saviano, valletto muto, non è in grado di rompere la timidezza per cantare la sua terra e si esprime solo grazie alla retorica non essendo all’altezza del ruolo di narratore (lo dico alla faccia del lemme lemme e di quel ragazzo che potrebbe imparare qualcosa da Minoli), inoltre il rifiuto di Benigni a rimanere sul palco, credo consapevolmente, mentre Fazio farà l’ennesima uscita sentimental popolare, e infine una performance di teatro danza magistrale quanto la regia televisiva che ne è stata fatta. A margine di questo c’è l’establishment politico, di entrambe le parti, che alimenta la mitologia attraverso la moderna figura dell’eroe, sostituendo la fede laica a quella religiosa, c’è chi, tra i comuni mortali, altresì detti popolo, che pensa a Saviano come una vittima del sistema della comunicazione, sfruttato e sovraesposto, e per finire un articolo di Aldo Grasso, il quale, paternalisticamente, cerca di non stroncare il fenomeno sociale Saviano, aggrappandosi al fatto che, tutto sommato, i contenuti del programma sono stati buoni rispetto alla media della televisione italiana. Penso che al peggio del berlusconismo non ci sia fine e non mi butto giù dalla finestra soltanto perché voglio finire questo articolo, poi vedremo. A conti fatti i fatti sono ciò che conta e quando si vuole raccontare un accadimento si usa raccogliere le informazioni che lo riguardano, la somma delle quali descrive ciò che è accaduto. Senza nemmeno accorgermi sono passato dai fatti alle informazioni che, normalmente, chiamiamo fatti, ma che fatti non sono perché le informazioni, relative a un fatto, non sono il fatto in sé, bensì la sua rappresentazione. Se questo è vero allora implicitamente è vero anche che esiste una distanza tra ciò che accade, il fatto, e gli elementi di narrazione di un accadimento, le informazioni, che a loro volta sono un insieme di dettagli. La distanza tra un accadimento e la sua narrazione non è solo evidente di per sé, se non altro per una questione temporale, ma è anche qualcosa che si amplifica insinuandosi tra i dettagli e tra gli elementi del racconto stesso. Infatti, nel riportare un fatto, cerchiamo di ridurre questa distanza utilizzando l’elenco, presunto strumento di imparzialità, di ciò che lo compone, per poter restituire a un potenziale lettore il quadro di quanto è realmente accaduto. Al posto di quello che sto per dire prima c’era un pezzo molto più lungo e noioso sulla relazione tra accadimento, soggetto e racconto, dettagli, elementi e il loro ordine o la costruzione sfruttando la distanza fra questi, che vi risparmio perché non ho la pretesa di svolgere un compitino logico ma dinamico, quindi salto alla battuta finale: questione di difetti dei fatti. Difatti, siccome ne sto parlando nella dimensione del racconto, usare la parola fatti è inappropriato quanto comune. A questo punto chiamo a testimoniare le parole descrivere ed elencare chiedendogli che senso abbiano in ambito letterario se utilizzate con uno stile cronistico o simil tale? Penso per esempio alla Divina Commedia di Dante che inizia dicendo (Canto I): “Ahi quanto a dir qual era è cosa dura / esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!”. Come a dire, sì questa selva esiste perché altrimenti non potrei dire che è selvaggia, aspra e dura, ma attenzione a voler passare per fessi dandone una spiegazione oggettiva, quanto a dir qual era è cosa dura. Eppoi: “Tant’è amara che poco è più morte; / ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte”. Per trattare il bene che ho trovato devo parlare di altro, delle cose che ho scorto, e aggiungo che Dante ancora una volta rifugge una posizione assolutistica sapendo che scorgere significa distinguere con l’occhio o con la mente e in questo caso sono i suoi. “Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai”. La verace via abbandonai, verace da vero significa che ha in sé verità, che è fonte di verità o meglio che è in realtà ciò che si afferma quindi non falso, non immaginario, non ingannevole. Come è possibile che voglia essere preso sul serio e allo stesso tempo abbandona la verace via? Da non studioso di Dante azzardo che significa non farò il cronista, non collezionerò fatti, tanto che questa opera è una macro allegoria fatta da sciami di metafore come dice Sermonti, e quindi non vi so dire, o vi dico che non vi so dire, come ci sono entrato. Proseguendo (Canto II): “Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva li animali che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra / sì del cammino e sì del la pietate / che ritrarrà la mente che non erra”. Apparecchiato, preparato a sostener la guerra che ritrarrà la mente che non erra, e dove va la sua? Dove vuole andare? Intanto, subito a chiamare aiuto: “O muse, o alto ingegno, or m’aiutate” perché riportare ciò che ha visto non basta per esprimere quello che vorrebbe; “o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, / qui si parrà la tua nobilitate”. E in fine: “Sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso” perché come per camminare ci vuole sia un piede sulla terra che uno per aria, così anche per creare un’opera, ed è fondamentale che il piede a terra regga quello in alto. Credo che la descrizione di un personaggio sia una cosa estremamente complessa perché per funzionare non deve avere solo una relazione intima con il personaggio ma più ancora con il mondo. Di Quinn, personaggio scritto da Paul Auster, sappiamo che “non serve dilungarsi su di lui. Chi fosse, da dove venisse e cosa facesse non ha molta importanza”. Come se nel suo tempo non esistesse una verità comune a tutti in grado di cristallizzarlo ma “sappiamo, per esempio che aveva trentacinque anni”, l’età di Dante della Divina Commedia, ma questo è solo un caso, credo; “sappiamo che un tempo era stato sposato, che era stato padre, e che ora la moglie e il figlio erano morti. Sappiamo anche che scriveva dei libri. Per essere esatti, scriveva romanzi gialli”. Sappiamo cose delle quali ne capiremo il senso molto dopo, come Quinn: “Molto tempo dopo, quando fu in grado di pensare a ciò che gli era accaduto, avrebbe concluso che nulla è reale tranne il caso”, e la Trilogia di New York è una raccolta di tre racconti polizieschi, a carattere psicologico, che immediatamente si mette in contatto con le ‘turbe’ mentali di milioni di persone incluse le mie. Quanti fatti reali sono contenuti in questo pezzettino di verità del personaggio? Forse nessuno perché “come la maggior parte della gente, Quinn non sapeva nulla del mondo del crimine. Non aveva mai assassinato nessuno, mai rubato niente, e non conosceva nessuno che lo avesse fatto [...]. Questo per altro non gli sembrava una menomazione. Nelle storie che scriveva, a importargli non era il rapporto con il mondo, ma il rapporto con le altre storie”. E ancora Auster ci dice che scrittore e investigatore sono intercambiabili: “Il lettore vede il mondo con gli occhi dell’investigatore [...]. Si è ridestato alle cose che lo circondano quasi che gli potessero parlare, quasi che, in virtù dell’attenzione che ora riserva loro, assumessero un significato altro dal mero dato della loro esistenza”. Il mero dato che tanto fa per rendere più ricco il resoconto di un fatto di cronaca. Forse qualcuno di quelli nascosti nella figura dell’avaro a partire dal primigenio vecchiaccio di Plauto che Molière travasa in Harpagon contestualizzando un tipo umano nella sua società dove la staticità di una pentola avrebbe detto, della spilorceria, meno di quanto potesse fare la spinta all’accumulo grazie all’usura. Oppure quelli nel personaggio del duca di Guermantes che Proust ci presenta così : “Si, aussi avare que fastueux, il lui refusait le plus léger argent pour des charités, pour le domestiques, il exigeait qu’elle eût les toilettes les plus magnifiques et les plus beaux attelages”. Forse tanti quanti sono gli episodi ne La ca’ dei cani di Tenca, “perché gli episodi sono pur necessari, anzi costituiscono la parte principale di un racconto storico, vi abbiamo introdotto la esecuzione di cento cittadini impiccati sulla pubblica piazza, quella di due frati abbruciati vivi, l’apparizione d’una cometa, tutte descrizioni che valgono per quelle di cento tornei, e che hanno il pregio di sviare più che mai la mente del lettore dal fatto principale”. (Queste sono per altro le righe introduttive dell’ultimo libro di Eco Il cimitero di Praga). Tenca ritiene la storia “primitiva sorgente di vero” e di questo “conservatrice eterna”, non può essere per l’invenzione mero supporto, o camicia di forza, né è lecito “spogliarla, saccheggiarla, rafforzarla”, diventando un puro pretesto di romanzesco (da un testo di Marinella Colummi Camerino). Cos’è la socialità se non un guardarsi l’un l’altro, come la domenica sul sagrato di una chiesa, con un come che in nessun modo può mascherare o inverare l’atto del guardarsi. L’individuo guarda, ricambiato, l’indistinto del mondo prossimo, dentro o fuori di sé, che l’artista, sottoinsieme derivato della categoria individuo, anch’esso guarda e ne descrive le trasparenze. Il lettore, individuo pure lui, guarda e consuma le trasparenze descritte dall’artista trapassato, attraverso la sua finestra, dal mondo dentro o fuori di sé, dell’individuo, e quindi del lettore allo specchio. Le finestre di ciascuno rispecchiano l’individuo anche per un loro stile proprio. Quello più in voga oggi è quello della rappresentazione della realtà attraverso descrizioni di dettagli, una strana forma di anatomia della società. Cercando pornografìa sul portale della Treccani, che esprime tutta se stessa con “il sapere parte da qui”, si ottiene questo risultato: “s. f. [dal fr. pornographie, der. di pornographe ‘pornografo’] – 1. Trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, ecc.) di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore: fare della p.; è un film che contiene solo p.; una campagna moralizzatrice contro la p.; un’opera in bilico tra raffinato erotismo e triviale pornografia – 2. ant. scritto che riguarda le prostitute o la prostituzione”. Faccio attenzione a “dal fr. pornographie, der. di pornographe ‘pornografo’”. Se la mia conoscenza delle abbreviazioni non mi inganna, ‘der. di’ dovrebbe significare derivato di, quindi quella frase diventa “dal fr. pornographie, derivato di pornographe ‘pornografo’”. A questo punto dantescamente chiedo aiuto alla linguistica secondo la quale derivato significa, sempre Treccani alla mano (per modo di dire), che trae origini da una forma preesistente, e chiedo aiuto alla logica per concludere che se pornographie è derivato di pornographe significa che, nel mondo impalpabile, la sequenzialità temporale tra queste due parole ricade in quello palpabile dove il pornografo è esistito prima della pornografia. Ma se il pornografo è esistito prima della pornografia significa che faceva un’attività diversa da quella di produrre soggetti o immagini con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore. Cosa faceva allora il pornografo prima di fare pornografia? Qui facciamo entrare in gioco ‘ant.’, il significato più lontano nel tempo, secondo il quale anticamente pornografia significava “scritto che riguarda le prostitute o la prostituzione”. Scritto che riguarda le prostitute è un po’ vago, tanto che non si capisce come lo facesse. Ho cercato del materiale a riguardo ma sono stato poco fortunato. Allora mi verrebbe da pensare che se l’intento non fosse quello di stimolare, potrebbe essere stato quello di lasciare documentazione scritta a testimonianza della loro esistenza. Se così fosse, e arrivo alla conclusione di questo breve ragionamento, abbiamo capito che un pornografo è uno scrittore, il cui stile narrativo è descrittivo, oggi si direbbe che parla di fatti e per questo forse è stato una variante specializzata del cronista. “[...] il tessile ha parecchie categorie merceologiche, e basta un tratto di penna sulla bolletta d’accompagnamento per abbattere radicalmente i costi e l’iva” (da Gomorra, Roberto Saviano). L’avessi scritto in un tema al liceo la professoressa mi avrebbe dato due per quanto era puntigliosa quella stronza. È vero che il mondo degli scambi internazionali è fatto di categorie merceologiche, più suggestivo chiamarle voci doganali, secondo le quali è stabilito il valore commerciale della merce e, di conseguenza, gli oneri a esso attribuiti per legge. Non so se sia vero che basta un colpo di penna, e nemmeno che lo si debba fare sulla bolla di accompagnamento, considerando che una pratica doganale vive di fatture, quindi semmai sono queste a dover essere contraffatte per abbattere gli oneri, e quindi eventualmente sfregiate con un colpo di penna, ma colgo il senso generale di quella frase e lo condivido perché è vero che dando alla merce una voce simile ma non uguale si ottengono risultati peggiori che a sbagliare la voce di un doppiatore. Però i dettagli fanno la differenza e a questo proposito va menzionato il fatto che quando parliamo di merci che viaggiano da un capo all’altro del mondo possiamo parlare di meccanismi che stanno sopra le singole voci, trasformando queste ultime in voci di corridoio. Le grandi compagnie di trasporto e sdoganamento, quelle che fanno il door to door per intenderci, beneficiano di due cose; la prima è di avere un ufficio di funzionari statali ospitato all’interno dei propri uffici, capisciammè, e la seconda è una cosa che si chiama procedura semplificata. Cos’è una procedura semplificata? In breve è una procedura grazie alla quale la merce che arriva sul territorio di destinazione può venire consegnata al destinatario finale prima che la documentazione relativa a essa, necessaria per lo sdoganamento, venga presentata ai funzionari. A voi lascio immaginare il resto e il perché una voce doganale diventa una voce di corridoio – per precisione aggiungo che alcuni cambiamenti sulle regole di interscambio dovrebbero aver avuto effetto a partire da gennaio 2011 e che quindi oggi la procedura semplificata potrebbe non esserci più. A questo punto mi chiedo perché sono diventato tanto puntiglioso quanto la mia prof. del liceo. In fondo quella frase di Gomorra probabilmente ci voleva semplicemente dare l’idea della truffa e del suo essere una cosa reale e quotidiana. Ma allora perché usare un registro narrativo di verità se basta poco per scoprire che è soltanto verosimile. Verosimile come tutta la merce avariata che il governo Berlusconi ci propina? ‘ndo sta la differenza tra lui e loro? ‘ndo sta la letteratura che usa i fatti per elevarli a metafora del presente in un romanzo, come Saviano definisce Gomorra, che incipia con pressapochismo su un dettaglio anatomico di scarso interesse per capire il mondo in cui viviamo? Comunque grazie! Saviano, la verità è che sono invidioso nonostante la mia galera sia più dolce della tua.

Impresentat’arm, scrive Filippo Facci su Libero. Gli impresentabili sono: 1) Quelli condannati in giudicato; 2) No, quelli condannati in Appello; 3) No, quelli condannati in primo grado; 4) Basta che siano rinviati a giudizio; 5) Basta che siano indagati; 6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione; 7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza); 8) Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile; 9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale; 10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario; 11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano; 12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra"; 13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili; 13) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali; 14) Sono i voltagabbana; 15) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

Un modo diverso di raccontare la mafia, scrive “Il Post”. Giuseppe Rizzo critica su Internazionale il modo in cui giornalisti e magistrati sfruttano la carica emotiva dei fatti di mafia per il proprio tornaconto, raccontando però solo un pezzo della storia. Lo scrittore Giuseppe Rizzo ha pubblicato sul sito di Internazionale un lungo articolo nel quale critica il modo con cui si è discusso di mafia negli ultimi anni, invitando a «raccontare le stragi ma ripetere fino allo sfinimento cosa è successo dopo», cioè quello che lui definisce il “secondo tempo”. Rizzo intende dire che i dati sulle attività della mafia pubblicati negli ultimi anni raccontano una situazione in lento miglioramento. Secondo Rizzo il problema rimane il modo di raccontare le vicende di mafia da parte di alcuni magistrati, politici e giornalisti, che spesso mirano solamente a sfruttarne la forte carica emotiva – innescata da popolari film e libri sulla mafia – per un proprio tornaconto. Scrive Rizzo: «La frase “c’è ancora molto da fare” ha senso solo se si accompagna all’idea che la mafia non ha vinto. […] Non mi piace pensare di aver desiderato il carcere per una persona; l’odio per la mafia non è paragonabile al risentimento per i professionisti dell’antimafia, ma non mi piace pensare di aver creduto ai teoremi sulle trattative tra stato e mafia».

La Sicilia è una guerra in due atti di Giuseppe Rizzo, giornalista di Internazionale. Mi è capitato di stare dalla parte sbagliata. In Sicilia significa che ho conosciuto e frequentato gente che poi è stata arrestata per associazione di stampo mafioso. Con alcune di queste persone ho avuto rapporti diretti, con altre ci siamo incrociate, con altre ancora ho legami di parentela. La forza dell’impatto di questi incontri va dall’indifferenza al disastro. Tutto questo mi serve per fare un discorso sulla codardia e la complessità che arriva tra poco, prima devo parlare di Ernest Hemingway e di Francis Scott Fitzgerald. Ernest Hemingway diceva che ogni generazione è segnata da un evento, e che questo evento forma l’immaginario e i racconti di quella generazione, e cioè il modo di vedere e leggere il mondo. Per la sua generazione, spiegava, quell’evento era stato la prima guerra mondiale. Per chi è nato in Sicilia negli anni settanta, o negli ottanta come me, quell’evento è l’esplosione delle bombe che hanno ucciso Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli uomini che scortavano i due giudici. Significativamente, le stragi di Capaci e via d’Amelio entrano nella letteratura italiana in opere pubblicate in questi ultimi cinque anni. Significativamente, tutti gli autori sono nati a Palermo, e nel 1992 avevano dai quattordici ai venti anni. Pif è nato nel 1972 e ci ha girato un film. Alessandro D’Avenia nel 1977, Corrado Fortuna nel 1978 e Davide Enia nel 1974: tutti e tre ci hanno scritto sopra romanzi e racconti. Un racconto di Enia è ripubblicato in questi giorni in La guerra. Una storia siciliana, libro che raccoglie il lavoro del fotografo Tony Gentile tra il 1989 e il 1996 – tutte le immagini di questa pagina sono tratte da quel volume, e non sono che un assaggio di un lavoro onesto e a tratti disarmante. Per come la vedo io, i romanzi e i film di questi autori si legano inconsapevolmente tra loro per dire due cose: che la Sicilia è una guerra; e che, come per gli americani raccontati da Fitzgerald, nella vita dei siciliani sembra non esserci un secondo atto. Quest’ultimo punto finisce per avere conseguenze sull’Italia intera, ma ci arrivo tra un attimo, prima ho bisogno di tornare dalla parte sbagliata. Per me stare dalla parte sbagliata ha significato anche avere conosciuto e frequentato salvatori della patria che si sono poi rivelati abbagli ideologici e fregature straccione. Nello specifico ha voluto dire che mi sono innamorato di progetti civili fallimentari, di promesse di salvezza sceneggiate dalla politica e smontate dalla realtà, di rivoluzioni che al più erano contestazioni quando non teatrini. Ancora più nello specifico tutto questo si è tradotto in tessere di associazioni contro le mafie, entusiasmi per treni e cortei della legalità, litigate in difesa di Rosario Crocetta prima che diventasse governatore dell’isola, crociate affinché Totò Cuffaro fosse sbattuto in galera. Molti dei furori che hanno preceduto queste scelte sono stati degli errori, e un po’ anche certe scelte, anche se in misura differente. Il disprezzo per la politica clientelare di Cuffaro non è niente al confronto della delusione che è seguita all’insignificanza di certa sinistra, ma non mi piace pensare di aver desiderato il carcere per una persona; l’odio per la mafia non è paragonabile al risentimento per i professionisti dell’antimafia, ma non mi piace pensare di aver creduto ai teoremi sulle trattative tra stato e mafia. Julian Barnes in Metroland: “Quando muoiono le teorie? E perché? Dite pure quel che vi pare, ma finiscono eccome, e per la maggior parte di noi. È un unico avvenimento decisivo a ucciderle? Forse per qualcuno. Ma di solito muoiono d’usura, lentamente e sull’onda delle circostanze”. Giovanni Falcone al funerale del giudice Rosario Livatino, 1990. “La foto è davvero spietata: sono tutti soli dentro lo scatto, e questa solitudine senza consolazione spiega più di mille parole il perché della forza della mafia”. (Davide Enia) Tony Gentile, Postcart edizioni. L’onda delle circostanze sulle spiagge siciliane è tutta una risacca di storie che vengono dal passato, e queste storie sono fatte proprie non solo da narratori e registi quarantenni, ma anche da magistrati imprenditori ed eroi dell’antimafia che negli anni si sono trasformati in maestri dell’emergenza. Tutti raccontano il primo tempo siciliano: chi lo fa al cinema o nei romanzi lo fa perché quel primo tempo è ricco degli eventi che l’hanno segnato, appunto; gli altri perché senza non potrebbero giustificare carriere cattedre e palcoscenici. C’è un rischio: il racconto degli anni novanta fatto nei romanzi e nei film usciti di recente carica inconsapevolmente l’arma di cui hanno bisogno i maestri dell’emergenza per tenere sotto scacco l’isola, e con l’isola il paese. Quest’arma è l’emotività, i suoi proiettili sono le emozioni, e rientrano in quello che Giovanni De Luna definisce come “paradigma vittimario”, ovvero quel diffuso bisogno di risarcimento morale provocato dalle stragi. Pif, Enia e gli altri raccontano anni drammatici, in cui magistrati saltavano in aria e giornalisti venivano sparati e bambini erano sciolti nell’acido. Riempiono il campo di emozioni a cui nessuno può sottrarsi: la rabbia, l’amarezza, la paura, lo sconforto, la disperazione. Queste stesse emozioni sono usate e manipolate dai maestri dell’emergenza per farne un ricatto: chi può metterle in discussione senza apparire come un mostro di cinismo che sputa sul cadavere dei morti? È bene che lo dica subito: non c’è alcun legame diretto tra le azioni degli uni e quelle degli altri, non credo che narratori e registi abbiano delle responsabilità nella manipolazione operata dai maestri dell’emergenza. Penso a un cortocircuito casuale. Penso che La mafia uccide solo d’estate di Pif o Un giorno sarai un posto bellissimo di Corrado Fortuna raccontino onestamente non tanto gli anni delle stragi, quanto le teste di alcuni ragazzini negli anni delle stragi. Penso che Ciò che inferno non è di Alessandro D’Avenia e Mio padre non ha mai avuto un cane di Davide Enia facciano i conti con una Palermo che tra gli ottanta e i novanta aveva divorato l’intera Sicilia. Tutte e quattro le opere condividono il medesimo punto di vista: la ferocia della mafia vista dagli occhi di un ragazzino. In tutte e quattro questo ragazzino si confronta con il mondo adulto, che è terrorizzato da cosa nostra quando non colpevole di fiancheggiamento. Questo ragazzino spesso si innamora di una ragazza che lo aiuta a sciogliere il nodo di emozioni che gli spezza il fiato in gola. Queste emozioni spesso emergono dal racconto dettagliato delle morti per mafia: è qui che per me nasce il cortocircuito. Nessuno sano di mente potrebbe mettersi a concionare sull’assassinio di Piersanti Mattarella o sulla strage di Portella della Ginestra, su Falcone Borsellino Fava Impastato Puglisi Dalla Chiesa. Questo primo tempo della recente storia siciliana è una bolla emozionale potentissima. Solo che dentro questa bolla soffiano anche i maestri dell’emergenza, con il loro carico di aliti pesanti. Provo a spiegare meglio chi sono i maestri dell’emergenza. Sono gli eredi dei professionisti dell’antimafia raccontati da Leonardo Sciascia. Sono intellettuali, giornalisti, magistrati e politici che hanno diviso l’isola in due: di là il male e di qua il bene; di là la menzogna e di qua la verità; di là i criminali, i mascariati, i collusi e di qua i giusti, i coraggiosi, noi. Stare dalla parte sbagliata, la provincia e Sciascia mi hanno insegnato il valore del dubbio e riparato dal fascino e dalla paura delle loro condanne. In provincia l’assolutismo è impossibile, perché ci conosciamo tutti e può capitare, come è capitato nel mio piccolo paese in provincia di Agrigento, che una mattina ci si svegli con qualcuno che si conosce o con qualche parente dietro le sbarre. Ma conseguentemente succede anche che ci si possa fare domande del genere: cosa spinge un ragazzo che è cresciuto in una famiglia per bene a chiedere il pizzo? Se arrestano tuo padre, tuo fratello o la persona che ami significa che sei complice, lo sei stato o lo sarai se non lo condanni? Cucire dei bottoni sugli accappatoi perché quelli con la cintura di stoffa in carcere non sono ammessi fa di te un mostro? Se nel tuo paese non si è mai pronunciata la parola mafia vuol dire che sono tutti codardi? I tuoi genitori hanno avuto diritto di avere paura? Per anni mi sono chiesto: posso o non posso scrivere una lettera a X, finito in carcere con l’accusa di omicidio? Ognuno affronta queste domande come sa e può, e arriva a risposte differenti: io ho provato a scrivere quella lettera, e molte notti rotte e molti tentativi: e mi sento un cane per non esserci riuscito, specie dopo l’assoluzione di X. Ma appunto, ognuno ha mille risposte, tutte diverse tranne una, che è uguale per tutti: queste domande i cretini non se le fanno e sono pronti a condannarti per molto meno. Più che la lezione sui professionisti dell’antimafia, di Sciascia mi porto dietro un’altra intuizione, è dentro Nero su nero, fa così: Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti a celebrarne l’Epifania. Ci sono tre storie che aiutano a capire meglio quanto questa epifania abbia raggiunto il suo apice oggi, scavalcando le casacche politiche, e trovando nei maestri dell’emergenza dei rappresentanti cerimoniosi e insidiosi e pericolosi. Le prime due si incrociano e hanno per protagonisti Massimo Ciancimino e Antonio Ingroia. Massimo Ciancimino è il figlio di Vito, ex sindaco di Palermo condannato in via definitiva per associazione mafiosa. Al padre si deve lo sventramento del capoluogo siciliano quando fu assessore ai lavori pubblici del comune: quattromila licenze edilizie rilasciate, 1.600 intestate a tre prestanome, tra cui un venditore di carbone e un fabbro. Al figlio i magistrati di Caltanissetta contestano di aver fornito un documento in cui risulterebbe che l’ex capo della polizia Gianni De Gennaro sarebbe stato una persona avvicinabile dal padre Vito Ciancimino. Sui giornali per giorni si è anche letto che Vito Ciancimino avrebbe “indicato De Gennaro come personaggio dell’ambiente del signor Franco”. E cioè l’uomo dei servizi segreti che avrebbe avuto un ruolo chiave nella cosiddetta trattativa tra lo stato e la mafia. La quale trattativa è bene riassumere: all’indomani delle condanne inflitte nel maxiprocesso ai boss mafiosi, iniziano stragi e omicidi per convincere la politica che aveva voltato le spalle a Riina a stipulare un nuovo patto di non belligeranza, il cui tramite sarebbe stato Vito Ciancimino. Il figlio è uno dei testimoni chiave del processo e per mesi ogni sua dichiarazione conquista le prime pagine dei giornali. Dà lezioni di antimafia e ispira libri come Il quarto livello di Maurizio Torrealta, con la prefazione firmata da Antonio Ingroia. Il magistrato all’epoca guidava le indagini sulla presunta trattativa, e nel libro Il labirinto degli dèi scriveva: “Dal primo incontro ho capito che Ciancimino jr era fatto di tutt’altra pasta. Tanto il padre era ombroso, tanto il figlio Massimo è gioviale (…) uomo dei media e per i media, nel bene e nel male. E per una metamorfosi mediatica, oggi il figlio di Ciancimino è arrivato a diventare quasi un’icona dell’antimafia”. L’icona dell’antimafia nel 2011 è stata arrestata mentre se ne andava a Saint-Tropez per Pasqua. A rinviarlo a giudizio è stato l’uomo che l’ha definito “quasi un’icona dell’antimafia”. Non sarebbe stata la prima capriola di Ingroia, questa, e nemmeno l’ultima. Il magistrato, dopo aver costruito l’impianto accusatorio e aver affascinato moltissime tribune con le sue tesi, ha mollato tutto per andare in Sudamerica a combattere il narcotraffico per le Nazioni Unite, ha scritto i Diari dal Guatemala per Il Fatto Quotidiano, e da Santoro ha dichiarato: “Il mio libro si chiama ‘Io so’ e il sottotitolo potrebbe essere ‘perché ho le prove’, ho ricostruito con sufficiente solidità, sulla base dei fatti emersi, una trama criminale che ha pesantemente condizionato la prima e la seconda repubblica”. In Guatemala ci è rimasto meno di due mesi, poi è tornato in Italia e ha fondato Rivoluzione civile, il movimento con cui ha cercato di conquistare la pancia emotiva degli elettori e con cui però è riuscito a raggranellare solo l’1,8 per cento al senato e il 2,2 alla camera. Fuori del parlamento ha provato a rientrare in magistratura, ha rifiutato un posto ad Aosta ed è finito ad amministrare Sicilia e-Servizi per volere del governatore Rosario Crocetta. Oggi sono entrambi indagati per decine di assunzioni che secondo l’accusa sarebbero state fatte violando la legge. La terza storia è quella di Roberto Helg. Il presidente della camera di commercio di Palermo è stato un campione della lotta contro il pizzo, prima di essere arrestato per pizzo. Il cavaliere del lavoro e commendatore è stato un protagonista della scena dei convegni antimafia e un maestro dell’emotività e dell’emergenza prima di essere arrestato per aver intascato una mazzetta da centomila euro da un commerciante che chiedeva il rinnovo dell’affitto del locale all’aeroporto di Palermo dove vendeva i suoi prodotti. La dico facile, che si capisce subito: la guerra alla mafia la fanno gli sbirri e i magistrati. Chi scrive, pensa ed elabora idee può accompagnare questa lotta, e il modo più sensato è provare ad andare oltre l’emergenza, far capire a chi la mattina si alza per andare in banca in chiesa o in strada a raccogliere l’immondizia che c’è un secondo tempo nella vita dei siciliani e che questo secondo tempo è cominciato da un po’. Provando a spiegarlo a un amico di Roma, mi sono sentito rispondere che in lui la percezione della minaccia mafiosa negli ultimi anni era cresciuta. È anche un problema di racconto della realtà, da cui restano fuori alcuni dati fondamentali. Provo a riassumerli:

- La commissione parlamentare antimafia dice per esempio che dal 1993 al 2003 in Sicilia sono state denunciate per estorsione 6.613 persone. E negli ultimi dieci anni moltissime altre sono finite sotto indagine, i ragazzi di Addiopizzo hanno scosso Palermo e creato una rete di commercianti contro il pizzo (gli aderenti sono 960), e perfino nel feudo di Riina ci sono stati i primi arresti.

- Le ordinanze di custodia cautelare nei confronti di boss e picciotti delle famiglie criminali siciliane sono state 2.055. I capi si trovano tutti in carcere e la cupola non si riunisce dagli inizi degli anni novanta. Negli ultimi tempi l’organizzazione ha provato a ricostruire la sua trama, ma decine di nuovi arresti hanno ricacciato la testa del serpente nella fossa.

- Gli omicidi commessi da cosa nostra nel 1992 sono stati 152, nel 2007 sono nove.

- I beni sequestrati alla criminalità organizzata siciliana dal 1992 al 2014 ammontano a più di nove miliardi, mentre quelli confiscati a più di quattro. Per rendersi conto di quanto questo possa pesare nella mente di un mafioso basta leggere l’intercettazione al punto successivo.

- Per più di cent’anni Palermo e New York sono state collegate da una solida tratta del malaffare. Nel 2008 l’operazione Old bridge ha portato all’arresto di 90 persone tra l’Italia e gli Stati Uniti, soffocando anche il piano di rinascita della famiglia Inzerillo. In questa intercettazione è Francesco Inzerillo a parlare con i nipoti: “Qua c’è solo da andare via, andarsene dall’Europa, non dall’Italia. Se bastasse solo la Sicilia, te ne andresti al nord, appena però ti metti in contatto con una telefonata, pure con tua madre o con tua sorella, o con tuo fratello, tua nipote, già sei sempre sotto controllo, te ne devi andare proprio tu, perché ormai è tutta una catena e catinella, te ne devi andare in Sud America, Centro America, e basta. Anche se hai ottant’anni, se ti devono confiscare le cose lo fanno, cosa più brutta della confisca dei beni non c’è”. A questi dati vanno aggiunte due cose, al netto delle mille che fanno ogni giorno le persone per bene. Gli sforzi degli insegnanti che fanno l’unica cosa che serve in terre depresse come la Sicilia, e cioè insegnano, e insegnando ficcano nella testa dei ragazzi la curiosità e l’intelligenza e l’onestà; e l’aria nuova che respirano molti ragazzi che se ne vanno in giro per l’Europa e il mondo senza complessi di colpa per aver abbandonato la propria terra (è un’accusa che lanciano spesso i maestri dell’emergenza) e che tornano, quando tornano e se tornano, con sguardi nuovi che anche in maniera indiretta scrostano vecchi problemi. Il racconto di questi dati e di queste storie sembra faticare a superare lo stretto di Messina, e perciò continuiamo a “vivere nella dimensione nevrotica di un passato che non passa”, scrive lo storico Salvatore Lupo in La mafia non ha vinto, “come se le istituzioni nate in un clima di straordinarietà rifiutassero di adattarsi a una qualche ordinarietà”. In questa ordinarietà naturalmente ci sono ancora crimini e violenza, corruzione e omertà, la memoria ancora viva dei morti e le paure dei vivi, ma quando da giornalisti narratori e intellettuali parliamo della Sicilia abbiamo il dovere di raccontarne anche il secondo tempo, raccontare le stragi ma ripetere fino allo sfinimento cosa è successo dopo. La frase “c’è ancora molto da fare” ha senso solo se si accompagna all’idea che la mafia non ha vinto, come recita il saggio che Lupo ha scritto insieme al giurista Giovanni Fiandaca, un libro che fa a pezzi in maniera chirurgica e disarmante anche il fantoccio dell’antimafia circense. Altrimenti daremo l’impressione che più che la mafia, ad aver vinto saranno i cretini, i maestri dell’emergenza, che come gli asini di Sciascia hanno bisogno delle bastonate per giustificare la propria esistenza: “L’asino aveva una sensibilissima anima, trovava persino dei versi. Ma quando il padrone morì, confidava: ‘Gli volevo bene: ogni sua bastonata mi creava una rima’”.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

Già perché la mafia è “cosa nostra” ed i suoi beni sono “roba nostra” dice Don Ciotti.

In un doc la storia di Don Ciotti e Libera: "La battaglia di chi combatte ogni giorno", scrive Silvia Fumarola l'08 dicembre 2015 su “La Repubblica”, tessendo le lodi del loro protetto per ideologia. Da sempre "La Repubblica" è stata sponsor e promulgatrice mediatica di Libera e del suo Guru. Si intitola "Sono Cosa nostra" il film dedicato alla vita e all'operato di Don Luigi Ciotti girato da Simone Aleandri. Lanciato in anteprima al cinema Nitehawk di Brooklyn, New York, il doc è anche un modo per celebrare i vent’anni della legge sulla confisca dei beni alle mafie: "Rappresento un 'noi' perché Libera raccoglie 1600 associazioni". Don Luigi Ciotti non smette di ripeterlo: «La legge c’è ma non basta, bisogna fare di più». È un’Italia che fa sperare quella raccontata nel documentario Sono Cosa nostra di Simone Aleandri: l’anteprima mondiale è ospitata nello storico cinema Nitehawk di Brooklyn, per iniziativa di Rai cinema. «Lo faremo girare nelle scuole e verrà trasmesso in tv, è un film da servizio pubblico, racconta l’impegno per la legalità, la battaglia quotidiana di chi combatte tutti i giorni» dice l’amministratore delegato Paolo Del Brocco. Il film celebra i vent’anni della legge sulla confisca dei beni alle mafie, nata a fuor di popolo, con la raccolta di un milioni di firme, promossa dall’associazione Libera. Visita lampo a New York per don Luigi Ciotti, l’incontro col vescovo, la sera la proiezione. Speranza e resistenza sono le parole chiave di chi in Campania, Calabria, Sicilia, ma anche in Lombardia e in Piemonte, ha trasformato beni appartenuti ai boss in cooperative (500), mettendo a frutto casali e terreni, creando un circolo virtuoso e offrendo lavoro. La casa del jazz a Roma, i prodotti di Libera venduti nei negozi, la volontà di educare alla bellezza – anche quando sembra un’impresa disperata - perché nessuno possa dire un giorno: «Tu non hai fatto niente?». Antimafia sul campo. Passione e rigore, una vita sotto scorta, Don Ciotti, è accolto dagli applausi: «Rappresento un “noi” perché Libera è un’organizzazione che raccoglie 1600 associazioni. Nel 1996 in Italia grazie a una legge voluta dai cittadini, i beni nella mani della mafia sono diventati beni condivisi». Con il sacerdote c’è Daniela Marcone: il padre Francesco fu ucciso a Foggia il 31 marzo 1995 era direttore dell’ufficio del Registro, aveva combattuto la corruzione. Il suo volto è finito su un murale, il nome sui vasetti di olive della cooperativa Pietra di Scarto di Cerignola. «Oggi la memoria di mio padre» racconta Daniela con orgoglio «non sono più sola a portarla avanti». Il riscatto e la dignità passano per il lavoro: immigrati, persone che hanno avuto qualche difficoltà nella vita, lavorano la terra e curano gli ulivi. Pietro Fragasso che coordina la cooperativa sociale non ha dubbi: «Per noi l’antimafia deve diventare economia». Dopo la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio che lo riporta in Sicilia, Don Ciotti segue la strada di Pio La Torre, il sogno di togliere alla mafia i capitali rappresentati dalle proprietà immobiliari, terreni, aziende agricole. Il magistrato Francesco Menditto spiega come sia importante questa battaglia di civiltà e come sia lunga la strada per la confisca dei beni. «La cosa che dà più fastidio alle mafie» spiega don Ciotti «è che i beni privati diventino condivisi. I ragazzi devono mettersi in gioco, quando trovano parole sono di carne gli brillano di occhi, s’infiammano: non devono scoraggiarsi». A Quindici (Avellino) primo comune sciolto per associazione mafiosa, la villa confiscata al boss della camorra Graziano, oggi ospita il maglificio 100quindici passi. Ci sono state minacce e intimidazioni, contro la struttura furono sparati cinque colpi di pistola, ma il lavoro continua. A Castel Volturno (Caserta) Massimo Rocco ha creato il caseificio “Le terre di Don Peppe Diana” in un terreno confiscato al camorrista Michele Zaza; la cooperativa produce le mozzarelle di bufala, ma quando fu inaugurata i lavoratori venivano definiti “folli”. I vigneti della cooperativa curata da Valentina Fiore a San Giuseppe Jato nascono nel ricordo di Placido Rizzotto, rapito e ucciso da Cosa Nostra nel 1948; la gente in un primo momento aveva paura di andare a lavorare su quelle colline, perché occuparsi delle terre confiscate ai boss significa fare antimafia. La cascina di San Sebastiano da Po in Piemonte, intitolata al procuratore capo di Torino Bruno Caccia, (ucciso nell’83) e alla moglie Carla, è meta di pellegrinaggi, unisce un’intera comunità. Qui si fa il miele, si raccolgono le nocciole. Il bene apparteneva alla famiglia ‘ndranghetista dei Belfiore, responsabile dell’omicidio del magistrato. La figlia di Caccia ha scelta una foto dei genitori che ballano, un frammento di felicità e speranza per il futuro, come immagine simbolo per il casale. «Papà è stato il primo magistrato del nord ucciso per mano mafiosa» racconta, parlando del «dolore puro, fortissimo» provato il giorno dell’attentato. Dal sorriso degli operatori della cooperativa Il Balzo che hanno trasformato un’edicola di Baggio (Milano) che faceva da quartier generale per la ‘ndrangheta in un centro per ragazzi diversamente abili all’orgoglio di gestire un bar, quest’Italia liberata grazie a Don Ciotti fa bene al cuore, ma niente è facile. È lui stesso a lanciare l’allarme: «C’è ancora tanta illegalità. Nei momenti di crisi i mafiosi hanno un’immensità di denaro da riciclare, dobbiamo essere più scaltri, più attenti e ricordarci che gli affari li hanno sempre fatti anche al nord. La confisca dei beni deve essere trasparente: ci sono sempre paroline, virgole, punti. La prima riforma da farsi in Italia è quella delle nostre coscienze». E spiega come il potere dei segni (caro al codice della mafia) sia importante, così diventa un gesto forte quello della Nazionale che va a giocare a Rizziconi, in Calabria, nel campetto di calcio che la ‘ndrangheta per anni non voleva venisse utilizzato. «Questo è un documentario che riassume piccoli esempi» dice don Ciotti «è ancora troppo poco, sono stati confiscati solo 17mila beni. Se si uniscono le forze – magistrati e società civile – è possibile guardare al futuro. La lotta alla mafia ha bisogno di lavoro e scuole, è la cultura che dà la sveglia alle coscienze, è importante conoscere. A marzo del prossimo anno saranno vent’anni della legge 109. Il sistema legislativo in atto è inadeguato, si potrebbe fare di più. Questo governo e quello precedente hanno creato una commissione per vedere come la legge della confisca dei beni può essere migliorata, attualmente i progetti sono arrivati alla Camera e in Senato. Il primo elemento inserito è il sequestro dei beni dei corrotti, non solo dei mafiosi. L’agenzia che opera deve essere potenziata, bisogna agire anche sui beni aziendali: quello finora è stato un fallimento».

Strapaese delle meraviglie. Fuoco amico, scrive Gabriele della Rovere il 4 dicembre 2015 su "L'Indro". Bufera di Libera, leadership di Don Ciotti e Democrazia carismatica. Allora la questione è se ci siano zone di riserva, amici ed amici degli amici, magari benemeriti operatori nel sociale come nella fattispecie, nei cui confronti conviene (di più: è giusto) applicare peculiari criteri di riguardo e tutela. La nostra risposta è no. Fondamento della nonviolenza è che il fine non giustifica i mezzi, ma i mezzi prefigurano il fine: così, dunque, non si può rivendicare buona finalità per coprire comportamenti che rappresentino comunque un vulnus alle regole di comportamento. Alla democrazia ‘interna’ di un soggetto, gruppo, o quel che sia. Ce ne eravamo già occupati a proposito del Movimento Cinque Stelle, che in questo nostro disgraziato strapaese delle meraviglie (disgraziato perché senza la grazia di valori comuni, di rispetto delle regole del gioco e delle regole tout court) rappresenta un utile, prezioso strumento per la Democrazia: a prezzo però, a volte, della Democrazia decisionale. Come fatto ne il Contrappunto, 2015 Novembre 25, delineando la Fenomenologia di Gianroberto Casaleggio. Chi è l’uomo che ha trasformato Beppe Grillo in Beppe Grillo. Ed a cui l’Italia deve qualcosa. «E’ grazie a lui, non solo ma molto, se l’Italia ha un po’ più, forse molto più, di Democrazia. Anche se purtroppo pagata a volte, e ripetutamente, con un meno di Democrazia interna al Movimento ed alle sue espressioni elettorali. Che è cosa di non poco conto, anzi di moltissimo conto, visto che da nonviolenti riteniamo che il fine non giustifichi i mezzi, ma i mezzi prefigurino il fine». Ecco, diversamente ed analogamente, si può forse si deve ragionare su Luigi CiottiDon Luigi Ciotti. Creatore del Gruppo Abele, del mensile Narcomafie e di Libera, poderosa galassia-strumento per il contrasto alla criminalità organizzata e l’affermazione della legalità. Da tempo anche tra quelli a lui più vicini, o comunque consentanei alla sua azione, si sostiene: «Occorre guardare l’opera, non la persona». Adesso emerge lo ‘scontro interno’ il ‘fuoco amico’ aperto dalle parole di Franco La Torre. Dirigente di Libera che porta sulle spalle la dolorosa esperienza della morte di Pio La Torre, suo padre, esponente del Partito Comunista ucciso da Cosa Nostra nel 1982, a Palermo. Aveva criticato, in occasione dell’Assemblea Nazionale del 7 Novembre 2015, ad Assisi, con un ampio intervento, il comportamento di Enrico Fontana, Direttore dell’associazione, e quindi il suo più importante dirigente operativo. Costretto alle dimissioni per aver ricevuto in sede esponenti del mondo ambientalista finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale. Non è tanto rilevante la questione in sé (lo è eccome, ma non di questo ci stiamo occupando ora), quanto le modalità con cui il confronto e lo scontro si è articolato. Con la defenestrazione del reo di lesa maestà. Sino ad arrivare a sostenere, come fa Nando Dalla Chiesa che di Libera è Presidente onorario, una ardita tesi. «Certo che quello di Don Luigi è un potere carismatico, ma nel nostro caso è un vantaggio: perché quando la leadership è a portata di tutti, come nei Partiti, non si pensa ad altro che alle lotte di successione». A parte che una cosa non esclude l’altra, anzi vi è più la immeschinisce, grati dovremmo conseguentemente rivolgere il pensiero a due giganti come Benito Mussolini e Silvio Berlusconi che la questione della Guida Suprema l’hanno radicalmente proprio così risolta. La tesi odierna è peraltro analoga a quella esposta a suo tempo dall’allora berlusconiano Italo Bocchino per avallare il porcellum calderoliano, che avrebbe permesso una migliore selezione, dall’alto e senza quasi intervento degli elettori, della classe dirigente e parlamentare. Utilmente il Fatto Quotidiano, pur tra qualche imbarazzo, ha preso spunto dal'Huffington per dare ripetuto spazio alla vicenda di Libera. Può essere doloroso toccare determinati argomenti, certi territori riservati, certi operati dei buoni. Ma non toccarli è ancor più effettivamente doloroso e causa, in primo luogo ai protagonisti, le ferite più gravi. Quelle per protezione ed omissione.

E, dunque, ricapitolando questo incrocio di Novembre-dicembre 2015. Da Lunedì 30 Novembre a Venerdì 4 Dicembre.

Lunedì 30 Novembre. Finisce Novembre. Non è una gran notizia, ma già che la vedete è una buona notizia.

Martedì 1 Dicembre. Inizia Dicembre. Anche questa non è una gran notizia, ma intanto… Franco La Torre dice all’Huffington Post che è stato emarginato, e di fatto cacciato, da Libera per aver criticato alcuni dirigenti e comportamenti. Anche del fondatore e leader, Don Luigi Ciotti.

Mercoledì 2. Il Fatto Quotidiano“Mandato via con un sms”. Don Ciotti e la guerra di Libera.

Giovedì 3. Il Fatto QuotidianoLibera, il mito della purezza affronta il “fuoco amico”. Ivi ripresa, senza commento, anche una bizzarra teoria socialpolitologica di Nando Dalla Chiesa.

Venerdì 4. ‘Il Fatto Quotidiano’: “Libera”, attenzione al fuoco amico. Intervento di Gian Carlo Caselli.

E poi Sabato 5 e Domenica 6. Vediamo…

E la prossima settimana da Lunedì 7 Domenica 13. Continuiamo a vedere. Che già è una buona cosa.

E così ecco iniziato questo Dicembre. E quasi finito questo 2015. Non torneranno mai più, ma li abbiamo vissuti, ed è una gran fortuna che purtroppo prima o poi finirà. Ma mica è detto…

Consulenze, soldi e veleni. In fondo a Libera, scrive “Live Sicilia” Mercoledì 09 Dicembre 2015. L'inchiesta di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza fa le pulci a Libera che, dopo anni di splendore, conosce qualche momento di opacità. Dopo le ultime polemiche e l'addio di Franco La Torre, anche la stampa nazionale si occupa di Libera con paginate e inchieste. Oggi, per esempio, Il Fatto Quotidiano pubblica un servizio - a firma di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza - che fa le pulci all'associazione di don Luigi Ciotti. Titolo: "Consulenze, soldi pubblici e veleni: in fondo a Libera". "L'ultimo direttore, Luigi Lochi - si legge - è stato eletto da appena un mese e già si ritrova al centro di un conflitto di interessi che nessuno finora ha ritenuto di dovere affrontare. Il penultimo, Enrico Fontana, si è dovuto dimettere all'inizio dell'estate per un incontro con due politici finiti nel calderone di Mafia Capitale. Il terzultimo era una donna: Francesca Rispoli, amica del Pd Davide Mattiello, relatore del ddl sulla modifica del 416 ter. Anche lei nel settembre del 2013 ha dovuto lasciare l'incarico; non aveva segnalato in tempo a don Ciotti che quella riforma, targata Nazareno, era persino peggiore della norma precedente". "La leadership è quella di don Ciotti e le dimissioni a catena costellano l'ultimo capitolo della storia di Libera, una galassia che raccoglie oltre 1500 associazioni, gestisce 1400 ettari di terreni confiscati ai boss, ed è considerata il totem indiscusso dell'antimafia sociale. Non solo. 'Libera' è l'invenzione stessa dell'antimafia che, per la prima volta, dopo Capaci e via D'Amelio, esce dalle aule dei tribunali e si ramifica sul territorio (...). Vent'anni sono passati da quel lontano 1995 quando don Ciotti a Palermo fonda la sua associazione, povera tra i poveri. (...). Che ne è oggi di quella teologia della liberazione antimafiosa, di quella visione rivoluzionaria del Vangelo?". L'inchiesta del Fatto approfondisce personaggi e situazioni. Ricostruisce una storia che sta conoscendo momenti di opacità. Riprende il discorso dei soldi: "L'organizzazione ha chiuso il bilancio 2014 in attivo di 207.317 euro, con disponibilità liquide pari a 883.431 euro e crediti per un milione e 81 mila euro, quasi tutti nei confronti di enti pubblici. La gestione dei beni confiscati, in convenzione con enti come Unioncamere, Telecom, Unicredit, frutta 60 mila euro. Le entrate dei diritti d'autore, 5 per mille, Fondazione Unipolis e raccolta fondi ammontano a un milione e 268 mila euro (...). Soldi, progetti, Pon, questo è il nuovo alfabeto di Libera. Che fa storcere il naso a tanti veterani del volontariato sociale, innamorati del don Ciotti predicatore di strada e paladino degli ultimi, un po' meno attratti dal don Ciotti manager". Né può mancare il riferimento alle recenti polemiche in cronaca. "E' per questo che Franco La Torre ad Assisi ha lanciato l'allarme sulla scarsa capacità di vigilanza sia a Palermo che a Roma? Liquidato con un sms di poche righe, il figlio di Pio La Torre ha comunicato il suo divorzio da Libera, definendo don Ciotti un despota e sottolineando i limiti di un gruppo dirigente più attento a collezionare prebende che che a denunciare le emergenze criminali".

LIBERA: CONSULENZE, SOLDI PUBBLICI E VELENI. L'avevano denuciato il M5S, l'avevamo denunciato anche noi in più occasioni. Per chi vuole capire, approfondire e Libera-rsi dai dogmi. L’ultimo direttore, Luigi Lochi, è stato eletto da appena un mese e già si ritrova al centro di un conflitto di interessi che nessuno finora a ritenuto di dover affrontare. Il penultimo, Enrico Fontana (sotto la cui egida è nata l'associazione da Sud n.d.r.) si è dovuto dimettere all’inizio dell’estate per un incontro con due politici finiti nel calderone di Mafia Capitale. Il terzultimo era una donna, Francesca Rispoli, amica del PD Davide Mattiello, relatore del ddl sulla modifica del 416ter. Anche lei nel settembre 2013 ha dovuto lasciare l’incarico: non aveva segnalato in tempo a Don Ciotti che quella riforma, targata Nazareno, era persino peggiore della norma precedente, esponendolo ad una pubblica retromarcia. Ma non è tutto. A giugno dell’anno scorso si è dimesso pure il Vice Presidente Carlo Andorlini: coinvolto in un’indagine della Corte dei Conti su alcune spese ordinate quando era a capo-gabinetto del Sindaco a Campi Bisenzio, in provincia di Firenze. Uno, due, tre dimissioni ‘imbarazzanti’ nel giro di un anno, strappi consumati in silenzio, senza clamore, all’interno di un’associazione che funziona come una holding da quasi 5 milioni di euro all’anno, e nello stesso tempo viene descritta come una struttura arcaica, chiusa come una setta e riservata fino alla paranoia: quella che lo stesso Presidente Onorario, Nando Dalla Chiesa, definisce “una creatura fondata sul potere carismatico, dove la leadership non si discute”. La leadership è quella di Don Ciotti e le dimissioni a catena costellano l’ultimo capitolo della storia di Libera, una galassia che raccogli 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss, ed è considerata il totem indiscusso dell’antimafia sociale. Non solo. Libera è l’invenzione stessa dell’antimafia, che per la prima volta, dopo Capaci e Via D’Amelio, esce dalle aule dei tribunali e si ramifica sul territorio dove ancora fumanti le macerie del tritolo di Cosa Nostra. Vent’anni sono passati dal quel 1995 quando Don Ciotti a Palermo fonda la sua associazione, povera tra i poveri, infiltrandosi nel cuore delle borgate mafiose, nelle case, nelle scuole, per insegnare il rifiuto di Cosa Nostra e del suo strapotere. Ma oggi? Che ne è oggi di teologia della liberazione antimafiosa, di quella visione rivoluzionaria del Vangelo? La sensazione è che tutto sia cambiato, a partire dall’idea stessa di antimafia, oggi fagocitata dal sistema, perché sempre più succube della necessità di assicurarsi risorse finanziarie. Al punto che il Presidente del Senato, Pietro Grasso, recentemente ha voluto ricordare che “serve un’antimafia umile, per un fine comune, che non è certo quello di essere l’associazione più visibile o finanziata”. Lo stesso Don Ciotti ha più volte messo in guardia dai rischi di una banalizzazione dell’impegno contro le cosche: “l’antimafia – ha detto – è ormai una carta di identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Ma qualcuno osserva che pure Libera, come le altre associazioni che hanno nello Statuto il contrasto alla cultura mafiosa, è diventata una campionessa nel fare incetta di finanziamenti pubblici. L’organizzazione ha chiuso il bilancio 2014 in attivo di 207.317 euro, con disponibilità liquide pari a 883.431 euro e crediti per 1 milione e 81 mila euro, quasi tutti nei confronti di enti pubblici. La gestione dei beni confiscati, in convenzione con enti come Unioncamere, Telecom, Unicredit, frutta 60 mila euro. Le entrate dei diritti d’autore, 5 per mille, Fondazione Unipolis e raccolta fondi ammontano a 1 milione 268 mila euro.  Solo Unipolis, la Fondazione di Unipol, che fa riferimento alla Lega Coop, sgancia ogni anno 70 mila euro. Poi c’è il capitolo dei finanziamenti europei, come quello del Pon Sicurezza da 1 milione e 416 mila euro, per migliorare la gestione dei beni confiscati, assegnati al Consorzio Sviluppo e Legalità, che raccoglie alcune cooperative della galassia antimafia in provincia di Palermo. Soldi, progetti, Pon, questo è il nuovo alfabeto di Libera, che fa storcere il naso a tanti veterani del volontariato sociale, innamorati del Don Ciotti predicatore di strada e paladino degli ultimi, e un po’ meno attratti dal Don Ciotti manager che oggi ha un’agenda fitta di presentazioni, tavole rotonde e comparsate tv. Nessuno parla apertamente. Ma sono tanti i delusi e gli scontenti che pongono una domanda cruciale: qual è la reale capacità di denuncia di un’antimafia che è appesa ai finanziamenti pubblici e appare sempre più consociativa al potere che tiene i cordoni della borsa? Qualcuno ha persino scritto che i commenti del prete duro e puro sono apparsi piuttosto tiepidi nei confronti delle coop rosse coinvolte negli affari di Mafia Capitale. L’associazione di Don Ciotti rischia di addomesticarsi? E’ per questo che Franco La Torre (ex candidato di Rivoluzione Civile insieme a Gabriella Stramaccioni, Direttrice Nazionale di Libera, che il gossip vuole compagna di Attilio Bolzoni di La Repubblica n.d.r.), ad Assisi, ha lanciato l’allarme sulla scarsa capacità di vigilanza sia a Palermo che a Roma. Liquidato con un sms di poche righe, il figlio di Pio La Torre (il segretario del PCI siciliano ucciso dalla mafia nel 1982) ha comunicato il suo divorzio da Libera, definendo Don Ciotti un “despota” e sottolineando i limiti di un gruppo dirigente più attento a collezionare prebende che a denunciare le emergenze criminali. Don Luigi nega che l’associazione sia una holding: “Nessuno – dice – sporchi la nostra trasparenza”. Ma i suoi fedelissimi si sono chiusi a riccio. Non parla l’avvocato Enza Rando, dell’Ufficio di Presidenza, che difende i familiari delle vittime di mafia e nel frattempo ha ottenuto una consulenza da 25 mila euro presso al Regione Emilia-Romagna (governata dal PD Stefano Bonaccini) oltre a far parte del cda della Cassa di Risparmio di Modena. Non parla neppure Fontana, lo stesso che La Torre ha additato come uomo simbolo del nuovo corso di Libera: è l’ex consigliere regionale di SeL Lazio che dal 2011 incassa un vitalizio, pur essendo promotore della campagna “Miseria Ladra” contro i vitalizi, e due anni dopo, in piena giunta Polverini, diventa consulente del Presidente del Consiglio regionale PDL, Mario Abbruzzese: 20 mila euro per un progetto antimafia. E tace soprattutto il neo direttore Lochi, dal 1991 al 1999 dirigente di Sviluppo Italia e poi collaboratore di Invitalia (il suo contratto è scaduto il 31 maggio): l’esperto della gestione dei beni confiscati. Appena 4 giorni dopo la sua nomina, avvenuta l’8 novembre, la Camera ha approvato la c.d. “norma Saguto” che ha scatenato la furia del M5S. Perché? “La nuova legge – hanno spiegato i grillini – stabilisce che le aziende sequestrate, anche di grande rilievo, verranno gestite da Invitalia, erede di Sviluppo Italia, il carrozzone mangiasoldi dello Stato”. La stessa azienda dove ha lavorato per anni il nuovo direttore di Libera. Che dice Lochi? Nulla. E’ la nuova antimafia bellezza! Quella dei pennacchi, dei premi, delle liturgie e delle litanie sommerse da un fiume di denaro. (Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza de Il Fatto Quotidiano, 9 dicembre 2015) 

La Torre contro Don Ciotti. "Dovevamo vigilare", scrive su “Live Sicilia” Martedì 01 Dicembre 2015 Riccardo Lo Verso. C'è anche il caso Saguto all'origine della scelta del figlio di Pio La Torre di divorziare dall'associazione antimafia. "Hanno il prosciutto nelle orecchie, se lo tolgano, nulla di grave”. “Mi dicono che a Palermo lo sapevano tutti. Mi sarei aspettato che Libera ponesse il problema visto che sui beni confiscati ha fondato la sua forza. Hanno il prosciutto nelle orecchie, se lo tolgano, nulla di grave”. Eccolo uno dei motivi per cui Franco La Torre, ormai ex componente del consiglio di presidenza di Libera, ha deciso di andare via dall'organizzazione di don Luigi Ciotti. Libera, a suo dire, non avrebbe tenuto le antenne dritte sulla gestione “scandalo” dei beni sottratti ai boss che ha portato all'azzeramento della sezione misure di Prevenzione del Tribunale palermitano. A cominciare dal suo ex presidente Silvana Saguto, finita sotto inchiesta e sospesa dal Csm. “Si sturino le orecchie”, aggiunge La Torre pronunciando la frase in dialetto siciliano e sgombrando da possibili dubbi: non è polemico, di più. Il figlio di Pio La Torre, l'ex segretario del Pci siciliano che assieme a Rognoni firmò nel 1982 la legge per colpire i patrimoni mafiosi, individua nel caso Saguto e in Mafia Capitale le spie dell'inefficienza della classe dirigente di Libera che avrebbe bisogno di una radicale ristrutturazione. “Siamo arrivarti dopo la magistratura. Non abbiamo capito che stava accadendo tutto questo - aggiunge - non va bene che una mattina ci si alzi, si legga il giornale e si scopra il caso. Non ce lo possiamo permettere”. Cosa si poteva fare a Palermo? “Non lo so, non ho ricette. Certamente si doveva analizzare il problema”. E se gli fai notare che in molti, per ultima la Commissione nazionale antimafia, il sistema Palermo lo avevano passato al setaccio finendo per elogiarlo, La Torre taglia corto: “Magari anche noi avremmo concluso che le cose andavano bene. Si può sbagliare nelle conclusioni, ma non accorgersene no. Non si può”. È innegabile che l'esigenza di combattere la mafia colpendo i patrimoni dei boss sia diventata una enorme macchina economica. Nel panorama del movimento antimafia Libera è una holding (termine che non piace affatto al suo fondatore). L'organizzazione, nata per la promozione della legalità e l'uso sociale dei beni confiscati alle mafie, oggi è alla guida un coordinamento di oltre 1500 tra associazioni e gruppi, che gestisce 1.400 ettari di terreni, dà lavoro a 126 persone e muove un fatturato che sfiora i sei milioni di euro. Ad inizio di novembre, durante l'assemblea nazionale di Libera, ad Assisi, La Torre aveva chiesto a gran voce un confronto perché, alla luce dei numeri sopra citati, “Libera è molto cresciuta in questi anni, serve un nuovo modello di organizzazione. Si deve avviare un progetto di formazione della classe dirigente, non si può dirigere tutto da Roma. Il mio discorso non è stato gradito (pochi giorni dopo Ciotti gli comunicò la 'rottura del rapporto di fiducia' ndr'), nonostante l'abbia fatto in un contesto dove è fondamentale la libera espressione del pensiero”. Da qui la scelta di fare un passo indietro che rende esplicito il malessere che da tempo covava nel movimento antimafia. “Io voglio bene a Libera e a Luigi, abbiamo lavorato bene in questi anni e speravo - spiega La Torre -, anzi spero, perché sono un ottimista, che le mie parole siano un'occasione di crescita”. Per il momento non è andata così. Oggi l'ormai ex rappresentante di Libera mette in guardia dai “rischi dell'antimafia di convenienza” e di quella che si fa “schermo di interessi indicibili”. Ed è in questo contesto che l'organizzazione di don Ciotti non avrebbe fatto sentire la sua voce: “Ci siamo fatti sentire a L'Aquila nel post terremoto e in Lombardia, ma non a Palermo per le Misure di prevenzione e a Roma per Mafia Capitale. Il nostro compito si è affievolito”. Ciotti non ci sta, dalle colonne di Repubblica difende l'organizzazione (“Non c'è nessun problema, Libera sta lavorando bene”) e spiega che “prima si conosceva il nemico, era la mafia, ora gli attacchi arrivano da più parti”. Chissà se alla voce “attacchi” vadano inserite le parole di Silvana Saguto. A chi le ha contestato, intercettazioni alla mano, di avere fatto favorito amici e parenti nella scelta degli amministratori il magistrato rispondeva che i “nomi di persone valide li abbiamo chiesti anche ad associazioni antimafia come Libera”. Circostanza che un paio di mesi fa Libera smentì categoricamente.

Antimafia, Pino Maniaci: «Libera? Ormai è una holding». Associazioni poco trasparenti e non al passo coi tempi. Il direttore di Telejato fotografa la lotta a Cosa Nostra. E fa un paio di domande a don Ciotti, scrive Francesca Buonfiglioli il 02 Dicembre 2015 su “Lettera 43”. Sono passati 30 anni e un'infinità di polemiche da quando Leonardo Sciascia sfidò i «professionisti dell'antimafia», quegli «eroi della sesta» che agiscono solo per fini personali e per accaparrarsi consenso. E cos'è cambiato? Praticamente nulla. «C'è che Sciascia aveva ragione», ammette a Lettera43.it Pino Maniaci direttore di Telejato, l'emittente del Palermitano da sempre in prima linea contro la mafia. Lo dimostrano le parole dure di Franco La Torre figlio di Pio segretario siciliano del Pci ucciso dalla mafia nel 1982 nei confronti di don Luigi Ciotti, numero uno di Libera. «Sono stato cacciato dall'associazione con un sms», ha spiegato La Torre all'Huffpost dopo aver criticato apertamente la gestione dell'associazione che non è riuscita a intercettare il fenomeno di Mafia Capitale, per esempio, o il caso Saguto a Palermo, la giudice, militante dell'antimafia, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio dalla procura di Caltanissetta nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati a Cosa nostra. Uno scandalo, quello legato ai beni confiscati, accompagnato dal silenzio assordante delle istituzioni. Che quando si sono decise a parlare, dice arrabbiato Maniaci, «l'hanno fatto troppo tardi». «Solo ora qualcuno comincia a rilasciare dichiarazioni», aggiunge. «Ma sono in ritardo. Da Raffaele Cantone a Piero Grasso». Proprio il presidente del Senato il 27 novembre aveva lanciato un appello per «un'antimafia che sappia guardare al proprio interno e abbandoni sensazionalismo, protagonismo, pretesa primazia di ogni attore, e corsa al finanziamento pubblico e privato». Ma, insiste Maniaci, «finora se ne è stato muto come un pesce. E dire che nel 2010 Saguto era alle sue dipendenze...». Con Telejato da tempo il giornalista aveva denunciato delle irregolarità, anche al presidente del Tribunale di Palermo Leonardo Guarnotta. «Non volevo buttare merda, ci mancherebbe altro. Gli dissi solo che all'interno del tribunale c'era un verminaio», ricorda.

DOMANDA. E quale è stata la risposta?

RISPOSTA. Mi sentii rispondere che così prestavo il fianco agli altri, cioè ai mafiosi.

D. Quale è la situazione dell'antimafia oggi?

R. Ha perso credibilità. Ed è doloroso non credere nelle istituzioni. Tutta l'antimafia dovrebbe fare pulizia al suo interno, ormai è diventata una holding perfetta per fare affari. Se decontestualizziamo siamo di fronte a due mafie.

D. Tutto da buttare?

R. No, assolutamente. C'è una vera antimafia che non è quella delle holding, ma quella delle onlus che si autofinanziano, della gente comune, dei ragazzi. E che è nel cuore delle persone.

D. Una critica a Libera?

R. Il messaggio di Libera è meraviglioso. Ci sono migliaia di giovani in tutta Italia che lavorano e ci credono.

D. Ma...

R. Ma deve rivedere la sua gestione. Ormai non è più un club come all'inizio ma una holding.

D. Però sostiene di essere in prima fila nella trasparenza dei bilanci.

R. Lo dicono loro. La trasparenza è fondamentale.

D. I soldi rovinano tutto?

R. A mio parere così si mortifica l'antimafia vera. Ripeto ormai non parliamo di un club ristretto ma di un'associazione nazionale. E anche a livello territoriale dovrebbero essere scelte persone capaci e competenti.

D. Quindi è d'accordo con La Torre?

R. Se uno come La Torre, e stiamo parlando del figlio di Pio, sostiene che non c'è democrazia e altri membri del consiglio nazionale lasciano l'associazione...

D. Un'altra accusa è di non essere a passo con i tempi. Cosa ne pensa?

R. Le mafie sono cambiate, sono quelle dei colletti bianchi. Anche l'antimafia deve aggiornarsi, cambiare pelle e guardare il fenomeno per quello che è. Però don Ciotti si incazza. Vabbè che lui è uno che si incazza facilmente... io però avrei un paio di domande da fargli.

D. Prego.

R. Perché i ragazzi che da tutta Italia arrivano in Sicilia per partecipare a progetti come 'Liberarci dalle Spine' non solo lavorano gratis nei terreni confiscati ma devono pure pagare 150 euro per vitto e alloggio? Manodopera gratuita?

D. La seconda domanda?

R. Perché la pasta di Libera fatta col grano di Corleone viene venduta a 6 euro al chilo? Non sarebbe un messaggio bellissimo fare sì che questa pasta sia accessibile anche a chi è meno abbiente?

D. In attesa delle risposte, non crede che questa gara ad accaparrarsi un patentino antimafia stia diventando una farsa?

R. Ci sono politici antimafia, commissioni antimafia, la Dda, la Dna. Manca solo il Ddt. Farsi fotografare accanto al Don è diventato trendy. Il fatto è che ormai la normalità non esiste, è paradossale. Suggerisco a Camilleri di rivedere anche il suo Montalbano...

OLTRE LIBERA. CHE COSA C’È DIETRO LA GRANDE DISFATTA DELL’ICONOGRAFIA ANTIMAFIA. Lo scontro tra don Ciotti e La Torre e tutte le macerie in cui oggi si muovono i professionisti del moralismo chiodato, scrive Salvatore Merlo il 03 Dicembre 2015 su "Il Foglio". Don Luigi Ciotti è un ottimista, e l’ottimismo è di per se stesso un segno d’innocenza: chi non fa né pensa il male è portato a rifiutare di credere alla fatalità del male. Ed è forse per questo che il prete piemontese, il fondatore di Libera, la più estesa rete di associazioni che in Italia si occupa di gestire i beni confiscati alla mafia, dice “che non c’è nessun problema” nella sua creatura nata vent’anni fa dopo gli anni terribili delle stragi e coltivata in quel clima di rinascita, di primavera palermitana, in quella stagione d’impeti morali e di buone intenzioni che don Ciotti ha incarnato non meno di Gian Carlo Caselli, suo amico, il magistrato ed ex procuratore della Repubblica che questo prete impegnato e di sinistra andava a trovare nelle torri blindate del quartiere la Favorita, quando si cominciava a scrivere un capitolo tra i più confusi e inafferrabili della storia politica e giudiziaria d’Italia. Quando cioè da quelle stanze bunker di Palermo cominciarono a essere istruiti il processo a Giulio Andreotti, il processo “del secolo” o il processo alla “storia”, e poi la grande inchiesta su Corrado Carnevale, il giudice “ammazza sentenze” assolto e reintegrato in magistratura, fino alla ricerca del terzo livello e dei mandanti occulti delle stragi. Così, di fronte ai contrasti che hanno portato all’allontanamento di Franco La Torre, suo collaboratore a Libera e figlio di Pio La Torre, il dirigente del Pci assassinato dalla mafia nel 1982, di fronte alle allusive ma ferme accuse del suo braccio destro di non essersi accorto e forse persino di essersi fidato (e dunque inevitabilmente affidato) al sistema dell’antimafia deviata scoperchiato dalla procura di Caltanissetta, don Ciotti dice che “è da molto tempo ormai che ci attaccano da diverse direzioni. Prima si conosceva il nemico, era la mafia”, ha detto a Repubblica. “Ora gli attacchi arrivano da più parti. Non accettiamo tuttologi. Se si vogliono fare delle critiche si indichino fatti precisi”. E insomma, con gli occhi fissi davanti a se, don Ciotti, guidato dalla sua purezza di visione come da un invisibile arcangelo, sembra quasi non vedere, non udire il trambusto indiavolato che lo circonda, quel pandemonio attraverso cui passa l’antimafia tutta, lui che pure, qualche mese fa, aveva usato parole dense: “L’antimafia non è più un fatto di coscienza”, aveva detto, “ma una carta d’identità: se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo chi ci ha costruito sopra una falsa reputazione”. E d’altra parte, per la verità, La Torre ha indicato due circostanze precise in cui la dirigenza di Libera non sarebbe riuscita “ad intercettare” i guasti e il malaffare, cioè a evitare di venire a contatto con interessi poco limpidi che si muovevano attorno al sistema istituzionale con cui in Italia vengono gestiti i beni sequestrati alla mafia: a Palermo, nell’affaire del giudice Silvana Saguto (l’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo indagata per corruzione e abuso d’ufficio), e a Roma, nei rivoli torbidi della cosiddetta Mafia Capitale. La Torre ha poi avuto un aspro confronto con don Ciotti – o almeno così dice lui: “Mi ha scaricato con un sms” – e si è dunque dimesso, in violentissima polemica. Ma al di là delle ragioni e dei torti di ciascuno, questo conflitto deflagrato in pubblico, sui giornali e sui siti internet, in un contesto in cui gli ultimi fatti di cronaca giudiziaria descrivono un’antimafia deformata, mostrificata, “infangata dagli scandali”, come ha detto il presidente del Senato ed ex procuratore antimafia Pietro Grasso, con arresti in flagranza di reato (l’ex presidente antimafia della Camera di commercio di Palermo Roberto Helg), con indagini su impegnatissimi esponenti della Confindustria siciliana (Antonello Montante), indagini che sfiorano imprenditori come Mimmo Costanzo, e poi ancora magistrati, avvocati, fino alle vicende non penalmente rilevanti ma politicamente disastrose di Rosario Crocetta (già “icona” dell’antimafia), insomma in questo contesto crepuscolare della stagione antimafiosa la vicenda di don Ciotti e Franco La Torre assume un suo speciale rilievo nell’atroce degrado che viene imputridendo come un tumore dentro la guerra alla mafia. Quando si parla di mafia, quando ci si accosta alle stragi, agli orrori, al sangue versato dall’eroismo di carabinieri, poliziotti, magistrati, sacerdoti, amministratori pubblici, s’accelera il metabolismo di ciascuno. Ma questo groviglio di eroismo e barbarie, di impegno civile e di sacrificio estremo, richiede una delicatezza che tuttavia non può trasformarsi in reticenza. “Il mondo dell’antimafia è ricoperto di macerie”, ha detto Salvatore Lupo, lo storico, il professore, il più grande studioso di Cosa nostra: “Più si allontana il tempo drammatico dell’emergenza più si svuota l’idea di pulizia e s’imbarcano in questo fronte carrieristi, lestofanti, impostori. Guardiamo quante imprese hanno aderito al fronte antiracket, quanti politici hanno iniziato a gridare ‘la mafia fa schifo’. E’ la grande impostura dell’antimafia”. Un fenomeno che è stato motore della lotta – efficace – contro la criminalità organizzata, fatto di leggi che si sono affinate col tempo, composto di consenso sociale, di figure dignitose, un meccanismo che ha contribuito in maniera tangibile a intaccare il potere della mafia, ma che pure ha subito una degenerazione, non sempre, non dovunque, ma strisciante, pervasiva, inquinante – “c’è una mafia dell’antimafia”, ha detto Claudio Martelli. Eppure un meccanismo insospettabile a prescindere, perché chiunque in questi anni si sia mai definito antimafioso – attenzione: antimafia erano anche Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo – è rimasto come protetto da un incontestabile alone di santità, nell’incarnazione più completa e sorprendente, forse preoccupante, del professionismo descritto da Sciascia. Ogni professione ha un costo, ha un albo d’onore, una storia, una geografia, una pianta organica, un sapere specialistico, una retorica e un’aneddotica. E allora quello che allarma, e tormenta, è l’idea che anche Libera, come altre associazioni, istituzioni private e pubbliche che si occupano della gestione dei patrimoni mafiosi, possa essersi in qualche modo mineralizzata sotto gli occhi dolci e velati di don Ciotti, trasformata cioè, con la sua rete di milleseicento associazioni, con i millequattrocento ettari di terreni confiscati alla mafia, le centoventisei persone impiegate, il fatturato di sei milioni di euro nella sola gestione dei beni del 2013, in un organizzazione di tipo politico, quasi una lobby, come suggeriscono i più accesi tra i detrattori, o comunque in un’organizzazione complessa, con i suoi interessi, i suoi eletti in Parlamento (Davide Mattiello, deputato del Pd, ex dirigente di Libera, relatore della riforma del Codice antimafia), con i suoi candidati nei diversi movimenti politici (due per il partito di Antonio Ingroia, uno per il partito di Nichi Vendola), e dunque le sue divergenze di linea interna, di orizzonte non soltanto manageriale – come sembra testimoniare il caso di Franco La Torre: “L’associazione ha dei meriti enormi”, ha detto l’ex dirigente di Libera all’Huffington post. “Ma qualcosa non va nella catena di montaggio. La mia non è una critica alla persona di don Ciotti bensì al metodo democratico. Non è più un club, è una associazione nazionale dove tutti devono prendersi le proprie responsabilità”. Due mesi fa l’Italia ha scoperto che il manager più pagato d’Europa non era Marchionne, né l’amministratore delegato di Deutsche Banke John Cryan, ma un tale Gaetano Cappello Seminara, sovrano degli amministratori giudiziari d’Italia, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali, indagato a Caltanissetta assieme al giudice Saguto, in una storia di favoritismi sfacciati e di gestione familistica delle attività imprenditoriali sottoposte a sequestro: per duecento giorni di lavoro l’avvocato Seminara aveva chiesto diciotto milioni di euro alla Italcementi, azienda i cui vertici erano sospettati di aver favorito Cosa nostra. Sono i fatti a descrivere la deformazione dell’antimafia, trascinata in una palude, stretta in legami stabili con i misteri dell’Interno e dell’Istruzione che elargiscono considerevoli somme di denaro pubblico con una discrezionalità assai discutibile, tra bandiere al vento, agende colorate, frasi sgorgate da una grandezza e una commozione con il tempo divenute retoriche, vale a dire una via d’uscita illusoria da quel labirinto della verità che, ormai lo sappiamo, è fatto di mafia e di antimafia. “L’Antimafia dovrebbe guardare al proprio interno”, ha detto Pietro Grasso qualche giorno fa, “e dovrebbe abbandonare il sensazionalismo, il protagonismo, la pretesa primazia di ogni attore, la corsa al finanziamento pubblico e privato”, non dovrebbe cioè muoversi come un “potere”, che per sua definizione scatena anche lotte per il potere. L’antimafia politica si è squassata in un macello di conflitti tra Leoluca Orlando, Beppe Lumia e Rosario Crocetta. L’antimafia Confindustriale è esplosa in Sicilia nel conflitto tra Marco Venturi e Antonello Montante (poi inquisito). Dopo ogni guerra, dopo ogni rivoluzione, così come dopo una pestilenza, si sa che i costumi decadono. Ed ecco il punto. Quel che don Ciotti non può permettersi è di diventare un’altra figura di quel genere letterario dominato dai professionisti dell’antimafia, ai quali probabilmente molto più della lotta alla mafia interessa la rendita di posizione che da questa vicenda politico-burocratica possono ricavare.

Per capire il particolare bisogna conoscere il generale.

«Fino al 1993 fuori dalla Sicilia non c'era la percezione che la mafia fosse un'emergenza sociale», ricorda Marcello Cozzi, memoria storica del movimento Libera fondato da don Luigi Ciotti. «Ricordo la stanzetta messa a disposizione dalle Acli per le prime riunioni, gli incontri con Giancarlo Caselli. Poi i banchetti nel marzo del 1995 per raccogliere le firme in favore della confisca dei beni ai mafiosi. Mai avremmo pensato di arrivare a un milione di sottoscrizioni e una legge già nel marzo del 1996». Da tutta Italia centinaia di ragazzi arrivano per lavorare sui terreni confiscati ai boss; nonostante intimidazioni e difficoltà nasce il consorzio “Libera Terra”, che coordina le attività delle coop di Libera. Ma già dodici anni dopo le stragi la rabbia sembra sbollire, fino a quando, la mattina del 29 giugno 2004, le strade del centro di Palermo sono tappezzate da adesivi listati a lutto con una frase lapidaria: "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Nessuna rivendicazione, fino a quando diversi giorni dopo, un gruppo di "uomini e donne abbastanza normali, cioé ribelli, differenti, scomodi, sognatori" rompe l'anonimato. Sono gli attacchini del comitato Addiopizzo, i nipoti di Liber', li battezza Pina Maisano Grassi, arrivano qualche anno dopo il primo comitato antiracket fondato da Tano Grasso, nel Messinese, a Capo D'Orlando.

Ma una domanda sorge spontanea: ma chi paga tutto l'ambaradan della Carovana cosiddetta antimafia?

Ostia, continua lo scontro Sabella-MoVimento 5 Stelle su Libera. Il MoVimento attacca: "Ha appeso la toga al chiodo e si diverte a fare il politicante". La replica: "Ferrara mi ha querelato o si è limitato a minacciare". Ormai è scontro aperto tra il MoVimento 5 Stelle e l'assessore alla Legalità del comune di Roma, Alfonso Sabella, scrive "Il Tempo" il 27 settembre 2015. Al centro di tutto il dossier che Il Tempo ha svelato in anteprima in cui i grillini, parlando di mafia ad Ostia, avanzavano dubbi sulla gestione di alcuni beni da parte dell'associazione Libera di don Luigi Ciotti. L'esistenza del dossier è stata prima smentita dai diretti interessati, poi ammessa ma con un distinguo: si tratta di una bozza. Fatto sta che il testo esiste e non è piaciuto né a Libera, né a Sabella che ha accusato il rappresentante del M5S a Ostia, Paolo Ferrara, di attaccare don Ciotti e i suoi per "interessi personali". Ferrara ha in parte risposto alle accuse dell'assessore con questa intervista. Ma oggi arriva anche la replica dei consiglieri comunali romani del MoVimento. Replica che Beppe Grillo pubblica in apertura del proprio blog. "È ormai evidente - scrivono Daniele Frongia, Marcello De Vito, Virginia Raggi e Enrico Stefano - che dalla nomina politica ricevuta dal Pd, Sabella ha praticamente appeso la toga al chiodo e da diverso tempo si diverte a fare il politicante da bar. Proprio come i suoi colleghi Orfini ed Esposito (l'ultimo, secondo quanto emerso in questi giorni ed, potrebbe risultare coinvolto per gli appalti della Tav), ne spara quante può, di qua e di là, una dietro l'altra, convinto che il suo trascorso a Palermo gli abbia dipinto sulla testa l'aureola del santo. Sbagliato". A questo punto il M5S, che "non prende lezioni di legalità da nessuno" risponde punto su punto alle accuse di Sabella: "il 3 marzo 2015 il M5S Ostia ha presentato un ordine del giorno in cui elencava le irregolarità su tutte le spiagge del litorale romano"; "recentemente abbiamo presentato un'interrogazione dove chiediamo di fare chiarezza in merito ad alcuni articoli di giornale che parlano di irregolarità rilevate all'interno della Spiaggia Libera-SPQR, data in concessione all'Ati (Associazione territoriale d'impresa), composta da Uisp Roma e Libera. È quello che facciamo da sempre: non fermarci alle parole, ma andare subito ai fatti. Abbiamo chiesto di accertare le eventuali irregolarità e la loro rilevanza. Libera, come tutti, non è al di sopra della legge. Da questa legittima richiesta di trasparenza e legalità, Sabella vorrebbe affermare che il M5S è contro Libera. Il M5S non è contro Libera, ma contro l'illegalità"; "a sostegno delle sue colorite tesi, l'assessore Sabella - proprio come Esposito e Orfini - parla spesso di un incontro segreto fatto da alcuni esponenti locali e nazionali del M5S con le sigle sindacali delle associazioni balneari che si occupano del litorale romano. Anche questo è falso. Quell'incontro si svolse il 25 giugno alla luce del sole e fu diffuso dai canali istituzionali del MoVimento"; "La scorsa settimana Sabella ha detto chiaramente che Roma non è mafiosa, ma è corrotta, come se le due cose fossero completamente sconnesse. Da magistrato dovrebbe andare a rileggersi il parere dei Ros. Forse, abituato a Palermo, crede servano ancora i santini per parlare di mafia. Noi ci limitiamo ricordargli che il tribunale di Roma su alcuni soggetti sta procedendo per associazione mafiosa. I grillini ricordano quindi all'assessore che per aderire al M5S ogni cittadino deve presentare la sua fedina penale: se è pulita può iscriversi, se è sporca rimane fuori la porta e concludono: "Il PD è roba vecchia. Roba marcia. il futuro è a 5 Stelle".

La replica. La querelle, ovviamente, non finisce qui. Anzi, a stretto giro di posta arriva la replica di Sabella. "Cari Daniele, Marcello, Virginia e Enrico - esordisce -, con riferimento al vostro post sul blog del vostro capo supremo, tralasciando di infierire sulla enorme quantità di inesattezze di cui è infarcito - e in attesa di leggere le vostre pubbliche scuse a Don Luigi Ciotti, assolutamente doverose per quanto di straordinario lui e Libera hanno fatto e continuano a fare per questo Paese - tengo a precisarvi alcune cose". La nota è piuttosto lunga e ruota soprattutto attorno al ruolo di Ferrara. "Prendo atto - sottolinea - che M5S non è contro Libera ma mi spiegate perché presentate un'interpellanza solo ed esclusivamente sulle sanzioni applicate a Libera e chiedete, addirittura, la revoca solo ed esclusivamente dell'assegnazione della spiaggia a Libera e ve ne state zitti zitti su tutti gli altri concessionari di spiagge, chioschi e stabilimenti plurimultati e che per decenni hanno sottratto il mare di Roma ai cittadini? Guarda un po' che combinazione?". "A proposito - prosegue - a Palermo non guardavo i santini (quanto piace pure a voi folklorizzare la mafia! Ma da che parte state veramente?) ma qualche centinaio di morti ammazzati all'anno, qualche bambino sciolto nell'acido e qualche tratto di autostrada o pezzo di quartiere che saltava in aria portandosi via altre vite umane e, mentre voi vivevate sereni nella bambagia, stanavo e arrestavo i responsabili, li facevo condannare a centinaia di ergastoli e migliaia di anni di galera, sequestravo i loro beni e i loro missili terra aria e vivevo, necessariamente solo come un cane, sotto sacchi di sabbia e lastre d'acciaio blindate. E attenzione: sto parlando di Brusca, Bagarella, Aglieri, Vitale, Cuntrera, Mangano, Cannella, Farinella, Di Trapani, Riina (figlio), Guastella, Greco, Madonia e un altro mezzo migliaio di nomi analoghi. Prendo comunque atto della vostra più elevata competenza in materia e mi inchino di fronte a cotanta scienza (!)". Quindi l'affondo su Ferrara: "Quanto all'interesse personale del Sig. Ferrara (a proposito mi ha querelato veramente, oppure si è limitato a minacciare le solite denunce e interpellanze come ama fare? Mi interesserebbe saperlo perché ho bisogno di soldi visto che io, solo per servire il mio Paese in questo attuale ruolo e non certo per cercare inutile visibilità, mi sono dimezzato lo stipendio) ho preso solo atto di queste evenienze:

a) Ferrara è amico del Sig. Bocchini tanto che ne ha celebrato le nozze come consigliere di Municipio. E non lo dico io ma lo sa tutta Ostia e lo dice, anzi lo diceva, lui stesso sulla sua pagina FB l'altro ieri, 25 settembre, "Sposare un conoscente, amico e compagno di scuola che abbia avuto piccoli precedenti...." Anche se oggi, 27 settembre, sul Tempo afferma "Lo conosco ma non è un mio amico". Ma hanno litigato giusto ieri mattina?

b) Bocchini era giusto giusto il precedente gestore della spiaggia Ammanusa che è stata poi assegnata a UISP e Libera perché si è accertato che Bocchini aveva precedenti penali, anche specifici (occupazione abusiva di beni demaniali), e nemmeno dichiarati.

c) Quando io, che non guardo in faccia a nessuno (PD compreso: ricordate, per esempio, la vicenda del Roma Capital Summer del VI Municipio oltre a quella di Ostia?), ho fatto controllare tutti i titolari di concessioni e spiagge sul litorale, tra cui anche Uisp e Libera (peraltro sanzionate solo per un paio di lievi irregolarità sanitarie) l'attento Ferrara, l'1 agosto scorso, in un pubblico comunicato dal titolo 'M5S: Ritirare concessioni spiagge a Uisp e Libera' ha dichiarato che avrebbe scritto a Don Luigi Ciotti e che avrebbe presentato 'un'interrogazione su questi gravi fatti che se confermati devono portare immediatamente al ritiro delle convenzioni ma non già di tutte quelle (la quasi totalità) in cui erano state rilevate violazioni amministrative (e men che meno in quelle laddove, illegalmente, si continua a negare il mare ai cittadini) ma solo ed esclusivamente di quelle inerenti la spiaggia gestita da Uisp e Libera. Mi spiegate perché? Perché solo Libera o, meglio, perché solo la ex spiaggia di Bocchini? Eppure dovreste saperlo bene visto che anche voi - e guarda sempre il caso, poco prima che cominciasse a circolare nelle redazioni dei giornali il vostro, in parte ora rinnegato, dossier - avete fatto esattamente la stessa cosa presentando, il 3 settembre scorso, un'interpellanza in cui mi chiedete di revocare la convezione solo ed esclusivamente a Libera.

d) Nell'articolo del Tempo che illustra il vostro dossier (a proposito ne sono in possesso e ho il 'leggerissimo' sospetto che, com'è avvenuto in altre occasioni, vi siete avvalsi delle solite, e oggettivamente singolari, consulenze esterne degli amici-nemici del Sig. Ferrara; e, come sapete benissimo, non parlo di Bocchini in questa occasione) guarda caso si tratta, in maniera oggettivamente estemporanea, anche del ruolo oscuro che, secondo le vostre originali ricostruzioni, avrebbe avuto a Ostia perfino l'ottimo avvocato Rodolfo Murra che, guarda sempre il caso, è proprio colui che, nei due soli mesi in cui ha diretto il Municipio di Ostia, ha scoperto i precedenti penali di Bocchini e gli ha tolto la gestione della spiaggia e, guarda sempre il caso, è pure l'avvocato che, vincendo prima al TAR e poi al Consiglio di Stato, ha tutelato gli interessi del Comune nella causa intentata da Bocchini per riottenere la spiaggia. Ma guarda un pò che sommatoria di coincidenze!

e) Come sapete benissimo la spiaggia SPQR a Ostia dà fastidio ai balneari perché introduce un nuovo e libero modo di accesso al mare e sempre Ferrara, guarda un pò ancora che coincidenza, è colui che ha organizzato un incontro occulto (nessuno sa, invero, di cosa si sia parlato e sarebbe il caso che finalmente lo spiegaste ai vostri stessi sostenitori che lo hanno ripetutamente chiesto a Ruocco su FB senza ancora oggi ottenere una risposta: grande trasparenza!) tra almeno una deputata del vostro Movimento e i predetti imprenditori 'onesti che non si sono mai piegati alla logica delle mazzette ... senza mangiarsi la città' e che, come si diceva, guarda caso, sono proprio i maggiori interessati a far fallire il modello di balneazione proposto da UISP e Libera. Per molto, ma molto, meno Voi crocifiggete chiunque. Io mi sono solo limitato ad avanzare un più che legittimo sospetto e che, sono certo, anche i vostri sostenitori non potranno che condividere e fare proprio. Mio nonno mi diceva sempre di 'non confondere 'a minchia cu 'u bummulù. Voi evidentemente non state molto ad ascoltare i vostri nonni forse perché, come Narciso, siete troppo impegnati ad autocompiacervi della vostra onestà e presunta superiorità etica senza guardare oltre il riflesso esteriore della vostra immagine. In questo caso, però, attenti: il riflesso non è quello cristallino della pozza di Nemesi ma dell'acqua limacciosa della palude di Ostia!".

«False le accuse di Sabella Anche lui ormai fa politica». Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, si difende dagli attacchi, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ci tiene a rispondere alle accuse che ha ricevuto. Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, il Municipio romano sciolto per mafia, attacca l’assessore comunale alla Legalità, l’ex magistrato Alfonso Sabella, e ribadisce l’impegno a verificare il business sulle spiagge, «tutte, compresa quella gestita da Uisp e Libera».

Consigliere Ferrara, l’assessore Sabella dice che lei avrebbe «interessi personali» sulla spiaggia assegnata all’associazione Libera. È vero?

«Falso. Querelo Sabella, non può dire che ho un interesse personale solo perché ho celebrato il matrimonio di una persona».

Si riferisce a Roberto Bocchini, l’ex gestore della spiaggia assegnata proprio all’associazione Libera.

«Sì. Vivo a Ostia da sempre e lo conosco ma non è un mio amico. Ho celebrato il suo matrimonio come tanti altri. Con questo principio, Sabella dovrebbe contestare anche il prete che ha sposato Totò Riina».

Ma allora perché Sabella ha detto quelle cose?

«Sta strumentalizzando la situazione. Noi abbiamo depositato molti atti che denunciavano il malaffare sulle spiagge di Ostia, chiedemmo proprio a lui di intervenire».

È una manovra politica?

«Il Pd sta cercando di recuperare. A Ostia è scomparso, il loro presidente di Municipio è stato arrestato, il Consiglio è stato sacrificato per salvare Roma».

D’accordo Ferrara, però nella relazione che il M5S doveva consegnare alla Commissione Antimafia ci sono delle accuse a Libera.

«Quella relazione è una bozza a cui hanno lavorato tanti 5 Stelle ma che va ancora condivisa da tutti. È un lavoro preliminare, che verrà comunque modificato».

E il paragrafo su Libera?

«Noi non accusiamo Libera, chiediamo di verificare tutte le irregolarità che la Finanza ha trovato sulle spiagge di Ostia, compresa quella gestita dall’associazione».

Che tipo di irregolarità erano quelle sulla spiaggia di Libera?

«Non ricordo nello specifico, ma ci sono i verbali della Finanza e ne hanno scritto i giornali. Dopo queste notizie i consiglieri comunali del M5S hanno presentato un’interpellanza all’assessore Sabella ma non solo su Libera, su tutti».

Cosa chiedete nell’interpellanza?

«Se ci sono le condizioni per togliere le concessioni a quelli che hanno commesso irregolarità».

Che ne pensa della conferenza stampa di Libera in Campidoglio e delle dichiarazioni degli esponenti del Pd?

«Il Pd ha strumentalizzato Libera, cercando di approfittare della situazione».

Che le hanno detto i cittadini di Ostia in questi giorni?

«Ho avuto grande sostegno da tutti e dal MoVimento, che qui è molto radicato. A Ostia abbiamo preso il 36% alle ultime Politiche, il 34% alle Europee. Ora stiamo al 50%. Se ne è accorto anche il Pd».

I silenzi scomodi di «Libera» su Tassone. Ostia, l’associazione finisce nel dossier dei 5 Stelle depositato all’Antimafia «Coinvolta nella gestione di stabilimenti balneari affidata senza bando», scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo" C’è il caso di Libera, la quale più che un’associazione antimafia è dipinta come una specie di «spa» che gestisce stabilimenti balneari a Ostia. Poi c’è l’ex presidente del Municipio, il plurindagato Andrea Tassone, che attraverso una giornalista che glorifica le sue attività, attacca le altre associazioni territoriali contro la criminalità organizzata. Infine una rete di politici, come il senatore Stefano Esposito, che invece di «preoccuparsi delle infiltrazioni e collusioni del Pd, riscontrate nelle ordinanze di Mafia Capitale», distrarrebbe «l’attenzione dei cittadini e della stessa Commissione Antimafia». Questo, a grandi linee, il contenuto della relazione «Mafia e litorale romano: il caso Ostia» messa a punto dal Movimento5Stelle e depositata all’Antimafia, presieduta da Bindi. Un capitolo importante riguarda le associazione antimafia. Libera, per esempio, ha in «gestione stabilimenti balnerari (Spqr), con assegnazione per affidamento diretto senza bando pubblico». In particolare, è annotato nell'atto, «non potendo per statuto gestire stabilimenti balneari, figura nell'affidamento dei servizi della spiaggia libera ex-Amanusa assieme a Uisp solo come portatrice di eventi per divulgare mezzi e strumenti nella lotto contro le mafie». Tuttavia, ritengono i 5Stelle, «da quando ha avuto l'affidamento nulla di ciò è mai stato organizzato». Infatti, risulta che «l'ultima iniziativa di Libera risale al 2011, una fiaccolata denominata "Liberiamo Ostia dalla Mafia". Poi più nulla». A Libera, inoltre, «viene contestato il silenzio non solo sui maxi appalti e sulla gestione degli appalti pubblici, ma anche sulla non ratifica del protocollo dell'associazione antimafia DaSud da parte della giunta e soprattutto sulla poca trasparenza dell’amministrazione del X Municipio, che ha portato poi all'arresto di Tassone». In relazione a questo presunto «silenzio», i 5Stelle affermano che «tramite Uisp», Libera «è entrata nella gestione controllata della spiaggia ex-Faber Beach con l’associazione Stand-Up e nell’affidamento diretto del Terzo Cancello (associazione Yut) presso la spiaggia libera di Castelporziano. Entrambi gli affidamenti sono dell’estate 2014 ed entrambi resi possibili grazie all’intercessione di Andrea Tassone e della coppia Francesco D’Ausilio ed Emanuela Droghei, rispettivamente ex capogruppo Pd capitolino ed assessore alle politiche sociali della giunta Tassone». Infine, «nella stessa estate (2014, ndr), Libera ha preso i contributi (anche questi vietati per statuto) per l’iniziativa "Ostia Cinema Station" tenuta dentro il Teatro del Lido». La relazione approfondisce anche i presunti attacchi subiti dall'associazione nazionale «Cittadini contro le mafie e la corruzione». Ne fanno parte anche «due ex poliziotti» che hanno curato Nuova Alba, inchiesta della Procura di Roma, che ha dimostrato il radicamento mafioso su Ostia. Gli ex agenti sono Fierro e Pascale, i quali avevano già redatto le informative investigative poi insabbiate circa la presenza della mafia su Ostia 10 anni prima dell'operazione Nuova Alba. Contro Pascale, si legge, «si sono scagliati sia Esposito (Pd) che una giornalista, affermando pubblicamente e falsamente che egli sia "fortemente legato al M5S" e che il M5S abbia presentato un'interrogazione parlamentare "in suo favore"». Un capitolo a parte riguarda i «nomi legati a Tassone». I fari sono puntati su Rodolfo Murra, capo dell'Avvocatura Capitolina, il quale - stando ai 5Stelle - pur avendo potuto vedere i presunti affari illeciti attorno al Municipio di Ostia non avrebbe presentato denunce. Nella relazione si legge che «all'inizio del mandato di Tassone, Murra è stato direttore del Municipio X. Furono proprio Tassone e Ignazio Marino dopo i 51 arresti per mafia del luglio 2013, a volere Murra ad Ostia nel Palazzo del Governatorato, dove è rimasto dal 15 luglio fino al 15 settembre 2013. Murra ha continuato anche dopo la sua promozione (a capo dell'Avvocatura, ndr) voluta da Marino, tramite Paolo Sassi (dirigente del Comune di Roma, ndr), ad interessarsi del X Municipio, ma non si è mai accorto di nulla nonostante ci siano decine e decine di interpretazioni dell'Avvocatura per dare parere favorevole ad "iniziative" di Tassone poi finite dentro le indagini della Procura».

Roma Ostia, Sabella: "MoVimento 5 Stelle contro Libera? Ferrara ha un interesse personale". L'assessore alla Legalità: "Il rappresentante M5S ha chiesto la revoca della concessione che l'associazione ha avuto attraverso bando pubblico", scrive "Il Tempo". Dopo l'articolo de Il Tempo sul dossier redatto dal MoVimento 5 Stelle su "Mafia e litorale romano: il caso Ostia" è guerra aperta tra i grillini e l'associazione Libera presieduta da don Luigi Ciotti. Per il M5S quello pubblicato da Il Tempo è un falso: "Quanto scritto dal giornalista non corrisponde in alcun modo alla relazione ufficiale redatta dai rappresentanti capitolini e regionali, che, al contrario di quanto riportato dal Tempo, non è infatti stata ancora depositata in Commissione Antimafia". La smentita, però, arriva dopo 48 ore dalla pubblicazione dell'articolo e, soprattutto, arriva solo dopo la decisione dell'associazione Libera di indire una conferenza stampa per rispondere alle "menzogne" dei Cinquestelle. La relazione, che a questo punto risulta avere due versioni (una pre e una post conferenza stampa di Libera), è comunque stata consegnata a Il Tempo da fonte autorevole ed è a disposizione delle parti. Di certo c'è che a confermare una certa "ostilità" dei grillini nei confronti di Libera a Ostia, arrivano le parole dell'assessore alla Legalità del Campidoglio, Alfonso Sabella. "Ostia è una palude perché è il posto dove tutto si confonde - dice intervenendo alla conferenza stampa di Libera -. Non era mia intenzione intervenire in questa conferenza ma è pervenuto ai miei uffici un elenco di interpellanze a cui devo rispondere in Assemblea capitolina e sono saltato dalla sedia dal disgusto quando ho letto quelle di quattro ragazzi che personalmente stimo, i consiglieri comunali M5S, che mi hanno fatto una interpellanza per chiedermi delle sanzioni applicate a Libera nel corso di un'attività di verifica della legalità sul lungomare di Ostia che io stesso ho disposto. Abbiamo controllato 71 stabilimenti e spiagge libere e dove c'erano irregolarità adottando dei provvedimenti amministrativi e il Movimento 5 Stelle mi chiede solo quelle applicate a Libera? Perché? Andreotti diceva che a pensare male si fa peccato ma a volte ci si azzecca. Fatemi pensare male. I consiglieri che sono qui in Aula li stimo e hanno fatto delle grandi battaglie e mi stupisce che siano caduti nella trappola del rappresentante M5S di Ostia, Ferrara, che ha un interesse diretto e personale sulla spiaggia gestita da Libera". "Ai consiglieri del Campidoglio voglio dire: state attenti perché avete preso una strada folle su Ostia - aggiunge -. Attaccare il bello, il buono, il giusto è folle. Difendo il lavoro dei ragazzi di Libera a Ostia perché hanno portato un modello mentre Ferrara ha chiesto la revoca della concessione che hanno avuto tramite un bando pubblico. Il Movimento 5 Stelle non ha mai supportato la battaglia che continuiamo a portare avanti a Ostia per il ripristino della legalità, non ha detto nulla quando i muri e le barriere si alzavano. Allora ridatemi la vecchia politica perché il Movimento 5 Stelle a Ostia è uguale. Sono veramente indignato e disgustato da questo atteggiamento e quindi mi auguro che i primi a prendere le distanze a livello nazionale da questo grave e ingiusto attacco a Libera siano i consiglieri capitolini» Intanto Gabriella Stramaccioni, membro della presidenza, fa sapere che l'associazione "si costituirà parte civile il 5 novembre al processo contro Mafia Capitale". Ma a far "tremare" i 5 Stelle sono le parole di don Luigi Ciotti che ha inviato un messaggio letto durante la conferenza stampa in Campidoglio: "La ricerca della verità è la base della giustizia. Ben vengano allora tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d'ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, nè mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia. È nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi l'ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte".

Il fattaccio del dossier antimafia grillino. Scoppia il caos sulla relazione 5 Stelle a Ostia. Protesta l’associazione Libera L’assessore Sabella rivela: il MoVimento vuole levare la spiaggia a don Ciotti, scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo". È scontro sul contenuto della relazione "confidenziale" del MoVimento 5 Stelle su «Mafia e litorale romano: il caso Ostia». Don Luigi Ciotti non ci sta a far passare Libera come una sorta di società che gestisce spiagge. Chiede «pubblica ammenda» ai grillini che, dalla loro, si limitano a dire che il testo pubblicato giovedì scorso da Il Tempo «non corrisponde in alcun modo alla versione ufficiale» ma si tratta di una «bozza». Sullo sfondo della lotta alla criminalità organizzata prende sempre più forma una battaglia interna all’antimafia. A colpi di slogan contro i clan, Ostia appare la piazza sulla quale si gioca anche una partita politica. E la relazione dei 5 Stelle non ha fatto altro che fomentare lo scontro con il Partito democratico, attraverso le accuse mosse sul senatore e assessore al Comune di Roma, Stefano Esposito. Anche l’assessore alla Legalità capitolino Alfonso Sabella è intervenuto, affermando che «ho il sospetto che non ci sia da fidarsi del M5S a Ostia. Il gruppo capitolino mi ha chiesto in un’interpellanza di revocare la concessione di una spiaggia a Libera a causa di una lieve sanzione amministrativa. E io sottolineo che il rappresentante del M5S a Ostia potrebbe avere un interesse personale su quella spiaggia che, guarda caso, prima era di un suo amico, a cui fu revocata perché aveva precedenti penali non dichiarati». La polemica è montata ieri mattina. Con una nota diffusa 24 ore dopo la pubblicazione dell’articolo e successivamente all’indizione della conferenza stampa di Libera in Campidoglio, i grillini hanno «smentito in toto il contenuto dell’articolo apparso su Il Tempo ». Roberta Lombardi, deputata pentastellata, parla su Facebbok di una «fantasiosa interpretazione giornalistica». In serata, però, arriva il mea culpa e l’ammissione che si tratta di una bozza della relazione non ancora depositata alla Commissione Antimafia. Il direttore Gian Marco Chiocci prende carta e penna: «Dalla smentita "in toto" del contenuto dell’articolo prendiamo atto che esistono due versioni della stessa relazione: una pre-conferenza stampa di Libera, e una post». Il testo dei grillini finito sotto i riflettori (che sul frontespizio porta la dicitura «revisione n. 3.5_*finale* - ultimo aggiornamento 4/9/2015» ndr ) è diviso in otto capitoli, per 50 pagine. In particolare, sono tre i punti che hanno creato la bufera: le «associazioni antimafia», il «sistema mediatico» e i «rapporti con le forze politiche». In sostanza, sono riportate accuse contro Libera , una giornalista di Ostia, redattrice di un quotidiano nazionale, e il senatore Esposito. Già nell’edizione de Il Tempo di ieri, il politico ha avuto modo di rimandare le accuse al mittente, stigmatizzando quando scritto – su di lui e sulla giornalista - nella relazione del M5S come «balle». Ieri mattina, invece, è stata la volta di Libera. L’associazione, fondata da don Ciotti, è stata duramente attaccata, assieme a Uisp (Unione italiana sport per tutti) sulla gestione delle spiagge a Ostia. Gabriella Stramaccioni, di Libera, ha risposto a quelle che definisce «bugie» con cinque diversi punti: «Non vi è nessun affidamento diretto della spiaggia Libera Spqr. Uisp e Libera hanno partecipato al bando pubblico con esito pubblicato in data 10 aprile 2014 e l’Ati con a capofila la Uisp è entrata in possesso della spiaggia solo ad aprile 2015»; «da aprile a oggi sulla spiaggia sono state organizzate diverse iniziative per la promozione della cultura della legalità»; «né Libera né la Uisp sono entrate mai nella gestione della spiaggia denominata Faber Beach che è una spiaggia libera attrezzata, posta sotto sequestro dall’amministrazione giudiziaria lo scorso anno. Libera, insieme alle associazioni Stand Up, si è impegnata gratuitamente a favorire percorsi di socializzazione e di cultura della legalità con decine di iniziative»; «Libera non ha mai preso contributi per l'iniziativa “Ostia Cinema Station”»; «Libera si è costituita parte civile nei processi contro il clan Fasciani e i suoi prestanome, contro il clan Spada, con la presenza in Aula di decine di ragazzi e di associazioni del territorio di Ostia e di Roma». Per don Ciotti «la ricerca della verità è la base della giustizia». Il parroco antimafia ne è convinto: «Ben vengano tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d’ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, né mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia». Conclude che «è nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte».

Altri documenti a 5 Stelle accusano "Libera". Due interrogazioni alla Regione Lazio chiedevano di fare i controlli, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ha suscitato accuse e polemiche il dossier del MoVimento 5 Stelle sulla mafia ad Ostia, che Il Tempo ha anticipato alcuni giorni fa. Nel documento i grillini accendono i riflettori sulle concessioni della spiaggia romana, anche su quella gestita dalle associazioni Libera e Uisp. L’assessore alla Legalità del Campidoglio Sabella ha attaccato i 5 Stelle, soprattutto un consigliere municipale, Paolo Ferrara, che avrebbe, così ha detto l’ex magistrato, «un interesse personale» su quella spiaggia. Ovviamente Ferrara ha rimandato le accuse al mittente, ha querelato Sabella e spiegato che i 5 Stelle, venuti a sapere delle irregolarità segnalate dalla Finanza negli stabilimenti di Ostia, hanno chiesto proprio all’assessore di verificare la situazione. Ora spunta un’interrogazione presentata il 3 agosto in Consiglio regionale. L’oggetto è chiaro: «Illegalità nella gestione della spiaggia libera della legalità Spqr di Ostia». Il documento parte dalla notizia dell’apertura della spiaggia libera della legalità, data in concessione all’associazione territoriale d’impresa formata da Uisp Roma e Libera di don Ciotti. Era il 29 aprile scorso. L’interrogazione aggiungeva il profilo delle due associazioni, poi richiamava un articolo del Messaggero del 31 luglio in cui «si fa riferimento alla circostanza che Libera, insieme alla Uisp, riesce a prendere in affidamento la spiaggia ex Amanusa, che non era in odore di mafia, contrariamente a quanto da loro affermato. Addirittura - spiega ancora il documento - la cooperativa Roy’s, che aveva vinto il bando e gestito la spiaggia fino ad allora, è stata oggetto di basse insinuazioni e accuse da parte del responsabile di Libera, Marco Genovese, secondo il quale addirittura veniva negata "l’acqua pubblica alla clientela" e si operava "ristorazione abusiva"». Poi si arriva al punto: «La cooperativa Roy’s, pur essendo arrivata prima nel bando, ha perduto la gestione dell’Amanusa per una multa di 400 euro che era stata indultata» e dunque «l’affidamento della spiaggia libera più bella di Ostia è andata proprio a Libera-Uisp». Insomma, qualcosa non quadra nell’assegnazione, secondo i 5 Stelle. Sembra quasi che Libera sia riuscita a conquistare quella spiaggia a scapito della cooperativa che l’aveva prima. Ma non è tutto. «Inaugurata la stagione in pompa magna con tutte le istituzioni, compreso l’assessore alla Legalità, Alfonso Sabella, Libera incappa - continua l’interrogazione dei grillini alla Regione - "nei controlli condotti ad Ostia dalle forze dell’ordine nei chioschi delle spiagge pubbliche"». I controlli effettuati, precisa ancora il documento, hanno portato all’identificazione di 17 lavoratori. Sono state riscontrate 9 violazioni «ed elevate sanzioni amministrative per un totale di euro 27.662 in ordine a svariate infrazioni/inadempienze». Tra queste: mancate emissioni di scontrini fiscali, irregolarità delle superfici di somministrazioni, mancanza dei requisiti strutturali, inidonietà dei luoghi di lavoro. I due consiglieri del MoVimento 5 Stelle che hanno firmato l’interrogazione, Davide Barillari e Silvana Denicolò, chiedevano al presidente della Regione Lazio Zingaretti «quali concrete azioni intenda intraprendere l’amministrazione regionale in concerto con l’amministrazione capitolina, nei confronti dei concessionari, sollecitando l’eventuale revoca della concessione e/o risoluzione di qualsiasi altro rapporto giuridico» e anche se la Regione ravvisasse la possibilità «di agire nei confronti dei concessionari o altri soggetti ad essi collegati per avanzare richieste di danni, anche d’immagine». Ma c’è anche un’altra interrogazione interessante, presentata sempre dai 5 Stelle alla Regione Lazio. Era il 23 settembre 2014. Nel documento si chiedeva di «mappare, analizzare e contrastare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose» e, soprattutto, di «valutare il livello di attendibilità delle associazioni antimafia, o presunte tali con le quali la Regione Lazio potrà in futuro collaborare». Insomma, le perplessità dei pentastellati verso Libera e le altre organizzazioni arriva da lontano e il dossier (che i 5 Stelle hanno declassato a bozza ancora da condividere e valutare) non era che il punto di arrivo di un percorso che, inevitabilmente, divide i grillini.

Tutto questo nella capitale d'Italia. Mentre nella capitale della mafia per antonomasia.

Parla l’ex presidente delle misure di prevenzione presso il tribunale di Palermo Silvana Saguto. “Le associazioni antimafia mi suggerivano i nomi”. «Mi accusano di aver creato un sistema. Sì, è vero c’era un sistema attorno alla sezione Misure di Sicurezza. Un normalissimo sistema che ha consentito di gestire i beni sequestrati».

A quale sistema fa riferimento?

«Gli amministratori giudiziari non li ho scelti fra i miei amici. E i miei amici non erano le persone chiamate a sostituire i fedelissimi dei boss cacciati dopo i sequestri: i nomi di persone valide li abbiamo chiesti ad associazioni come Libera, Addio Pizzo, li abbiamo chiesti ai parroci. Per essere più tranquilli. Segnalazioni sono arrivate da tutte le parti, anche da colleghi magistrati».

Pronta la risposta scontata di “Libera”. LIBERA RISPONDE IN MERITO ALLE DICHIARAZIONI DELLA D.SSA SILVANA SAGUTO A "LA REPUBBLICA" DEL 16 OTTOBRE 2015. «In merito alle dichiarazioni rilasciate oggi dalla d.ssa Silvana Saguto a "La Repubblica", Libera precisa che mai ha segnalato nominativi di Amministratori giudiziari alla Sezione di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, né ad altri Tribunali. Libera chiede peraltro da tempo l'istituzione di un Albo degli Amministratori, la rotazione degli stessi e un tetto ai loro compensi, ritenendole misure necessarie a garantire trasparenza, competenza e integrità nello svolgimento di un incarico così delicato. Tutto questo nello spirito di collaborazione che ha sempre caratterizzato il rapporto dell'associazione con le istituzioni nell'affrontare e risolvere i problemi che ostacolano l'attuazione di una norma cruciale nella lotta alle mafie come quella sul sequestro, la destinazione e l'uso sociale dei beni confiscati. Ma mai, mai segnalato nominativi».

Cena a casa Saguto. Con il tonno "sequestrato" alla mafia, scrive Venerdì 16 Ottobre 2015 Riccaro Lo Verso su “Live Sicilia”. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta che coinvolge l'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Ed ancora: le conversazioni con altri magistrati, siciliani e non, quelle con il padre e con l'avvocato Cappellano Seminara.  - Silvana Saguto aspettava un ospite illustre a cena, il prefetto. E così a casa sua sarebbero stati recapitati sei chili di tonno. Provenivano da un'amministrazione giudiziaria importante. "Un regalo" per l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. In una delle conversazioni registrate è rimasta impressa la voce del magistrato che chiedeva al suo interlocutore il pesce per la cena. All'indomani ecco i complimenti: era tutto buonissimo e gli ospiti erano rimasti molto soddisfatti. La conversazione si sarebbe poi spostata sull'incarico che stava per scadere visto che il procedimento era ormai giunto in Cassazione. Stava per arrivare il bollo definitivo o l'annullamento del provvedimento adottato dal Tribunale presieduto dalla Saguto. In ogni caso, sia che il bene fosse passato sotto il controllo dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati sia che fosse stato restituito al proprietario, l'incarico dell'amministrazione giudiziaria sarebbe venuto meno. E i due affrontavano la questione, discutendo anche di eventuali nuove nomine per il futuro. Di telefonate ce ne sono parecchie. Tutte intercettate nei quattro mesi, da maggio ad agosto, in cui i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria hanno ascoltato le conversazioni della Saguto e degli altri protagonisti dell'inchiesta. Tra questi il padre del magistrato, Vittorio Saguto, pure lui indagato per concorso in autoriciclaggio. Padre e figlia parlavano di qualcosa che non si trovava, ma che andava cercato e preso. Non è escluso che anche sulla base di questi passaggi sia stato necessario l'intervento urgente dei finanzieri nei giorni in cui facevano irruzione in Tribunale e a casa degli indagati per le perquisizioni e i sequestri. C'era qualcosa che andava trasportato o trasferito in fretta dall'abitazione del genitore del magistrato a Piana degli Albanesi? Soldi o tracce di passaggi di denaro tali da fare scattare l'ipotesi del riciclaggio? Così come si indaga su alcuni spostamenti dell'avvocato Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari. In altre conversazioni emergerebbe il presunto utilizzo disinvolto della macchina blindata per recuperare oggetti dimenticati a casa o accompagnare alla fermata dell'autobus persone che non avrebbero avuto alcun diritto di salire a bordo. Dal più assoluto riserbo investigativo trapelano pochissimi particolari che qualcuno bene informato definisce "poca roba" rispetto a quanto resta confinato nel recinto del segreto investigativo. Lo testimoniano i tanti, tantissimi omissis che coprono gli atti dell'indagine. Compresi quelli che riempiono le trascrizioni delle conversazioni fra il magistrato e altri colleghi, della stessa sezione per le Misure di prevenzione e non, siciliani ma anche romani.

Caso Saguto ai raggi X al Csm: "Mi serve il pesce fresco per la cena col prefetto". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura, scrive il 16 ottobre 2015 Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. E' il ritratto di una corte quello che emerge dall'inchiesta del nucleo di polizia tributaria della finanza e dei pm di Caltanissetta. Una corte di amministratori giudiziari, e non solo loro, che facevano a gara per ingraziarsi il presidente delle Misure di prevenzione attraverso regali e favori. L'amministratore giudiziario Mario Caniglia, che gestisce Torre Artale, regalò sei chili di ventresca a Silvana Saguto per una cena col prefetto. Era stato il giudice a rivolgersi a lui. E fu accontentata. "È un regalo", ribadì al telefono Caniglia. Sollecitando poi -  neanche tanto velatamente -  altri incarichi. Il 28 agosto, la Saguto era soddisfatta per l'ottima cena: "Il prefetto era impazzita letteralmente -  diceva all'amministratore -  una cosa così non l'ha mai mangiata". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura. Il cuore delle sette pagine anticipate ieri da Repubblica è "il quadro di natura corruttiva che sarebbe emerso tra la Saguto e l'avvocato Cappellano Seminara, nonché tra la Saguto e il ricercatore Carmelo Provenzano". Gli investigatori ritengono che Cappellano abbia dato non solo i 750 mila euro di incarichi al marito del giudice e un contratto da 1.200 euro al figlio chef: si indaga pure su 20 mila euro in contanti che un architetto avrebbe consegnato a Cappellano, il sospetto è che questi soldi possano essere finiti al giudice. Il ricercatore della Kore Provenzano "aveva invece sostituito Cappellano come amministratore di fiducia della Saguto", scrive il Csm. E anche lui non avrebbe mancato di ringraziare il giudice: è accusato di aver fatto la tesi a suo figlio, poi avrebbe "consegnato ripetutamente alla Saguto cassette di frutta e verdura ". Per i pm coordinati da Lia Sava e per il Csm, "atti diretti a compiacere la Saguto ". Cappellano e Provenzano sono già indagati, la posizione di altri amministratori è al vaglio del pool composto da Cristina Lucchini e Gabriele Paci, che lavorano a stretto contatto con i finanzieri del Gruppo tutela spesa pubblica della tributaria, i protagonisti di questa indagine. "La dottoressa Saguto risulta iscritta anche per abuso d'ufficio  -  avverte il Csm  -  in relazione ad una non meglio precisata vicenda di assunzione clientelare nell'ambito di un'amministrazione giudiziaria ". Ci sono poi delle "condotte" della Saguto che pur non "penalmente rilevanti", dice il Csm, sono "comunque suscettibili di valutazione critica". Il primo capitolo: "Indebito utilizzo del personale di scorta in sua assenza per la soddisfazione di esigenze private". Gli agenti, interrogati, hanno raccontato che erano mandati a fare la spesa, a ritirare abiti in lavanderia, oppure ad accompagnare amici e parenti del giudice. "Servizio taxi", lo chiamavano.

Tiengo famiglia: la Saguto ha un debito da 18 mila euro, scrive il 15 ottobre 2015 Salvo Vitale su "Telejato". OGNI  GIORNO SE NE SCOPRONO DI NUOVE: IERI È STATA LA VOLTA DELLA COLLANA REGALATA DA CAPPELLANO, MA PER AMMISSIONE DELLO STESSO GIUDICE, QUESTO È STATO UNO DEI TANTI REGALI, ANCHE PIÙ COSTOSI, RICEVUTI DALLA SAGUTO. Di ieri pure la notizia della tesi scritta dall’esimio prof. Provenzano al figlio svogliato, ma oggi si scopre che l’altro figlio Crazy, cioè pazzo, ha ricevuto da Cappellano un incarico di oltre mille euro per un lavoro nella sua agenzia, oggi si scopre addirittura che nel supermercato Sgroi, dato in amministrazione giudiziaria dal giudice Vincenzi ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca, un nome che ritorna spesso, la Saguto aveva accumulato una spesa di circa 18 mila euro (si vede che mangiava spesso e bene) già da molto tempo e che il marito Caramma che sorpresa, ha cercato di coprire in parte con un assegno di 10 mila euro. E, dulcis in fundo, gli avvocati della Saguto, Crescimanno e Pezzano rinunciano all’incarico per divergenze su come impostare la linea di difesa. Quindi la depressione ci sta tutta e minaccia di tornare per la povera Silvana, con un debito grosso da pagare, con la guardia di finanza dentro casa, con gli avvocati che non vogliono più difenderla e persino con un figlio che non vuole studiare, con un altro che è pazzo per sua definizione e che sa fare solo il cuoco. Degli altri familiari non diciamo niente. Però la famiglia è importante.

Beni sequestrati a mafia, “Saguto aveva un debito da 18mila euro in un supermarket confiscato”. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha prelevato alcuni documenti nel supermarket Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato a un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra le carte anche il conto non pagato dall'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale - indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio - da 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell'inchiesta, scrive Giuseppe Pipitone su "Il Fatto Quotidiano" il 15 ottobre 2015. Per tre anni si è rifornita nel supermercato confiscato a Cosa nostra, pagando raramente il conto, e lasciando un debito sospeso pari a 18.451 euro. A Palermo il confine tra mafia e antimafia subisce un ulteriore colpo dagli ultimi atti acquisiti nell’inchiesta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha sequestrato alcuni documenti nel supermercato Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato ad un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra quella documentazione anche il conto non pagato della Saguto, che ammonta, appunto, a 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito del giudice, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell’inchiesta. “Mi sono sempre rifornita in quel supermercato e pagavo le spese mensilmente: in ogni caso non mi sono mai occupata di quella misura di prevenzione”, si è difesa Saguto. L’amministratore giudiziario dei supermercati, Alessandro Scimeca, nelle scorse settimane aveva chiesto il pagamento del debito, trovandosi in una situazione imbarazzante perché Saguto era comunque la presidente della sezione di tribunale che gli aveva conferito l’incarico. Il magistrato, in ogni caso, ha annunciato di avere chiesto trasferimento a Milano: una decisione presa per anticipare il provvedimento di trasferimento d’ufficio aperto nei suoi confronti da parte del Csm. Oltre alla Saguto, la procedura di trasferimento è stata aperta anche per gli altri quattro magistrati coinvolti nell’inchiesta e cioè per Lorenzo Chiaramonte e Fabio Licata, entrambi in servizio alla sezione misure di prevenzione, per il pm Dario Scaletta, accusato di rivelazione di segreto, e per Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo, padre di Walter Virga, da pochi giorni ex amministratore giudiziario dei beni della famiglia Rappa. Palazzo dei Marescialli nel frattempo ha aperto anche un’altra pratica, pendente alla settima commissione, per fare luce sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. A chiedere un nuova indagine sulla gestione Saguto è stato il consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin, che in prima commissione è il relatore del fascicolo sul “caso Palermo”. La nuova pratica è stata aperta per verificare la “congruità delle scelte organizzative e il rispetto delle disposizioni tabellari”, e cioè se la gestione del magistrato sotto inchiesta abbia violato le regole anche sul versante degli emolumenti liquidati agli amministratori giudiziari. Proprio oggi a Palazzo dei Marescialli è stato ascoltato il presidente dell’ordine degli avvocati di Palermo, Francesco Greco, che ai membri del Csm ha parlato di vero e proprio “caos organizzativo” della sezione misure di prevenzione, confermando il “clima di sfiducia e di grande disagio” che ha colpito l’ufficio giudiziario dopo l’inchiesta aperta dalla procura di Caltanissetta. Lunedì 19 ottobre, invece, sono previste le audizioni del presidente della corte d’appello di Palermo Gioacchino Natoli, del procuratore generale Roberto Scarpinato e del presidente dell’Anm di Palermo Matteo Frasca. Il giorno successivo è il turno del presidente della Camera penale palermitana Antonino Rubino, che nelle scorse settimane, ha chiesto di “azzerare” la sezione misure di prevenzione e di trasferirne le competenze alle sezioni ordinarie. A quel punto il Csm dovrà decidere quando convocare i cinque magistrati coinvolti dall’inchiesta che imbarazza il mondo dell’antimafia.

Silvana e le continue sorprese: spunta anche un giornalista nell’inchiesta della Procura, scrive il 16 ottobre 2015 Danilo Daquino su "Telejato". SILVANA NON FINISCE MAI DI STUPIRCI. Dopo la collana ricevuta in regalo da Cappellano e il debito da 18 mila euro presso il supermercato Sgroi, concesso in amministrazione giudiziaria, dal giudice Vincenzi, ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca (un nome che ritorna spesso), adesso viene fuori che la signora aveva rapporti privilegiati con giornalisti che celebravano e vantavano le sue attività svolte all’interno della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. A renderlo noto è il Csm: “Propalazione delle notizie relative ad un immobile confiscato ad un giornalista che lo aveva chiesto in assegnazione con l’intento di destinarlo a sede dell’Assostampa, in cambio, da parte sua, della redazione di interviste e articoli celebrativi pubblicati su Il Giornale di Sicilia”. Un piano perfetto che avrebbe garantito alla signora Silvana massima copertura da più punti di vista, in cambio del bene che avrebbe fatto comodo a numerosi giornalisti siciliani e non solo al Giornale di Sicilia. Basti pensare alla notizia di qualche mese fa che annunciava “La mafia vuole uccidere la Saguto”, fatta sfuggire ad arte da un funzionario della Dia (bingo!) finito nel registro degli indagati. Articoli inventati con lo scopo di rafforzare e tutelare l’immagine dell’illustre magistrato e pubblicati su giornali buoni solo per incartarci le sardine! Non tarda a rispondere alle accuse l’Assostampa, sindacato dei giornalisti: “Il Consiglio regionale dell’Associazione siciliana della Stampa, nella riunione del 27 aprile 2015 tenuta ad Agrigento, aveva dato mandato a un suo componente di informarsi, presso le sedi competenti, sui passaggi che bisognava compiere per arrivare all’affitto di un bene confiscato alla mafia. Di tutto questo c’è traccia nel verbale di quella seduta. A oggi, comunque – prosegue la nota – non è stato ancora presentato alcun atto formale di richiesta. Quanto al riferimento del Csm a ‘interviste e articoli celebrativi’ come presunta merce di scambio, è una ipotesi del tutto impensabile e fuori dalla realtà: per il semplice fatto – conclude – che nessun giornalista, a maggior ragione se è anche un dirigente sindacale, sarebbe in grado di garantire una cosa del genere visto il sistema di competenze e controlli interni che regola un giornale”. Insomma, nel caso ci sono ancora troppi lati oscuri da chiarire. Intanto all’interno del tribunale di Palermo, ormai al centro della cronaca italiana, si respira un clima pesante. Una pesantezza che si sarebbe potuta evitare se gli indagati avessero portato avanti la giustizia nell’ottica della legalità. La ciliegina sulla torta, oggi, la mettiamo sulle testimonianze degli agenti di scorta che, interrogati, hanno raccontato di essere stati utilizzati come “servizio taxi” per fare la spesa, ritirare vestiti in tintoria o accompagnare addirittura amici e parenti del giudice. Caramma che sorpresa!

Non ci lasciare, Silvana…scrive Salvo Vitale su "Telejato". APPRENDIAMO DAL GIORNALE DI SICILIA, CON IL SOLITO ARTICOLO SCRITTO “SU MISURA” E AL MOMENTO GIUSTO, DA RICCARDO ARENA, CHE SILVANA SAGUTO, DOPO LA BUFERA CHE LE È CADUTA ADDOSSO, HA DECISO DI ANDARSENE, NATURALMENTE PRIMA CHE IL CSM POSSA DISPORRE IL SUO TRASFERIMENTO PER INCOMPATIBILITÀ AMBIENTALE. In questo caso si tratterebbe di una punizione, il trasferimento volontario invece sarebbe una sua scelta. L’articolo parte dalla solita scusa che in questi giorni abbiamo sentito spesso: “Vogliono fermarci”. E sì, signor giudice, può darsi che anche i mafiosi vogliano fermarla, ma noi ci proviamo per tutt’altre ragioni, legate al ripristino della legalità, della funzionalità e della “giustizia giusta” nell’ufficio sinora da lei presieduto. Apprendiamo dalle sue dichiarazioni che ha un figlio svogliato, che lo ha affidato alle cure di un suo pupillo, il chiarissimo professore di tre università Carmelo Provenzano, pare di capire, sulla base di quanto dice lei stessa, che gli ha scritto la tesi, o forse che gli ha fatto da consulente. Apprendiamo che il solito Cappellano, per il suo compleanno, le ha regalato una bella collana. Ma guarda un po’! Ai comuni mortali si regala un profumino o una borsa, a lei una collana, un regalo che si fa solitamente alle mogli. Mah!!!! Apprendiamo anche che lei versa in qualche difficoltà economica, malgrado tutti i soldi delle consulenze incassati da suo marito. Insomma, una buona madre di famiglia che pensa anche a farsi aiutare da suo padre. E infine che vuole andarsene a Milano o a Catania. Le consigliamo Milano, lì la giustizia funziona un po’ meglio e lei stessa avrà possibilità di dare e ricevere un contributo. Intanto da qualche giorno le udienze alle misure di prevenzione cominciano alle 10 e non a mezzogiorno, come quando c’era lei, il Cappellaccio è sempre là con una decina di suoi quotini che lo guardano in attesa di ordini, i tempi delle udienze sembrano essersi notevolmente accorciati, pare che il suo sostituto, il dott. Fontana non starà ancora a lungo al suo posto e sarà sostituito dal dott. Montalbano. Che non è il commissario di Camilleri. Insomma, se le premesse sono giuste, sembra ci stiamo avviando alla normalità. Le sembra niente?

"Saguto cercò notizie riservate". Le accuse del Csm, scrive "Telejato". L'inchiesta della procura di Caltanissetta riguarda la gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia.RMO - Avrebbe "mobilitato persone di sua conoscenza per acquisire notizie riservate presso gli uffici giudiziari di Caltanissetta e Palermo sull'esistenza di un procedimento penale che dal capoluogo siciliano avrebbero mandato ai colleghi nisseni". C'è anche questo nel lungo elenco di accuse che il Consiglio Superiore della Magistratura contesta al giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, sotto inchiesta a Caltanissetta per corruzione e abuso d'ufficio. La prima commissione del Csm ha aperto nei suoi confronti e di altri quattro magistrati, anche loro indagati, un procedimento per il trasferimento d'ufficio. Saguto, nel frattempo, ha fatto domanda di trasferimento. Sulle toghe coinvolte grava anche un possibile procedimento disciplinare: il pg della Cassazione ha avviato, infatti, accertamenti sul caso. L'inchiesta nissena - parte degli atti sono stati inviati al Csm che, anche sulla base delle carte ricevute ha potuto avviare il procedimento per il trasferimento - riguarda l'illecita gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. Quel che viene fuori è però un sistema più ampio basato su scambi di favori e condotte, quando non illecite, "suscettibili di valutazioni critiche", scrive la prima commissione di Palazzo dei Marescialli. Tra gli episodi elencati dal Csm la nomina del figlio del giudice Tommaso Virga, Walter, amministratore giudiziario di un patrimonio milionario, in cambio di un presunto intervento del padre, ex consigliere di Palazzo dei Marescialli, in un procedimento disciplinare riguardante la Saguto. E ancora pressioni del giudice su Walter Virga perché facesse entrare nel proprio studio la compagna del figlio, e l'esistenza di "un rapporto corruttivo" tra il magistrato e uno dei principali amministratori giudiziari della città, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Quest'ultimo avrebbe assegnato consulenze al marito della Saguto, anche lui indagato, e fatto lavorare il figlio nella sua società, la Tourism Project srl. Nell'inchiesta spunta anche il nome di un altro amministratore giudiziario, Carmelo Provenzano, ricercatore all'università di Enna: avrebbe fatto la tesi all'altro figlio del magistrato e regalato al giudice diversi generi alimentari di una attività da lui amministrata. Il trasferimento potrebbe riguardare anche il pm Dario Scaletta, indagato per rivelazione di segreto istruttorio, e i giudici Lorenzo Chiaramonte, accusato di abuso d'ufficio e Fabio Licata, accusato di concorso in corruzione aggravata. Infine a Saguto si contesta l'avere instaurato rapporti "privilegiati" con alcuni giornalisti in cambio di campagne di stampa a lei favorevoli. (ANSA).

Caso Saguto, gli avvocati rinunciano alla difesa del giudice, scrive “Il Giornale di Sicilia” il 14 Ottobre 2015. Gli avvocati Francesco Crescimanno e Roberta Pezzano hanno annunciato che rinunceranno al mandato difensivo del giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo indagata per corruzione dalla procura di Caltanissetta nell'ambito di una inchiesta su illeciti nelle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati a Cosa nostra. Dietro la rinuncia al mandato ci sono differenti visioni della strategia difensiva. I legali hanno reso noto che rinunceranno anche al mandato difensivo del figlio, del marito e del padre del giudice, anche loro coinvolti nell'indagine. Dietro la scelta degli avvocati ci sarebbero le dichiarazioni rilasciate oggi dal magistrato al Giornale di Sicilia.

Palermo, inchiesta su gestione beni confiscati: indagata Saguto. Lei: nessun dubbio su mio operato. Le ipotesi di reato sono corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio. Tra gli indagati anche il marito del giudice e l’avvocato Cappellano Seminara, scrive la Redazione online de "Il Corriere della Sera”. A Palermo quasi la metà dei beni sequestrati d’Italia. La Procura di Caltanissetta ha aperto un’inchiesta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio nei confronti della Presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, che si occupa della gestione dei patrimoni mafiosi sottoposti a sequestro. «Non ho dubbi sul mio operato e chiederò subito di essere interrogata»: ha detto il magistrato al sito Live Sicilia. «Incarichi a mio marito? - ha aggiunto - Ne ha avuto uno solo a Palermo, e oggi chiuso, che risale agli anni in cui non ero alla sezione misure di prevenzione». «La notizia dell'inchiesta è contenuta in una nota ufficiale della stessa Procura di Caltanissetta «allo scopo - è scritto - di evitare il diffondersi di notizie inesatte». «Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta - si legge nella nota - militari del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015». «Questi atti istruttori - prosegue la nota - sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari». Risulterebbe indagato anche l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che per conto del tribunale gestisce numerosi beni sequestrati ai boss. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo avrebbero notificato un terzo provvedimento anche al marito della Saguto, l'ingegnere Lorenzo Caramma, che è stato consulente di Cappellano Seminara. L'affidamento di numerosi beni sequestrati alla gestione dell'avvocato Cappellano Seminara, con relative «parcelle d'oro», era stato denunciato dall'allora direttore dell'Agenzia per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, anche di fronte alla commissione parlamentare antimafia. I rilievi di Caruso, poi sostituito con il prefetto Umberto Postiglione dopo essere andato in pensione, erano stati giudicati «non esaurienti» dalla presidente Bindi secondo la quale c'era il rischio di «delegittimare l'intero sistema». Si tratta dunque, di un’inchiesta che scotta, visto che come la stessa Saguto comunicò lo scorso aprile «Palermo è una sezione speciale per la quantità di beni sequestrati: ne ha quasi la metà del resto di tutta l’Italia». Quattro mesi fa era trapelata l'indiscrezione su un progetto mafioso per uccidere Silvana Saguto. Ci sarebbe stato, secondo una segnalazione dei servizi di sicurezza, uno scambio di favori tra boss. Un sicario legato al clan Emmanuello di Gela avrebbe dovuto uccidere il giudice a Palermo e in cambio killer palermitani avrebbero dovuto eliminare Renato Di Natale, attualmente procuratore di Agrigento. Quando Di Natale ricopriva lo stesso incarico a Caltanissetta aveva coordinato le inchieste sulla cosca di Daniele Emmanuello, ucciso durante la latitanza nel 2007 in un conflitto a fuoco con la polizia nelle campagne di Enna. Il piano per eliminare i due magistrati sarebbe stato scoperto attraverso intercettazioni ambientali. Al giudice Saguto era stata subito rafforzata la scorta e assegnata un'auto con il livello massimo di blindatura.

Beni sequestrati alla mafia, Caltanissetta indaga su gestione del giudice Saguto. La procura nissena ha aperto un'inchiesta per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Nel registro degli indagati oltre alla presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, anche l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 9 settembre 2015. Ennesimo terremoto nel mondo dell’Antimafia: questa volta a finire sotto inchiesta è la gestione dei beni confiscati a Cosa nostra. Un’indagine per corruzione, induzione e abuso d’ufficio è stata aperta dalla procura di Caltanissetta e coinvolge direttamente Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, la donna che si occupa della gestione dei patrimoni sottratti ai boss mafiosi.  Sono indagati anche l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto e collaboratore dello studio di Cappellano Seminara. A dare notizia dell’inchiesta è la stessa procura nissena, con una nota diffusa “allo scopo di evitare il diffondersi di notizie inesatte“. “Su disposizione della procura della Repubblica di Caltanissetta – si legge nella nota – i militari del nucleo di polizia tributaria della guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015″.  “Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della sezione misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. “Non ho dubbi sul mio operato e chiederò subito di essere interrogata”, ha commentato Saguto con il sito online livesicilia. Appena quattro mesi fa una nota dei servizi di sicurezza aveva fatto filtrare un allarme che indicava il magistrato come obbiettivo do un piano di morte di Cosa Nostra, citato anche in alcune intercettazioni ambientali. Secondo l’informativa, i boss palermitani avrebbero chiesto ai mafiosi di Gela di eliminare la donna che l’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli definì in un’intervista “la più importante, dal punto di vista economico, della città”, perché dal Palazzo di giustizia “gestisce capitali enormi”. Era il maggio del 2015 e la polemica sull’Olimpo degli amministratori giudiziari era tornata d’attualità grazie ad un servizio delle Iene, la trasmissione televisiva di Mediaset che aveva rilanciato le denunce di Pino Maniaci. Il direttore della piccola emittente Telejato aveva condotto una battaglia quasi solitaria contro quelli che lui chiama “gli uomini d’oro” e cioè i pochi amministratori giudiziari che si spartiscono la gestione dei beni sequestrati a Cosa nostra. Maniaci è anche l’autore di un esposto depositato alla procura di Caltanissetta e di parecchie interviste in cui attacca frontalmente lo stesso avvocato Cappellano Seminara, che per tutta risposta nei mesi scorsi lo ha denunciato per stalking. “I beni confiscati dovrebbero essere riutilizzati a fini sociali e invece, in troppi casi, sono stati considerati beni privati da alcuni amministratori giudiziari che li hanno gestiti come fortune sulle quali garantirsi un vitalizio”, aveva detto invece un anno prima l’ex direttore dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, davanti la commissione parlamentare Antimafia. Il prefetto (che nel frattempo è stato sostituito da Umberto Postiglione) aveva citato il caso dell’Immobiliare Strasburgo confiscata al costruttore Vincenzo Piazza e da diversi anni gestita proprio dall’avvocato Cappellano Seminara che, secondo l’ex direttore dell’Agenzia, aveva percepito una “parcella di 7 milioni di euro” come amministratore giudiziario mentre aveva incassato 150 mila euro come presidente del consiglio di amministrazione. “Vi pare normale che il controllore e il controllato siano la stessa persona?” aveva sottolineato Caruso. “Faccio questo lavoro da 28 anni – aveva replicato Cappellano Seminara – con uno studio di 35 professionisti specializzati e non mi sembra che i nuovi amministratori siano stati nominati dall’Agenzia con criteri obiettivamente diversi da quelli utilizzati dal tribunale. Quanto ai compensi una cosa è gestire l’amministrazione dinamica di un’impresa che richiede progettualità e rischio, come abbiamo fatto noi fino al 2010, altra cosa è liquidare un’azienda secondo le nuove direttive dell’Agenzia”. Le parole del prefetto Caruso in ogni caso furono liquidate da Rosy Bindi, presidente di palazzo San Macuto, perché rischiavano di delegittimare “magistrati che rischiano la vita”. Dodici mesi dopo ecco che la gestione dei beni sequestrati ai boss di Cosa nostra è diventata argomento d’indagine per i pm nisseni.

Inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia, ecco tutte le accuse alla Saguto, scrive Riccardo Arena su "Il Giornale di Sicilia”. L'inchiesta della Procura di Caltanissetta e del Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza, sui presunti scambi di favori tra il giudice e l'amministratore giudiziario, poggia su tredici incarichi che Caramma ha avuto tra il 2004 e il 2014. A casa del presidente Saguto hanno sequestrato anche una collezione di coltellini e una tesi di laurea, entrambe appartenenti a uno dei figli del magistrato e dell'ingegnere Lorenzo Caramma, mentre Gaetano Cappellano Seminara è stato raggiunto e perquisito pure nella stanza dell'albergo romano in cui si trovava. L'inchiesta della Procura di Caltanissetta e del Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza, sui presunti scambi di favori tra il giudice e l'amministratore giudiziario, poggia su tredici incarichi che Caramma ha avuto, tra il 2004 e il 2014, non solo a Palermo, ma anche a Caltanissetta e Trapani, ricevendo una retribuzione complessiva di 750 mila euro lordi: e 306.788 euro gli sarebbero stati «corrisposti direttamente dall'avvocato Cappellano Seminara». Non si trattava di prestazioni professionali ma ci sarebbe stato dietro uno scambio di favori, sostiene l'accusa, perché Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, a Cappellano Seminara affidò poi una serie di incarichi. L'avvocato è ritenuto una sorta di recordman delle amministrazioni giudiziarie: ma non lavora certo solo per conto dei magistrati palermitani. Nel mirino dei pm nisseni e del Gip Maria Carmela Giannazzo, che ha emesso il decreto con cui è stata autorizzata la perquisizione nello studio legale di Cappellano Seminara, c'è lo «stabile rapporto di collaborazione professionale» tra l'avvocato e Caramma, marito della dottoressa Saguto.

Gestione dei beni confiscati: "Bomba giudiziaria" a Palermo, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. La procura di Caltanissetta indaga sull'accusa di corruzione e abuso d'ufficio. Avviso di garanzia alla presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo e al più noto fra gli amministratori giudiziari del capoluogo. Perquisiti la cancelleria e l'ufficio del magistrato che replica: "Non ho dubbi sul mio operato, voglio essere interrogata". La bomba giudiziaria è esplosa stamani. Sotto inchiesta finiscono Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano appellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. È, infatti, la gestione del patrimonio sottratto ai boss a finire sotto accusa. Ipotesi pesanti quelle contestate dalla Procura di Caltanissetta: corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. Stamani alla Saguto è stato notificato un avviso di garanzia - o meglio l'avviso dell'avviso, visto che era fuori città - e sono stati perquisiti il suo ufficio e la cancelleria al piano terra del nuovo palazzo di giustizia di Palermo. L'inchiesta affidata ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria ruota attorno agli incarichi che il marito della Saguto avrebbe ottenuto divenendo consulente di Cappellano Seminara. Il magistrato da noi raggiunto al telefono taglia corto: “Non ho dubbi suol mio operato e chiederò subito di essere interrogata. Incarichi a mio marito? Ne ha avuto uno solo a Palermo, e oggi chiuso, che risale agli anni in cui non ero alla sezione misure di prevenzione”. A dare notizia dell'inchiesta è stata la stessa Procura nissena "allo scopo - si legge in una nota - di evitare il diffondersi di notizie inesatte". "Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta - si legge ancora - militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori - prosegue la nota - sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari". I pm non fanno i nomi, ma oltre alla Saguto l'indagine coinvolge il marito e Cappellano Seminara, l'uomo che più di tutti - facendo montare la polemica sulle parcelle - ha gestito il patrimonio sequestrato dai magistrati ai boss. L'avvocato è stato uno dei primi ad occuparsi del settore e negli anni ha costruito una macchina che ha gestito patrimoni sterminati: da quello del costruttore Piazza ai beni della famiglia di don Vito Ciancimino. Cappellano Seminara era stato uno dei principali obiettivi delle critiche mosse da Giuseppe Caruso, ex responsabile dell'agenzia per i beni confiscati. Il prefetto era stato piuttosto duro, sostenendo che alcuni amministratori avevano "usato a fini personali" i beni confiscati, incassando "parcelle stratosferiche" e mantenendo incarichi nei consigli di amministrazione delle stesse aziende confiscate. Convocato dalla Commissione parlamentare antimafia, arrivata appositamente in città nel marzo 2014, l'avvocato Seminara aveva risposto per le rime bollando come “sorprendenti e gravi” le parole di Caruso. Le definì “un ingiustificato attacco alla sua persona e a tutto il sistema dell'amministrazione giudiziaria”. Nel braccio di ferro alla fine Caruso ebbe la peggio. La presidente della Commissione, Rosi Bindi, e il suo vice, Claudio Fava, confermarono il rischio delegittimazione provocato dalle parole di Caruso, considerate tardive perché giunte alla vigilia della scadenza del suo mandato.

Indagati Saguto e Cappellano Seminara. Il grande intrigo dei beni confiscati, continua Riccardo Lo Verso. In ballo ci sono le ipotesi di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. L'inchiesta dei pm di Caltanissetta, che coinvolge la presidente delle Misure di Prevenzione e il più noto fra gli amministratori giudiziari, fa tremare il Palazzo di giustizia di Palermo e l'intero sistema su cui si basa il contrasto allo strapotere economico dei boss. “La faccenda è seria, molto seria” dice qualcuno bene informato. Ieri, fino a tarda serata, i finanzieri della Polizia tributaria di Palermo cercavano carte nello studio dell'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Prima erano stati nell'ufficio di Silvana Saguto, la presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo e pure in cancelleria nel nuovo Palazzo di giustizia. Magistrati - in questo caso i pubblici ministeri di Caltanissetta - che frugano nella stanza di una collega. Basta questo per capire la portata dell'inchiesta che rischia di picconare l'intero sistema su cui si regge la gestione dei beni sequestrati alla mafia. Roba da fare tremare i polsi. Non si tratta delle voci degli addetti ai lavori che di scandalo hanno spesso parlato. O delle inchieste giornalistiche che hanno puntato il dito contro gestioni poco chiare e parcelle milionarie. Stavolta si è mossa la Procura di Caltanissetta che ieri si è presentata a Paleremo con avvisi di garanzia e decreti di perquisizione. Un'indagine che va avanti da mesi, forse anni se ad essa vanno collegate alcune tracce emerse nel tempo. Come la convocazione, nel marzo 2014, nelle vesti di persona informata sui fatti, del battagliero giornalista Pino Maniaci che alla gestione dei beni e agli scandali che ad essa sarebbero connessi ha dedicato una fetta importante del proprio lavoro. Erano i giorni in cui Cappello Seminara veniva nominato amministratore giudiziario di alcuni alberghi e qualcuno fece notare il suo presunto conflitto di interessi visto che l'avvocato era diventato, nel frattempo, titolare assieme ai familiari di un hotel nel centro storico di Palermo. Non sappiamo cosa ci sia nel fascicolo dei pm nisseni guidati, ancora per pochi giorni, da Sergio Lari, che dal 15 settembre diventerà procuratore generale sempre a Caltanissetta. Analizzando gli unici dati certi finora trapelati saremmo di fronte ad una partita di giro. Un magistrato, la Saguto, che stando ad una nota dei servizi segreti di alcuni in mesi fa la mafia voleva ammazzare, sarebbe in combutta illecita con un professionista, Cappellano Seminara, al quale avrebbe assegnato le amministrazioni giudiziarie facendogli guadagnare cifre consistenti. In cambio Cappellano avrebbe affidato, secondo la Procura, incarichi di consulenza a Lorenzo Caramma, ingegnere e soprattutto marito della Saguto. Il tutto in contesti diversi dal tribunale di Palermo. Da qui le ipotesi di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. C'è dell'altro? È solo l'inizio di un'inchiesta più ampia oppure l'approdo di una lunga scrematura investigativa? La nota della Procura, stilata quando ieri a Caltanissetta hanno capito che era impossibile tenere nascosta la notizia, dice tutto e niente: “Questi atti istruttori sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari". Di certo l'inchiesta che i bene informati definiscono "molto seria" perchè ci sono "molte posizioni al vaglio" fra tremare il Palazzo di giustizia di Palermo e l'intero sistema su cui si è basato il contrasto economico allo strapotere dei boss. La Procura chiede, le forze investigative propongono e la sezione misure di prevenzione dispone il sequestro e le confische dei patrimoni affidati quindi alla gestione degli amministratori scelti in via fiduciaria. Sui provvedimenti, decine negli ultimi anni per centinaia di milioni di euro, c'è la firma della Saguto e di altri due magistrati che compongono il collegio. Lo stesso collegio che vista i passaggi seguiti dagli amministratori. Eppure il meccanismo che in questi anni ha colpito padrini, boss e picciotti della vecchia e nuova Cosa nostra sarebbe divenuto groviglio di interessi. Roba da comitato di affari. Fra i primi a specializzarsi nel settore delle amministrazioni giudiziarie c'è Cappellano Seminara che, solo per citare la pratica più conosciuta, ha gestito i beni di Massimo Ciancimino. E attorno al suo nome si è consumato un aspro conflitto. Perché la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia è stato spesso terreno di scontri e veleni. Una saga con tanti protagonisti. A cominciare dai parlamentari della Commissione nazionale antimafia. Nel 2014 il prefetto Giuseppe Caruso, poco prima di lasciare la direzione dell'Agenzia, sollevò un polverone denunciando la “gestione ad uso privato” dei beni da parte di alcuni amministratori giudiziari scelti dai Tribunali. Il riferimento, neppure nascosto, era a Cappellano Seminara che reagì con durezza. Ne venne fuori un braccio di ferro vinto dalla magistratura con l'appoggio “incondizionato” della politica. Un appoggio che si concretizzò nella due giorni di visita siciliana della Commissione guidata da Rosi Bindi. Allora il vice presidente, Claudio Fava, definì “bizzarro” il comportamento di Caruso, soprattutto per la tempistica delle dichiarazioni dell'allora direttore dell'Agenzia. La Bindi rincarò la dose: “Sono affermazioni (quelle di Caruso ndr) che possono delegittimare un intero sistema”. In realtà Caruso sul punto aveva sostenuto di non volere certo delegittimare il lavoro della magistratura, ma segnalare l'inopportunità che gli amministratori giudiziari fossero anche presidenti dei consigli di amministrazione delle società, molte delle quali non passavano e non passano dal sequestro alla confisca. Un anno dopo - febbraio 2015 - fu la commissione regionale antimafia, presieduta da Nello Musumeci, ad annunciare l'invio alle autorità competenti di un dossier su presunte anomalie: "In alcuni casi abbiamo ricevuto denunce di incompatibilità, eccessiva concentrazione di incarichi, in altri tentativi di favorire società o studi professionali vicini all’amministratore”. Un mese dopo di beni confiscati si tornò a parlare quando Antonello Montante, nominato dal governo all'Agenzia nazionale oggi guidata da Umberto Postiglione, fu “costretto” a fare un passo indietro dopo la notizia dell'indagine per mafia a suo carico. Montante avrebbe dovuto offrire la sua competenza di leader confindustriale per sdoganare da prefettizia a manageriale la gestione dei beni strappati alla criminalità organizzata. Un patrimonio sconfinato: quasi 10.500 immobili, circa 4.000 beni mobili e oltre 1.500 aziende che spesso restano impantanati. Colpa della burocrazia, della cattiva gestione ma anche della difficoltà di misurarsi nel mercato con un socio “scomodo” come lo Stato. Stare nell'alveo della legalità è anti economico. Ieri l'ultima tappa dell'intrigo con le perquisizioni subite dalla Saguto e da Cappellano Seminara. L'avvocato che rispose così all'accusa di essere un professionista dalle parcelle d'oro: “Ho presentato una parcella lorda di 7 milioni di euro per 15 anni di lavoro durante il quale ho amministrato, insieme ad un team di 30 collaboratori, 32 società e ho accresciuto il valore commerciale degli asset a me conferiti a 1,5 miliardi di euro. Nel periodo di gestione giudiziaria i soli beni aziendali giunti a confisca hanno prodotto ricavi per oltre 280 milioni di euro, attestando così il costo della gestione giudiziaria a circa il 2,50% dei ricavi. Giova inoltre ricordare che dalla liquidazione disposta dal Tribunale, interamente corrisposta con fondi del patrimonio confiscato, ne è derivata a mio carico, in favore dell'Erario una imposizione fiscale di complessivi euro 4.248.281 pari al 60% del lordo percepito”. E la Saguto come replica? "Non ho dubbi sul mio operato e chiederò ai magistrati di essere subito interrogata", ha detto ieri a Livesicilia mentre si trovava fuori città.

Beni confiscati, consulenze, intercettazioni. I pm: "Ecco il prezzo della corruzione", continua ancora Riccardo Lo Verso. Nel cuore dell'inchiesta sul presunto patto illecito fra il magistrato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, e l'avvocato Cappellano Seminara. La prima si dice certa di poter dimostrare la propria correttezza, il legale: "Incarichi sempre decisi da giudici". Una ventina di consulenze in dieci anni per un totale di 750mila euro lordi. Ecco quale sarebbe il prezzo della corruzione, secondo i pubblici ministeri di Caltanissetta, nel presunto patto illecito fra il magistrato Silvana Saguto e l'avvocato Cappellano Seminara. La prima è la presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo; il secondo è il più conosciuto fra gli amministratori giudiziari nell'intero territorio nazionale. La Saguto avrebbe assegnato a Cappellano Seminara la gestione di grossi patrimoni tolti alla mafia ottenendo in cambio incarichi per il marito Lorenzo Caramma, ingegnere e consulente dell'avvocato. Tutti e tre sono finiti nel registro degli indagati in un'inchiesta che ipotizza reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. Reati tanto gravi da spingere i pm nisseni a perquisire persino l'ufficio della Saguto e la cancelleria del Tribunale. Settecentocinquantamila euro: a tanto ammontano i compensi liquidati all'ingegnere Caramma dal 2004 al 2014, in un arco temporale che inizia quando la Saguto è membro del collegio delle Misure di prevenzione e arriva fino a quando dello stesso collegio il magistrato è ormai divenuto presidente. E cioè dal 2010. Nel decreto di perquisizione notificato ieri agli indagati nel corso delle “viste” a casa, in studio e in Tribunale vengono snocciolati numeri, cifre e fatture delle consulenze. Incarichi che non riguardano fascicoli istruiti dal Tribunale di Palermo, ma da quelli di Agrigento, Trapani e Caltanissetta. Nel decreto si fa cenno ad un capitolo dell'indagine che, in realtà, costituirebbe il fronte più caldo dell'inchiesta. E cioè all'esistenza di intercettazioni telefoniche. Le cose sarebbero andate più o meno così: i pm ricevono nel 2014 alcuni esposti, fra cui quello del giornalista di Tele Jato Pino Maniaci, che gettano pesantissime ombre sulla gestione dei beni da parte del Tribunale presieduto dalla Saguto e denunciano presunti intrecci illeciti e pagamenti di parcelle d'oro; quindi i magistrati - l'inchiesta è coordinata dal procuratore aggiunto Lia Sava e dal sostituto Gabriele Paci - decidono di mettere i telefoni sotto controllo. Ed è anche, e forse soprattutto, per trovare riscontri a quanto captato dai nastri magnetici che fino a stamattina i finanzieri del Nucleo di polizia Tributaria di Palermo hanno acquisito atti del tribunale, dichiarazioni dei redditi e documenti contabili. Ieri la Saguto si è difesa sostenendo di essere certa di potere dimostrare la propria correttezza ai magistrati dai quali spera di essere presto convocata. Oggi tocca a Cappellano Seminara, ultimate le operazioni dei finanzieri alla presenza del suo legale, l'avvocato Sergio Monaco, respingere le accuse. "Gli incarichi a Caramma, in qualità di Coadiutore o Consulente in alcune procedure di Amministrazione Giudiziaria, sono stati decisi dai Giudici Delegati dei rispettivi Tribunali, gli unici preposti a dette nomine ed alla liquidazione dei relativi compensi - precisa Cappellano Seminara in una nota -. Il mio ruolo è stato quello di proporre la figura di un affermato e stimato professionista che, da oltre trent’anni, collabora quale Consulente fiduciario con le Procure della Repubblica ed i Tribunali siciliani, sia in sede penale che civile, incluso il Tribunale di Caltanissetta. Caramma non è mai stato da me proposto nell’ambito di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo presieduto dalla dottoressa Saguto e le nomine del predetto, in talune procedure, sono avvenute diversi anni prima dell’incarico del Giudice Silvana Saguto alla Presidenza della Sezione. Osservo che in tutti i Tribunali siciliani congiunti dei Magistrati che ivi prestano servizio - ancora Cappellano Seminara -, ricevono quotidianamente, da altri Magistrati dello stesso Tribunale, incarichi sia quali Avvocati, Curatori, Consulenti, Amministratori Giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un Magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei Distretti delle Corti d’Appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente e senza rilievo alcuno".

La nota diramata dalla procura dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta non ammette repliche, dopo anni di denunce e inchieste la giustizia sta facendo il suo corso, scrive Telejato. L’abbiamo chiamata Mafia dell’Antimafia, cercando in questi lunghi mesi di denunciare il malaffare e la corruzione che hanno imperversato nella gestione di molti beni sequestrati alla mafia. Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015. Questi atti istruttori sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari. La sezione del tribunale presieduta da Silvana Saguto gestisce un patrimonio immenso di misure di prevenzione, beni sottratti ai presunti mafiosi, circa il 43% di tutti quelle emesse in Italia. I beni negli anni sono stati gestiti in maniera molto discutibile secondo un sistema che Telejato ha definito in tempi non sospetti dei Quotini, amministratori giudiziari in quota che hanno gestito la maggior parte dei sequestri Palermo e provincia.

Nonostante le denunce cadute nel vuoto da parte dell’ex prefetto Caruso che aveva presieduto l’agenzia nazionale dei beni confiscati e vari casi eclatanti denunciati dalle Iene in collaborazione con Telejato, anche la commissione nazionale antimafia, ad eccezion fatta di un suo solo membro, ha sempre creduto alla versione dei fatti della Saguto, mostrandole anche solidarietà, come nel caso eclatante della famiglia Cavallotti. Fiduciosi che la giustizia farà il suo corso, aspettiamo con ansia il coro di sdegno dell’antimafia da passeggio e parolaia che in questi anni ha ignorato deliberatamente certe denunce, acclamando talvolta l’operato di queste persone.

Indagata la Saguto, il marito e Cappellano Seminara. Il triangolo no…non l’avevo considerato, continua "Telejato".

VENGONO AL PETTINE I NODI CHE DA TEMPO ABBIAMO DENUNCIATO E CHE PINO MANIACI AVEVA RIVELATO GIÀ CIRCA DUE ANNI FA ALLA PROCURA DI CALTANISSETTA, LA QUALE AVEVA PRESO L’IMPEGNO, MAI RISPETTATO DI RISENTIRLO.

Qualcuno potrebbe pensare che abbiamo fatto salti in aria di gioia quando abbiamo saputo che la signora Saguto, presidente dell’ufficio misure di prevenzione del tribunale di Palermo, è sotto indagine, da parte della procura di Caltanissetta, per concussione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio. E invece no. Ogni volta che un rappresentante della giustizia, e pertanto che amministra la giustizia in nome dello stato, finisce sotto indagine, da parte dei suoi stessi colleghi, non possiamo che preoccuparci ed esprimere il nostro disagio su come si amministra la giustizia in Italia. E’ qualcosa che colpisce tutti e di cui non si può gioire, ma rattristarsi. E questa indagine dimostra proprio le due facce della giustizia italiana: quella di una procura, quella di Caltanissetta, competente per le indagini che riguardano l’operato dei magistrati di Palermo, che, in questo caso, scavalcando tutti i nostri dubbi e sospetti di reciproche protezioni tra magistrati che hanno lavorato fianco a fianco, ha “osato” posare l’occhio sull’operato di un settore della Procura di Palermo, e quella di un magistrato di questa procura che invece ha operato in assoluta libertà nell’uso di uno smisurato potere datole dalla normativa che regola le misure di prevenzione. Già Caselli aveva definito la Saguto una delle donne più potenti di Palermo e la sua potenza le deriva nell’avere costruito un patrimonio che supera i 40 miliardi di euro (parliamo solo della provincia di Palermo e di quella di Trapani, spesso ad essa connessa). In pratica buona parte del capitalismo siciliano è finita sotto sequestro, sotto il controllo dell’ufficio di prevenzione, con accuse spesso fondate su deduzioni, sospetti, dichiarazioni spesso pilotate di pentiti, scavalcando in parecchi casi anche la collaborazione offerta dagli stessi imprenditori che hanno fatto una scelta di legalità e si sono invece visti sequestrare tutto, senza alcuna possibilità di potere ricominciare un qualsiasi lavoro.  Si potrebbe pensare che alla fine la giustizia arriva, come ogni tanto succede, ma moltissimi casi di sequestro sono stati ritenuti infondati da sentenze e dalla normale procedura penale e, nonostante ciò l’ufficio misure di prevenzione ha invece continuato ad emettere decreti di confisca nei confronti degli imprenditori assolti. Abbiamo denunciato la gestione e i metodi disinvolti, per usare un eufemismo, della “signora” di Palermo da quasi due anni. Abbiamo ricostruito pezzi del suo “cerchio magico” fatto da magistrati e avvocati che abbiamo chiamato “quotini”, cioè in quota al re degli amministratori giudiziari palermitani, Cappellano Seminara, il quale oggi si ritrova anche lui indagato assieme al marito della Saguto, l’ing. Caramma, suo collaboratore. Si tratta di nomi ormai noti, Dara, Turchio, Benanti, Santangelo, Miserendino, Virga, Ribolla, Modica de Moach, di avvocati che dovrebbero tutelare gli interessi dei clienti e che invece cercano accordi e intese con i magistrati per dare il contentino al cliente ma anche per non mettersi contro le decisioni dell’apparato giudiziario nel quale essi convivono. E così l’imprenditoria siciliana non ha scelta: o schierarsi con l’apparente scelta di legalità della Confindustria ed entrare “in quota”, o correre giornalmente il rischio di finire sotto sequestro per una parentela, una presenza, una commissione fatta nel corso degli anni con qualche mafioso, cosa che in Sicilia capita spesso. Nel caso del triangolo Saguto-Caramma-Seminara abbiamo da tempo denunciato gli intrecci tra il figlio della Saguto, Elio Crazy, chef valente che lavora presso l’hotel Brunaccini, nell’albergo di Cappellano Seminara, di cui è consulente suo padre l’ing. Caramma. Con abile mossa l’avvocato Cappellano è riuscito a mettere le mani su una parte del settore alberghiero palermitano, quello del Gruppo Ponte, con la scusa della presenza del mafioso Sbeglia, tra i presunti lavoratori dell’albergo. Adesso la situazione dell’albergo è pietosa, ci sono state denunce di clienti che si sono trovati in stanze con le vasche da bagno sporche e con fuoriuscita di acqua verdastra dai rubinetti, ma il solito Cappellano ha invitato il cliente a soprassedere. La longa manus di Cappellano, sempre con la firma della Saguto, si è estesa a novanta incarichi ad esso assegnati, di cui siamo in grado di fornire l’elenco, e dove si incontrano enormi patrimoni interamente assorbiti dal nulla o rivenduti ad amici o finiti in partite di giro dove ci sono strani passaggi di mezzi, beni, merci e quant’altro da un’azienda a un’altra, il tutto svenduto per quattro soldi. E’ il caso dell’Aedilia Venustas, per non parlare di quello della Immobiliare Strasburgo del mafioso Piazza, per la cui amministrazione, secondo l’ex prefetto Caruso, Cappellano avrebbe incassato 7 milioni di euro e altri 100 mila euro come compenso del suo ruolo di componente del consiglio di amministrazione. Altra pagina che lascia sgomenti e per la quale Cappellano è indagato è quella della discarica di Glina, che il nostro insaziabile rappresentante dello stato avrebbe cercato di controllare interamente, mandando un lustrascarpe a comprarne una quota per 300 mila euro.  Si potrebbe andare avanti, ma parliamo di cose che abbiamo denunciato da tempo e che speriamo possano emergere adesso se il giudice Paci di Caltanissetta avrà la possibilità di procedere serenamente, senza interferenze, pressioni, o peggio che mai, minacce. Non è certo un’indagine su un magistrato potente che risolverà il problema dei beni confiscati e soprattutto sulla anomalia tutta italiana dei poteri dati a un ufficio di prevenzione che, nel 90 per cento dei casi invece di prevenire affossa e chiede all’imputato l’onere della prova, compito che invece spetterebbe al magistrato. E questo onere è costantemente rinviato in attesa di una giustizia che non arriva, che distrugge le aziende e le lascia nelle mani di parassiti, sono pagati con i proventi dell’azienda stessa. Tra i tanti commenti che abbiamo letto su “Il fatto quotidiano” ne riportiamo uno che scrive: “spero che Caltanissetta stia indagando anche sugli altri amministratori, come il giovane avvocato trentenne che l’anno scorso si è visto assegnare, sempre dalla Saguto, la gestione di un patrimonio da 600 milioni (aggiungiamo, quello dei fratelli Rappa), non si sa grazie a quali incredibili capacità. Si può soltanto dire che prima di questa assegnazione lo stesso avvocato gestiva 4 negozi di scarpe, sempre per il tribunale di Palermo (presumiamo che si riferisca a Bagagli). Si sa che il padre, giudice presso il tribunale di Palermo, al momento della nomina era membro togato del CSM. In quel periodo imperversava la polemica con il prefetto Caruso per le parcelle d’oro accordate agli amministratori dalla Saguto. Negli stessi giorni il CSM archiviava il procedimento disciplinare, sempre nei confronti della Saguto. Lo stesso giudice, padre del trentenne amministratore, non è stato rieletto al CSM e ora fa il giudice di corte d’appello a Palermo. In ultimo l’amministratore trentenne ha acquistato da poco una villa a Mondello”. La nota è firmata “Bastian Contrario”. Nulla di nuovo rispetto a quanto abbiamo già detto, ma che giova ripetere.  E, a proposito di ville, pare che, secondo il nostro commentatore, “un’altra villa a Mondello sia stata acquistata da Cappellano Seminara per un milione e duecentomila euro gentilmente anticipati da una banca. Le garanzie per tale anticipazione sono le parcelle già emesse per l’attività di amministratore giudiziario del patrimonio a lui assegnato dalla Saguto, che, ricordo, essere superiore ai 600 milioni (si riferisce, pare, all’Immobiliare Strasburgo) e, visto che non erano sufficienti, ha messo a garanzia anche quelle che emetterà sempre per la sua attività di amministratore giudiziario”. Ci fermiamo, perché sull’argomento abbiamo già scritto un dossier di oltre cento pagine, che nessuno si è detto disponibile a pubblicare. Ora che è scoppiata la bomba, forse qualcuno si accorgerà che non abbiamo fatto, come ci hanno accusato di fare, il gioco dei mafiosi, ma quello di una giustizia che protegga gli interessi di tutti i cittadini, che sia uguale per tutti, che metta a posto le disfunzioni senza distruggere l’economia e i posti di lavoro, in una drammatica situazione di povertà in cui stiamo vivendo. Un’ultima cosa: la signora Saguto ha detto che vuole essere ascoltata, e ci mancherebbe altro, che chiarirà tutto, e ci auguriamo che lo faccia bene e senza truccare le carte. Già ha detto che l’incarico a suo marito è stato dato quando non era all’ufficio di prevenzione. E dov’era? Adesso il procedimento andrà nelle mani del Presidente del tribunale dott. Vitale, il quale deciderà sulle misure da adottare e, con ogni probabilità invierà tutto al CSM, quello che ha già archiviato il primo procedimento sulla Saguto. Perché, in un paese normale, come abbiamo letto in un altro messaggio, questa gente sarebbe già agli arresti per il rischio di inquinamento delle prove e la possibilità di reiterare il reato. In Italia siamo più buoni, diamo una possibilità a tutti e, considerato che abbiamo 7 mila km di costa con infiniti granelli di sabbia, la possibilità che tutto sia ricoperto, mare o sabbia non importa, appartiene al nostro modo di essere italiani.

Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, ieri, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».

Ancora veleni menzogne e ombre, scrive Pino Maniaci su “TeleJato”. “IN TEMPI NON SOSPETTI, E IN TUTTE LE SEDI ISTITUZIONALI E NON, HO RAPPRESENTATO TUTTE LE CRITICITÀ RISCONTRATE” NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI “E PROPOSTO LE RELATIVE SOLUZIONI. ORA QUALCUNO DOVRÀ GIUSTIFICARSI E QUALCUN ALTRO FORSE DIMETTERSI…”. E’ il lapidario commento all’Adnkronos del Prefetto Giuseppe Caruso, ex Direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, sull’avviso di garanzia alla Presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, accusata di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, insieme con il marito Lorenzo Caramma e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Caltanissetta e riguarda la gestione dei beni confiscati. In passato, Caruso aveva più volte denunciato alla Commissione nazionale antimafia, presieduta da Rosi Bindi, l’uso “a fini personali” che avrebbero fatto alcuni amministratori giudiziari dei beni a loro affidati. In questo modo, secondo Caruso, avrebbero “bloccato il conferimento dei beni agli enti destinatari”. Gli stessi amministratori avrebbero percepito “parcelle stratosferiche” e mantenendo poltrone dei consigli di amministrazione delle aziende confiscate, così da fare “il controllato e il controllore”. Il nome che Caruso ha fatto più spesso in proposito è quello dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che ha gestito una grande fetta dei patrimoni confiscati in Sicilia, in particolare quella del sequestro al costruttore Vincenzo Piazza. All’epoca Bindi aveva parlato di un “effetto delegittimazione” e di “un’accusa generalizzata al sistema” e “a magistrati che rischiano la vita”. E Caruso aveva ribattuto: “Dire che ho inteso delegittimare l’autorità giudiziaria non corrisponde a verità”. Oggi Caruso, che invita qualcuno a giustificarsi e qualche altro a dimettersi, non fa nomi, ma il riferimento sembra evidente, la Presidente dell’Antimafia Rosi Bindi, oltre alla Presidente Misure prevenzione Silvana Saguto. È un mondo a parte, inesplorato nonostante sia sotto gli occhi di tutti, quello dei beni confiscati alla mafia. E ogni tanto, ormai con sempre maggiore inquietante frequenza, si scopre che le cose non vanno come andrebbero e che ci sarebbe chi ne approfitta. La montagna di risorse requisite alle mafie potrebbe risanare le casse dello Stato – e non può certo sorprendere che ci sia competizione all’interno e che si sgomiti per gestire le risorse ed i beni immobili sequestrati. Ma il sistema è saturo, il giro di interessi sempre più fitto, e la competizione sempre più aspra. Il prefetto Caruso ha lanciato l’allarme, indicato le criticità e messo in moto un meccanismo di verifica, che ha provocato indagini. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, a conclusione di una prima fase di indagini, ha indagato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione, l’avvocato Cappellano Seminara, considerato il plenipotenziario delle gestione dei beni per via del numero di consulenze ricevute, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Silvana Saguto, che secondo l’ipotesi accusatoria avrebbe beneficiato delle consulenze ricevute da Cappellano Seminara. Insomma, il presidente della sezione Misure di prevenzione avrebbe tenuto in speciale conto l’avvocato e questi si sarebbe sdebitato attribuendo consulenze al marito. Il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale “fin dal proprio insediamento avvenuto lo scorso 15 maggio” ha “iniziato a svolgere accurati accertamenti sull’attività della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, richiedendo al Presidente della Sezione i necessari dati conoscitivi”. È quanto si legge in una nota diramata dalla stessa Presidenza del Tribunale di Palermo. “Preso, peraltro, atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della  Repubblica di Caltanissetta e ritenuto che, nonostante la complessa  interlocuzione con il Presidente della Sezione, non sono ancora  pervenuti i dati richiesti nella loro completezza, ha emesso, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e  definitiva verifica – si legge ancora nella nota del Presidente del  Tribunale, Salvatore Di Vitale – Tutti i dati emersi fino a questo  momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. Il palazzo di Giustizia di Palermo torna in prima pagina, dunque. E stavolta non ci torna per le minacce, intimidazioni, iniziative “d’avanguardia”, ma per una gestione opaca di bene pubblico, ciò che generalmente l’autorità giudiziaria addebita alla “casta” della politica. Un ribaltamento dei ruoli, in considerazione anche del fatto che a smuovere le acque, molto rumorosamente, è stato il prefetto Caruso, un funzionario di lungo corso, cui non fa difetto la tenacia. In effetti sembra strano che quando le indagini riguardano qualche magistrato o qualche “protetto” non esiste più la questione morale e le tanto sbandierate dimissioni richieste a tutti gli indagati “comuni mortali” non valgono quando ad essere indagati sono loro. Sorge spontanea, per la natura dei gravissimi reati contestati, corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, la considerazione che anche a loro andrebbe applicata la misura di prevenzione patrimoniale e così sottoporre a sequestro preventivo tutto il loro patrimonio e farlo gestire ad un amministratore giudiziario con i tempi biblici che la dott.ssa Saguto concede ai “suoi” amministratori giudiziari nei procedimenti da lei presieduti. E’ noto, tra l’altro, che la stessa Saguto nelle motivazioni di sequestro perpetrate ai danni di altri, e non certo tutti mafiosi, sostiene che per disporre un sequestro non sono necessarie le prove ma basta soltanto il minimo sospetto che il patrimonio dell’indagato possa essere stato costituito con proventi da attività illecita e che, a suo dire, tale motivazione risulta più che sufficiente in questo tipo di procedimenti. Non si comprende perché la stessa misura non possa essere applicata a chi come Lei, il marito e il Cappellano Seminara risultano indagati di gravissimi reati che gettano fango al nostro Paese e inducono la gente a non avere fiducia nell’amministrazione della Giustizia. (Ricordiamo che stando alle cifre della Corte dei Conti la corruzione sottrae al nostro Paese risorse per 60 miliardi di euro pari al 4,4 per cento del PIL). Così come non si comprende come una persona indagata possa ancora ricoprire lo stesso ruolo. Perché la dottoressa, il marito e il Cappellano Seminara non sono stati sospesi dai loro incarichi? Le tanto pubblicizzate frasi “potrebbe inquinare le prove” o “potrebbe reiterare il reato”, valide per tutti i cittadini italiani e in tutti i procedimenti, evidentemente non si applicano per la dott.ssa Saguto & company. Questo dimostra i due pesi e le due misure nella gestione della giustizia, con comportamenti diversi in base a chi ha la sventura di essere sotto giudizio. Comunque la gestione dei beni sequestrati ha bisogno di trasparenza, su questo non ci piove, nuove regole e di un “allargamento” significativo dei soggetti abilitati alla gestione del patrimonio. Su questo terreno lo Stato si gioca la credibilità oltre che i soldi: il numero di aziende che chiudono battenti o falliscono dopo la confisca è molto alto, e migliaia di lavoratori perdono il posto e si trovano sul lastrico. Il mondo delle confische è assai articolato e, a nostro avviso, non bisogna dare niente per scontato, perché all’ombra dei buoni propositi potrebbero trovare ospitalità furbizie e prepotenze. Indispensabile e urgente, dunque, una svolta. Regole e nomi nuovi. Ci auguriamo che le tante persone per bene che ancora difendono con la propria onestà il valore e il prestigio della Magistratura abbiano il coraggio di attuare scelte che siano da esempio per tutti i cittadini onesti e anche per i malcapitati nelle grinfie della dott.ssa Saguto  e della sua banda. Pino Maniaci.

S'allarga ad altri familiari del giudice Silvana Saguto l'inchiesta sull'assegnazione di incarichi di gestione dei beni confiscati alla mafia. L'indagine toccherebbe il padre e uno dei figli del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Con lei sono sotto inchiesta l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il più noto amministratore giudiziario di Palermo, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive “L’Ansa”.

LA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE.

A Palermo mancava solo l’associazione a delinquere di stampo antimafioso, scrive Maurizio Tortorella su “Tempi” il 4 ottobre 2015. I beni sequestrati ai clan criminali valgono 30-40 miliardi. Potrebbero produrre ricchezza, ma le indagini sull’ufficio preposto dicono il contrario: si ipotizzano solo abusi, ruberie, corruzione. Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola.  È autunno, e piove disperatamente sull’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, il delicatissimo organismo cui spetta nominare gli amministratori giudiziari che devono gestire beni, patrimoni, società sequestrate a soggetti indagati o in qualche modo sospettati di contiguità con la criminalità organizzata. La Procura di Caltanissetta, competente sui reati attribuiti ai magistrati palermitani, indaga su quello che, dalle cronache fin qui uscite, pare uno dei peggiori verminai nella storia della Repubblica. Si legge di magistrati indagati; di incarichi affidati sempre agli stessi professionisti; di stipendi e parcelle ultramilionarie che gli amministratori delegati dal Tribunale attribuiscono a se stessi o a consulenti vicini; di aziende gestite malissimo; di favoritismi e intrecci d’ogni genere. Ovviamente, si sospettano tangenti. Un vero disastro, insomma: di malagiustizia, d’immagine, e anche economico. Perché i beni sequestrati alle organizzazioni criminali messi tutti insieme valgono 30 miliardi di euro, chi dice addirittura 40. Potrebbero e dovrebbero produrre ricchezza, da restituire agli enti locali o alla giustizia stessa, notoriamente afflitta da penuria: si tratta di ipermercati, cliniche, ristoranti, residence, distributori di benzina, villaggi turistici, fabbriche, fattorie, allevamenti… Al contrario, le indagini raccontano tutt’altro. Si intravvedono solo abusi, soprusi, ruberie. I magistrati di Caltanissetta a metà settembre hanno iscritto nel registro degli indagati tre colleghi palermitani e in particolare il presidente dell’Ufficio misure di prevenzione, Silvana Saguto, in quell’incarico dal 1994. I reati ipotizzati sono gravi: corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, abuso d’ufficio. Saguto non si è dimessa, ha chiesto di essere trasferita ad altro ufficio dello stesso Tribunale, e ora si occupa di penale. Il 18 gennaio 2012, quasi quattro anni fa, l’allora direttore dell’Agenzia nazionale beni confiscati di Reggio Calabria, il prefetto Giuseppe Caruso, già segnalava alla Commissione parlamentare antimafia che «i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente». Più di recente, nel marzo 2014, Caruso aveva criticato «gli amministratori giudiziari intoccabili», professionisti che «hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi» e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. La risposta era stata brutale: la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, aveva convocato il prefetto in un’audizione trasformatasi quasi in processo, sottolineando il rischio che Caruso avesse potuto «delegittimare i magistrati e l’antimafia stessa». La stessa Associazione nazionale magistrati aveva isolato il prefetto con un comunicato che oggi grida vendetta: «I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro». Nel giugno 2014, anche per quelle paradossali polemiche, Caruso aveva lasciato la guida dell’Agenzia. Oggi dice: «Adesso c’è qualcuno che si dovrà difendere e qualcun altro che si dovrà dimettere». Per ora non lo ha fatto nessuno.

Perchè tanto silenzio sui miliardi di euro dell'antimafia? Si chiede Fabio Cammalleri su "La Voce di New York". Dopo che per anni i giornalisti della piccola Telejato diretta da Pino Maniaci avevano suonato l'allarme che nessuno voleva ascoltare, finalmente si indaga sulla gestione di beni sequestrati e confiscati per mafia in seno al Tribunale di Palermo. Ma i reati supposti potrebbero celare molto di più, e risultare un comodo capro espiatorio. Bisogna allargare lo sguardo, guardare l’insieme e non darsi alla fuga. Se vi riesce. Segnatevi questa frase: “...non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede; ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati.” L’ha scritta Salvo Vitale, coraggioso come Peppino Impastato, di cui era amico e, come si diceva una volta, compagno di lotta. A Cinisi contro Gaetano Badalamenti, oggi, insieme a Pino Maniaci, anima e corpo di Telejato, contro.... Ora vedremo di che si tratta. Intanto rilevo che né Salvo Vitale né Pino Maniaci hanno mai pensato allo show business: libri di successo (e di insuccesso), prime serate, inchieste con telecamera fissa, con la musichetta, con il maxischermo al posto della lavagna del maestrino millenial, giornaloni, soldi. Sì, soldi: perché sempre i soldi contano; e si contano. No, questi due hanno fatto i giornalisti senza rimanere incollati al terminale o alla telecamera. Si sono messi a cercare, per strada, parlando con le persone, leggendo documenti: e hanno dubitato che il Tribunale di Palermo, Sezione Misure di Prevenzione, presentasse qualche problema di funzionamento. In particolare si sono occupati di sequestri e confische. Beni patrimoniali: terreni, fabbricati; aziende: conti correnti, beni aziendali, fatturato, stipendi, cioè flussi finanziari da e verso fornitori: soldi. Un sacco di soldi. Ma, più esattamente, bisogna considerare i flussi. Cosa è accaduto, lo spiega chiaramente lo stesso Maniaci a Giulio Ambrosetti, che meritoriamente lo ha intervistato per questo giornale e, se non sbaglio, si tratta ancora di un pezzo unico. Riassumo brevemente: la Procura di Caltanissetta ha avviato un’indagine che coinvolge, fin qui, quattro magistrati e svariati professionisti: perchè si sospetta che abbiano gestito i flussi, anziché le aziende. Amministratori giudiziari infedeli, di beni o aziende sequestrate o confiscate per sospetto mafioso. Qui interessano alcuni rilevi ulteriori che, senza offesa, in qualche modo depotenziano la rilevanza dell’indagine penale. Primo. Posto che gli accusati risultassero non colpevoli, non cambierebbe nulla. Perchè il punto non è la loro personale colpevolezza; in sè, sono ipotesi di reato come altre formulate in simili casi. Quello che dovrebbe interessare è il presupposto. Che è di duplice natura: normativa e culturale. Le denuncie dei due valenti giornalisti hanno già messo in luce il bubbone: che è la struttura normativa e le istituzioni, venutesi sviluppando, nel corso di questi ultimi due decenni, sotto l’insegna della c.d. antimafia. Com’è noto, proprio a partire dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Se una stessa persona può legittimamente ricoprire più di novanta cariche, cioè amministrare novanta diverse aziende, non è necessaria la malversazione, per rilevare la mostruosità della struttura normativa che consente simili concentrazioni di potere. Se la struttura istituzionale nata da quella struttura normativa è complessa, richiede e coinvolge l’opera di più persone, che hanno colleghi, referenti istituzionali, non è necessario attendere chissà chi, o chissà che, per chiedersi: ma, hanno fatto tutto da soli? Di qui l’analisi del presupposto culturale, per dir così. Io sono molto cauto di fronte alle stime, specie nella materia criminale; così, quando si dice che i patrimoni di interesse c.d. mafioso, e amministrati per via giudiziaria, ammonterebbero a circa trenta miliardi di euro, rimango molto cauto. Limitiamoci allora a dire che, però, sono comunque tanti soldi: anche se fossero la metà, o un terzo, di quella cifra. E che dieci miliardi di euro, considerati come flusso grezzo, e non entro una funzionalità e un criterio aziendale, che vive di margini sui flussi, e non di flussi (altrimenti si fallisce all’istante), dicevo, diciamo che dieci miliardi di euro, pronti in mano, sono una cifra dalle potenzialità tiranniche pressocché indescrivibili. Tiranniche, perché sistemiche; non criminali, cioè individuali. Si vuol dire che, a volte, il reato può assolvere alla funzione di utile capro espiatorio, o di foglia di fico. Specie quando si parla di stipendi, per quanto lauti, di benefit, per quanto satrapici. Cioè di minutaglia, rispetto all’intero. Sicchè, non solo è pressocchè irrilevante accertarlo, ma, in un certo senso, controproducente. Per questo scrivevo in quei termini dell’indagine in corso. Un pò di pazienza. Gli amministratori giudiziari sono nominati da magistrati. E bisogna dire magistrati, e non riferirsi agli uffici, altrimenti si smarrisce il senso delle cose. Messe le mani sui flussi, essendo provenienti da beni colpiti da scomunica maggiore (mafia), nessuno potrà inarcare un sopracciglio anche quando le aziende fallissero. O falliscono. Un qualsiasi gestore deve potenzialmente temere un rendiconto, o durante, o alla fine dell’opera. Se si elimina, di fatto, la possibilità del rendiconto, il flusso è disponibile nella sua interezza, fino ad esaurimento. I magistrati sono assegnati ai singoli uffici dai loro colleghi del CSM, e la componente togata è maggioritaria (18 su 27, gli altri, al più, negoziano); la componente togata è eletta secondo correnti, organizzate nell’ANM. Dieci miliardi di euro liberi. Come nel caso dei quattro magistrati per ora indagati, si stanno accertando le loro consistenze. Gli stipendi, pur cospicui, sono noti. Le eventuali incongruenze, ovviamente estendendo il campo ai prossimi congiunti, sono agevolmente accertabili. Il silenzio ostinato con cui tutti i maggiori giornali (in realtà note Lobby politico-finanziarie, che hanno assunto un ruolo politico patrizio e impropriamente ma efficacemente decisorio) stanno affrontando una vicenda che appare essere, semplicemente, il centro del sistema, è innaturale. E, più che innaturale, è insolente, come rileva lo steso Maniaci, che Milena Gabanelli, Michele Santoro, Rosy Bindi, Claudio Fava, ciascuno per la sua parte (dal ricco cortigiano al servo sciocco) abbiano nicchiato a precise richieste di intervento, e di sostegno alla ricerca, avanzate da Maniaci. In linea col doppio binario gli interventi di Don Luigi Ciotti: “parcelle spropositate che finivano nelle mani di pochi amministratori, ma anche ritardi”; e di Giancarlo Caselli: “Silvana Saguto è una delle donne economicamente più potenti di Palermo”. Ma sì, è solo, una pur preoccupante, questione di scrocconi, per questo non vi siete precipitati in prima serata, come ai bei tempi. Non è vero?  Certo, il silenzio, aggiunto alle dichiarazioni pro forma, significa che dalla Sicilia si è preso quello che si doveva prendere, in termini di costruzione del consenso e di potere; ma significa anche che vent’anni di scempio delle coscienze e delle istituzioni hanno prodotto scorie tossiche al sommo grado: da tenere assolutamente nascoste. Altro che terra dei fuochi. Dieci miliardi di euro. E un sistema connesso in minutissimi legami, tale per cui la nomina a dirigere un ufficio periferico determina quella a dirigerne uno importantissimo, magari distante due ore di aereo e, insieme, nè è determinata. Un sistema in cui i magistrati che accusano e quelli che giudicano sono colleghi. In cui, come nel corrente caso, a fronte di sospetti gravissimi, l’unico effetto imposto dalla struttura è spostarsi di una decina di passi ad un’altra stanza (il presidente Saguto, ora non è più Presidente del Tribunale, Sezione misure di Prevenzione, ma magistrato con altre funzioni). Un sistema che sui cadaveri di Falcone e Borsellino ha eretto una legittimazione emotiva che ha strattonato e percosso vent’anni di vita pubblica e istituzionale. Considerate i dieci miliardi di euro e la frase con cui abbiamo cominciato; poi aggiungete la storia d’Italia lungo l’asse Palermo-resto d’Italia. Considerate i coriacei silenzi dei Grandi Virtuosi e, con la mente al paradigma-Uno Bianca, considerate i singoli, le persone, le loro case e tutto quello che è loro, e ciò che gli è riconducibile senza soverchie difficoltà. Considerate tutto il potere che hanno amministrato e amministrano. Considerate le loro carriere, le nomine, le elezioni, la forza, che questa organizzazione ha dimostrato e dimostra, di annichilire il peso formale di decine di milioni di voti, comunque espressi: e provate a fare una somma. Troverete i soldi. Una montagna di soldi da spartirsi per una miriade di interessi, anonimi, quasi invisibili, ma che pure nascono e vivono insieme. Così, sopra la montagna di soldi, troverete la Tirannia. Dal centro alla periferia, e dalla periferia al centro. Ma prima i soldi, bisogna cercare i soldi: quelli veri. Diceva Falcone. 

Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive Giacomo Amadori su "Libero Quotidiano". L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».

Caro Claudio Fava, Telejato Notizie sapeva e ha denunciato, scrive Salvo Vitale su “Telejato” il 10 ottobre 2015.  CLAUDIO FAVA HA DICHIARATO: “C’È UN PUNTO DI CUI NESSUNO CI HA MAI PARLATO, OVVERO CHE IL MARITO DELLA PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, SILVANA SAGUTO, AVESSE UNA PREZIOSA CONSULENZA CON LO STUDIO DEL COMMERCIALISTA CHE SI OCCUPAVA DELLA MAGGIOR PARTE DEI BENI SEQUESTRATI”. Caro Claudio, a parte il fatto che Cappellano Seminara non è un commercialista, ma un avvocato, non è giusto né corretto che tu faccia questa affermazione. Già un anno fa, quando è esploso il problema, ti sei schierato a fianco della Bindi, per “tutelare” l’immagine di un settore della procura di Palermo di cui da tempo avevamo denunciato le malefatte e lo strano modo di procedere. Le denunce del prefetto Caruso sono state pressoché ignorate e tutto è stato lasciato al suo posto. Anche quando sei venuto a farci visita ti abbiamo informato su quello che c’era sotto: hai abbassato il capo, dicendoci che bisognava intervenire, ma forse eri distratto. Invece di lasciarsi prendere dalla paura di una destabilizzazione della magistratura, cosa peraltro ripetuta in questi giorni dal giudice Morosini, sarebbe stato più utile, anche per la storia che ti porti appresso, chiedere di far pulizia all’interno di essa, anche perché la fiducia del cittadino non si conquista facendo credere che tutto è a posto, anche se tutto va male, ma intervenendo per far pulizia e mettere davvero tutto a posto quando bisogna eliminare lo sporco in casa. Bastava andare a Villa Teresa, dove la scandalosa amministrazione del pupillo di Cappellano Seminara, Dara, che gli ha regalato un milione di euro per una consulenza, ha prodotto danni economici e gestionali incalcolabili, per renderti conto che la sig.ra Saguto Silvana, il sig Caramma Elio, suo figlio, e il sig Caramma Lorenzo, suo marito, hanno effettuato radiografie, risonanze magnetiche, cervicale, dorsale, spalla, ginocchio senza che il loro nome risulti nella lista dei pagamenti. Bastava chiedere alla sig.ra Saguto una motivazione sul perché tanti incarichi nelle mani di poche persone e sul perché si sono emessi decreti di confisca quando la magistratura penale aveva escluso la provenienza mafiosa del bene. Bastava. E invece non sì è fatto niente. È facile dire che non sapevamo… è difficile crederci!

La mafia dell’antimafia che avevamo previsto, scrive Giulio Cavalli su "Left" l'11 settembre 2015. L’avevamo scritto a marzo, in tempi addirittura sospetti per chi subisce il soffio delle priorità ed emergenze sotto dettatura: era il numero 10 di Left e Pino Maniaci, tra il fumo e le veline della sala di montaggio della sua piccola televisione comunitaria Telejato giù a Partinico, a cento passi da Corleone, ci aveva parlato del suo lavoro d’inchiesta su quella che senza esitazioni ha definito “la mafia dell’antimafia”. Ed è dalla voce di un coraggioso e pluriminacciato giornalista di provincia che è scaturita l’indagine che in queste ore fa tremare Palermo: la Procura di Caltanissetta contesta il reato di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio a Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. A dare notizia dell’inchiesta è stata la stessa Procura che ha diramato un comunicato “allo scopo – si legge – di evitare il diffondersi di notizie inesatte”: “Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. Pino Maniaci ci aveva snocciolato i numeri impressionanti di aziende confiscate e gestite da Gaetano Cappellano Seminara, parcelle milionarie e soprattutto un patrimonio immenso di imprese sotto l’amministrazione di un’unica persona. Una scelta certamente poco produttiva oltre che inopportuna. E non è un caso che negli ultimi mesi se ne siano occupati sia la Commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che la Commissione antimafia regionale siciliana oltre ad alcune trasmissioni televisive. Lo stesso Prefetto Caruso (ex direttore dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati) pur senza fare nomi aveva denunciato l’eccessivo potere in mano a pochi nella gestione dei beni mafiosi. Eppure ricordo benissimo i sorrisini che accompagnavano le denunce di Pino Maniaci come se in fondo un giornalista così poco pettinato, così puzzolente di sigarette e fuori dall’antimafia borghese avesse una credibilità tutta da dimostrare. Non bastano le minacce, non bastano le inchieste: nel salotto buono dell’antimafia ci entri solo se hai imparato le buone maniere, le cortesie istituzionali e la moderazione. Mica per niente uno come Peppino Impastato ci avrebbe pisciato sopra all’antimafia di maniera che va forte in questi anni. E anche Pino Maniaci, certamente. Ora che l’indagine è in corso (ed è “terribilmente seria” come ci dice qualcuno dagli uffici appena perquisiti nel Tribunale di Palermo) partirà la solita litania dei contriti che piangeranno lacrime di polistirolo. Su quel numero di Left scrivemmo delle tante piccole realtà antimafia e di giornalisti mica da copertina che avevano un coraggio da custodire con cura. E forse ci avevamo visto giusto, eh.

Che affarone i sequestri e le amministrazioni giudiziarie. Aziende sottoposte ad amministrazione giudiziaria. Affidate a professionisti con parcelle milionarie. Un sistema di favoritismi, nepotismi e conflitti d’interessi ora sotto inchiesta. Che coinvolge anche diversi magistrati, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Quando parlava di professionisti dell’antimafia, Leonardo Sciascia non sapeva fino a che punto avesse ragione. Il passo dai professionisti agli affaristi è cosa fatta. Così, il manager più pagato d’Europa non è Martin Winterkorn, ex amministratore delegato della Volkswagen in carica dal 2007, allontanato dopo lo scandalo delle emissioni con 60 milioni di euro di buonuscita. È Gaetano Cappellano Seminara, 57 anni, re incontrastato degli amministratori giudiziari, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali. Per 200 giorni di lavoro l’avvocato palermitano ha chiesto 18 milioni di euro a Italcementi, pari a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.

Italcementi, che aveva subito un sequestro preventivo nel 2008, aveva già versato 7,6 milioni di euro al professionista, tutti autorizzati dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Il grosso della richiesta aggiuntiva, che non è passata dal vaglio del giudice, doveva fra l’altro compensare il rilascio di un’ “assurance”. È una sorta di certificato per garantire la guarigione di Italcementi da comportamenti passibili di censura giudiziaria, anche se non connessi al crimine organizzato. È l’equivalente in versione moderna delle indulgenze mercanteggiate dal clero nel cristianesimo preluterano. È giusto aggiungere che la cifra è riferita all’insieme del team formato da Cappellano Seminara e dai suoi coadiutori, sei impiegati in pianta stabile più altri avventizi. Ma è altrettanto corretto sottolineare che Italcementi è soltanto uno degli oltre cento incarichi ottenuti dal professionista siciliano, che è anche imprenditore in proprio con la Legal Gest consulting e con Tourism Project (hotel Brunaccini di Palermo). La parcella da 18 milioni ha guastato i rapporti fra Cappellano Seminara e il colosso del calcestruzzo, da poco passato in mano ai tedeschi. Italcementi si è rivolta alla giustizia. La causa ha superato due gradi di giudizio ed è al vaglio della Cassazione, che non ha ancora fissato la data dell’udienza. Ma finora i verdetti indicano che l’amministratore ha incassato più del dovuto e dovrebbe restituire una quota degli onorari di circa 2 milioni di euro. Nel frattempo il bubbone è esploso. A Palermo è venuto alla luce un sistema opaco di favoritismi, nepotismi e incarichi in conflitto di interessi che potrebbe non essere limitato al capoluogo siciliano, dove si gestiscono quasi metà dei beni sequestrati in tutta Italia, secondo valutazioni del presidente delle misure di prevenzione Silvana Saguto. Oltre a Cappellano Seminara, la procura di Caltanissetta indaga sulla stessa Saguto, assegnata ad altro incarico, su suo marito Lorenzo Caramma, consulente di Cappellano, sul suo collega di sezione Lorenzo Chiaramonte, sul sostituto procuratore Dario Scaletta e sull’ex componente togato del Csm Tommaso Virga. In attesa che si sviluppi il lavoro del pubblico ministero nisseno Cristina Lucchini e del colonnello Francesco Mazzotta della Guardia di finanza, proprio il Csm ha finalmente deciso di affrontare la questione del cumulo degli incarichi nell’amministrazione giudiziaria, diventata ormai un affare da decine di milioni di euro all’anno, soprattutto nelle regioni più colpite dal crimine organizzato. Anche la politica è dovuta tornare sull’argomento. L’ultima sistemazione datata 2011 si è rivelata disastrosa perché lascia una totale discrezionalità ai singoli tribunali sia nelle nomine sia nella definizione del tariffario che in parte è a carico delle aziende e in parte è a carico della pubblica amministrazione, quindi del contribuente. In cambio del potere incondizionato che si è dato ai giudici delle misure di prevenzione non c’è stata garanzia di trasparenza né di rotazione negli incarichi. L’allarme lanciato dall’ex direttore dell’agenzia nazionale dei beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso è rimasto inascoltato e la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha preferito impegnarsi in lunghe audizioni di quegli stessi amministratori giudiziari che hanno trasformato la lotta alla mafia in un business altamente lucrativo.

Nel festival del conflitto di interessi spicca la vicenda Italgas. L’azienda torinese, controllata dalla Snam, finisce sotto sequestro in modo rocambolesco. L’avvocato Andrea Aiello, 44 anni, amministratore giudiziario della Euro Impianti Plus dei fratelli Cavallotti, sequestrata nel 2012 e in liquidazione a giugno del 2015, riferisce al pm Scaletta di alcune anomalie riguardanti i rapporti fra Euro Impianti e Italgas. In sostanza, Italgas avrebbe firmato un contratto di fornitura con Euro Impianti pur sapendo che i Cavallotti erano soggetti a rischio. In effetti, gli imprenditori di Belmonte Mezzagno sono stati assolti dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ma restano “socialmente pericolosi” e la testimonianza di Aiello fa scattare il sequestro di Italgas il 9 luglio 2014. Il giudice delegato Fabio Licata, che opera insieme ai colleghi Saguto e Chiaramonte ma non risulta indagato, nomina amministratore giudiziario proprio il teste dell’accusa Aiello. Da amministratore di Euro Impianti Plus, Aiello ha chiesto a Italgas un risarcimento di 20 milioni di euro per il contratto di fornitura non rispettato. Insieme all’avvocato palermitano, sono nominati amministratori anche l’ingegnere Sergio Caramazza, il docente Marco Frey e il commercialista Luigi Saporito. I quattro vengono retribuiti dal tribunale e la cifra non è pubblica. Ma c’è una quota consistente versata dall’azienda sotto sequestro. Italgas ha pagato per un anno di sequestro 6 milioni di euro a 43 coadiutori ingaggiati dagli amministratori, per una media di 140 mila euro a testa. Fra le criticità suggerite dagli amministratori giudiziari alla Deloitte, ingaggiata come consulente da Italgas, figura ogni genere di problema, inclusa la corretta profondità nell’interramento dei tubi, ma non profili collegati alla criminalità organizzata. La richiesta di dissequestro viene accolta a maggio del 2014 dal pm Dario Scaletta, poi indagato perché avrebbe informato Saguto dell’inchiesta che la riguardava. Nonostante questo, l’azienda viene riconsegnata il 9 luglio 2015, oltren un anno dopo il provvedimento. Ma nemmeno allora i professionisti delle misure di prevenzione si fanno da parte e riaffiorano nelle lunghe trattative per nominare il nuovo organo di vigilanza (Odv), incaricato fra l’altro dell’applicazione dei protocolli antimafia. La terna finale è guidata dal giurista di area Pd Giovanni Fiandaca insieme a Andrea Perini dell’università di Torino e a Gianluca Varraso, direttore con Fiandaca del corso di alta formazione per amministratori giudiziari della Cattolica di Milano, dove ha insegnato lo stesso Aiello. Seppure molto qualificato, l’Odv viene integrato da tre consulenti: Carlo Amenta, Gianfranco Messina e Cristina Giuffrida, dello studio Aiello. Tutti e tre figurano fra i coadiutori dello stesso Aiello durante il sequestro di Italgas.

L’inchiesta che ha condotto al sequestro di Italgas, cioè la caccia al tesoro dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, ha portato al sequestro di altre tre aziende italiane controllate dal colosso energetico spagnolo Gas Natural Fenosa. Anche in questo caso, la molla è stata la fornitura da parte dei fratelli Cavallotti. Il giudice Saguto e i suoi colleghi hanno incaricato Cappellano Seminara che, insieme ai colleghi Enzo Bivona e Donato Pezzuto, è stato amministratore giudiziario delle società dal 19 maggio 2014 fino al luglio scorso. Anche in questa vicenda c’è stato ricorso a decine di coadiutori che sono costati nell’ordine di 1 milione di euro: una bella somma considerando le dimensioni molto più ridotte delle aziende in termini di ricavi e dipendenti. Le traversie giudiziarie dei fratelli Cavallotti hanno un parallelo nella storia del gruppo Mollica. Le società dei costruttori di Gioiosa Marea (Messina), guidate dai fratelli Pietro, Domenico e Antonio, sono finite nel mirino come parte integrante di Cosa Nostra, secondo le dichiarazioni di Angelo “Bronson” Siino, il ministro dei lavori pubblici della mafia. Nel 2011, i fratelli Mollica sono stati assolti da questa accusa tanto che le loro imprese, raccolte nel consorzio Aedars, hanno ottenuto la certificazione per partecipare al rifacimento della Scuola della Misericordia a Venezia, in società con la Umana di Luigi Brugnaro. Nel giugno di quest’anno, con i lavori della Misericordia compiuti e Brugnaro diventato sindaco della Serenissima, le aziende dei Mollica sono state sequestrate in base a una sentenza del tribunale di Roma che ha bloccato beni per 135 milioni di euro. Niente mafia, stavolta. Tre mesi prima, a marzo del 2015, Pietro Mollica era stato arrestato con l’accusa di bancarotta fraudolenta dell’Aedars e delle società consorziate, riconducibili ai Mollica. I giudici romani hanno affidato il gruppo a Cappellano Seminara. L’avvocato palermitano adesso è a un bivio. Sembra che il presidente del tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, gradirebbe un passo indietro del superamministratore. Si attendono i passi avanti dei politici.

È’ STATO IL PREFETTO CARUSO, CHE PER QUALCHE ANNO, SU NOMINA DI ALFANO, HA RETTO L’AGENZIA DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA”, SEDE A REGGIO CALABRIA, AD AVERE APERTO L’ACCESSO A UNA STRADA CHE SEMBRAVA SBARRATA, A CAUSA DELLA “SACRALITÀ” O DI UNA METAFISICA INFALLIBILITÀ CON CUI VIENE CONSIDERATO L’OPERATO DELLA GIUSTIZIA.

Ciò che decide un giudice è solitamente inoppugnabile, o oppugnabile sino a sentenza definitiva, anche se dovesse presentare palesi discrepanze di giudizio, scrive Salvo Vitale su “Telejato”. Ma qualsiasi giudizio si fonda sull’inoppugnabilità della prova, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel nostro caso ci troviamo invece davanti a una legge che è la negazione dei principi della giurisprudenza, soprattutto di quelli che garantiscono la libertà dell’individuo e il suo diritto alla proprietà. Una legge che dovrebbe essere cancellata e di cui non c’è bisogno, in quanto, come dice Pietro Cavallotti nel suo profilo su facebook, “il sistema penale prevede strumenti di aggressione patrimoniale efficaci ma di certo più compatibili con lo Stato di diritto. Il comma 7 dell’art. 416 bis c.p. prevede già la confisca obbligatoria nei confronti di chi viene condannato per mafia. Già l’art. 12 sexies della legge 356 del 1992 prevede la confisca nei confronti di chi viene condannato per il reato di trasferimento fraudolento dei valori. Già il c.p.p. prevede nelle more del processo il sequestro preventivo. Le misure di prevenzione servono solo per fregare le persone di cui non si riesce a provare la colpevolezza nel processo penale. Si può e si deve ragionare in che termini modificare la legislazione antimafia… il problema non sono solo le persone ma – fondamentalmente – la legge. E se non si mobilita qualcuno o qualcosa per tentare di cambiare la legge, rimaniamo fermi al solito punto. E se aspettiamo che siano gli altri a muoversi invecchieremo in questa posizione scomoda”. Tale obbrobrio giuridico è passato in un certo momento in cui tutti si schieravano con l’antimafia, nessun giudice e nessun legislatore avrebbe mai messo in discussione misure repressive per colpire i mafiosi nei loro beni e così si sono avallati due principi “mafiosi” per combattere la mafia, ovvero “il libero convincimento” del giudice, che, sulla base di sue credenze, fissazioni, deduzioni, arzigogolate ricostruzioni di passaggi e parentele può entrare nell’ordine di idee che i beni di un soggetto cui rivolge il suo interesse, siano di provenienza mafiosa, e la facoltà di spiccare il decreto di sequestro “preventivo” in attesa che l’imputato dimostri la liceità di provenienza dei suoi beni.  Pertanto i passaggi sono: sospetto, sequestro, affidamento in amministrazione giudiziaria, udienza per la dimostrazione di liceità, cioè “onere della prova”, che non sempre è documentabile, rinvii a ripetizione, sino alla definitiva confisca o alla restituzione. Il termine “restituzione” del “maltolto” ai cittadini o al proprietario, sa di beffa, perché non viene restituito niente, nel migliore dei casi solo quattro ruderi spogliati di tutto. Così tutti hanno perso, lo stato, i lavoratori delle aziende, licenziati, il proprietario, eccetto che l’amministratore, che ha guadagnato la sua parcella d’oro, in parte, ma molto in parte, con i soldi dello stato, in gran parte con i soldi dell’azienda sequestrata. Se poi queste aziende affidate sono una decina, la ricchezza è assicurata. Se un centinaio… Cappellano Seminara. E attenzione, quando si parla di amministratore giudiziario non si parla di un singolo soggetto, ma di una serie di collaboratori, curatori, controllori, verificatori, delegati, responsabili di zona, tutta gente nominata dall’amministratore giudiziario e pagata a parte. Re Cappellano ha dichiarato di dar lavoro a una trentina di avvocati, ma anche gli altri avvocati esterni alla sua parrocchia sono in qualche modo legati a lui, sia perché egli ci può mettere la buona parola, sia perché possono avere qualche incarico collaterale. Sono i “quotini”, presumibilmente un centinaio, forse il doppio, figli, nipoti, cugini, parenti alla larga di giudici, di cancellieri, di esponenti delle forze dell’ordine, di impiegati del tribunale, uscieri, di professionisti vari, tutti “in quota” o all’interno dello stesso cerchio magico. I nomi si ripetono con la stessa monotonia: Turchio, Dara, Santangelo, Rizzo, Virga, Benanti, Geraci, Miserendino, Ribolla, Scimeca, Aiello, Collovà, Modica de Moach. Un posto importante meritano i commercialisti, sia per la loro abilità nel “mettere a posto le carte”, sia per una qualche capacità imprenditoriale, che, almeno nella prima fase dell’amministrazione, serve per non dare subito la sensazione dell’ingordigia. Il cerchio si allarga ancora a coloro che sono finiti sotto le grinfie di questo settore della giustizia non giusta, ai quali è stato sequestrato tutto, pure le biciclette delle bambine, e che elemosinano qualche briciola, molto spesso per potere curare se e i propri parenti, ma che non trovano alcuna forma di umana pietà. Per non parlare dei loro avvocati, che cercano di ottenere qualcosa al giudice capo, tanto per far vedere che si guadagnano la pagnotta, e che finiscono con l’essere cooptati all’interno del sistema di prevaricazione su cui si fonda buona parte di questa legge. Manco a dirlo, la nomina degli amministratori è “fiduciaria”, cioè è nella facoltà del giudice nominare una persona, qualsiasi essa sia, che goda della sua fiducia: ed anche qua la correttezza d’azione all’interno di regole, tipo una graduatoria di merito degli amministratori, che possa costantemente scorrere, va a farsi friggere. Siamo nel regno dell’arbitrio e non in quello della giustizia, il tutto in nome della giustizia e “per il bene dello stato”. Stesso circuito con stesse perversioni nomine criptate, sovrabbondanza di incarichi, scambi di favori tra parentele, e quant’altro può suggerire il male italico della corruzione, lo si può trovare nel campo dei curatori fallimentari. E’ sembrato quasi un “mettere il ferro dietro la porta”, cioè una sorta di autodenuncia in tutela, la circolare del 18 settembre 2015 con la quale i sei giudici della Sezione Fallimentare di Palermo hanno chiesto di procedere a un “monitoraggio periodico degli incarichi al fine di rendere più efficiente l’attività di controllo delle nomine”. Sia chiaro, la discrezionalità del giudice non si tocca: egli rimane libero di nominare a suo piacimento chiunque sia iscritto all’ordine degli avvocati o dei commercialisti. Il curatore si mette al lavoro mettendo in vendita e mettendo all’asta il patrimonio del fallito, case, macchine, gioielli, mobili ecc. per pagare i creditori. Vendite ed aste possono essere pilotate: in fondo si tratta di affari a prezzi stracciati. Naturalmente il curatore nomina dei consulenti, dei contabili, dei periti, ufficiali giudiziari, tutto a spese del fallito. Quasi mai i creditori riescono a rifarsi. Altrimenti che senso avrebbe dichiarare fallimento? Per far vedere che vogliono “regolamentarsi” i giudici fallimentari hanno proposto che ogni curatore non può avere più di venti incarichi (verrebbe da dire: “e tè minchia!!!”) e che ogni giudice non possa nominare più di tre volte in un anno lo stesso curatore (ma va!!!). Si prescrive anche che “I curatori dovranno astenersi dal nominare come legali altri professionisti inseriti nel proprio studio o con i quali vi siano collaborazioni continuative o rapporti di parentela o connubio.” Se il curatore è un avvocato, dovrà evitare e comunque contenere” (bellissimo!!!) le nomine di legali che abbiano a loro volta nominato lui stesso come legale nelle procedure ad essi affidate, sempre che non si tratti di nomine occasionate dalla particolare esperienza del professionista, (bellissimo anche questo!!!). Se è spuntata questa circolare, vuol dire che sino ad adesso si è fatto così, nella doppia logica del “tiengo famiglia” e di “una mano lava l’altra e tutte e due lavan la faccia”. Fiore nell’occhiello, la circolare lamenta, forse a giustificazione delle vergogne sinora portate in atto, “un esiguo numero di dottori commercialisti consulenti del lavoro, che hanno maturato esperienza in materia concorsuale, che rende, allo stato, difficoltosa una rigida applicazione dei suddetti criteri”. Cioè, ci vorrebbero far credere che non ci sono in giro commercialisti cui affidare gli incarichi e che, per questo, li affidano sempre agli stessi. Con tutti i disoccupati economisti laureati o diplomati ragionieri, la cosa sembra una beffa o una presa in giro. Quando il prefetto Caruso sollevò la questione davanti alla Commissione Antimafia venuta a Palermo, tutti si voltarono dall’altra parte, Rosi Bindi alzò le spalle infastidita per quello che sembrava un attacco al lavoro della magistratura, ultima barriera contro lo strapotere mafioso e preferì perdere tempo ad ascoltare le pompose audizioni degli amministratori giudiziari e le loro insinuazioni, anche nei confronti di Caruso, il quale fu messo alla porta e pensionato, senza neanche i rituali ringraziamenti. Da allora il malessere è dilagato e rischia di diventare un’epidemia. Difficilmente si potrà cambiare tutto, si sposterà qualche tassello e poi il tempo farà tornare tutto al suo posto. E’ stata strombazzata, entro l’anno, una legge che regolamenti tutto con nuove norme, ma è improbabile che le novità siano tali da arrivare, come sarebbe auspicabile, all’abolizione dell’intera barbara legge sulle misure di prevenzione. In uno stato di diritto la sentenza definitiva di un tribunale va rispettata, e invece esistono centinaia di casi di imprenditori assolti definitivamente, con restituzione dei beni e che invece restano sotto la stretta delle misure di prevenzione, le quali possono riservarsi di ignorare la sentenza o di spiccare un altro ordine di sequestro cambiando qualche motivazione. Normale chiedersi se esiste una giustizia, quella del tribunale, o se esiste, come esiste, accanto ad essa, la giustizia del tribunale di prevenzione. In un periodo di povertà e di crisi galoppante, la Sicilia è la regione col maggior numero di disoccupati, l’emigrazione è l’unica possibilità di occupazione per i giovani, il lavoro nero è la norma, tra la morsa della necessità di sopravvivenza e quella dello sfruttamento bestiale. La concorrenza nel lavoro è alimentata dalle basse e irrisorie tariffe pagate a migranti, ma strozzata da norme, burocrazia e costi enormi per la “messa in regola”, che non è quella mafiosa. Persino diversi imprenditori si sono stancati del balzello mafioso del pizzo e si sono messi a denunciare i loro estorsori o ad invitarli, cosa non facile, a sloggiare.  La gestione dei beni sequestrati e confiscati, che in Sicilia è del 40% dell’ammontare nazionale e che si stima in  trentamila, qualcuno dice quarantamila miliardi, va al di là di qualsiasi finanziaria, stimola appetiti, corruzioni, arricchimenti, speculazioni, ma potrebbe essere, se fatta con criterio, una risorsa contro alcuni mali endemici del Mezzogiorno, nel rispetto del lavoro degli imprenditori ai quali è troppo facile appioppare una patente di mafiosità, nella  presenza dello stato che tenga conto della voglia di riscatto, di collaborazione, di rottura col passato di alcuni imprenditori che “hanno fatto il salto”,  e nella considerazione di intere famiglie che perdono, con il sequestro, il posto di lavoro e hanno ben poca possibilità di compensarlo. In fondo sono soldi nostri. Una casta di magistrati, avvocati e consociati ha sinora fatto il bello e il cattivo tempo, richiamando tecniche e caratteristiche che richiamano spesso quelle tipiche della mafia.

Gira la manovella e la musica è sempre quella. Non se ne può più. Per cambiare ci vuole per forza la rivoluzione?  

IN UN SERVIZIO SULL’ESPRESSO ALCUNE DELLE PARCELLE D’ORO DEL RE DEGLI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI. Cappellano sta male, continua Salvo Vitale. Non ha detto se gli fa più male la cappella o…: ha dichiarato che non si sente tranquillo, che si trova nell’occhio del mirino, perseguitato, non dai mafiosi, ma da giornalisti curiosi che vogliono danneggiarne l’immagine e rovinare la sua “azienda”, cioè il suo ufficio legale. Questi cattivi soggetti, così facendo lo mettono in pericolo e aizzano contro di lui le vittime del suo operato, spingendole addirittura all’omicidio, come recentemente successo nel caso  della cava Giardinello di Trabia, dove un operaio licenziato ha ucciso i due responsabili della cava, da lui nominati. C’è addirittura chi, come Pino Maniaci, lo perseguita, ce l’ha con tutta la sua famiglia e giornalmente esercita su di lui lo “stalking” (caccia, inseguimento furtivo, appostamento, atteggiamento persecutorio ecc.). Non più di un anno fa la signora Saguto, alla Commissione Antimafia venuta ad ascoltarla, denunciava incazzata: “Stiamo assistendo ad un attacco al sistema. Non può essere un caso che in un momento in cui l’attività è particolarmente incisiva viene sferrato un attacco diffondendo dati falsi sugli amministratori che si arricchiscono e sui giudici indicati come conniventi”.  Come nella strategia di alcuni giudici e politici, chi osa mettere in discussione l’operato dei magistrati è un mafioso o un estremista. Così chi osava denunciare finiva con l’essere sospettato o indiziato di fare il gioco della mafia. Era evidente che si trattava di un’infame provocazione. Tuttavia la Saguto in una cosa aveva ed ha ragione: è un attacco, quello condotto dai suoi colleghi di Caltanissetta, ma principalmente da Telejato, poi ripreso da altre testate, contro il sistema di potere da lei stessa creato e che ben poco ha a che fare con l’amministrazione corretta della giustizia. E’ chiaro che, dopo che il complesso sistema di controllo dell’apparato dei beni confiscati alla mafia, e, sarebbe oggi bene aggiungere, alla presunta mafia, sta cominciando a venir fuori, a Cappellano forse comincia a bruciare qualche parte del corpo. Diciamo forse, perché il tipo, con l’arroganza che lo contraddice, continua a dichiarare di essere in una botte di ferro, dinon avere nulla da rimproverarsi, di volere restare al suo posto, anche per garantire tutti coloro che sono sotto la sua ala protettiva.  Non staremo a individuare i suoi possibili reati: è compito dei magistrati. Alcune cose le abbiamo denunciate, altre vengono fuori a poco a poco. Come quelle che ha scritto l’Espresso, nel numero di questa settimana. Il prestigioso giornale si è accorto del problema con molto ritardo e dedica al super-avvocato e alla sua compagna di merenda, la signora Saguto, quattro pagine. In particolare sono denunciati due fatti:

La Italcementi, una delle più grandi aziende italiane di calcestruzzo, adesso acquistata dai tedeschi, nel 2008 finisce sotto sequestro, continua ancora Salvo Vitale.  Cappellano, nominato amministratore giudiziario vi lavora per sette mesi e poi spara la sua parcella, 18 milioni di euro, “pari, scrive l’Espresso, a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.”  La Italcementi  con il permesso, e quindi con l’avallo della firma del giudice delle misure di prevenzione ha già pagato 7,6 milioni, ma Cappellano pretende un “fuori-busta”, cioè una sua personale parcella, non certificata dal giudice, chiamiamola un  “bonus”, per rilasciare una sorta di attestato di garanzia, in termini tecnici “un’”assurance” per attestare che l’industria è pulita o è stata ripulita da qualsiasi infiltrazione mafiosa e che è in regola con tutte le norme di legge, quindi non è passibile di procedimenti giudiziari di qualsiasi tipo: discorso chiaro: dammi altri 12 milioni e ti garantisco che nessuno verrà più a romperti le scatole. La Italcementi non ci sta, si rivolge al giudice che, tra un rinvio e un altro deve ancora decidere in Cassazione: i due verdetti precedenti indicano che il nostro grande esperto dovrebbe restituire almeno 2 milioni di quello che ha già incassato. La fame di denaro del gruppo d’affari legato a Cappellano si può anche rilevare dal milione di euro spillato alla Gas Natural Fenosa, un’azienda spagnola che si è trovata a gestire affari dai quali si risaliva a Vito Ciancimino, cosa che ci porta poi dritti dritti alla discarica di Glina in Romania, sulla quale Cappellano è indagato. Ma sarebbe troppo lungo elencare fatti e malefatte di questo signore.  Citiamo solo una lettera pervenuta a Telejato, che ci parla di due imprenditori  catanesi, Antonio e Luigi Padovani, ai quali nel 2011 la procura di Caltanissetta sequestra tutti i beni (immobili, noleggio macchinette da gioco, intrattenimento,  sale scommesse telematiche), affidandone l’amministrazione giudiziaria a Cappellano Seminara, che chiama come collaboratore il marito della Saguto, l’ing, Caramma e, dopo una serie di spese pazze e ingiustificate, mette in vendita, anzi in svendita, nel giro di pochi mesi, tutti i beni dell’azienda, e ne incassa il ricavato, a pagamento delle sue parcelle. C’è da chiedersi come mai dalla procura di Caltanissetta, dove l’incarico dei beni sequestrati è affidato al giudice Tona, si nomina un palermitano, legato, come si sa, al gruppo di giudici palermitani che fa capo alla Saguto, per controllare aziende di Catania, con costose trasferte, e come mai non sia stato preso alcun provvedimento malgrado le segnalazioni dei legali dei due imprenditori, ormai rovinati. Ma c’è anche da notare che, proprio dalla Procura di Caltanissetta, i cui magistrati provengono in gran parte dalla Procura di Palermo, dal pm Cristiana Lucchini, è partita l’indagine nei confronti della Saguto e dei suoi collaboratori. L’auspicio è che non si chiuda tutto con un abbraccio tra amici e colleghi. A proposito della Saguto, dopo la mazzata che le è caduta sul capo, sta male anche lei: appena guarita dalla frattura, con ingessatura, del braccio è entrata in depressione ed è attualmente in congedo. Un augurio di presta guarigione, anche perché in tribunale, dove l’hanno spostata, c’è un bel po’ di lavoro che l’aspetta.

L’ITALGAS È UN’AZIENDA DI BERGAMO, DI DIMENSIONI NAZIONALI, LEGATA ALLA SNAM. Dopo una serie di rocambolesche vicende l’azienda Euro Impianti plus, dei fratelli Cavallotti, una famiglia di imprenditori di Belmonte Mezzagno, finita, da ormai 15 anni nel mirino della magistratura perché accusata di godere della protezione di Bernardo Provenzano, e amministrata in modo disastroso da Modica de Moach, (quello che, intervistato dalle Iene ha fatto una figura pietosa), è stata affidata all’avvocato Andrea Aiello, il quale l’ha messa in liquidazione nel 2015. I Cavallotti sono stati assolti definitivamente dall’accusa di far parte del sodalizio mafioso, ma le loro aziende sono rimaste sotto sequestro per volontà dell’Ufficio di prevenzione. Aiello trova chela Italgas ha fatto un accordo e firmato un contratto con la Euro Impianti, lo riferisce al pm Scaletta, attualmente anch’esso trasferito d’ufficio. E’ chiaro che la Euroimpianti non avrebbe potuto sottoscrivere alcun accordo la firma dell’amministratore giudiziario, ma Scaletta, assieme al terzetto di  giudici delle misure di prevenzione Saguto,  Licata e Chiaramonte studiano un bel piano d’azione, e, con la scusa o l’accusa di un ipotetico pericolo di infiltrazioni mafiose affidano proprio ad Aiello, che intento aveva già chiesto alla Italgas 20 milioni per il pagamento di alcune forniture da parte della Euro impianti,  l’incarico di “ripulire” l’azienda assieme ad altri tre amministratori, l’ing. Caramazza, il prof. Frey e il commercialista Saporito, che nominano a sua volta altri 43 coadiutori, ai quali la Italgas versa parcelle di circa 140 mila euro a testa. Un anno di amministrazione giudiziaria, secondo i legali della Italgas è costato circa sette milioni di euro, ma il dissequestro, deciso da Scaletta nel 2014, non implica la riconsegna. L’ufficio misure di prevenzione studia un sistema di “amministrazione vigilata”, cioè si riconsegna l’azienda, nel luglio 2015, ma, viene nominato un organo di vigilanza composto dagli eminenti proff. Universitari Fiandaca, Perini e Varraso, cui si associano tre consulenti e coadiutori dello studio di Aiello, Amenta, Mesina e Giuffrida, che hanno assistito Aiello nel suo anno di amministrazione.

LA SCONCERTANTE VICENDA CHE VEDE COINVOLTI L’AVV. CAPPELLANO SEMINARA E LA DOTT.SSA SAGUTO, EX PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, NONCHÉ IL DI LEI MARITO ING. CARAMMA, PER LA ANOMALA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI E CHE È OGGETTO DI INDAGINI DA PARTE DELLA PROCURA DI CALTANISSETTA, SI ARRICCHISCE DEL CONTRIBUTO FORNITO AGLI INQUIRENTI DA ANTONIO PADOVANI E SUO FIGLIO LUIGI FABIO. I due imprenditori catanesi, padre e figlio, hanno subito ad opera del Tribunale di Caltanissetta, sezione misure di prevenzione, il sequestro e la confisca di tutti i loro beni, consistenti in immobili e numerose società che operavano nel settore del noleggio delle macchinette da gioco ed intrattenimento, nonché nelle scommesse telematiche, racconta Salvo Vitale su "Telejato". Al momento del sequestro (dicembre 2011) venne nominato amministratore giudiziario il solito avv. Cappellano Seminara, che sin da subito si avvalse della collaborazione dell’ing. Caramma, che più volte si recò a Catania, continuando a farlo sino a pochi mesi fa (ma la dott.ssa Saguto non ha dichiarato ai media che suo marito aveva ricevuto un solo incarico nel 2009?). I Padovani si resero subito conto delle modalità di gestione dei beni sequestrati, messi in allarme da alcune stranezze, quali il trasferimento da Torino a Catania di una autovettura Ferrari berlinetta effettuato inviando a Torino una (o forse due) persona, con conseguenti spese di aereo, pernottamenti e vitto, assicurazione dell’auto e benzina: il tutto per un costo di circa 4 – 5.000,00 euro, mentre un trasferimento a mezzo autotreno sarebbe costato poche centinaia di euro. Questa stranezza venne segnalata in udienza al Tribunale (che peraltro aveva autorizzato simile procedura) dai difensori dei Padovani, gli avvocati Sergio Falcone e Deborah Zapparrata del Foro di Catania, ma la segnalazione non ebbe seguito alcuno: anzi, il Tribunale continuò ad autorizzare tutte le vendite successive: autovetture personali ed aziendali vendute a prezzi di gran lunga inferiori al valore di mercato, centinaia di macchine da gioco del valore di circa 800 – 900 euro ciascuna vendute a prezzi tra i 200 e 250 euro, la stessa Ferrari, valutata dal perito 40 – 45.000 euro venduta per 30.000,00 euro, una imbarcazione di valore prossimo ai 100.000,00 euro venduta per 40.000,00: ed altro ancora! In più, tutte le Aziende sono state chiuse nel giro di pochi mesi, tutti i loro beni, mezzi e attrezzature venduti con le stesse modalità, il personale licenziato. I Padovani denunziano la gestione, finalizzata esclusivamente (in totale spregio della legislazione vigente) a realizzare danaro per pagare le laute parcelle dell’Amministratore e dei suoi collaboratori. Alla fine, se la confisca dovesse essere revocata, ai Padovani verrà restituito….niente, cosi come niente incamererà lo Stato in ipotesi di definitività della confisca: gli unici a guadagnarci, e non poco, saranno gli amministratori. Trovano anche strano, i Padovani, che sia stato nominato Amministratore giudiziario dei beni sequestrati il Cappellano Seminara, dal momento che la maggior parte di essi si trova a Catania, e sarebbe stato più logico, sia per ragioni logistiche che di risparmio di spese (quali ad esempio le frequentissime trasferte a Catania sia del Cappellano che dei suoi collaboratori), ricorrere ad un professionista catanese. Tutto ciò è stato rappresentato alla Procura di Caltanissetta con un esposto denunzia firmato da entrambi i Padovani, i quali chiedono che si faccia chiarezza sulla gestione, sulla attualità della collaborazione (che si protrae da anni) dell’ing. Caramma con il Cappellano Seminara, e sulle ragioni per le quali il Tribunale di Caltanissetta, nonostante le segnalazioni dei Difensori, abbia continuato ad autorizzare simile modo di procedere da parte dell’Amministratore giudiziario.

UNA STORIA INTERESSANTE: NON HA PRESENTATO PER ALCUNI ANNI LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI PERCHÉ LAVORAVA IN AMERICA E PERTANTO, I SUOI BENI SONO FRUTTO DI RICICLAGGIO. E’ PROSCIOLTO, MA FONTANA NON FIRMA LA SENTENZA. Tutto comincia dal sig. Evola Giuseppe, di Carini, che, grazie al suo lavoro di sansale conosce tutti, e pertanto concorre, in associazione mafiosa con alcuni di questi “tutti”, racconta ancora Salvo Vitale". Affitta un locale, dove c’era una pescheria, al bivio di Carini a Vito Caruso, uno indagato per piccolo spaccio di droga, che, secondo gli inquirenti, nelle intercettazioni era spacciata per gamberoni. Ci sono anche gradi di parentela della moglie di Evola con i boss di Carini Battista Passalacqua e Pecoraio Giuseppe. Evola è arrestato nel corso di dell’operazione Grande Padrino, rimane in carcere per due giorni, viene rilasciato e messo ai domiciliari per qualche mese sottoposto a processo è prosciolto da ogni accusa dal giudice Morosini, ma ecco che, quando tutto sembra finito arriva, il 20 giugn0 2014 la mannaia delle misure di prevenzione: tutto sequestrato, non solo ad Evola, ma anche alle due figlie, e quindi ai generi. Si trova che uno di essi, Antonio Nicastri non ha presentato dichiarazione dei redditi dal 2002 al 2007 e che quindi i suoi beni sarebbero   di provenienza illecita. Tra questi c’è una casetta di 70 mq, con annesso terreno, in affitto, una casa in costruzione e soprattutto un rinomato locale di ristorazione, in via Strasburgo, a Palermo, dal nome “Times Square”, dove si cucinano specialità americane. Le indagini non tengono conto, intenzionalmente, che il sig. Nicastro, da tempo è stato residente in America, dove ha regolarmente presentato le sue dichiarazioni di redditi e che quello che ha realizzato in Italia è frutto del suo lavoro e dei suoi risparmi, e che quindi non ha niente a che fare né con le attività del suocero, né con eventuali riciclaggi di soldi mafiosi. Il decreto di sequestro emesso dal solito trio Saguto-Licata-Chiaromonte è un capolavoro di arzigogolature, di deduzioni forzate, di illazioni riportate come conseguenze logiche, senza il briciolo di una prova. Fra l’altro non riporta una stima complessiva dei beni sequestrati. L’amministrazione giudiziaria viene affidata a uno dei re amministratori, Luigi Turchio, il quale, per i primi tre mesi riscontra che il fatturato era conforme a quello dichiarato. Turchio mette a rappresentarlo un ex funzionario della DIA, che passa il tempo a giocare in un vicino better gli incassi della giornata, anche più di 500 euro al giorno, e che sistema nel locale la figlia, la moglie e la nuora. Quando Turchio è avvisato dal titolare Nicastro licenzia tutti e quattro. Piano piano vengono licenziati gli undici lavoratori che vi prestavano servizio e tutto viene interamente chiuso il 4 giugno 2015. In un anno Turchio è stato capace di portare al fallimento uno dei locali più “in” di Palermo, senza un briciolo di resoconto del suo “non far niente”. All’atto della chiusura non si consente neanche una pulizia straordinaria con sgombero, viene lasciato il gelato ad ammuffire nei pozzetti, le derrate alimentari a marcire, ci sono scoli d’acqua, vermi, topi, devastazione e scomparsa delle attrezzature. Intanto Nicastri, attraverso un legale che sembra non legato al quotini palermitani, riesce a far valere le ragioni del suo cliente ed ottenere una sentenza di chiusura del caso e di restituzione dei beni. Scoppia intanto lo scandalo, la Saguto e Licata sono trasferiti e Nicastri si reca dal nuovo presidente delle misure di prevenzione dott. Fontana   per chiedergli di firmare la sentenza. Dopo cinque ore di attesa Fontana riceve il Nicastri, ma gli dice che firmare non è compito suo, ma dei giudici che hanno emesso il decreto, cioè Saguto, che è in malattia per depressione e Licata, che non si sa dov’è finito, forse in ferie. C’è da restare allibiti: un giudice la cui competenza è quella di firmare gli atti che gli sono stati lasciati da chi l’ha preceduto, dice che non è compito suo. E il povero Nicastri aspetta, mentre la moglie e gli altri due figli sono tornati in America. Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

Storie di ordinaria giustizia, scrive “Telejato”. SONO COME I MIGRANTI. ORMAI SI È SPARSA LA VOCE E OGNI GIORNO ARRIVANO PRESSO GLI STUDI DI TELEJATO PER RACCONTARE LE LORO STORIE. Ci chiedono che fare e non sappiamo cosa rispondere. Diciamo che noi facciamo i giornalisti e possiamo solo scrivere e loro ci dicono che va bene, bisogna che la gente sappia come si amministra la giustizia in Italia, tutti devono conoscere le loro storie, affinchè si tenti di smontare un sistema così perfetto che stritola la vita di coloro che hanno avuto la sfortuna di finirci dentro. Sono episodi allucinanti di persone che si sono viste sequestrare tutto, che hanno visto la loro vita e quella dei loro parenti distrutta, sono stati cacciate dalle loro case, sono state bloccate ogni volta che tentavano di iniziare un nuovo lavoro, che con le loro residue risorse o con prestiti sono riuscite a pagare un avvocato, spesso corrotto e che alla fine sono riuscite a far valere in tribunale le loro ragioni. Dopo i tre gradi di giudizio l’imputato è assolto, non ci sono sufficienti prove a suo carico, si dispone la restituzione dei beni. Ed è proprio quello il momento più triste: i beni non ci sono più, sono stati mangiati dall’amministratore giudiziario e dai suoi collaboratori ed è inutile chiedere di essere risarciti, perché la legge non lo prevede.  Addirittura arrivano bollette e fatture da pagare, che l’amministratore non ha pagato, pensando solo a spremere la mammella sino a quando c’era latte e, in questo caso, la risposta del tribunale è: paga per il momento, poi avvieremo La pratica giudiziaria per il rimborso e alla fine, tra qualche anno o tra qualche decennio riavrai i tuoi soldi. Ieri ne sono arrivati tre. Prima storia: Pino Pirrone aveva una gioielleria in viale Strasburgo. Il padre era conosciuto come uno dei più rinomati gioiellieri di Palermo e lui ne aveva continuato l’attività. In un certo momento  suo fratello, gioielliere anche lui, era stato ucciso nel corso di una rapina nel suo negozio ed egli aveva pensato di tutelare i suoi risparmi e gli interessi delle sue due figlie ascoltando il suggerimento di un suo amico, in servizio presso un corpo militare, di entrare in società con una signora, titolare di un’attività, riversando parte dei suoi soldi nel conto corrente di questa tizia Difficile capire cosa ci fosse sotto, probabilmente un tentativo di dirottare i soldi ad un prestanome, ma in un certo momento il Pirrone si ritrova addosso un’accusa di usura e, nel 2003, con un’ordinanza del giudice Cerami gli viene sequestrato il negozio e ogni altra proprietà. Amministratore giudiziario è nominato l’avv. Di Legami, cioè uno dei tanti in quota, cioè nella lista dei privilegiati dal tribunale di Palermo. Nel negozio rimane, per un certo tempo la figlia di Perrone, alla quale non viene pagata alcuna retribuzione, mentre viene assunta una “amica”, figlia dell’autista del giudice Bottone, cognato dell’avv. Di Legami, la quale, dopo qualche anno si licenzia e apre una sua gioielleria in via Pacinotti. Nuova assunzione di un’altra amica che, anch’essa, dopo un certo periodo di “lavoro” apre anche lei una gioielleria presso la chiesa di San Michele. L’iter giudiziario prosegue il suo corso e il Perrone viene assolto con formula piena sia in primo grado che in appello e quest’ultima sentenza diventa definitiva poiché non c’è stato da parte del giudice un’altra richiesta di giudizio.  Prosegue anche a vicenda dell’amministrazione del bene, che viene confiscato dal giudice Vincenti con la collaborazione dei giudici Chiaramonte e Scaletta, sino al 2012, quando viene annullata la confisca e disposto il reintegro dei beni. Quando viene data al proprietario la chiave del suo negozio egli non trova più nulla. Anzi, qualche giorno dopo gli viene recapitata un’intimazione di pagamento di 100.000 euro per l’affitto del negozio, a firma Cappellano Seminara, giudiziario dell’Immobiliare Leonardo Da Vinci, proprietaria del locale Cappellano ha aspettato che andasse via Di Legami, al quale non poteva chiedere nulla, sia perché non c’era più nulla, sia perché tra colleghi ci si rispetta. Perrone si rivolge al tribunale e gli dicono che, per prima cosa deve pagare, poi deve fare un ricorso e una richiesta di rimborso e aspettare.  Pervengono anche altre fatture per merce non pagata e al povero Pirrone non rimane altro che chiudere il locale, rivolgersi a un avvocato romano, che inoltra un ricorso alla Corte di Strasburgo. E infine, per colmo di beffa, al sig. Perrone viene restituita anche la chiave di un suo vecchio appartamentino: quando vi si reca per riprenderne possesso, vi trova alloggiata una famiglia che non ha alcuna voglia di sloggiare.  Piccola curiosità: tra i tanti avvocati di Pirrone c’è anche un certo Monaco, che è anche difensore di Cappellano Seminara.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Chi confischerà ai confiscatori? Anche rubare il denaro di Cosa Nostra è reato! Scrive Saverio Lodato su “Antimafia duemila”. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Pio La Torre, gente che se ne intendeva, erano tutti del parere che la via più breve per arrivare alla mafia nascosta era quella di seguire le tracce del denaro, il giro dell’oca del denaro; un po’ come gli sceriffi del Far West che, seguendo le orme del fuggiasco nel deserto, molto spesso, alla fine, riuscivano ad acciuffare il fuorilegge. Quando si lavorava ancora con biro e pallottoliere, Falcone raccoglieva e indagava su migliaia di assegni, e quel gigantesco lavoro cartaceo, molto prima che venisse battezzato "Il metodo Falcone" (dal titolo di un recente ottimo lavoro televisivo del collega Salvatore Cusimano della Rai) sfociò nel primo grande processo a Cosa Nostra, il "processo Spatola-Gambino-Inzerillo". Processo - detto per inciso - per il quale gli americani mostrano ancora gratitudine verso Falcone, visto che diede inizio allo smantellamento dei clan di origine siciliana che si erano installati negli States. Di questo innovativo modo di indagare, ne sapeva qualcosa Cristoforo Fileccia, ormai scomparso, figura gloriosa e storica del Palazzo di Giustizia di Palermo che, pur difendendo mafiosi a bizzeffe, riuscì sempre a tenere la schiena diritta a differenza di tanti altri suoi colleghi ai quali, deontologicamente parlando, prima o poi scappò la mano. E con Giovanni Falcone il rispetto era vicendevole. Fu proprio Fileccia a raccontarmi di quel giorno in cui Falcone lo convocò nel suo ufficio, a pomeriggio inoltrato, per chiedergli conto di un "assegno sospetto" firmato da un suo assistito (mafioso) che poi sarebbe finito nel calderone del maxi processo. Falcone lo ricevette seduto alla sua scrivania, quasi barricato dietro una montagna di assegni che in precedenza aveva già spulciato uno per uno. La famosa "panna montata" che avrebbe finito per soffocarlo, secondo il giudizio acre dei suoi Nemici-Colleghi di allora. Non furono gli assegni a soffocarlo, ma il tritolo; ma questa è un’altra storia. Il racconto di quel giorno era esilarante, essendo Fileccia persona di irresistibile spirito, come possono testimoniare tutti quelli che ebbero modo di conoscerlo: "Falcone sorrideva. Prendeva mazzette d’assegni strette da un elastico, come fossero mazzette di banconote… Le faceva scorrere fra le sue dita… prr… prr… prr… e le rimetteva a posto passando alla successiva…  prr… prr… prr… Io ero morto! E mi chiedevo: ma che vuole dire? Dove vuole arrivare? Poi u capivi… A un certo punto da una delle mazzette… zacchete… estrasse un assegno, me lo sventolò sotto il naso e mi disse sornione: avvocato Fileccia e questo cos’è? Sa dirmi perché il suo assistito ha firmato questo assegno?… Può essere così cortese da informarsi? Mi faccia sapere, mi raccomando…". Certo. Erano altri tempi. Ma il tema di fondo, quello che resiste all’usura del tempo, in tutte le vicende di mafia, è sempre quello del denaro. Sembra quasi uno scherzo del destino, e citiamo Andrea Camilleri, che il capo dei capi di Cosa Nostra oggi si chiami "Denaro": "nomen" eccetera eccetera. Ma tanto paradossale la circostanza non è, visto che ormai per trovare Matteo Messina Denaro pare sia rimasta solo la via di seguire "Il Denaro", ma quello suo, che avrebbe portato chissà dove. Ma è denaro anche quello, secondo l’accusa dei giudici di Caltanissetta, di cui si sarebbero appropriati indebitamente gli addetti ai lavori delle "misure di prevenzione" del Tribunale di Palermo. E qui arriviamo alla nota dolente. La vicenda è molto conosciuta, e stomachevole, a volerla dire sino in fondo, e ci limiteremo all’essenziale. D’altra parte Giorgio Bongiovanni ne ha scritto su questo giornale, in maniera sintetica e efficace. Noi non sappiamo se la dottoressa Silvana Saguto, presidente dimissionaria delle misure di sorveglianza, sia colpevole o accusata ingiustamente. Le auguriamo di provare tutta la sua innocenza. Noi non sappiamo se suo marito, l’ingegnere Lorenzo Caramma sia colpevole o innocente. Stesso augurio rivolgiamo anche a lui. Noi non sappiamo se l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, ha svolto bene il suo lavoro o ci ha marciato alla grande. Come sopra, anche per l’avvocato Seminara, e per tutti gli altri magistrati coinvolti nell’inchiesta: Tommaso Virga, presidente della quarta sezione penale del Tribunale; Lorenzo Chiaramonte, ex componente del collegio misure di prevenzione; Dario Scaletta, pubblico ministero della DDA (indagato per fuga di notizie), tutti in via d'uscita. Né va dimenticato Antonello Montante, investito per mafia da altra inchiesta, ma, a quanto pare, sempre per lo stesso argomento: Montante era nell’Osservatorio nazionale dei beni sequestrati dal quale è stato costretto a dimettersi, ma è rimasto pur sempre nel direttivo regionale di Confindustria. Qui dovremmo aprire una lunga parentesi (ma le occasioni non mancheranno) per parlare di cosa sia in effetti questa Confindustria siciliana (solo siciliana?), anche alla luce, ad esempio, delle parole di Marco Venturi, presidente dell’associazione per la Sicilia orientale, in una sua clamorosa intervista a Attilio Bolzoni: "La svolta antimafia di Confindustria è solo un inganno". E torniamo adesso al denaro, con la "d" minuscola. Ipotizziamo, per un attimo, che le accuse dei giudici nisseni vengano provate. Come la mettiamo? O meglio, come intende metterla il Csm? Il vice presidente del Csm Giovanni Legnini ha incontrato il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, e ha commentato che: "Ci sono ampie e fondate ragioni per avviare la procedura del trasferimento d’ufficio". In altre parole, altra sede, altro incarico. La frase è indicativa di quanto appaia chiaro alle massime cariche istituzionali la inaudita gravita dell’accaduto.  Ma noi, anche in questa eventualità dei trasferimenti, non saremmo per niente soddisfatti. E stessa indignazione proverebbero molti cittadini. Con quale logica, quale autorevolezza, quale requisito morale riconosciuto da tutti, questi magistrati potrebbero continuare a svolgere il loro lavoro da un’altra parte? In nome di "quale popolo italiano" sarebbero chiamati a emettere sentenza? Sarebbero perennemente costretti a indossare toghe inzaccherate di fango, e non sarebbe un bello spettacolo nelle aule di giustizia. Troppo facile, troppo comodo cavarsela così. E infatti c’è il denaro che resta il tema di fondo del nostro articolo. Saranno fatte approfondite ricerche bancarie? Si indagherà sui capitali e le proprietà personali degli indagati in questione? Si cercheranno i loro fiancheggiatori, prestanome, amici larghi e amici stretti, parenti larghi e parenti stretti, come si fa per dar la caccia a Denaro e al suo denaro? E come si fa giustamente per centinaia e centinaia di altri mafiosi?  Come? Noi siamo forcaioli? Può darsi. Ma come la mettiamo se si dovesse scoprire che un manipolo di magistrati, giudici, imprenditori confindustriali, "antimafiosi da parata", diedero per anni l’assalto alla diligenza che conteneva i "capitali" mafiosi che in nome dello Stato italiano erano stati confiscati per ben altre finalità sociali? E come mai certi uomini politici, in mille occasioni così ciarlanti delle "responsabilità civile dei giudici", in questo caso stanno digerendo macigni ma non aprono bocca? Neanche un talk show, neanche un’intemerata degli Opinionisti che in questi trent’anni ai magistrati "gliele hanno cantate chiare". Strano. Davvero molto strano. Persino buffo che stiano perdendo un’occasione tanto ghiotta per dire la loro. Nelle prossime settimane capiremo meglio. Auguriamo a tutti di riuscire a provare la loro innocenza. Ma se dovessero risultare colpevoli, dovranno cacciare i soldi rubati, il maltolto, il bottino. Da qualche parte esisterà pure uno Stato capace di confiscare in casa dei confiscatori. Altro che trasferimenti in altra sede, altri incarichi direttivi… Non condannati a lavorare in campi di patate, per carità, ma quanto meno costretti a fare "opere di bene" con i soldi che speravano di avere messo al sicuro.

Ma con quelle accuse sulle spalle la Saguto può indossare la toga? Scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Troppi scandali, troppe intercettazioni, troppi favori, troppi privilegi. Con tutte le accuse formulate a suo carico dalla Procura di Caltanissetta, Silvana Saguto, ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, dovrebbe fare un decisivo passo indietro: dovrebbe quantomeno autosospendersi dalla magistratura in attesa di chiarire definitivamente la sua posizione. “Te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato: i magistrati si difendono tra di loro... io ti dico che pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio 8.000 magistrati ne difendono uno”. Ecco la lezione imparata da Walter Virga, nei 35 anni vissuti accanto al padre Tommaso, oggi presidente di una sezione del Tribunale di Palermo. Il giovane Virga, nominato amministratore giudiziario da Silvana Saguto, affida inconsapevolmente la sua certezza alle microspie piazzate nell'ambito dell'inchiesta che li vede tutti indagati. Il sistema aveva una base solidissima, la consapevolezza dell'impunità. Cane non morde cane. Nonostante le polemiche che divampavano sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia, il castello sarebbe rimasto in piedi con tutti i privilegi e le agiatezze che aveva comportato. A partire dalla nomina del giovane avvocato alla guida di due dei più grossi patrimoni - Rappa e Bagagli - sequestrati in Sicilia e in Italia. Era Virga jr a ribadire che di sistema si trattava. “Lei non è un ingenua... lei fa parte di un sistema”, diceva riferendosi all'ex presidente. Un sistema sempre e comunque al di sopra di ogni sospetto grazie al bollo della magistratura, dove l'accesso era consentito dal fatto che “abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell'incarico”. Avete letto bene: pizzo. Perché, aggiungeva il giovane amministratore giudiziario, “Avevamo risolto il problema alla nuora che era tranquilla”. Il riferimento era a Mariangela Pantò, fidanzata di uno dei figli della Saguto, accolta a lavorare nello studio di Walter Virga che al padre Tommaso spiegava: “L'unica cosa complessa è che c'è da sistemare la stanza a Mariangela che faceva schifo e là, solo per il pavimento di Mariangela, stiamo spendendo mille euro, considera, però capisci bene, che è importante farlo”. Era “importante farlo” altrimenti non poteva entrare nel sistema costruito su ricche parcelle, assunzioni e regalie. E forse pure sulle mazzette. Il forse è d'obbligo perché il capitolo più delicato dell'inchiesta, quello sulla corruzione e sul riciclaggio di denaro, è ancora in progress. I finanzieri della Polizia tributaria stanno cercando riscontri sui passaggi di soldi accennati nei dialoghi intercettati. Le indagini faranno il loro corso. Bisogna essere garantisti. Sempre e comunque. Bisogna attendere i tre gradi di giudizio per stabilire se qualcuno sia davvero colpevole, figuriamoci ora che la vicenda giudiziaria è ancora allo stato embrionale. C'è un dato, però, già cristallizzato dai dialoghi di Silvana Saguto. Le sue parole fanno a pugni con la gestione trasparente e terza della giustizia che ci si attende da chiunque indossi la toga. L'immagine della magistratura palermitana ne esce massacrata. Lo sa bene il Csm che ha avviato le procedure per il trasferimento per incompatibilità ambientale della Saguto e degli altri magistrati indagati, compreso Tommaso Virga. Nel frattempo farà il suo corso anche il procedimento disciplinare. Il punto è che c'è una superiore ragione di opportunità. Il sistema giustizia non può attendere. La Saguto è stata trasferita in Corte d'assise, praticamente nel corridoio accanto a quello dai lei frequentato fino a un mese e mezzo fa. È in malattia. In ufficio non c'è ancora andata, tranne per una rapida apparizione che avrebbe creato non poco imbarazzo. Ha annunciato, a mezzo stampa, che chiederà di lasciare Palermo. Ma dovrebbe fare un ulteriore passo indietro, Silvana Saguto. L'autosospensione è l'unica strada. Anche nel suo interesse, per avere la possibilità di difendersi al meglio dalle ipotesi di accusa che presto diventeranno contestazioni. Con le accuse che gravano sulle sue spalle, indossare la toga oltre che inopportuno è offensivo per tutti quei magistrati che ogni giorno, onestamente, amministrano la giustizia.

Scandalo dopo scandalo l'Antimafia è morta. E la società civile non si sente nemmeno tanto bene, scrive Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Dalla politica al Palazzo di Giustizia, è crollata l'immagine dell'Antimafia come circolo per iniziati. E con essa il mito di una "società civile", contrapposta a una politica incivile, che all'occorrenza è servita per attingere a ideali albi dei moralizzatori. Non è solo il santo moloch dell'Antimafia con la “a” maiuscola a uscire a pezzi dallo stillicidio di puntate dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata a Palermo. Il santuario dell'antimafia di potere era già mezzo crollato negli ultimi tempi, le mura sbrecciate e le fondamenta minate dai fallimenti dell'antimafia politica e dalle vicissitudini giudiziarie dell'antimafia-lobby. Un altro mito, ancora più sfuggente, celebrato e farlocco, sembra cadere a pezzi dal desolante quadro offerto dalle notizie su tutto ciò che gira attorno alla gestione degli ingenti patrimoni mafiosi o presunti tali (quando i beni sono sequestrati e non ancora confiscati). Quel mito, cantato per anni da infaticabili aedi, si chiama società civile. E il quadro che emerge dall'indagine della procura di Caltanissetta, con accuse certo ancora tutte da provare, lo investe in pieno. Avvolgendo, o forse travolgendo, quelle categorie che hanno rappresentato in questi anni un ideale albo dei moralizzatori a cui attingere in supplenza di una politica sputtanata e in cerca di facce nuove. Nel coacervo che qualcuno tra gli stessi intercettati battezza “sistema” si sono mossi, con ruoli e responsabilità diverse, tanti pezzi di quella società civile, raccontata negli anni come contraltare virtuoso rispetto a una politica screditata. Magistrati, forze dell'ordine, professionisti e tutto l'affollato e variopinto indotto dell'eldorado dei beni confiscati, nessuno si era accorto di quel “sistema”, nessuno pare sia stato in grado di scorgere le storture che affollavano questo ricchissimo guazzabuglio. Dagli addetti alla scorta utilizzati per le commissioni ai colleghi magistrati, passando per l'esercito di addetti ai lavori, non escluso il mondo dell'associazionismo attivo in questi ambiti, nessuno, parrebbe, aveva intravisto attorno a Silvana Saguto qualcosa che non quadrava e che meritava di essere denunciato. E quando qualcuno s'è azzardato a indicare il re nudo, vedi il prefetto Caruso, il Palazzo a tutti i suoi livelli ha reagito come è noto. È in questo contesto che è maturato il passaggio di mano del bottino dell'economia mafiosa nelle mani della bella borghesia palermitana, secondo norme che meriterebbero per lo meno una riflessione critica. Nelle mani della società civile, appunto. Se ciò è avvenuto per certi aspetti contra legem dovranno essere i magistrati ad accertarlo. Di certo, la normativa, con i suoi buchi neri e le sua sfere di discrezionalità, non ha aiutato a evitare il peggio. Che non sta solo nei profili penali della vicenda, come detto, tutti da acclarare. Ma soprattutto nelle storie di figli e parenti sistemati, antica disciplina in cui la suddetta bella borghesia panormita sa eccellere come pochi. È scomoda questa storia di spese al supermarket non pagate. Scomoda perché sgretola un mito fragile, che non è solo quello dell'antimafia come “tuta mimetica” per altri interessi, ma è più in generale quello dell'esistenza di fantomatiche oasi incontaminate, dove invece si celano i vizi e le storture di altri vituperati palazzi. È scomoda ed enorme questa storia, ben più delle beghe tra conventicole che hanno animato nei mesi scorsi le cronache dei dolori dell'antimafia chiodata. È enorme e scomoda, e trova spazi forse non adeguati sulla grande stampa nazionale, dove paradossalmente è più indolore parlare di agende rosse e di passato remoto piuttosto che guardare in faccia il presente. Rassegnandosi all'idea che quello della “società civile” come concetto contrapposto a una sottintesa “incivile” politica è un mito con poche aderenze alla realtà. Quale punto di riferimento resta dunque ai siciliani? Da una parte una politica disastrosa e fallimentare. Dall'altra un'economia morente, dimenticata dalla politica e rappresentata da una classe dirigente che non è riuscita, quando ha avuto la possibilità di entrare nelle stanze dei bottoni, di invertire in modo apprezzabile la rotta. A tutto questo si aggiunge ora il disastro d'immagine della giustizia, travolta da uno scandalo di quelli che erodono anni di lavoro, credibilità e sacrifici di tanti. Non resta allora che sfuggire alla tentazione della generalizzazione. Quella stessa generalizzazione che ha santificato negli anni intere categorie, beneficiarie dello scudo dell'immagine fulgida di servitori dello Stato. Non tutto era bene allora, non tutto può essere male adesso. Metabolizzato l'inganno dell'antimafia come club per soli tesserati e della società civile come paradiso del senso civico, c'è solo d'augurarsi che il trauma di questi giorni accompagni i siciliani nell'era del discernimento, al di là delle etichette. Considerando la lotta alla mafia una priorità condivisa e non un circolo per iniziati.

Gli insulti ai figli di Borsellino del giudice dei beni confiscati "Lui squilibrato, lei cretina". Esclusiva. Ecco le frasi shock dell'ex presidente delle Misure di prevenzione dopo aver commemorato il magistrato ucciso, il 19 luglio scorso. L'intercettazione con un'amica. Sull'abbraccio con Mattarella diceva: "Manfredi si commuove, che figura è?". A una svolta l'indagine dei pm di Caltanissetta condotta dai finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo, scrive Salvo Palazzolo su “la Repubblica” il 21 ottobre 2015. Il 19 luglio scorso, il giudice antimafia Silvana Saguto è la madrina della manifestazione "Le vele della legalità", pronuncia parole accorate per ricordare il sacrificio di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta. Ma appena torna nella sua auto blindata, telefona a un'amica e sputa parole terribili contro i figli di Borsellino. Ce l'ha soprattutto con Manfredi, che il giorno prima ha abbracciato fra le lacrime il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al palazzo di giustizia di Palermo. Un abbraccio che ha commosso l'Italia. Ma non il giudice antimafia Silvana Saguto, che sbotta: "Poi, Manfredi Borsellino, che si commuove, ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa? Che figura fai". E insiste: "Ma che... dov'è uno... le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaffanculo". Eccole, le parole terribili che pronunciava uno dei giudici simbolo di Palermo, che ha sequestrato beni per milioni di euro e oggi è indagata dalla procura di Caltanissetta per aver costruito un sistema di raccomandazioni e favori attorno alla gestione dei patrimoni sottratti ai boss. Il giorno dell'anniversario della strage di via d'Amelio, Silvana Saguto era infastidita perché aveva aspettato due ore sotto il sole l'arrivo delle barche della legalità al porticciolo di Ficarazzi, piccolo centro alle porte di Palermo. Ed era un fiume in piena contro la famiglia Borsellino. Tutte le sue parole sono rimaste impresse nelle intercettazioni fatte dai finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo. Alla sorella Lucia, Silvana Saguto riservava altri insulti: "È cretina precisa".

Giudice antimafia Saguto intercettata sui Borsellino: “Manfredi? Squilibrato. Lucia? Cretina precisa”. L'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo - sulla quale indaga la procura di Caltanissetta - dopo avere partecipato alla manifestazione "Le vele della legalità", sale sull'auto blindata, telefona a un'amica e insulta il magistrato ucciso nel 1992. Sul figlio dice: "Ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa?", scrive Giuseppe Pipitone il 21 ottobre 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Manfredi Borsellino? “Uno squilibrato”. La sorella Lucia? “Cretina precisa”. È il 19 luglio 2015, anniversario numero 23 della strage di via d’Amelio, il massacro del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. Silvana Saguto, una delle donne che a Palermo incarna il volto dell’antimafia fatta di numeri ed euro sottratti a Cosa nostra, sta partecipando – in qualità di madrina – alla manifestazione “Le vele della legalità”. Ricorda il sacrificio del magistrato assassinato, parla dell’antimafia dei sequestri, quella che dal 2010 rappresenta guidando la sezione misure di prevenzione del tribunale. Poi sale sulla sua auto blindata, telefona ad un’amica, e – come racconta Repubblica – si lascia andare ad una serie di insulti contro i figli di Borsellino. Inveisce soprattutto con Manfredi, oggi commissario di polizia, che 24 ore prima al palazzo di giustizia ha abbracciato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, tra la commozione generale. “Ma poi, Manfredi Borsellino che si commuove, ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa? Che figura fai”. Ma non solo. “Ma che – continua Saguto – dov’è uno… le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaffanculo”. Sono i giorni del caso Crocetta, con il settimanale Espresso che ha pubblicato il testo dell’intercettazione (poi smentita dalla procura di Palermo, che indaga per calunnia e pubblicazione di notizie false) in cui il medico del governatore dice che Lucia Borsellino “va fatta saltare come il padre”. Ed è per questo che Manfredi Borsellino era intervenuto davanti al capo dello Stato, per difendere la sorella, che due settimane prima si era dimessa da assessore regionale alla sanità. Saguto però è un fiume in piena, e bolla Manfredi come “uno squilibrato, lo è stato sempre, lo era pure quand’era piccolo”. Lucia Borsellino, invece, per il magistrato è “cretina precisa”. Parole pesantissime quelle pronunciate da Saguto, che colpiscono al cuore la credibilità di una fetta ampia del mondo della cosiddetta antimafia. “Io e mia sorella Lucia siamo senza parole, non vogliamo commentare espressioni che andrebbero catalogate alla voce cattiveria. Solo parlandone, rischiamo perciò di attribuire importanza a chi quelle parole ha proferito”, ha detto Manfredi, commentando le parole della Saguto. La donna “economicamente più importante di Palermo”, come la definì Gian Carlo Caselli, è infatti al centro di un’inchiesta della procura di Caltanissetta, che la ha iscritta nel registro degli indagati per corruzione, induzione e abuso d’ufficio: secondo l’accusa, aveva trasformato il mondo dei beni sequestrati a Cosa nostra in un suo personalissimo business, utilizzato a vantaggio della sua famiglia e di pochi fedelissimi del suo cerchio magico. Incarichi ad amministratori giudiziari amici (sempre gli stessi), nomine in cambio di lavori per il marito Lorenzo Caramma (anche lui indagato), il figlio e la fidanzata del figlio, regali chiesti e ottenuti, che spesso arrivavano proprio dalle aziende che lo Stato ha sottratto ai boss: come nel caso del supermercato Sgroi, dove Saguto aveva maturato un debito di oltre 18mila euro. È un sistema tentacolare quello che ruota attorno al magistrato, un sistema che quando finisce al centro di inchieste giornalistiche (come nel caso di Telejato, la minuscola emittente guidata da Pino Maniaci), prova a difendersi facendo quadrato. “Voglio fare qualcosa d’impatto, un incontro con i giovani che gli eroi del contrasto alla criminalità, quindi voglio fare una giornata su di te”, dice Carmelo Provenzano, professore dell’università Kore di Enna, al magistrato, attaccato due giorni prima dalla trasmissione Le Iene. Sono gli stessi giorni in cui – secondo la ricostruzione dei pm nisseni – un ufficiale della Dia avrebbe fatto circolare volontariamente una vecchissima informativa che parlava di un rischio attentato per la Saguto. L’ex zarina della sezione misure di prevenzione che, nonostante le polemiche, non accenna a diminuire di un grammo la sua pressione su amici e componenti del cerchio magico. È il 31 luglio quando Saguto chiama Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma, chiedendogli di trovare un incarico per il marito. Muntoni accetta di buon grado, e spiega alla collega che “i miei amministratori sono precettati a cercare qualcosa che vada bene per un bravo ingegnere di Palermo”. Sono solo le ultime intercettazioni raccolte dall’indagine. Mentre al Csm continua ad andare avanti la pratica per il trasferimento di sede di Saguto (che ha chiesto di essere spostata a Milano) e degli altri quattro magistrati coinvolti dall’inchiesta della procura di Caltanissetta, emerge infatti uno spaccato di come la toga messa a sentinella della “robba” sequestrata ai boss vivesse quotidianamente. L’auto blindata con la scorta, per esempio, veniva mandata in giro per le più banali commissioni domestiche, o utilizzata per andare al mare evitando il traffico. “È un inferno”, dice il prefetto Francesca Cannizzo al telefono. “Ce ne possiamo fregare dell’inferno se vieni con me, abbiamo la mia macchina, c’è la preferenziale”. Ed è proprio per la cena con il prefetto Cannizzo, che Saguto riceve in dono dall’amministratore giudiziario del complesso turistico Torre Artale sei chili di tonno. Un dono che punta ad attirarsi la benevolenza del magistrato e che riscuote alto gradimento. “Il prefetto – dice Saguto intercettata – era impazzita letteralmente una cosa così non l’ha mai mangiata”.

Poi non ci dobbiamo dimenticare, sempre a proposito della sezione Misure di Prevenzione antimafia, che l’anomalia non e solo palermitana, ma è generale. La mafia è una cosa seria, l'antimafia troppo spesso non lo è.

Il giudice Vincenzo Giglio è da oggi un pregiudicato, scrive Claudio Cordova su "Il Dispaccio" il 20 ottobre 2015. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per l'ex Presidente della Corte d'Assise di Reggio Calabria, Vincenzo Giuseppe Giglio, e per l'ex consigliere regionale calabrese Francesco Morelli. La Suprema Corte ha dunque confermato quanto disposto dalla corte d'Appello di Milano che alcuni mesi fa aveva inflitto 4 anni e 5 mesi al primo e 8 anni e 3 mesi a Morelli nel processo milanese sulla cosiddetta 'zona grigia' della 'ndrangheta. La Corte di Cassazione ha confermato anche la condanna a Raffaele Fermino (4 anni e 8 mesi di reclusione), al medico Vincenzo Giglio (cugino del giudice) a 7 anni di carcere, a Leonardo Valle a 8 anni e 6 mesi, a Francesco Lampada a 3 anni e 8 mesi, all'ex militare della Guardia di Finanza Luigi Mongelli a 4 anni e 5 mesi di reclusione. Annullate con rinvio a un'altra sezione della Corte d'Appello di Milano, le condanne a Maria Valle, condannata in Appello a 2 anni e 9 mesi di reclusione e Luciano Russo, Michele Noto e Michele di Dio, tre finanzieri assolti in primo grado, ma condannati in appello a 3 anni e 9 mesi di reclusione. Sentenza definitiva nel procedimento che coinvolse l'ex consigliere regionale, Franco Morelli e il giudice Enzo Giglio. Entrambi vengono puniti per i propri rapporti con la cosca Lampada, operante nel milanese con un vero e proprio impero economico. Il coinvolgimento dei due creò grande scalpore: Giglio, in particolare, era visto come un insospettabile, esponente di Magistratura Democratica e presidente della Corte d'Assise di Reggio Calabria. Giglio venne ammanettato con delle accuse gravissime: nel corso di alcuni incontri, almeno cinque, avvenuti all'interno della propria centralissima abitazione a Reggio Calabria avrebbe fornito delle soffiate agli elementi di spicco del clan Lampada circa l'esistenza o meno di indagini giudiziarie sul conto degli affiliati. Discorso analogo per la presunta corruzione con Franco Morelli, cui Giglio avrebbe rivelato l'assenza di indagini sul conto del politico, preoccupato di possibili vicende giudiziarie che ne potessero frenare l'ascesa politica. Un'amicizia, quella tra Morelli e Giglio, che sarebbe stata premiata dagli incarichi regionali ottenuti dalla moglie del magistrato, Alessandra Sarlo. Per la nomina della Sarlo, peraltro, è pendente un processo separato che si celebra a Catanzaro. Incontri, quelli tra Giglio e i Lampada nella centralissima abitazione reggina del magistrato, che gli inquirenti riusciranno a documentare "in diretta", incrociando poi con le captazioni telefoniche acquisite. Per questo, dunque, la Corte d'Appello, analizzando le intercettazioni di Giulio Lampada parla nelle motivazioni della sentenza di secondo grado di "frequentazione intensa della casa del giudice Giglio" da parte del presunto boss calabro-milanese. La sentenza parla inoltre di rapporto "assolutamente amichevole e confidenziale che intercorre tra Giulio Lampada e il giudice". Lampada si sarebbe anche rivolto al magistrato chiamandolo "Enzuccio bello". Un rapporto che si inquadrerebbe, dunque, nei vari tentativi fatti dai Lampada di ottenere informazioni riservate sullo stato delle indagini. Insomma, i Lampada sentivano il fiato della giustizia sul collo e si sarebbero attivati per capire cosa stesse accadendo: "Deve ritenersi accertato che i fratelli Lampada abbiano attivato una pluralità di canali informativi e fra questi anche il giudice Giglio. [...] Non può che apprezzarsi la qualità dell'informazione fornita dal magistrato che di fatto "anticipa" ai fratelli Lampada quello che sarà per loro l'esito dell'indagine "Meta", vale a dire l'archiviazione dell'accusa per associazione di stampo mafioso e la trasmissione a Milano della terza parte dell'informativa "Meta", quella cioè che in buona sostanza ipotizzava che i Lampada riciclassero per conto della famiglia Condello". Informazioni che, a detta dei giudici milanesi, sarebbero arrivati proprio da Enzo Giglio: "Il giudice Giglio, presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, violando il tal caso un segreto proprio, ha rivelato ai Lampada che presso il suo ufficio non erano pendenti procedimenti a loro carico per l'applicazione di misure di prevenzione, specie quelle di carattere patrimoniale (confisca) cui i germani erano particolarmente sensibili". E sarebbero stati proprio i molteplici incontri nella casa reggina del magistrato i momenti in cui Giglio avrebbe spifferato notizie coperte dal segreto ai Lampada: "Emerge che il magistrato fornì ai Lampada, in occasione dei documentati incontri, la notizia che non vi era iscrizione per 416 bis presso la Procura di Reggio Calabria (informazione che, a prescindere dalla sua veridicità, era comunque illecita), che erano in corso accertamenti su eventuali condotte di riciclaggio poste in essere con "famiglie" calabresi (corrispondente alla terza parte dell'informativa "Meta") e che non vi erano proposte di misure di prevenzione presso la Sezione da lui presieduta. E' altresì certo che il magistrato fosse pienamente consapevole di offrire aiuto informativo ad appartenenti a un sodalizio mafioso e dunque, per la natura delle informazioni fornite, al sodalizio stesso". Nella catena "informativa", un ruolo lo avrebbe rivestito anche l'allora consigliere regionale di centrodestra, Franco Morelli, anch'egli coinvolto e condannato nel procedimento. Tanto che la sentenza d'appello parla di un "turbinio di rivelazioni e di segreti attinenti le indagini reggine e milanesi". Rapporti, quelli con Morelli, che introducono anche la contestazione di corruzione, per cui Giglio è stato condannato, il conferimento di un pubblico impiego alla moglie, Alessandra Sarlo: "L'imponente attività captativa attesta: che il magistrato ed i familiari (la moglie Sarlo e i cugini Giglio) si prodigano, in occasione della campagna elettorale del 2010 per le elezioni regionali calabresi, in favore dei politici Luigi Fedele e Francesco Morelli; che il magistrato, subito dopo il successo elettorale dei due candidati, richiede con insistenza a Morelli una diversa sistemazione lavorativa pubblica per la moglie, Alessandra Sarlo (che versa in una situazione da lui definita di mobbing presso l'amministrazione di provenienza); che, allorquando emerge una problematica connessa a vicende giudiziarie che potrebbe compromettere la carriera politica (la collocazione in Giunta regionale di Scopelliti) e quindi il potere di Morelli, il magistrato, con palese deviazione dai propri doveri, gli fornisce notizie riservate in merito all'assenza di iscrizioni o comunque di indagini a suo carico per reati di mafia". E così Giglio comunicherebbe a Morelli l'assenza di indagini: un fax inviato da una cartoleria di Reggio Calabria a un tabaccheria di Catanzaro, che il politico avrebbe dovuto sventolare sotto il naso al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, affinchè questi intervenisse per far ottenere a Morelli il tanto agognato incarico nella Giunta Scopelliti. Un "sinallagma corrutivo" che per i magistrati milanesi si perfeziona nell'incontro del 18 aprile 2010. Ancora una volta nell'assai frequentata abitazione del giudice Giglio: "In quell'incontro le rispettive esigenze di Francesco Morelli e del magistrato, entrambe già emerse e manifestatesi, si incontrano e si coniugano, quella di Giglio relativa alla sistemazione della moglie Alessandra Sarlo e quella di Morelli di avere la "carta riabilitante". Riabilitazione che, a ben vedere, era anche una delle condizioni perché Morelli potesse attivarsi efficacemente in favore del coniuge del magistrato, anche perché erano ormai divenute urgenti – con l'avvento della nuova amministrazione regionale e quindi la prevista decadenza del distacco in comando di Alessandra Sarlo a seguito dello spoil system – le pretese di sistemazione della predetta". Una sentenza che, al pari di quella di primo grado, si basa su intercettazioni e incroci investigativi: "Gli eloquenti scambi (di sms tra Giglio e Morelli, ndr) comprovano che Morelli – che ha stretto un'alleanza con Fedele per garantirsi la nomina ventilata da Scopelliti ad Alemanno – indica Fedele al magistrato come colui che potrà tornare utile per procurare la sistemazione promessa alla Sarlo". E nel dibattimento, secondo i giudici, il magistrato Giglio mentirà (possibilità prevista dalla legge) per mascherare i propri rapporti con i Lampada: "La prova della menzogna attesta che Giglio sapeva perfettamente che Giulio (Lampada, ndr) non era solamente un imprenditore calabrese al nord, che si era rivolto per un consiglio [...] la negazione mendace rivela al contrario la piena consapevolezza da parte di chi ha mentito della non ostensibilità della verità, vale a dire che i Lampada, conosciuti come ndranghetisti, si erano rivolti a lui per avere informazioni sulla situazione delle indagini certamente a loro carico. [...] E Giglio Vincenzo non si scompone dinnanzi a tale richiesta che denuncia di per sé sola l'appartenenza al sodalizio mafioso di chi la formula. E' emblematico che il magistrato – al pari di politici, medici, altri magistrati, avvocati, finanzieri – continui a rapportarsi con Giulio nonostante sia già emerso (agli inizi del 2009) sulla stampa il sospetto della sua appartenenza alla 'ndrangheta. E' il segno che per tutti l'appartenenza alla 'ndrangheta dei Lampada, essendo a loro ben nota, non rappresentava una sorpresa né un'emergenza valutata come negativa e ostativa al mantenimento e alla prosecuzione del rapporto". Politica, imprenditoria, magistratura e 'ndrangheta. C'è tutto nella rete relazionale dei Giglio, dei Morelli, dei Lampada: "Il giudice Giglio e la moglie attivano tutte le conoscenze politiche – utilmente acquisite tramite i cugini Giglio, che a loro volta vantano e sfruttano la prestigiosa frequentazione del Presidente della Sezione Misure di Prevenzione – funzionali al raggiungimento dell'obiettivo, essendo il magistrato disposto a rendere e pretendere favori". Ma i giudici della Corte d'Appello di Milano vanno oltre e, nel tratteggiare le motivazioni che starebbero alla basa del rapporto tra Giglio e i Lampada, mettono nero su bianco un piccolo trattato sulla definizione della "zona grigia": "Giulio Lampada appartiene alla 'ndrangheta "silente", quella con il volto "accettabile", non disposta a farsi riconoscere con segni eclatanti, quella frequentabile, che fa salve le apparenze, che si accompagna appunto a politici, giudici, medici appartenenti alle Forze dell'Ordine, che da tale frequentazione riceve vantaggi e li elargisce, quella 'ndrangheta caratterizzata da una "doppiezza" insidiosa che è quella stessa che a ben vedere esprime lo stesso magistrato Giglio, ineccepibile nella sua attività giudiziaria, pronto a organizzare con Morelli manifestazioni contro la 'ndrangheta, ma al contempo disponibile a favorire Giulio Lampada e il suo sodalizio". Ora la Cassazione ha messo il punto definitivo sul giudice Giglio, che, in maniera pressoché automatica, verrà radiato dalla magistratura.

Beni confiscati, le intercettazioni: "Il nostro pizzo? Il lavoro per la nuora della Saguto". Le parole di Walter Virga, amministratore giudiziario del patrimonio Rappa, e quelle della ex presidente della sezione Misure di prevenzione: così funzionava il "sistema Saguto", scrive Salvo Palazzolo su “la Repubblica” il 20 ottobre 2015. È una confessione in diretta quella di Walter Virga. E, al contempo, un atto d’accusa. È una delle prove più importanti di tutta l’inchiesta della procura di Caltanissetta e del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza. La mattina del 9 giugno, l’avvocato Virga lo descriveva così il "sistema Saguto", un sistema di nomine ai soliti noti, per amicizia e convenienza: "Da Acanto (uno degli ultimi sequestri fatti a Villabate, ndr) lavora l’archeologo amico di Angelo Ceraulo, è disoccupato". Il giovane Walter, figlio del giudice Tommaso Virga, ex componente del Csm, parlava anche della sua nomina ad amministratore del gruppo Rappa. "Io sono stato nominato in un periodo tale dove... è vero che non c’era il procedimento disciplinare (fa riferimento al fatto che suo padre era nella commissione disciplinare del Csm,ndr) ma secondo te io lavoro là e gli dico...?" Queste parole hanno portato sotto inchiesta anche il padre del giovane Virga. Che intanto, quel giorno di giugno, continuava nel suo sfogo contro il sistema Saguto. "Altra cosa, noi abbiamo avuto, ora ci vuole, a nutricarci la nuora qua". La Saguto aveva imposto la nuora avvocato, Mariangela Pantò, allo studio legale Virga. Il giovane Walter parlava anche di un altro componente del cerchio magico di Silvana Saguto, il professore Carmelo Provenzano. Diceva: "Perché era Provenzano a prendere gli incarichi? Era Provenzano a prendere gli incarichi per il figlio che aveva il problema delle materie che si doveva passare; noi invece avevamo risolto il problema alla nuora, che era tranquilla, abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell’incarico". Uno sfogo importantissimo per l’inchiesta. Quel 9 giugno, qualcosa si era già rotto nel cerchio magico. Virga aveva deciso di allontanare la nuora della Saguto. Per le polemiche sui giornali, e non solo. L’avvocato si lamentava addirittura del trattamento ricevuto dal suo giudice di riferimento, nonostante quel maxi incarico da 800 milioni ricevuto con l’amministrazione Rappa. "Credo che Santangelo (un altro amministratore, ndr) abbia sei incarichi; mentre noi leccavamo il culo a Mariangela (...) meglio averne sei che non sono grandi e guadagnare 3.000 euro l’uno in meno al mese che avere un solo Rappa e guadagnare 3.000 in più". Virga raccontava anche di un colloquio avuto con la nuora della Saguto. Un altro colloquio emblematico. "Lei diceva: 'Uno se fa la lotta alla mafia, allora se lo deve aspettare... se ne deve fregare, mia suocera infatti lo dice sempre che ha fede in Dio e va avanti'". In quella occasione, Virga disse alla nuora del giudice: "'Guarda — gli ho detto — te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato: i magistrati si difendono tra di loro. Quindi, come vedi, tutte queste polemiche (...) io ti dico che pure se non fossero falsità e lo sono, fino al terzo grado di giudizio, 8.000 magistrati ne difendono uno'". Parole pesanti quelle dell’avvocato Walter Virga: "Noi facciamo un altro mestiere (...) sono due mondi diversi', gli ho detto. 'Giustamente il magistrato ci ha la fede, ci ha le cose e un apparato di 8.000 persone dietro che dicono che ha ragione, che è quello che sta succedendo alla Saguto... la Cassazione le ha detto: ah qui marito, nuora e figlio... le hanno detto, intanto risolvitelo e non facciamo niente'". Che è il contrario di quello che è accaduto, con l’inchiesta della procura nissena e della finanza. La decisione di Virga, di allontanare la nuora della Saguto, aveva fatto andare il giudice su tutte le furie. "Sono distrutta, incazzata — diceva al marito — non si può dire come gliela faccio pagare, non si deve presentare". Suo figlio Francesco era invece per una strategia diversa: "Lui dice che devo essere diplomatica, l’ha invitato qui stasera". La Saguto non si dava pace, quel giorno di giugno aggiunse anche un’altra frase diventata molto importante per l’inchiesta: "No, non gliela posso passare... non si buttano a mare le persone, si rischia insieme". Il 15 giugno, Virga si presenta nell’ufficio dalla Saguto, dove la finanza ha piazzato un’altra microspia. Dice: "Speriamo che si risolva tutto velocemente". La giudice non usa mezzi termini: "Non penso che ci sarà un seguito a questa collaborazione". Virga insiste, cerca di non perdere l’incarico. Ma è inutile. La Saguto è categorica: "No, io penso di no, è meglio di no, visto che è andata in questo modo". Il cerchio magico dei favori reciproci con Virga (padre e figlio, secondo l’accusa) si era ormai rotto. Virga chiede di potere tenere una dipendente di Bagagli fino a dopo i saldi. Il giudice risponde in modo gelido: "Faccia un’istanza, valuterò successivamente". Così, a giugno, per Silvana Saguto il problema era trovare un altro posto alla nuora. "L’ha buttata fuori dallo studio — si sfogava con un ufficiale della Dia — da un minuto all’altro in mezzo alla strada". E chiosava: "E quello che abbiamo fatto per lui". L’ufficiale la rassicurava: "Vabbè tanto poi la sistemiamo ancora meglio, non ti preoccupare". La Saguto si sfogò anche con l’avvocato Cappellano: "Virga, un ragazzino da niente, ha avuto quello che ha avuto e questo è il ringraziamento".

Giudice antimafia Saguto: laurea del figlio scritta dal prof che lei ha raccomandato al Cara di Mineo. Elio Caramma, professione chef, si è laureato con una tesi sui beni confiscati a Cosa nostra. Che, però - secondo gli inquirenti - è stata redatta da Carmelo Provenzano, professore universitario alla Kore di Enna, e amministratore giudiziario di fiducia dell'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Lui, al telefono, la ringrazia per la segnalazione del suo nome quale potenziale commissario del centro richiedenti asilo, scrive Giuseppe Pipitone il 22 ottobre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". “Beni sottoposti ad amministrazione giudiziaria: bilanciamento tra tutela del mercato e garanzia della legalità”. È solo il titolo di una tesi di laurea ma a rileggerlo adesso sembra quasi una beffa. Perché quella tesi di laurea in Economia appartiene ad Elio Caramma, di professione chef, ma soprattutto figlio di Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio dalla procura di Caltanissetta. Saguto è al centro di un’inchiesta che ha svelato un gigantesco cerchio magico fatto di favori, regali e prebende nella gestione delle ricchezze sottratte ai boss. Ed è stata anche intercettata mentre definiva i figli di Borsellino “squilibrati e cretini”. Suo figlio, già citato nell’indagine per un incarico ottenuto in un lussuoso hotel di proprietà della famiglia dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, l’asso pigliatutto dell’amministrazione giudiziaria, si è addirittura laureato con una tesi sui beni confiscati a Cosa nostra. Un titolo che, come spiega La Stampa, a Caramma viene suggerito dal vero autore di tutto l’elaborato, e cioè Carmelo Provenzano, professore universitario alla Kore di Enna, amministratore giudiziario di fiducia della Saguto, uno dei componenti del cerchio magico della zarina dei beni confiscati. È Provenzano che scrive – secondo gli inquirenti – la tesi di laurea del figlio della Saguto, ed è sempre Provenzano che cerca di farsi raccomandare dal magistrato per un incarico al Cara di Mineo, il centro per richiedenti asilo finito al centro di Mafia Capitale e commissariato dallo scorso giugno. “Il 12 giugno Provenzano contatta la Saguto ringraziandola per la segnalazione del suo nome al prefetto di Palermo quale potenziale commissario del Cara di Mineo”, si legge nei brogliacci della guardia di finanza. Perché per l’incarico a Mineo, Saguto fa intervenire il prefetto di Palermo Francesca Cannizzo, sua grande amica. “Ti volevo dire che ieri, davanti a me, ha telefonato quella da Roma per chiedere i dati al prefetto”, dice ad un certo punto a Provenzano. Il professore gongola: “Mamma mia se è così, prima di festeggiare, un bacio in bocca ti do guarda. Sei una potenza”. Ma non solo. Perché Saguto era riuscita a trovare un lavoro al Cara di Mineo anche a suo marito Lorenzo Caramma, coinvolto con lei nell’inchiesta nissena, già titolare di una serie diincarichi concessi da altri amministratori giudiziari. Caramma aveva trovato l’accordo con Davide Franco, commercialista amministratore del centro richiedenti asilo di Mineo, che aveva “avuto il numero” del marito della Saguto da Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma. “E’ vero, ho chiesto all’ingegnere Lorenzo Caramma se fosse interessato a collaborare al Cara di Mineo. Tuttavia i primi di settembre abbiamo ritenuto opportuno interrompere questa ipotesi lavorativa con l’ingegnere dato che dai giornali apprendemmo dell’inchiesta di Caltanissetta. Lo abbiamo fatto per motivi di opportunità”, spiega il commercialista Franco. E mentre da una parte Saguto chiedeva al prefetto aiuto per trovare incarichi al Cara di Mineo, dall’altra contattava l’amministratore giudiziario Alessandro Scimeca per sollecitare assunzioni chieste dallo stesso prefetto. “Io – dice intercettata il 28 agosto – ti devo chiedere il favore per il prefetto: di quello là da assumere”. Sono invece propositi di vendetta quelli promessi dal magistrato nei confronti dell’avvocato Walter Virga, figlio di Tommaso, magistrato ed ex componente togato del Csm. I due Virga sono finiti entrambi coinvolti dall’inchiesta nissena. Virga junior, infatti, era stato nominato amministratore giudiziario del gruppo Bagagli e delle aziende sequestrate alla famiglia Rappa: negozi, concessionarie d’auto di lusso, tv private, un tesoro da quasi un miliardo di euro. In cambio – secondo l’accusa – Virga aveva assunto Mariangela Pantò, fidanzata del figlio della Saguto, nel suo studio legale. “Abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell’incarico”, commenta in un’intercettazione. Appena inizia a scoppiare lo scandalo, però, Virga preferisce “licenziare” la fidanzata del figlio della Saguto. La reazione del magistrato è rovente. “Sono distrutta, incazzata non si può dire come gliela faccio pagare, non si buttano a mare le persone, si rischia insieme”. Poi riceve Virga e gelida sentenzia: “Non penso che ci sarà un seguito a questa collaborazione”.

La Magistratura impegnata (nella strenua difesa di se stessa), scrive Achille Saletti il 22 ottobre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". E dedicare qualche riga, oltre che alla politica rapace, a una Magistratura che difende se stessa con un piglio degno di cause migliori? Anche in questo caso sembra di sparare sul pianista: lo scontro ai vertici di una delle procure italiane più importanti si è ridotta ad un buffetto dato con grande delicatezza ai due protagonisti dell’affaire. Bruti Liberati, procuratore della Repubblica di Milano e Alfredo Robledo, sostituto della stessa Procura. Scontro di potere inaudito che ha fatto emergere dimenticanze, stranezze, stravaganze procedurali, insomma quell’insieme di comportamenti che nel retrobottega di un biscazziere, forse, sono normalità ma nel palazzo di vetro di una Procura, opacizzano anche quei colleghi che con serietà e dedizione si ostinano ad indossare il nobile abito di servitore dello Stato. Il Consiglio superiore della Magistratura ha sapientemente atteso la data di pensionamento di Bruti Liberati che, così facendo toglie le castagne dal fuoco. Per Robledo un bel trasferimento, nemmeno tanto lontano (Torino) e tutti giù per terra. Sempre in terra milanese, il giudice Ferdinando Esposito avrebbe abitato in un lussuoso appartamento pagato da amici. Trasferito anche lui a Torino, quasi che Torino fosse il rifugio degli scarti di Milano, o forse perché c’è l’alta velocità che permette di andare in 40 minuti e mantenere la residenza a Milano, chi lo sa? Vuoi mai che debbano dormire qualche notte fuori casa. Si chiude Milano e si apre Palermo: fatti noti e nemmeno sconosciuti tra chi aveva a che fare quotidianamente con confische e sequestri. Il magistrato che se ne occupava, la sapiente Saguto, si alimentava in un supermercato confiscato (da lei) senza pagare alcunché. Dispensava fraterni giudizi ai figli di uno dei magistrati che, tra i tanti, ha particolarmente onorato la professione pagando il prezzo della vita e chiudeva entrambi gli occhi su consulenze date al marito da curatori giudiziari da lei scelti. Sospesa in attesa di capirci qualche cosa? No, chiaramente, solamente trasferita. C’è insomma, sufficiente materiale da rendere la faccia del segretario della Associazione nazionale magistrati simile a quella di un ovale al cui interno campeggia un grande punto interrogativo. E questa, per alcuni, sarebbe la parte migliore del Paese e della Pubblica amministrazione. Parte che, se interessata a possibili riforme, si straccia le vesti prima ancora di comprendere in cosa consistano le riforme. Evidentemente a Rodolfo Sabelli, l’ipotetico punto interrogativo di cui sopra, questa Magistratura così feroce con se stessa piace assai perché si sente raramente alzare la voce affinché i suoi colleghi, quando coinvolti in situazioni poco limpide, prendano una sana aspettativa senza pretendere stipendio e incarichi in attesa degli auspicati chiarimenti. Poi, la ferocia si trova in altri settori della P.A quali quelli penitenziari che licenziano un’educatrice rea di avere un pensiero non esattamente ortodosso sulla Tav. Ma per gli educatori non c’è ordine, corporazione o altro che possa difenderli. Loro non sono considerati la parte migliore del Paese.

Franco La Torre: "C'è un'antimafia fatta da mafiosi ma non fermerà le persone oneste". Parla il figlio del segretario regionale del Pci ucciso nel 1982: "La politica ha delegato la lotta agli inquirenti, così sono nati gli intoccabili", scrive Giorgio Ruta su “la Repubblica” del 22 ottobre 2015.  "In quella telefonata forse la Saguto ha mostrato il suo vero volto". Franco La Torre, figlio di Pio, il segretario regionale del Pci ucciso a Palermo nel 1982, non fa giri di parole sulle frasi del giudice contro Manfredi e Lucia Borsellino. "La politica ha delegato la lotta alla mafia a magistrati e forze dell'ordine favorendo la nascita di eroi intoccabili".

La Torre, quello che viene fuori è un'antimafia utilizzata come copertura per interessi privati.

"Penso che l'antimafia spesso sia fatta dalla mafia stessa. Faccio un ragionamento. Chi ha interesse a trasformare l'antimafia in un affare? Conviene un'antimafia fatta dai mafiosi rispetto a quella portata avanti dalle persone perbene. Perché attraverso di essa ci si ripulisce l'immagine o si getta fango su quelli che si impegnano seriamente. E si può guadagnare anche qualche quattrino. Quando uno si presenta in un'amministrazione pubblica con un bel progetto culturale spesso si sente dire che non ci sono soldi, ma con una bella iniziativa antimafia qualche finanziamento ci scappa".

Il quadro che ha dipinto è lo stesso del caso Saguto?

"Sappiamo benissimo che se andiamo alla ricerca di coppole e lupare non ne troviamo di mafiosi, invece io ricordo la relazione di mio padre del 1976 in cui diceva che la mafia è un fenomeno di classi dirigenti. Il caso della Saguto è classico, il magistrato si approfitta della sua posizione, non esita a contravvenire alla legge e, da quando si legge nelle intercettazioni, intimidisce delle persone. Questo è un atteggiamento mafioso".

Questa vicenda è un duro colpo al progetto di suo padre e alla legislazione che ha ideato per aggredire il patrimonio della criminalità organizzata?

"Si, senza dubbio. D'altronde i governi che si sono susseguiti fino ad oggi non hanno avuto la questione a cuore. Siamo in un paese bizzarro, dove da un lato c'è la più efficace legislazione antimafia, ma dall'altro la politica pensa che il problema sia della magistratura e delle forze dell'ordine. Siamo in un paese dove non ci si è accorto di quello che accadeva a Palermo. E in certi ambienti si sapeva bene quello che succedeva, anche perché in molti ci campavano con la Saguto".

Delegare responsabilità alla magistratura, crea eroi intoccabili dell'antimafia?

"Si, succede questo. È il rischio che si corre e che abbiamo corso".

Secondo lei, la Saguto è una mela marcia o è parte di un sistema?

"È una mela marcia rispetto alla sua categoria di appartenenza, ma è parte del sistema. Quel sistema che se ne frega, che pensa agli interessi personali, che pensa agli amici e ai familiari. Chi era dall'altra parte del telefono quando la Saguto insultava Manfredi e Lucia Borsellino non ha abbassato la cornetta. Anche questo è sistema".

Perché ci si accanisce contro i figli di Paolo Borsellino?

"Le mie sono ipotesi, non ho elementi per fare altro. Ma penso che in quella telefonata la Saguto abbia mostrato il suo vero volto, dopo aver fatto la parte a una manifestazione per commemorare il magistrato ucciso. Probabilmente, avrebbe parlato male anche di me, dopo aver ricordato mio padre".

Questa vicenda pone una questione sul fronte dell'antimafia. Bisogna ripartire da zero?

"Bisogna fermarsi a riflettere. Io faccio parte di Libera e da tempo diciamo che non vogliamo sapere nulla del termine antimafia. Noi abbiamo, per esempio, alzato il livello di attenzione. Quando venivo invitato a delle iniziative, io prima mi limitavo a capire che l'organizzatore non fosse un approfittatore. Oggi faccio molta più selezione".

C'è il rischio che nell'opinione pubblica passi il messaggio che l'antimafia è tutta uguale, che non si distingua tra chi si impegna in maniera seria e chi lo fa per interessi personali.

"È come la politica, come la classica frase "fanno tutti schifo". Noi spesso invertiamo l'effetto con la causa. Non è l'antimafia che fa schifo, sono i mafiosi che stanno rovinando l'antimafia. In questo modo si rischia di non essere più credibili. Ma chi pensa che così saranno fermate le persone per bene sbaglia".

Delegittimare la Magistratura? Scrive Salvo Vitale su "Telejato".

QUALCHE GIORNO FA ABBIAMO SENTITO UNA POCO FELICE USCITA DEL GIUDICE MOROSINI, DA POCO ELETTO COME MEMBRO DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA E QUINDI IN VISITA A PALERMO, CIOÈ PRESSO LA PROCURA IN CUI HA LAVORATO E A CUI APPARTIENE, CON I SUOI COLLEGHI, SU INVITO DEL PRESIDENTE MATTARELLA, CHE DI QUEL CONSIGLIO HA FATTO PARTE, DOPO IL TERREMOTO CHE HA SCOSSO L’UFFICIO MISURE DI PREVENZIONE.

Compito del Consiglio è quello di individuare se, nell’operato dei cinque magistrati coinvolti, Saguto, Scaletta, Licata, Chiaromonte e Virga, ci sono gli elementi per un trasferimento per incompatibilità ambientale e quindi valutare l’opportunità di un loro trasferimento ad altra sede. Vogliamo precisare che Morosini, che è stato segretario nazionale di Magistratura Democratica, è un giudice serio, competente, attento, che ha svolto un prezioso lavoro a Palermo: lo abbiamo ospitato nei nostri studi per un’intervista condotta da Salvo Vitale sul suo libro “Il Gotha di Cosa Nostra”. Adesso, non è chiaro se spinto da particolari personali motivi, riferendosi alle attuali vicende del tribunale di Palermo, ha detto che si sta correndo il rischio di delegittimare la magistratura. E qui vorremmo capire: a quale magistratura si riferisce, giudice Morosini, a quella della Saguto o quella del suo collega Di Matteo? Quella che diffonde la notizia di un attentato farlocco, basato su un’intercettazione vecchia di un anno, per rafforzare la sua immagine di giudice nel mirino, a cui, per questo, è stata comprata una macchina da 250 mila euro, o quella di un giudice sulla cui pelle passeggiano a Palermo cento chili di tritolo che non si trovano? Quella di suoi colleghi che spiccano decreti di sequestro su vaghi indizi o quella degli altri suoi colleghi, come Teresi, Del Bene, e altri che lei ben conosce, costantemente esposti, per la delicatezza del loro ruolo e delle loro indagini? Quella del giudice Carnevale, l’ammazzasentenze, o quella di Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Terranova, e tanti altri, che hanno perso la vita per fare il loro dovere? L’uscita, la teoria che la magistratura non si tocca, perché venendo meno il potere giudiziario vengono meno le basi della convivenza civile, è rischiosa e inaccettabile per un paese democratico: le regole della società civile valgono anche per i magistrati ed è nella fiducia per la bontà del loro operato che la società civile si riconosce, non in leggi che, nate in certi momenti, rischiano di dare a chi vuole servirsene, poteri illimitati emettendo provvedimenti privi di quella sanzione che è la base su cui andrebbe emesso il provvedimento. Questa sorta di tabù che la sinistra si è portato appresso, secondo cui i magistrati non si toccano, non è accettabile. Fra l’altro la considerazione sembra simile a quella che la Saguto ha espresso alla Commissione Antimafia, chiaramente riferendosi alla nostra campagna giornalistica: “…ci troviamo davanti a un attacco al sistema…quando sta producendo più risultati” E quindi chi attacca “il sistema” fa il gioco della mafia. Scherziamo? Non è “il sistema”, ma il sistema “Saguto”. Quindi stia tranquillo, dott. Morosini, nessuno vuole delegittimare la magistratura, ma è nell’interesse nostro, di tutti e soprattutto di lei che la rappresenta, volere una magistratura onesta, corretta e che sia al servizio della comunità.

Paolo Borsellino: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.

“Quel pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo, per motivi di lavoro. E quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli”. Alfredo Morvillo, procuratore della Repubblica di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone anch’essa uccisa a Capaci, racconta a “Voci del mattino”, Radio 1 del 21 maggio 2015, i drammatici momenti in cui apprese della strage. “Quando si è in prima linea come lo era Giovanni, ci si abitua a convivere con una certa tensione e si ci concentra unicamente sul lavoro. – aggiunge – Giovanni non sottovalutava i rischi cui andava incontro, ma da quando era Direttore al Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma, aveva un po’ allentato l’attenzione sulla sicurezza, tanto è vero che qualche volta capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante”. “È noto a tutti – continua – che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e gli ostacoli incontrati lo avevano convinto a spostarsi a Roma, al Ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa, non convinti del lavoro di squadra, lo ostacolarono in tutti i modi. Arrivarono anche a prenderlo in giro dicendo che, dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la "Procura planetaria". In conclusione, all’interno del tribunale vi era una parte di colleghi che sicuramente non lo amava”. Per Morvillo inoltre “se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un po’ allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo lì non sarebbe stato affatto impossibile. Bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia e che non si potesse pensare ad altro”.

Giovanni Falcone spiega la crisi dei giudici: "più impiegati che professionisti. "Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili". Lo dice Giovanni Falcone, giudice istruttore a Palermo, scrive Fabrizio Ravelli il 06 novembre 1988 su “La Repubblica”. Parla di sé e dei propri colleghi: Tende a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato-impiegato. Basta col magistrato-impiegato, che si rifugia nelle comode e tranquillanti certezze di una carriera ispirata al criterio dell' anzianità senza demerito. Professionalità ci vuole: bisogna studiare, aggiornarsi, selezionare i migliori. E basta anche con un' Associazione magistrati che è sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi, basta con le correnti che si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio superiore della magistratura. Falcone parla per mezz' ora davanti a una platea attenta. La sala affollata dal primo convegno nazionale del Movimento per la giustizia si aspetta un intervento importante. Ma le 26 cartelle che il giudice legge hanno comunque l' effetto di una cannonata. I temi sono quelli del Movimento nato pochi mesi fa: non c' è dubbio però che Falcone li passa in rassegna con una forza autocritica, con un vigore di analisi che fa scricchiolare le consuetudini formali. Punto di partenza, i risultati del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Battaglia persa, e se si abbandona la sindrome permanente da stato d' assedio bisogna prenderne atto: Non può non riconoscersi che il referendum, a prescindere da qualsiasi sua strumentalizzazione, ha consentito di accertare, senza equivoci, un dato estremamente significativo: e cioè che la stragrande maggioranza dell' elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non è svolta attualmente con la necessaria professionalità e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati. La gente non si fida di come lavorano i giudici. Bisogna riconoscere responsabilmente, in altri termini, che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo insoddisfacente: il che riguarda direttamente i criteri di reclutamento e quelli riguardanti la progressione nella cosiddetta carriera, l' aggiornamento professionale e i relativi controlli, la stessa organizzazione degli uffici e la nomina dei dirigenti. Il linguaggio è chiaro: l' azienda giustizia deve garantire un servizio ai cittadini, questo servizio è cattivo, non si vede perché non adottare quei criteri di rendimento e competitività che una qualsiasi azienda usa per evitare il fallimento. Professionalità: batte e ribatte su questo tasto il giudice Falcone. Professionalità di base, intanto: Il magistrato, attualmente, viene ammesso in carriera sulla base di un bagaglio culturale meramente nozionistico, e l' affinamento delle qualità professionali, in definitiva, è affidato esclusivamente al senso di responsabilità e alla buona volontà del singolo. Trasferimenti, assegnazione di funzioni e nomine ai posti direttivi solo in minima parte tengono conto delle specifiche attitudini e dell' esperienza professionale. Si vedono carriere in funzione di controllo dell' elettorato, che tendono a preferire chi assicura una migliore resa in termini elettorali. Decidono le correnti, macchine elettorali anche se per fortuna non tutte in egual misura: quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata anche in seno all' organo di autogoverno della magistratura, con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica. Caccia al voto esasperata e ricorrente e difesa corporativa della categoria: le conseguenze sono state di enorme portata e hanno investito la stessa professionalità del giudice. Autonomia e indipendenza sono valori che vengono sempre più interpretati dalla società come inammissibili privilegi di natura corporativa. E invece vanno difesi proprio garantendo un servizio-giustizia efficiente e adeguato. In questo senso, conclude Falcone, il nuovo codice di procedura penale sarà un severissimo banco di prova. Ma è una autentica conquista di civiltà: i magistrati vi si preparino adeguando anche le loro strutture mentali.

E poi danno lezioni di legalità!

Appalti, sei arresti e 14 indagati per gli affari tra camorra e coop emiliana Cpl Concordia. L'inchiesta della Dda di Napoli sull’appalto per la metanizzazione di sette comuni dell’agro aversano la potremmo ricordare come il “manuale Iovine-Zagaria”. Tra gli indagati l’ex senatore Ds Lorenzo Diana, scrive Andrea Palladino su “L’Espresso”. Un “pacchetto assistenza”. Tutto compreso, per non avere nessun problema, nessun ritardo, grazie a quella particolare copertura che solo i clan possono garantire. Nessuna estorsione, arma che i clan utilizzano per i piccoli affari, quando non c’è un accordo quadro in grado di accontentare tutti, mantenendo - nel contempo - quel basso profilo necessario per non attirare l’attenzione della magistratura. Soldi, affari, accordi riservati. E voti per i politici garanti dei patti. La prima discovery dell’inchiesta della Dda di Napoli e le indagini dei Noe sull’appalto della CPL Concordia per la metanizzazione di sette comuni dell’agro aversano la potremmo ricordare come il “manuale Iovine-Zagaria”, dove - secondo i magistrati - la coop emiliana gioco un ruolo da protagonista. Sei gli arresti, quattro in carcere e due ai domiciliari. Quattordici gli indagati, tra i quali l’ex senatore Ds Lorenzo Diana, conosciuto, fino alle prime indiscrezioni sull’inchiesta, come un’icona antimafia. In carcere sono finiti, con la pesante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, Roberto Casari, presidente della CPL Concordia fino allo scorso febbraio, e Giuseppe Cinquanta, responsabile commerciale della coop emiliana per Campania, Lazio e Sardegna dal 1997 al 2005. Accusa più pesante per altri due imprenditori finiti in manette, Antonio Piccolo e Claudio Schiavone. Per loro la Procura di Napoli ha ipotizzato la partecipazione a pieno titolo al cartello dei casalesi. Le dichiarazioni di Antonio Iovine e degli ultimi collaboratori di giustizia che stanno disegnando in questi mesi il rapporto tra casalesi, imprese e politica mostrano un tavolino degli appalti sofisticato e funzionale. Un accordo a tre in grado di muovere, senza grandi intoppi, cifre milionarie. Come per la metanizzazione di sette comuni dell’agro aversano, che ha visto protagonista la coop emiliana CPL Concordia. Già durante l’udienza per il processo contro l'ex sindaco Pd di Villa Literno (Caserta) ed ex consigliere regionale Enrico Fabozzi - poi condannato in primo grado a 10 anni di reclusione - Antonio Iovine aveva citato l’appalto affidato alla CPL Concordia come uno dei grandi lavori controllati dai casalesi. I magistrati napoletani hanno approfondito per mesi quelle dichiarazioni, anche grazie ad altri collaboratori interrogati nei mesi scorsi. Iovine - che insieme a Michele Zagaria rappresenta la parte imprenditoriale del cartello - ha orientato la sua collaborazione sul livello economico fin dai primi interrogatori. La pista dei soldi, in altre parole, la strada che può portare gli investigatori ai piani alti, dove sul tavolino a tre gambe degli appalti si decidono le grandi opere. “L’imprenditore veniva da me, ovviamente conscio di chi fossi - ha raccontato ai magistrati della Dda di Napoli il collaboratore di giustizia - per avere ogni garanzia che i lavori potessero essere espletati liberamente, senza condizionamenti”. Non una estorsione, spiega, ma un accordo: “L’imprenditore acquistava da me un vero e proprio pacchetto di assistenza. (…) L’imprenditore non solo si garantiva che nessuna famiglia disturbasse i lavori, ma si garantiva, ad esempio, la possibilità di chiedermi di intervenire o di spendere anche solo il mio nome nei confronti di fornitori, dipendenti, funzionari comunali, sindaci che potevano intralciare, magari anche legittimamente, i lavori”. L’olio necessario per far funzionare la macchina degli appalti. E’ la fine degli anni ’90 quando la coop emiliana sbarca in terra di Lavoro. Secondo le testimonianze dei collaboratori il tramite è stato Antonio Piccolo, ritenuto imprenditore di riferimento di Michele Zagaria, il boss di Casapesenna. Inizialmente i lavori di metanizzazione erano stati affidati ad un’altra società, la romana Eurogas. Tutto, però, era fermo. I soldi non c’erano, e quella concessione era poco più di un pezzo di carta. L’11 giugno 1997 Eurogas cede - a titolo gratuito - il titolo alla Cpl Concordia. Due mesi dopo - osservano gli investigatori - viene approvata la legge 266/1997 che concede 1000 miliardi di lire alla metanizzazione nel sud. Quell’appalto si trasforma in un bottino da centinaia di milioni di lire. Secondo alcune testimonianze - in buona parte riscontrate - Antonio Piccolo aveva conosciuto i vertici di CPL Concordia a Modena, dove lavorava come imprenditore, anche grazie ai contatti arrivati dal suo referente Zagaria. Il punto chiave dell’accusa - alla base dell’ipotesi del concorso esterno - sta in questo passaggio chiave: con la coop emiliana vi sarebbe stato un vero e proprio accordo imprenditoriale e non una successiva estorsione. Iovine sul punto del rapporto con le imprese - soprattutto per i grandi lavori - ha disegnato un quadro chiaro: “Di fatto io diventavo un socio occulto di questi imprenditori. Io non impiegavo denaro per la mia partecipazione alla società ma ciò che io conferivo era la forza intimidatrice del clan (…). Ne nasceva una società imprenditore-camorra che usava come paravento formale l’impresa dell’imprenditore colluso”. Erano questi imprenditori organici ai clan a fare da trait-d’union con le i grandi gruppi. Come Antonio Piccolo, referente di Zagaria secondo i magistrati, che dopo aver fatto da tramite con CPL Concordia si sarebbe occupato di avvicinare tutti i sindaci della zona, per avere il loro consenso. Solo in un caso i clan avrebbero lasciato un margine di manovra. A San Cipriano D’Aversa - spiegano i collaboratori di giustizia - l’allora senatore Ds Lorenzo Diana aveva una forte influenza. La scelta dell’impresa a cui affidare in subappalto i lavori venne quindi lasciata al sindaco Angelo Reccia, legato al parlamentare. Il nome scelto - la ditta riconducibile al cugino del primo cittadino Pirozzi - era, secondo le testimonianze raccolte dai magistrati - vicino ai clan. Lorenzo Diana - che ha recentemente querelato per calunnia Antonio Iovine, subito dopo le prime indiscrezioni sulle sue dichiarazioni - avrebbe avuto un ruolo di facilitatore politico per l’appalto della CPL Concordia. Racconta il collaboratore Giacomo Caterino: “Diana si preoccupò di trovare le adesioni dei diversi sindaci dei comuni interessati alla metanizzazione, di aree politiche di sinistra come ad esempio San Marcellino, San Cipriano e Parete e ci riuscì facilmente anche per la sua posizione che lo vedeva con un incarico nella commissione parlamentare antimafia”. Secondo la ricostruzione dei magistrati, l’ex senatore dispose a quel punto di stabilire la sede della CPL a San Cipriano e indicò i dipendenti che la società avrebbe dovuto assumere. “Era una tecnica per ottenere voti”, spiegano i collaboratori di giustizia. Di certo i rapporti tra Lorenzo Diana e il presidente della coop emiliana sono stretti: “Si richiama la conversazione tra Diana Lorenzo e Casari Roberto - annota il Gip nell’ordinanza di custodia cautelare che ha colpito l’ex presidente di CPL Concordia - in cui si profila la linea difensiva dell’estorsione”.

Coop rosse, indagato per mafia l’eroe antimafia del Pd Lorenzo Diana, scrive Caterina Maniaci su “Libero Quotidiano”. Un curriculum algido, di quelli da vera icona: ex senatore del Pds, amico personale di Roberto Saviano - marchio doc dell’impegno civile - che l’ha citato nel libro-totem Gomorra come unico politico realmente positivo, ospite quasi d’obbligo in convegni e dibattiti sulla legalità e la lotta al crimine organizzato. Ed ora il suo nome, Lorenzo Diana, compare tra quelli degli indagati dell’inchiesta della Dda di Napoli sul presunto patto tra Cpl Concordia e clan dei Casalesi per la metanizzazione dell’agro aversano. Diana risulta indagato per concorso esterno in associazione camorristica ( e proprio a sostegno sia pure indiretto dei Casalesi) per corruzione (già prescritta) e per abuso d’ufficio in due distinte ordinanze. Solo in una di queste il gip ha disposto per lui una misura cautelare lieve, e solo per reati contro la pubblica amministrazione: il divieto di dimora in Campania. In una delle due ordinanze Diana è dunque accusato di aver convinto un sostituto procuratore federale Figc, Manolo Iengo, ad attestare falsamente che il figlio Daniele aveva ricoperto un ruolo di dirigente in una squadra di calcio di serie D. Certificato che avrebbe poi consentito al figlio di accedere a corsi e master di dirigente sportivo. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Diana in seguito avrebbe conferito a Iengo degli incarichi di assistenza giudiziale e stragiudiziale del Caan, il Centro Agroalimentare di Volla-Napoli. Anche Iengo è stato colpito dal provvedimento di divieto di dimora. Durissime le valutazioni del Gip Federica Colucci: «Lorenzo Diana, per favorire il figlio Daniele (avrebbe) messo in moto le sue conoscenze al fine di ottenere una falsa attestazione in spregio a quella cultura della legalità della quale si spaccia per paladino, avendo ricoperto tra l’altro, come da suo Curriculum Vitae, vari incarichi tra i quali figurano presidente nazionale Rete per la legalità, Presidente Premio nazionale Paolo Borsellino, Membro del direttivo della Fondazione Caponnetto, nonché insignito del Premio nazionale Paolo Borsellino nel 2008 e Premio Nazionale Custode della legalità». Ed è sottolineato, appunto, quanto sia grave la sua posizione proprio per via della sua «patente» di difensore della legalità: «Invero l’indagato non solo dimostra remore a commettere reati anche gravi ma agisce sotto l’egida di un difensore della legalità», scrive infatti il giudice, tra le altre cose. «Non ho letto ancora il provvedimento e cosa mi si addebita. Mi sembra di essere tra un sogno e Scherzi a parte», ha commentato Diana a caldo. In manette ex dirigenti della coop rossa modenese (tra i quali l’ex presidente Roberto Casari, già finito in carcere nell’inchiesta sulla metanizzazione di Ischia), subappaltatori e imprenditori della metanizzazione compiuta nei comuni tra Casal di Principe, Casapesenna e limitrofi, il bacino Caserta 30. Sono dunque sei le ordinanze cautelari sono state notificate nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Napoli sulla metanizzazione dei Comuni del Casertano da parte della Cpl Concordia, mentre sono due ordinanze che impongono il divieto di dimora a Diana e a Iengo. Fondamentali le dichiarazioni di Antonio Iovine, l’ex boss dei Casalesi da circa un anno collaboratore di giustizia. Secondo i pm Cesare Sirignano, Catello Maresca e Maurizio Giordano e il pm della Dna Francesco Curcio, Diana avrebbe avuto un ruolo attivo nel patto tra l’impresa e la camorra, ottenendone un tornaconto in termini di rafforzamento dell’influenza politica sul territorio. Però, occorre sottolineare, l’ex senatore, attualmente presidente del Caan, non è tra gli arrestati. Ad assegnare la guida del Caan a Diana è stato Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, considerando che il Comune detiene la maggioranza delle quote del Centro. Proprio in virtu’ di ciò, de Magistris ha annunciato che si pone la necessità di «sostituire ad horas Diana a tutela nostra - e per consentirgli di difendersi in modo completamente libero da qualsiasi incarico».

"Delinque fingendosi paladino della legge". L'ex senatore Ds Diana coinvolto nell'inchiesta Cpl Concordia. Il gip: "Comportamento spregevole", scrive Simone il 05/07/2015 su “Il Giornale”. Sotto la rassicurante parvenza di paladino del bene, si nasconde una «personalità doppiamente trasgressiva». È un diavolo dalla faccia buona, l'ex senatore Ds Lorenzo Diana. Indagato per concorso esterno con gli ex vertici della coop rossa Cpl Concordia per gli appalti del gas affidati alle ditte dei Casalesi, l'icona antimafia viene fatta a pezzi dal gip Federica Colucci nella ordinanza di divieto di dimora in Campania per abuso d'ufficio in un diverso fascicolo. Per il giudice, Diana «non solo non dimostra remore a commettere reati anche gravi ma agisce sotto l'egida di un difensore della legalità». Tanto che, mentre briga con un avvocato amico per ottenere una falsa attestazione Figc che consenta al figlio Daniele di partecipare a un master Fifa, non rinuncia a svolgere «attività di relatore in convegni sulla legalità insieme a magistrati noti per il loro impegno antimafia» accompagnato addirittura dalla scorta. Un comportamento che il gip definisce «spregevole». E poco importa che l'ex parlamentare, stimato da Roberto Saviano che ne tesse le lodi in Gomorra , sia «formalmente incensurato» e anzi rivendichi in una intercettazione di aver contribuito a mandare in galera tre sindaci con «cinque pagine di dichiarazioni». Dagli atti raccolti dai pm Sirignano e Maresca emergono infatti «pregressi reati contro la Pubblica amministrazione non perseguiti» solo perché prescritti oltre che i gravi indizi di aver agevolato i tagliagole della cosca casertana a lucrare sul business della metanizzazione. I magistrati della Dda – annota ancora il gip – non hanno chiesto la misura cautelare pure per l'ex parlamentare solo perché è passato molto tempo dai fatti. Lui ovviamente si difende attaccando il pentito Antonio Iovine che per primo lo ha indicato come il garante politico dell'accordo criminale. «È la vendetta di chi cerca di coprire gli ingenti patrimoni accumulati negli anni delegittimando chi come me è l'unica memoria storica in grado di ricostruire la sua carriera criminale». In realtà, a parlare di Diana – licenziato a tempo di record dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris dal vertice del Centro agro-alimentare di Volla di cui era da 4 anni presidente – sono altri tre pentiti. Uno dei quali, Nicola Panaro, rivela che l'ex parlamentare e l'allora sindaco di San Cipriano d'Aversa indicarono autonomamente il nome del subappaltatore a cui la Concordia avrebbe fatto aprire un cantiere. Non uno stinco di santo, ma un imprenditore colluso come tutti gli altri. È sempre Iovine a parlare: «Noi del clan sapevamo che in quella zona aveva un peso politico l'onorevole Lorenzo Diana e per evitare problemi con la legge, preferimmo non intervenire direttamente. Ebbene, la ditta che fece i lavori era comunque una ditta nostra e cioè quella dell'imprenditore Pietro Pirozzi (…) Il sindaco che affidò i lavori a Pirozzi era Angelo Reccia, persona strettamente legata politicamente a Diana». Quando la notizia delle indagini sul gas della camorra filtra sui giornali, Diana viene intercettato mentre parla al telefono con l'ex presidente dell'azienda modenese Roberto Casari (da due giorni in galera) che gli rinfaccia i guai che sta passando per l'appalto a Casal di Principe. «Ci sono andato, ricordi? Avevo delle perplessità, dopo fai lavorare la gente del posto e amen insomma – dice il manager – Quando ce lo hai chiesto, noi ci siamo andati, abbiamo cercato di fare le cose fatte bene e via che siamo andati, poi salta fuori questa cosa qua...». Diana traccheggia al telefono. Dimostra di aver letto attentamente le anticipazioni sui siti locali ed è curioso di leggere l'avviso di garanzia per concorso esterno a Casari («Però occhio... comunque se puoi girarmi, posso darti la mia mail oppure...», gli suggerisce) ma al cellulare minimizza tutta la storia. Convinto probabilmente che lo scudo dell'impegno antimafia e degli incarichi (premio nazionale Paolo Borsellino nel 2008 e premio nazionale Custode della legalità) lo tengano al riparo da brutte sorprese.

E poi più giù...

Sicilia, Lucia Borsellino annuncia dimissioni: terzo caso in pochi giorni. "Prevalenti ragioni di ordine etico e morale, e quindi personale, sempre più inconciliabili con la prosecuzione del mio mandato, mi spingono a questa decisione", scrive la Borsellino a Crocetta. La Borsellino dice di lasciare "un sistema con innegabili segni di ripresa" ma segnala "vari accadimenti che hanno aggredito la credibilità dell'istituzione e, quindi, della mia persona". L'ormai ex assessore ricorda il caso della piccola Nicole ("emblematico di un pregiudizio istituzionale sul funzionamento del sistema sanitario nel suo complesso" e si sofferma sulla vicenda Tutino. "Non posso non manifestare il rammarico - scrive - conseguente alla lesione che fatti come questo determinano inevitabilmente all'immagine dell'intera Regione, adombrando il lavoro di tanti operatori. Fatti come questi - prosegue la Borsellino - determinano altresì, in un settore come quello della sanità contrassegnato da vicende che in un recentissimo passato ci hanno consegnato l'immagine di un sistema di malaffare, un grave danno sulla capacità attrattiva del sistema sanitario regionale e, come accaduto nello specifico, di una delle più importanti aziende ospedaliere dell'Isola".

Lucia Borsellino dimissioni: "Ho chiuso con la politica, non capisco l'antimafia come categoria". "Oggi torno a essere la figlia di Paolo. E, in nome dei suoi semplici insegnamenti, chiedo a tutti di non invitarmi, il 19 luglio, alla commemorazione di via D'Amelio". A dirlo - in un'intervista a Repubblica del 2 luglio 2015 - è Lucia Borsellino, che si è dimessa dalla carica di assessore siciliano alla Sanità. "Questa è stata la mia prima esperienza politica, sarà anche l'ultima", afferma. Spiegando le ragioni della sua scelta, sottolinea che "si sono persi di vista gli obiettivi, la coerenza rispetto al progetto iniziale. C'è stato un abbassamento di tensione. Anche morale". Ricorda di aver annunciato le sue dimissioni già a febbraio, poi la vicenda di Tutino, il medico del governatore Crocetta arrestato per truffa, "ha contribuito a rafforzare la mia decisione. Quella storia ha leso l'immagine di un'intera Regione". "Non nascondo - aggiunge - che il rapporto fra Crocetta e questo primario mi ha creato forte disagio in questi anni", "quest'amicizia, sempre ostentata da Tutino, ha molto condizionato la vita di una grande azienda ospedaliera di Palermo". "Chiedo a tutti di non invitarmi, il 19 luglio, alla commemorazione di via D'Amelio", conclude sottolineando che "non capisco l'antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale. Sembra quasi un modo per cristallizzare la funzione di alcune persone, magari per costruire carriere. La legalità, per me, non è facciata, è una precondizione di qualsiasi attività".

Dopo Leotta e Caleca, la figlia del magistrato assassinato in via d'Amelio anticipa di volere rimettere il suo incarico nelle mani del governatore Crocetta. Decisivo sarebbe stato l'arresto di Matteo Tutino, medico personale del presidente accusato di truffa per aver praticato interventi estetici, spacciandoli per operazioni necessarie, rimborsate dal sistema sanitario, scrive Giuseppe Pipitone il 30 giugno 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Tre assessori che si dimettono in pochi giorni, una mozione di sfiducia dal suo stesso partito e il medico personale agli arresti domiciliari. Non è decisamente un bel periodo per il governatore della Sicilia Rosario Crocetta. L’assessore alla Sanità Lucia Borsellino, figlia del magistrato assassinato in via d’Amelio il 19 luglio del 1992, ha infatti anticipato di volersi dimettere dall’incarico. Una vera e propria “mazzata” per il presidente della Regione, dato che si tratterebbe del terzo assessore consecutivo a lasciare l’incarico nel giro di pochi giorni. Giovedì 25 era stato il titolare della Funzione Pubblica, Ettore Leotta, a rimettere il mandato nelle mani del governatore. Il motivo? Tutta colpa del crollo del viadotto Himera, sull’autostrada 19 Palermo-Catania, che ha spezzato in due l’isola, aumentando di circa un’ora i tempi di collegamento tra la Sicilia occidentale e quella orientale. “Sono stanco, dopo il crollo del pilone sulla A19, andare e venire da Siracusa è diventato complicato, ho una certa età e anche la difficoltà del viaggio ha influito sulla mia decisione”, confidava Leotta. Al suo posto ecco Giovanni Pistorio, segretario regionale dell’Udc, ex assessore di Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo. Una scelta che aveva fatto dimettere il secondo assessore: Nino Caleca, titolare dell’Agricoltura. “Avverto un totale senso di estraneità di fronte ad incomprensibili ritorni al passato”, era stato il motivo di quel passo indietro: come dire che Caleca non voleva stare in una giunta con ex cuffariani. Emorragia finita? Neanche per idea. Perchè oggi è arrivato l’annuncio di dimissioni della Borsellino. Dimissioni che pesano doppio, dato che la figlia di Paolo Borsellino si dimette nel day after dell’arresto di Matteo Tutino, medico personale di Crocetta: è accusato di truffa, falso e peculato. Primario di chirurgia plastica, Tutino è finito agli arresti domiciliari perché accusato di aver praticato interventi estetici, spacciandoli per operazioni necessarie, ma soprattutto rimborsate dal sistema sanitario nazionale. A pesare sul medico personale di Crocetta anche le accuse di alcuni colleghi. E in un passaggio viene tirato in ballo lo stesso Crocetta: anche il governatore si sarebbe dovuto sottoporre ad intervento di chirurgia estetica, che Tutino avrebbe poi spacciato per operazione necessaria.  “Tutto era pronto – mette a verbale il dottor Antonio Iacono – per intervento di lifting addominale, da fare di domenica, ma si sarebbe dovuta inserire in cartella la diagnosi di obesità allo scopo di fare apparire l’intervento come funzionale. Ma poi la cosa saltò dopo la mia segnalazione ai vertici dell’ospedale”. Una circostanza, quella dell’arresto diTutino, che sarebbe stata decisiva per spingere Borsellino alle dimissioni. Nel frattempo il deputato del Pd Fabrizio Ferrandelli ha annunciato una mozione di sfiducia nei confronti del governatore: che dopo aver schivato nell’ottobre scorso il tentativo dei Cinque Stelle, questa volta potrebbe capitolare.

Lucia e il requiem per l'antimafia nel silenzio del partito dei moralisti, scrive "Il Foglio". L'ultimo velo di ipocrisia lo ha scostato Lucia Borsellino. Che con le sue dimissioni dalla giunta “della rivoluzione” di Rosario Crocetta ha cantato il più autorevole e definitivo de profundis per l'antimafia delle carriere e degli affari. "Oggi torno a essere la figlia di Paolo. E, in nome dei suoi semplici insegnamenti, chiedo a tutti di non invitarmi, il 19 luglio, alla commemorazione di via D’Amelio. Non capisco l’antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale. Sembra quasi un modo per cristallizzare la funzione di alcune persone, magari per costruire carriere”. Parole che suonano come un requiem quelle consegnate dalla figlia di Paolo Borsellino a Repubblica nel giorno del suo addio all'assessorato alla Sanità. Un'uscita di scena motivata, in una lettera sobria e affilata, da ragioni di carattere “etico”. Proprio lei che sin dalla campagna elettorale aveva svolto l'ideale ruolo di garante etico dell'avventura di governo del funambolico governatore gelese. La retorica dell'antimafia e della legalità non attacca più da un pezzo in Sicilia. È caduta sotto i colpi degli scandali, sgretolata da due anni e mezzo di malgoverno e disastri firmati dai paladini di quel grande inganno che ha edificato un sistema di potere saldamente in mano a una conventicola di amici. Amici troppo esuberanti, a volte. Come il chirurgo e medico personale di Crocetta, Matteo Tutino, la cui ascesa nella sanità siciliana ha impressionato per rapidità, fino all'arresto disposto lunedì dalla procura di Palermo. Una vicenda, quella del medico che a ogni piè sospinto rivendicava il suo specialissimo rapporto col presidente, che ha rappresentato l'ultima goccia per Lucia la mite. “Oggi mi chiedo: sotto cosa ho messo la faccia?”, confida la Borsellino parlando di un governo “che ha ormai scarsa credibilità”. Così come il gran côté dell'antimafia e della legalità a tanto al chilo. Incommentabile, di fronte ai giudizi tranchant della figlia del magistrato ucciso in via D'Amelio, l'omertoso silenzio del partito dei moralisti in servizio permanente effettivo. Tace il potente senatore Beppe Lumia, governatore ombra e regista dei patti di Palazzo nonché principe dell'antimafia politicizzata. Non si sente la voce di Antonio Ingroia, accasato nel sottogoverno crocettiano, lontani i fasti guatemaltechi e le ambizioni di premierato. Lucia chi?, sembrano dire quei silenzi imbarazzati, mentre Crocetta lesto, con una mano saluta balbettante e contrito il suo ex assessore-vessillo e con l'altra più rapida mette le mani direttamente sulle potenti stanze dell'assessorato che gestisce i milioni della sanità isolana, della quale s'è subito intestato l'interim. Tramonta così il grande inganno dell'antimafia dei pennacchi, che continua a perdere pezzi e bandiere sotto i colpi delle procure, fino a ieri meta prediletta delle sue passerelle per questa o quella denuncia. Del grande circo legalitario resta poco o nulla. Toccherà consolarsi, magari, con qualche patacca di Massimo Ciancimino, ricordando i bei tempi che furono.

Al rogo gli eroi dell’antimafia. E a giudicare sono sempre gli stessi, scrive “Sicilia Informazioni”. Lucia Borsellino non poteva andarsene in punta di piedi. Se avesse potuto, l’avrebbe fatto, ma rappresenta un simbolo ed ha dato al governo Crocetta il nome e cognome, è impossibile perciò che la sua uscita di scena passasse inosservata o quasi, alla stregua di altre dimissioni. Era pure prevedibile che la decisione fosse “usata” da governativi ed antigovernativi, alleati di Crocetta ed avversari, per tirare acqua al loro mulino. Accanto alla motivazioni, espresse con chiarezza nella sua lunga lettera al presidente della Regione siciliana – “prevalenti ragioni di ordine etico e morale” –, non sorprende che ci siano interpretazioni interessate. A Lucia Borsellino hanno fatto dire che se ne andava dal governo per non stare accanto a “questa” antimafia. Quale? Quella sotto scopa politicamente, rappresentata da Crocetta, e non solo. Chi si lecca i baffi, oggi, farebbe bene a ragionare sugli accadimenti recenti. Bisogna andare all’antefatto. Da alcuni mesi a questa parte, a causa del clamoroso caso di corruzione del vice Presidente della Gesap, Helg, e le disavventure di Antonello Montante, la bandiera dell’antimafia è stata listata a lutto, la qualcosa può starci tutto sommato, poi però è stata bruciata, metaforicamente, nelle piazze che l’hanno sventolata a lungo, con grande tenacia, determinazione e spirito di servizio. Senza attendere che la magistratura svolgesse le sue indagini e giudicasse i sospetti. C’è stato un repentino cambio di guardia. Chi consigliava morigeratezza nella distribuzione di certificazioni di buona condotta fra i predicatori dell’antimafia, subendo il sospetto di stare dall’altra parte della barricata, oggi manifesta la uguale cautela (è una vecchia consuetudine, che data dalla notte dei tempi, quella di costruire il recinto dei cattivi). Il contrordine repentino e clamoroso mantiene in piedi il manicheismo di sempre, scavando un fossato, abitato da alligatori, fra l’antimafia per bene e l’antimafia per male. Gli incensati di una volta subiscono ora il pubblico ludibrio ancor prima che i sospetti siano stati chiariti dagli inquirenti. Il campo dell’antimafia si è trasformato in un territorio infido. Non tutto, però: c’è antimafia buona e quella cattiva. La cosa puzza di bruciato, a causa dei roghi in preparazione. A distribuire attestati di buona condotta e patenti antimafia sono sempre gli stessi, in buona misura. Sono solo cambiati i volti dei paladini dell’antimafia, non ci sono più quelli di prima, mandati al rogo o quasi. Questa storia, perciò, non ci piace per niente. E’ lecito porsi alcune domande su ciò che sta accadendo, se cioè potenti lobby nazionali stiano guidando le danze ed usino il character assassination, la cattiva reputazione dell’avversario, come strumento di guerra. Mentre ci facciamo accarezzare dal dubbio possiamo prenderci il lusso di auspicare, almeno questo, che si giudichi per i comportamenti, i fatti, le azioni, e non per le bandiere, i proclami e gli annunci.

Laboratori, manager, farmacie. Gli errori di Lucia, scrive Accursio Sabella su “Live Sicilia”. Negli ultimi 2 anni i giudici amministrativi hanno "censurato" più volte il governo sulla salute. I sindacati: "L'assessore non è autonomo". Dietro l'angolo la guerra sui concorsi nelle aziende sanitarie. Oggi vertice sul taglio al budget dei centri convenzionati. Qualcosa non funziona, dalla parti di piazza Ottavio Ziino. E qualcuno potrebbe andare giù subito alle conclusioni, dicendo che il pesce, se puzza, puzza sempre dalla testa. Qualcun altro, invece, potrebbe rilanciare immagini kafkiane di burocrazie labirintiche, oscure, misteriose nel senso più grigio del termine. Fatto sta che qualcosa, attorno all'assessorato alla Sanità non funziona. Dai manager alle cliniche private, dai laboratori d'analisi ai concorsi, passando per la rete ospedaliera o per la gestione del 118. Dovunque ti volti vedi inciampi e contraddizioni. Marce indietro e qualche strafalcione che qualcuno ha bollato, anche in Procura, come “sospetto”. Ovviamente, meglio chiarirlo subito, la Sanità siciliana del passato è stata anche, e le cronache (soprattutto quelle giudiziarie) lo hanno fatto emergere in maniera plateale, un intruglio di malaffare e clientelismo, di potentati e sprechi. Che però, in qualche caso (pensiamo ad esempio alla vicenda Cirignotta o a quelle dei concorsi bocciati dal Tar) hanno affondato le proprie radici in un passato molto vicino. Troppo vicino. Quello in cui l'assessore era Massimo Russo e il dirigente generale era Lucia Borsellino. Che oggi è assessore. E finisce per catalizzare – volente o nolente – una massa di oneri e responsabilità di gran lunga superiori al passato da alto burocrate. Spalleggiata dal governatore, sinceramente legato al suo assessore, ma al quale – vista l'impronta “antimafia” della propria esperienza politica - certamente non dispiace vantare in giunta quel cognome. Ma oltre a lui? Chi è con l'assessore? Chi gioca dalla sua parte? Ed è pronta, l'assessore alla Salute che poche settimane fa minacciò le dimissioni, a “reggere” altri due anni e mezzo? Perché in questa metà legislatura è successo un po' di tutto. E la semplice elencazione dei fatti – escludendo, non a caso, la vicenda della piccola Nicole, ancora assai complessa e tutta da chiarire – è il racconto di un cammino controvento per l'assessore. Di un tragitto fin troppo spesso scandito da inciampi. Da qualche scivolone. Le cui responsabilità sarebbero da cercare con attenzione, anche tra gli spigoli di piazza Ziino o i saloni di Palazzo d'Orleans. Se non fosse che l'assessore è, appunto, l'assessore.

Il caos dei manager. Iniziò con i manager della Sanità. E quello è un film. I commissari scelti da Crocetta a pochi mesi dall'insediamento, dovevano stare lì giusto il tempo di compiere le selezioni. Ma i nuovi manager arriveranno solo due anni dopo. Al termine di un iter che avrebbe dovuto celebrare il moderno principio della trasparenza per rivelarsi un vecchio esempio di opacità. Oltre a essere in parte inefficace, se è vero che alcuni dei selezionati dopo le complicatissime procedure, hanno finito per essere subito sostituiti: è il caso di Calogero Muscarnera (non bastarono due anni per verificare che non era in possesso dei titoli necessari) o di Mario Zappia (tutti quei mesi non furono sufficienti ad accorgersi di una incompatibilità dovuta a una precedente esperienza professionale nota da tempo). E l'ultimo caso, in ordine di tempo, è quello siracusano. Col dirigente generale Salvatore Brugaletta sui carboni ardenti dopo lo scandalo dei 17 migranti “dimenticati” nelle celle frigorifere per troppo tempo. “Se un manager non è all'altezza, è giusto cambiarlo”, ha tuonato Crocetta. Giusto. Peccato che quel manager è stato scelto proprio da lui e da Lucia Borsellino. Una scelta sbagliata, evidentemente, stando alle parole del governatore. Ma nessun “mea culpa”, ovviamente. Così come avvenne, del resto, per il caso Sampieri: l'ex manager di Villa Sofia, tra i più apprezzati dal governatore Crocetta, dimessosi dopo un'indagine della Procura sulla gestione dell'azienda ospedaliera. Anche lì, il “fedelissimo” del presidente ha dovuto fare un passo indietro. E così, tra commissari e manager, in un paio di anni, sono stati quasi 50 i manager che si sono avvicendati al vertice di aziende sanitarie e ospedaliere. Un caos. Senza considerare, ovviamente, il “caso” dei manager catanesi Paolo Cantaro e Angelo Pellicanò. Prima nominati, poi “revocati” per una personale interpretazione della legge nazionale che vieta gli incarichi manageriali ai pensionati che si poggiava su un parere dell'Avvocatura dello Stato. Una storia che finì in Procura, dopo le denunce del presidente della commissione Salute Pippo Digiacomo, secondo il quale il parere alla base di quella revoca poteva essere stato in qualche “influenzato” dalla politica. Alla fine, saranno i giudici amministrativi a dare torto al governo Crocetta. I manager potevano essere nominati. Qualcuno aveva fatto cadere in errore l'assessore Borsellino.

Le bocciature del Tar. E a pensarci bene, non è quella l'unica pronuncia con la quale i tribunali amministrativi hanno bocciato l'operato del governo. L'ultima è di pochi giorni fa e ha di fatto “bloccato” il concorso e la relativa graduatoria per l'apertura di 222 nuove farmacie in Sicilia. Secondo i giudici del Tar, che hanno accolto il ricorso di due esclusi, "non sembrano essere stati correttamente applicati i criteri valutativi generali”. Insomma, i punteggi si sarebbero basati su valutazione errate dell'assessorato. E non a caso, gli esclusi hanno denunciato il fatto che, con gli stessi parametri, avevano ottenuto una valutazione molto più positive in altre regioni come l'Emilia Romagna. Ma non solo. Per non andare lontano, una recente sentenza del Cga ha bloccato il recupero, già avviato dall'assessorato di Piazza Ziino, delle somme che i laboratori d'analisi e i centri convenzionati avrebbero negli anni incassato “illegittimamente” mantenendo in vita il tariffario regionale. Una sentenza che ha di poco anticipato un discusso decreto dell'assessore con il quale è stata prevista l'erogazione a quelle strutture solo dell'80 per cento del budget dell'anno precedente. Una decisione che, stando ai titolari dei laboratori, “rischia di far collassare il settore e di far perdere il lavoro a migliaia di addetti”. Un decreto del quale già in tanti chiedono il ritiro, nonostante le rassicurazioni che l'assessore avrebbe fornito in commissione Salute all'Ars. Stamattina, in assessorato, il faccia a faccia tra Lucia Borsellino e i rappresentanti dei centri convenzionati.

Il bluff dei concorsi. Ma la prossima contestazione per l'assessore è dietro l'angolo. E riguarda un altro tema scottante come quello dello sblocco dei concorsi in Sanità. Un “via libera” dato per certo, per imminente già mesi fa. Ma arenatasi al momento di fronte alla mancata approvazione delle linee guida da impartire alle aziende e nonostante gli ottimistici annunci forniti periodicamente alla stampa. Una situazione che ha già innescato un durissimo comunicato stampa di tutte le sigle sindacali rappresentative del mondo della Sanità: “Attendevamo il documento di approvazione delle linee guida – hanno dichiarato, in sintesi – e ancora, nonostante i termini previsti siano già scaduti, non ci è stato sottoposto nulla. Rigettiamo quindi ogni documento non condiviso e chiediamo un cambio di rotta”. Una valutazione, quella delle sigle, che in qualche modo conferma la valutazione fornita anche dalla Cisl in un recente convegno: “La riforma della Sanità è riuscita solo a metà. Bene il piano di rientro, ma i cittadini si sentono abbandonati”, la valutazione del sindacato.

Dal 118 a Humanitas. Ma anche a a guardare indietro non sono mancati i problemi, i “casi”. Non è ancora del tutto chiaro, ad esempio, cosa sia successo alla Seus, dove quella che sempre Digiacomo definì una “cricca” portò all'addio del manager fedelissimo di Lucia Borsellino, Angelo Aliquò. Mesi fa, ormai. Quando ad esempio la rete ospedaliera redatta dall'assessorato giungeva a Palazzo dei Normanni con alcuni errori di calcolo. O, caso certamente più plateale, per la vicenda della clinica Humanitas. Un affidamento milionario alla multinazionale per la creazione di una clinica oncologia a Misterbianco provocò reazioni furiose e fortissime polemiche sulla stampa. La frettolosa revoca di quell'affidamento si rivelerà inutile: l'assessorato aveva “dimenticato” di notificare la procedura all'azienda. Quanto basta per “soccombere” di fronte al Tar. A causa di quell'errore che l'ex ministro Gianpiero D'Alia definì, non senza una punta di sarcasmo, uno sbaglio “suicida”. E per quelle parole verrà anche convocato in Procura. Del resto, D'Alia aveva chiesto semplicemente come mai il governo non avesse fatto ricorso a quella sentenza negativa. E se fosse intervenuto nei confronti di chi aveva compiuto quell'incredibile errore. Una sconfitta, che sembrò quasi fare felice il presidente Crocetta. Nonostante qualcuno avesse fatto sbagliare Lucia. Qualcuno, dalle parti di Piazza Ziino, dove qualcosa, da tempo, non funziona. E a pensarlo sono in tanti. Come ad esempio associazioni di consumatori come il Codacons che ha chiesto le dimissioni dell'assessore dopo la vicenda del decreto sui laboratori d'analisi. O come ad esempio i sindacati della sanità. Praticamente tutti, dai confederali agli autonomi, a quelli dei medici ospedalieri, che in una nota recentissima hanno messo nero su bianco: “Abbiamo ragione di credere che l'attuale assessore, nel ruolo e non già nella persona cui confermiamo la nostra stima, non goda della necessaria autonomia negoziale ed organizzativa”. Cioè qualcuno influenza le sue scelte, spingendola, qualche volta, all'errore. Qualcuno. Tra gli angoli dell'assessorato o tra gli scranni di Sala d'Ercole, tra le direzioni delle aziende sanitarie e i saloni di Palazzo d'Orleans.

Insidie e veleni nella vita di un familiare di vittima di mafia (e Stato) di Salvatore Borsellino su “Antimafia 2000” - 4 luglio 2015. Bisogna convincersi. Se hai la sventura di essere fratello, figlio o congiunto di un poliziotto, di un magistrato, di un giornalista ucciso dalla mafia, o peggio, dalla mafia insieme allo stato deviato, non ti restano che due possibilità. O sparisci, taci, ti nascondi, non fai sapere neanche che esisti, ed allora, se sei parente di una vittima di serie A (!), ti toccherà soltanto, ad ogni anniversario, di essere cercato da qualche giornalista che ti chiederà qualche ricordo, possibilmente toccante, del tuo congiunto, per fare commuovere i suoi lettori, o, se sei parente di una vittima di serie B (!) non ti cercherà nessuno, così come verrà ignorato e dimenticato il tuo congiunto. Oppure, se sceglierai di cercare con tutte le tue forze la VERITA’ e la GIUSTIZIA e di lottare per la memoria del tuo congiunto, allora rassegnati, non avrai scampo, sia che tu sia congiunto di una vittima di serie A che di una vittima di serie B. Ti accuseranno di sfruttare la tua condizione privilegiata (!) di congiunto di una vittima, di fare di professione il fratello o il figlio dello stesso, terranno d’occhio tutte le tue mosse, chi abbracci, chi saluti, chi frequenti, ti accuseranno di avere dei problemi mentali, ti diranno che il tuo congiunto si rivolterebbe nella tomba a fronte dei tuoi comportamenti, ti diranno che il tuo congiunto non avrebbe mai detto quello che tu dici, che non si sarebbe mai comportato come te, e questo anche se sono moralmente complici di quelli che lo hanno ucciso per non fargli più dire quello che diceva, per non farlo più parlare e potere essere loro, e soltanto loro, gli interpreti o meglio i mistificatori del suo pensiero e delle sue parole.

Non ti mancheranno poi le accuse reiterate di cercare di fare carriera con l’antimafia, anche se ti sei sempre rifiutato di fare politica attiva, di candidarti per un partito e se la tua carriera credevi di averla fatta prima raggiungendo posizioni di eccellenza tecnica nelle ditte dove hai lavorato e poi avviando un attività imprenditoriale che non riesci a chiudere anche dopo avere raggiunto la pensione tanto i tuoi clienti sono soddisfatti dei prodotti che tu hai progettato e che continuano ancora ad usare con soddisfazione. Se poi ti arrischierai a volere fare qualcosa che resti, per onorare la memoria di tuo fratello, una “Casa di Paolo”, nel quartiere dove siete nati e avete vissuto la vostra adolescenza, qualcosa che possa strappare i ragazzi a rischio del quartiere alla perversa spirale povertà-emarginazione-criminalità- criminalità organizzata ti arriveranno anche le accuse di volere lucrare su questa attività o di utilizzare i fondi raccolti per costruire questa casa, “i soldi di Borsellino”, come se quello non fosse anche il tuo cognome, per altri scopi, per esempio per pagare una penale a cui sei stato condannato per avere “diffamato” un giudice, cioè per avergli detto quello che pensavi di lui, al di la di quello che penalmente ha potuto essere accertato. E questo anche se per pagare quella penale era stata avviata una sottoscrizione dalla poetessa Lina La Mattina insieme a tanti altri che aveva in poco tempo raggiunta la somma necessaria. Somma che peraltro è stata depositata sul conto della Associazione Le Agende Rosse cui sono affluite anche tutte le somme successivamente raccolte specificatamente per la Casa di Paolo come lo pseudo giornalista che si firma Luca Rocca avrebbe potuto verificare soltanto guardando su FB i resoconti minuziosi che periodicamente pubblico sull’evento “Realizzare un sogno: La Casa di Paolo”. Anche il bonifico che ho fatto per pagare la penale è stato pubblicato su FB e sarebbe bastato controllare per vedere che è stato emesso dal mio conto personale. Ma i controlli, prima di pubblicare oscenità li fanno i giornalisti veri, se ancora se ne trovano in questo nostro disgraziato paese, non i “troll”, che sono peggiori degli anonimi perché si presentano sotto falsa identità e questo dovrò verificarlo prima di sporgere la querela che intendo avanzare nei suoi confronti perché qualcuno mi ha detto che dietro la ‘firma’ Luca Rocca si cela un altro nome che non è nuovo a portare nei miei confronti attacchi di ogni tipo. Così fanno certi criminali, non gli basta pugnalarti alle spalle ma nascondono anche il viso sotto un cappuccio nero.

Non solo loro…

La colpa di chiamarsi Riina. Licenziata la nipote del capo dei capi, risponde Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Maria Concetta ha 39 anni, di cui dieci trascorsi in una concessionaria di macchine a Marsala. Faceva la segretaria. “Fedina penale immacolata, mai sfiorata da ombre”, dice il suo avvocato. Eppure il prefetto parla di "inquietante presenza". È scattata l'informativa interdittiva per il suo datore di lavoro, che l'ha licenziata "nonostante la sua correttezza professionale". - Licenziata per il cognome che porta. Perché Maria Concetta è una Riina. È nipote di Totò e figlia di Gaetano, il fratello del capo dei capi, pure lui condannato per mafia. Essere una Riina rappresenta una “giusta causa” di licenziamento. Maria Concetta ha 39 anni di cui dieci trascorsi alle dipendenze del titolare di una concessionaria di macchine a Marsala. Fa, o meglio, faceva la segretaria. “Fedina penale immacolata, mai indagata, mai sfiorata da ombre”, ricorda con amarezza il suo legale, l'avvocato Giuseppe La Barbera, seppure sia quantomeno ipotizzabile che ai Riina, e chissà fino a quale grado di parentela, gli investigatori abbiano fatto uno screening tanto necessario e doveroso quanto profondo. Ora accade che la prefettura di Trapani emetta un'interdittiva nei confronti del suo datore di lavoro che è anche legale rappresentante di una società immobiliare. “La inquietante presenza nell'azienda della citata signora Riina - si legge nel documento della Prefettura - fa ritenere possibile una sorta di riverenza da parte del titolare nei confronti dell'organizzazione mafiosa ovvero una forma di cointeressenza della stessa organizzazione tale da determinare un'oggettiva e qualificata possibilità di permeabilità mafiosa anche della società immobiliare”. Secondo l'interpretazione prefettizia, dunque, la presenza di Maria Concetta Riina in azienda rientra nei casi previsti dal codice antimafia che, a partire dal 2011, ha voluto con la "informazione antimafia interdittiva” creare un argine contro le infiltrazioni della criminalità organizzata. Il prefetto Leopoldo Falco ha fatto suo “il prevalente e consolidato orientamento giurisprudenziale”, secondo cui “la cautela antimafia non mira all'accertamento di responsabilità, ma si colloca come forma di massima anticipazione dell'azione di prevenzione... tanto è vero che assumono rilievo per legge, fatti e vicende anche solo sintomatici e indiziari, al di là dell'individuazione di responsabilità penali”. Risultato: con la Riina in organico niente “liberatoria antimafia”. E senza liberatoria si resta tagliati fuori dal mercato. A mali estremi rimedi estremi: il titolare ha dovuto mandare a casa Maria Concetta Riina. Nella lettera spedita alla sua ormai ex dipendente scrive che “si vede costretto a licenziarla, nonostante abbia apprezzato nel tempo le sue doti e correttezza professionale”. Insomma, Maria Concetta Riina è stata una brava lavoratrice, ma bisogna allontanare ogni sospetto di mafiosità. Nel frattempo, però, il titolare ha impugnato l'interdittiva davanti al Tar. Senza esserci alcuna sudditanza psicologica verso un cognome pesante o chissà quale logica di connivenza, tagliano corto i legali. “Siamo di fronte ad un problema sociale - spiega l'avvocato Stefano Pellegrino che assiste la società assieme a Giuseppe Bilello e Daniela Ferrari - perché sociale è il rischio che deriva dall'esasperazione del concetto di antimafia. Nessuna voglia di aggirare le regole, nessuna giustificazione ai comportamenti illeciti che devono essere perseguiti. L'economia in Sicilia rischia, però, di essere messa in ginocchio da questo rigore eccessivo”. Chi usa parole dure è l'avvocato La Barbera che si dice “sconvolto dalla violenza con cui si applicano le norme dello Stato. Le leggi, volute come scudo di difesa, diventano armi letali. La signora è stata licenziata e una famiglia privata dell'unica fonte di reddito per la sola colpa di chiamarsi Riina. Prendiamo atto che in Italia esiste, oltre all'aggravante mafiosa, anche quella per il cognome che si porta”. Quindi l'affondo: “Se lo Stato toglie alla signora Riina la possibilità di lavorare allora le garantisca un sostentamento economico”.

Lo Voi «illegittimo», procura nel caos. Neppure 5 mesi a capo della procura di Palermo e per Francesco Lo Voi arriva la mannaia del Tar del Lazio, scrive "Il Giornale". Ad annullare, clamorosamente, la nomina fatta a dicembre da un Csm spaccato è stata la prima sezione quater, che ha accolto i ricorsi dei due contendenti più anziani di 9 anni: il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e quello di Messina Guido Lo Forte, già aggiunti nel capoluogo siciliano. Avevano denunciato il fatto che Lo Voi non avesse mai guidato, come loro, un ufficio giudiziario né una direzione distrettuale antimafia e ora i giudici amministrativi danno loro ragione. La scelta di Palazzo de' Marescialli, scrivono, è macchiata da «illogicità e irrazionalità», la motivazione è «insufficiente». E il Csm viene condannato a pagare 3 mila euro per le spese di giudizio. La nomina era stata bloccata dall'allora presidente Napolitano quando nel vecchio Csm in pole position c'era Lo Forte di Unicost mentre Lari era sostenuto dalle correnti di sinistra. E la scelta del nuovo Csm per un esponente di Magistratura Indipendente era stata letta a Palermo come una «normalizzazione» nella procura del processo a Napolitano sulla trattativa Stato-mafia. La sentenza del Tar è ora immediatamente esecutiva e i due ricorrenti potrebbero chiedere al Csm di fare una nuova nomina, ma sia Palazzo de' Marescialli che Lo Voi possono rivolgersi al Consiglio di Stato per una sospensiva. Per una strana coincidenza proprio poche ore prima della notizia dal Tar, la commissione competente del Csm faceva una mossa che riguarda sia Lari che Lo Forte. Il primo viene proposto come procuratore generale di Caltanissetta, l'altro viene «trombato» nella corsa alla procura generale di Milano, dove gli viene preferito Roberto Alfonso. In questa situazione, si può ipotizzare che Lari non insista per il vertice della procura di Palermo, mentre Lo Forte sarebbe ancor più motivato. Lo Voi, palermitano, 57 anni, 33 di carriera, era fuori ruolo come membro italiano a Eurojust, la superprocura europea, dopo essere stato togato al Csm molti anni fa. E proprio il peso dato a quest'incarico, facendolo preferire agli altri due candidati, viene contestato nella sentenza scritta da Giampiero Lo Presti. Accogliendo le ragioni esposte dall'avvocato Giuseppe Naccarato, il Tar contesta la mancanza di «adeguata motivazione delle ragioni concrete per le quali le competenze maturate nell'espletamento dell'incarico predetto siano state ritenute, nella prospettiva comparatistica, non soltanto idonee a compensare il deficit di pregresse esperienze direttive e semidirettive specialistiche, ma persino tali da determinare un giudizio complessivo di prevalenza attitudinale del dottor Lo Voi riguardo allo specifico ufficio». La sentenza non sembra lasciare molti margini e provoca al Csm grave imbarazzo, perché il collegio presieduto da Elio Orciuolo afferma che la valutazione è macchiata da un «vizio» inspiegabile. Che riguarda l'attività fuori ruolo, quella a Eurojust.

E poi danno lezioni di legalità!

Il super-Pm sbotta: «Giudici, ora basta», scrive l'11 maggio 2015 Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Lo sapete tutti che nei manuali di giornalismo c’è scritto che una notizia è notizia quando l’uomo morde il cane, e non viceversa. Beh, stavolta è ancora più notizia: è il magistrato che morde il magistrato. Cosa mai vista, finora. E il magistrato in questione non è un tizio qualunque, ma è il Procuratore di Torino Armando Spataro, anni 67, carriera lunghissima, sempre impegnato in indagini molto delicate, prima la lotta al terrorismo di sinistra, nei primi anni ottanta, poi l’antimafia. Spataro è un’icona di coloro che amano i Pm. Duro, rigoroso, burbero, cattivo, non sorride mai. Uno sceriffo. E uno che parla chiaro, non si nasconde, te le grida in faccia. A occhio non è proprio il tipo del magistrato garantista. Ed è difficile trovare qualche sua frase di simpatia per i garantisti. Beh, ieri Spataro è andato a parlare nella tana del nemico, e cioè a un convegno organizzato dalla camere penali del Piemonte, e ha pronunciato una requisitoria delle sue, ma stavolta contro i suoi colleghi. Spataro ha tuonato contro i magistrati protagonisti, i magistrati presunti ”eroi”, i magistrati moralisti, i magistrati maestri di storia, i magistrati faziosi, i magistrati narcisi eccetera eccetera. Ha messo nel mirino (senza mai nominarli) Ilda Boccassini, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Antonio Di Pietro (ma anche Borelli, D’Ambrosio e Colombo) forse anche Pignatone, sicuramente, e con durezza, il ministro Alfano. E poi ha disintegrato l’immagine dei giornalisti giudiziari, accusandoli di pigrizia e scarsa professionalità (ma anche un po’ di servilismo…). Ha pronunciato un discorso simile agli articoli che su questo giornale scrive Tiziana Maiolo…I casi sono due. O prendiamo questo sfogo di Armando Spataro come una boutade (o come semplice espressione della lotta interna tra le correnti della magistratura); oppure lo prendiamo sul serio ed esaminiamo una a una le cose che lui ha detto e immaginiamo che forse si è arrivati – nella vicenda del potere sempre più grande in mano alla magistratura – a quel punto di rottura che provoca reazioni, discussioni, dubbi, e che forse può portare a una inversione di tendenza. Speriamo. Naturalmente è chiaro che alcuni degli attacchi di Spataro possono essere effettivamente letti all’interno della lotta tra correnti della magistratura. Spataro ce l’ha sempre avuta con ”Magistratura Democratica” e oggi gli tira un po’ di frecce avvelenate. Così come è noto che Spataro non ha mai amato la Boccassini, che addirittura una volta fece pedinare degli indagati sui quali stava indagando, appunto, Spataro, che la prese molto male. Ed è anche noto che Spataro non ama il ministro Alfano e perciò – come vedrete – lo espone a impietosi paragoni con ministri dell’Interno del passato (Virginio Rognoni, in particolare) e lo maltratta in tutti i modi. Detto ciò, vediamo quali sono i sassolini che Spataro si toglie dalla scarpa. Trascrivendo pari pari le frasi che ha pronunciato a Torini, senza cambiare una virgola. «E’ una fortuna che sia finita l’era di mani pulite e l’era di Di Pietro. Rammento i giornalisti a frotte dietro i pubblici ministeri nei corridoi, e devo dire che alla fine qualche collega era più convinto dell’importanza della notizia in prima pagina che non dell’esito del processo…«Badate che non sto contestando il diritto e il dovere del magistrato di intervenire nel dibattito civile. E’ giusto che intervenga. Senza però dare alcun segnale di dipendenza o vicinanza politica…«Vi faccio qualche esempio di protagonismo non virtuoso: c’è un magistrato che a Palermo, dopo aver letto una sentenza che disattendeva le sue conclusioni, disse che se lui fosse stato un professore avrebbe dato quattro meno al giudice che aveva fatto quella sentenza (e qui si riferisce al dottor Vittorio Teresi, coordinatore del pool antimafia della Procura di Palermo, il quale pronunciò quella frase infelice commentando la sentenza del processo Mori, ndr); poi c’è chi ha detto che il Csm avrebbe dovuto valutare, al fine di designare il nuovo procuratore capo di Palermo, il grado di condivisione dei candidati con l’impostazione del processo sulla trattativa Stato mafia (e qui si riferisce ancora a Teresi, ma anche a Ingroia e più in generale a tutti i Pm che fanno capo all’ex Procuratore di Palermo De Matteo, ndr). Mi sembra una impostazione inaccettabile». «Poi c’è il caso di quei pubblici ministeri che a distanza di 20 anni dall’inizio dei processi di mafia al Nord, dicono: ”Finalmente arrivo io e indago sulle infiltrazioni di mafia al Nord”, oppure che continuamente fanno riferimenti a entità esterne, ai poteri forti…Il vizio più pesante della magistratura è la tendenza a porsi come moralisti, come storici, cioè pensare che tocca ai magistrati moralizzare la società e ricostruire un pezzo di storia». «Non sopporto più i colleghi che si propongono come gli unici eroi che lottano per il bene, mentre tutto attorno c’è male, e loro sono una sorta di Giovanna D’Arco, e sono alla continua denuncia dell’isolamento nel quale si trovano. Ma l’isolamento del magistrato non ha niente di eccezionale, è una condizione tipica del nostro lavoro. Non sopporto quelli che vanno in piazza per raccogliere firme di solidarietà». «Se si dovesse fare una riforma della Costituzione, vorrei che fosse inserita una norma che prevede l’indipendenza della stampa dal potere politico. Anni fa feci un viaggio negli Stati Uniti e chiesi al Procuratore federale di Chicago come facessero a mantenere l’indipendenza visto che sono nominati dal presidente degli Stati Uniti. Lui mi rispose: «Ma qui c’è la stampa», alludendo al ruolo della stampa e alla sua assoluta indipendenza. In Italia invece abbiamo degenerazioni di ogni tipo: magistrati che sfruttano il processo famoso per curare la propria icona, avvocati che tendono a trasferire il processo in Tv per auto-promuoversi, giornalisti che non cercano riscontri ma inseguono misteri, e ministri che inseguono slogan e telecamere. «Quando arrestammo Mario Moretti, il capo delle Br, non potrò mai scordarmi che mi telefonò l’allora ministro dell’Interno (Virginio Rognoni ). Avevo 31 anni, mi emozionai ( in verità ne aveva 33…anche lui bada un po’ alla sua immagine e si cala l’età…peccato veniale…, ndr). Il ministro mi chiamò per dirmi: ”lei sa quanto è importante per noi diffondere la notizia dell’arresto di Moretti, ma deve essere lei a dirmi che posso farlo, perché prima vengono le indagini”. Oggi avviene esattamente il contrario: notizie di operazioni contro il terrorismo internazionale vengono diffuse prima ancora che si realizzino, abbiamo notizie che vengono riprese senza alcun potere critico da parte della stampa, ad esempio quella sui terroristi che arrivano sui barconi dei migranti in Sicilia. Veicolare questa informazione interessa alla politica: possibile che non ci sia nessun giornalista che scriva che questa cosa non sta né in cielo né in terra?…» Questa è la sintesi del discorso di Spataro. Non mi è mai capitato di parlare bene di Spataro…Però questi suoi ragionamenti, se fossero ripresi da qualche altro Pm, potrebbero essere un punto di partenza per una discussione seria, no? Del resto sono convinto che la possibilità di fermare l’aggressività politica della magistratura (e del patto di ferro tra magistratura e giornalismo) , oggi esiste solo se la critica parte dall’interno della magistratura.

Gherardo Colombo: "Io, magistrato pentito, non credo più nella punizione". Il modello possibile della giustizia riparativa. Rispetto a un sistema che non riconosce le vittime e che crea solo inutile sofferenza. Rendendo più insicura la società. Ma i politici hanno un solo cruccio: aumentare le pene. Come nel caso - "fuori luogo" - dell'omicidio stradale. Parla il grande giudice e pm, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Gherardo Colombo: «Questa donna ha ragione. E va ascoltata. Perché se oggi il carcere svolge una funzione, è la vendetta». Prima giudice, poi pubblico ministero in inchieste che hanno fatto la storia d’Italia come la Loggia P2 o Mani Pulite, Gherardo Colombo ha messo profondamente in discussione le sue idee: «Ero uno che le mandava le persone in prigione, convinto fosse utile. Ma da almeno quindici anni ho iniziato un percorso che mi porta a ritenere errata quella convinzione».

Da uomo di legge, la sua è una posizione tanto netta quanto sorprendente.

«È concreta. I penitenziari sono inefficaci, se non dannosi per la società. Anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini più fragili o più pericolosi, privando le persone della libertà senza dare loro quella possibilità di recupero sancita dalla Costituzione. Esistono esempi positivi, come il reparto “La Nave” per i tossicodipendenti a San Vittore, o il carcere di Bollate, ma sono minimi».

Molti dati mostrano la debolezza della rieducazione nei nostri penitenziari. Ma perché parlare addirittura di vendetta?

«Credo sia così. Pensiamo alle vittime: cosa riconosce la giustizia italiana alla vittima di un reato? Nulla. Niente; se vuole un risarcimento deve pagarsi l’avvocato. Così non gli resta che una sola compensazione: la vendetta, sapere che chi ha offeso sta soffrendo. La nostra è infatti una giustizia retributiva: che retribuisce cioè chi ha subito il danno con la sofferenza di chi gli ha fatto male».

Esistono esperienze alternative?

«Sì. In molti Paesi europei sono sperimentate da tempo le strade della “giustizia riparativa”, che cerca di compensare la vittima e far assumere al condannato la piena responsabilità del proprio gesto. Sono percorsi difficili, spesso più duri dei pomeriggi in cella. Ma dai risultati molto positivi».

Se questa possibilità è tracciata in Europa, perché un governo come quello attuale, così impegnato nelle riforme, non guarda anche alle carceri?

«Nei discorsi ufficiali sono tutti impegnati piuttosto ad aumentare le pene, a sostenere “condanne esemplari”, come sta succedendo per la legge sull’omicidio stradale - una prospettiva che trovo quasi fuori luogo: quale effetto deterrente avrebbe su un delitto colposo? Ma al di là del caso particolare, il problema è che i politici rispondono alla cultura dei loro elettori. Il pensiero comune è che al reato debba corrispondere una punizione, che è giusto consista nella sofferenza. Me ne accorgo quando parlo nelle scuole del mio libro, “Il perdono responsabile”: l’idea per cui chi ha sbagliato deve pagare è un assioma granitico, che solo attraverso un dialogo approfondito i ragazzi, al contrario di tanti adulti, riescono a superare. D’altronde il carcere è una risposta alla paura, e la paura è irrazionale, per cui è difficile discuterne».

È una paura comprensibile, però. Parliamo di persone che hanno rubato, spacciato, ucciso, corrotto.

«Ovviamente chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, nel rispetto delle condizioni di dignità spesso disattese nei nostri penitenziari. Ma solo chi è pericoloso. Ed è invece necessario pensare fin da subito, per tutti, alla riabilitazione. Anche perché queste persone, scontata la condanna, torneranno all’interno di quella società che li respinge».

Luigi Manconi: "Aboliamo il carcere". Inefficace, costoso e violento. Per questo il sistema penitenziario va cambiato. Le proposte in un libro appena uscito, continua Francesca Sironi. Primo: il carcere È inutile, perché sette detenuti su dieci tornano a compiere reati. Secondo: le galere non esistono da sempre. Terzo: le celle sono violente. Cambiare l’esecuzione della pena in Italia è l’obiettivo di un libro implacabile scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, appena pubblicato da Chiarelettere con il titolo: «Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini». Il volume raccoglie dati, storie e notizie su torture, recidiva, costi assurdi, sbagli e omissioni di un sistema che restituisce alla collettività criminali peggiori di quelli che aveva rinchiuso. Da questa analisi, scrive Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, emerge come «la pena si mostri in carcere nella sua essenzialità quale vera e propria vendetta. E in quanto tale priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea a quel fine che la Costituzione indica nella rieducazione del condannato». Per questo gli autori propongono dieci riforme possibili. A partire dall’idea che «il carcere da regola dovrebbe diventare eccezione, extrema ratio», come sostiene il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nella postfazione.

E l'ex procuratore disse: "Basta con la gogna". Piero Tony, per 45 anni magistrato (e dichiaratamente di sinistra), scrive un libro che è un durissimo j’accuse contro il populismo giudiziario, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. «Non ce la facevo più. Non potevo andare avanti in un mondo divenuto surreale, dove ogni giorno vedevo cose che non avrei mai voluto vedere. Così nel luglio 2014 ho preferito andarmene, a 73 anni, due in anticipo sulla pensione. E ora lancio questo tricche-tracche, un mortaretto in piccionaia». Sorride, Piero Tony. Ma non è un sorriso rassicurante. Per 45 anni magistrato, da ultimo procuratore della Repubblica a Prato, Tony ha appena pubblicato un libro, Io non posso tacere (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) e non è affatto un mortaretto: anzi, è una bomba atomica. Che in nome di un ineccepibile garantismo devasta, spiana, annienta tutte le parole d’ordine del populismo giudiziario. È tanto più potente, la bomba, in quanto a lanciarla è un serissimo, autorevolissimo ex procuratore che per di più è stato a volte definito «uomo di sinistra estrema»: per intenderci, uno che nei primi anni Ottanta s’è iscritto a Magistratura democratica e non ne è mai uscito.

Qualche frase del libro?

«È ovvio che molti magistrati giochino spesso con i giornalisti amici per amplificare gli effetti del processo: purtroppo, quando un pm è politicizzato, può utilizzare questo strumento in maniera anomala. Funziona così, negarlo sarebbe ipocrisia».

Ancora?

«Con la Legge Severino la politica ha delegato all’autorità giudiziaria il compito, anche retroattivamente, di decidere chi è candidabile e chi no a un’elezione». Continuiamo? «L’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta». Non vi basta? «Spesso si sceglie di mandare in gattabuia qualcuno, evitando altre misure cautelari, per far sì che paghi comunque e a prescindere».

Dottor Tony, lei lo sa che non gliela perdoneranno, vero?

«Il libro è intenzionalmente provocatorio. Perché vorrei sollecitare la discussione su una situazione che con tanti altri ritengo insostenibile, ma di cui si parla solo in certe paraconventicole. Nei miei 45 anni di professione ho visto una giustizia che è andata sempre più peggiorando: mi riferisco ai frequenti eccessi di custodia cautelare, ai rapporti troppo familiari tra alcuni pm e i mass media, e alla conseguente gogna, sempre più diffusa e intollerabile».

Lo sa che rischia attacchi feroci, vero?

«Amo troppo la magistratura per avere paura di rischiare. E poi  qualcuno deve pur dirlo che non è accettabile quella parte della giustizia che opera disinvoltamente rinvii di anni; che spiffera ai quattro venti le intercettazioni; che pubblica atti e carte in barba a tutti i divieti; che lancia inchieste fini a se stesse, che partono in quarta per poi sgonfiarsi; che anticipa le pene con misure cautelari «mediatizzate»».

Lei scrive che le correnti sono come partiti, e che «nel Csm si fa carriera soprattutto per meriti politici». Ma si rende conto di quel che rischia?

«Certo che me ne rendo conto, ma è così: le correnti oggi non sono lontane dalla compromissione politica. Sarebbe molto meglio che i membri togati del Csm fossero scelti per sorteggio. Qui ormai si fa carriera quasi solo con l’appartenenza, con criteri di parte. Io non riesco a criticare chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. Ed è un dramma, negarlo sarebbe follia».

Lo dice lei, per una vita iscritto a Magistratura democratica?

«Nei primi anni Ottanta, almeno lì dentro, si respirava garantismo. Ahimé durò poco: oggi non faccio fatica a dire, purtroppo, che il garantismo è estraneo anche a Md. Perché garantismo e sospetti non sono compatibili. E nemmeno Md sa rinunciare al sospetto».

Il sospetto: è il tema tipico del concorso esterno in associazione mafiosa. Lei ne scrive che è «uno degli obbrobri del nostro sistema giudiziario».

«Peggio. Non è nel nostro sistema normativo: e fino a quando non interverrà il legislatore, come auspicato da tutti, è un vero mostro giuridico. Sono sicuro che se invece che a Zara fossi nato a Napoli, dove da giovane vissi per qualche anno, avrei corso il rischio di finire in una foto con un criminale. Ma un po’ per dolo, un po’ per sciatteria, in certe Procure c’è chi si accontenta di qualche prova anche rarefatta per accusare e per avviare un processo».

La Corte di Strasburgo ha da poco stabilito che Bruno Contrada fu condannato indebitamente per concorso esterno. Che ne dice?

«Non ho letto gli atti del suo processo, ma è notorio che negli anni Cinquanta e Sessanta il capo di una Squadra mobile aveva rapporti ambigui, spesso pericolosamente diretti e negoziatori, con la criminalità: rapporti che non di rado si prestavano a essere, quantomeno formalmente, d’interesse penale. Oggi Strasburgo ci fa fare un passo avanti nella civiltà giuridica: s’invoca il principio della irretroattività, nessuno può essere condannato per fatti compiuti prima che siano considerati reato. In questo caso, visto che il reato colpevolmente non è mai stato tipizzato dal legislatore, si dice che Contrada non poteva essere condannato per fatti compiuti prima che la Cassazione avesse stabilito bene che cosa fosse il concorso esterno, nel 1994».

Passiamo alle intercettazioni?

«Temo che restrizioni della nostra privacy saranno sempre più necessarie: non se ne può fare a meno, in una società atomizzata e nel contempo globalizzata. Ma è l’applicazione mediatica delle intercettazioni che in Italia è vergognosa, così come leggere sui giornali la frase di due  intercettati che dicono, per esempio: «Il tal sottosegretario ha strane abitudini sessuali». E quello non c’entra nulla con le indagini. È ciò che io chiamo «il bignè»».

Il bignè?

«Ma sì: l’ottimo bignè con la crema, regalato da certi pm ai giornalisti. E più sono i bignè offerti, più saranno i titoli sui giornali: quindi l’inchiesta sarà apprezzata dall’opinione pubblica, il pm diventerà famoso e l’indagato, o chiunque sia coinvolto, verrà seppellito dal fango. Non si può vivere in questo modo. La dignità umana è un diritto fondamentale, forse il primo».

Ha visto che ora alcuni suoi colleghi, da Edmondo Bruti Liberati a Giuseppe Pignatone, propongono una «stretta» nell’utilizzo delle intercettazioni?

«È sempre inutile aumentare le pene, visto che si delinque con la convinzione di farla franca, e vista anche la diffusa mancanza d’effettività della pena».

Qual è la sua soluzione, allora?

«Quando arrivai a Prato, nel 2006, prescrissi, anzi pregai i miei sostituti di fare un «riassunto» delle intercettazioni per qualsiasi richiesta di provvedimento, evitando ogni inserimento testuale delle trascrizioni. È il riassunto la soluzione: così i terzi indebitamente coinvolti restano automaticamente protetti, e nessuno, per restare all’esempio, conoscerà mai le «strane abitudini sessuali» del sottosegretario. Il fatto è che così il pm dovrebbe fare più fatica. Quindi preferisce il maledetto taglia-e-incolla. A parte i miei sostituti pratesi, ovviamente… E troppo spesso il taglia-e-incolla si trasforma in un ferro incandescente».

Ma è soltanto sciatteria?

«In genere sì. Solo le mele marce lo fanno con intenti sanzionatori o per motivi loro, che nulla hanno a che fare con la Giustizia, quella con la g maiuscola».

Cambierà qualcosa con la nuova responsabilità civile dei magistrati?

«La levata di scudi della categoria contro la riforma, in febbraio, è stata penosa. Sostenere che ora tutti i magistrati avranno paura d’incorrere in decurtazioni di stipendio, e per questo non lavoreranno più come una volta, è assurdo. Paralizzante sarebbe quindi il pericolo di una riduzione dello stipendio, e non piuttosto quello di danneggiare illegalmente un indagato, per dolo o per colpa grave? Ma di che cosa parlano?»

Che cosa si aspetta, ora che il suo libro è uscito?

«Spero che se ne discuta serenamente. Temo una sola cosa: l’incatalogabilità».

Cioè?

«Purtroppo, prima di elaborare un giudizio, sempre più ci si chiede: ma è un discorso di destra o di sinistra? E quello che ho scritto sicuramente non è allineato, anzi è eretico da qualsiasi parte lo si guardi. Ecco, in molti potrebbero avere paura di dare un giudizio perché, da destra come da sinistra, non riusciranno a catalogarmi. Io mi sono sempre ritenuto, e sono sempre stato ritenuto, di sinistra; anzi, sono praticamente «certificato» come tale. Questo non m’impedisce di pensare tutto quel che ho scritto, che è poi alla base delle garanzie della persona, dell’individuo. E non sono il solo».

Resta il fatto che il «populismo giudiziario», che lei avversa, oggi stia soprattutto a sinistra. O no?

«È di destra o di sinistra pensare che nessuna ragione al mondo può giustificare il sacrificio di diritti fondamentali di una persona, se non nei limiti stabiliti dalla legge democratica? È per questo che chi crede davvero nella civiltà giuridica non può accettare le troppe disfunzioni della giustizia italiana. Ed è per questo che io non potevo più tacere».

Soro, Garante della privacy: «Stop ai processi mediatici, ne va della vita delle persone», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. C’è una parola che Antonello Soro non si stanca di ripetere: «Dignità». A un certo punto tocca chiedergli: presidente, ma com’è possibile che non riusciamo a tenercela stretta, la dignità? Che abbiamo ridotto il processo penale a un rodeo in cui la persona è continuamente sbalzata per aria? E lui, che presiede l’Autorità garante della Privacy, può rispondere solo in un modo: siete pregati di scendere dalla giostra. La giostra del processo mediatico, s’intende. «È una degenerazione del sistema che può essere fermata in un modo: se ciascuna delle parti, stampa, magistrati, avvocati, evita di dare un’interpretazione un po’ radicale delle proprie funzioni. C’è un nuovo integralismo, attorno al processo, da cui bisogna affrancarsi. Anche perché la giustizia propriamente intesa si fonda sulla presunzione d’innocenza. Quella mediatica ha come stella polare la presunzione di colpevolezza».

Senta presidente Soro, ma non è che il processo mediatico è una droga di cui non possiamo più fare a meno, magari anche per alleviare i disagi di una condizione generale del Paese ancora non del tutto risollevata?

«Non credo che per spiegare le esasperazioni dell’incrocio tra media e giustizia sia necessario arrivare a una lettura del genere. Siamo in una fase, che ormai dura da molto, in cui prevale un nuovo integralismo, anche rispetto alla preminenza che ciascuno attribuisce al proprio ruolo. Succede in tutti gli ambiti, compreso quello giudiziario. Ciascuna delle parti si mostra poco disponibile ad affrontare le criticità del fenomeno che chiamiamo processo mediatico».

Be’, lei descrive una tendenza che brutalmente potremmo definire isteria forcaiola.

«È il risultato di atteggiamenti – che pure non rappresentano la norma – sviluppatisi tra i giornalisti e anche tra i magistrati, persino tra gli avvocati. Ciascuna di queste componenti finisce in alcuni casi per deformare la propria missione. Il tema è sicuramente complesso, io mi permetto sempre di suggerire che si lascino da parte i toni ultimativi, quando si affronta la questione. Lo sforzo che va fatto è proprio quello di trattenersi dall’esaltare la propria indispensabile funzione. Esaltare la propria si traduce fatalmente nel trascurare la funzione degli altri».

È una situazione di squilibrio in cui parecchi sembrano trovarsi a loro agio, tanto da difenderla. È il caso delle intercettazioni.

«Nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l’utilità delle intercettazioni e il diritto dei cittadini all’informazione. Due elementi di rango differente ma ugualmente imprescindibili. Nessuno pensa di rinunciare né alle intercettazioni né all’informazione. Si tratta di valutare con il giusto spirito critico la funzione di entrambe».

E non dovrebbe volerci uno sforzo così grande, no?

«No. Però cosa abbiamo davanti? Paginate intere di intercettazioni, avvisi di garanzia anticipati ai giornali, interrogatori di indagati in stato detentivo di cui apprendiamo integralmente il contenuto, immagini di imputati in manette, processi che sembrano celebrarsi sui giornali più che nelle aule giudiziarie. E in più c’è una variabile moltiplicatrice».

Quale?

«La rete. E’ un tema tutt’altro che secondario. La diffusione in rete delle informazioni e della produzione giornalistica non è neppure specificamente disciplinata dal codice deontologico dei giornalisti, che risale al 1998, quando il peso oggi acquisito dal web non era ancora stimabile».

Qual è l’aspetto più pericoloso, da questo punto di vista?

«Basta riflettere su una differenza, quella tra archivi cartacei e risorse della rete. Su quest’ultima la notizia diviene eterna, non ha limiti temporali, ha la forza di produrre condizionamenti irreparabili nella vita delle persone».

La gogna della rete costituisce insomma un fine pena mai a prescindere da come finisce un processo.

«È uno degli aspetti che contribuiscono a rendere molto complesso il fenomeno dei processi mediatici. Tutto può essere riequilibrato, ma ora vedo scarsa attenzione per tutto quanto riguardi il bilanciamento tra i diritti fondamentali in gioco. Un bilanciamento che invece ritengo indispensabile quando riguarda la dignità delle persone».

È un principio di civiltà così elementare, presidente, che il fatto stesso di doverlo invocare fa venire i brividi. Di paura.

«Nel nostro sistema giuridico anche chi è condannato deve veder riconosciuta la propria dignità. Basterebbe recuperare questo principio. Che nella nostra Costituzione è centrale. Una comunità che rinuncia a questo presidio di civiltà ha qualche problema».

Com’è possibile che abbiamo rinunciato?

«Ripeto: stiamo dicendo per caso che dobbiamo eliminare l’uso delle tecnologie più sofisticate nelle indagini? No. Si pretende di negare il diritto all’informazione? Neppure. Si dovrebbe solo coniugare questi aspetti con la dignità delle persone, anche con riguardo alla loro vita privata. La privacy non è un lusso. Il fondamento della privacy è sempre la dignità della persona».

Se si prova a toccare le intercettazioni parte subito la retorica del bavaglio.

«Al giudice, in una prima fase, spetta la decisione sull’acquisizione delle intercettazioni rilevanti ai fini del procedimento, mentre al giornalista spetta, in seconda battuta, la scelta di quelle da pubblicare perché di interesse pubblico. Non è detto che il giornalista debba pubblicare tutti gli atti che ha raccolto compresi quelli irrilevanti ai fini del processo».

Spesso quelli irrilevanti sul piano penale sono i più succosi da servire al lettore.

«Guardi, è plausibile che alcune intercettazioni contengano elementi utili per la ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti anche se non riguardano la persona indagata. Può avere senso che elementi del genere vengano resi pubblici. Ma altri che non hanno utilità ai fini del processo andrebbero vagliati con particolare rigore in funzione di un vero interesse pubblico. Prescinderei dai singoli episodi. Ma ricorderei due princìpi abbastanza trascurati. Da una parte, la conoscenza anche di un dettaglio della vita privata di un personaggio che riveste funzioni pubbliche può essere opportuna, se quel fatto rischia di condizionarne l’esercizio della funzione. È giusto che il cittadino conosca cose del genere».

Ad esempio, il fatto che Berlusconi ospitasse a casa sua molte giovani donne, alcune delle quali erano prostitute e lui neppure lo sapeva.

«Sì, però poi i dettagli sulle attività erotiche di un leader politico, tanto per dire, possono alimentare curiosità, ma è difficile riconoscerne il senso, in termini di diritto all’informazione. In altre parole: può essere utile sapere che quel leader, in momenti in cui esercita la propria funzione pubblica, compie atti che, ad esempio, lo espongono al ricatto; ma riportare atti giudiziari che entrano morbosamente nel dettaglio, diciamo così, va al di là di quell’informazione utile di cui sopra. A meno che non riferiscano comportamenti che costituiscono reato».

Negli ultimi anni l’inopportunità di certe divulgazioni spesso è emersa quand’era troppo tardi.

«E in proposito mi preoccupa ancor di più il dramma vissuto da privati cittadini casualmente intercettati ed esposti a una gogna molto pesante. E la gogna mediatica è una pena inappellabile, a prescindere da come finisce in tribunale. Ho segnalato più volte la situazione del cittadino Massimo Bossetti. Nel suo caso sono stati divulgati i dati genetici di tutta famiglia, i comportamenti del figlio minore e di tutti familiari, fino al filmato dell’arresto, all’ audio dell’interrogatorio e al colloquio con la moglie in carcere: tutto questo contrasta la legge sul diritto alla riservatezza. Che rappresenta una garanzia per i cittadini e che però viene travolta da una furia iconoclasta, funzionale al processo mediatico. Nel processo propriamente inteso vige la presunzione di innocenza, in quello mediatico si impone la presunzione di colpevolezza».

Come se ne esce?

«Tutti, magistrati, giornalisti, avvocati, cittadini, debbono cercare il punto di equilibrio più alto. E smetterla di pensare che qualche diritto debba essere cancellato. Anche perché oltre alla dignità delle persone è in gioco anche la terzietà del giudice».

Cosa intende?

«Chi siede in una Corte viene ‘inondato’ da una valanga di informazioni dei media che finiscono per costruire un senso comune. In un ordinamento in cui esistono anche i giudici popolari c’è il rischio che questi non formino la loro convinzione in base alla lettura degli atti ma in base al processo mediatico, che ha deciso la condanna molto tempo prima, e non nella sede dovuta. Intercettazioni, atti e immagini divulgati dai media, non solo costituiscono uno stigma perenne per la persona, ma rischiano di condizionare anche l’esercizio della giurisdizione in condizioni di terzietà».

Ma non è che i magistrati alla fine spingono il processo mediatico perché pensano di acquisire in quel modo maggiore consenso?

«Guardi, quando un singolo magistrato ricerca il consenso può casomai far calare un po’ il consenso dell’intera magistratura. E questo lo hanno affermato negli ultimi tempi autorevoli magistrati, che hanno usato parole molto eloquenti nel criticare gli abusi di singoli colleghi. Mi riferisco in particolare al procuratore capo di Torino Armando Spataro quando dice che durante Mani pulite, per esempio, alcuni magistrati sembravano più preoccupati della formazione della notizia da prima pagina che della conclusione del processo. Ecco, la legittimazione che ha il magistrato viene messa in discussione proprio da quei comportamenti impropri. La ricerca del consenso non è propria della funzione del magistrato. Chi ha da decidere della giustizia ha un compito che da solo gratifica e impegna la vita. Io ho una grandissima considerazione di questo compito e credo vada preservato».

Nordio agita i colleghi in toga: "Niente multe, via i pm scarsi". Il procuratore di Venezia critica la scelta del governo sulla responsabilità civile: "Inutile, paga l'assicurazione", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. I magistrati hanno una gran fretta: per denunciare davanti alla Consulta l'incostituzionalità della legge sulla responsabilità civile, varata solo a febbraio, non hanno aspettato che un cittadino chiedesse i danni a uno di loro. Hanno giocato d'anticipo. Per il giudice civile Massimo Vaccari del tribunale di Verona basta il timore di un giudizio di responsabilità per condizionare l'autonomia e l'indipendenza della toga, ledere i suoi diritti e privarla della necessaria serenità nel suo lavoro. Così, il 12 maggio ha inviato alla Corte costituzionale 17 pagine di ricorso, che sostengono contrasti con diversi articoli della Carta. La notizia arriva proprio mentre il Matteo Renzi ricorda su Twitter l'anniversario della morte di Enzo Tortora, sottolineando che da allora, e grazie a lui, le cose sono cambiate. «Ventisette anni dopo la morte di Tortora - scrive il premier-, abbiamo la legge sulla responsabilità civile dei giudici e una normativa diversa sulla custodia cautelare #lavoltabuona». Nella stessa giornata e proprio partendo dal tempestivo ricorso del giudice veronese, su Il Messaggero il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio firma un editoriale che certo non farà piacere ai suoi colleghi. Basta il titolo: «Il magistrato che sbaglia va rimosso più che multato». Mentre le toghe, con l'Anm in testa, protestano aspramente per la legge, minacciano lo sciopero e si organizzano perché la Consulta la faccia a pezzi, Nordio sostiene dunque che le nuove norme sono troppo deboli e non risolvono i problemi, cioè le cause degli errori giudiziari: dall'«irresponsabile potere dei pm» a quello dei giudici di «riprocessare e condannare un cittadino assolto», con una «catena di sentenze». Il magistrato accusa governo e Parlamento di aver «risposto in modo emotivo» alle richieste dell'opinione pubblica, puntando sull'«effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie». Così, per Nordio, hanno fatto «una scelta inutile, perché ci penserà l'assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita». Denunciando davanti all'Alta corte, sostiene il pm, «la parte più ambigua della legge, quella che consente, o pare consentire, di far causa allo Stato prima che la causa sia definitivamente conclusa», paralizzando i processi, se ne otterrà forse una parziale abrogazione. E «i magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo». Vedremo se andrà proprio così. Intanto, il ricorso a bocce ferme del giudice veronese deve superare il giudizio di ammissibilità. Vaccari cita un precedente simile contro la legge del 1989, ma non è affatto detto che riesca nel suo intento. I magistrati, però, si sono organizzati da un pezzo per ricorsi singoli o collettivi e, se questo verrà bloccato, di certo alla Consulta ne arriveranno molti altri. L'ultima parola sarà anche stavolta dei giudici costituzionali.

Eppure, ciononostante succede questo!

Quel pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo, per motivi di lavoro. E quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli”. Alfredo Morvillo, procuratore della Repubblica di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone anch’essa uccisa a Capaci, racconta a “Voci del mattino”, Radio 1, i drammatici momenti in cui apprese della strage. “Quando si è in prima linea come lo era Giovanni, ci si abitua a convivere con una certa tensione e si ci concentra unicamente sul lavoro. – aggiunge – Giovanni non sottovalutava i rischi cui andava incontro, ma da quando era Direttore al Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma, aveva un po’ allentato l’attenzione sulla sicurezza, tanto è vero che qualche volta capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante”. “È noto a tutti – continua – che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e gli ostacoli incontrati lo avevano convinto a spostarsi a Roma, al Ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa, non convinti del lavoro di squadra, lo ostacolarono in tutti i modi. Arrivarono anche a prenderlo in giro dicendo che, dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la ‘Procura planetaria’. In conclusione, all’interno del tribunale vi era una parte di colleghi che sicuramente non lo amava”. Per Morvillo inoltre “se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un po’ allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo lì non sarebbe stato affatto impossibile. Bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia e che non si potesse pensare ad altro”.

Magistrati e mafia...

Zamparini il 21 maggio 2015 all’Università. «La mafia? A volte penso sia stata inventata per dare uno stipendio a quelli che fanno antimafia... Io in Sicilia non ho mai trovato alcun impedimento. Le cose si possono fare anche qui. Mi sento inattaccabile, non sono corrotto e non ho mai corrotto nessuno -ha detto il presidente del Palermo, Maurizio Zamparini, durante un incontro con gli studenti dell’Università del capoluogo presso l’Aula Magna della Scuola Politecnica - La politica rappresentativa non esiste più, non esistono più i partiti. Ci hanno preso per il naso per cinquant’anni, io non sono ne’ di destra ne’ di sinistra. Farei premier papa Francesco, che è un dono del cielo. Io sono nato cattolico ma penso che tutte le religioni, dal Buddhismo all’Islam, sono buone se parlano d’amore», ha aggiunto Zamparini.

Magistrati ed espropri...

«Siamo in presenza di un esproprio di un'azienda da parte della magistratura, senza che la proprietà sia stata consultata e sia potuta intervenire. Da sostenitore della libera impresa, io non sono d'accordo». Queste le parole sull'Ilva del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi a margine dell'assemblea annuale di Federacciai il 22 maggio 2015. «E' irrazionale e incomprensibile quanto è accaduto all'Ilva – ha detto Squinzi – nell'economia reale di un paese a forte specializzazione industriale la presenza di una solida produzione siderurgica è essenziale per rifornire il mercato interno e rispondere con i fatti ad una pretesa di marginalizzazione del nostro Paese nei nuovi assetti di un'economia sempre più globalizzata». Giudizio condiviso dal presidente di Federacciai Antonio Gozzi: «Abbiamo combattuto con forza fin dall'inizio la scelta dei commissariamenti - ha detto -, decisione che si è trasformata in un esproprio senza indennizzo» ai danni della proprietà Riva. “Sono da sempre stato contrario ai commissariamenti”, ha attaccato Gozzi. “Personalmente li considero un esproprio senza indennizzo. Credo che quella dell’Ilva di Taranto sia una macchia sulla reputazione del Paese“. Definizione, quella di “esproprio”, ripetuta poco dopo dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che ha anche bollato come “irrazionale e incomprensibile” quanto accaduto all’Ilva. Ma l’amministratore delegato di Duferco non si è fermato qui e ha rincarato la dose affermando che “questo vulnus alla proprietà dell’azienda non ha portato risultati né sul fronte ambientale, né su quello industriale. Anzi. L’azienda versa in condizioni preoccupanti dal punto di vista produttivo e finanziario”. Secondo Gozzi “bisogna uscire da questa storia prima che sia troppo tardi, altrimenti si arriva a un punto di non ritorno”, ma “c’è poco tempo” perché il patrimonio iniziale di 2,5 miliardi dell’Ilva è “azzerato” dopo due anni di gestione commissariale: “Un tentativo disperato di fare cassa che ha portato a condotte commerciale che hanno provocato gravi perturbazioni sul mercato”.

Magistrati ed espropri mafiosi...

"Il tribunale di Palermo da pochi mesi ha una sezione dedicata alle misure di prevenzione. Palermo è una sezione speciale per la quantità di beni sequestrati: ne ha quasi la metà del resto di tutta l'Italia". Lo ha detto il magistrato Silvana Saguto e riferito dall’Ansa, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, nel corso dell'audizione, davanti alla Commissione Antimafia, che rientra nel filone d'inchiesta sui beni confiscati e per un approfondimento sulla vicenda Italgas e Gas Natural Italia Spa attualmente in amministrazione giudiziaria disposta dal tribunale di Palermo. "Il fenomeno mafioso in Sicilia - ha detto Saguto - non è più vasto rispetto ad altre località ma è molto più seguito e ha dato molti più risultati grazie all'azione di prevenzione. Il problema è la gestione delle imprese, mantenere vive le imprese, continuare a gestirle nel corso degli anni, a volte numerosi. Sono molte le difficoltà nel dover convertire una impresa che nasce "viziata", in settori che vanno dall' edilizia alla gestione dei servizi, con tutte le ricadute che questo comporta". Saguto ha riferito che la magistratura ha saputo dal pentito Angelo Siino di un "tavolo per la gestione degli appalti", che si stava spostando a livello nazionale, con la possibilità di gestire l'assegnazione delle varie gare pubbliche: "questo è tutt'ora il problema”.

Mafia:beni confiscati, Mattiello, puntata Iene impone reazione. Relatore riforma,auspicabile censura sul piano dell'opportunità, scrive l’Ansa”. La puntata delle Iene sulla gestione delle misure di prevenzione a Palermo "impone una reazione". A sostenerlo è il deputato Pd Davide Mattiello, componente delle Commissioni Giustizia e Antimafia e relatore della riforma del Codice antimafia che riguarda le misure di prevenzione. "La Commissione Antimafia - dice Mattiello - ha avuto modo in più di una occasione di approfondire la situazione". E' stato infatti audito in vari momenti sia l'avvocato Cappellano Seminara, sia la presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo Silvana Saguto e sono stati acquisiti gli atti relativi agli affidamenti giudiziari. "Io stesso nell'ultima audizione della presidente Saguto, avvenuta il 28 Aprile - ricorda Mattiello - ho posto esplicitamente la questione del conflitto di interessi e della concentrazione degli incarichi. Per quel che mi risulta, la magistratura non ha ritenuto fino a qui di rilevare alcuna ipotesi di reato, tuttavia credo sia auspicabile una censura sul piano della opportunità di simili comportamenti, pur considerando l'enorme mole di lavoro svolto dal Tribunale misure di prevenzione di Palermo, che da solo gestisce circa il 45% del totale dei sequestri in Italia. Della censura di inopportunità è senz'altro titolare la Commissione Antimafia e trovo una sintonia tra questo mio auspicio e le coraggiose parole della presidente Bindi sul tema delle candidature "imbarazzanti": la qualità dello Stato non viene minata soltanto dalle condotte che costituiscono reati, ma anche da quelle condotte che alimentano la diffidenza dei cittadini". In questi giorni a Palermo si sta svolgendo un convegno promosso dal prof. Costantino Visconti: "spero che possa essere una occasione per prendere posizione. Sarà sicuramente una posizione autorevole", conclude Mattiello.

Il miracolo delle aziende sequestrate alla Mafia. Così si crea lavoro danneggiando i clan. Tremila dipendenti, nuovi assunti e bilanci in attivo. Le imprese sottratte ai clan e ai corrotti nella Capitale non falliscono come nel resto del Paese. Un esempio da esportare e da valorizzare che il governo ignora, scrive Giovanni Tizian su “L’espresso”. L’Espresso è notoriamente uno sponsor di Libera, l’associazione di sinistra filo magistrati condotta da Don Ciotti. Libera che ha il monopolio dell’associazionismo antimafia in mano alla CGIL. "L'hotel sequestrato alla 'ndrangheta al Gianicolo Tra i tavoli di Pizza Ciro non si respira più aria di camorra e gli affari vanno comunque bene, anche senza i quattrini del clan. Un caso isolato? Al Gianicolo il grand hotel costruito dalla 'ndrangheta in un ex convento di suore, pagato 13 miliardi di vecchie lire, è oggi un'eccellenza nel panorama spesso desolante dei beni sequestrati alle mafie. L'albergo macina utili, ha messo in regola i giovani dipendenti ben prima dell'entrata in vigore del job acts e il ristorante ha ottenuto una paginetta nella mitica guida Michelin. Anche la catena Pizza Ciro ha aumentato i dipendenti da quando lo Stato ha messo alla porta i camorristi. E poi c'è la coop rossa di Mafia Capitale, quella del braccio destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi. La cooperativa dopo la retata è passata di mano ed è finita in custodia di amministratori giudiziari scelti dal tribunale di Roma. E i molti che avevano scomesso sul fallimento dell'azienda che con Buzzi fatturava 60 milioni di euro si sono dovuti ricredere. La coop 29 giugno, infatti, con i dirigenti nominati dai magistrati continua a vincere appalti garantendo così occupazione a 1.300 persone. Una scommessa vinta dal tribunale di Roma e soprattutto dalla sezione misure di prevenzione guidata da un giudice, Guglielmo Montoni, di grande esperienza nella lotta ai clan della Capitale. Quest'ufficio si è trovato a gestire la più grande azienda di Roma, prendendo in carico tutti quei lavoratori della imprese sotto sequestro. In tutto 3 mila dipendenti, paragonabile a un grosso stabilimento Fiat del Sud Italia. Ma il dato incredibile, e in controtendenza rispetto alla malagestione italiana delle società sequestrate, è che i ristoranti, le imprese edili, le cooperative gestite dagli amministratori del tribunale di Roma creano occupazione. Un'inchiesta dei quotidiani locali del Gruppo Espresso mette in luce dove crescono e quante sono le proprietà che le istituzioni strappano alla criminalità organizzata. Ma in alcuni casi, dopo la confisca, le aziende falliscono o i beni non vengono gestiti con attenzione. Sono circa una trentina i nuovi contratti stipulati. Camerieri, direttori di sala, muratori. Delle 250 società sotto controllo del tribunale di piazzale Clodio solo dieci sono a rischio chiusura, le altre navigano in buone acque e alcune hanno persino aumentato gli utili del 35 per cento rispetto al periodo in cui i capi clan erano padroni. Una sfida difficile, piena di insidie, su cui pesa un trend nazionale negativo: nel 90 per cento dei casi le imprese passate in mano allo Stato sono destinate al fallimento. Il crollo di clienti e fatturato è un fatto fisiologico. I fornitori complici dei boss svaniscono, ma soprattutto aumentano i costi, perché quando si subentra alla mafia tante spese che prima non venivano neppure prese in considerazione iniziano a pesare sui conti. Gli imprenditori mafiosi infatti molte regole non le rispettavano e perciò avevano margini di guadagno più alti. Gli amministratori invece hanno sanato le posizioni in nero, fatturano ogni cosa e per occupare il suolo pubblico con i tavolini hanno chiesto le autorizzazioni. Sembra una banalità, ma gli uomini della cosca Contini fino a due anni fa titolari della catena Pizza Ciro, frequentata da vip e politici, non rispettavano alcuna regola. Non si erano fatti scrupoli nell'occupare abusivamente la strada antistante con i tavoli. Irregolarità che nessuno aveva segnalato. Ora che il locale di piazza della Maddalena non è più loro, i professionisti incaricati dal tribunale hanno chiesto l'autorizzazione al Comune e hanno segnalato alla procura una sorta di accanimento dei vigili che, ora sì, sono diventati scrupolosi nei controlli. Per mantenere in vita questi veri e propri gioielli dell'economia locale, è fondamentale affidarli a un nucleo di bravi amministratori giudiziari, i quali a loro volta vengono affiancati da una sorta di manager in grado di andare oltre i conti e gli equilibri di bilancio. Non solo, la strategia si basa anche su una rete costruita con protocolli firmati tra procura, tribunale, associazioni di categoria e banche. Il segreto per evitare il crollo dell'azienda sotto sequestro è agire immediatamente. Insomma, una volta messo alla porta il prestanome del boss, un minuto dopo devono entrare i nuovi amministratori. Se la sotituzione non avviene rapidamente, il ristorante, la pizzeria, l'azienda di costruzioni, perde clienti e appalti, e inizia quella discesa senza scampo che porta alla chiusura. L'esempio emblematico del fallimento è il Cafè de Paris, simbolo della dolce vita e oggi chiuso dopo la confisca. I turisti che passano davanti alle vetrine si fermano e osservano. Non capiscono quello scempio. Una malagestione che assomiglia tanto a una resa incondizionata delle istituzioni. In molti per esempio erano convinti che la cooperativa 29 giugno senza il padrone Salvatore Buzzi non avrebbe resistito a lungo senza le relazioni di cui godeva il capo di Mafia Capitale Massimo Carminati. E invece è ancora lì, con i suoi 1.300 dipendenti, due esperti nominati dal Tribunale e nuovi appalti conquistati. Il nuovo corso della 29 giugno per ora è una scommessa vinta. Così come lo è la catena di ristoranti e pizzerie Pizza Ciro. Tutti i venticinque locali sequestrati al clan Contini della camorra, sparsi per il centro di Roma, vanno a gonfie vele, hanno messo in regola i dipendenti e ne hanno persino assunto di nuovi. C'è poi il Grand hotel Gianicolo sequestrato alla 'ndrangheta dal tribunale di Reggio Calabria e affidato agli amministratori utilizzati dai giudici di Roma. Forse l'esperienza meglio riuscita nel panorama del patrimonio sotto custodia statale. Bilanci in attivo, nuovi dipendenti, un direttore capace e un giovane chef calabrese che ha scelto di affidarsi allo Stato ottenendo un contratto regolare che il clan gli ha sempre negato. E ora può mostrare agli amici con una punta d'orgoglio la pagina che la guida Michelin dedica al ristorante dell'albergo da cui si ammira il cupolone di San Pietro. C'è in questa guida dell'antimafia che funziona anche un altro storico locale di Roma, i Vascellari. Un tempo proprietà della camorra, oggi è gestito dal team del tribunale con ottimi risultati. Oltre ai beni mafiosi, ci sono quelli sottratti ai corrotti. Il Salaria sport village, il tempio dove la cricca Anemone-Balducci-Bertolaso si rilassava con massaggi “stellari”, è il fronte su cui il tribunale sta investendo molte energie. Il progetto per recuperare a pieno la struttura è ambizioso. L'ipotesi è affidarla a una multinazionale dello spettacolo così da trasformarlo in un polo della cultura oltre che dello sport. Secondo le prime indiscrezioni manca solo la firma per concludere l'accordo che obbligherebbe la società a investire somme milionarie sul centro sportivo. In pratica lo Stato, in cambio di garanzie di investimenti seri, ha concesso l'affitto della struttura che altrimenti resterebbe nel limbo della macchina giudiziaria con il rischio più che concreto di non aprire mai più. Da questa buona gestione il primo a guadagnarci è proprio lo Stato che così non vede svanire nel nulla i costi indiretti dei singoli procedimenti di sequestro. Attività che impegna magistrati e detective anche per un anno e mezzo a cui vanno sommate le parcelle per gli amministratori. E dopo il sequestro ci sono le bollette da pagare e la manutenzione da effettuare. Per questo se viene messo a reddito nel minor tempo possibile l'amministrazione si libera di costi che nel tempo pesano molto sui conti pubblici. Il sistema virtuoso messo a punto dovrebbe essere valorizzato dal governo. Tuttavia, c'è un decreto approvato che va nella direzione opposta. Il provvedimento equipara gli amministratori giudiziari ai curatori fallimentari, con la premessa che il lavoro dei primi è molto più semplice e per questo i loro stipendi dovranno essere ridotti. La norma non è stata accolta benissimo nei tribunali. In particolare a Roma dove tre cancellieri e cinque giudici, che di rado vanno in ferie, negli ultimi 12 mesi hanno assegnato 60 beni alla comunità romana. E per farlo si sono affidati a un gruppo di 30 amministratori giudiziari competenti, più simili a manager che a burocrati, che hanno compiuto il piccolo miracolo".

L’Espresso è notoriamente uno sponsor di Libera, l’associazione di sinistra filo magistrati condotta da Don Ciotti. Libera che ha il monopolio dell’associazionismo antimafia in mano alla CGIL.

Denuncia la "miseria ladra" col vitalizio da consigliere. Il coordinatore di Libera e braccio destro di don Ciotti invoca il reddito minimo, poi intasca 2.600 euro al mese, scrive Giuseppe Alberto Falci su “Il Giornale”. Da animatore delle campagne contro la povertà al vitalizio da 2.619 euro netti al mese il passo è breve. Addirittura brevissimo se il soggetto interessato si chiama Enrico Fontana ed è anche il coordinatore nazionale di Libera, l'associazione fondata da Don Luigi Ciotti. Associazione nata nel marzo del 1995 «con l'intento - si legge nel sito internet di Libera - di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere la legalità e la giustizia». Nessun imbarazzo insomma per i venerabili maestri della sinistra benpensante quando si tratta di arricchire la cassaforte di famiglia. A Fontana, classe '58, giornalista professionista, ideatore del termine «ecomafie», che fa il maestrino a destra e a sinistra pubblicando libri per Einaudi e inchieste per l'Espresso , è bastato farsi eleggere alla Regione Lazio nel 2006. Anzi, subentra ad Angelo Bonelli che nel frattempo diventa capogruppo a Montecitorio del Sole che ride, gruppo a sostegno dell'ex premier Romano Prodi. Sono gli anni di Piero Marrazzo a governatore della Pisana. Anni in cui Fontana pungola l'esecutivo sui temi più disparati, dai rifiuti passando ai beni confiscati, continuando a presenziare in convegni dal titolo «Il sole sul tetto, energie rinnovabili e risparmio energetico». Ovviamente, non perdendo mai di vista il tema della povertà, cruccio della carriera dell'attuale braccio destro di Don Luigi Ciotti. Ma la legislatura finisce con qualche mese di anticipo per le dimissioni del governatore Marrazzo, coinvolto in uno scandalo a base di festini e trans. Ciò ovviamente consente al nostro Fontana di ottenere un lauto vitalizio. Dopo cinque anni scarsi in Regione e dopo aver versato circa 90mila euro di contributi, dal 2011 Fontana ricevo un assegno mensile di 3.187 euro che, a causa delle recenti sforbiciata apportate dalla modifica della normativa sui vitalizi, si è ridotto a 2.616,32 netto (dato che è possibile reperire all'interno del sito del M5s Lazio che monitora giornalmente le evoluzioni dei vitalizi). In sostanza, facendo un calcolo di massima, Fontana ha già incassato più di 150mila euro recuperando i 90mila euro versati di contributi. Ma non finisce certo qui. Perché dal settembre del 2013 Fontana è il coordinatore nazionale di Libera. E dalla casa di Don Ciotti, non è uno scherzo, Fontana lancia e anima la campagna «Miseria ladra». Gira ogni angolo del Belpaese per diffondere il verbo del padre nobile di Libera. Ma il vero paradosso è il seguente: il 15 aprile di quest'anno - insieme a Giuseppe De Marzo, coordinatore di «Miseria Ladra» - invia una lettera a tutti i parlamentari «per calendarizzare in aula entro cento giorni una legge per il reddito minimo o di cittadinanza, per contrastare povertà e disuguaglianza, così come da tempo ci chiede l'Europa». Il virtuoso della «legalità e della giustizia» incalza Montecitorio e Palazzo Madama ma intanto incassa, senza batter ciglio, il vitalizio. D'altronde è nello stile dei vertici di Libera. Nando Dalla Chiesa, presidente onorario dell'associazione, riceve mensilmente un assegno di 4.581,48 euro. Insomma, «miseria ladra» per gli altri, non per i venerabili maestri.

Il prete delle coop fustiga tutti ma salva gli amici che lo finanziano. Questa volta don Ciotti, di fronte a scandali e corruzione, non ha lanciato scomuniche come nel suo stile. Nessuna sorpresa: sono le cooperative rosse che danno soldi alla sua associazione, scrive Stefano Filippi su "Il Giornale". Cacciate i ladri: è un vasto programma quello che don Luigi Ciotti, il sacerdote dell'antimafia, ha assegnato alla Lega delle cooperative. Era lo scorso dicembre, i giorni dello scandalo romano di «Mafia capitale». Degli arresti tra i «buoni». Dei cooperatori che sfruttano i disperati. Dei volontari (o pseudo tali) che intascano soldi da Stato e Regioni pontificando che invece li avevano usati per accogliere gli extracomunitari. Dei portaborse Pd che facevano da intermediari tra enti pubblici e malaffare. Del ministro Poletti fotografato a tavola con i capi di Legacoop poi indagati. Dell'ipocrisia di una certa parte della sinistra pronta a denunciare le pagliuzze negli occhi altrui senza accorgersi delle proprie travi. Ma don Ciotti, il custode della legalità, il campione della lotta contro le mafie, il prete che marcia in testa a qualsiasi corteo anti-corruzione e pro-Costituzione, ha trattato con i guanti le coop rosse. «Bisogna sempre vigilare - ha detto - non c'è realtà che si possa dire esente». E ancora: «Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode». E poi: «Siate sereni, cacciate le cose che non vanno. Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli - ha proseguito -. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma dobbiamo evitare che ci rubino le parole. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione». Un appello generico, parole di circostanza davanti a un sistema smascherato dalla magistratura. Nulla a confronto delle scomuniche lanciate contro i mafiosi, i sì-Tav, i «nemici della Costituzione», i «guerrafondai», e naturalmente Silvio Berlusconi. D'altra parte, difficile per lui usare un tono diverso. Perché il prete veneto cresciuto a Torino è anche il cappellano di Legacoop. Il rapporto è organico. Le coop rosse (con la Torino-bene, la grande finanza laica e le istituzioni pubbliche) sono tra i maggiori finanziatori del Gruppo Abele e di Libera. L'associazione antimafia ha tre partner ufficiali: le coop della grande distribuzione, il gruppo Unipol e la loro fondazione, Unipolis. Nei bilanci annuali c'è una voce fissa: un contributo di 70mila euro da Unipolis. Legacoop collabora con il progetto «Libera terra», che si occupa di mettere a reddito i terreni confiscati ai mafiosi. «Un incubatore per la legalità», lo definiscono i cooperatori rossi che grazie a questa partnership aprono sempre nuove coop al Centro-Sud che sfornano prodotti «solidali». Don Ciotti si scomoda perfino per le aperture di qualche punto vendita, com'è successo quando le coop inaugurarono la loro libreria davanti all'Università Statale di Milano. L'agenda del prete è fittissima. Firma appelli, presenta libri di Laura Boldrini, promuove manifestazioni, guida cortei, interviene a tavole rotonde (a patto che non odorino di centrodestra), appare in tv, commemora le vittime della mafia, incontra studenti, ritira premi: l'ultimo è il Leone del Veneto 2015, ma nel 2010 fu insignito, tra gli altri, del premio Artusi «per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo». E poi inaugura mostre fotografiche e fa addirittura da padrino a rassegne di pattinaggio (è successo a Modena lo scorso 7 febbraio per il 19° trofeo intitolato a Mariele Ventre). In questo turbine di impegni, don Luigi non ha trovato il tempo di condannare apertamente le infiltrazioni della malavita organizzata nella galassia della cooperazione rossa. E non esistono soltanto «Mafia capitale» a Roma o le mazzette per il gas a Ischia; ci sono le indagini per la Tav, i lavori al porto di Molfetta, gli appalti di Manutencoop, le aziende legate al «Sistema Sesto» che coinvolgeva Filippo Penati, i cantieri Unieco in Emilia Romagna dove lavoravano famiglie della 'ndrangheta. Nei bilanci delle associazioni di don Ciotti i finanziamenti di Unipolis sono tra i pochi di cui è chiara la provenienza. Libera e Gruppo Abele rappresentano realtà consolidate. L'organizzazione antimafia ha chiuso il 2013 con entrate per 4 milioni 770mila euro raccolti in gran parte da enti pubblici: mezzo milione per la gestione dei beni confiscati, altrettanti per progetti e convenzioni internazionali, ulteriori 766mila per attività di formazione; 645mila euro arrivano grazie all'8 per mille, 200mila dalle tessere, 700mila dai campi estivi e 900mila da campagne di raccolta fondi. Maggiori problemi ha il Gruppo Abele, che ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita di 273mila euro, e il 2012 era andato pure peggio: un buco di quasi due milioni su uno stato patrimoniale di circa 10. La situazione finanziaria è disastrosa, con debiti verso le banche per 5 milioni e altri 800mila verso fornitori garantiti da un cospicuo patrimonio immobiliare valutato in circa 6 milioni 300mila euro: la sede di Corso Trapani è un ex immobile industriale donato a don Ciotti dall'avvocato Agnelli. Affrontare il disagio sociale costa e molte attività assistenziali non possono essere soggette a «spending review». Indebitarsi è oneroso: 261mila euro (quasi tutta la perdita di esercizio) se ne vanno in anticipi e interessi su prestiti principalmente verso Banca Etica, Unicredit e Unipol banca. I ricavi non seguono l'andamento dei costi. Le rette delle persone ospitate in comunità e i proventi per corsi di formazione o vendita di libri e riviste fruttano 2.838.000 euro. Più consistenti sono le entrate da contributi: quasi 3.700.000 euro. Oltre tre milioni piovono da Commissione europea, ministeri, regioni ed enti locali, fondazioni imprecisate; altri generici «terzi» hanno donato 731mila euro mentre istituti bancari senza nome hanno erogato quasi 350mila euro. Don Ciotti è un campione nel fare incetta di finanziamenti pubblici. Ma non bastano. Ecco perché deve girare l'Italia e sollecitare la grande finanza progressista a essere generosa con i professionisti dell'antimafia e dell'antidroga. È uno dei preti di frontiera più famosi, con don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi. Dai convegni coop alle telecamere Mediaset (è andato da Maria De Filippi, ma nessuno si è indignato come per Renzi e adesso Saviano), dagli appelli per la Costituzione (con Rodotà, Zagrebelsky, Ingroia, Landini) perché «l'Italia è prigioniera del berlusconismo» fino alle manifestazioni no-Tav, don Ciotti è in perenne movimento. Non lo frenano gli incidenti di percorso: il settimanale Vita ha segnalato («legalità parolaia») che Libera e Gruppo Abele figurano tra i firmatari di un accordo con i gestori del business delle sale gioco mentre il loro leader si è sempre scagliato contro l'azzardo. Dopo che Papa Francesco l'anno scorso l'ha abbracciato e tenuto per mano alla commemorazione delle vittime di mafia, don Ciotti vive anche una sorta di rivincita verso la Chiesa «ufficiale» che a lungo l'aveva tenuto ai margini. Lo scorso Natale ha promosso un appello per «fermare gli attacchi a Papa Francesco»: è l'ultimo manifesto, per ora, proposto da don Ciotti. Ma non passerà troppo tempo per il prossimo.

Quel romanzo che fa a pezzi il prete antimafia, scrive Alessandro Gnocchi su  “Il Giornale". Domani arriva in libreria I Buoni di Luca Rastello. È il primo titolo di narrativa pubblicato da Chiarelettere, editore più noto per le inchieste giornalistiche. La collana «Narrazioni», che accoglierà titoli di Gianluigi Nuzzi (sul Vaticano) e Luigi Bisignani (sul direttore di un quotidiano, forse ispirato a Ferruccio De Bortoli) è in linea con lo spirito battagliero del resto del catalogo. I Buoni non mancherà di fare discutere, perché racconta in modo impietoso il mondo dell'associazionismo, del volontariato e soprattutto dell'antimafia. La vicenda ruota attorno a don Silvano, prete anti-cosche, uomo santo per definizione, (ex) predicatore di strada, paladino degli ultimi. Ma anche manipolatore, parolaio, condiscendente oggetto di idolatria, amico di politici e rockstar. L'antimafia esce, dalle pagine de I buoni, come un sistema non troppo dissimile, nei fini e nel linguaggio, alla mafia stessa. L'associazione di Don Silvano, che amministra i beni sequestrati ai clan, favorisce la «mafia» dei propri amici e utilizza i soldi pubblici per scopi privati. Mentre don Silvano recita omelie in memoria dei caduti sul lavoro, i dipendenti della sua onlus sono privati dei diritti elementari. Legalità e trasparenza valgono solo per gli altri. In casa propria ci si regola invece secondo convenienza. E se i bilanci sono truccati, amen. L'intimidazione, riassunta nella frase omertosa «ci sono cose che non sai», è lo strumento per zittire chiunque osi avanzare una critica. Chi manifesta dubbi, viene liquidato senza cerimonie. È il potere dei più buoni, così come lo cantava Giorgio Gaber, «costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni». Il finale apocalittico però suggerisce che il castigo (divino?) giungerà dalle mani di un criminale (un Cattivo, dunque). Il giornalista e scrittore Luca Rastello, tra le altre cose, ha esperienza di questo mondo, avendo lavorato per il Gruppo Abele di don Luigi Ciotti in qualità di direttore della rivista Narcomafie. Adriano Sofri, sul Foglio, ha già messo in luce le analogie tra finzione e realtà, tra don Silvano e don Ciotti. I riscontri sono puntuali, dai luoghi fino all'arte oratoria passando per fatti di cronaca. Rastello in un'intervista a Nicoletta Tiliacos, sul Foglio, ha spiegato che I Buoni è un romanzo, non un pamphlet, «un'operazione narrativa» che fa «riferimento alla realtà». Don Silvano, dunque, è solo don Silvano: «uso personaggi reali - dice l'autore - come paradigmi di un mondo, di un sistema di manipolazione, di sequestro delle coscienze, non come oggetto di denuncia indirizzato a qualcuno in particolare». Comunque la somiglianza con «i personaggi reali» non passerà inosservata, anzi: scatenerà un uragano che nasconderà i pregi del romanzo. Rastello propone una visione anti-retorica della memoria e della legalità. Ma più interessante è la riflessione sulla nostra dipendenza dai simboli e dalle icone. Don Silvano è un impostore. Come dice Andrea, uno dei protagonisti, «abbiamo bisogno di lui» perché abbiamo bisogno di «convivere col male, fingendo di combatterlo». Don Silvano è l'alibi, la consolazione, l'anestetico, la foglia di fico di una società senza slancio e dalla falsa coscienza.

Aziende e amministratori giudiziari, in attesa di una querela facciamo qualche domanda alla D.I.A., scrive Pino Maniaci su "TeleJato". “Io lo posso dire aboliamo la Dia”, dice Gratteri criticando il soprannumero di dirigenti, uffici e segreterie, mentre gli stessi uomini in surplus potrebbero essere riportati sul territorio. Sono queste le proposte che avrebbe fatto se fosse arrivato al dicastero della giustizia. “Nessuno ha il coraggio di farlo, i politici mi chiamano e mi dicono: ‘Se lo facciamo ci danno dei mafiosi’. Allora lo dico io. Non possiamo pensare che non si possa chiudere un tribunale inutile. Non possiamo lasciare il 35 per cento di magistrati in più alla procura di Palermo. O si ha il coraggio di mandare a regime il ministero della giustizia oppure non cambierà mai nulla. . Non possiamo sperperare le energie”. La critica è diretta soprattutto agli interventi poco incisivi del passato: “Io sono d’accordo anche nel fare tagli, ma negli ultimi governi sono stati fatti solo quelli lineari del 5 per cento. Oggi guida la commissione che deve redigere norme e procedure per combattere la criminalità organizzata e annuncia le proposte che verranno fatte nei prossimi mesi uomini in surplus potrebbero essere riportati sul territorio. Ma vogliamo risparmiare davvero? Allora chiudiamo la Dia (Direzione investigativa antimafia). Parlo io: risparmiamo in dirigenti e segreterie e affitti e facciamoli tornare sul territorio. Aboliamo il Dap: sapete quanto guadagna un dirigente? 20mila euro”. Ed è proprio lì che, secondo Gratteri, bisogna intervenire. Queste le parole di Gratteri cioè di un magistrato in prima linea che fa’ i conti dello sperpero di ingenti capitali tra forze di polizia in surplus, che non servono a nulla se non a vivere di immagine di comunicati stampa e sparare minchiate di numeri nei vari sequestri di ingenti capitali; ma anche per far si che amministratori giudiziari e periti vengono pagati con le cifre fittizie dei lanci di agenzie. Partendo da questo presupposto vogliamo parlare di quello che succede nel nostro territorio, avendo sempre il coraggio di assumerci le responsabilità e sperando in una querela che finalmente apra uno squarcio di verità su quello che è diventato il business dell’antimafia fittizia e parolaia, buona per fare affari sulle spalle di mafiosi ma anche di cittadini onesti, sperperando e rubando soldi alla comunità tutta. Abbiamo parlato di giudici e amministratori giudiziari voraci, ladri che commettono illegalità diffuse che vengono denunciate agli organi competenti che per convenienza (e vorremmo capire che tipo di convenienza o connivenza) non danno seguito alle segnalazioni fatte da cittadini inermi di fronte a tribunali blindati, che non rispondono nemmeno alle domande di giornalisti che non sono leccaculo. Partiamo dal fatto e ci rivolgiamo alla Dia e speriamo che abbia il coraggio di risponderci, anche se fosse il caso con un mandato di cattura. La nostra Italia o ha investigatori che sanno lavorare o come viene molto spesso fuori dalle notizie di cronaca si prestano a fiancheggiare tribunali dove si trovano magistrati; e non siamo solo noi a dire che sono delle mele marce a cui piace visibilità e i “picciuli”. Prima domanda: oggi con i mezzi a disposizione quanto ci vuole a risalire ad una transazione di denaro? Con la tracciabilità e i potenti mezzi che disponete, perché prima sequestrate un’azienda e poi cercate di capire di chi è la proprietà? Prestate il fianco a far mangiare e arricchire amministratori giudiziari e loro collaboratori, che sono figli di magistrati, di cancellieri e cosi via? C’è un’organizzazione parallela che si spaccia per antimafia e che invece fa’ affari alla stessa maniera dei mafiosi? È questa l’Italia della legalità, della giustizia, della legge uguale per tutti? C’è da ridere se si va’ a sequestrare un impianto di carburante che un onesto cittadino ha comprato ben 16 anni fa’ in maniera regolare, e avete pure il coraggio di farvi consegnare i soldi che ha in tasca continuando a ridergli in faccia. Costate 70 milioni di euro al mese per pagare super stipendi a chi non sa’ nemmeno fare un’indagine seria? Allora chiudiamo la Dia anche perché non sa lavorare; inoltre, ci sono troppe forze di polizia superflue ed inutili che vivono solo di immagine di lanci di agenzie e di sperpero di denaro pubblico. Cara Dia, perché non indagate come un’ amministratore giudiziario possa guadagnare più di sette milioni di euro l’anno? Di chi è amico? Chi lo sostiene? Chi lo foraggia? Chi ci lavora dietro? E quante illegalità ha commesso, tanto da rischiare il giudizio per truffa aggravata e rimanere ancora in carica? Un rappresentante dello Stato deve aspettare eventualmente i tre gradi di giudizio? O per etica morale e dignità di un tribunale deve essere cacciato a pedate in culo? Perché le nomine come amministratori coadiuvatori etc etc vengono fatte anche a figli di cancellieri del tribunale come Grimaldi o come Cannarozzo, sempre gli stessi e sempre olio per tutte le insalate? Perché c’è un’ albo di 4000 pretendenti amministratori, ma vengono nominati sempre i soliti dieci? Sono bravi? Gli piacciono i picciuili? E sempre gli stessi portano al fallimento le aziende sequestrate. C’è pure chi se li vende o rimane all’interno dopo la confisca come amministratore dell’azienda? E l’albo nazionale previsto per legge è un’ optional? Perché sparate sempre cifre iperboliche non conformi alla realtà dei beni sequestrati? Usate i parametri catastali, o il valore di mercato che vi inventate? E sapete poi che i periti vengono pagati sulle cifre da voi esposte? Credo che di materiale per denunciarmi, arrestarmi o investigare, se decidete di fare le cose seriamente ce ne sia abbastanza; ma le nostre domande non finiscono qui: ne abbiamo anche di riserva, insieme alle carte e alle prove che vorremmo sottoporre alla vostra attenzione. Noi speriamo che la sezione misure di prevenzione di Palermo e gli ingenti capitali che amministra siano oggetto di attenzione da parte dei ministeri e della politica di competenza, perché la legge, così com’è, troppo allegra e troppo fantasiosa, colpisce i mafiosi; e lì saremo sempre al vostro fianco, ma colpisce anche le persone per bene. E come una volta mi ha detto un magistrato in prima linea della procura di Palermo, noi i beni prima li sequestriamo e poi vediamo di chi sono non funziona, non funziona, funziona solo per fare arricchire altri manciatari che rappresentano lo stato. Per chiudere, Gratteri è un pazzo? Il prefetto Caruso è un pazzo? Noi pensiamo di no, ma pensiamo invece che la Dia lavori male molto male. Siamo pronti come abbiamo già fatto al tribunale di Caltanissetta e in commissione nazionale antimafia ad essere uditi . Aspettiamo risposte.

Proprio mentre si sta facendo luce sul malaffare che ruota attorno al Tribunale di Palermo, sezione misure di prevenzione (vedi i servizi delle Iene e di Telejato, Marco Salfi), proprio quando viene fuori il coinvolgimento della Saguto nell'affidamento fin troppo allegro degli incarichi a pochi amministratori giudiziari, esce fuori la notizia che la mafia, non si sa come, vorrebbe uccidere la Saguto.

La mafia vuole uccidere la Saguto. È il giudice che sequestra i beni, scrive Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Allarme attentato. Una nota dei Servizi segreti mette in guardia il presidente che guida la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Uno "scambio di favori" fra clan gelesi e palermitani. A rischio ci sarebbe anche un altro magistrato. Potenziate le misure di sicurezza. Le notizie sono tanto frammentarie quanto inquietanti: la mafia vuole uccidere Silvana Saguto, il giudice che guida la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Come se non bastasse, c'è un altro dato che rende lo scenario ancora più preoccupante: per eliminare il magistrato, che fa la guerra ai clan a colpi di sequestri e confische patrimoniali, c'era un accordo fra i clan mafiosi gelesi e palermitani. Uno scambio di favori tra boss: qualcuno legato agli Emmanuello avrebbe dovuto uccidere il giudice di Palermo e i palermitani, in cambio, si sarebbero dovuti sbarazzare di un altro magistrato. Indiscrezioni vogliono che si tratti di Renato Di Natale, oggi procuratore capo di Agrigento, ma in passato a Caltanissetta dove ha coordinato le inchieste che hanno decimato il clan Emmanuello. C'era Di Natale alla testa dei pm che davano la caccia a Daniele Emmanuello. La latitanza del capomafia finì nel sangue, morto nel 2007 nel corso di un conflitto a fuoco con la polizia in provincia di Enna. Con i suoi fratelli aveva organizzato uno dei clan più potenti della Sicilia sud-orientale, in grado di dialogare con i boss di Palermo. L'allarme è suonato per la prima volta l'anno scorso, ma due mesi fa è stata una nota dei Servizi segreti a fare scattare il piano di sicurezza straordinario per la Saguto. Per proteggere il giudice sono arrivati più uomini di scorta, le è stata assegnata una nuova macchina, messa a disposizione dal ministero dell'Interno, con il livello massimo di blindatura, e l'esercito vigila sotto la sua abitazione. Il progetto di morte - si parla di un attentato le cui modalità restano top secret - ad opera del clan gelese sarebbe stato sventato mesi fa grazie ad alcuni arresti. Ed era un progetto già entrato nella fase operativa, visto che gli esecutori avevano eseguito dei sopralluoghi in città. La nota dell'intelligence, però, avrebbe proiettato nel presente il rischio attentato, probabilmente alla luce di alcune conversazioni captate dalle microspie. Le stangate patrimoniali hanno messo a rischio la stessa sopravvivenza di alcuni clan palermitani. Perché decidere di affidarsi agli uomini al soldo degli Emmanuello? Forse a Palermo non era stata trovata l'intesa tra i boss su chi dovesse entrare in azione o forse sapevano di essere sotto osservazione. Avrebbero così preferito affidarsi a killer che, venendo da fuori città, avrebbero destato meno sospetti. Ma quale famiglia mafiosa palermitana voleva eliminare il giudice? Impossibile fare delle ipotesi, visto che i sequestri delle Misure di prevenzione hanno colpito a tappeto tutti i mandamenti mafiosi. Troppi interessi economici - dalle piccole attività alle grandi imprese - sono stati intaccati della sezione Misure di prevenzione. Senza soldi la mafia non è più in grado di garantire assistenza alle famiglie dei detenuti, pagare gli stipendi dei picciotti, assoldare nuove leve. Insomma senza soldi, Cosa nostra non può né rinnovarsi, né garantire quella catena di mutuo soccorso e assistenza che ne rappresenta il punto di forza. Da quando c'è la Saguto alla guida della sezione del Tribunale, sono stati oltre 400 i provvedimenti avviati. Molti su input della Procura ma tantissimi su iniziativa degli stessi giudici. Sono saltate le connivenze, molto spesso le cointeressenze, fra pezzi dell'imprenditoria e le famiglie mafiose. Un lavoro scomodo che qualcuno vorrebbe spegnere con un gesto eclatante.

Questa mafia bifronte. I patrimoni di Cosa Nostra. I beni tolti ai boss, aumenta il numero dei gestori di tesori immensi, scrive Leopoldo Gargano su "Il Giornale di Sicilia". Ha iniziato la sua carriera facendo da uditore giudiziario con Giovanni Falcone e adesso ha 34 anni di sequestri e confische antimafia alle spalle. Una vita spesa a togliere denaro ai boss ed ai loro complici, quella di Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale. Proprio come sosteneva Falcone, che della lotta ai patrimoni mafiosi aveva fatto un punto fermo del suo lavoro. «Follow the money», diceva il giudice ucciso a Capaci, frase abusatissima ma sostanzialmente vera. Bisogna seguire il denaro per scoprire i misteri di Cosa nostra e dopo averlo seguito, possibilmente bisogna toglierlo alla mafia e restituirlo ai cittadini. E in questi anni di beni e denari, strappati ai mafiosi ce ne sono stati tanti. Dall' ottobre 2010 ad oggi, questo il periodo della gestione Saguto dell'ufficio, sono stati avviati 451 nuovi procedimenti patrimoniali e ne sono stati definiti 401. Ancora pendenti, dunque in attesa di confisca definitiva o di restituzione, ne risultano 257. La stima sui milioni di euro bloccati, tra immobili, aziende, terreni e conti correnti, è molto più difficile. Il valore dei beni sequestrati varia da personaggio a personaggio, impossibile fare una media. Ma per capire di che cifre parliamo, basta citare i due sequestri più grossi degli ultimi mesi. Quello ai danni degli eredi Rappa, un colpo da 800 milioni di euro, e il provvedimento a carico del ragioniere di Villabate Giuseppe Acanto, ex deputato Biancofiore all' Ars e collaboratore del mago dei soldi Giovanni Sucato, a cui è stato bloccato un tesoro da 750 milioni di euro. Ma chi amministra questo enorme patrimonio che da solo potrebbe fruttare quanto una legge finanziaria dello Stato? È uno dei punti di maggior criticità, secondo il punto di vista di alcuni osservatori. Troppo denaro, troppe aziende concentrate nelle mani di pochi professionisti superfortunati che si spartiscono, praticamente senza reale concorrenza di mercato, una torta gigantesca. Il presidente Saguto preferisce non intervenire sulla questione, sostiene di non volere in alcun modo alimentare polemiche. Ma i suoi uffici comunicano un dato. In quattro anni e mezzo, sono stati nominati poco più di cento nuovi amministratori giudiziari, che mai in passato avevano lavorato con la sezione. Una media di 25 ogni anno. Facendo un po' di conti dunque, ognuno gestisce non più di quattro procedimenti. E nuove nomine sono state fatte pochi giorni fa, giovani commercialisti e avvocati che hanno iniziato la carriera di amministratori di patrimoni considerati «sporchi», fino a prova contraria. E poi c'è la questione delle questioni. Le aziende sequestrate sono destinate a chiudere in poco tempo, il loro destino è il fallimento. Questa l'obiezione ripetuta un po' ovunque, lo slogan letto sui cartelli portati in piazza da operai licenziati. È così? Dagli stessi uffici al piano terra del nuovo tribunale, viene fornito un dato. Ovvero un numero: l'1. C'è una sola azienda che ha chiuso i battenti per fallimento. Ed è la sala Bingo Las Vegas di viale Regione Siciliana, un tempo gestito dal clan di Nino Rotolo. Lo Stato si era trasformato in croupier ma ha avuto scarsa fortuna e la società è naufragata. Ma non è finita qui. Perché proprio il mese scorso è stato ceduto il ramo di azienda e l' attività è stata rilevata da un imprenditore che riaprirà la sala, riassumendo parte dei vecchi dipendenti. Alcuni erano stati rimossi perché considerati troppo vicini ai vecchi titolari mafiosi. Le aziende in difficoltà sono invece tante, causa anche la crisi che ha devastato la già gracile economia siciliana, ma inutile nascondere che non è solo questo. Quando comanda il boss, spesso i fornitori sono molto più morbidi, gli impiegati sono in nero e costano di meno e la concorrenza fa un passo indietro. Per legge però i debiti fatti sotto amministrazione giudiziaria sono garantiti dall' Erario, mentre per quelli accumulati in precedenza, e dunque da saldare, c' è il disegno di legge presentato da Rosy Bindi, presidente della commissione antimafia, che dovrebbe essere risolutivo. Inutile usare eufemismi. Quando arrivano gli amministratori il discorso cambia. Intorno si crea una sorta di ostracismo, le banche sono propense a chiudere i conti ed i clienti fuggono. Come nel caso del ragioniere Acanto. Gestiva la contabilità di circa 400 aziende, 390 delle quali dopo il sequestro si sono volatilizzate in meno di una settimana. Ma gli sono rimaste fedeli. Il ragioniere ha aperto un nuovo studio e tutte le imprese sono tornate da lui.

La signora Saguto in una intervista al Giornale di Sicilia replica alle accuse sulla sua gestione: tutto falso, scrive Telejato. Siamo al botta e risposta. Ma non in un dibattito a viso aperto, in un procedimento giudiziario per diffamazione, nei riguardi della redazione di Telejato, che potrebbe essere fatto senza problemi, poiché la magistratura e i suoi componenti hanno in mano tutti gli strumenti per inquisire, giudicare, condannare. Un procedimento giudiziario potrebbe portare alla luce tante cose che è preferibile tenere nascoste, che è meglio secretare per allontanare la presenza della stampa e delle telecamere. Il botta e risposta avviene in modo più sottile, proprio grazie alla possibilità di poter disporre in qualsiasi momento di giornalisti compiacenti, di porgitori di microfono, di cantori d’ufficio delle opere, delle meraviglie e del grande contributo nella lotta contro la mafia che una singola persona è stata capace di portare avanti nella conduzione dell’ufficio misure di prevenzione di Palermo. E così, dopo i due servizi delle Iene sul comportamento e sull’operato disastroso degli amministratori giudiziari di Palermo, sui fallimenti del 90% delle imprese sequestrate, sul cumulo impressionante di cariche e nomine nelle mani di pochi amministratori giudiziari, ecco che la regina di cui parliamo, la dott.ssa Saguto, per mostrare che si tratta solo di fumo e di notizie sbagliate, alza il telefono, chiama un giornalista del solito Giornale di Sicilia, questa volta si tratta di Leopoldo Gargano, e si fa fare un’intervista nella quale dichiara che nei suoi 34 anni di servizio ha avviato 451 sequestri, che di questi 275 sono in attesa di confisca definitiva, che non è vero che gli amministratori sono sempre gli stessi, ma che sono più di cento i “quotini”, pardon, gli amministratori giudiziari nominati, alcuni dei quali di nuovissima nomina, che non è vero che i beni sequestrati sono amministrati male e falliscono, ma che ne è fallito uno solo , la sala Bingo Las Vegas di Nino Rotolo, dal momento che ai palermitani non piaceva che lo stato si fosse trasformato in croupier, ma che anche questa sala al più presto riaprirà. È vero, ci sono difficoltà c’è la crisi, il boss comandava con metodi non legali, le banche non fanno credito agli amministratori, i clienti fuggono, ma tutto si sistema piano piano. Quindi tranquilli, tutte menzogne di gente che non si rende conto di fare un favore alla mafia nel momento in cui se la prende con questa eroina e regina dell’antimafia, erede del messaggio di Falcone, che è quello di colpire la mafia nei suoi patrimoni. Non è il caso di dire che, a giudicare da quanto si dice attorno, sia la Commissione Antimafia, sia la stampa, sia gli stessi vertici giudiziari di Palermo e Caltanissetta stanno cercando di alzare il velo sui tanti misteri e sulle distorsioni e anomalie che ruotano attorno all’ufficio misure di prevenzione, evidenziando l’assoluta urgenza di nuove normative che regolino il complicato settore della gestione dei beni mafiosi. Staremo a vedere se tutto, come al solito non sarà archiviato. La Saguto, nella sua sapiente strategia di controllo del tutto, cerca di metterci una pezza, o, come diciamo in siciliano, di “mettersi u ferru arrieri a porta”. Da tempo denunciamo tutto ciò, ma da tempo il potere finge di non sentire e non vuole procedere: tutto va bene, abbiamo scherzato, tanti omaggi, dott.ssa Saguto, dio salvi la Regina.

I Quotini. Il Cerchio magico che ruota intorno agli amministratori giudiziari, tutti in quota, nella quota del loro re, cioè di colui che li fa lavorare..., scrive Salvo Vitale su "Telejato". Avere visto allo stadio di Palermo, in tribuna d’onore, la sig.ra Silvana Saguto, il sig. Cappellano Seminara e il sig. Aulo Giganti, ospiti di Zamparini, ha fatto suonare una serie di campanellini d’allarme. Che, malgrado il muro d’impenetrabilità che circonda l’argomento, hanno trovato qualche conferma. L’inghippo che sta sotto questo affare è grosso , tutti suggeriscono di “levarci mano”, tanto non si potrà cambiare, perché il sistema di potere che è stato organizzato attorno ai beni confiscati è capace di resistere a qualsiasi attacco. C’è chi dice che dietro ci sta la massoneria, si parla, senza poterlo dimostrare, di rapporti d’affari tra Cappellano Seminara e il marito della sig.ra Saguto, tal ingegnere Caramma, si dice che la convivente del figlio della Saguto, un’altra avvocatessa dal nome esotico, Donna Pantò, gestirebbe i beni delle aziende Rappa assieme a Walter Virga, figlio del magistrato Virga del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha archiviato un procedimento giudiziario nei confronti della Saguto. Queste e altre maldicenze non mettono in discussione un principio: esiste un cerchio magico tra i personaggi che abbiamo citato, tant’è che sono sempre gli stessi , gestiscono imperi economici e hanno trovato vitalizi, affari e ricchezze, senza che nessuno parli e denunci con chiarezza. Sono i nuovi padroni della città. Hanno scoperto come vivere parassitariamente alle spalle degli altri, secondo lo stesso schema e lo stesso principio usato dai mafiosi, sfruttando i proventi dell’accumulazione mafiosa, nel momento in cui questa ha scelto, sperando di poter “farla franca”, cioè di sfuggire ai fulmini del controllo istituzionale, di darsi all’imprenditoria, soprattutto nel settore dell’edilizia. La strada della denuncia nei loro confronti e nei confronti del magistrato delle misure di prevenzione che li nomina è in genere sconsigliata dagli avvocati, sia perché pure essi devono campare, sia perché inasprirebbe le sanzioni repressive, mentre essi devono dimostrare di sapere portare a casa del cliente qualche risultato, sia perché non ci sarebbe più nessuna possibilità di lavoro né per il cliente sotto indagine né per i propri eredi, dal momento che non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede, ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati. Qualcuno ha parlato di “mafia dell’antimafia”: non è esatto spacciare per antimafia l’esercizio di un potere fatto a fini repressivi. La repressione ha un senso quando sotto c’è il dolo, ma l’altra parte del dolo, quello di chi esercita la repressione, eufemisticamente chiamata “prevenzione”, diventa molto spesso prevaricazione e sopruso, specie se sotto c’è un disegno e un circuito affaristico da tutelare. Il circuito lo abbiamo individuato: è fatto dai vari Dara, Cappellano Seminara, Gigante, Turchio, Benanti, Sanfilippo, Aiello, Virga e da una serie di “collaboratori”, avvocati e dipendenti che vi girano attorno, girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: così, se uno di essi compie otto mesi di lavoro, retribuito da 3 a 5 mila euro, ha diritto alla disoccupazione, scaduta la quale sarà assunto da un altro avvocato del giro, per un altro incarico. A Palermo, negli ambienti giudiziari li chiamano “quotini”, nel senso che ognuno versa una quota al sommo re dei “giustizieri”, a colui che regge le fila della Cappella. A vederli, i collaboratori sono tutti avvocaticchi, i “nominati”, cioè gli assunti per espletare incarichi di sorveglianza, sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati. Calcolando missioni, spese di viaggio gonfiate, fatture a rimborso ecc, si arriva a impressionanti cifre. Si veda il caso dei negozi di Niceta, che, al momento del sequestro avevano un fatturato di 20 milioni, che, con la crisi avevano dimezzato la cifra, ma riuscivano a mantenerla, anche in gestione giudiziaria: è stato calcolato un budget spese di 500.000 euro l’anno, di cui, almeno 200 nelle tasche dell’amministratore capo Gigante: lui stesso ha detto che in fondo non è una grande cifra, è pari al 5%, cioè a un vero e proprio pizzo. Anche gli emolumenti dei suoi collaboratori, che non fanno assolutamente niente, se non un saltuario atto di presenza, magari per rifornirsi il guardaroba, sono sbalorditivi: tutto naturalmente grava sui mancati pagamenti per le commesse d’acquisto, sulla chiusura di alcuni punti vendita, che, per una falsa concezione dell’economia, comporterebbero risparmio, e su contratti di solidarietà con i quali si obbligano i dipendenti ad accettare una riduzione del 20% dello stipendio. Onde evitare licenziamenti in grande numero, che susciterebbero clamore mediatico e proteste, oltre che suscitare malumori per le norme che regolano l’amministrazione dei beni sotto sequestro, si spostano i dipendenti del punto chiuso in un altro che ancora resiste e che comunque è già sufficientemente coperto dal personale. E intanto, visto che i fornitori, non avendo più le garanzie di una volta, si rifiutano di fornire merce, gli scaffali si svuotano, gli inizi di stagione, che in genere comportano molte vendite, non partono, sono finiti gli sconti, che hanno portato , con il 70%, perdite e fine rapporti di lavoro. Da questa disperazione, vengono fuori altri risvolti: perché alla Conca D’oro di Zamparini al negozio di Zara, oltre 2000 mq. è stato concesso di non pagare affitto per due anni, mentre Niceta paga 20 mila euro al mese di spazio? C’è forse un sottile disegno che vuole favorire l’imprenditoria straniera e bloccare qualsiasi forma di lavoro in Sicilia, con l’accusa che tutta l’economia palermitana è mafiosa? E se c’è questo, cosa c’è sotto di questo?

Il “Re” è nudo. Come nella favola di Hans Christian Andersen l'incantesimo sembra si stia spezzando, il re è nudo,  scrive Marco Salfi su "Telejato". Parliamo di un Re che paradossalmente ha molti tratti in comune con quello delle fiabe per bambini dello scrittore Danese. Si tratta infatti del sovrano degli amministratori giudiziari, diciamo per usare un eufemismo che è il più quotato a Palermo. I dati della camera di commercio parlano chiaro e non mentono a differenza di quanto a riferito nell’intervista rilasciata a Matteo Viviani. Ma andiamo con ordine. Telejato da più di tre anni sta portando avanti un inchiesta sugli amministratori giudiziari e il sistema a tratti marcio che si è sviluppato intorno alle misure di prevenzione del tribunale di Palermo. L’abbiamo di recente ribattezzata “La mafia dell’antimafia” e in merito alle vicende scoperte e denunciate dalla nostra emittente, da diverso tempo abbiamo chiesto di essere ascoltati dalla commissione nazionale antimafia che più volte si è occupata del tema, ascoltando solo la campana della presidente della prima sezione misure di prevenzione de tribunale di Palermo, la dottoressa Silvana Saguto. Si tratta di un giro d’affari di svariati miliardi nelle mani di pochissimi e sotto la responsabilità di uno dei due giudici a latere del fu maxi processo. Le vicende che si intrecciano in queste storie sono diverse e vanno dalla mala amministrazione di patrimoni acclarati mafiosi, a presunti sequestri arbitrari di beni che in alcuni casi hanno portato pure all’amministrazione controllata di grandi aziende come l’Italgas. La speranza è che dopo il passaggio delle Iene non si spengano i riflettori e che la commissione nazionale antimafia e gli organi della magistratura competenti possano far luce su questa vicenda, tenendo conto anche delle tante denunce fatte non solo dalla nostra emittente, ma anche dal prefetto Caruso, che più volte è stato ascoltato in merito, proprio dalla commissione d’inchiesta parlamentare presieduta da Rosy Bindi. Forse finalmente qualcosa sta cambiando e auspichiamo che associazioni che a volte si sono comportate da “professioniste dell’antimafia” possano inserire seriamente questi temi nelle loro agende, in maniera laica, lontane quindi da logiche che poco hanno a che fare con la lotta e il contrasto  alla criminalità organizzata. L’antimafia non è un business.

Le Iene intervistano Cappellano Seminara, scrive Salvo Vitale su "Telejato". Parliamo di Cappellano Seminara, un personaggio che ormai i nostri telespettatori conoscono bene, da noi definito “u re”, ovvero il signore degli amministratori, al quale sono stati dati una sessantina di incarichi da parte della Procura di Palermo, ufficio misure di prevenzione, diretto dalla dott.ssa Saguto. Di questi tempi Cappellano si fa vedere anche con un altro bell’esemplare della razza degli amministratori giudiziari, l’avv. Aulo Gigante, anche lui nel cuore della Saguto e attuale amministratore dell’impero dei Niceta, ormai ridotto allo sfascio. I due si conoscono sin dai tempi in cui a Cappellano venne affidata l’amministrazione giudiziaria del Gruppo Aiello a Cappellano Seminara, e l’avvocato Gabriele Aulo Gigante era il legale rappresentante del Gruppo. Poiché Cappellano Aveva già molte amministrazioni, tirò fuori dal cappello il nome di Andrea Dara, un oscuro revisore dei conti, al quale, tramite i suoi contatti privilegiati con l’Ufficio misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, riuscì a fare dare la nomina di amministratore giudiziario, restando egli nell’ombra a muovere i fili delle imprese sequestrate. Dara intorno al 2007 ebbe una serie di contrasti e divergenze con Gigante, che diede le dimissioni, e si scrollò anche della tutela di Cappellano, il quale, nel timore che Dara stesso potesse coinvolgerlo nel dissesto in cui il Gruppo Aiello stava precipitando, prese le distanze e iniziò un contenzioso per il recupero di parcelle per amministrazione della Clinica S. Teresa. La richiesta iniziale era di circa € 1.200.000. Due anni fa Dara, come amministratore, è stato condannato a pagare € 1.000.000 allo stesso Cappellano. Bazzeccole. E nessuno pensi che Dara li abbia tirati fuori dalla sua tasca. In altre occasioni vi abbiamo parlato di come il Cappellano controlla un “cerchio magico” dei “quotini”, ovvero di avvocati, figli di magistrati ecc. in qualche modo legati a lui, nella sua quota”, ai quali vengono dati incarichi vari dal tribunale o da parte di lui stesso. Per darvi una mezza idea del personaggio vi diremo che, dove Cappellano ha realizzato il suo miglior capolavoro è nella Legal.gest.consulting srl, in sigla LGConsulting srl, che risulta di proprietà della figlia Cappellano Carlotta, la quale ha versato 100 euro di quote nominali per diventarne azionista, ma solo del 5%, mentre il padre Gaetano ne ha versati 9.900, proprietario perciò al 95% e ne è amministratrice unica la madre Seminara Elda, nata nel 1932 e quindi di 82 anni. Si tratta di un albergo che mette il Cappellano in concorrenza con se stesso, perché amministratore giudiziario dell’hotel Palazzo Brunaccini. Nel 2011 la Legal gest cede la gestione dei servizi alberghieri ad un’altra società, la Turism project srl, della quale il 100% delle quote sociali è della Legal gest consulting srl, socio unico, cioè lo stesso Cappellano Seminara, il quale è amministratore giudiziario di un altro gruppo alberghiero, la ghs hotel Ponte spa. Tutto questo è quel che si sa sino al 2011, dopodichè, non si sa con quale motivazione, le nomine degli amministratori e delle aziende loro affidate sono diventate segreti d’ufficio. Adesso, dopo il bel servizio sulle imprese Cavallotti e sull’altro bel campione delle amministrazioni giudiziarie che è Modica de Moach, i simpatici ragazzi delle Iene ci riprovano con Cappellano. Quello che hanno combinato lo sapremo in questi giorni e, dopo che andrà in onda, speriamo di darvi tutto il servizio, dal momento che la nostra collaborazione è stata preziosa per la sua realizzazione. Ecco una feroce satira con cui Telejato ha bollato l’immarcescibile amministratore giudiziario:

Seminara Cappellano è un gran figlio di bu….ano…,

quando allunga un po’ la mano egli prende a tutto spiano,

Parcheggiato all’Arenella tiene un gran catamarano

sequestrato a un mafioso siciliano e palermitano,

ci va sopra e va lontano, si diverte a tutto spiano,

Beni ne ha affidati tanti, di mafiosi e pur di santi,

fa fallire tutti quanti, frega soldi e non va avanti.

Porta tutti al fallimento, solo allora egli è contento.

State attenti a Cappellano, non girate il deretano

è capace di strapparvi tutti i peli intorno all’ano.

Tutti dicon che è un co…cciuto, quelli che l’han conosciuto,

tutti eccetto la dott.ssa Saputo.

Cappellano Seminara, “il re” è rinviato a giudizio dalla procura di Roma, scrive "Telejato". L’elenco dei beni sequestrati ed affidati a Gaetano Cappellano Seminara coinvolge una cinquantina di aziende già confiscate ( di quelle sequestrate non si sa nulla), ed offre uno spaccato di come l’attenzione dei mafiosi sia particolarmente rivolta al settore edilizio e immobiliare, ma non disdegna di occuparsi di altri campi, come quello delle forniture mediche, del turismo, dei trasporti, della plastica, delle reti idriche, del metano, dei lavori della pubblica amministrazione. Buona parte dei beni in oggetto si trovano nel circondario di Bagheria, dove Seminara ha uno studio e dove l’imprenditoria siciliana legata a Bernardo Provenzano ha trovato un fertile terreno per investire denaro. A Bagheria c’è Villa Teresa, una delle cliniche più attrezzate, costruita con i soldi di Michelangelo Aiello,il più ricco imprenditore siciliano, con investimenti collaterali di Bernardo Provenzano e con la protezione politica di Totò Cuffaro, oltre che con la complicità della Regione Sicilia, che ha assicurato pagamenti esorbitanti di pagelle mediche. Comunque Villa Teresa è stata affidata a un altro di questi campioni, Dara, al quale l’incarico è stato revocato dopo lunghi anni di cattiva amministrazione. Non faremo l’elenco dei circa 60 beni affidati al nostro grande amministratore, forse il più grande, il re degli amministratori giudiziari. Titolare di uno studio legale nel quale, per sua ammissione, lavorano oltre trenta dipendenti. Si può dire che buona parte dell’imprenditoria palermitana sia finita sotto le sue grinfie, perchè la dott.ssa Silvana Saguto, che dirige il settore delle misure di prevenzione, è assolutamente convinta che nessuno sia migliore di lui. In quest’orgia di affari, ne è capitato uno che si è rivelato la classica buccia di banana su cui il Cappellano è scivolato. Si tratta della discarica di Bucarest, ritenuta la più grande d’Europa, sulla quale aveva messo le mani Vito Ciancimino e poi il figlio Massimo, che ne gestivano una parte, poi confiscata e affidata al solito Cappellano. Quando uno dei proprietari si ritirò e bisognava rinnovare il Consiglio di amministrazione, Cappellano pagò un lavavetri per acquistare, come prestanome una quota importante ed entrare nel consiglio di amministrazione, per poi diventarne presidente, giochetto che gli è riuscito numerose volte. Questa volta il gioco è stato smascherato. Infatti, grazie alle grandi intuizioni del Procuratore Capo di Roma Pignatone, già del tribunale di Palermo, e quindi collega della dott.ssa Saguto. Valenti, che già da 5 anni ha smesso di occuparsi della discarica rumena, di cui era socio, è stato arrestato per “tentativo di riciclaggio” dei soldi della discarica rumena. Tutto ciò malgrado il GUP di Palermo nel 2013 si fosse dichiarato incompetente per territorio e avesse dichiarato l’estraneità del Valente rispetto ai fatti di cui era accusato. Il Valente, che ha denunciato anche un tentativo ricattatorio di alcuni sindaci di importanti città italiane (si parla di Roma e, in particolare di Napoli e del suo sindaco De Magistris, il quale avrebbe speso oltre 10 milioni di euro per intercettarlo e spiare i suoi movimenti, con la richiesta di farsi carico del deposito dei rifiuti della città. Un arresto per “tentativo di riciclaggio” è il massimo cui possa ricorrere la giurisprudenza: non il reato, ma il tentativo di farlo, prima che sia stato fatto. Ecco perché le misure di prevenzione. Prevenire è meglio che curare. Ma Valenti, a questo punto, ha sporto denuncia contro l’operato di Cappellano Seminara, il quale si ritrova oggi inquisito, per truffa aggravata, non solo in Romania, ma anche in Italia, esattamente dalla Procura di Roma, dove dovrà presentarsi il 22 ottobre, perché rinviato a giudizio, dopo tre archiviazioni della stessa inchiesta, sulle quali è facile ipotizzare l’intervento dei magistrati di cui ci siamo occupati. Sembra che la quarta volta il GUP non abbia potuto fare a meno di procedere. Tra gli accusatori di Seminara c’è anche il principale gestore della discarica rumena, un certo Dombrowsky, il quale apparteneva ai servizi segreti rumeni quando era ancora dittatore Jarusewsky . Costui ha chiesto 50 milioni all’ufficio diretto dalla dott.ssa Saguto, come acconto per una ulteriore richiesta di rimborso danni per la cattiva gestione della discarica fatta da Seminara, almeno nella parte che gli competeva. E così Seminara, nel prossimo ottobre, farà un viaggetto a Roma, non sappiamo se per raccontare altre balle, mentre la dott.sa Saguto dovrà cominciare seriamente a pensare dove trovare i primi 50 milioni di euro chiesti da Dombrowsky, in attesa che non le si presentino altri conti. Gli suggeriamo di fare una misura di confisca dei beni proprio nei confronti del suo pupillo, Cappellano, il quale di beni confiscati ne avrà messo da parte parecchi.

Che fine ha fatto la “robba” dei boss? L’ Antimafia al lavoro sui dossier. “Da più parti riceviamo denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia” ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale, che sta analizzando l’utilizzo delle ricchezze sottratte a Cosa nostra, scrive Giuseppe Pipitone su “L’Ora Quotidiano”. Palermo è la capitale della ”robba” dei boss. Il quaranta per cento di tutti i beni confiscati a Cosa Nostra, infatti, si trova nel capoluogo siciliano. Ed è proprio da Palermo che arriverà il primo dossier con le anomalie sulla gestione degli immobili confiscati alla mafia. Un patrimonio imponente: più di diecimila immobili, mille e cinquecento aziende, più di tremila beni mobili. Numeri che fanno dell’Agenzia per i beni confiscati, creata nel 2009 per gestire “la robba dei boss”, la prima holding del mattone d’Italia. E probabilmente anche la più ricca: il valore dei beni confiscati alle mafie, infatti, si aggira intorno ai 25 miliardi di euro. Un vero tesoro, che però spesso non riesce ad essere restituito alla collettività. A Palermo, per esempio, sono solo 1.300 i beni assegnati su un totale di 3.478. “Da più parti riceviamo, in audizione, denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Denunce che, dopo le trascrizioni, trasmetteremo alla magistratura e al ministero dell’Interno per le necessarie verifiche”, ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale Antimafia, che sta lavorando ad un dossier sulla gestione dei beni confiscati. Proprio ieri la commissione Antimafia ha ascoltato la deposizione del prefetto Umberto Postiglione, che ha sostituito Giuseppe Caruso alla guida dell’Agenzia. “Insieme alla commissione Lavoro dell’Assemblea regionale siciliana – ha continuato Musumeci – stiamo elaborando una proposta di modifica della legge nazionale vigente  ponendo particolare attenzione due problemi: la tutela dei dipendenti di quelle aziende che spesso chiudono dopo la confisca; il patrimonio di edilizia abitativa da destinare, a nostro avviso, alle famiglie indigenti e alle Forze dell’ordine piuttosto che restare inutilizzato e in completo abbandono”. L’emergenza principale è forse rappresentata dai dipendenti delle aziende sottratte a Cosa Nostra. La maggior parte delle società confiscate, infatti, finisce per fallire, e i dipendenti rimangono senza lavoro. Questo perché il codice antimafia recentemente approvato, che ha preso il nome del ministro Angelino Alfano, prevede la liquidazione di tutti i crediti non appena l’amministratore giudiziario prende possesso della società. “Significa che se questa norma venisse intesa in senso rigido, il tribunale deve procedere a liquidare il 70 per cento dell’impresa per pagare tutti i crediti: e quindi non resterebbe alcuna risorsa per continuare a far vivere l’azienda”, spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Con il risultato che dopo la confisca gli ex dipendenti delle aziende di Cosa Nostra rimangono senza lavoro. “Con la mafia si lavora, con lo Stato no” gridavano negli anni ’80 gli operai delle prime aziende confiscate a Cosa Nostra. Oggi la situazione non sembra particolarmente migliorata. Un segnale poco incoraggiante,  pericolosissimo in una terra come la Sicilia che di segnali vive e si alimenta.

Mafia e “antimafia” qualcosa si muove, scrive Marco Salfi su “Telejato”. La notizia è molto recente, sembrerebbe che dopo anni di denunce, editoriali e servizi da parte di questa testata qualcosa si stia muovendo. Ad essere sotto indagine per l’accusa d’abuso d’ufficio teoricamente dovrebbe esserci Andrea Modica de Moach ex amministratore giudiziario delle aziende del gruppo Cavallotti, tuttavia al momento non si sa nulla in merito. Quello che è certo è che nei giorni scorsi un servizio delle Iene realizzato con la collaborazione della nostra redazione ha messo in luce la storia dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, imprenditori assolti dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e nonostante tutto oggetto ancora di misure di prevenzione patrimoniali. Il processo penale che ha visto l’assoluzione con formula perché il fatto non sussiste che ha visto protagonisti i 6 fratelli del piccolo paesino in provincia di Palermo era incentrato sulle presunte raccomandazioni che questi avrebbero avuto nell’aggiudicazione di alcuni appalti per la metanizzazione nei comuni di Agira e Centuripe. In realtà i pizzini che secondo l’accusa, e a tutt’oggi secondo le misure di prevenzione di Palermo incriminerebbero i Cavallotti indicavano chiaramente il pagamento del pizzo, la così detta in gergo mafioso “messa a posto” e non una raccomandazione che lascerebbe così spazio all’ipotesi di turbativa d’asta. Modica de Moach è stato nominato amministratore giudiziario delle aziende del gruppo Cavallotti nel 1999 dal tribunale di Palermo. Il suo compito era quello di amministrare le aziende in attesa che venisse concluso il processo legato alle misure cautelari che procede parallelamente a quello penale. Stando alla legge Modica avrebbe dovuto mantenere in attivo le aziende preservando i livelli occupazionali e mantenendo inalterato il volume d’affari. Tuttavia nulla di tutto questo è avvenuto. Per quella che in una relazione dello stesso modica è stata definita insolvenza tecnica è stato dato il via ad una serie di operazioni finanziarie, avallate per altro dal tribunale di Palermo, nelle quali attraverso alcune compravendite di rami d’azienda e alla cessione di debiti già prescritti Modica avrebbe percepito indebitamente del denaro dalle casse della Comest azienda del gruppo Cavallotti specializzata nella metanizzazione. Il dottor Vincenzo Paturzo curatore fallimentare presso il tribunale di Milano, analizzando dodici anni di bilanci aziendali ha riscontrato una situazione davvero singolare. Al contrario di quanto sostenuto da Modica la Comest aveva tutte le risorse finanziarie e non era come affermato in uno stato di “insolvenza tecnica”. Certo parliamo di una azienda sconvolta da una vicenda giudiziari importante ma non così malata. Al fine di risanare le sorti finanziarie Modica ha ceduto dei rami d’azienda del gruppo e li ha fatti rilevare da una società in amministrazione giudiziaria la Tosa, confiscata in via definitiva e amministrata dal fratello Giuseppe Modica con l’avallo del tribunale. Un operazione che nei bilanci non avrà alcun beneficio. Beneficio che invece trarranno le società che venderanno i rami d’azienda in questione realizzando un profitto di un milione di euro. Quanto ai debiti prescritti (quindi non più dovuti ne esigibili) nel 2009 questi vengono ceduti tramite scrittura privata da Comest e Icotel (società del gruppo Cavallotti) alla Advisor and services for Business di cui diventerà amministratore unico proprio Modica de Moach pochi mesi dopo la firma di questa scrittura privata, facendogli così acquisire indebitamente un milione di euro. Sui fatti esposti, la commissione regionale antimafia dapprima ha audito Pino Maniaci e qualche giorno fa ha ascoltato la testimonianza di Pietro Cavallotti. Sulla scorta di queste audizioni e delle numerose denunce di anomalie la commissione guidata da Nello Musumeci sta preparando un dossier. «Dopo avere completato le trascrizioni – annuncia il presidente dell’Antimafia – provvederemo a trasmettere il documento anche all’autorità giudiziaria’. «Abbiamo riferito al prefetto (Postiglione ndr) che in un anno e mezzo la commissione ha raccolto il grido di allarme di giornalisti, amministratori, imprenditori e rappresentanti dei lavoratori che denunciano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni tolti alla mafia». «In alcuni casi – ha spiegato Musumeci – si tratta di denunce di vere e proprie incompatibilità, situazioni preoccupanti. In altri casi abbiamo riscontrato la concentrazione di molti incarichi nelle mani di un unico amministratore e tentativi di favorire società e studi professionali». Pietro Cavallotti dopo l’audizione si è detto soddisfatto per aver avuto la possibilità di raccontare davanti alle istituzioni la storia della sua famiglia. «Ho avuto la possibilità – ha affermato Cavallotti –  di replicare alle affermazioni fuorvianti rese dai magistrati Scaletta e Petralia lo scorso 21 ottobre alla Commissione Nazionale Antimafia» «Viviamo in una condizione di indigenza a seguito dei vari provvedimenti giudiziari e siamo impossibilitati a trovare un lavoro per la cattiva reputazione costruita attorno alla nostra famiglia» Cavallotti ha chiosato «Tuttavia  ringrazio Telejato per avere per primi avuto il coraggio di denunciare il malaffare che ruota attorno al sistema dei beni sequestrati». Continuerà l’indagine di Telejato che da anni sta denunciando questa gravissima situazione, anche attraverso la petizione lanciata su change.org nella quale si chiede che Pino Maniaci venga ascoltato dalla commissione nazionale antimafia.

Il lato oscuro dell'antimafia, scrive “La Repubblica” che diventa paladina di quell’antimafia partigiana, di sinistra e pro magistrati che vedono in “Libera” lo sbocco naturale e interessato. Perché al di la di “Libera” c’è un sistema emarginato di associazioni libere di fatto che ogni giorno devono combattere la mafia e l’antimafia.

Le associazioni che si presentano come paladine della legalità sono centinaia ma non tutte sono affidabili. Anzi. La loro presenza e la loro attività rischiano di svilire il lavoro eccezionale di gruppi storici diventati paladini della lotta ai clan. Rapporti della polizia giudiziaria, racconti dei pentiti, inchieste dei magistrati, svelano che spesso dietro una pretesa onestà si nascondono interessi personali e, in alcuni casi, contigui con la stessa criminalità organizzata. Il tutto all'ombra di fondi pubblici, raccolte di beneficenza e, persino, utilizzo di beni sequestrati alle cosche. Una realtà allarmante su un tema delicatissimo.

Quando crollano passione e onestà, scrive Federica Angeli. E' la faccia oscura dell'antimafia. La parte che insinua sospetti e che inquina, alla fine, il grande lavoro svolto per il trionfo della legalità. Una faccia disegnata da decine di piccole e grandi associazioni. Nascono, da nord a sud, soprattutto sull'onda emotiva di arresti o inchieste eclatanti contro il crimine organizzato nei propri territori. Si vestono di buoni principi e di slogan efficaci. Ma poi, lontano dai riflettori, finiscono per emergere i veri elementi che li sorreggono: una galassia costellata di opportunisti, personaggi ambigui, cacciatori di immagine, uomini e donne che agiscono con prevaricazioni, spesso ricatti, per far tacere chi osa denunciarli. Così si disperde quella lotta che è fatta di passione e onestà, e si dissolve in mille rivoli, partendo da un'antipolitica spinta al parossismo, fatta di scherni e nomignoli affidati al politico di turno, con l'obiettivo di affossarlo per prenderne il posto. Fino ad arrivare al lavoro sottotraccia e silenzioso, necessario per infiltrarsi in aziende e mettere le mani sui beni confiscati dallo Stato alla malavita organizzata e assegnati in gestione alle cooperative. Sciascia li chiamava i "professionisti dell'antimafia". Sbagliava bersaglio il giornalista e scrittore siciliano, ma il concetto è ancora vivo. I cosiddetti "Eroi della sesta" che, attraverso lo stendardo della lotta al crimine organizzato e alla malavita, si accreditano su un territorio e poi si gettano su carriere politiche e finiscono per fare il gioco della criminalità, purtroppo esistono. Perché vestirsi di antimafia oggi spesso diventa un modo per ripulire la propria immagine. "La 'ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare a fare i propri interessi. È una strategia", sostiene il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura. Il fenomeno in Italia è cresciuto in maniera esponenziale. Sono tante le piccole associazioni nate dalla Lombardia alla Puglia, passando per il Lazio, all'ombra e sul modello di associazioni serie come Libera, il movimento delle Agende Rosse, daSud, Caponnetto, Addiopizzo. Perché parlare di mafia può attirare fondi e consenso elettorale, soprattutto nelle piccole realtà. Come si diventa associazione antimafia. Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l'ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un "club" antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un'associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d'associazione presso l'ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all'albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all'anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c'è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale. Infine, le fondazioni: una volta redatto l'atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull'ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: "La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparenti. Il business dei falsi paladini. Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell'Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale "416bis" o "41bis". Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all'ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all'associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti "contro tutte le mafie". Poi però, seguendole attraverso i social network o nei dibattiti pubblici, si scopre che tutto fanno tranne contrastare le mafie. Così capita di leggere anatemi contro Saviano, insulti a presidenti di municipio tacciati di essere denunciati per mafia quando la notizia è destituita di ogni fondamento, attacchi strumentali al partito che governa quel territorio, fino a scoraggiare le persone dal fare nomi e cognomi di clan malavitosi perché "le denunce non siamo noi a doverle fare", o anche a gettare ombre sulle associazioni antimafia serie che operano sul territorio. Ma di comunicati antimafia neanche l'ombra. Quasi sempre, quando si indaga sui personaggi che le governano, ci si accorge che a farne parte sono persone che non hanno sfondato in politica e che tentano di riavvicinarsi alla poltrona attraverso l'Antimafia. Oppure persone allontanate dalle forze dell'ordine che sotto lo stendardo dell'associazionismo antimafia, sfilano in marce per la legalità al fianco di personaggi collusi con la criminalità organizzata oppure hanno ricevuto locali per la sede di associazioni da presidenti di provincia rimossi dall'incarico e condannati per abuso di ufficio. Gli inganni dell'antimafia. Nel composito  -  e talvolta oscuro  -  universo delle associazioni antimafia può quindi capitare di imbattersi in "icone" e personaggi dal doppio volto. Si prendano ad esempio le peripezie di Rosy Canale. A stravolgere l'immagine pubblica della coordinatrice del "Movimento delle donne di San Luca", considerata un'eroina in perenne battaglia contro la malavita organizzata, è stata l'inchiesta della Dda di Reggio Calabria sugli affari delle cosche 'ndranghetiste Nirta e Strangio di San Luca. Un'indagine che alla fondatrice dell'associazione antimafia, lo scorso giugno, è costato un rinvio a giudizio per truffa e malversazione. Le accuse contro Rosy Canale sono state formulate a margine dell'operazione che ha portato all'arresto dell'ex sindaco del piccolo Comune calabrese, poi sciolto per infiltrazioni mafiose. Si tratta di Sebastiano Giorgi, un politico "capace", che sfilava in cortei contro la 'ndrangheta al mattino e stringeva accordi elettorali con le cosche alla sera. In cambio di voti avrebbe assegnato l'appalto per la metanizzazione della cittadina alle cosche Pelle e Nirta. E Rosy Canale? Nell'operazione simbolicamente nominata "Inganno", i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato l'autrice di libri sulla 'ndrangheta per truffa e peculato. Attraverso il proprio movimento e la fondazione "Enel Cuore" aveva ottenuto tutto il necessario per inaugurare un vero gioiello dell'antimafia nel cuore di San Luca: 160 mila euro pubblici e uno stabile confiscato ai Pelle. Peccato che la struttura non abbia mai visto la luce: la Canale avrebbe infatti speso i soldi di prefettura e Regione per quelli che i militari dell'Arma hanno definito "motivi esclusivamente personali". Così, se da una parte nella lista degli acquisti di Rosy Canale finivano una Smart e una Fiat 500, dall'altra l'eroina affossava anche le speranze delle donne che hanno deciso di seguirla nelle sue battaglie: i 40 mila euro del progetto "Le botteghe artigianali" sono stati spesi non per promuovere l'attività manifatturiera del sapone, ma per acquistare cosmetici da rivendere con il logo dell'associazione. L'antimafia come arricchimento personale è però un volume che si compone di diversi capitoli. Ecco, rimanendo ancora in provincia di Reggio Calabria, la vicenda di Aldo Pecora, leader di "Ammazzateci tutti", finito nell'occhio del ciclone per via della propria residenza. Il presidente e fondatore del movimento contro le 'ndrine, fondato nel 2005 dopo l'uccisione del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno e supportato anche dalla figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla mafia il 9 agosto 1991, risultava essere residente in uno degli appartamenti ricavati in un "fabbricato in corso di costruzione" a Cinquefrondi. Nulla di cui dubitare, se non fosse che il palazzo in questione sia stato di proprietà della cosca Longo di Polistena, clan egemone nella zona dagli anni '80 e disarticolato dalle operazioni Scacco Matto del 2011 e Crimine del 2010. Pronta la reazione dell'avvocato della famiglia Pecora, che in una replica agli articoli della cronaca locale ha minacciato querela per poi parlare di "agguato mediatico" e spiegare che né Aldo né i genitori hanno mai pensato che il palazzo dove vivevano in affitto potesse essere patrimonio mafioso prima del sequestro del 7 febbraio 2012. Sul caso e la relativa denuncia per diffamazione decideranno i giudici del tribunale di Reggio Calabria. Nel frattempo, le procure di tutta Italia indagano su casi simili. Perché, come scrive il gip Domenico Santoro nell'ordinanza di custodia cautelare redatta per il caso Canale, "fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l'utilizzare scientemente per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente l'antimafia. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa".

A Ostia minacce e ricatti per ottenere favori, scrive Lorenzo D’Albergo.

Andrea Tassone, lei è stato minacciato da una persona che ora fa antimafia, non appena è stato eletto presidente del X Municipio di Roma. È così?

"Sì, lui prima era candidato nella Lista civica Marino e faceva parte della mia coalizione, ma non lo avevo di certo fatto io il suo nome. Prese un centinaio di voti e non appena fui eletto mi mandò il seguente messaggio, via sms: O mi dai l'assessorato Turismo e Cultura e due persone a mia scelta o ti pianto un casino".

Lei come ha risposto?

"Andando dai carabinieri a sporgere denuncia per estorsione. Denuncia che ora è in mano a un magistrato".

Questa persona ora fa parte di un'associazione antimafia, giusto?

"Sì, ma per quanto mi riguarda il comportamento che ha quel soggetto e altre persone a lui vicine non è affatto coerente con quanto sostengono di fare. Io penso che la mafia vada combattuta nelle sedi istituzionali tagliando tutti i ponti con alchimie e collusioni con soggetti che facevano parte della vecchia amministrazione. E certo non si combatte attraverso un social network né facendo antipolitica. L'antimafia non dovrebbe avere un colore politico. O sbaglio?".

Probabilmente possono avere delle prove schiaccianti contro di lei e il suo modo di gestire il denaro pubblico.

"Se hanno queste prove andassero in procura a denunciarle. Sono mesi che, con frequenza quotidiana, insinuano che questa amministrazione operi in modo poco chiaro e insinuano che ci siamo messi in tasca dei soldi per opere che abbiamo fatto e hanno persino scritto che io ero stato denunciato per mafia. Tutto falso. Sono stato denunciato perché non ho dato loro la sala consiliare per fare un'assemblea contro la mafia e parliamo di agosto 2013. Non conoscevo lo statuto dell'associazione, perché non me lo hanno inviato, e come non l'ho data a nessuno e solo ai rappresentanti politici per una presentazione, non vedo perché loro avrebbero dovuto avere un palco privilegiato. Soprattutto alla luce del fatto che di un argomento così serio come l'antimafia possono dibattere soltanto persone più che titolate a farlo. Non chi di antimafia non sa nulla, ma al contrario assume certi atteggiamenti, come ricattarmi per avere un assessorato".

Da chi è composta questa associazione antimafia?

"Io conosco solo tre persone e so che sono state allontanate dalla politica, sono persone che non sono state votate e ora smaniano per avere consulenze o incarichi che magari possono aver avuto nelle precedenti amministrazioni. Nella mia non c'è posto per persone così, persone che mistificano la realtà, e sostengono che noi siamo tutti collusi e ladri. Lo dimostrassero invece di spargere fango".

Insomma, da lotta antimafia ad attacco politico, fino ad arrivare a un cosiddetto stalking telamatico.

"Con frequenza quotidiana parlano di me attraverso i social network e i siti delle loro molteplici associazioni. Sì, perché ne hanno almeno sei di associazioni, virtuali e non, sul territorio attraverso cui spargono fango. Non solo quella antimafia. Ogni cosa è motivo di critica. La critica è giusta, per carità, ma a queste persone interessava far parte dell'amministrazione e avere un ruolo. E se i cittadini non li hanno voluti, non ci posso fare nulla. Siamo ancora in democrazia".

Quindi, torno a chiederle, questa associazione non fa antimafia?

"Non so cosa fa, ma l'amministrazione ha messo dei paletti ben precisi sul taglio delle collusioni tra amministrazione e mafia. Se ho sentore di questo o di atteggiamenti di prevaricazione e ricatto io non do alcun credito, l'aria è cambiata: qui a Ostia non funziona più così".

Lei ha paura di queste persone?

"Io non ho paura di nessuno, la cosa che mi dispiace è che da loro vengono pubblicati gli indirizzi di casa mia e dei miei anziani genitori su Facebook. Io sono il presidente di un municipio e abito in un posto isolato con un figlio minorenne. Se qualcuno, fomentato dalle loro menzogne, non fosse in linea con le mie scelte, decidesse di farmi del male conoscendo la mia abitazione? Non lo trovo giusto, ho informato i carabinieri che mi stanno davvero aiutando molto".

Lei lo ha denunciato per estorsione, la procura ha in mano il fascicolo. È fiducioso?

"Sono stato qualche tempo fa dal procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone. Le sue parole mi risuonano ancora nelle orecchie: "Non si lasci scoraggiare presidente, vada avanti". Sono parole che danno molta carica e molta voglia di fare bene. Non posso non aver fiducia nella magistratura, quando ho visto con i miei occhi quello che la procura di Roma ha fatto per questo territorio con l'operazione Alba Nuova, che ha portato all'arresto di 51 persone".

La garanzia del modello Libera, scrivono Federica Angeli e Lorenzo D’Albergo. Se alcune delle associazioni passate in rassegna sembrano essere più attente alla propria partita Iva che al contrasto alla malavita organizzata, dall'altra sponda del fiume antimafia c'è Libera. Riconosciuta come associazione di promozione sociale dal ministero del Lavoro e inserita nel 2012 nella lista delle 100 migliori organizzazioni non governative del mondo per la trasparenza dei suoi bilanci e dei contratti dei suoi 15 dipendenti, Libera pubblica tutti i suoi rendiconti sul proprio sito a garanzia di una condotta a prova di "antimafia". A denunciare la latitanza di un sistema di controlli efficace è Gabriella Stramaccioni, responsabile delle politiche sociali, per 18 anni coordinatrice nazionale di Libera e braccio destro del presidente Don Luigi Ciotti: "Purtroppo non esiste una Authority che controlli il terzo settore (il comparto onlus e associazioni, ndr) ed è praticamente impossibile monitorare e attenzionare chi gravita nell'associazionismo che fa antimafia. O meglio, un organismo di controllo c'era, ma è stato abolito dal governo Monti. Abbiamo chiesto che venga ripristinato e c'è una proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento (Il ripristino dell'Authority è nelle linee guida della Riforma del terzo settore a cui sta lavorando il governo ndr)". "E' difficile fare differenza tra buoni e cattivi - continua Gabriella Stramaccioni - perché ci sono movimenti che nascono sull'onda emotiva, che servono per denunciare quel particolare fenomeno. Poi, però, sull'azione di lungo raggio, ci si accorge che non si tratta più di antimafia. Noi, invece, siamo seriamente impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata". Mettendo in rete più di 20 mila volontari e 1.300 associazioni a livello nazionale e locale e incontrandone i rappresentanti durante le assemblee e gli stati generali antimafia, come quello previsto ad ottobre a Roma, Libera ha fatto passi da gigante negli anni: ha un protocollo col ministero dell'Istruzione, organizza centinaia di interventi nelle scuole e nelle università con i familiari di vittime di mafia e testimoni pronti a incontrare i ragazzi. "Autofinanziandoci - spiega ancora la coordinatrice di Libera - abbiamo indagato e scritto dossier sulla ricostruzione dell'Aquila, sulle mafie nel pallone e le loro infiltrazioni nel calcio, e sullo scandalo delle sale slot. Naturalmente, come è esplicitato nello statuto di ogni associazione antimafia veramente operativa, supportiamo i cittadini vittima della malavita costituendoci parte civile nei processi penali. "Quanto ai beni confiscati - prosegue Stramaccioni - Libera non li gestisce direttamente, ma dà supporto alle cooperative che partecipano ai bandi. Le nostre battaglie non le abbiamo mai fatte contro una casacca politica, ma contro quello che ritenevamo dovesse essere cambiato. Così è stato per il 416ter, la gestione dei beni confiscati". Una gestione che certo non piace alla mafia e ai suoi capi come dimostrano le recenti minacce fatte da Riina a Don Ciotti.

Eppure Sciascia si sbagliava, scrive Federica Angeli. Sciascia parlava dei professionisti dell'antimafia, intendendo coloro che fanno l'antimafia "come formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa". Insomma i quaquaraquà dell'antimafia. Esiste questo pericolo? Giriamo la domanda al Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. "Sciascia - risponde - sbagliava completamente bersaglio, perché se la prendeva con magistrati di cui poi si è dimostrato l'effettivo impegno nell'antimafia, fino al sacrificio della vita, come nel caso di Borsellino. A parte questo clamoroso errore, il rischio è molto concreto. Ne esiste uno generale che soggetti che perseguono interessi personali non confessabili e non coerenti con interessi della collettività si inseriscano nelle associazioni antimafia o le fondino per crearsi o ricrearsi una verginità sotto il simbolo della lotta alle mafie. Poi esiste un altro pericolo, ovvero che imprenditori un tempo contigui alle associazioni mafiose entrando in questi sodalizi si rimpossessino del bene confiscato. Negli anni passati abbiamo verificato attraverso indagini della Dda di Napoli che alcuni soggetti si erano avvicinati nel casertano a cooperative a cui era stata affidata la gestione dei terreni confiscati".

Il vessillo dell'antimafia viene dunque sfruttato oggi come una sorta di trampolino di lancio per avere una credibilità. Un segnale può essere il proliferare di tante di queste presunte associazioni?

"Non c'è dubbio che bisogna sempre stare molto attenti a chi ha le insegne dell'antimafia e che cura interessi che non sono corretti e che sono ben diversi da quelli della collettività. L'antimafia non può avere contropartite personali. La proliferazione è un fatto di per sé positivo, la cultura della legalità va benissimo, ma in concreto bisogna vedere cosa queste associazioni fanno e le istituzioni di polizia e della magistratura devono vigilare".

Prima che il governo Monti la abolisse, esisteva l'Authority del Terzo Settore. Esiste oggi un organo che controlli tutte queste associazioni antimafia?

"No attualmente non esiste, è un po' affidato all'autodisciplina dei dirigenti di queste benemerite associazioni ai quali raccomandiamo di vigilare sui soggetti che ne entrano a fare parte e di segnalarli immediatamente agli organi competenti".

Come può un cittadino difendersi da chi fa finta antimafia e abusa della credibilità altrui?

"Il cittadino può segnalare elementi di sospetto, ma siamo noi delle istituzioni che dobbiamo vigilare e immunizzare certe realtà. La collaborazione del cittadino la promuovi e la incentivi nel momento in cui lo Stato dimostra di fare sul serio".

Lei propose concretamente, quando era nella Dda di Napoli, di fare qualcosa per stanare l'antimafia di facciata. Cosa?

"Proposi, nella riassegnazione dei beni confiscati, il controllo capillare di quel bene. Vede, i beni confiscati riassegnati, specialmente le aziende produttive, sono spesso a rischio di riconquista mafiosa. Le mafie non perdono mai interesse verso il bene che è stato loro confiscato e c'è sempre il rischio di un ritorno al possesso di quel bene, attraverso dei prestanome e delle finte associazioni appunto. Seguire tutte le vicende societarie di quel bene, partendo dagli organismi dirigenti delle aziende, perché non ricada nelle mani della criminalità organizzata, diventa dunque uno strumento fondamentale per l'azione di contrasto all'accumulazione di ricchezza criminale".

Che tipo di controlli si possono fare?

"Vanno fatti rigorosi controlli preventivi. Per esempio non dimentichiamo che stanno per partire gli appalti per la bonifica della Terra dei Fuochi su cui va concentrata la massima attenzione investigativa".

Secondo lei un'associazione antimafia che attacca continuamente attraverso dibattiti e attraverso internet politici dalla fedina penale immacolata o altre associazioni antimafia e giornalisti che hanno fatto inchieste sulla mafia possono essere credibili su un territorio?

"Questi sono evidentemente atteggiamenti sospetti che andrebbero valutati".

Le associazioni che evitano di fare il nome di criminali nella zona in cui fanno antimafia hanno invece credibilità?

"Direi assolutamente no, ma bisogna distinguere caso per caso e capire per quale motivo si comportano così".

Ci sono associazioni antimafia come la capofila Libera, daSud, il movimento Agende Rosse, Caponnetto, Addiopizzo di Palermo che giorno dopo giorno si muovono con strumenti efficaci e danno concretezza alla loro lotta. Possiamo fidarci di queste?

"Assolutamente sì".

Un'associazione per i testimoni, scrive Alan David Scifo. Fra tutte le associazioni antimafia in Italia ce n'è una che nasce dalla voglia di un uomo che ha vissuto in prima persona gli effetti dell'estorsione nei suoi confronti. Questo uomo è Ignazio Cutrò, imprenditore edile di Bivona, nell'agrigentino, che nel 1999 ha avuto la forza di dire un secco "no" alle richiesta di pizzo delle cosche. Cedere avrebbe significato non avere più la forza di guardare negli occhi i suoi figli, ma dopo questa risposta negativa il lavoro di Cutrò è crollato. Numerosi mezzi edili sono stati bruciati e nessuno ha più voluto affidargli lavori per paura di futuri problemi. Dal 2006 l'imprenditore, insieme alla propria famiglia, è stato inserito nel programma di protezione dei testimoni giustizia. Dopo aver dato vita all'associazione "Libere Terre" ad Agrigento, ha fondato un'associazione antimafia che raccoglie i testimoni di giustizia d'Italia.

Ignazio Cutrò come mai ha deciso di fondare questa associazione?

"Volevo fare qualcosa di diverso dalle altre associazioni. In Italia ci sono associazioni antimafia solo di nome ma che poi non agiscono sul campo, la mia si è più volte costituita parte civile in molti processi antimafia, ha aperto sportelli on-line per essere sempre contattabile da chiunque voglia ribellarsi alle cosche. Inoltre siamo riusciti, attraverso l'associazione di cui sono presidente, a far approvare il decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione.

Ma come mai non si è rivolto alle associazioni antimafia esistenti?

Perché molto spesso accade che nessuno ti cerca quando sei in una posizione del genere. Nessuna associazione mi ha aiutato all'inizio, l'unica persona che mi è stata vicina sin dall'inizio è stato Don Luigi Ciotti. Le altre associazioni che invece agiscono contro la mafia solo di facciata ma poi non aiutano le persone che veramente ne hanno bisogno fanno il gioco della mafia. Molto spesso queste associazioni, oltre a non aver al proprio interno persone che hanno vissuto le intimidazioni sulla propria pelle, non hanno mai contattato nessuno che è stato vittima di estorsioni.

Per quanto riguarda i fondi, da chi è finanziata la vostra associazione?

Non riceviamo alcun tipo di finanziamento. La nostra associazione è interamente autogestita nonostante personalmente sono in ristrettezze economiche. Nei processi confidiamo sull'aiuto di avvocati che lavorano gratis per noi, ma nessuno ci ha mai aiutato economicamente. Molte associazioni vengono finanziate dallo stato, ma cosa fanno di concreto?

Lei ha denunciato i suoi estorsori e poi hai rifiutato di andare via dalla Sicilia, nonostante lo Stato le avesse dato la disponibilità di farsi una nuova vita. Perché?

Io la mafia voglio combatterla da qui. Io amo la mia terra e sono fiero di essere siciliano. Per questo motivo ho deciso di non scappare e di aiutare anche gli altri che sono nel mio Stato. In Italia siamo 88, di cui 44 fanno parte dell'associazione, molto spesso siamo abbandonati da tutti. Quando dico che lo stato ci ha abbandonato, non intendo i governanti, ma i singoli cittadini. Io ho rifiutato un posto regionale e tutto ciò che era pronto per farmi vivere una seconda vita, ma con la mia famiglia abbiamo deciso di lottare da qui. Decidendo questo però adesso sto combattendo una guerra difficile: non lavoro più e ora mi hanno pure tagliato il gas.

Alcune volte le associazioni antimafia sono usate come trampolino per la politica.

Lo so bene. Ma chi nasce soldato deve morire soldato. Io ho rifiutato posti in politica che mi sono anche stati proposti. Io sono un imprenditore e voglio continuare il mio lavoro da imprenditore.

“Buttanissima Sicilia” a Palermo. Intervista a Salvo Piparo e Pietrangelo Buttafuoco di Gianluca Ferrari su “La Gazzetta Palermitana”. Il 31 gennaio 2015 Buttanissima Sicilia arriva a Palermo. In questa tappa, che si preannuncia la più importante, sarà il Teatro Biondo a offrire il palco al libro denuncia di Pietrangelo Buttafuoco – già successo editoriale di questa estate – divenuto recitazione per mezzo dello stile inconfondibile di Salvo Piparo, Rosemary Enea e Costanza Licata. Un grido di disperazione e d’amore, amore terribile, verso una terra ormai patria del malaffare e del peggiore costume politico. Ed è il fardello di ogni siciliano: soffrire. Perchè – e qui Carmen Consoli ci permetta la citazione – amare la Sicilia è come amare una prostituta, ti tradirà sempre, ma ne sei così innamorato che non puoi separartene. Abbiamo incontrato per voi i protagonisti: Pietrangelo Buttafuoco e Salvo Piparo, il giornalista scrittore e il cuntastorie, ”un cronista ai tempi in cui non esisteva ancora il telegiornale”.

INTERVISTA A SALVO PIPARO.

 Come nasce l’incontro con Buttafuoco e l’idea di portare a teatro Buttanissima Sicilia?  

«Salvo e Valentino (Ficarra e Picone) mi parlavano da tempo di Pietrangelo Buttafuoco e della sua scrittura. E’ stato durante le riprese di “Andiamo a quel paese” che poi ci siamo effettivamente incontrati, avevo comprato in quei giorni Buttanissima Sicilia e lo stavo per finire. Lui mi ha detto: se ti piace, hai carta bianca, lo puoi mettere in scena. Lo spettacolo è diventato una sorta di centro di aggregazione dove dentro ci sono finiti Salvo, Valentino (loro è la scrittura del racconto finale), le canzoni e l’ironia di Costanza Licata e anche la satira religiosa: un rosario di Sicilia che si presta al gioco di parole con Rosario Crocetta, la denuncia di una serie di sue farfallonate».

Quale è stata la risposta del pubblico?

«Durante queste repliche abbiamo avuto tutti la sensazione che lo spettacolo sia cresciuto, si sia ormai collaudato. Ci capiamo di più tra noi attori, ma anche il messaggio arriva meglio al pubblico. Ad esempio, per me parlare dell’Autonomia aveva un certo margine di rischio, oggi noi con le repliche e con lo studio che abbiamo fatto sulle cose che sono accadute nel frattempo con il Governo Crocetta, ci trovavamo a infiammarci nel raccontare una regione veramente buttanissima, che si prostituisce, con le trivelle che arrivano, dove si grida ad un No Muos che però poi si fa, e dove tutto diventa una farsa. E poi il teatrino della mafia dell’antimafia…»

Ecco, a proposito di quest’ultimo concetto, la mafia dell’antimafia.

«Parleremo di due mafie e le faremo duellare, sono la mafia e la mafia dell’antimafia che si sta arricchendo. Certo, anche questo è un concetto rischioso, lo sapevamo tutti quanti, per molti è ancora prematuro, però è un concetto antico già affrontato da Sciascia alla sua maniera. Noi siciliani, d’altronde, siamo esattamente spaccati in due. Spiritosi quanto delittuosi. Ma dal voto corrotto in poi si arriva al degrado. Io e Costanza Licata siamo nati in due quartieri popolari, sappiamo benissimo qual è il carattere di questa città e di questa regione, l’animo di noi isolani è pessimista perchè respiriamo l’irredimibile, e possiamo anche aggrapparci a degli specchietti… il fermento, la primavera di Orlando, il tram, ma la verità è che la città ha bisogno di alcune scosse. La Sicilia non può essere solo fiction, mi vergogno di avere partecipato a Squadra Antimafia – Palermo oggi, già il titolo è tutto sbagliato».

«E in questo quale dovrebbe essere il ruolo della satira? Oggi dopo la strage di Parigise ne torna a parlare.

«Il teatro civile questo deve fare: denunciare, innescare nella gente un senso di rivalsa. Ma il teatro non può essere mai violenza. Lungi da noi fare uno spettacolo politico, ma nella satira è così, si prende in giro Crocetta così come Nello Musumeci. Ce la prendiamo con un sistema, non con la persona».

La Sicilia che spazi offre per l’arte?

«Io ho 34 anni, mi considero ancora un giovane. Come giovane ti dico che non si può vivere di teatro in questa nostra terra. Conosco un sacco di talenti palermitani che sono costretti a fare i caffè nei bar per poter andare a fare teatro la sera. Altrimenti significa che ti passano dei finanziamenti, come viveva la vecchia guardia palermitana: impiegati pubblici a tutti gli effetti, prendevano finanziamenti dal Comune, dalla Provincia e dalla Regione. Erano dei privilegiati. Oggi soldi non ci sono più. Ameno che non diventi Ficarra e Picone, che non hanno bisogno di queste logiche, ma stiamo parlando di eccezioni. La soluzione è fare gruppo con un pugno di persone che hanno le idee chiare e che si stimano a vicenda. Questo è quello che faccio con la cooperativa Terradamare, ragazzi con tanta voglia di fare».

Nell’epoca del teatro sperimentale, tu scegli  di ritornare a un genere antichissimo come quello del cunto. Come mai?

«Il cabaret non è mai stato il mio obiettivo, volevo raccontare le cose che mi piacciono, la storia di Palermo. Ho iniziato col raccontare il mio quartiere, l’Albergheria, poi sono andato oltre, Brancaccio, la Guadagna, il Capo, Passo di Rigano che si chiama così perchè era un passo pieno pieno di origano, ho raccontato l’Ucciardone, perchè tutto coltivato a cardoni, la Via Libertà che di libertà non ha niente perchè in una notte Ciancimino la debellò, abbattendo le ville liberty. Ci sono delle storie splendide che ho ereditato da mio nonno. Questo voglio raccontare: noi, chi siamo. Ho lavorato degli anni a Milano, ma ero siciliano solo nella carta d’identità e quindi un perdente perchè di siciliano non sapevo niente. Lì ho aperto gli occhi e tornato a Palermo ho iniziato a divulgare questo verbo, la nostra identità. Ma la cosa più importante è che la gente uscendo da teatro ha capito quello che ha visto, in nome del teatro sperimentale la gente esce dopo aver visto una cosa che non ha capito però ha battuto pure le mani».

Di questa Sicilia forse fra qualche secolo ne faranno un cunto. Manca però la natura epico-cavalleresca, cosa ci sarà da raccontare?

«Ti dico una cosa. In verità il cunto non viene dalla tradizione epico-cavalleresca. Hanno voluto dire così perchè conveniva dire così. I cunti vengono dagli antichi greci, Omero quindi – cuntastorie per eccellenza – raccontava le storie della mitologia greca. Ora, i greci vennero in Sicilia, i francesi vennero in Sicilia, la mistura delle due tecniche fece nascere il mestiere del cuntastorie siciliano che unì le gesta dei paladini di Francia, lasciate in eredità dai francesi, con la metrica greca. I nostri avi si mettevano attorno a un fuoco, quando non esisteva la televisione, e si raccontavano le storie, le sciarre, i duelli all’arma bianca, lo stesso episodio della Baronessa di Carini è una storia delittuosa, non c’è niente di epico-cavalleresco. I cuntastorie, quindi,  alla loro maniera, raccontavano fatti di cronaca. Ed è quello che stiamo facendo anche noi con Buttanissima Sicilia, raccontando l’attualità continuiamo la tradizione».

INTERVISTA A PIETRANGELO BUTTAFUOCO di Gianluca Ferrari su “La Gazzetta Palermitana”.

Dopo un fortunato tour nel resto dell’Isola, lo spettacolo finalmente va in scena a Palermo, proprio la sede di quel “Palazzo” al centro della sua invettiva. Palermo è il punto di arrivo e contemporaneamente la tappa di partenza. La città, per la sua sensibilità, per la sua storia, soprattutto la tradizione legata al Teatro Biondo laurea questo spettacolo, e mi auguro che il pubblico possa essere partecipe così come a Caltanissetta, a Catania, a Noto, a Comiso. La cosa che più mi coinvolge è che il libro sia diventato uno spettacolo che ha persino un’esigenza, quella di trovare un genere che lo possa definire. E quindi la forma migliore è quella di essere affidata e destinata alla grandezza, alla bravura, alla perfezione che hanno voluto dare loro Salvo Piparo, Costanza Licata e Rosy Enea.

Come nasce l’incontro con Salvo Piparo?

«Nasce nel solco della mia ammirazione nei confronti della sua bravura che si è saldata anche in un’amicizia. Si è poi stabilita un’elettricità virtuosa determinata anche, anzi vorrei dire soprattutto, dalla firma che noi leggiamo in locandina della regia, che è quella di Peppino Sottile, che per me è stato ed è maestro di scrittura e si conferma maestro nella drammaturgia e nella scrittura scenica. Oggi anche un idolo pop come Pif dice che l’autonomia va abolita».

Il libro è ormai diventato un manifesto controrivoluzionario, rispetto all’epopea crocettiana?

«C’è un sentimento spontaneo nell’opinione pubblica che è diventato patrimonio comune di tanti siciliani a maggior ragione, poi, di chi abitando, vivendo, soffrendo la Sicilia capisce qual è l’urgenza da risolvere. E cioè quella di poter cominciare a costruire un futuro in questa terra. Il fatto è che lui (Crocetta) non sapendo risolvere i problemi li criminalizza, e questo non è certamente il modo per potere governare. Potrebbe soltanto portare e aumentare incenso all’altare del suo ego, ma non è sicuramente questa una soluzione per la Sicilia».

Chi tocca l’antimafia si scotta. Beppe Lumia, che lei definisce “il più professionista dei professionisti dell’antimafia”, le ha risposto attaccandola in prima persona, anche associando il suo nome a quello di figure non specchiate.

«Se si riferisce alle reazioni che hanno nei confronti del mio lavoro giornalistico, come avrà notato, l’atteggiamento è presto detto, e cioè: non avendo nessun argomento per smentire ciò che scrivo, non hanno altra alternativa che quella di delegittimarmi, ed è quella di mascariare, di cercare di ridicolizzare o criminalizzare l’avversario».

L’esempio dell’Abercrombie è esilarante. Il brand americano ha due sedi in Italia: a Milano e… ad Agira. E questo perchè a Mirello Crisafulli tutti dicono I love you. E’ questa la fogna del potere?

«Quello è un esempio scelto apposta per raccontare le contraddizioni di una realtà sociale qual è quella siciliana. La definizione “fogna del potere” si riferisce poi a quell’idea di fare della Sicilia territorio, laboratorio esperimento per operazioni di trasformismo che da sempre hanno visto in Sicilia l’epicentro per sommovimenti che poi hanno coinvolto l’intero territorio nazionale».

Nel libro lei denuncia in tempi non sospetti la realtà del Cara di Mineo. Poi c’è il Muos, le trivelle, sembra che la Sicilia sia riconosciuta a livello internazionale come zona franca.

«Perchè qui trovano un facile terreno che è quello di avere dei compari disponibili ad assecondare qualunque gusto e qualunque menù».

Concludiamo con un invito allo spettacolo.

«La locandina, il titolo, i nomi degli attori in scena, la firma della regia di Peppino Sottile, già questo è un succulento invito, sono sicuro nessuno rimarrà deluso, perfino lo stesso Crocetta».

Pensa che verrà?

«Verrà di sicuro! Tra tanti inciampi e disavventure derivate dal suo essere maldestro, per fortuna conserva una qualità: è un uomo di spirito, e non potrà certo mancare a questo appuntamento».

Ascesa e declino dell'Antimafia degli affari "che non si possono rifiutare", scrive Giulio Ambrosetti su “La Voce di New York”. Un' inchiesta coinvolge la dirigenza di Confindustria Sicilia e indirettamente quei politiici antimafia che dovevano rappresentare "il nuovo" rispetto ai vecchi "comitati d'affari". Mala gestione dei beni sequestrati alla mafia, conflitti d'interessi alla Regione, irregolarità sull'utilizzo dei fondi europei, privatizzazione degli aeroporti... La magistratura ultimo baluardo in difesa della legalità? Tira un’aria pesante in questi giorni lungo l’asse Palermo-Caltanissetta-Roma. Agli incroci di mafia e antimafia c’è un po’ di traffico. Un ingorgo da legalità strillata. Storie strane. E un’inchiesta su presunti fatti di mafia che coinvolge il presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, considerato uno degli uomini di punta dell’antimafia e dell’antiracket. Si tratta di dichiarazioni di pentiti di Cosa nostra che lo tirano in ballo. Notizie da prendere con le pinze, ovviamente. Ma il fatto che siano venute fuori, beh, è segno che alcune ‘cose’, nell’Isola, stanno cambiando. Anche, anzi soprattutto per chi, dal 2008, di diritto o di rovescio, esercita in Sicilia un potere pieno e, adesso, un po’ controllato: il senatore del Megafono-Pd, Giuseppe Lumia. E’ lui, ormai da sette lunghi anni, l’uomo politico più potente della nuova e della ‘vecchia’ Sicilia. E’ lui il garante di tanti, forse troppi accordi in bilico tra politica, economia e chissà cos’altro ancora. A lui fa riferimento Antonello Montante, oggi sfiorato dal dubbio che dai tempi di Crispi e di Giolitti fino ai nostri giorni illumina come un’ombra sinistra tanti politici siciliani ascesi al soglio del potere. Dubbi che, nel caso dell’ex presidente della Regione, Totò Cuffaro, si sono trasformati in condanna a sette anni per mafia. Dubbi che hanno accompagnato il suo successore, Raffaele Lombardo, anche lui fulminato da una condanna di primo grado  sempre per mafia (in questi giorni dovrebbe iniziare il processo di secondo grado). Ogni storia giudiziaria, ogni inchiesta dei magistrati inquirenti, si sa, è storia a sé. Ma è impossibile non vedere in questa vicenda il contesto politico in cui è maturata la svolta giudiziaria che coinvolge Montante. Proviamo a illustrarla. In politica sono importanti i segnali. E il primo segnale sinistro è arrivato circa una settimana prima del ‘siluro’ che ha colpito il presidente di Confindustria Sicilia. Ed è stata la scoperta che la Regione siciliana della quale Rosario Crocetta è il presidente - anche lui, neanche a dirlo, personaggio legato a doppio filo al senatore Lumia - non si è costituita parte civile in un procedimento giudiziario che coinvolge un funzionario regionale finito in manette per tangenti. Questa mancata costituzione di parte civile da parte della Regione, stando a indiscrezioni, potrebbe essere legata al fatto che il funzionario finito sotto processo, Gianfranco Cannova, era il responsabile del procedimento amministrativo di importanti autorizzazioni ambientali. La firma sui provvedimenti di autorizzazione non poteva essere la sua, perché si tratta, come già accennato, di un funzionario e non di un dirigente. Viene da chiedersi, a questo punto, perché hanno arrestato lui, se a firmare erano, a norma di legge, altri dirigenti. E’ in questo scenario che si inserisce la mancata costituzione di parte civile da parte del governo regionale di Crocetta. Con molta probabilità, dietro questa storia c’è un comitato di affari. E questo comitato di affari che la Regione sta cercando di proteggere non costituendosi parte civile? E’ Cannova non sa nulla di questa storia? Le domande sono più che legittime, perché quello che sta succedendo è veramente strano. In ogni caso, per il presidente Crocetta - un personaggio che, a parole, si proclama sempre antimafioso e paladino della cultura della legalità - è una pessima figura, sia nel caso in cui avesse semplicemente ‘dimenticato’ di costituirsi parte civile, sia nel caso in cui si dovesse venire a scoprire che dietro questa storia c’è un comitato di affari. La cosa strana è che gli ultimi due dirigenti che stavano sopra il funzionario regionale finito in manette non ci sono più. Il primo - Vincenzo Sansone - è andato in pensione negli stessi giorni in cui esplodeva il caso Cannova. Il secondo - Natale Zuccarelo - con parenti importanti nel mondo politico siciliano, è stato trasferito negli uffici del dipartimento regionale dei Rifiuti. Una settimana dopo lo scivolone di Crocetta (che comunque, come già accennato, non è nuovo a questo genere di stranezze, se è vero che il suo governo, in tanti, forse troppi casi, ha ignorato le regole sull’anticorruzione) è arrivata la botta a Montante. Agli osservatori non sfugge che il presidente di Confindustria Sicilia è stato chiamato a far parte dell’Agenzia per i beni confiscati e sequestrati alla mafia. Una struttura, inventata dalla politica italiana, della cui presenza in vita i cittadini del nostro Paese non avvertivano e non avvertono ancora oggi il bisogno. Su questo punto è bene essere chiari. Dei beni sequestrati e confiscati alla mafia si occupa già la magistratura. Ci sono state polemiche sul fatto che chi va a gestire questi beni - che di solito sono avvocati e commercialisti nominati dai magistrati - non avrebbe e competenze imprenditoriali per gestire aziende confiscate che poi, magari, falliscono. Il problema esiste. Ma non si capisce perché, a risolverlo, dovrebbero essere soggetti nominati da una politica che spesso è collusa con la mafia. Insomma, senza girarci tanto attorno, il dubbio, tutt’altro che campato in aria, è che la politica stia provando a togliere ai magistrati la gestione dei beni confiscati alla mafia. E siccome sono noti i rapporti tra mafia e politica, non è da escludere che i politici, con questo stratagemma, puntino a restituire, sottobanco, i beni confiscati ai mafiosi o ai loro eventuali prestanome. Nessuno, per carità!, vuole offendere i soggetti - Prefetti in testa - chiamati a gestire l’Agenzia per i beni confiscati o sequestrati alla mafia. Le nostre sono semplici considerazioni politiche che non coinvolgono i Prefetti. Considerazioni legate, piaccia o no, alla storia del nostro Paese. E’ un peccato di lesa maestà ricordare - lo faceva nei primi del ‘900 Gaetano Salvemini - che Giolitti, nel Sud d’Italia, esercitava il suo potere proprio con i Prefetti in combutta con i prepotenti e i mafiosi dell’epoca? E ci sono dubbi sul fatto che, in Italia, ancora una volta, l’ultimo baluardo contro un’illegalità mai doma è rappresentato dalla magistratura? Detto questo, la politica farebbe bene a sbaraccare subito questa inutile Agenzia per i beni confiscati e sequestrati alla mafia. Quanto ai problemi legati alla mancata gestione imprenditoriale delle aziende confiscate alla criminalità organizzata, beh, è sufficiente affiancare ai commercialisti e agli avvocati imprenditori o associazioni di imprese. Ma questo deve farlo la magistratura e non i politici attraverso un’inutile Agenzia controllata dalla politica! Fine delle considerazioni sull’aria pesante che oggi si respira nell’Isola? Niente affatto. I cambiamenti in corso sono ancora più profondi. Qualcuno, in Sicilia, a partire dal 1994, pensava di essere immune da qualunque controllo di legge. E, in effetti, forse in parte è stato così. Chi scrive ricorda un sindaco di Corleone di sinistra che in quegli anni affidava e rinnovava appalti a una società riconducibile a parenti stretti del boss Bernardo Provenzano. Per non parlare della storia del miliardo di vecchie lire messo a disposizione dall’Onu nel 2000. Soldi, affidati a soggetti dell’antimafia, di cui non si è saputo più nulla. Tra i personaggi che hanno sempre navigato in un’Antimafia molto discutibile c’è il già citato senatore Lumia. Che oggi non sembra più il politico irresistibile di un tempo. Qualcuno ha creduto che lui e i personaggi a lui vicini non sarebbero mai stati chiamati a rispondere del proprio operato. Forse perché ha pensato, errando di grosso, che la magistratura era assimilabile agli altri poteri dello Stato italiano, più o meno addomesticabili. Ebbene, questo qualcuno si è sbagliato. Perché sia la magistratura nel suo complesso (con riferimento, come vedremo, anche al Tar, sigla che sta per Tribunale amministrativo regionale della Sicilia), sia la Corte dei Conti stanno rispondendo ai prepotenti, ai furbi e anche ai mafiosi, vecchi e nuovi con un solo linguaggio: quello della legalità. La vicenda che oggi coinvolge Montante - vicenda, lo ribadiamo, legata a dichiarazioni di pentiti ancora tutte da verificare - arriva da lontano e, con molta probabilità, è destinata ad andare lontano. Toccando tutti i gangli del sistema di potere che dal 2008 tiene in pugno la Sicilia. Chi scrive, già nei primi mesi dello scorso anno, sul quotidiano on line LinkSicilia, segnalava, ad esempio, lo strano caso di Patrizia Monterosso, segretario generale della presidenza della Regione (in pratica, il più alto burocrate della Regione siciliana che, lo ricordiamo, in virtù della propria Autonomia, potrebbe essere assimilato a uno Stato americano se la stessa Autonomia venisse applicata correttamente: cosa che non avviene), e di suo marito, l’avvocato Claudio Alongi. Con la prima che si pronunciava su un incarico del marito presso la stessa amministrazione regionale! E con il secondo che forniva pareri legali alla moglie per fatti che riguardano la stessa amministrazione regionale! Entrambi in palese conflitto di interessi. Quando abbiamo scritto queste cose ci hanno quasi presi per matti. Non ci credevano. Ma oggi questa vicenda è diventata di dominio pubblico. E, con molta probabilità, è al vaglio delle autorità competenti. Superfluo aggiungere che anche la Monterosso fa parte del sistema di potere del senatore Lumia. Il senatore Lumia - che è il vero presidente ombra della Regione siciliana, in quanto inventore della candidatura di Crocetta insieme con i geni dell’Udc, formazione politica in via di decomposizione politica - comincia  a perdere colpi. Ben prima del ‘siluro’ che in questi giorni ha centrato Montante, lo stesso segretario generale della presidenza della Regione, la già citata Patrizia Monterosso, è stata condannata dalla Corte dei Conti al pagamento di oltre un milione di euro per fatti riguardanti il settore della formazione professionale. Un altro ‘pezzo’ importante del sistema di potere di Lumia - la dirigente generale del dipartimento Lavoro della Regione, Anna Rosa Corsello - è stata di recente ‘bastonata’ dal Tar Sicilia, che ha dichiarato nullo un atto amministrativo da lei confezionato (si tratta del decreto di accreditamento degli enti di formazione, atto che avrebbe dovuto essere firmato dal presidente della Regione e che, invece, è stato firmato dall’ex assessore regionale, Nelli Scilabra). Il decreto dichiarato nullo dal Tar Sicilia potrebbe avere effetti dirompenti, perché sui soldi già spesi sulla base di un decreto nullo la Corte dei Conti dovrebbe avviare un’azione di responsabilità a carico dei protagonisti di questa incredibile storia (parliamo di milioni di euro). Non solo. Sembra che, adesso, anche l’Unione europea si stia svegliando. Fino ad oggi Bruxelles, sulla formazione professionale, ha fatto finta di non vedere violazioni incredibili. I burocrati legati all’attuale governo regionale hanno bloccato l’assegnazione di fondi europei per rivalersi su errori commessi nell’erogazione di fondi pubblici. Solo che i fondi erogati irregolarmente erano regionali, mentre quelli con i quali la Regione ha provato a rivalersi erano europei. Due tipologie di fondi pubblici non sovrapponibili. Morale: la Regione non avrebbe dovuto bloccare l’erogazione di fondi europei per recuperare fondi regionali erogati illegittimamente. Ma c’è, nella gestione della formazione professionale siciliana, un’irregolarità che sta ancora più a monte. Una storia molto più grave che Bruxelles non ha ancora sanzionato. I fondi europei, per definizione, sono ‘addizionali’: si debbono, cioè, sommare ai fondi nazionali e regionali. La Regione siciliana, invece, dal 2012, utilizza i fondi europei sostituendoli totalmente ai fondi regionali. E questo non si può fare. Non a caso è in corso una class action da parte del mondo della formazione professionale siciliana contro la Regione che, ormai da quattro anni, non si dota del Piano formativo regionale della formazione professionale con fondi regionali, finanziando tutto con le risorse del Fondo sociale europeo. Cosa, questa, che non si dovrebbe fare perché a vietarlo è la stessa Unione europea che, fino ad oggi, violando leggi e regolamenti che essa stessa si è data, fa finta di non vedere tutto quello che succede in Sicilia in questo settore, rendendosi complice di un’irregolarità ai danni di se stessa. Tutto questo vale per il passato e per il presente. Ma il siluro che ha colpito Montante e il sistema di potere del senatore Lumia riguarda anche il futuro. E’ noto a tutti che, guarda caso in questi giorni, si è aperta la caccia alle tre società che gestiscono gli aeroporti siciliani. Sono la Sac, che gestisce gli aeroporti di Catania Fontanarossa e Comiso; la Gesap, che gestisce l’aeroporto Falcone-Borsellino di Palermo; e l’Airgest, che gestisce l’aeroporto ‘Vincenzo Florio’ di Trapani. Per motivi misteriosi queste tre società - fino ad oggi controllate da soggetti pubblici - dovrebbero essere privatizzate. Si tratta di società che, se gestite con oculatezza, potrebbero dare utili e ricchezza alla collettività. Ma siccome siamo in Italia questa ricchezza se la debbono incamerare i privati. A questo sembra che punti il governo Renzi che, non a caso, su questi e su altri argomenti è perfettamente in linea con Berlusconi, alla faccia della sinistra che lo stesso Pd di Renzi dice di rappresentare! L’affare più grosso è rappresentato dall’aeroporto di Catania, il più importante della Sicilia, destinato a diventare un hub. Non a caso su questo aeroporto si è già gettato come un falco Ivan Lo Bello, altro esponente di Confindustria Sicilia vicino a Montante. Chi prenderà il controllo della Sac - società per azioni oggi controllata dalle Camere di Commercio di Catania, Siracusa e Ragusa, dall’Istituto regionale per le attività produttive e dalle Province di Catania e Siracusa - assumerà pure la gestione dell’aeroporto di Comiso, snodo aeroportuale importante per il flusso turistico verso il Barocco di Noto, Siracusa e Ragusa e per il trasporto cargo di tutta l’ortofrutta prodotta nelle serre che, dal Ragusano, arrivano fino a Gela e Licata. Un po’ meno importanti - ma non per questo da tralasciare - gli aeroporti di Palermo e Trapani. Nella Gesap - società che, come ricordato, gestisce l’aeroporto ‘Falcone-Borsellino’ - troviamo la Provincia di Palermo come socio di maggioranza, poi il Comune e la Camera di Commercio, sempre di Palermo. Mentre l’Airgest fa capo per il 49 per cento alla Provincia di Trapani, per il 2 per cento alla Camera di Commercio, sempre di Trapani, e per il restante 49 per cento a un gruppo di privati. Non sfugge agli osservatori che Montante, oltre che presiedere la Camera di Commercio di Caltanissetta, è presidente dell’Unioncamere, cioè dell’Unione delle Camere di Commercio della Sicilia. E le Camere di Commercio, in tutt’e tre le eventuali privatizzazioni delle società aeroportuali, giocheranno un ruolo centrale. Lo stesso discorso vale per le Province siciliane, tutte commissariate e gestite dalla stessa Regione, cioè dall’accoppiata Lumia-Crocetta…Insomma, i conti tornano. O meglio, cominciano a non tornare per Lumia, per Montante e per Crocetta. Tre personaggi che hanno fatto fortuna utilizzando l’antimafia come trampolino di lancio per la politica (e per gli affari). Ma adesso tutto questo mondo sembra in difficoltà. Una caduta che non sembra risparmiare nemmeno il numero due di Confindustria Sicilia, Giuseppe Catanzaro, titolare della più grande discarica della Sicilia in quel di Siculiana, in provincia di Agrigento. Sotto scacco - non a caso sempre da parte della magistratura - è finita tutta la gestione dei rifiuti in Sicilia imperniata ancora sulle discariche. Una follia tutta siciliana che inquina l’ambiente. Va ricordato che quasi tutte le discariche siciliane non sono a norma di legge. Nelle discariche non possono essere sotterrati i residui organici, cioè il cosiddetto ‘umido’ che andrebbe lavorato a parte. Invece in quasi tutte le discariche siciliane i camion pieni di immondizia entrano, scaricano e vanno via. Ma questo non si può fare, la legge non lo consente. E invece si fa. Ma adesso la festa sembra finita. Non va meglio per la gestione dell’acqua. Tutti in Sicilia sanno che, in due anni e oltre di legislatura, il Parlamento siciliano, di fatto, ha bloccato il disegno di legge d’iniziativa popolare per il ritorno alla gestione dell’acqua pubblica. La mafia, in Sicilia, è sempre stata contro l’acqua pubblica. Era così ai tempi di Don Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Ed è così anche oggi che la mafia opera da Bruxelles, imponendo i proventi delle attività criminali nel calcolo del Pil dei Paesi dell’Unione europea. La mafia non vuole il ritorno all’acqua pubblica. E la politica siciliana si sta adeguando alle ‘richieste della mafia che, come insegna ‘Il Padrino’, in genere, non si possono rifiutare. Questo spiega perché, proprio mentre scriviamo, mezza Regione siciliana è mobilitata a bloccare i tentativi di alcuni Sindaci dell’Agrigentino di gestire l’acqua nell’interesse dei cittadini. Un esempio intollerabile…Insomma, tutto il mondo che gira attorno a Lumia, Montante, Catanzaro, Lo Bello e Crocetta - che è un mondo di politica legata agli affari, dall’agenzia dei beni confiscati alla mafia alla gestione della burocrazia, dalle società aeroportuali ai rifiuti, fino all’acqua - in un modo o nell’altro non sembra più in sintonia con una certa idea di antimafia. La Giustizia da una parte e i grandi interessi che si scontrano, dall’altra parte, stanno disegnando in Sicilia nuovi scenari. 

Palermo, un politico ambasciatore dei padrini. 14 commercianti denunciano il pizzo, 27 arresti. In manette il consigliere comunale Giuseppe Faraone, è accusato di concorso in tentata estorsione: per conto dei boss avrebbe chiesto soldi a un imprenditore. Alle ultime regionali in Sicilia era stato candidato nella lista del governatore Crocetta, risultò il primo dei non eletti. All'alba, il blitz di carabinieri, squadra mobile e nucleo speciale di polizia valutaria. Il procuratore Lo Voi: "Agli estorti dico, non avete futuro", scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica” In campagna elettorale Giuseppe "Pino" Faraone si definiva un "paladino della legalità" e urlava a squarciagola il simbolo della sua lista: "Amo Palermo". Ma poi andava ad abbracciare uno dei boss più in vista della città, Francesco D'Alessandro. Tanta affettuosità non è sfuggita ai carabinieri del Reparto Operativo, che hanno fotografato il politico mentre bacia il mafioso, davanti a un bar di viale Strasburgo. Eccola, l'ultima cartolina da Palermo. Il padrino del potente clan di San Lorenzo e il politico, attualmente consigliere comunale. Questa mattina, Faraone è stato arrestato insieme ad altre 26 persone, accusate di essere i nuovi boss del pizzo. Adesso, deve difendersi da un'imputazione pesante per un incensurato, tentata estorsione aggravata: la procura distrettuale antimafia di Palermo lo accusa di essere stato l'insospettabile ambasciatore dei clan, avrebbe recapitato addirittura una richiesta di pizzo a un imprenditore. E' un nuovo scossone per la politica siciliana. Perché Giuseppe Faraone, 69 anni, è stato deputato regionale e poi assessore provinciale, negli ultimi vent'anni è passato dall'Udc alla lista del governatore Crocetta, il Megafono, risultando nel 2012 il primo dei non eletti al parlamento siciliano. 2.085 voti non gli sono bastati per la Regione. 896 sono stati invece sufficienti per il consiglio comunale, dove Faraone aderisce proprio al gruppo del Megafono. Il vero scossone per Palermo sono le denunce di 14 fra imprenditori e commercianti, sono loro che hanno fatto scattare il blitz con le dichiarazioni fatte alle forze dell'ordine. A luglio, dopo una prima operazione antiracket, erano stati convocati in caserma. Messi di fronte all'evidenza di indagini e intercettazioni hanno ammesso di aver pagato il pizzo. E sono andati anche oltre, riconoscendo esattori e ambasciatori del racket. Fra questi c'era anche l'insospettabile Faraone, avrebbe avvicinato un imprenditore che si occupa di forniture elettriche. Altri esattori del clan San Lorenzo hanno chiesto il pizzo a una nota concessionaria Honda di Palermo, alla ditta che si occupa della pulizia allo stadio e a quella che stava ristrutturando un palazzo per conto della Curia. I boss imponevano il pagamento della "mesata", ma anche assunzioni. Il provvedimento che ha fatto scattare il blitz di questa mattina è stato firmato dal gip Luigi Petrucci, su richiesta del procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dei sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi, Dario Scaletta e Roberto Tartaglia. Il procuratore capo Franco Lo Voi dice in conferenza stampa: "Il contributo delle vittime, sostenute anche da Addiopizzo, è stato fondamentale per questa indagine. Agli uomini che ancora pretendono le estorsioni voglio dire che non hanno molta strada davanti a loro, non hanno futuro. E questo sia grazie alle collaborazioni sempre più numerose delle vittime, sia grazie alle indagini". Il sindaco Orlando annunciato invece la costituzione di parte civile nel processo. La denuncia. "Ho ricevuto una richiesta estorsiva, che mi è stata rivolta da una persona che conosco da molti anni, in quanto si tratta di un politico che attualmente ricopre delle cariche all'interno dell'amministrazione comunale". Inizia così il drammatico racconto dell'imprenditore che ha incastrato il consigliere comunale: "E' Giuseppe Faraone, che è stato assessore alla viabilità, l'ho conosciuto perché la mia azienda si occupa anche di lavori stradali. E poi mi aveva chiesto più volte di aiutarlo nella raccolta dei voti per le varie tornate elettorali. A fine 2012, mi rappresentò che alcuni amici lo avevano incaricato di richiedermi del denaro, in quanto avevano bisogno di aiuto finanziario. Risposi in maniera dura, rappresentandogli che non avevo amici e non avevo alcuna intenzione di pagare alcunché. Anche perché avevo capito che si trattava di una richiesta estorsiva". Iniziarono giorni terribili per l'imprenditore. Faraone tornò a ribadire la richiesta di pizzo, "perché gli amici hanno bisogno di una mano di aiuto", disse all'imprenditore. Che continuava a resistere. Iniziarono le telefonate anonime e strani squilli al citofono. Gli dicevano: "Rivolgiti agli amici". Fino a quando l'imprenditore decise di affrontare Faraone: "Lo andai a trovare al bar Golden, dove sapevo di poterlo incontrare, lo agredii verbalmente in quanto lo ritenevo responsabile di quello che stavo accadendo. Gli dissi che qualora mi fosse successo qualcosa avrei addossato a lui ogni responsabilità. Per questo aveva anche predisposto una lettera che avevo consegnato al mio avvocato, corredata da precise istruzioni perché venisse resa pubblica qualora fosse successa qualcosa a me o alla mia azienda.  Faraone si mise a ridere, non mi rispose e se ne andò".

Giuseppe Faraone Arrestato, il consigliere che nessuno vuole: Rosario Crocetta lo scarica e Matteo Salvini non lo riconosce, scrive Gabriella Cerami, L'Huffington Post. La storia è quella di sempre: nessuno sa. Tutti si affrettano a scaricare l’accusato, anzi, in questo caso l’arrestato. Giuseppe Faraone, il consigliere comunale di Palermo finito in carcere con l’accusa di tentata estorsione, viene rinnegato da chiunque. Soprattutto dal presidente siciliano, Rosario Crocetta, che eppure lo aveva candidato alle Regionali del 2012 nella lista il Megafono, movimento che fa capo proprio al governatore. La prima reazione di Crocetta è la seguente: “Hanno fatto bene ad arrestarlo. Se ha lasciato il Megafono vuol dire che non si trovava bene. Mi risulta che aveva aderito alla Lega Nord, così Salvini impara a non utilizzare la Lega come un taxi”. In realtà, non c’è traccia dell’addio di Faraone al Megafono, anzi ancora oggi risulta essere il presidente del gruppo consiliare del comune di Palermo “Megafono-Noi con Salvini”. Dal canto suo il segretario della Lega Nord prende le distanze dicendo di non aver mai conosciuto Faraone, che fa capo al Megafono, mentre il consigliere di Noi con Salvini a Palermo è Giorgio Calì. In sostanza, i due hanno creato un gruppo consiliare unico pur mantenendo il proprio riferimento politico. Per capire la vicenda occorre fare un passo indietro. Faraone entra nel maggio del 2012 nel Consiglio comunale del capoluogo di Regione con la lista “Amo Palermo” e aderisce al gruppo Misto. Nell’ottobre dello stesso anno si candida alle elezioni regionali nella lista il Megafono e risulta il primo dei non eletti. Ma dopo l’esperienza di questa campagna elettorale lascia il gruppo Misto per creare, nell’aprile del 2013, il gruppo consiliare “Megafono-Centro democratico”. Per formare un gruppo occorre essere almeno in due. Il collega di Faraone è Giorgio Calì, eletto con Italia dei Valori e poi passato a Centro democratico. La storia politica di Calì è caratterizzata da diversi cambi di casacca. Dal Centro democratico, nell’aprile del 2014, passa al Dpr (con annesso cambio di nome del gruppo consiliare che ora diventa “Megafono-Dpr”). Alla fine Calì approda alla Lega Nord e annuncia, in conferenza stampa, la sua adesione al movimento di Salvini. A questo punto il 22 gennaio scorso il gruppo consiliare si trasforma in “Megafono-Noi con Salvini”. Alla luce dell’arresto di Faraone, l’associazione del suo nome alla Lega Nord è immediata. Tanto che Salvini annuncia querele “a pioggia”: “Specifico – dice - che non lo conosco, non so chi sia, non fa parte di NcS. Il problema Faraone è tutto di Crocetta”. Ma ecco la replica del governatore della Sicilia, nel gioco dello scarica barile: “Ci sono una serie di personaggi che si vogliono riciclare, Salvini in Sicilia deve stare attento, rischia di imbarcare criminali". E poi ancora: “Faraone non è mai stato autorizzato a utilizzare il nome e il simbolo del megafono”. Fatto sta il simbolo che appare sul sito del comune di Palermo non lascia spazio a equivoci. Così, in tutta questa vicenda, a tanti è rimasto un dubbio: come mai il presidente della Regione non si era accorto che proprio a Palermo, capoluogo di Regione, c’era un gruppo con il simbolo del suo movimento? Adesso Crocetta garantisce che “sta mettendo ordine, istituendo segreterie territoriali e provinciali. Abbiamo cominciato in alcune zone della Sicilia, dobbiamo farlo al più presto anche a Palermo”. I dubbi rimangono. E la Lega Nord era a conoscenza del fatto che un suo consigliere avesse come alleato un esponente del Megafono di Crocetta? “Assolutamente no”, dice il deputato Angelo Attaguile, catanese e uomo del Carroccio che sta organizzando la Lega in Sicilia. “Calì è stato superficiale e noi davamo per scontato che facesse parte del gruppo Misto. Questa mattina l’ho richiamato dicendogli di passare subito al Misto. Faraone invece non so chi sia, non lo conosco e non è mai venuto alle nostre riunioni. Di Calì posso assicurare che è una persona perbene perché ho verificato il suo curriculum”. Alla fine della storia, nel tira e molla tutto politico all'indomani dello sbarco della Lega Nord in Sicilia, ciò che rimane è il simbolo che mette insieme il "Megafono" di Crocetta e il logo "Noi con Salvini", e dunque Faraone e Calì, che dall'aprile 2013 fanno parte dello stesso gruppo in consiglio comunale.

Pif: un selfie antimafia li seppellirà? Scrive Antonio Roccuzzo su “Il Fatto Quotidiano”. Antimafia da selfie? Sì. E poi, in fondo, perché no, se il fine giustifica il mezzo? Postando su Twitter il suo video alla lapide di via Libertà che a Palermo ricorda l’uccisione di Piersanti Mattarella, nel giorno dell’elezione al Quirinale del fratello Sergio, forse quel tardo-post-sessantottino di Pif (al secolo Pierfrancesco Diliberto) avrà ricordato la vecchia frase di Michail Bakunin: “Sarà una risata a seppellirvi”. A seppellire almeno un altro pezzettino di consenso ai mafiosi. Lui, Pif, inquieta e –  il suo film La mafia uccide solo d’estate cos’è se non questo? – cerca di resuscitare con un sorriso la memoria di fatti tragici che il nostro Paese ha smarrito e non coltiva come si deve. Pur avendo segnato la vita quotidiana di un sacco di gente, anche della gente indifferente. E allora che selfie sia, anche a chi non piace lo strumento di comunicazione renziana per eccellenza. Un selfie non vi seppellirà, ma almeno vi farà pensare. L’amarissimo paradosso e il provocatorio “cazzeggio” di quel selfie da cantastorie antimafia è il seguente: bisogna avere un fratello eletto al Colle, per essere ricordato da tutti come un eroe antimafia! Deve aver pensato questo Pif che è mediaticamente dovunque ma in questo caso apre una sua parentesi (tra uno spot e l’altro, tra una comparsata e un – meritato – premio) per far passare messaggi. E in questo caso qual è il messaggio? “Caro dottor Mattarella (Piersanti, ndr) ho il sospetto che il prossimo 6 gennaio ci sarà un po’ più di gente a ricordarla”, dice il nostro sovraesposto testimonial dell’antimafia che sorride. E poi chissà perché l’idea antimafia deve essere sempre accoppiata soltanto al pianto. Perché? Io un po’ di memoria sicula la custodisco e nei primi movimenti di studenti palermitani negli anni Ottanta ho visto un sacco di sorrisi, speranze, parole dolci. Per esempio tra i ragazzi in corteo a Ciaculli, 1983, quartiere occupato dal boss Michele Greco. Io c’ero e l’aria era di una passeggiata festosa al di là di una porta che nessuno aveva mai aperto: un “cazzeggio” di ragazzi che trasgredivano una regola, quella del non parlare, non gridare, non sorridere. Ricordo il sorriso di Giovanni Falcone, davanti alla notizia di quel corteo variopinto che aveva illuminato quelle strade buie di Palermo. Allora, negli anni Ottanta, non c’erano cellulari e selfie non se ne facevano. La lotta alla mafia, 35 anni dopo, si fa anche così, con un sorriso e l’amarezza di chi ricorda – Pif la cita senza dirla – la frase di Bertold Brecht da Vita di Galileo: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. E per contrasto beato il Paese che di eroi può fare a meno. Non è purtroppo il caso del nostro Paese, perché – per esempio a Palermo – di lapidi simili a quella del selfie di Pif è disseminato quasi ogni incrocio. Ho iniziato a fare il cronista in Sicilia proprio in quel lontano 1980, quando a Palermo la mafia uccideva chiunque e in tutte le stagioni: Piersanti Mattarella (presidente della Regione, 6 gennaio), Emanuele Basile (capitano dei carabinieri, 4 maggio), Gaetano Costa (procuratore della Repubblica, 6 agosto) e la guerra di mafia mieteva cento-centoventi picciotti morti ammazzati all’anno e negli anni prima e dopo altri omicidi e altre lapidi da selfie antimafia. E allora, alzino onestamente la mano quanti – tra le persone comuni ma anche tra i 1.009 grandi elettori di Sergio Mattarella – ricordano quei lontani eventi. Quel banale e sgangherato selfie di Pif non riesumerà la memoria, ma già aiuta a seppellire la nostra cattiva coscienza.

3 marzo 2015. Predica contro il pizzo, arrestato per estorsione. Il presidente della Camera di Commercio di Palermo, che spesso si era vantato di essere dalla parte della legalità, è stato colto in flagrante dai carabinieri mentre riscuoteva il denaro che aveva preteso in cambio di "un favore", scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Negli ultimi dieci anni il presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg, ha firmato protocolli di legalità per contrastare - sulla carta - le estorsioni; ha pure stretto accordi – sempre sulla carta - per sostenere legalmente ed economicamente le vittime del pizzo che decidono di denunciare gli esattori del racket ed è stato sempre pronto a fare dichiarazioni puntuali alla stampa, con frasi ad effetto in cui diceva di condannare chi si piegava al ricatto della mafia. Tutto questo è accaduto a Palermo dove Roberto Helg, con un passato travagliato fra dichiarazioni di pentiti che lo citavano, è diventato il leader dei Commercianti, prima in Confcommercio e poi alla Camera di Commercio, e ha continuato a rappresentarli anche dopo che la sua azienda è fallita. “La royalty... dal 7 noi passiamo al 10... quindi tu hai un risparmio... (...) Ne paghi 110 di aumento, dal 7 al 10... Cento sono quelli che dobbiamo dare... Tu hai un risparmio di 104 mila 440... E sei dentro, al dieci”. “Quindi praticamente quello che dovrei dare io in più sono questi centomila euro... ”. “Di cui io ho ottenuto anche 50 lunedì, prima del consiglio... Gli altri, 10 mila al mese. Ho detto che ne rispondo io, mi farà un assegno e m’u tegnu sarbatu...”. Ecco i dialoghi tra Roberto Helg, presidente della Camera di commercio di Palermo arrestato mentre intascava una tangente, e Santi Palazzolo, titolare delle omonime pasticcerie di Cinisi e dell’aeroporto di Punta Raisi, che ha denunciato l’estorsione che gli avrebbe permesso un risparmio sui canoni di affitto degli spazi in aeroporto. Il dialogo tra i due è stato interrotto dai carabinieri, che hanno arrestato Helg. A leggere la rassegna stampa degli ultimi anni Helg viene disegnato come un paladino della legalità che sprona i propri associati a denunciare. I palermitani nascondono sempre delle sorprese. Anche in quelle giornate che sembrano uguali alle altre. Non è sempre come appare. Come ieri pomeriggio quando nella stanza super accogliente del presidente della Camera di Commercio si consuma un'estorsione. E si scopre che la vittima non è il presidente, bensì un ristoratore, a cui Helg che lo aveva convocato aveva imposto il pagamento di centomila euro per ottenere la proroga di affitto di uno spazio commerciale all'aeroporto di Palermo dove lo stesso Helg è vice presidente. Basta dunque un pomeriggio come quello di ieri, in cui viene fuori un mondo ribaltato, come pure la coscienza del povero ristoratore che per continuare a lavorare è costretto a versare una somma di denaro, come se fosse un pizzo, e a chiederglielo non è un mafioso, bensì il presidente della Camera di Commercio. L'uomo non ci sta a questa richiesta e si rivolge ai carabinieri, denuncia come spesso lo stesso Helg aveva invitato a fare, e i militari predispongono un servizio di appostamento e mettono addosso alla vittima una microspia per registrare la conversazione. Tutto è pronto. Scatta l'operazione che viene coordinata dal procuratore aggiunto Dino Petralia. Ecco la scena: tutto si svolge poco prima delle ore 17 di martedì 2 marzo. Il ristoratore come da appuntamento preso con Helg si presenta nel grande edificio della Camera di Commercio di Palermo che si affaccia sul porto. Raggiunge l'ufficio e il leader dei commercianti lo accoglie sulla porta. Fa accomodare il ristoratore e questo gli consegna una somma in contanti di 50 mila euro, come aveva preteso Helg e poi l'impegno da parte del commerciante della corresponsione rateale di diecimila euro al mese fino a raggiungere il residuo importo di 50 mila euro. A garanzia di questo impegno Helg pretende un assegno in bianco. Il ristoratore lascia l'ufficio e subito dopo fanno irruzione nella stanza i carabinieri che avevano ascoltato la conversazione. Sulla scrivania gli investigatori trovano una busta con trentamila euro in contanti e in una tasca della giacca di Helg c'è l'assegno in bianco. Il presidente della Camera di Commercio viene arrestato per estorsione e portato in carcere. I magistrati lo interrogano ed Helg avrebbe risposto facendo rilevanti ammissioni sulle quali sono in corso indagini. All'interrogatorio che è durato tutta la notte hanno preso parte oltre all'aggiunto Petralia anche il procuratore Francesco Lo Voi. Roberto Helg, cinque anni fa, quando era presidente di Confcommercio, ricordava Libero Grassi sostenendo che Palermo non era più quella del 1991 quando l'imprenditore venne assassinato perché si era opposto al pagamento del pizzo. E sosteneva pure che Palermo era cambiata anche nel mondo delle associazioni, e aggiungeva: «oggi posso affermare con certezza che nessun imprenditore resta solo, in quanto tutte le associazioni si impegnano nell'invitare i propri associati alla denuncia». E la certezza ad Helg è arrivata praticamente ieri pomeriggio. Solo che dalla parte dell'estorsore questa volta c'è lui.

Intasca mazzetta da 100mila euro, preso presidente Camera Commercio. E lui: «L’ho fatto per bisogno». Roberto Helg, in qualità di vicepresidente della Gesap, la società che gestisce l’aeroporto di Palermo, avrebbe chiesto e ottenuto la tangente per favorire l’apertura di un ristorante nello scalo siciliano. Era in prima linea nella lotta a racket e corruzione, scrive Chiara Marasca su “Il Corriere della Sera”. Una busta con 30mila euro in contanti sulla scrivania, un assegno in tasca: il presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg, è stato arrestato lunedì pomeriggio mentre incassava una «mazzetta». In qualità di vicepresidente della Gesap, la società che gestisce l’aeroporto di Palermo, spiega la procura in una nota, Helg avrebbe «chiesto e ottenuto il pagamento di una somma di denaro di 100.000 euro da un esercente del settore della ristorazione, affittuario di uno degli spazi commerciali dell’aeroporto, il quale si era rivolto a lui per ottenere la proroga triennale del contratto a condizioni favorevoli». La richiesta e la consegna del denaro sono state integralmente monitorate dalla polizia giudiziaria. Helg, noto imprenditore palermitano la cui storica azienda era però fallita nel 2012, era in prima linea nella lotta alla corruzione e al racket. L’accusa per Helg è di estorsione aggravata: ha prospettato al commerciante le difficoltà dell’operazione di rinnovo se non supportata dal suo intervento e dal pagamento di 50 mila euro in contanti e di 10 mila euro al mese per 5 mesi, con il contestuale rilascio, come garanzia dell’impegno, di un assegno in bianco del residuo importo di 50 mila euro. Al sopraggiungere della polizia giudiziaria nella stanza di Helg attorno alle 17 di ieri, il presidente della camera di commercio aveva già ricevuto e messo in tasca l’assegno; sulla sua scrivania c’era anche una busta con 30mila euro in contanti. Interrogato dai magistrati della Procura, Helg ha fatto ammissioni sulle quali sono in corso indagini. «L’ho fatto per bisogno, mi hanno pignorato la casa», si sarebbe giustificato il presidente della Camera di Commercio di Palermo nel corso del lungo interrogatorio della scorsa notte. L’indagato avrebbe negato per ore tentando di giustificare la presenza dei contanti e dell’assegno dell’imprenditore. Intorno alle due di notte, sentendo che gli inquirenti erano in possesso della registrazione della sua conversazione con la vittima all’atto della consegna dei soldi, ha deciso di ammettere la richiesta della tangente sostenendo di aver avuto bisogno di denaro. È stata la vittima dell’estorsione, titolare della pasticceria Palazzolo, che ha un punto vendita all’aeroporto di Palermo, a rivolgersi ai carabinieri dopo la richiesta del denaro. Le investigazioni sono state svolte dai militari del Nucleo investigativo del reparto operativo di Palermo sotto il comando del maggiore Alberto Raucci e con il coordinamento del comandante del reparto, il tenente colonnello Salvatore Altavilla, e del comandante provinciale colonnello Giuseppe De Riggi. L’indagine è condotta dai pm Luca Battinieri e Geri Ferrara, del dipartimento reati contro la pubblica amministrazione, con il coordinamento del procuratore aggiunto Dino Petralia e la supervisione del procuratore capo Francesco Lo Voi che ha partecipato all’interrogatorio notturno di Helg, che ora si trova nel carcere palermitano di Pagliarelli. Il legale di Helg, l’avvocato Fabio Lanfranca, ha chiesto alla Procura la concessione dei domiciliari per motivi di età, e per motivi di salute essendo affetto da una grave cardiopatia. Roberto Helg compirà 78 anni il prossimo 5 maggio. Dal ‘97 è presidente di Confcommercio Palermo. Nel 1976 gli è stata conferita l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica italiana, e nel 2003 quella di Cavaliere ufficiale della Repubblica e nel 2012 quella di Commendatore ordine al merito della Repubblica Italiana. Helg navigava da tempo in cattive acque. La sua storica ditta (settore tavola, cristallerie, argenterie e arredamento), aveva chiuso nel 2012 dopo quasi quarant’anni di attività. Helg, dal 1997 anche alla guida di Confcommercio Palermo, aveva dichiarato: «Non riusciamo più ad andare avanti». E i dipendenti aspettavano lo stipendio da due anni. Roberto Helg, di recente, aveva approvato insieme alla giunta camerale di Confcommercio il piano triennale di prevenzione della corruzione. L’associazione da lui guidata, inoltre, è stata la prima in Italia ad aprire uno sportello per la legalità, per assistere gli imprenditori che denunciano usura e richieste di pizzo. Proprio la lotta al racket è stato il suo impegno negli ultimi anni: Helg è stato tra coloro i quali con un comunicato stampa nei giorni scorsi aveva espresso solidarietà ad Antonello Montante, il leader di Confindustria in Sicilia e paladino della lotta al pizzo, indagato per frequentazioni mafiose dalla Procure di Caltanissetta. Risale ad alcuni mesi fa, infine, una dura polemica tra Helg e il delegato per la legalità di Confindustria nel capoluogo siciliano, Giuseppe Todaro, che è anche componente di Addiopizzo, il quale aveva sostenuto in un’intervista al Giornale di Sicilia che il 90 per cento dei commercianti palermitani paga il pizzo. Helg aveva contestato quella percentuale e aveva sostenuto: «Mi sento di smentire categoricamente che il 90% dei commercianti del cosiddetto “salotto buono” paghi il pizzo e mi rifiuto di credere che le forze dell’ordine diano a Todaro notizie così riservate». «Ho deciso di rinunciare al mandato difensivo di Roberto Helg perché lo ritengo incompatibile con il mio ruolo di legale di Confcommercio Palermo e con la scelta di assistere le vittime di estorsione che ho fatto molti anni fa». Parole dell’avvocato Fabio Lanfranca nominato difensore da Roberto Helg.

Palermo, arrestato Helg mentre intasca una tangente. Indagini sull'ipotesi di un sistema corruttivo. Il presidente della Camera di Commercio è stato fermato per estorsione: è stato denunciato dal titolare delle pasticcerie Palazzolo ed è scattata la trappola. "L'ho fatto per bisogno, ho la casa pignorata" ha detto durante la confessione. Pioggia di richieste di danni, Confcommercio lo espelle. L'avvocato rinuncia a difenderlo, scrive invece “La Repubblica”. Il presidente della Camera di commercio di Palermo, Roberto Helg, è stato arrestato dai carabinieri di Palermo mentre intascava una tangente. Helg, personaggio assai noto in città, presidente di Confcommercio Palermo, è attualmente anche vice presidente della Gesap, la società di gestione dell'aeroporto Falcone Borsellino di Palermo. Spiegano i carabinieri che "proprio nella veste di rappresentante Gesap, Helg ha chiesto e ottenuto il pagamento di una somma di denaro di 100 mila euro a un esercente del settore della ristorazione, affittuario di uno degli spazi commerciali dell'aeroporto, il quale si era rivolto a lui per ottenere la proroga triennale del contratto a condizioni favorevoli. La richiesta e la consegna del denaro ha fatto registrare la classica sequenza estorsiva consistente nella prospettazione, da parte di Helg, della difficoltà dell'operazione di rinnovo se non supportata dal suo prezioso intervento e, da parte del commerciante, nell'adesione all'illecito pagamento" per il quale Helg "ha preteso, oltre alla consegna di una somma in contanti di 50 mila euro, l'impegno da parte del commerciante alla corresponsione rateale di 10 mila euro al mese con il contestuale rilascio, in funzione di garanzia dell'impegno, di un assegno in bianco". Dalla confessioni di Helg l'indagine potrebbe allargarsi fino a rivelare un sistema corruttivo più ampio. Gli investigatori sono al lavoro. All'arrivo dei militari nella stanza di Helg, attorno alle 17 di ieri negli uffici della Camera di commercio, Helg aveva già ricevuto l'assegno, che aveva riposto nella tasca della giacca, e sulla sua scrivania era presente una busta con 30 mila euro in contanti. "Il contestuale colloquio intercettato era in termini del tutto coerenti con la vicenda estorsiva - dicono gli investigatori - Interrogato dai magistrati della Procura, a fronte di specifiche e dettagliate contestazioni, Roberto Helg ha fatto rilevanti ammissioni sulle quali sono in corso indagini". La notizia-bomba dell'arresto si è diffusa stamattina nel bel mezzo di un incontro sul lavoro femminile che si teneva proprio alla Camera di commercio di Palermo e ha colto di sorpresa i presenti, in gran parte imprenditrici o aspiranti tali. Incredulità e sgomento i sentimenti prevalenti, nessuna voglia di parlare: "Non e' il momento di fare dichiarazioni", si è limitata a dire Patrizia Di Dio, presidente nazionale di Terziario Donna Confcommercio e promotrice dell'appuntamento. Il Comune di Palermo ha annunciato che si costituirà parte civile. L'operazione conclusa ieri ha avuto inizio da una denuncia dell'imprenditore Santi Palazzolo, titolare di una storica pasticceria di Cinisi e del punto di ristorazione interno all'aeroporto di Punta Raisi, che si è rivolto ai carabinieri e ha rivelato i dettagli dell'illecita richiesta di denaro e delle sue modalità estorsive. L'imprenditore si è presentato venerdì pomeriggio dai carabinieri. L'uomo, visibilmente agitato, ha chiesto di parlare con i militari per denunciare che Helg gli avrebbe chiesto una tangente di centomila euro per il rinnovo degli affitti dei locali dell'aeroporto. "Proprio da lui, uomo della legalità non me lo aspettavo - ha detto agli inquirenti - sono esterrefatto, ecco perché sono qui". Le investigazioni sono svolte dai militari del nucleo Investigativo diretto dal maggiore Alberto Raucci, con il coordinamento del comandante del Reparto Operativo, il tenente colonnello Salvatore Altavilla, e del comandante provinciale, il colonnello Giuseppe De Riggi. L'indagine è condotta dal procuratore aggiunto Petralia e dai sostituti Battinieri e Ferrari. "L'ho fatto per bisogno, mi hanno pignorato la casa", ha detto Helg durante la confessione. Ieri notte, il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi ha partecipato personalmente all'interrogatorio di Helg nel carcere di Pagliarelli. In un primo momento Helg avrebbe tentato di negare la tangente. "Poi è stato smentito dalle sue stesse parole registrate - dice il procuratore Lo Voi - e non ha potuto che ammettere tutto". Ha spiegato agli inquirenti di avere agito "per difficoltà economiche". Helg "non si aspettava che l'imprenditore vittima della tangente lo denunciasse ai carabinieri", dice il procuratore Lo Voi. A chi gli fa notare che Helg era considerato a Palermo un paladino della legalità e dell'antimafia, il procuratore allarga le braccia e dice: "Purtroppo a Palermo succede anche questo..." Helg però non si sarebbe limitato a confessare. E avrebbe fatto rivelazioni sull'esistenza di un sistema corruttivo più ampio. L'intercettazione della sua richiesta di denaro, fatta dalle microspie dei carabinieri piazzate addosso al commerciante che ha denunciato tutto, farebbero pensare al coinvolgimento di altri personaggi. La Procura, dunque, sta cercando di capire se dietro la richiesta ci sia una sorta di organizzazione che si spartiva le tangenti incassate dai commercianti e se Helg avesse già fatto richieste estorsive ad altri. La Procura è in contatto con l'Anac, l'autorità nazionale anticorruzione guidata dal magistrato Raffaele Cantone, e non si escluderebbe un commissariamento della Gesap. I pm, inoltre, stanno facendo uno screening del patrimonio di Helg per eventuali misure di prevenzione. Per 40 anni Roberto Helg è stato titolare di negozi di articoli da regalo a Palermo, attività aperta nel 1974 e fallita nel dicembre 2012, l'anno successivo alla rielezione di Helg alla presidenza della Camera di commercio di Palermo, che guida dal 2006, nonostante il fallimento della sua attività commerciale. La sede commerciale più prestigiosa si trovava in via Ruggero Settimo, a Palermo, e chiuse nel 2000; altri negozi, compreso quello del centro Etnapolis di Belpasso, nel Catanese, chiusero negli anni successivi. L'ultimo negozio ad abbassare le saracinesche fu quello di Carini (Palermo), inaugurato nel 2008. Da paladino della legalità all'arresto per estorsione aggravata. Ecco la parabola discendente di Roberto Helg, 79 anni, sorpreso dai Carabinieri con una bustarella di 30.000 euro sul tavolo del suo ufficio avuta da un imprenditore in cambio del rinnovo dell'affitto di un locale all'aeroporto Falcone e Borsellino. La somma complessiva da pagare era di 100.000 euro. Ma chi è Helg? Non ha mai mancato un convegno sull'antimafia, si è sempre schierato con la legalità e contro il pizzo. Lo scorso dicembre, Roberto Helg, era stato al centro di una polemica con Confindustria. A fare scoppiare la miccia era stata una intervista rilasciata da delegato per la legalità di Confindustria Palermo Giuseppe Todaro, in cui sosteneva che che il 90% dei commercianti di Palermo "pagano il pizzo". Helg aveva duramente contestato quella dichiarazione dicendo che non era vero. quella percentuale e aveva sostenuto: "Non è vero".La causa del fallimento, spiegò Helg, stava nel drastico calo dei consumi e dai mancati incassi per vendite effettuate all'ingrosso anche all'estero, soprattutto in Tunisia. Le attività erano gestite dalla Gearr srl (50 mila euro di capitale, che aveva raggiunto un'esposizione con le banche di oltre 3,5 milioni), di cui era socio anche il fratello di Helg, Fulvio. Helg nel gennaio dello scorso anno ha approvato insieme alla giunta camerale il piano triennale di prevenzione della corruzione. La Camera di commercio, infatti,  "ai sensi del proprio Statuto promuove la cultura della legalità come condizione necessaria per la crescita economica, in particolare, nel campo della lotta al racket delle estorsioni e dell'usura". Nella struttura camerale, che  ha adottato il piano triennale di prevenzione della corruzione nel gennaio 2014, esiste anche lo sportello legalità  al fine "di avviare una propria concreta iniziativa nel settore della prevenzione all'usura e dei fenomeni estorsivi, in stretta collaborazione con la Prefettura di Palermo con la quale ha sottoscritto un Protocollo di Intesa per attuare una più stretta sinergia di intervento nella tutela degli imprenditori della provincia". "Ciò - è scritto nel sito della Camera di commercio - ha consentito di avviare la realizzazione di un'importante 'rete di partenariato' con soggetti pubblici e privati di provata esperienza ed impegno su queste tematiche , che ci consente di fornire gratuitamente  assistenza quotidiana agli imprenditori della provincia di Palermo, che versano in gravi condizioni economiche e quindi a rischio usura, o già vittime di fenomeni usurari o estorsivi". "Appresa dalla stampa la notizia dell'arresto del presidente Roberto Helg, la Confcommercio di  Palermo ha convocato d'urgenza la Giunta Esecutiva per assumere gli eventuali necessari provvedimenti", si legge in una nota dell'associazione. Fabio Giambrone, presidente della Gesap, la società di gestione dell'aeroporto di Palermo, ha convocato per oggi alle 16,30 una conferenza stampa presso l'hotel Borsa. Il consiglio di amministrazione della società si riunirà alle 15. Il Comune di Palermo, Confcommercio, la Gesap e la Camera di commercio hanno annunciato che si costituiranno parte civile nel processo. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, esprime "appezzamento per l'operato delle forze dell'ordine e della magistratura, per questo ennesimo contributo all'affermazione della legalità nella nostra città" e annuncia di avere dato mandato all'avvocatura comunale per la costituzione di parte civile "ove ciò dovesse essere processualmente possibile". Anche Fabio Giambrone, presidente della Gesap, la società che gestisce l'aeroporto di Punta Raisi, annuncia che la Gesap si costituirà parte civile e che ha consegnato copia del verbale del consiglio di amministrazione della Gesap all'autorità giudiziaria: "La società non può subire questa esposizione, abbiamo revocato le funzioni e la carica di Roberto Helg e convocato l'assemblea dei soci per il 12 marzo per nominare il successore". Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione ricorda: "Fece un intervento particolarmente appassionato contro la corruzione". E continua: "ferma restando la presunzione di innocenza, è evidente come in questo mondo ci sia tanta ipocrisia e questa fa molti più danni, rispetto alla stessa corruzione. Se un soggetto del genere parla di contrasto alla corruzione e poi viene arrestato il rischio vero è che si mette in discussione anche la battaglia oltre alle sue parole". Il gruppo dirigente di Confcommercio ha deciso di applicare la sanzione estrema, l'espulsione. A comunicarlo oggi pomeriggio, nella sede di via Emerico Amari, i quattro vice presidenti di Confcommercio di Palermo, Antonello Di Liberto, Patrizia Di Dio, Luigi Genuardi, Rosanna Montalto, e il direttore Vincenzo Costa. "Esprimiamo coralmente solidarietà e vicinanza all'imprenditore anch'egli dirigente di Confcommercio Palermo, che ha denunciato i gravi fatti - si legge nella nota diffusa alla stamp a- abbiamo deciso di applicare la massima sanzione prevista dalla Statuto, ovvero l'espulsione nei confronti di Helg. La Confcommercio, nel confermare il suo impegno per la legalità, si costituirà parte civile nel processo e il gruppo dirigente di Confcommercio Palermo esprime apprezzamento per il lavoro svolto dalla magistratura e dalle forze dell'ordine". Nella sala dove si è tenuta la conferenza stampa ci sono  ancora le foto di Helg con l'attuale presidente del Senato Pietro Grasso e i codici etici di legalità siglati da Concommercio. "Non è una giornata felice per Confcommercio -ha detto Genuardi- ma riteniamo che abbiamo  fatto quello che andava fatto. Riteniamo che questi  sono fatti straordinari e la Confcommercio conferma il suo percorso per la legalità e non si fermerà davanti a questo brutto episodio. L'importante -ha concluso- è la risposta che sapremo dare". Il difensore di Roberto Helg, l'avvocato Fabio Lanfranca, ha rinunciato al suo incarico "per ragioni di incompatibilità". Lo stesso legale è anche il difensore di Confcommercio. "Sono fuori Palermo - dice Lanfranca - e sto apprendendo, ora dopo ora, sempre nuovi particolari sullal vicenda. Purtroppo ci sono profili di incompatibilità. Ho appreso anche della sua ammissione. E io sono legale dell'associazione dei commercianti. non posso accettare. Io assisto le vittime degli estorsori, non posso difendere Helg".

Pizzo in città, quando Helg polemizzò con i dati diffusi da Confindustria. Giuseppe Todaro, aveva sostenuto in un'intervista al Giornale di Sicilia, che il 90% dei commercianti della città paga il pizzo, scrive “Il Corriere della Sera”. Risale a poco dopo Natale la polemica che vide contrapposti il presidente della Camera di commercio di Palermo, Roberto Helg, arrestato ieri per tangenti, e il delegato per la legalità di Confindustria nel capoluogo siciliano Giuseppe Todaro, che è anche componente di Addiopizzo, il quale aveva sostenuto in un'intervista al Giornale di Sicilia che il 90% dei commercianti della città paga il pizzo. Helg aveva contestato quella percentuale e aveva sostenuto: «Non mi è chiaro se chi l'ha intervistato abbia capito bene quanto da lui detto. Mi sento di smentire categoricamente che il 90% dei commercianti del cosiddetto "salotto buono" paghi il pizzo e mi rifiuto di credere che le forze dell'ordine diano a Todaro notizie così riservate». Sulla questione era intervenuto il Comitato di redazione del Giornale di Sicilia, che aveva parlato di «assolute anomalie» contenute nelle dichiarazioni di Helg, prima delle quali «la smentita di un'intervista non rilasciata da lui. È la prima volta che accade in 200 anni di giornalismo. Seconda anomalia, Helg ha chiuso le sue attività per fallimento, continuando a rappresentare gli altri imprenditori che invece le mantengono in vita. Non ci risultano altri casi simili». Helg, sempre in quella circostanza, aveva spiegato: «Da anni sostengo che la lotta al racket vada fatta tutti insieme e non una associazione contro un'altra: questa è una strategia di basso profilo e che non porta buoni frutti. I risultati ottenuti a Palermo dimostrano che la mia posizione è vincente e mi vedo costretto a chiedere all'amico Giuseppe Todaro di smentire quanto riportato a suo nome dall'articolo o di rilasciare altra intervista con l'elenco dei nomi di tutti i commercianti che continuano a pagare il pizzo nella zona bene di Palermo, negandolo poi alle Forze dell'ordine. Se l'amico Todaro ci darà i nomi che dice di conoscere, agiremo di conseguenza come facciamo da anni: contattando l'imprenditore per convincerlo a collaborare con le forze dell'ordine e, in caso di un suo rifiuto, sospendendolo dall'associazione, com'è ormai prassi consolidata».

I due volti di Helg, l'uomo per tutte le stagioni che diceva: "Qui non si paga il pizzo". Il presidente della Camera di commercio arrestato ieri è un esponente di spicco, assieme a Montante, di Unioncamere Sicilia cui Crocetta ha affidato un appalto da due milioni per l'Expo, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica” Il primo problema, adesso, se lo porrà il governatore Rosario Crocetta. Che ha assegnato con affidamento diretto un appalto da due milioni di euro per l'Expo a un'associazione, Unioncamere Sicilia, i cui vertici sono stati stati investiti da inchieste giudiziarie: il presidente Antonello Montante è indagato per mafia e un autorevole membro della giunta, Roberto Helg, è appena finito in carcere per tangenti. E' solo uno dei risvolti dell'operazione che ha portato all'arresto di Helg, commerciante del settore degli articoli da regalo e influentissimo attore della vita amministrativa  e politica della città. Helg, 78 anni, Cavaliere del lavoro dal 1976 e più recentemente insignito del titolo di commendatore, è un collezionista di cariche che ha ricoperto incarichi di punta in tutte le stagioni politiche palermitane. E' presidente della Camera di commercio dal 2006 e il suo secondo mandato scade l'anno prossimo. E' stato presidente di Confcommercio Sicilia dal 2006 al 2008, dopo essere stato per nove anni il vice di Sergio Billè. Oggi continua a guidare Confcommercio Palermo. Un uomo per tutte le stagioni, vicino a Forza Italia al tempo della giunta Cammarata e non distante oggi a una parte del Pd "di governo". Uno dei più potenti rappresentanti del mondo produttivo siciliano, con un'anomalia sullo sfondo: l'attività imprenditoriale di Helg è fallita nel 2012. Considerato un paladino della legalità, il presidente della Camera di commercio palermitana non ha mai mancato un convegno sull'antimafia. La giunta camerale da lui guidata, nel gennaio 2014, ha adottato il piano triennale di prevenzione della corruzione. Con l'obiettivo di "promuovere la cultura della legalità come condizione necessaria per la crescita economica, in particolare, nel campo della lotta al racket delle estorsioni e dell'usura". Il 27 dicembre scorso, nel rispondere piccato al delegato per la legalità di Confindustria Palermo Giuseppe Todaro, Helg aveva detto: "Smentisco categoricamente che il 90 per cento dei commercianti del centro della città paghi il pizzo". Oggi che lo stesso Helg è stato colto in flagrante mentre intascava una mazzetta, quelle parole suonano decisamente beffarde.

Il grande inganno dell'antimafia siciliana: così l'eroe della legalità mette le mani sull'Expo. Montante, indagato assieme all'ex governatore Lombardo, condannato, sono i creatori di Caltanissetta "zona franca" anti-pizzo. Tra collusioni e fiumi di soldi, tutti i paradossi di un'impostura politica dietro la dittatura degli affari, scrivono Attilio Bolzoni ed Emanuele Lauria su su “La Repubblica”. Lo sapevate che esiste una "zona franca della legalità" dove ci sono gli abitanti più buoni e più onesti d'Italia? E lo sapevate che l'hanno fortemente voluta un governatore condannato per mafia e un imprenditore indagato per mafia? Per capirne di più bisogna andare a Caltanissetta, quella che è diventata la capitale dell'impostura siciliana. Nella città dove è iniziata l'irresistibile ascesa del cavaliere Antonio Calogero Montante detto Antonello, presidente di Confindustria Sicilia, presidente della locale Camera di commercio, presidente di tutte le Camere di commercio dell'isola, consigliere per Banca d'Italia, delegato nazionale di Confindustria (per la legalità, naturalmente) e membro dell'Agenzia nazionale dei beni confiscati (unica carica dalla quale si è al momento autosospeso per un'indagine a suo carico per concorso esterno), si può scoprire come in nome di una assai incerta antimafia si è instaurata una sorta di dittatura degli affari. Un califfato che si estende in tutta la Sicilia ma che è nato qui, a Caltanissetta, dove commistioni  -  e in alcuni casi connivenze  -  fra imprese e politica, impresa e stampa, imprese e forze di polizia, imprese e magistratura, hanno ammorbato l'aria e fatto calare una cappa irrespirabile sulla città. In Sicilia tutto si fonda su due parole magiche: legalità e antimafia. È una "legalità" costruita a tavolino e un'"antimafia padronale" che copre operazioni politiche opache e favorisce gruppi di interesse. Dopo la felice stagione iniziata con la "rivolta degli imprenditori" del 2007 guidata da Ivan Lo Bello contro il racket, trasformismo e ingordigia hanno snaturato l'iniziale esperienza e una consorteria si è impadronita di tutto. La "zona franca" l'ha pretesa la Confindustria siciliana di Montante, l'unico "partito" che nel governo regionale siede ininterrottamente da sei anni con un proprio rappresentante. Quando governatore era Raffaele Lombardo  -  il 2 maggio del 2012  -  fu istituita con un atto ufficiale la Provincia di Caltanissetta fu riconosciuta come "zona franca della legalità". L'obiettivo era quello di concedere benefici fiscali alle aziende che "si oppongono alle richieste estorsive della criminalità organizzata". Previsione di spesa: 50 milioni di euro. Lombardo, che al momento della firma era già indagato per reati di mafia, due mesi più tardi si è dimesso e un anno dopo è stato condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi. Un (presunto) amico dei boss che concede agevolazioni a chi si batte contro il racket su richiesta di chi  -  Montante  -  è oggi a sua volta chiamato in causa da cinque pentiti per legami con le "famiglie". Trame di potere in una Sicilia che non ha mai temuto il paradosso. La Confindustria di Montante ormai è ovunque. Guida l'Irsap, l'istituto che gestisce le aree industriali siciliane, ha un peso decisivo nel business dei rifiuti e ora ha messo le mani sull'Expo. Pochi giorni fa, l'assessore alle Attività produttive Linda Vancheri, il rappresentante di Confindustria nella giunta di Rosario Crocetta, ha siglato una convenzione che assegna a Unioncamere un pacchetto di interventi per due milioni di euro. Chi guida Unioncamere in Sicilia? Antonello Montante. Sarà lui, malgrado l'inchiesta per concorso esterno, a decidere quali "eccellenze" siciliane del settore agro-alimentare dovranno figurare nella vetrina di Milano e in undici stand fra porti e aeroporti dell'isola. Materia d'indagine per almeno due procure (Palermo e Caltanissetta) e per Raffaele Cantone, il presidente dell'Authority contro la corruzione che, appena il 16 gennaio scorso, ha annunciato che su Expo è stato avviato "il più grande controllo antimafia di tutti i tempi". Una rete di interessi così fitta è protetta anche da una stampa a volte troppo compiacente con Montante e i suoi amici. Al punto da proporre (l'ha fatto La Sicilia in un lungo articolo) la notizia di una laurea honoris causa in Economia e Commercio riconosciuta dall'Università "La Sapienza" all'imprenditore. L'ateneo ha smentito il giorno dopo. Era falso. Nelle sue molteplici vesti istituzionali Montante ha spesso offerto un "sostegno" a mezzi d'informazione e singoli giornalisti. Da presidente della Camera di Commercio di Caltanissetta ha erogato una pioggia di contributi, sotto la voce "azione di marketing territoriale". Ne hanno beneficiato cronisti-scrittori, ancora prima della pubblicazione dei loro libri e testate web. Una settimana fa Il Fatto Nisseno, uno dei siti favoriti, ha cancellato un'intervista di Michele Costa (il figlio del procuratore ucciso a Palermo nel 1980) che manifestava perplessità sull'opportunità che Montante  -  sott'inchiesta  -  mantenesse le sue cariche. L'intervista è sparita nella notte "dopo devastanti pressioni". Un altro clamoroso caso riguarda un contratto di collaborazione per due anni  -  1.300 euro al mese  -  che Confindustria Centro Sicilia (sempre Montante presidente) ha firmato con il responsabile delle pagine di Caltanissetta de Il Giornale di Sicilia. Tutti episodi, quelli citati, che hanno spinto l'Ordine dei giornalisti ad aprire un'indagine conoscitiva. Oltre ad Antonello Montante, c'è un altro campione dell'antimafia a Caltanissetta. Si chiama Massimo Romano, socio e amico del Cavaliere, è il proprietario di 34 supermercati sparsi per la Sicilia e, qualche anno fa, era già finito nelle pieghe di un'indagine sui "pizzini" di Bernardo Provenzano molto interessato alla grande distribuzione. Romano da molto tempo siede a tavoli istituzionali con questori e prefetti, è il presidente del Confidi (un consorzio che cede prestiti a piccole e medie imprese) e il suo nome è scivolato in un'operazione antimafia dove il fratello Vincenzo  -  secondo il giudizio dei magistrati  -  l'avrebbe tenuto fuori dalla faccenda delle estorsioni "per preservarlo da possibili negative conseguenze sia di immagine che di carattere giudiziario". Il doppio volto di Caltanissetta zona franca per la legalità. C'è promiscuità fra investigatori e magistrati e l'indagato di mafia Montante. A Roma e in Sicilia. A Caltanissetta  -  visti i suoi rapporti intensi con Angelino Alfano che poi l'ha designato anche all'Agenzia dei beni confiscati  -  Antonello Montante è riuscito, il 21 ottobre del 2013, a far presiedere al ministro dell'Interno il comitato nazionale per l'ordine pubblico e sicurezza. Un organismo che, solo in casi straordinari, si riunisce lontano da Roma. In Sicilia non accadeva dai tempi delle stragi di Falcone e Borsellino. Perché la scelta di Caltanissetta? Per farla diventare quella che non è mai stata, cioè una roccaforte dell'antimafia. In Sicilia e a Caltanissetta c'è una vicinanza molesta fra imprenditori e rappresentanti dello Stato (si racconta di questori che si trasformano in tappetini al cospetto di Montante, di prefetti che hanno ricevuto esagerate regalie), ci sono investigatori che si fanno assumere parenti e amiche dalla cordata (è il caso di un ufficiale della Dia e di un maggiore della Finanza), ci sono uomini dei servizi segreti che sguazzano allegramente nell'ambiente "antimafioso", c'è una prossimità imbarazzante con molte toghe. Tanto evidente che ha portato il nuovo presidente dell'Associazione nazionale magistrati Fernando Asaro a invitare i suoi colleghi "a una ineludibile concreta distanza da centri di potere economici ". Più chiaro di così.

Montante, il nuovo mostro da sbattere in prima pagina. L'imprenditore pro-legalità Antonello Montante è oggetto delle dichiarazioni di alcuni pentiti. Non ha ricevuto nemmeno un avviso di garanzia. Ma tanto basta a massacrarlo sulle pagine di alcuni giornali, scrive Filippo Astone su “Affari Italiani”. Antonello Montante rappresenta l'Enzo Tortora del terzo millennio? Per fortuna no. Almeno per il momento. Dando seguito alle dichiarazioni di alcuni pentiti, Tortora venne processato e condannato in alcuni gradi di giudizio, subendo anche un linciaggio mediatico, con penne importanti (Camilla Cederna e Giorgio Bocca) che si dichiararono convinte della sua colpevolezza. Come Tortora, Montante è oggetto di dichiarazioni di un paio di pentiti, ancora tutte da riscontrare. Però non ha pendenze giudiziarie, non ha ricevuto nemmeno un avviso di garanzia, e subisce un linciaggio mediatico solo da parte di alcuni, che sono giornalisti di calibro nemmeno lontanamente paragonabile a quello di Cederna e Bocca. Tuttavia il torto subito da Montante, e il danno per le battaglie che ha condotto in questi anni, sono molto rilevanti. Enzo Tortora però non si è mai occupato di giustizia o di antimafia, ed è incappato nelle spire dei pentiti "a gettone" solo per un puro scherzo del caso. Da un nome segnato su una agenda, si è arrivati a giochi di parole, a scherzi e quindi a una tragica realtà. Tutt'altro che casuale sembra essere invece il discredito che si tenta di gettare sull'attuale presidente di Confindustria Sicilia nonché vice presidente nazionale di Confindustria con delega sulla legalità. Antonello Montante, 52 anni, nativo di Serradifalco, a pochi chilometri da Caltanissetta, con la mafia c'entra eccome. E' infatti un imprenditore che ha fatto dell'antimafia e della lotta per la legalità la sua ragione di vita, guidando insieme ad altri imprenditori meridionali di Confindustria (il suo alter ego Ivan Lo Bello, e poi Giuseppe Catanzaro, Marco Venturi, Giuseppe Todaro e tanti altri) una rivoluzione pro-legalità che ha segnato uno spartiacque storico. Con le sue battaglie, Antonello Montante ha rischiato la vita e ci ha messo la faccia, ottenendo risultati importanti: oltre 100 imprenditori espulsi da Confindustria per contiguità alla mafia; dozzine di dimissioni spontanee da Confindustria per non essere espulsi; la creazione nelle principali città di un percorso che accompagna per mano gli imprenditori che vogliono denunciare i loro estortori (lo stesso Montante si è esposto in prima persona molte volte, per convincere alcuni colleghi a denunciare); la creazione di un "rating" per la legalità che è diventato legge nazionale dello Stato; la riforma delle Asi, enti clientelari che dovevano gestire gli insediamenti industriali in Sicilia e invece alimentavano solo il malaffare (al loro interno, i mafiosi avevano addirittura la faccia tosta di convocare le riunioni); e soprattutto una nuova mentalità in Confindustria, per cui la legalità, almeno in teoria, coincide con la normalità, e chi non accetta questo principio se ne deve andare. Questa nuova cultura è una rivoluzione copernicana. La Confindustria siciliana prima della rivoluzione di Montante e Lo Bello era pressappoco la stessa che non voleva espellere i mafiosi e i collusi, ma proprio Libero Grassi, che se non fosse stato ucciso era destinato a venir cacciato dall’associazione imprenditoriale. Gran parte dei vertici di quella Confindustria Sicilia (nelle sue diramazioni settoriali e territoriali) erano collusi, come dimostrato da varie inchieste giudiziarie, che li hanno condannati e in alcuni casi incarcerati. Questo è Antonello Montante. Che nella sua giornata di 24 ore trova anche il tempo di gestire due imprese, una che fa ammortizzatori ad alto contenuto tecnologico, e un'altra che produce biciclette di lusso. Le presunte "rivelazioni" dei pentiti, ancora tutte da verificare (le due inchieste di Caltanissetta e Catania, non su Montante ma sulle dichiarazioni dei pentiti nel loro complesso, hanno questo scopo) servono a delegittimarlo proprio pochi giorni dopo che il suo ingresso nel consiglio dell'Ansbc, l'Autorità nazionale dei beni sequestrati e confiscati, un colosso che gestisce qualcosa come 65 miliardi di euro di controvalore (tra cui 10.500 immobili e 1500 aziende), quasi quanto il fatturato della Fiat. Montante, unico imprenditore in un cda di prefetti e magistrati, avrebbe potuto assumere dopo poche settimane un ruolo chiave nell'Ansbc. Ma lo hanno rallentato, con la classica strategia mafiosa del "mascariare", già tentata perfino con Giovanni Falcone (vi ricordate le lettere del "Corvo"). «Mascariare» in siciliano significa tingere con il carbone. Basta un tocco e resta un segno. Quello del sospetto, ovviamente. Ma non è solo per delegittimare qualcuno che la mafia lo tinge con il carbone. Quello è solo il primo passo. Il secondo, se la delegittimazione funziona, può essere quello di porre fine alla vita del delegittimato, sperando poi che la cosa venga vista da molti non come l'eliminazione di un eroe, ma come una "vicenda tra loro". Spiace che alcuni giornalisti, sicuramente in buona fede ma traviati dalla convinzione di avere la verità in tasca (soprattutto se si deve dar contro a qualcuno, processarlo e condannarlo in quattro e quattr'otto, senza nessun aggancio alla realtà dei fatti né a quella giudiziaria) si prestino a questo gioco al massacro. Nelle ultime settimane Montante è stato rappresentato da alcuni quotidiani come se fosse indagato per mafia (e non è vero, non ha ricevuto nessun avviso di garanzia, gli unici fascicoli aperti riguardano le dichiarazioni di alcuni pentiti, sulle quali la magistratura è obbligata a cercare riscontri), come se fosse un personaggio discutibile (e da chi? perchè?), come se si fosse dimesso dall'Ansbc (e invece si è solo "autosospeso", cioé per il momento non partecipa alle riunioni), come se ci fosse una presa di distanza della magistrature e delle forze dell'ordine da lui (invece la collaborazione continua). Eppure, il 24 gennaio 2015 (poco prima delle rivelazioni pentitizie a "orologeria", guarda caso) il presidente della Corte di Appello di Caltanissetta, Salvatore Cardinale, in apertura di anno giudiziario aveva detto: «ci sono ancora boss che impartiscono ordini dal carcere e che continuano a mantenere e ad esercitare il loro antico potere. Il periodo preso in esame, è stato caratterizzato da intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell’antimafia e della lotta all’illegalità. Si tratta di segnali che sembrano manifestare un parziale cambiamento della strategia fin qui perseguita del cosiddetto “inabissamento” a favore della scelta di una maggiore visibilità anche mediatica dell’insofferenza sempre più crescente verso l’azione di contrasto che tuttora è condotta dallo Stato e che trova l’adesione in alcuni protagonisti di un’imprenditoria libera e illuminata. In tal senso, da parte degli investigatori, sono stati interpretati gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l’accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell’antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti. Su tale linea strategica sembrano porsi i due “avvertimenti”, uno dei quali consumato a Caltanissetta, posti in essere contro il Presidente dell’Irsap». Parole simili le ebbe a dire Sergio Lari, capo di quella stessa procura di Caltanissetta oggi chiamata a far luce sulle rivelazioni di questi pentiti a proposito di Montante e di altro. L'occasione era un convegno a Chianciano Terme, nel settembre 2013. «È in corso una campagna di delegittimazione da parte di centri di poteri occulti, che mirano a screditare chi in Sicilia combatte malaffare e mafia.Una campagna di delegittimazione, che è anche una strategia della tensione potrebbe tradursi in attentati e stragi», disse Lari. Il magistrato parlava chiaro: «Ci sono centri di potere, collegati sicuramente con le organizzazioni mafiose, che utilizzando nuovi mezzi di comunicazione come blog, social network o fantomatici giornali on line gettano sospetti e fango su chi l'antimafia la fa davvero, ovvero con i fatti. Hanno avviato una campagna di delegittimazione, oltre a proseguire con gli avvertimenti. Continuano ad arrivare buste con proiettili, croci e altri messaggi inquietanti». Non si possono tacere neanche le dichiarazioni del prefetto Umberto Postiglione, direttore dell'Agenzia per i beni sequestrati, alla commissione antimafia della Regione Sicilia. «Quando ero Prefetto ad Agrigento» ha spiegato Postiglione durante l'udienza, «mi dicevano: Eccellenza, siamo nella casa di Pirandello , e io dicevo che Pirandello era un dilettante a confronto. Le cose che si riescono a costruire in Sicilia possono essere estremamente articolate anche nell’architettura diffamatoria. Se c’è qualcuno che nell’ombra ha bisogno di vendicarsi potrebbe farlo attraverso questi meccanismi, insomma una forma di ritorsione per la svolta confindustriale. Bisogna venirne fuori cercando di recuperare la verità. Io ripeto che non ho giudizi da esprimere, Montante lo conosco e mi è sempre sembrato una persona che lotta per la legalità». Montante viene difeso anche dalla Dna, la Direzione nazionale antimafia, che nella relazione 2014, presentata al Parlamento il 24 febbraio 2015 (cioé ben dopo l'emergere dello "scandalo"), scrive: «Nell’ultimo periodo si assiste ad una crescente reazione delle organizzazioni mafiose e dei suoi poteri collegati (come ad esempio quello dei “colletti bianchi”) contro l’azione di contrasto alla criminalità organizzata, nonché contro l’opera di legalità posta in essere in questi anni dall’Associazione Confindustriale di Caltanissetta e, in generale, da quella regionale». “In tale contesto – prosegue la Dna – sembrano iscriversi gli atti intimidatori consumati ai danni del Presidente dell’Irsap (Istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive), Alfonso Cicero. In definitiva, sembra che la reazione di cosa nostra, attuata su più piani, abbia come obiettivo quello di innalzare il livello di aggressione contro quel modello voluto anche da Confindustria Sicilia, che ha costituito, in questi ultimi anni, un elemento di forte discontinuità rispetto al passato”. E che dire dell'intercettazione ambientale di un colloquio fra due mafiosi, in un bar di San Cataldo, cittadina della provincia nissena? «Questa è la seconda tranche da fare arrivare ai familiari del ‘cantante’. Devi sapere che il sistema così viene meglio incentivato e nelle sue cantate si ricorda sempre qualcuno in più», si dicono i due nel colloquio, registrato nel settembre 2014. E poi, un riferimento esplicito a Montante e Lo Bello: «Giuro su mia mamma che questi devono scomparire dalla faccia della terra… a noi interessa solo che viene anticipata quella notizia sul giornale per massacrarli nell’immagine». Ma in che cosa consistono le accuse dei pentiti contro Montante? Secondo quanto emerge dalle anticipazioni giornalistiche, tra il 1999 e il 2002, Montante avrebbe pilotato alcuni appalti all'interno del consorzio Asi di Caltanissetta. La cosa stupisce, perché all'epoca l'imprenditore non aveva cariche né in Confindustria, né a livello politico, né all'interno dell'Asi. Ma contrasterebbe vieppiù con la battaglia condotta da Montante e Lo Bello (e da Alfonso Cicero, funzionario regionale che ha sempre lavorato in sintonia con loro) per la bonifica di questi consorzi. Da leggere, quello che denunciarono Montante e Lo Bello nel giugno 2014 in Commissione parlamentare antimafia. Una denuncia che è solo l'ennesima, e fa eco alle decine di azioni simili condotte in passate. Disse Lo Bello: «…ci troviamo, in Sicilia, in una situazione complessa, che riguarda – voglio portarla all’attenzione della Commissione antimafia – il ruolo dei consorzi di sviluppo industriale, che hanno dimostrato nel tempo di essere un luogo di presenza capillare e diffusa di criminalità mafiosa. Oggi la regione ha riportato al centro i consorzi, ma il presidente dei consorzi Asi, oggi Irsap, è oggetto di continue intimidazioni. Peraltro, da tempo ha avuto un aumento della scorta, il secondo livello, ed è costantemente attaccato da tanti soggetti con minacce significative, su cui voglio richiamare l’attenzione della Commissione antimafia. Mi riservo anche di fare arrivare alla Commissione antimafia della documentazione sui temi dei consorzi di sviluppo industriale, tema centralissimo anche nelle dinamiche nel rapporto tra cattiva impresa e sistema mafioso». E aggiunse Montante: «Abbiamo divulgato una cultura di impresa nuova, sostenendo che forse era il caso di cambiare rotta, considerato che nel 2005 e nel 2007 i presidenti delle Confindustrie siciliane erano stati tutti indagati o arrestati per lo stesso problema, Palermo, Caltanissetta, Enna. Il problema del consorzio Asi si conosceva, ma non era emerso.……Ha parlato il mio collega dei consorzi Asi, che andavano oltre ogni immaginazione. Erano luoghi, come le indagini e le condanne dimostrano, in cui le organizzazioni si riunivano. È un’anomalia tutta nostra, tutta siciliana o del Mezzogiorno d’Italia. Erano cose pazzesche. Ricordiamo che e un imprenditore del nord, che doveva realizzare un opificio industriale, presidente, chiedeva l’autorizzazione al comune d’appartenenza, chiedendo la concessione Pag. 17edilizia per costruirlo. Parlo della Sicilia, ma possiamo anche parlare della Calabria e di altri luoghi. In Sicilia non era così. Bisognava andare prima al comune di appartenenza, chiedere l’autorizzazione alla costruzione dell’opificio, parlare con tutta la commissione edilizia, senza dimenticare nessuno, con l’ingegnere capo, ma non finiva lì. Serviva il nulla osta del consorzio dell’area sviluppo industriale, un ente appaltante in contrapposizione al comune d’appartenenza. All’interno del consorzio Asi c’erano un presidente, un direttore generale, un ingegnere capo e una struttura infinita. Non lo ha citato Lo Bello, che ha fatto grandi cose, ma lascia il ruolo a me e mi fa fare bella figura, quindi racconto io che in una due diligence sempre a due abbiamo verificato che all’interno dei consorzi ASI c’erano insediate anche 30 aziende e il consiglio d’ammissione dello stesso consorzio era di 70 unità. In Sicilia, ad esempio, il numero degli amministratori dei consorzi Asi era un totale di 800 persone, con circa 500 aziende insediate, quindi non è questo il problema. Oggi abbiamo copiato modello nazionale virtuoso. In realtà, lo ha fatto chi ha proposto la legge, in parte anche noi, e oggi un gruppo dirigente non è sostituito da un altro gruppo dirigente: si è sostituito quel modello e 800 persone sono sostituite da 5. Questo si è verificato. Non vi ho detto cosa fossero i consorzi Asi dentro le Asi stesse, queste aree industriali: dei condomìni. Ho aziende da decenni al nord: ci si apre un’azienda in un’area a destinazione industriale e si chiede l’autorizzazione solo al comune. Poi c’è da versare ogni mese una quota per il giardinaggio esterno. Questo è un condominio, non con 30 aziende, bensì con 500 insediate. I consorziati servivano, quindi, a controllare le aziende e poi diventavano i luoghi – parlo di inchieste e di condanne che vediamo ogni giorno – dove si incontravano i capimafia, non di nascosto, niente di segretato, bensì ufficialmente proprio lì nei consorzi. Facevano, quindi, riunioni con la mafia. Non affidavano i terreni a veri imprenditori, ma a quelli a cui serviva il terreno, lo regalavano. Sono attive inchieste anche a Palermo, a Catania, a Caltanissetta, ad Agrigento. Non ne parliamo. Parlo, naturalmente, sempre della Sicilia. L’attuale presidente Cicero è stato oggetto, e la notizia è pubblica, di inquietanti attentati. Gli stessi procuratori hanno sentito l’esigenza di esternarlo in maniera forte ricorrendo all’attività mediatica. Questo signore o questi signori vivano in uno stato di guerra vera. Parliamo di ordigni, di commandi interi, sei persone, fortunatamente tutte fotografate, che arrivano con un mezzo perché volevano caricarlo o ammazzarlo. Fortunatamente, sono stati beccati dalle telecamere e quindi è stato sventato tutto. Non stiamo parlando, quindi, di fantasie, ma di cose serie. Queste sono le cose più grosse, poi ce sono si minori. È saltato un sistema. Oggi le aree industriali danno a chi ha un progetto e anche subito. Oggi non ci sono più le consulenze, i vitalizi, non c’è spartizione politica e questo, naturalmente, ha fatto saltare i nervi. Oggi quell’organizzazione non controlla più le aziende, e quindi non sa a chi chiedere il pizzo e a chi non chiederlo. Questo è saltato. Questo è ciò che fa Confindustria. Ho iniziato a dire che non siamo un’associazione antiracket, ma che dobbiamo dire al nostro associato che non gli conviene un certo comportamento. Se si è in un sistema malato, prima o poi si finisce come in quella due diligence mia e di Lo Bello, per cui dopo venti o trent’anni si crolla o lo Stato arriva e sequestra l’azienda o la sequestra la mafia o ti ammazzano comunque per strada. Penso che in parte ci siamo riusciti. Il problema è culturale, presidente, non di azioni o di legge, ma è un problema per cui bisogna comunque un po’ ancora forse aspettare».

Coinvolto in due inchieste per mafia, Montante lascia l'Agenzia per i beni confiscati. Il delegato per la legalità di Confindustria, presidente dell'associazione in Sicilia, si sospende dall'incarico dopo le notizie pubblicate da Repubblica delle indagini che lo riguardano a Caltanissetta e Catania, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica”. Antonello Montante lascia la carica di consigliere dell'Agenzia per i beni confiscati ai boss. Una decisione sofferta. maturata solo nelle ultime ore, dopo un frenetico giro di consultazioni. Il presidente di Confindustria Sicilia, delegato per la legalità dell'associazione di viale dell'Astronomia, si sospende dai vertici dell'Agenzia dopo le notizie, pubblicate da Repubblica, di due inchieste per mafia, a Caltanissetta e Catania, che lo vedono coinvolto. A parlare di Montante sono cinque pentiti, che raccontano di una vicinanza dell'imprenditore di Serradifalco (Caltanissetta) con esponenti di spicco delle locali "famiglie". Montante, in una nota, annuncia la sospensione dall'incarico nel direttivo dell'Agenzia presieduta dal prefetto Umberto Postiglione e di cui fa parte anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Negli ultimi giorni anche da ambienti confindustriali era giunta a Montante la sollecitazione a compiere questo passo: una mossa che dovrebbe servire a placare le polemiche, in attesa di sviluppi giudiziari. Scrive il leader confindustriale: "È per il profondo rispetto verso tutte le istituzioni, a partire da magistratura e forze dell’ordine, che oggi, alla luce delle notizie che ho appreso dalla stampa, seppure sconsigliato da tanti, ho deciso di autosospendermi dal consiglio direttivo dell’Agenzia". Montante mantiene gli incarichi all'interno di Confindustria: il comitato di presidenza di viale dell'Astronomia mercoledì aveva ribadito la fiducia all'imprenditore, uno dei protagonisti nell'Isola della rivolta degli industriali contro il racket: passaggio non scontato, che aveva fatto seguito al sostegno offerto il giorno prima, a Palermo, dai vertici di Confindustria Sicilia, Ance Sicilia, Piccola Industria e Giovani industriali dell'Isola. Ma la questione centrale, ogni giorno di più, era diventata la permanenza di Montante nel ruolo di consigliere dell'Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia. "Montante si dovrebbe dimettere? Non lo so, dipende da una sua sensibile valutazione ", aveva detto il prefetto Postiglione, pur rimanendo prudente: "Nessuno è colpevole fino a che non è condannato né è costretto a dimettersi per legge". In un silenzio sostanziale di quasi tutti i principali partiti, Sel, grillini e Rifondazione Comunista avevano auspicato un passo indietro di Montante. L'autosospensione, in particolare, era stata chiesta dal vicepresidente della commissione antimafia Claudio Fava. Una decisione che Montante ha preso stamattina. "Mai avrei pensato – scrive Montante – di dovermi trovare un giorno in una situazione simile dopo anni trascorsi in trincea, insieme a tanti altri imprenditori, sempre al fianco delle istituzioni. Anni durante i quali un gruppo di giovani imprenditori siciliani ha preso coraggio e ha espulso dalla propria associazione persone che avevano rivestito ruoli apicali negli organi associativi regionali e che, come hanno sottolineato alti magistrati in occasioni pubbliche, grazie al metodo mafioso e a protezioni politiche, avevano creato un sistema di potere di portata regionale se non nazionale. Anni durante i quali abbiamo accompagnato decine di colleghi alla denuncia, sostenendoli anche nelle aule di tribunale, anni in cui abbiamo sollecitato controlli antimafia preventivi, in alcuni casi mai fatti prima, e ci siamo costituiti parte civile, insieme con tutte le associazioni aderenti a Confindustria, in processi contro esponenti di spicco della criminalità organizzata". Il presidente degli industriali siciliani parla anche dei collaboratori di giustizia che lo chiamano in causa: "Le persone che vedo citate negli articoli giornalistici pubblicati in questi giorni - afferma Montante - sono state da noi tutte denunciate e messe alla porta, così come è possibile leggere in documenti pubblici consegnati in commissione Antimafia, in occasione dei Comitati per l'ordine e la sicurezza pubblica e, comunque, a tutti gli organi antimafia del Paese. Lo abbiamo fatto subendo minacce gravissime e mettendo a rischio la nostra vita. Tutto per affermare una rivoluzione innanzitutto culturale".

L'antimafia dei veleni. Dietro il caso Montante Pentiti e manovre politiche, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Cosa c'è dietro il caso Montante e dietro la notizia delle indagini che lo riguardano?  Radiografia di una vicenda che potrebbe affondare le sue radici nella guerra che cova sotto il movimento Antimafia. Cosa c'è dentro il caso giudiziario di Antonello Montante e quali contesti politici si agitano attorno alla figura del presidente degli industriali siciliani? Innanzitutto ci sono pentiti vecchi e nuovi. Come le indagini. Il caso Montante esplode oggi ma, a giudicare dalle parole di alcune autorevoli voci, interessate e non, sembra avere radici antiche. Radici che potrebbero affondare nella guerra che cova sotto il movimento Antimafia. Un movimento attraversato più che da spaccature da vere e proprie logiche di fazione. Il quotidiano 'La Repubblica' dà notizia dell'esistenza di un'indagine per reati di mafia a carico di Montante. Anzi, le indagini sarebbero due: una a Caltanissetta e l'altra a Catania. Tre pentiti lo chiamerebbero in causa. Di uno di loro viene fatto il nome, Salvatore Dario Di Francesco. Arrestato un anno fa, Di Francesco ha iniziato a fare i nomi e a parlare di appalti pilotati tra il 1999 e il 2004 nell'Area di sviluppo industriale di Caltanissetta, dove lui stesso prestava servizio. Ambienti vicinissimi alla Confindustria lo vorrebbero animato da risentimenti personali - per alcuni addirittura spinto da propositi di vendetta - nei confronti della stessa organizzazione che ne aveva duramente contestato l'operato. Di Francesco è compare di nozze di Vincenzo Arnone, figlio di Paolino che nel 1992 si suicidò in carcere dove era stato richiuso perché coinvolto in un blitz antimafia. Vincenzo Arnone, a sua volta, è compare di nozze di Montante. Nell'abitazione di quest'ultimo, era il 2010, furono trovate alcune fotografie che li ritraevano assieme a metà degli anni Ottanta. Le foto e pure il certificato di matrimonio, nell'aprile dell'anno scorso, furono pubblicate sulla rivista I Siciliani Giovani e oggi vengono rilanciate da La Repubblica. Non si conoscono ancora i contenuti delle dichiarazioni di Di Francesco e degli altri due collaboratori di giustizia di cui pure i nomi restano segreti. Uno potrebbe essere Carmelo Barbieri che già nel 2009 proprio ai pm nisseni - c'era anche il capo della Procura, Sergio Lari, ad interrogarlo - fece il nome di Montante. Non sappiamo che fine abbia fatto questa indagine. Né conosciamo l'evolversi di quella che sarebbe stata aperta a Catania un anno fa. Si sa, ma solo in virtù di alcune indiscrezioni, che si tratterebbe di un'inchiesta nata da un esposto. Il fatto che siano i magistrati etnei ad occuparsene, però, sembrerebbe giustificato dalla presenza di un pm nisseno nel contenuto della stessa denuncia. Chi e cosa abbia denunciato non è dato sapere. La questione potrebbe essere legata, ma anche questa è solo un'ipotesi, alle vicende sollevate dall'ex pm di Caltanissetta ed ex assessore regionale ai Rifiuti, Nicolò Marino, che in un'intervista del novembre scorso al quotidiano 'La Sicilia' ricordò al cronista e ai lettori: “Non dimenticate che io e Lari eravamo a Caltanissetta assieme e che entrambi sappiamo chi è Montante”. Un passaggio che potrebbe avere fatto nascere l'esigenza di un approfondimento investigativo. Montante, in una nota tranciante, si limita oggi a replicare citando le parole, definite “profetiche”, del presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta. Secondo Montante, saremmo di fronte ad un atto di delegittimazione nei confronti dell'azione concreta di Confindustria sul fronte della lotta alla mafia. Lo stesso Montante, dunque, ci obbliga a rileggere le parole pronunciate da Salvatore Cardinale - è lui il presidente della Corte d'appello citato dal rappresentante degli industriali siciliani - durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario nisseno. Cardinale aveva stigmatizzato "un clima di allarme, fatto di intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a una platea di magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell'antimafia e della lotta all'illegalità". Ed aveva citato, in maniera esplicita, “gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l'accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell'antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti". L'indagine su Montante si muove su due piani, uno giudiziario e uno politico. Il fronte giudiziario sarebbe alle battute iniziali. L'attualità dei tempi viene dettata dal fatto che per Di Francesco non è ancora scaduto, o forse lo è da pochi giorni, il termine dei 180 giorni previsto dalla legge per raccoglierne le confessioni. Attuale è anche l'aspetto politico della vicenda, visto che Montante, presidente degli industriali siciliani e delegato nazionale di Confindustria per la legalità, appena quindici giorni fa, è stato chiamato dal governo nazionale, e dunque dalla politica, nel direttivo dell'Agenzia per i beni confiscati alla mafia. Dovrà dare il suo contributo per mettere ordine in un settore apparso finora lacunoso. A cominciare dal fatto che migliaia di beni restano improduttivi e molti sono addirittura ancora in mano agli stessi mafiosi a cui sono stati sottratti. L'Agenzia per i beni confiscati, dati alla mano, è una delle più grosse holding italiane la cui gestione, storicamente, è stata terreno di scontro fra le correnti di pensiero, e non solo, dell'Antimafia. Montante ha da subito parlato della necessità di un'inversione di rotta, forse suscitando timori e gelosie.

Il caso Montante: l’inchiesta per mafia che spacca l’Antimafia. Crocetta e Lumia lo difendono a spada tratta, il M5S, Libera e Addiopizzo chiedono che faccia un passo indietro. Il presidente di Confindustria nazionale Giorgio Squinzi si limita ad esprimere la propria ”sorpresa”. L’indagine di Caltanissetta divide il mondo politico e imprenditoriale tra chi non crede alla delegittimazione dell’industriale e chi si interroga sul rischio di un impegno di cartapesta, scrive Paolo Patania su “L’Ora Quotidiano”. Crocetta lo difende a spada tratta, il M5S chiede che faccia un passo indietro. Il presidente di Confindustria nazionale Giorgio Squinzi si limita ad esprimere la propria ”sorpresa” e quello della Camera di commercio di Palermo Roberto Helg si augura che ”si possa fare chiarezza in brevissimo tempo”. Enrico Fontana, coordinatore dell’associazione Libera di don Luigi Ciotti, chiede che lasci subito l’incarico che ricopre all’Agenzia dei beni confiscati. La notizia dell’indagine per mafia su Antonello Montante, 52 anni, il leader degli industriali siciliani che ha inventato il ”codice etico” dell’imprenditoria schierata contro il racket delle estorsioni, spacca l’Antimafia istituzionale, rimbalza tra i salotti della politica e quelli della finanza isolana, e minaccia di appannare un simbolo del contrasto alle cosche mafiose, appoggiato pubblicamente negli ultimi anni anche da magistrati del calibro di Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, capo dell’ufficio inquirente che lo ha iscritto nel registro degli indagati e che ora si limita a dichiarare: ”No comment, di più non posso dire”. L’indagine della procura nissena, come ha scritto Repubblica lunedì scorso, sarebbe aperta dall’estate scorsa, e sarebbe entrata nel vivo solo a dicembre. Ieri il Corriere della Sera, ha rivelato l’esistenza di alcune strane intercettazioni recapitate il 2 ottobre scorso nella sede di Confindustria in via dell’Astronomia, a Roma, con una sorta di verbale, non ufficiale ma dettagliato. Qualcuno aveva registrato, più volte dal 4 al 18 settembre, alcune persone sedute  in un  bar di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, mentre si scambiavano del denaro e pronunciavano frasi del tipo: “Questa è la seconda tranche da fare arrivare ai familiari del ‘cantante’. Devi sapere che il sistema così viene meglio incentivato e nelle sue cantate si ricorda sempre qualcuno in più”. E poi, un riferimento esplicito a Montante e Ivan Lo Bello: “Giuro su mia mamma che questi devono scomparire dalla faccia della terra… a noi interessa solo che viene anticipata quella notizia sul giornale per massacrarli nell’immagine”. Gli uffici di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria,  avrebbero consegnato l’anomalo verbale al procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che a sua volta lo avrebbe trasmesso ai procuratori di Caltanissetta, Sergio Lari, e Catania, Giovanni Salvi. Ma oggi Repubblica torna all’attacco, pubblicando i nomi di altri tre dei cinque pentiti che accusano Montante: oltre a Salvatore Dario Di Francesco, sarebbero Pietro Riggio, Aldo Riggi e Carmelo Barbieri, nipote del boss della Cupola Giuseppe Madonia. Secondo il quotidiano, i tre, a vario titolo, avrebbero parlato di rapporti di Montante col vecchio Paolino Arnone, boss di Serradifalco, di  ”mediazioni” per far lavorare una ditta di mafia, del ”rispetto” che alcuni picciotti dovevano portare all’industriale proprio per la sua vicinanza con gli Arnone. Nessuno può dire al momento se le accuse dei collaboratori che denunciano le ”relazioni pericolose” di Montante con esponenti di Cosa nostra siano solide al punto da rivelare l’impostura di un’antimafia di facciata oppure se siano il tentativo di travolgere in una furia iconoclasta Montante in quanto simbolo del  ”nuovo corso” di un’imprenditoria siciliana davvero desiderosa di riscattarsi dal giogo mafioso. Lui, il diretto interessato, si è difeso con una nota nella quale sostiene che ”gli attacchi” a Confindustria sono il frutto di una ”campagna di delegittimazione” che punta a distruggere la stagione di rinnovamento avviata in Sicilia a partire dal ”codice etico”. E qualcuno oggi parla di intrigo politico e giudiziario che ruoterebbe attorno alll’Agenzia dei beni confiscati, che gestisce quasi 10.500 immobili, circa 4.000 beni mobili e oltre 1.500 aziende. Di certo ci sono due cose: la prima è che i siciliani di Confindustria negli ultimi anni sono stati accusati più volte di aver costituito una sorta di ”partito dell’antimafia”, protagonista di una vera e propria marcia di occupazione di posti-chiave del potere economico dell’isola e anche aldilà dello Stretto. La seconda è che, aldilà degli esiti al momento impossibili da prevedere, l’inchiesta di Caltanissetta ha disorientato il mondo politico e industriale, spaccando il fronte dell’antimafia tra chi ipotizza manovre occulte per screditare la ”rivoluzione copernicana” di Montante e chi invece ritiene le accuse dei pentiti il primo passo del disvelamento di un’antimafia di cartapesta. Risultato? Negli ultimi due giorni agenzie hanno battuto un diluvio di dichiarazioni pro, contro, e anche in buona parte ”attendiste”, nei confronti del paradosso tutto siciliano di un paladino dell’imprenditoria contro le cosche finito sotto accusa per mafia. Il commento più duro è quello dei deputati siciliani del M5S Giancarlo Cancelleri e Valentina Zafarana, che chiedono un passo indietro di Montante perché ”un simbolo non può essere appannato dai sospetti”: ”Si dimetta, in attesa che la giustizia faccia il suo corso”. Il più morbido è quello di Crocetta, che da Confindustria ha ricevuto un sostegno più che robusto per la sua scalata a Palazzo d’Orleans e oggi restituisce il favore: “Montante lo conosco come persona che ha lottato e lotta contro il racket delle estorsioni e contro la mafia. Aspettiamo serenamente cosa dirà la magistratura, al momento si tratta di indiscrezioni giornalistiche, non e’ detto che sia iscritto nel registro degli indagati. Non sappiamo nulla”. Ora Crocetta sottolinea che “proprio con Montante, Confindustria ha avviato il percorso di discontinuita’ nella lotta alla mafia rispetto a quanto avveniva in passato”. E sulla vicenda che sarebbe oggetto dell’indagine, le nozze di Montante e i suoi testimoni, tra i quali il mafioso Vincenzo Arnone, figlio dello storico padrino Paolino Arnone, boss di Serradifalco, il Governatore  dichiara: “Montante all’epoca aveva 17 anni, cosa doveva capirne di mafia. Allora qualunque siciliano che abbia avuto un vicino di casa o un compagno di scuola mafioso puo’ essere indagato? Basta questo per essere accusati?” Ma il più ”pesante” è quello di Libera, che guida 1500 tra associazioni e gruppi impegnati nel “recupero sociale e produttivo dei beni liberati dalle mafie”. E chiede le dimissioni di Montante dal direttivo dell’Agenzia dei Beni confiscati. All’attacco anche Addiopizzo di Catania: ”Nell’attesa di ulteriori sviluppi -scrive l’associazione in una nota – e certi che Montante potrà difendersi nelle opportune sedi, siamo altrettanto sicuri che l’Agenzia vorrà prendere i più opportuni provvedimenti al fine di assicurare la massima prudenza e trasparenza nella scelta di chi, seppure indirettamente, deve gestire senza ombre, pin nome  e per conto dello Stato e di tutti i cittadini, beni e aziende confiscate alla criminalità organizzata”. E il magistrato Piergiorgio Morosini, componente del Csm, dichiara che ”un’indagine di per sé non significa nulla, specie in una terra difficile come la Sicilia. Ma il ruolo di componente di un’agenzia pubblica come quella dei beni confiscati alla mafia richiede da parte di Montante un’autosospensione dalle funzioni. Sarebbe un’espressione della stessa cautela che richiediamo ai politici coinvolti in vicende di questo tipo”. Beppe Lumia, senatore Pd, ex presidente della Commissione Antimafia, transitato nel 2012 dal Pd alla lista Il Megafono (quella di Crocetta) invita ad osservare tutta la faccenda da questo punto di vista: “Salvatore Dario Di Francesco (uno dei pentiti che accusa Montante, ndr) è un ex colletto bianco, un imprenditore che è stato bombardato da Montante ai tempi della rivoluzione in Confindustria. Da quello che emerge, non c’è nulla che riguardi il presente ma il passato, i primi anni del Duemila quando appunto la Confindustria di Lo Bello e Montante cominciò il bombardamento su Cosa Nostra”. Cioè, insiste Lumia, “sono molto scettico rispetto a questa inchiesta semplicemente perché Montante l’ho visto in azione”. Ma la dichiarazione più attesa è quella di Squinzi, il leader nazionale di Confindustria, che però si limita a manifestare tutto il suo stupore: “Sono sorpreso dalle anticipazioni a mezzo stampa che riguardano Antonello Montante, che ha deciso da tempo di schierarsi nella lotta contro la mafia, rischiando in prima persona”.  Pro Montante, senza equilibrismi, è la Fai, la Federazione delle associazioni antiracket che ieri ha dichiarato: “Esprimiamo la nostra convinta fiducia nel lavoro dei magistrati, ma e’ doveroso richiamare la forza e il valore di una storia personale e collettiva, quella di Antonello Montante e del nuovo gruppo dirigente di Confindustria Sicilia”. La Federazione ricorda come nell’estate del 2007, proprio a Caltanissetta parti’ “una vera e propria rivoluzione copernicana che ha rappresentato un elemento di svolta nella lotta al racket rafforzando l’esperienza di quel movimento che nel 1990 era nato a Capo d’Orlando”. Confindustria Sicilia, dunque, “non puo’ essere etichettata ne’ come antimafia dell’ultimora né come soggetto segnato dalla retorica. Al contrario: dopo quella svolta niente più, sul terreno dei fatti concreti, è stato come prima per gli imprenditori siciliani”. Roberto Helg, presidente della Camera di Commercio, infine, spera in un rapido chiarimento: “Sono vicino al collega Montante e mi auguro che si possa fare chiarezza in brevissimo tempo. Chi si batte per la legalità, come lui, non può attendere a lungo che vengano chiariti i termini di una vicenda come quella che lo riguarda”. Più o meno la stessa posizione del segretario generale della Cgil Sicilia, Michele Pagliaro, che aggiunge: “Non possiamo che augurarci che la magistratura faccia presto a chiarire se in questi anni non tutto è stato limpido nell’antimafia”.

Antonello Montante, battaglie (ignorate), denunce (dimenticate) di ministri e magistrati e parole (calate) dei pentiti, scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24 ore”. Il presidente di Confindustria Sicilia e delegato di Confindustria nazionale sui temi della legalità Antonello Montante sarebbe accusato da alcuni pentiti di essere in contatto o vicino a mafiosi o ad ambienti mafiosi, dai quali avrebbe ricevuto favori ricambiati. Ora, specificato che la magistratura (di Caltanissetta e Catania che starebbero indagando) farà il suo corso (sul quale non mi permetto di fare appunti), specificato che non mi permetto neppure di giudicare il lavoro dei giornalisti che hanno scritto della vicenda, specificato che dei pentiti (in generale) mi fido da sempre quanto un piranha negli slip e quando ne ho trattato me ne sono dovuto pentire giurando a me stesso che si fottessero tutti,  ricordato che nessuno come i siciliani e i calabresi è specializzato in “tragediate” (altresì chiamate “carrette”), specificato che non compete a me prendere le difese di Antonello Montante (e infatti non le prendo perché lo fa da solo e/o con i suoi avvocati), sottolineato che fino a che ci sarà democrazia e libertà di opinione, stampa, giudizio, parola e informazione, continuerò a ragionare con il mio cervello senza guardare in faccia a nessuno, vi sottopongo, o cari lettori di questo umile e umido blog, un mero contributo di riflessioni ad una vicenda nelle mani sacrosante della magistratura.

1)   Complimenti vivissimi alle menti raffinatissime che, da alcuni mesi, stanno distillando le fughe di notizie sulla (o sulle) indagini e/o procedimenti penali aperti nei confronti di Montante. Gli ambienti investigativi e giudiziari, pronti, senza scrupoli e contravvenendo ai principi costituzionali e a quelli scritti sulla Carta europea dei diritti dell’Uomo, a indagare i giornalisti per concussione (avete letto bene, con pene che arrivano a 7 anni di reclusione) quando danno liberamente conto di procedimenti o indagini a loro sgradite, sono invece rapidissimi nell’allungare la manina (a chi vogliono) con informazioni a orologeria a qualcuno congeniali. Perché vedete, sia che si tratti di una bufala accusatoria montata ad arte (dai pentiti suddetti che ovviamente rappresenterebbero il braccio e non certo la mente), sia che si tratti di un filone propizio per fare luce su presunti legami impropri tra mafia e antimafia, queste fughe di notizie su indagini definite dai giornali blindatissime (come? Blindatissime? Pensa te se non lo erano…) sono state studiate a tavolino. Sono mesi, infatti, che si assiste ad un “distillato” di voci e sussurri su Montante.

2)   Un risultato immediato, le menti raffinatissime che hanno cantato, l’hanno raggiunto: infliggere un colpo durissimo all’antimafia. Non mi riferisco a quella dei nomi ma a quella dei fatti e dei gesti. Ebbene, mi domando e vi domando: con quale forza e spirito in Sicilia e al Sud (ma non solo) gli imprenditori vessati dalle mafie continueranno a bussare alle porte delle forze dell’ordine e della stessa Confindustria per denunciare i propri maledetti carnefici mafiosi? Credetemi anche in questo caso: proprio questo è il momento più propizio. Denunciate la mafia, perché è “merda”. Non solo quella fatta da picciotti e capibastone ma, soprattutto, quella fatta di intelligenze al servizio del male. Chi denuncia è sempre libero e ora più che mai, sono convinto, Forze dell’Ordine e Confindustrie locali sono pronte ad accogliere e seminare legalità.

3)   Ricordo che Francesco Cossiga chiamava il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, Leoluca Orlando Cascio. Lo stesso Cossiga, che ovviamente era perennemente coperto da immunità parlamentare e/o presidenziale, nel corso di una trasmissione televisiva con Giuliano Ferrara, più di 20 anni or sono, spiegò che nella prima relazione di minoranza della Commissione Antimafia degli anni ’70, firmata dalla vittima della mafia, onorevole Pio La Torre, ammazzato nel 1982, il padre dell’allora onorevole Leoluca Orlando (Cascio), celebre notabile Dc, era definito il collegamento tra la politici ed ambienti salottieri palermitani del dopoguerra dove era facile che bianco e nero si mischiassero. Quando, oltre 20 anni fa, conobbi Leoluca, che non ricorreva mai al doppio cognome (Orlando Cascio), di tutto mi preoccupai tranne che di giudicarlo dalle gesta di suo padre. Ammesso e non concesso che fossero nebulose. Un uomo politico – la stessa cosa, sublimata da poche settimane da un elezione, si può dire per la famiglia Mattarella, di cui un membro è diventato Presidente della Repubblica alla luce del sole e dell’ombra, visti gli attacchi rivolti ai presunti trascorsi paterni – lo giudico dal momento e nel momento in cui fa politica, cioè si prende cura di una collettività amministrata. Il suo passato mi interessa ma solo se serve per dimostrare nel presente e per il futuro, coerenza con i principi e i valori nei quali io personalmente sono stato cresciuto e che insegno ai miei due figli. Se quei valori sono contraddetti (onestà, probità, lealtà, legalità, incorruttibilità, rispetto dei diritti e della legge e via di questo passo) me ne fotto di passato, presente e futuro. Bene. Mutatis mutandis, lo stesso discorso vale per chi si oppone alla mafia tra gli imprenditori che (è il caso di Montante) ricoprono anche fondamentali ruoli associazionistici. Da quando io l’ho conosciuto (otto anni or sono iniziò la battaglia confindustriale per l’etica d’impresa e la rivolta alla mafia prima proprio a Caltanissetta e poi su per li rami in tutta Italia) i comportamenti e il rigore di Montante mi sono apparsi conseguenziali a valori di dura opposizione all’economia criminale e alla mafia sociale, che scorre a fiumi nelle varie stanze dei bottoni di una classe dirigente sempre più corrotta. Inutile ricordare le prese di posizione (tutti dobbiamo ricordare che è proprio la parola il primo nemico della mafia, fondata non a caso sull’omertà) ma gli atti sì: le espulsioni dei mafiosi o dei presunti mafiosi dalle associazioni, i commissariamenti mai osati prima di alcune Confindustrie locali (do you remember Reggio Calabria?), i protocolli d’intesa visti e rivisti per renderli non chiacchiere (di solito lo sono) ma concreti, l’azione di rinnovamento nelle associazioni (comprese quelle camerali, o sono anche quelle frutto di comparaggio?), l’obbligo di white list negli appalti pubblici, le zone franche per attirare investimenti nelle province palermitane e nissene, la legalità al centro dell’azione degli industriali, il rating di legalità per le imprese nei confronti delle banche e degli enti appaltatori, il sostegno a quella magistratura che finalmente ha deciso di usare il lanciafiamme contro le mafie e i sistemi criminali, le costituzioni di Confindustria (proprio a Caltanissetta e poi ovunque) come parte civile nei processi per mafia e la durissima lotta in Sicilia (poi ci torno) contro quei centri di potere massonico deviato/mafioso che erano le aree di sviluppo industriale. Figuriamoci se, quando l’ho saputo, potevo e posso giudicare le azioni di Montante per il fatto che quando aveva 17 anni un suo testimone di nozze, venti anni dopo il matrimonio o giù di lì,  da incensurato passerà ad essere noto alla Giustizia, come suo padre che morirà poi suicida in carcere nel 1992.  Chi è senza peccato, scagli il primo testimone.

4)   C’è chi, in questi giorni, si sta prodigando per srotolare “dietrologie” a giustificazione delle presunte dichiarazioni (da riscontrare o pera della magistratura alla quale ci rimettiamo) dei pentiti (1, 5, 10, 100, boh!) contro Montante. E’ perché è stato nominato dal Governo nella inutile (finora) Agenzia nazionale dei beni confiscati alle mafie! E’ perché il movimento antimafia si è sempre spaccato su tutto in Sicilia e dunque è il risultato di una guerra intestina (ma intestina a chi?)! E’ perché chi troppo vuole nulla stringe e, tranne la carica di sindaco, a Caltanissetta e a Roma ormai lui è più di un papa! E’ perché queste cose entrano in campo mentre si giocava (ma si gioca tuttora) la partita per occupare la poltrona di capo della Procura di Palermo! E’ perché è amico di potenti troppo potenti in tutti i campi: dalla politica alla magistratura! E’ così o cosà, lascio che ciascuno dica la propria (rispetto tutti a maggior ragione, e lo dico in generale, quando non sono d’accordo).  Io aborro la dietrologia e faccio, umilmente, riferimento ad un fatto, che sarà senza dubbio una coincidenza. Se ho ben capito il capataz degli accusatori sarebbe tal Salvatore Dario Di Francesco, che nell’area di sviluppo industriale di Caltanissetta prestava lavoro. Bene. Leggete quel che denunciarono il 5 giugno 2014 anche (e sottolineo anche) in Commissione parlamentare antimafia Montante e Ivanhoe Lo Bello (vicepresidente nazionale di Confindustria) a proposito delle Asi siciliane e non solo: «…ci troviamo, in Sicilia, in una situazione complessa, che riguarda – voglio portarla all’attenzione della Commissione antimafia – il ruolo dei consorzi di sviluppo industriale, che hanno dimostrato nel tempo di essere un luogo di presenza capillare e diffusa di criminalità mafiosa. Oggi la regione ha riportato al centro i consorzi, ma il presidente dei consorzi Asi, oggi Irsap, è oggetto di continue intimidazioni. Peraltro, da tempo ha avuto un aumento della scorta, il secondo livello, ed è costantemente attaccato da tanti soggetti con minacce significative, su cui voglio richiamare l’attenzione della Commissione antimafia. Mi riservo anche di fare arrivare alla Commissione antimafia della documentazione sui temi dei consorzi di sviluppo industriale, tema centralissimo anche nelle dinamiche nel rapporto tra cattiva impresa e sistema mafioso» (Lo Bello). «Abbiamo divulgato una cultura di impresa nuova, sostenendo che forse era il caso di cambiare rotta, considerato che nel 2005 e nel 2007 i presidenti delle Confindustrie siciliane erano stati tutti indagati o arrestati per lo stesso problema, Palermo, Caltanissetta, Enna. Il problema del consorzio Asi si conosceva, ma non era emerso.…Ha parlato il mio collega dei consorzi Asi, che andavano oltre ogni immaginazione. Erano luoghi, come le indagini e le condanne dimostrano, in cui le organizzazioni si riunivano. È un’anomalia tutta nostra, tutta siciliana o del Mezzogiorno d’Italia. Erano cose pazzesche. Ricordiamo che e un imprenditore del nord, che doveva realizzare un opificio industriale, presidente, chiedeva l’autorizzazione al comune d’appartenenza, chiedendo la concessione Pag. 17edilizia per costruirlo. Parlo della Sicilia, ma possiamo anche parlare della Calabria e di altri luoghi. In Sicilia non era così. Bisognava andare prima al comune di appartenenza, chiedere l’autorizzazione alla costruzione dell’opificio, parlare con tutta la commissione edilizia, senza dimenticare nessuno, con l’ingegnere capo, ma non finiva lì. Serviva il nulla osta del consorzio dell’area sviluppo industriale, un ente appaltante in contrapposizione al comune d’appartenenza. All’interno del consorzio Asi c’erano un presidente, un direttore generale, un ingegnere capo e una struttura infinita. Non lo ha citato Lo Bello, che ha fatto grandi cose, ma lascia il ruolo a me e mi fa fare bella figura, quindi racconto io che in una due diligence sempre a due abbiamo verificato che all’interno dei consorzi ASI c’erano insediate anche 30 aziende e il consiglio d’ammissione dello stesso consorzio era di 70 unità. In Sicilia, ad esempio, il numero degli amministratori dei consorzi Asi era un totale di 800 persone, con circa 500 aziende insediate, quindi non è questo il problema. Oggi abbiamo copiato modello nazionale virtuoso. In realtà, lo ha fatto chi ha proposto la legge, in parte anche noi, e oggi un gruppo dirigente non è sostituito da un altro gruppo dirigente: si è sostituito quel modello e 800 persone sono sostituite da 5. Questo si è verificato. Non vi ho detto cosa fossero i consorzi Asi dentro le Asi stesse, queste aree industriali: dei condomìni. Ho aziende da decenni al nord: ci si apre un’azienda in un’area a destinazione industriale e si chiede l’autorizzazione solo al comune. Poi c’è da versare ogni mese una quota per il giardinaggio esterno. Questo è un condominio, non con 30 aziende, bensì con 500 insediate. I consorziati servivano, quindi, a controllare le aziende e poi diventavano i luoghi – parlo di inchieste e di condanne che vediamo ogni giorno – dove si incontravano i capimafia, non di nascosto, niente di segretato, bensì ufficialmente proprio lì nei consorzi. Facevano, quindi, riunioni con la mafia. Non affidavano i terreni a veri imprenditori, ma a quelli a cui serviva il terreno, lo regalavano. Sono attive inchieste anche a Palermo, a Catania, a Caltanissetta, ad Agrigento. Non ne parliamo. Parlo, naturalmente, sempre della Sicilia. L’attuale presidente Cicero è stato oggetto, e la notizia è pubblica, di inquietanti attentati. Gli stessi procuratori hanno sentito l’esigenza di esternarlo in maniera forte ricorrendo all’attività mediatica. Questo signore o questi signori vivano in uno stato di guerra vera. Parliamo di ordigni, di commandi interi, sei persone, fortunatamente tutte fotografate, che arrivano con un mezzo perché volevano caricarlo o ammazzarlo. Fortunatamente, sono stati beccati dalle telecamere e quindi è stato sventato tutto. Non stiamo parlando, quindi, di fantasie, ma di cose serie. Queste sono le cose più grosse, poi ce sono si minori. È saltato un sistema. Oggi le aree industriali danno a chi ha un progetto e anche subito. Oggi non ci sono più le consulenze, i vitalizi, non c’è spartizione politica e questo, naturalmente, ha fatto saltare i nervi. Oggi quell’organizzazione non controlla più le aziende, e quindi non sa a chi chiedere il pizzo e a chi non chiederlo. Questo è saltato. Questo è ciò che fa Confindustria. Ho iniziato a dire che non siamo un’associazione antiracket, ma che dobbiamo dire al nostro associato che non gli conviene un certo comportamento. Se si è in un sistema malato, prima o poi si finisce come in quella due diligence mia e di Lo Bello, per cui dopo venti o trent’anni si crolla o lo Stato arriva e sequestra l’azienda o la sequestra la mafia o ti ammazzano comunque per strada. Penso che in parte ci siamo riusciti. Il problema è culturale, presidente, non di azioni o di legge, ma è un problema per cui bisogna comunque un po’ ancora forse aspettare» (Montante).

5)   Il 24 gennaio 2015 il presidente della Corte di appello di Caltanissetta, Salvatore Cardinale, in apertura di anno giudiziario dirà: «ci sono ancora boss che impartiscono ordini dal carcere e che continuano a mantenere e ad esercitare il loro antico potere. Il periodo preso in esame, è stato caratterizzato da intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell’antimafia e della lotta all’illegalità. Si tratta di segnali che sembrano manifestare un parziale cambiamento della strategia fin qui perseguita del cosiddetto “inabissamento” a favore della scelta di una maggiore visibilità anche mediatica dell’insofferenza sempre più crescente verso l’azione di contrasto che tuttora è condotta dallo Stato e che trova l’adesione in alcuni protagonisti di un’imprenditoria libera e illuminata. In tal senso, da parte degli investigatori, sono stati interpretati gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l’accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell’antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti. Su tale linea strategica sembrano porsi i due “avvertimenti”, uno dei quali consumato a Caltanissetta, posti in essere contro il Presidente dell’Irsap». La domanda sorge spontanea: è impazzito il procuratore generale che parla di «imprenditoria libera e illuminata…di intimidazioni, minacce, insinuazioni, delegittimazioni, metodi subdoli e discrediti mediatici» in corso nei confronti anche dei vertici confindustriali nisseni e siciliani oppure i pentiti? Non dico tanto ma se avessi ricevuto io la soffiata sulle presunte indagini su Montante (a quando Lo Bello?) questa domanda me la sarei fatta e quantomeno avrei tenuto acceso il falò del dubbio.

6) Già perché, guardate voi come è corta la memoria,  il 21 ottobre 2013, a Caltanissetta, ci fu una riunione straordinaria del Comitato nazionale per l’ordine pubblico per fronteggiare il rischio di nuovi attentati di cui nessuno, i questi giorni, si è ricordato. Senz’altro le menti raffinatissime hanno sperato nell’oblio. Mai come in quei mesi, le speranze di cambiamento, descritte sui media di tutto il mondo dopo la decisione – di Confindustria Sicilia prima e Confindustria nazionale poi – di mettere all’angolo gli imprenditori che non denunciavano pizzo e mafie, apparivano lontane, sotto assedio e a rischio. «A Caltanissetta è scesa in campo la squadra-Stato al massimo livello, dal Procuratore nazionale antimafia ai vertici delle Forze dell’ordine, dai prefetti alle Dda, al Governo», disse il ministro dell’Interno Angelino Alfano, rispondendo a chi gli chiedeva se ci fosse il rischio che Cosa nostra alzi il tiro. «Non possiamo escludere – ha detto – che questo sia l’intendimento della mafia». Poi il ministro ribadì sostegno e vicinanza agli imprenditori, «a cominciare da Montante e Lo Bello che si sono ribellati al racket».

7)   Ma attenzione ora ad un’altra data: il 17 settembre 2013, il Comune di Chianciano Terme (Siena) mise sul proprio sito istituzionale foto e cronaca di un convegno sulle stragi di mafia del ’92 che si era tenuto due giorni prima nella sala Fellini delle Terme e passato sotto drammatico silenzio a livello nazionale. Anch’esso passato nel dimenticatoio della stampa e dalla speranza di oblio delle menti raffinatissime. «È in corso una campagna di delegittimazione da parte di centri di poteri occulti – dichiarò in quell’occasione il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari – che mirano a screditare chi in Sicilia combatte con i fatti malaffare e mafia. Ci sono centri di potere, collegati sicuramente con le organizzazioni mafiose, che utilizzando nuovi mezzi di comunicazione come blog, social network o fantomatici giornali online e gettano sospetti e fango su chi l’antimafia la fa davvero, ovvero con i fatti. Hanno avviato una campagna di delegittimazione, oltre a proseguire con gli avvertimenti. Continuano ad arrivare buste con proiettili, croci ed altri messaggi inquietanti».

8)   Dunque eravamo a settembre 2013 e Lari, vale a dire il capo della Procura che ora con quella di Catania starebbe indagando su Montante, un anno e mezzo fa parlava di centri di potere che ordiscono campagne di delegittimazione e discriminazione utilizzando ogni mezzo possibile e immaginabile. Certo, non c’erano nomi e cognomi ma Lari, un mese dopo quelle frasi, a ottobre, sarà alla riunione del Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza, con un ministro dell’Interno che invece fece i nomi di coloro che si erano ribellati al racket, a partire (i nomi li ha fatti Alfano, non io o voi) da Lo Bello e Montante. E poche settimane fa, un procuratore generale, Cardinale, metterà in fila gli avvenimenti senza peli sulla lingua. Due più due fa ancora quattro? Di questo incontro a Chianciano Terme, a parte le cronache locali toscane e siciliane, la grande stampa si disinteressò, perché un annuncio di morte non è una notizia. Quelle che sgorgano dalle menti raffinatissime – che, ripeto, siano fondate o meno –  si. Le mafie hanno memoria lunga e non basta una vita per cancellarla. Tifo, come sempre, per la Giustizia e spero, nel nome dell’Italia onesta nella quale senza se e senza ma mi riconosco, di sapere prestissimo la verità. I miei principi non cambieranno. Ne usciranno rafforzati.

L'ANTIMAFIA ED IL BUSINESS DELLE PARTI CIVILI.

Antimafia, la lezione ancora attuale di Sciascia, scrive Davide Grassi su “Il Fatto Quotidiano”. Dopo aver oltrepassato il metal detector faccio il mio primo ingresso nell’aula bunker di Via Uccelli di Nemi a Milano. L’aria condizionata non c’è e quella naturale filtra dai finestroni protetti dalle inferiate. Quando il caldo diventa insopportabile, nell’interminabile attesa dell’arrivo dei detenuti, gli agenti di guardia spalancano le porte di sicurezza. Ma più le ore passano più la temperatura sale e l’aria si fa più afosa.  Nel frattempo la tribuna riservata al pubblico, alle spalle della zona in cui sono sistemati i banchi della difesa, si riempie dei familiari dei detenuti venuti ad assistere al processo. Sono naturalmente un po’ teso: mi devo costituire parte civile per l’associazione nazionale antiracket di cui faccio parte in un processo di ‘ndrangheta. Ero arrivato la notte prima e non avevo chiuso occhio. Ma non sento la stanchezza, anche se per un attimo ho temuto di non essere all’altezza dell’incarico. Quando decisi di entrare a far parte dell’associazione nazionale antimafia e di difendere le vittime di usura e di estorsione non lo feci per una questione economica. Decisi di rendermi utile, come una qualunque persona che si sente di mettersi all’opera per un fine sociale. Non chiesi mai un rimborso spese per l’attività svolta per conto dell’associazione o delle vittime né utilizzai quella strada per la mia personale carriera. A Milano, durante il processo “Infinito”, l’avvocato di un boss di ‘ndrangheta mi accusò non tanto velatamente di essere uno di quei “professionisti dell’antimafia” che faceva parte di un’associazione dedita al “turismo giudiziario”. Mi venne data l’opportunità di replicare ovviamente. Il collega aveva inoltre sollecitato la mia memoria. Quando uscì l’articolo di Leonardo Sciascia dal titolo "I professionisti dell’antimafia" sul Corriere della Sera era il 10 gennaio 1987 ed io avevo appena 11 anni. Ancora la mia adolescenza non era “distratta” dalla lettura dei quotidiani. Di quello che narrò lo scrittore siciliano de ‘Il giorno della civetta’ ne sentii parlare negli anni successivi anche per le differenti analisi e i più disparati utilizzi che ne fecero giornalisti e uomini politici. In molti non capirono, o fecero finta di non capire, il senso di quell’articolo. Sciascia, che del fenomeno mafioso era profondo conoscitore quando scriveva di “professionisti dell’antimafia” intendeva riferirsi a coloro che usavano l’antimafia per costruirsi una carriera in politica o in magistratura. Ma poiché Sciascia in quell’articolo evocò l’assegnazione di Paolo Borsellino alla Procura di Marsala, superando nella graduatoria colleghi più anziani di lui ma che non si erano mai occupati di processi di mafia, fece un esempio che lo espose a molte critiche. C’è chi credette, erroneamente, ad un attacco personale al magistrato ucciso nell’agguato mafioso di Via D’Amelio qualche anno più tardi, e non glielo perdonò. Ma la chiave di lettura dell’articolo di Sciascia, che non riguardava il caso di Borsellino, era un’altra e, nonostante siano trascorsi ben trent’anni, oggi è ancora attuale: c’è chi usa l’antimafia per fini esclusivamente personali, per cercare un consenso per sé nella logica di una assoluta autoreferenzialità. In un’intervista che rilasciò qualche giorno dopo l’uscita del tanto contestato articolo, su Il Messaggero Sciascia ritornò ancora sull‘argomento: “Ieri c’erano vantaggi a fingere d’ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi”.

L'antimafia e le parti civili. "Mancano all'appello i boy scout", scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Fra ieri e oggi oltre cento richieste di costituzione di parte civile in due processi per mafia, a Palermo. Accanto alle parti offese, come le vittime del pizzo, proliferano enti e associazioni. E cresce il malcontento fra le vecchie organizzazioni antiracket e gli avvocati degli imputati. “Signor giudice, non ci resta che aspettare la costituzione dei boy scout”. La battuta (mica tanto) dell'avvocato Giuseppe La Barbera, pronunciata davanti al giudice in un'affollatissima aula, centra il cuore della questione. E cioè il proliferare delle partici civili nei processi di mafia. Era accaduto ieri nel dibattimento Apocalisse (riguarda i clan mafiosi di Tommaso Natale, Resuttana, Partanna Mondello, San Lorenzo, Acquasanta, Pallavicino e Zen) e si è ripetuto oggi in quello denominato Reset contro le cosche della provincia: Bagheria, Villabate, Ficarazzi e Altavilla Milicia. È arrivata una valanga di richieste di costituzione di parte civile: più di cento. Per la stragrande maggioranza si tratta di associazioni, enti e Comuni che, ogni volta sempre di più, affollano le aule di giustizia. Ritengono di essere stati “danneggiati” dai reati che sono stati commessi e chiedono di partecipare ai dibattimenti accanto o assieme alle parti offese. Parti offese, giusto per chiarire, sono i commercianti vittime di estorsione che hanno trovato la forza di denunciare. A proposito di estorsioni è stata l'associazione Addiopizzo, presenza costante nei Tribunali dall'anno della sua costituzione, il 2004, ad accendere le polveri. A scagliarsi contro il proliferare “di carovane di associazioni e organizzazioni che sgomitano e scalpitano per costituirsi parte civile nei processi di mafia ed estorsioni”. Il senso della questione lo ha riassunto un altro legale che difende un imputato di mafia, l'avvocato Jimmy D'Azzò: “Esprimiamo solidarietà alle parti offese, se ritengono di avere subito un danno è giusto che si costituiscano, ma bisogna mettere un freno. Ci sono associazioni che davvero svolgono un ruolo nel territorio, ormai riconosciuto e storicizzato, ma ce ne sono altre che hanno un mero ruolo di facciata. Si presentano in aula senza nemmeno conoscere il processo”. Accanto a realtà note come Addiopizzo, Libero Futuro, Fai, Ance, Confindustria, Centro Pio La Torre, Confesercenti, Confcommercio, Confindustria, nei due processi di ieri e oggi hanno chiesto di costituirsi parte civile, tra gli altri, il sindacato di polizia Mp, l'”Associazione antimafia Antonino Caponnetto”, “Obiettivo legalità”, Codici, “Forum delle associazione antiusura”, “Associazione Paolo Borsellino” ed altre ancora. Per carità, saranno i giudici per le udienze preliminari Sergio Ziino e Roberto Riggio a stabilire chi merita di stare nel processo, ma la considerazione della classe forense non può passare in secondo piano: “È impensabile che un imputato, magari chiamato a rispondere di un singolo reato - ha aggiunto D'Azzò - debba risarcire cinquanta parti civili”. Entrando nel merito giuridico, per diventare attori del processo come parti civili bisogna rispondere a precisi requisiti che dovrebbero impedire la violazione del principio di parità fra le parti. Non è roba da poco visto che diventare parte civile significa entrare in contraddittorio con il giudice, il pubblico ministero e il difensore dell'imputato, significa portare prove e citare testimoni, nominare consulenti tecnici, chiedere il sequestro conservativo dei beni e, in ultima istanza, impugnare le sentenze. Insomma, un ruolo delicato che va, o almeno dovrebbe andare, ben oltre la possibilità di chiedere il risarcimento del danno. Ed invece troppo spesso si assiste al sacrificio del ruolo di attore del processo sull'altare dei soldi da incassare, siano essi per i danni o per le spese legali, attingendo al fondo per le vittime di mafia. Perché, sia chiaro, quasi mai sono gli imputati condannati a pagare il conto. Torniamo ai requisiti. Due su tutti, almeno quando si parla di enti o associazioni. Primo: l'ente collettivo deve essere riconosciuto dalla legge e deve essere stato costituito prima della commissione del reato. Secondo: l'ente deve avere come finalità la tutela dell'interesse (collettivo o diffuso) leso dal reato e non scopo di lucro. Requisiti scontati? No, visto le improbabili richieste che a volte giungono ai giudici. In principio fu, nel 1994, l'Associazione commercianti e imprenditori di Capo d'Orlando (A.C.I.O.), a chiedere o ottenere per prima la costituzione di parte civile contro alcuni mafiosi di Tortorici. Poi, è diventato un fenomeno in espansione fino alle valanghe di costituzioni dei giorni nostri. Di recente, a dire il vero, i giudici sono diventati più critici e selettivi. Insomma per un Comune dove regnano i clan è facile dimostrare di avere subito un danno di immagine, oppure che la presenza mafiosa abbia mortificato lo sviluppo delle attività produttive o del turismo. Impresa ardua se sei un'associazione che si è limitata ad organizzare un convegno sul tema della legalità. Impresa ardua, ma non impossibile. E i no, a volte pronunciati dai giudici, non costituiscono un deterrente. Si va in aula e si alza la mano.

L'antimafia che fa la roba, scrive Roberto Puglisi su “Live Sicilia”. Una discussione sui risarcimenti, sulle parti civili, sui processi, focalizza - forse senza volerlo - il vero tema da approfondire. L'antimafia che fa la roba, cioè: i soldi. L'antimafia che fa la roba, che mette a profitto il suo essere ovviamente antimafiosa, non è più suggestione, ma certificazione in carne e ossa. Intendiamoci, non c'è niente di illegittimo, di illegale, di assurdo: quanto alla moralità, ognuno la misuri col proprio metro. Qui si racconta semplicemente un fenomeno. Che è stato descritto da fonte insospettabile e autorevole, il presidente di Addiopizzo, Daniele Marannano: uno che da anni è presente sul territorio e perciò conosce cose e persone. “E' un tema ormai ricorrente e imbarazzante quello della carovane di parti civili – così parlò Marannano, secondo le cronache, a proposito del processo 'Apocalisse' contro le cosche di San Lorenzo – che affollano i processi di mafia ed estorsione, associazioni antimafia e anti-tutto che ci piacerebbe incontrare quotidianamente sul territorio accanto ai commercianti e agli imprenditori che scelgono la strada della denuncia e non solo in un'aula di giustizia per chiedere di diventare parte di un processo senza averne a volte alcuna legittimazione”. Si tratta soprattutto di soldi. Di meccanismi che possono spalancare lo scrigno di cospicui risarcimenti. E fa benissimo Marannano a precisare che esistono dei criteri, delle regole. A margine, si staglia il vero profilo, la sostanza che non è consigliabile mostrare troppo in pubblico, per non esporla ai pruriti moralistici di cui certi antimafiosi sono maestri, ma solo quando è in gioco la vita degli altri. Ecco l'antimafia che fa la roba – legittimamente – che ha stampato i volti di Falcone e Borsellino sulle banconote, per scopi senz'altro orientati al bene comune. Perché la questione è tutta qui: se questa roba che si fa sia coerente con lo spirito più genuino dell'antimafia. Se sia corretto che il "prosciutto al gusto di antiracket" acquisisca un maggiore valore commerciale del prosciutto che non ha nulla da dichiarare. Se sia naturale che intorno ai saldissimi principi sia venuto su un circo di soggetti più o meno qualificati con un vero e proprio marketing del martirio al seguito. Se sia logico che un processo diventi una sacra mangiatoia; e non parliamo del risarcimento alle vittime, ma di una filiera di attori protagonisti, di aiutanti, di comparse, di passanti dell'ultima ora che si presentano, ognuno per ricevere il suo pezzo d'oro. E' giusto che l'antimafia faccia la roba, o la passione civile dovrebbe essere gratis come il sangue versato? Pensiamo ai volti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sopra una banconota, poi cerchiamo una risposta.

MAFIA, ANTIMAFIA E LE PRESE PER IL CULO…

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

Mafia: pm Teresi, nell'antimafia ci sono persone senza scrupoli. L'antimafia è rappresentata anche "da persone senza scrupoli che vogliono sfruttare questo palcoscenico per potere ricevere vantaggi che sono tipici di persona senza scrupoli". Lo denuncia il 30/04/2015 all'Adnkronos il Procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi. "Probabilmente esiste davvero la mafia dell'antimafia - dice il magistrato a margine della commemorazione di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo - Ormai esistono non solo rischi ma anche concreti esempi di infiltrazioni nella cultura e nella pratica giornaliera dell'antimafia che è fatto da persone che vogliono sfruttare questo palcoscenico per potere emergere e potere ricevere dei vantaggi che sono tipici di persone senza scrupoli". "Non parlerei di mafia dell'antimafia, ma di mancanza di scrupoli di una certa antimafia che esiste certa", aggiunge. Poi, parlando dell'ex segretario del Pci La Torre ucciso il 30 aprile di 33 anni fa, l'aggiunto dice: "Pio La Torre è stato un pioniere non solo della lotta alla mafia, ma anche della lotta alla miseria e alla vera lotta di classe in Sicilia - dice - La questione meridionale scissa dalla questione mafiosa era un esercizio culturale inutile. Lui ha intuito che erano la stessa cosa e l'ha pagata con la vita, perché ha individuato la mafia come la vera responsabile del distacco della Sicilia dal resto della crescita della nazione. Quindi, un esempio di capacità di vedere avanti veramente straordinario". "Ora si parla più di lotta alla mafia come esercizio di abitudine che andrebbe rivisto e si parla meno di questione meridionale, cioè abbiamo di nuovo scisso le due cose - aggiunge Teresi - Continuiamo a fare finta che la storia non esista e che le due vicende siano separate. Dobbiamo capire che la questione economica siciliana è questione di mafia".

Giustizia: il pm di Palermo Vittorio Teresi "nell'antimafia ci sono persone senza scrupoli", scrive Vincenzo Vitale su "Il Garantista". In occasione della commemorazione di Pio La Torre, l'affondo di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo. Dopo tanti anni, si da ragione a Sciascia. Nella mitologia greca, Cronos - il Tempo - divora i figli che esso stesso ha fatto nascere: e ne rimane un celebre e perfino impressionante olio di Goya, dove appunto si mostra un essere mostruoso che letteralmente prende a morsi poveri omiciattoli in sua totale balia. Ne facciamo esperienza ogni giorno: tutto ciò che ci affatichiamo a fare e a disfare, non appena entra nell'ambito della vita, delle cose, è già candidato a scomparire, a dissolversi. Appena nato, il piccolo già principia ad invecchiare. Tuttavia, in un'altra prospettiva - che è quella che qui davvero interessa - il Tempo si fa cogliere come un potente coefficiente di chiarificazione delle realtà più complesse: esso serve a far capire ciò che prima non si capiva, a semplificare ciò che sembrava complicato, perfino a dissolvere la nebbia dell'ideologia. Si pensi per esempio a come Emile Zola abbia affidato al tempo la marcia inesorabile di quella verità che condusse poi, dopo anni, alla definitiva riabilitazione del capitano Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio a favore dei tedeschi. È questo il caso che oggi si registra in virtù delle dichiarazioni di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo, il quale ha affermato all'Adnkronos che l'antimafia è rappresentata anche "da persone senza scrupoli che vogliono sfruttare questo palcoscenico per poter ricevere vantaggi che sono tipici di persone senza scrupoli", e che aggiunto: "...non parlerei di mafia dell'antimafia, ma di mancanza di scrupoli di una certa antimafia che esiste". Ebbene, ricordate un celebre articolo pubblicato a firma di Leonardo Sciascia, nel gennaio del 1987, sul Corriere della Sera, dal titolo (che, peraltro, non era a lui dovuto) "I professionisti dell'antimafia", e che tante polemiche suscitò? Ricordate che il coordinamento antimafia di Palermo, in quel tempo, inveì contro lo scrittore siciliano, affermando che egli si era posto "ai margini della società civile"? Ricordate che gli intellettuali di casa nostra s'indignarono profondamente alla pubblicazione di quel pezzo e che nel nome della lotta alla mafia criticarono aspramente Sciascia, ergendosi a difesa di Orlando e Borsellino? Basti pensare a Eugenio Scalari. Ne nacquero poi polemiche annose ed astiose che travagliarono dalle pagine dei giornali e di riviste di politica e di costume l'intera società italiana, insomma una vera tempesta mediatica e ideale. E perché? Semplicemente perché lo scrittore siciliano aveva individuato come esistesse il concreto pericolo che, per come veniva organizzata l'antimafia, per le strategie che usava, per il tipo di consenso a volte cieco e privo di capacità critica che essa riusciva a capitalizzare, dietro di essa si muovesse un interesse di altro tipo, assai meno nobile e socialmente utile, un interesse inconfessabile destinato a costruire un vantaggio proprio o dei propri sodali, fosse esso politico, sociale, morale, perfino economico e che perciò si trattava di demistificarlo, portandolo a conoscenza di tutti. E ciò non certo per indebolire la lotta alla mafia, effetto che, tradotto quale accusa mossa allo scrittore, suonava già semplicemente insulso, ma, al contrario, per depurarla da indebite contaminazioni che sarebbero state in grado di degradarla, di renderla dominio di pochi invece che patrimonio di tutti. Già. Ma ciò Sciascia scriveva e denunciava - "spirito critico mancando e retorica aiutando" - ventotto anni e quattro mesi or sono. Ci son voluti tutti, per capire che le cose stavano proprio così, che davvero nell'antimafia son presenti anche persone che, prive di scrupoli, ne sfruttano il palcoscenico per lucrare vantaggi personali, come ha efficacemente dichiarato il dott. Teresi. E, a pensarci bene, perché dovrebbe o come potrebbe essere diversamente? Perché mai l'antimafia dovrebbe far eccezione a tutte le altre organizzazioni umane - dal circolo degli Ufficiali alla bocciofila - nessuna delle quali è -né pretende di esserlo - perfetta, senza macchia, tutta ed interamente composta da persone probe, incontaminate, incorruttibili. Del resto, come è noto, "l'incorruttibile" finì col perdere la testa sotto la medesima lama alla quale egli stesso aveva destinato migliaia di teste. L'antimafia, perciò, non fa al riguardo eccezione. Solo che - ed è qui la vera differenza che, come un crinale, distingue il profetismo letterario dello scrittore dalla pigrizia coscienziale - Sciascia ebbe la preveggenza di vederlo ed il coraggio civile di denunciarlo quasi trent'anni or sono: e ne ebbe rampogne e contumelie. Oggi, anche altri non solo lo comprendono, ma lo dichiarano pubblicamente e si spera si tratti ormai di un dato definitivamente acquisito dalla coscienza sociale. E dunque, meglio tardi che mai: il Tempo in questo caso è stato galantuomo.

Pietrangelo Buttafuoco su “QTSicilia Magazine”: "Una cosa è la mafia, un'altra la mafia dell'antimafia e un'altra cosa ancora è la lotta alla mafia". Ma Buona Pasqua a Tutti. Come solitamente facciamo nelle prossimità delle festività, cogliamo l'occasione nell'augurare Buona Pasqua ai lettori, per sottolineare e risaltare un tema attuale che assedia la Sicilia.Stavolta non scriviamo noi ma vogliamo riportare un interessante pezzo scritto, con maestria solita, da Pietrangelo Buttafuoco su "Il Foglio" di stamane. Il tema è a noi caro visto che lo abbiamo più volte affrontato con determinazione, affermando il nostro pensiero che non è soltanto intellettuale e lontano dalla realtà, bensì è la testimonianza di chi vive, osserva, analizza la società siciliana che deve necessariamente scrollarsi di dosso la teoria bizzarra delle patenti dell'antimafia, metodo usato per la lotta politica e non per la lotta alla mafia. Detto ciò leggiamo l'imperdibile Pietrangelo Buttafuoco. "Due sono i tipi di mafia: la mafia e la mafia dell’antimafia. Non avendo obblighi di diplomazia, ecco, la dico chiara. L’esito della lotta alla mafia, al netto del teatrino cui s’è ridotta, è quello di una tenaglia stretta intorno alla Sicilia.Due sono i tipi di mafia e l’unica fabbrica operosa di Sicilia è quella dell’antimafia fatta mafia. E’ la madre di tutte le imposture. E’, appunto, un teatrino la cui regia è la malafede e il cui pezzo forte – orgoglio del cartellone – è la pantomima degli inganni. Uno spettacolo grottesco, questo della tenaglia che avvita e svita, consumato in queste giornate di convulsione del potere regionale e, in rimbalzo romano, nella preparazione delle liste per le Europee dove sia gli assessori chiamati nella giunta di governo, sia i candidati del Pd, tutti duri e tutti puri, hanno contrabbandato ideali e calunnie, ricatti e anatemi, lasciando inerme e sconfitta la verità. E’ stata tutta una gara di tutti contro tutti, quella di questi giorni. Tutti a sfregiarsi reciprocamente secondo il tasso di antimafietà riducendo la rivoluzione del governatore Rosario Crocetta – una rivoluzione di fatui annunci – a una macchietta. Una favola, dunque. La cui morale, purtroppo, è lercia. Il pegno di sangue di tanti innocenti è diventato pretesto di un mercato per le carriere dei vivi e il destino tutto ribaltato di una bugia apparecchiata nelle buone intenzioni – quella di essersi assicurato il credito dovuto ai rivoluzionari, ai giusti, ai difensori della legalità perpetuando la fogna del potere – s’è svelata in un contrappasso: Crocetta che se ne partì per combattere la mafia risultò che sfasciò l’antimafia. L'ex Pm Nicolò Marino, assessore dell’attuale governatore fino a qualche settimana fa, è stato tolto di mezzo, causa incomprensioni in tema di energia. Incomprensioni senza riparo, vista la delicatezza della questione, quella della gestione dei rifiuti. E tanto delicata deve essere stata la questione da far dimenticare a Crocetta quando Marino indagò a suo proposito. Indagò e archiviò. Per comprovata innocenza, manco a dirlo.L’ex Pm, pluristellato in materia di antimafia, intervistato da Livesicilia ha letteralmente scorticato il governatore. Lo ha spogliato di tutti i paramenti, quelli del rito trito e accettato dell’antimafia naturalmente. Un’intemerata che lasciato attoniti quanti, ancora qualche settimana prima, vedevano nell’uno e nell’altro, la sacra unione dei rivoluzionari, dei giusti e dei difensori della legalità. Tra le tante parole dette da Marino ad Accursio Sabella che lo intervistava, una frase, una, ha turbato più di tutte: “Dopo la vergognosa vicenda Humanitas ho dovuto formalizzare la richiesta del rispetto delle regole”. Laddove per vicenda vergognosa s’intenda il caso di una delibera per l’ampliamento dei posti letto di una clinica privata, l’Humanitas. Una delibera fatta firmare nottetempo, nelle ferie d’estate, a Lucia Borsellino, assessore nel delicato assessorato della Sanità e che di cognome, appunto, fa “Borsellino”. Una delibera che solo grazie alle rivelazioni della stampa venne ridimensionata ad errore, forse un lapsus, certamente gettata nella fogna di quel potere di Sicilia, tanto micragnoso quanto inesorabile.Oltre il sipario, la tenaglia. Questo è il fatto. A disposizione di furbissimi prestidigitatori della legalità per cui se oggi va bene Caterina Chinnici candidata alle europee per il Pd – la stessa, figlia di Rocco, il magistrato trucidato dalla mafia – appena ieri stava andando a male. Stava nella giunta di governo di Raffaele Lombardo, condannato in concorso esterno. Per mafia ovviamente. E Lombardo però – oltre alla Chinnici – è anche quello che ha trasmesso a Crocetta, il suo successore, massimo campione di antimafietà per come è notorio, il regista politico che ha assicurato la continuità: Beppe Lumia, un altro campione di antimafietà. Anzi, di più. Il già presidente della Commisione parlamentare antimafia è il maestro concertatore, compositore, arrangiatore e direttore di orchestra di ben due governi siciliani. Quello del condannato, innanzitutto. Di Lombardo, infatti, Lumia si fece garante. E gli affidò – a mo’ di coroncina d’aglio sul vampiro – tutta un agghirlandar di magistrati in giunta. Garante e ancora qualcosa di più, Lumia, lo è dell’attuale governatore. Con perizia riuscì a mettere al posto di Massimo Russo, un altro magistrato, assessore della delicatissima Sanità con Lombardo, la suddetta Lucia Borsellino, con pazienza ha poi seguito – passo dopo passo – il periglioso percorso del governo di Crocetta, prima e dopo il rimpasto, non riuscendo però a farsi candidare alle Europee avendo avuto contro “non un colluso e contiguo comunista da mascariare”, per dirla con Francesco Foresta, ma appunto la Chinnici, degno deus ex machina del più inatteso colpo di scena in cotanto teatro. Nella tenaglia, lo spettacolo. Anzi, il baraccone. E siccome la rivoluzione è pur sempre redditizia, siccome val bene un tradimento, un disconoscimento o un ripudio, tutto quel mettersi in casa un Antonio Fiumefreddo oggi, per poi scaricarlo domani (uno su cui Il Fatto prima e poi Repubblica hanno però svelato essere l'avvocato difensore della “famiglia Ercolano”), non è tanto una prova di pragmatismo di Crocetta, piuttosto un reiterare il pasticcio. Fiumefreddo, infatti, ha perfino la patente d’antimafia, da soprintendente del Massimo Bellini, a Catania, issò sulla facciata del teatro i ritratti di Matteo Messina Denaro per additarlo a eterno monito di wanted e Crocetta che adora le eccentricità, improvvisa, impapocchia, fa giochi di prestigio, allude e illude perché – appunto, appunto – la fase estrema dell’antimafia non è più il professionismo, bensì l’illusionismo. Improvvisa, impapocchia e illude, l’illusionista. Vista la malaparata, nel fare il suo rimpasto, il governatore ha ripiegato su altre personalità. Perfino d’importazione, come il dr. Salvatore Calleri, da Firenze. “Un allievo”, si legge nel curriculum, “di Antonino Caponnetto”. Dopo di che, certo, il cambiamento, evocato da Totò Cardinale, “è stato bloccato...” L’ex ministro nisseno è il leader del Drs, una sigla non ben definita, è una sorta di pustola del Pd, una delle tante casette a uso dei transfughi. E’ il partito del Fiumefreddo di cui sopra, costretto alle dimissioni, frastornato al punto di scrivere sul proprio sito web una lettera intrisa di allusioni al Golgota, ai ferri della Passione, al Crucifige di un agnello – qual è lui – il cui martirio comprova il cambiamento di Sicilia definitivamente bloccato. E così sia. Improvvisa, impapocchia e illude, l’illusionista. Nel frattempo s’è tentato di mettere Antonio Ingroia al posto del reprobo Marino. L’uomo simbolo di tutti i simboli è, si sa, momentaneamente sott’utilizzato. Al momento, infatti, è commissario della disciolta provincia di Trapani. Non è propriamente commissario di Pubblica Sicurezza ma ha comunque il preciso compito di catturare Matteo Messina Denaro, il latitante dei latitanti e Crocetta che lo vorrebbe con sé, in qualunque ruolo, pure in quello di un Mastro Lindo risanatore delle partecipate regionali, compatisce quell’amico così sfortunato che retrocede sempre di più nella parodia e magari teme di vederlo finire a cantare tra i tavoli di “Pizza & pizzini”, il nuovo ristorante di Massimuccio Ciancimino, figlio di don Vito, star di Servizio pubblico, la trasmissione di Michele Santoro dove a suo tempo, l’ex Pm, portandoselo a braccetto per farlo applaudire dal pubblico politicamente sensibile, lo battezzò “icona dell’antimafia”. Ecco, certo. Sono cose al cui confronto, lo slogan di Totò Cuffaro, “La mafia fa schifo”, per ingenuità e pacchianeria, fa ormai sorridere. Ma c’è solo da piangere. Crocetta che se ne partì per combattere la mafia risultò che la sfasciò tutta l’antimafia. E non solo perché due persone serie come Claudio Fava e Leoluca Orlando se ne guardano bene dall’assecondarlo ma perché la terapia, infine, col pullulare di pittoreschi personaggi dalla carriera proprio sgargiante – su tutti, Pietro Grasso, quasi un vescovo del rito trito e politicamente accettato – ha fatto propri i sintomi della malattia. Come la mafia, in letteratura, al cinema, nelle fiction, ha trovato la propria caricatura, così l’antimafia, nella sua variante di mafia, è diventata prateria di carriere, territorio senza Re e senza Regno a uso di spregiudicati elargitori di credibilità e autorità, di fatto sostituitisi allo Stato e alle Istituzioni se della giustizia, e dei valori sacrissimi della vita, ne fanno solo un uso politico. Peggio che una caricatura, un’impostura, di cui non si può neppure fare show business. Viene difficile immaginare un copione speculare ai perfetti modelli della commedia, non un Johnny Stecchino di Roberto Benigni, non il Mafioso di Alberto Sordi, non La Matassa dei sublimi Ficarra e Picone ma solo e soltanto la parodia di Ingroia fatta da Crozza. Poca cosa. E potremo sperare un giorno di liberarci dall'uggia del rito, trito e ritrito, quando come con la mafia anche la mafia dell'antimafia potrà essere raccontata e denudata dalla satira. Prima di allora, ci resta addosso solo l'impostura. E sono cose di Sicilia, tutte dentro il sipario, strette nella tenaglia della legittimazione reciproca o, al contrario, del disconoscimento di ritorno. Ponendo il caso, tra i casi, che un Salvatore Borsellino (che di cognome, appunto, fa “Borsellino”), non convochi un’assemblea di Agende rosse e non stili un nuovo elenco di buoni e di cattivi (sì, la famosa agenda da cui Paolo Borsellino non si staccava mai, quella andata sicuramente distrutta dalla carica di tritolo, ritenuta trafugata sulla scena dell’orrenda strage, quella considerata alla stregua del Graal per smascherare la trattativa Stato-Mafia e poi rivelatasi “un parasole”). Buoni e cattivi che pencolano, trasversalmente, tra mafia, antimafia e mafia dell’antimafia per relegare i mafiosi, già servi di scena, in cotanto teatro, alla consolle degli effetti speciali – quasi a far da tecnici e attrezzisti, dietro le quinte – giusto per luci & ombre. E proiettili, ovviamente, da imbustare. Proiettili che intelligentissimi mafiosi fanno recapitare nei momenti di massima difficoltà agli illusionisti e per restituirli così alla scena, anzi, al baraccone. La tenaglia, dunque. Una morsa fatta di ferri opposti ma ugualissimi pronta a svitare o avvitare, a proprio piacimento, la testa vuota, vuotissima di un pupo senza più speranze se in via Libertà, a Palermo, i negozi chiudono e muoiono come i fiori di agave nelle sciare di pietra: di colpo, prosciugandosi di vita. Tutti – in quella strada, un tempo ricca di commerci – aspettano l’apertura di un lussuoso locale e già aleggia la nera leggenda (“ci sono i soldi di Matteo Messina Denaro...”). Non c'è più niente di niente nell’Isola: non un’industria, non più la Fiat a Termini Imerese, né Pasquale Pistorio e la sua Stm a Catania, un tempo fiore all’occhiello dell’elettronica. Perfino i turisti scarseggiano se a distanza di un anno, a Lipari, si sente l’eco di un colpo di pistola. E’ quello con cui spense la propria vita ­– flagellata dai debiti, dalla crisi, dalla mancanza di lavoro – Edoardo Bongiorno, titolare dell’Hotel Oriente, un albergo tra i più antichi, un luogo della bellezza destinato all’altra tenaglia, quella dove una ganascia è il niente e l’altra è il nulla. Nessuno più vuole investire in Sicilia. Antonello Montante, presidente di Confindustria, che si schiera contro le banche impegnate a strozzare quel poco che resta delle aziende, denuncia con durezza il maledetto clima che abbuia ogni speranza: “Tutti hanno paura di tutti, della mafia, della burocrazia e anche dei giornalisti”. Tutti hanno paura di tutti. E tutti – in questa terra, ormai alla prova generale del default che toccherà in sorte a tutta l’Italia – aspettano di partirsene via. Ed è una fortuna che Campari abbia acquistato Averna. L’amaro di Caltanissetta è stato preso in custodia dal bitter di Milano. Per qualche anno ancora, Deo gratias, si potrà fare il brindisi. E il Deo gratias definitivo, quello necessario, potrà aversi se qualcuno, qui, a Roma, capisca che cosa sta succedendo davvero. Se proprio non un Cesare Mori, un prefetto che arrivi e metta fine ai mercanti asserragliati nel tempio della lotta alla mafia, almeno un commissario, in Sicilia, ci vuole e serve. Se non subito, subitissimo. E come quello, come Mori, si faccia forte di un principio: far tornare lo Stato in Sicilia. Avere carta bianca e – come quello, che ebbe mandato pieno dal presidente del consiglio dei ministri – avere il potere di cambiare le leggi se queste, sporche per come è infettata di mafia la legislazione derivata dallo Statuto autonomo, non permettano il raggiungimento dell’unico necessario proposito: fare tornare lo Stato in Sicilia. PS. Ho preso a prestito la categoria del dopoguerra, quella sulla distinzione di Leo Longanesi dei due fascismi ( "il fascismo e il fascismo dell'antifascismo", elevato a pretesto di una guerra civile ancora viva) perché è il binario obbligato dell’identità di una nazione, il cui tracciato, forgiato dalla natura arcitaliana, è quello inesorabile del conformismo. Dopo di che, la Sicilia. Certo, tutti hanno paura di tutti. Una cosa è la mafia, un'altra la mafia dell'antimafia e un'altra cosa ancora è la lotta alla mafia. E io, qui, lo so che mi ritrovo a prendere a mani nude le braci degli altri. Ma – come si dice? – così come finisce, un giorno si racconterà".

Indagato il pm antimafia Mollace. “Favoreggiamento alla ‘ndrangheta”, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Lo storico magistrato di Reggio Calabria sotto inchiesta per corruzione. Un colpo di scena, un altro. Per Reggio Calabria e l’antimafia è una mazzata. E anche un nuovo capitolo dei veleni che hanno intossicato il Palazzo di Giustizia. È indagato dalla procura antimafia di Catanzaro Francesco Mollace, uno dei pilastri storici della procura antimafia, sostituto procuratore generale di Reggio Calabria da meno di due mesi è in servizio alla procura generale presso la Corte d’appello di Roma (e qualcuno ipotizza la precipitosa decisione di trasferirsi dettata per evitare il carcere). L’ipotesi di reato che viene ipotizzata nei confronti dell’alto magistrato è corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante di aver favorito la ’ndrangheta. L’inchiesta dei pm Giuseppe Borrelli, Gerardo Dominjanni e Domenico Guarascio è una costola di quella sugli autori della strategia stragista contro lo Stato del 2010, la cosca Lo Giudice, che fece esplodere ordigni sotto il portone della procura generale (3 gennaio) e nell’atrio del palazzo del procuratore generale Salvatore Di Landro (25 agosto). Infine, il 5 ottobre, fu ritrovato un bazooka sotto la procura di Giuseppe Pignatone. Per questi attentati si sta celebrando il processo a Catanzaro, avendo individuati gli autori. Sono diverse le letture sul possibile movente. Quella più accreditata: il procuratore generale Di Landro si era da poco insediato, facendo saltare immediatamente quegli accordi non scritti tra avvocati e sostituti procuratori generali, che praticavano il patteggiamento occulto in Appello. E, dunque, le bombe come richiesta a Di Landro di ripristinare quegli accordi. Francesco Mollace è stato lo storico titolare delle inchieste che hanno riguardato i fratelli Lo Giudice, e nessuna di queste indagini è mai arrivata a processo. Ma c’é, ci sarebbe anche dell’altro. Viene ipotizzato dagli inquirenti uno scambio corruttivo tra il magistrato e la cosca di Nino Lo Giudice. Sì, il «nano», il mandante delle bombe del 2010. Il dottor Mollace - che non ha voluto commentare le indiscrezioni sulle indagini che lo riguardano - avrebbe tenuto la sua barca nel cantiere navale di Nino Spanò, il prestanome della cosca Lo Giudice. A processo Spanò ha dichiarato che la rata mensile per la barca del magistrato Mollace veniva pagata in contanti e che lui non la contabilizzava. «Don Ciccio, cercate don Ciccio che mi deve difendere». Quello che è importante è ricordare che questa intercettazione è agli atti della inchiesta, genuina. Il boss comunica al suo avvocato di contattare Mollace, e sembra dire che è il suo garante. Per l’accusa, questa intercettazione è una prova decisiva, che mette in secondo piano la interpretazione e l’attendibilità del pentito Nino Lo Giudice che prima chiama in causa il procuratore aggiunto nazionale antimafia, Alberto Cisterna, poi evade dal rifugio protetto lasciando un memoriale nel quale ritratta tutto (infine è stato catturato). 

E il giudice finì nei guai per colpa dei Lo Giudice, scrive Felice Manti su “Il Giornale”. Ma la cosca dei Logiudice esiste ancora? A questa domanda sembra dare una risposta la decisione della Procura della Repubblica di Catanzaro, che ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex sostituto pg di Reggio Calabria Francesco Mollace, adesso in servizio alla Procura generale presso la Corte d’appello di Roma. Mollace è indagato dalla Procura della Repubblica di Catanzaro per corruzione in atti giudiziari. Alla sbarra con lui finiranno Luciano Lo Giudice, fratello del boss Nino – pentito a fasi alterne – e Antonino Spanò, titolare di un cantiere nautico a Reggio Calabria, in cui Mollace avrebbe avuto la sua imbarcazione a rimessaggio. La richiesta di Gerardo Dominijanni e Domenico Guarascio, a capo dell’inchiesta coordinata dal procuratore della Repubblica Vincenzo Antonio Lombardo, nasce dal memoriale del boss reggino Nino Lo Giudice, a capo di una cosca che Mollace avrebbe favorito. La vicenda è intricata e complessa: l’ex pentito Nino, come ho già scritto qualche tempo fa, ha detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso memoriali messi più volte in discussione. Il dubbio che dietro il suo pentimento «ballerino» ci sia una macchinazione per colpire alcuni magistrati. Non ha convinto molti l’essersi autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro e dell’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda. Nino ha anche chiamato in causa il fratello Luciano, considerata la mente della cosca, salvo rimangiarsi tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Nel fango era finito anche l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non ha mai negato la frequentazione con il presunto boss. Ma la cosca Lo Giudice, ripete sempre Cisterna, è stata lui a smantellarla nel 1993 arrestando il capofamiglia. E Cisterna è uscito pulito dai guai. Ma la cosca Lo Giudice esiste, almeno così pensano i pm di Catanzaro. E qual è la colpa di Mollace? Aver sottovalutato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Maurizio Lo Giudice (fratello di Nino e Luciano) e Paolo Iannò (ex braccio destro e armato del superboss Pasquale Condello detto «il Supremo» arrestato dal Ros il 18 febbraio 2008 dopo una latitanza infinita) senza svolgere – secondo i pm di Catanzaro – le necessarie indagini per capire se i Lo Giudice a Reggio avessero ancora un peso oppure no. Per i due pentiti il peso lo avevano eccome. I magistrati catanzaresi scrivono che Mollace, per chiudere un occhio, avrebbe ricevuto in cambio «la dazione gratuita dei servizi di manutenzione e rimessaggio dei natanti ormeggiati nel cantiere di Calamizzi, gestito e diretto da Spanò e Luciano Lo Giudice, il primo quale prestanome del secondo». A pesare su Mollace c’è soprattutto il giallo dell’omicidio di Angela Costantino, moglie del boss Pietro Lo Giudice, che secondo gli inquirenti sarebbe stata uccisa per salvare l’onore del capoclan. Il presunto mandante sarebbe Bruno Stilo, l’esecutore materiale Fortunato Pennestrì (considerato il reggente della cosca dopo l’arresto del boss) entrambi condannati a fine 2013 a 30 anni con una sentenza che ha rispecchiato in pieno l’impianto accusatorio portato avanti dal pm Sara Ombra. I due sospettavano che mentre il marito era detenuto la donna fosse incinta di un altro uomo di cui si era innamorata- o Pietro Calabrese, poi trasferitosi a Roma o Domenico Megalizzi, scomparso nello stesso periodo, che riceveva telefonate a casa da parte di una ragazza di nome Angela –  l’avrebbero strangolata il 16 marzo 1994 nell’appartamento che abitava da circa un mese a Reggio Calabria in via XXV luglio, in un immobile al piano terra che, per decenni, è stato il feudo storico della cosca Lo Giudice e poi ne avrebbero occultato il cadavere pur di salvare l’onore del capoclan. Per il Gup Indellicati che ha deciso la condanna dei due ’ndranghetisti, come emerso dai documenti di natura medica agli atti dell’indagine, la situazione della donna «poteva essere compatibile sia con una disfunzione ginecologica, sia con un aborto precoce, a seguito di una gravidanza molto recente». Durante il processo sull’omicidio Mollace aveva difeso le sue scelte investigative con qualche «non so, non ricordo» di troppo, tanto che in una lettera al Collegio presieduto da Silvia Capone lo stesso magistrato ammise di non aver ricordato bene, tanto che il pm Beatrice Ronchi spingerà, con le sue indagini, a indurre il presidente del Collegio a verbalizzare «la falsità delle affermazioni di Mollace». Ad aprire squarci di luce sulla vicenda, finita anche su Chi l’ha visto, fu soprattutto Maurizio Lo Giudice, che nel ’99 indicò in Pennestrì l’esponente più di spicco della cosca Lo Giudice, insieme a Bruno Stilo («Era lui che prendeva in mano tutta la famiglia… dopo che sono stati arrestati… andava pure a chiedergli i soldi), e nell’ipotizzare che la donna, madre di quattro figli, fosse invaghita di un altro («Aviva perdutu a testa, dottori!») . La conferma a Maurizio Lo Giudice l’avrebbe data lo stesso Pennestrì, che poi avrebbe contribuito a depistare le indagini. Le dichiarazioni di Maurizio Lo Giudice di fine anni Novanta («In quei giorni Natino Pennestrì prese la palla al balzo, disse che Angela si lamentava con tutti noi che si buttava dal porto, dai ponti, così creò un po’ di pubblicità che era pazza, dei falsi ricercamenti, che portarono per… la credibilità che Angela era veramente malata») non furono considerate credibili fin quando il pm Beatrice Ronchi deciderà di riaprire le indagini e incrociarle con le affermazioni di almeno altri due collaboratori di giustizia considerati attendibilissimi, appunto Paolo Iannò e Domenico Cera. Insomma, la cosca decapitata da Cisterna all’inizio degli anni Novanta era ancora pienamente operativa, tanto da orchestrare un omicidio. Nino, Maurizio e Luciano avevano rapporti privilegiati con magistrati e forze dell’ordine, come raccontano le ultime vicende giudiziarie. Adesso per Mollace si apre un processo difficile. Le cui conseguenze, anche sui delicatissimi equilibri tra la Procura reggina e quella catanzarese, potrebbero essere inimmaginabili…

Il giudice e Lo giudice, continua Felice Manti. Chi difende lo Stato in Calabria? Le forze dell’ordine, quando non si dimostrano a busta paga dei boss. I politici, quando non vanno in udienza a casa dei capifamiglia a elemosinare voti. E poi ci sono i magistrati… E qui il discorso – per chi ha voglia di farsi qualche domanda – si complicano. Cominciamo da Giancarlo Giusti, l’ex gip di Palmi arrestato dalla Procura di Catanzaro per un presunto«patto scellerato» con la cosca Bellocco di Gioia Tauro. Su Giusti i primi sospetto erano sorti quando nel 2009 furono scarcerati tre esponenti della potente famiglia della Piana: Rocco Bellocco, Rocco Gaetano Gallo e Domenico Bellocco detto «Micu ’u Lungo», gettando alle ortiche mesi di lavoro investigativo. Scattarono le intercettazioni e «venne scoperta – così dice il procuratore della Repubblica di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo – una corruzione accertata dopo una prima richiesta di archiviazione, in una  vicenda che evidenzia un tradimento degli obblighi professionali, fermo restando il principio di presunta innocenza». Secondo un magistrato, un suo collega si sarebbe venduto (per circa 120mila euro) facendo scarcerare personaggi di spessore della ndrangheta calabrese. Se è vero saranno i processi a dirlo. Ma le accuse sono pesantissime: corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante di avere favorito un’associazione mafiosa, ed il famigerato concorso esterno.  Che cosa possa essere successo quando Giusti ha lavorato al Riesame a Reggio Calabria è ancora tutto da scoprire. Giusti era (ed è ancora) agli arresti domiciliari per un’altra faccenda poco chiara. Il 27 settembre del 2012 l’ex gip era stato infatti condannato a quattro anni per i suoi rapporti con la cosca Lampada, aveva tentato il suicidio il giorno successivo al carcere di Opera. Circa un mese dopo, il 29 ottobre, un perito del tribunale di Milano aveva stabilito che nel carcere di Opera non poteva ricevere le cure psichiatriche di cui aveva bisogno dopo il tentato suicidio. Qual era la natura dei suoi rapporti con la presunta cosca dei Lampada? Favori in cambio di sesso, a causa di una personalità fragile: «La sua è una vera e propria ossessione per il sesso, per lo più a pagamento; ha esigenze economiche legate a un tenore di vita sicuramente elevato; ricerca spasmodicamente occasioni di guadagno parallele in operazioni immobiliari e di varia natura», scrivono i giudici milanesi che lo hanno incastrato qualche anno prima, quando in una telefonata intercettata, Giusti non si faceva scrupolo a dire: «Non hai capito chi sono io.. sono una tomba .. ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Un finto bullo, sembrerebbe, che alla sorella (la telefonata è agli atti) , dopo avere avuto la notifica dell’avvio di un procedimento disciplinare del Csm sulla base anche dell’inchiesta della Dda di Catanzaro, dice: «È finita per me, guarda che vengono di notte e mi prendono… è finita».

La domanda è: com’è possibile – se è vero – che nessuno si sia accorto che un importante magistrato fosse alla fine un uomo fragile, assetato di soldi e di sesso e ben disposto a fare affari con le cosche in cambio di soldi? A quanto pare non sarebbe il solo. C’è un altro nome che merita qualche riga. Si chiama Vincenzo Giglio, è un giudice ed è finito nello stesso vortice di Giusti: gli affari con il clan Lampada-Valle, su cui la letteratura giudiziaria (soprattutto sul fronte della famiglia Lampada) è abbastanza scarna. Ma tant’è. Giglio e l’ex finanziere Luigi Mongelli (condannato a 5 anni e tre mesi, contro i 4 anni e 7 mesi di Giglio) , furono arrestati nel novembre 2011 nell’ambito dell’inchiesta milanese sul clan Valle-Lampada e oggi sono agli arresti domiciliari, in attesa della sentenza d’appello, anche grazie a una sentenza che stabilì l’incostituzionalità di quella parte dell’articolo 275 del codice di procedura penale che prevede l’obbligo della custodia in carcere per chi è accusato di reati aggravati dal cosiddetto articolo 7, ovvero reati commessi con l’aggravante del metodo mafioso. (Piccola parentesi. Quando uscì in agenzia la notizia del tentato suicidio di Giusti le agenzie scrissero che la vittima era Giglio, e che era morto. Amen). Cosa avrebbe combinato Giglio? Corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato dall’aver agevolato la cosca mafiosa. La sorte di Giglio era legata a doppio filo con quella dell’ex consigliere regionale Pdl Franco Morelli, condannato in primo grado a 8 anni e 4 mesi e interdizione perpetua dai pubblici uffici per concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio e il presunto boss Giulio Lampada(«Non è mai esistito quel clan, non ce n’è traccia negli atti», dissero allora i suoi legali Ivano Chiesa e Manlio Morcella), re dei videopoker a Milano condannato a 16 anni.  Il giochino, secondo i pm, era facile. L’ex maresciallo Gdf Mongelli intascava mazzette assieme ad altri colleghi per non fare i controlli sulle macchinette mangiasoldi. Il giudice Giglio, amico di Morelli, avrebbe fatto pressioni per piazzare la moglie a commissario della Asl di Vibo Valentia e in cambio avrebbe offerto al politico qualche «dritta» sulle indagini che lo riguardavano. Entrambi erano in rapporti con Lampada, cui avrebbe fatto comodo una copertura politica dopo il «mascariamento» del suo precedente cavallo politico di battaglia, quell’Alberto Sarra di cui si parla nel libro Madun’drina, che nel 2007 al telefono (intercettato) con Lampada parla, anzi straparla: «Quando mi muovo a Milano ho una chiavetta nera. Ho praticamente un centinaio di sportelli Bancomat perché quella è la chiave del cambiamoneta (cioè dei videopoker, ndr). Ti faccio un esempio: stasera sono con te e mi serve da prendere mille euro, vado in uno dei bar, apro e me li prendo». Al telefono Lampada e Giglio progettano anche la costituzione di una finanziaria. Dice in un’intercettazione l’ex macellaio di Reggio: Dobbiamo trovare, Alberto, una bella banca, qua su Milano, che ci faccia fare quello che vogliamo… Quello che vogliamo… io intendo dire… attenzione! Non che ci fottiamo i soldi alla banca, mi sa che non rientra nelle nostre…. E la cosa si complica… Sarra viene coinvolto in un’altra inchiesta su mafia e politica, quella che ipotizza un ruolo dell’ex senatore Idv Sergio De Gregorio beccato dai Ros a una cena con Sarra assieme ad alcuni esponenti della cosca Ficara. De Gregorio fu archiviato perché riuscì a dimostrare di non sapere chi fossero, a differenza di Sarra, i suoi interlocutori.  Scrivevo a fine 2010: «Quell’avviso di garanzia a Sarra, dicono i Ros, aveva fatto crollare il sogno dei Lampada e avrebbe portato Sarra a “interrompere ogni collegamento con esponenti vicini alla criminalità organizzata” per non aggravare la sua posizione giudiziaria». Morto un papa se ne fa un altro. al posto di Sarra arriva appunto Morelli, consigliere regionale calabrese. Il 13 febbraio 2008 viene intercettata una telefonata fra Giulio Lampada, nato a Reggio Calabria il 16 ottobre 1971, e Morelli. Dice il primo: «La chiamavo per salutarla siccome sapevo che doveva salire a Milano in questa settimana, non l’ho sentita per nulla, ho detto io lo chiamo vediamo se verifi… se sale per caso a Milano… così». Ma bisogna anche rileggersi un informativa del Ros dei carabinieri in cui si parla di rapporti “oscuri” tra i Lampada e i fratelli Vincenzo e Mario Giglio, cugini del giudice.  Scrivevo ormai quattro anni fa: «Vincenzo, medico di professione, secondo i carabinieri “voleva scalare i vertici della politica locale di Reggio Calabria”. Alle politiche del 2008 tentò invano di farsi eleggere nel movimento La Rosa bianca. Con Giulio Lampada avrebbe creato un intenso rapporto cominciato con un affare: l’acquisizione di un immobile nel pieno centro di Milano. Il problema è che, secondo i pubblici ministeri, i Lampada rappresentano “quelle tipiche figure criminali che si innestano pienamente nel substrato mafioso” con “compiti e ruoli connessi alla gestione del patrimonio economico del cartello mafioso” legato alla cosca Condello, guidata da Pasquale Il Supremo, arrestato nel febbraio 2008 dopo diciotto anni di latitanza. E qui il malaffare s’intreccia con un omicidio che ha riscritto la storia politica recente. Il fratello di Vincenzo Giglio, Mario, ha lavorato nelle segreterie politiche di due consiglieri regionali coinvolti in vicende inquietanti. Era il capo della segreteria di Franco Fortugno, il vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria eletto nelle fila della Margherita e assassinato a Locri il 16 ottobre del 2005. Poi diventerà capo della segreteria di Crea, che all’inizio del 2008 finisce in carcere nell’inchiesta Onorata sanità su un giro di corruzione e pressioni mafiose. Basta così? Non proprio. C’è ancora l’affaire Lo Giudice, l’ex pentito Antonino che ha detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso discutibili memoriali. Macchinazioni per colpire altri magistrati, ovviamente. Prima si è autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro oltre all’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda, chiamando in causa anche il fratello Luciano ed altre due persone. Poi si è rimangiato tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Ma c’è un giudice a cui Lo Giudice chiede scusa: è l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non nega la frequentazione con il presunto boss ma sostiene che la cosca Lo Giudice l’avrebbe smantellata nel 1993 arrestando il padre. C’è un rapporto stilato dall’attuale capo della Mobile di Torino Luigi Silipo che confermerebbe la pericolosità della loro frequentazione, ma Cisterna si è imbufalito e ha querelato il funzionario, incassando una denuncia di calunnia da parte di Silipo e una conseguente assoluzione, anche se il pm della procura di Reggio Matteo Centini aveva chiesto per Cisterna una condanna a due anni. Il problema è che c’è di mezzo anche un pm che indaga(va) sulla presunta trattativa Stato-mafia, legato a doppio filo con Cisterna e Lo Giudice: si chiama Gianfranco Donadio e secondo Lo Giudice  gli avrebbe chiesto di accusare falsamente Berlusconi e Dell’Utri, oltre ad altre persone a lui sconosciute. Ma cosa c’entra Cisterna con la mafia? Bisogna ricordarsi che l’ex braccio destro di Pietro Grasso era stato sentito dai magistrati della Procura di Palermo, come persona informata sui fatti perché, come viceprocuratore della Dna, sarebbe venuto a conoscenza di episodi inediti che avrebbero preceduto la cattura di Bernardo Provenzano. Grasso aveva delegato proprio Cisterna ai rapporti con la Procura di Palermo, compito poi interrotto a seguito del procedimento disciplinare scaturito dall’inchiesta per corruzione in atti giudiziari istruita dalla Procura di Reggio, all’epoca guidata da Pignatone. Cisterna è innocente, l’inchiesta è stata archiviata e molti punti restano tutti da chiarire, anche perché sull’inchiesta Stato-mafia (e sul ruolo della ‘ndrangheta in quegli anni, soprattutto) è tutto in divenire. Ma se ci fossero altri magistrati in riva allo Stretto collusi con le cosche?

Accusato di corruzione, Mollace: “Solo spazzatura e servile disprezzo mediatico”. Su "Strill". Riceviamo e pubblichiamo dal magistrato Francesco Mollace – «Apprendo dai soliti ben accreditati nelle stanze giudiziarie che la Procura di Catanzaro avrebbe depositato una richiesta di rinvio a giudizio nei miei confronti. Resto in attesa di riceverne conferma ufficiale e nei modi previsti dalla legge, ammesso che il rispetto dei diritti dei cittadini abbia ancora un qualche valore in certi palazzi. Con la serenità di chi non ha niente da farsi perdonare e niente da nascondere, sono certo che un giudice terzo e imparziale saprà fare giustizia della spazzatura raccolta in alcuni anni di indagini e di servile dileggio mediatico. Per mio conto sono sicuro di aver dimostrato con documenti inoppugnabili di avere circa venti anni fa arrestato, fatto condannare e determinato alla collaborazione componenti dell’allora cosca Lo Giudice. Mai ricevuto niente da chicchessia. L accusa è fondata su illazioni e le regole del processo mi rendono sereno. Francesco Mollace».

Il fratello del pm antimafia al ricevimento del boss. A essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, è Vincenzo Mollace, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Nozze, clan e parenti stretti dei pm antimafia. Ad essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, detto «il terribile», è Vincenzo Mollace, fratello «scomodo» del magistrato antimafia Francesco Mollace, di recente trasferito dalla procura di Reggio Calabria a Roma. Lo scenario è un ristorante di Gerace, nella locride. Il dvd che ritrae il fratello del pm mentre s’intrattiene, fra un pasto e l’altro, coi più potenti boss calabresi, è contenuto in un’informativa dei carabinieri di Locri, nelle cui mani è finito praticamente per caso. Siamo nel gennaio 2010 e il reparto speciale «Cacciatori» dell’Arma è sulle tracce di un pericoloso latitante: Stefano Mammoliti. Irrompono nella casa di un secondo latitante di San Luca convinti di scovare la loro preda, ma non trovano nessuno. Si imbattono, però, nel dvd e nel visionarlo restano basiti: a tavola coi mammasantissima c’è infatti Vincenzo Mollace, docente universitario, fratello del pm antimafia e all’epoca dei fatti direttore generale dell’Arpacal, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente in Calabria. Nell’informativa gli uomini dell’Arma scrivono: «Si nota di spalle con cappotto e cappello di colore scuro Mollace Vincenzo nella zona antistante il buffet, vicino a un soggetto anziano con la coppola, successivamente di fianco vicino a due soggetti di spalle e a Nirta Antonio, alias “terribile”, padre dello sposo, mentre parlano». Intorno a loro, che bevono vino, chiacchierano e mangiano, anche Rocco Morabito, «successore» del boss Giuseppe Morabito «u tiradrittu», e Bruno Gioffrè, che nella «cupola calabrese» occupa il secondo posto più importante. Fra i commensali, come riportato nell’informativa, anche due politici locali: Tommaso Mittiga, sindaco di Bovalino di area Pd, e Domenico Savica, suo «oppositore» in consiglio comunale. Il filmato rinvenuto dai carabinieri fa da riscontro a molti elementi contenuti nelle carte dell’operazione «Inganno» che un mese fa ha portato agli arresti dell’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, e della «paladina antimafia» Rosy Canale, coordinatrice del «Movimento delle donne di San Luca». Ed è nel corso di questa operazione che gli investigatori hanno intercettato l’ex sindaco Giorgi mentre affermava che gli incontri tra Vincenzo Mollace e i boss si sarebbero intensificati a ridosso delle ultime elezioni regionali. Gli inquirenti si soffermano anche sui rapporti tra Savica e Vincenzo Mollace e dello stesso Savica con Antonio Stefano Caridi, oggi senatore del Nuovo Centrodestra.

Parliamo della trattativa Stato-Mafia.

Trattativa Stato-mafia: condanna per il maresciallo Masi. È il carabiniere di scorta di uno dei pubblici ministeri che guidano il processo. Ecco la sua storia fino al verdetto della Cassazione, scrive Anna Germoni su Panorama. Saverio Masi, il carabiniere di scorta di uno dei pubblici ministeri che guidano il processo palermitano sulla presunta trattativa tra Stato-mafia, e testimone dell'Accusa (è il numero 54 della lista della procura di Palermo) il 24 aprile è stato condannato dalla Cassazione. Dopo una lunga riunione di camera di consiglio, il presidente della Quinta sezione penale del Palazzaccio di Roma ha rigettato in toto il ricorso presentato dall'avvocato dell’ex capo di scorta del dottor Di Matteo, notificando anche il pagamento delle spese processuali. La vicenda risale al 2008 quando Masi lavorava al nucleo investigativo del comando provinciale dell’Arma a Palermo. Con la sua auto privata il militare racconta di eseguire di iniziativa propria un pedinamento. Prende una multa. Per evitare tale contravvenzione scrive che la macchina privata era usata per motivi di servizio. Al comando dei Carabinieri viene chiesta contezza della vicenda e si apre un fascicolo nei confronti del maresciallo dalla procura palermitana. Per i giudici di primo grado, il militare avrebbe falsificato la firma del suo superiore, con le ipotesi di reato di falso materiale, falso ideologico e truffa. Nel 2013 viene condannato dalla corte d’Appello di Palermo a sei mesi di reclusione per falso materiale e truffa. L’avvocato del militare aveva annunciato il ricorso in Cassazione che si è celebrato il 24 aprile, chiedendo l’annullamento senza rinvio per entrambi i reati, perché il fatto non sussiste e insistendo sulla figura chiave del suo assistito, in qualità di testimone della procura di Palermo nel processo Stato-mafia. Strategia difensiva che ha suscitato qualche brusìo da parte dei giudici della Cassazione, vista la non pertinenza del caso con il ricorso pervenuto. Il procuratore generale ha invece chiesto l’assoluzione per la truffa e la condanna di 5 mesi e 10 giorni per falso materiale. Il 24 aprile 2015 il verdetto: i giudici hanno rigettato il ricorso del legale, dell’ex capo scorta del pm Di Matteo, con il pagamento delle spese processuali. Condannato. Ora per il militare, si prospetterebbero provvedimenti di Stato tra cui la degradazione, fino all’espulsione dall’Arma. Ma c'è di più. Il 19 gennaio 2015 scorso il maresciallo Saverio Masi, il suo ex collega Salvatore Fiducia e il loro avvocato Giorgio Carta sono stati rinviati a giudizio per diffamazione. Processo che inizierà il 16 maggio del 2016 davanti al tribunale di Roma. A giudizio anche una serie di giornalisti della tv, della carta stampata, tra loro i direttori de "Il Fatto Quotidiano" Antonio Padellaro e di "Servizio Pubblico" Michele Santoro. Nel 2013, durante una conferenza stampa indetta dal legale di Masi, nel suo studio romano, avevano accusato gli ex vertici del nucleo operativo di Palermo di avere di fatto “ostacolato” le indagini che avrebbero potuto portare all'arresto del boss Matteo Messina Denaro e di Bernardo Provenzano. Prontamente i superiori dell’ex capo scorta di Di Matteo, Giammarco Sottili, Michele Miulli, Fabio Ottaviani e Stefano Sancricca, li avevano denunciati alla procura di Roma per diffamazione. Sulla base di tale esposto, era nato uno scontro tra le due Procure di Roma e di Palermo. I pubblici ministeri del capoluogo siciliano avevano eccepito l’incompetenza a indagare da parte dei colleghi capitolini. Ma la querelle finita davanti alla Cassazione, ha dato ragione alla Procura guidata da Giuseppe Pignatone. Inoltre mentre il fascicolo aperto dai pm palermitani non è ancora concluso dopo querele e contro-denunce tra Masi e gli alti ufficiali dell’Arma, per la mancata cattura di Provenzano, risulta invece che la procura di Bari abbia chiesto già il rinvio a giudizio per diffamazione nei confronti proprio di Masi, accogliendo così favorevolmente l’esposto degli alti ufficiali dell’Arma. Malgrado ciò, il militare continua a girare l’Italia partecipando a convegni di legalità e parlando dei processi in corso.

Trattativa Stato-mafia: il mistero Conso. Una diatriba fra giornalisti. Un ex ministro della Giustizia che nel 1993 revoca il carcere duro per 334 detenuti. E seri dubbi su un intero processo, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Da alcuni giorni è scoppiata un'interessante diatriba giuridico-legale tra Massimo Bordin, ex direttore di Radio Radicale (nonché voce di Stampa & regime, la sua rassegna-stampa quotidiana) e Marco Travaglio, condirettore del Fatto quotidiano. Oggetto del contendere è il processo palermitano sulla presunta "trattativa" fra Stato e Cosa nostra, ai tempi delle stragi mafiose del 1992-93, e il ruolo dell'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. La diatriba è importante. Perché riesce a fare emergere elementi importanti, ma sottaciuti, del processo palermitano. Ma prima serve un antefatto: va riassunta la storia della "trattativa", perché troppo spesso se ne parla ipotizzando una scontata consapevolezza del lettore. Secondo la Procura di Palermo, all'inizio degli anni Novanta fu avviato un negoziato segreto fra alcuni boss mafiosi del peso di Totò Riina e Bernardo Provenzano, e alcuni uomini delle istituzioni: importanti politici e alti ufficiali dei carabinieri. L'ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia (poi dedicatosi alla politica attiva) e dopo di lui altri magistrati palermitani, a partire da Nino Di Matteo, hanno ipotizzato che oggetto dell'accordo sarebbe stato la fine della stagione stragista in cambio di un'attenuazione delle misure previste dal 41 bis, l'articolo della norma dell'ordinamento penitenziario che ordina un trattamento particolarmente severo per alcuni detenuti ritenuti pericolosi, come i mafiosi. Il processo è iniziato a Palermo nel maggio 2013 e una decina d'imputati oggi sono a giudizio, accusati chi di attentato a un corpo politico dello Stato, chi di falsa testimonianza. Su questa ipotesi giudiziaria, come del resto quasi su tutto, l'Italia si divide. Bordin è fra quanti guardano con scetticismo le stesse basi logiche e giudiziarie del processo (una piccola schiera cui, per obbligo di trasparenza, sommessamente ci uniamo): a unire costoro è l'idea - forse troppo pragmatica per giustizialisti "puri e duri" - che la politica abbia il compito istituzionale di affrontare anche i più gravi problemi e di risolverli. Del resto, era già stato fatto in passato con "interlocutori" sgradevoli quanto i mafiosi, per esempio con le Brigate rosse. Di più: se la "trattativa" fosse un reato, se lo Stato avesse ceduto e la mafia ne avesse tratto benefici, allora le istituzioni sarebbero colpevoli. Ma non è stato così. Su questo versante, anche celebri giuristi di sinistra come Giovanni Fiandaca sostengono che l'impianto accusatorio del pool di magistrati di Palermo non regga: i comportamenti sotto accusa non sono reato e, soprattutto, nessuno ha mai abrogato o alleggerito il 41 bis. Sull'altro versante, Travaglio è tra i più attivi sostenitori del'lipotesi accusatoria, che a Palermo ha riunito sul banco degli imputati una decina di teste male assortite: boss mafiosi, politici, ex ufficiali dei carabinieri. Per chi è convinto senza ombra di dubbio che la "trattativa" ci sia stata, la commistione tra boss mafiosi e servitori dello Stato è un orrido, illecito connubio, certamente da sanzionare a prescindere dai suoi risultati. Questa parte si fa forte anche di una sentenza di primo grado, pronunciata nel 1998 dal Tribunale di Firenze, alla fine del processo sulla strage dei georgofili (1993): in quella sentenza viene scritto esplicitamente che una "trattativa" ci fu, e che le stragi mafiose di oltre 20 anni fa vennero compiute per costringere lo Stato a venire a patti sul 41 bis. Bene. Su che cosa discutono oggi Bordin e Travaglio? Sul ruolo di Conso, già presidente della Corte costituzionale e soprattutto ministro della Giustizia dal febbraio 1993 al maggio 1994 in due governi di centrosinistra (Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi). Perché l'unico atto di quegli anni che possa essere in qualche modo letto come un possibile cedimento alla mafia riguarda proprio Conso: che il 2 novembre 1993 decise di non rinnovare circa 334 provvedimenti di 41 bis in scadenza. E proprio sul nome di Conso, effettivamente, il mistero s'infittisce. Perché l'ex ministro, personalità specchiata e universalmente apprezzata, malgrado il suo ruolo e le sue azioni, non è sul banco degli imputati a Palermo. Sul punto, lo scambio tra Bordin e Travaglio è vivace. Bordin si domanda (lo fa per radio e sul Foglio) perché Conso, indagato per falsa testimonianza, non sia oggi sotto processo nel processo palermitano. Travaglio gli risponde sul Fatto che questo è reso impossibile dal codice penale, che sempre rinvia (art. 371 bis) quel tipo di procedimenti alla fine del processo. Ora, a Travaglio si potrebbe forse obiettare che Nicola Mancino, ex ministro dell'Interno dei primi anni Novanta, a Palermo è attualmente imputato proprio per una falsa testimonianza resa in quel procedimento. E che nei suoi confronti la Procura non ha atteso  la fine del processo. Ma sicuramente il tribunale avrà avuto ottime ragioni per differenziare la sorte giudiziaria di Mancino da quella di Conso. Però, e qui andiamo al mistero Conso, la questione in effetti travalica la falsa testimonianza. Se è vero che a Palermo da un anno è sotto processo il negoziato tra mafia e Stato, la domanda è perché non sia imputato di attentato a un corpo politico dello Stato anche Conso, il politico che con il suo atto sul 41 bis (attenzione: scrivo per ipotesi, esclusivamente in base alla logica della pubblica accusa) potrebbe avere ceduto qualcosa alla presunta controparte mafiosa? È proprio in questa anomalia che si rende più evidente la fragilità stessa dell'impianto accusatorio a Palermo. Ovvio, ci sono ragioni di opportunità processuale che possono avere spinto la Procura a evitare di chiamare Conso sul banco degli imputati: la prima è che, trattandosi di un ipotetico reato compiuto da ministro, a giudicarlo potesse/dovesse essere il Tribunale dei ministri e non la Corte d'assise di Palermo. Potrebbero esserci anche ragioni più "politiche": Conso, come s'è detto, è al di sopra di qualsiasi sospetto. Lui stesso, l'11 novembre 2010 parlando alla commissione Stragi, dichiarò di avere agito in piena spontaneità sul 41 bis: “Da parte mia" spiegò l'ex ministro "non c’è mai stato neppure il barlume di una possibilità di trattativa”. Comunque, l’ex Guardasigilli spiegò che la decisione di non rinnovare il 41 bis per i mafiosi in carcere, “fu il frutto di una mia decisione, decisione solitaria, non comunicata ad alcuno, né ai funzionari del ministero, né al Consiglio dei ministri, né al presidente del Consiglio, né al capo del Ros Mario Mori, e nemmeno al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria". E Conso concluse: "La decisione non era un’offerta di tregua né serviva ad aprire una trattativa, non voleva essere vista in un’ottica di pacificazione, ma per vedere di fermare la minaccia di altre stragi. Dopo le bombe del maggio ’93 a Firenze e quelle del luglio ’93 a Milano e Roma, Cosa nostra taceva. Che cosa era cambiato? Totò Riina era stato arrestato, il suo successore Bernardo Provenzano era contrario alla politica delle stragi, pensava più agli affari, a fare impresa; dunque la mafia adottò una nuova strategia, non stragista”.

Parliamo di Giulio Lampada.

Il calabrese di successo odiato dalla Procura, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. Giulio Lampada è un imprenditore calabrese, che ha avuto successo a Milano. Ma dopo anni di benessere è stato arrestato con l’accusa di essere un capo mafia. Difficile trovare traccia di reato nelle accuse. Su questo torneremo. Oggi vogliamo denunciare il fatto che da quattro anni è sottoposto al regime di custodia cautelare e che il tribunale milanese, pur di non concedergli i domiciliari, raddoppia le perizie. Forse non molti ricorderanno chi è Giulio Lampada, e allora è bene rinfrescare la memoria in proposito. Giulio Lampada è un giovane imprenditore calabrese che, dopo aver per anni gestito un bar davanti al Tribunale di Reggio Calabria, frequentato giornalmente, come è normale sia, da magistrati ed avvocati, che tutti lo avevano per amico e persona per bene, alla fine degli anni Novanta seppe fare con successo il salto verso Milano. In pochi anni, Lampada riuscì ad organizzare varie imprese redditizie, sia nel campo dei giochi permessi e propiziati dallo Stato, sia dei bar e delle caffetterie. È poi perfino ovvio che, dal momento che era riuscito ad ascendere i gradini sociali, diventasse amico di persone in vista, della Milano “bene” e poi, poco a poco, di politici, gente dello spettacolo, magistrati, dirigenti, manager e via dicendo. Così va il mondo e così è sempre andato, anche se ad alcuni possa dispiacere. Però Lampada aveva contro di sé non uno ma ben due peccati originali dai quali non poteva liberarsi facilmente: per un verso, il fatto di essere calabrese e, per di più, a Milano e, ancor per di più, di successo; per altro verso, il fatto di essere imparentato, per mezzo di un matrimonio del fratello, con altra famiglia calabrese nota agli inquirenti come appartenente alla ‘ndrangheta. Ebbene, dopo anni di benessere e di lavoro elargito anche agli altri che con lui collaboravano, Lampada viene inaspettatamente arrestato su richiesta della Procura milanese con l’accusa di essere non solo appartenente a una cosca mafiosa, ma perfino di esserne un capo, un organizzatore, finendo con l’essere coinvolto nelle vicende che hanno interessato il Giudice Giusti, morto suicida poche settimane or sono. Sul merito delle accuse, all’interno delle quali invano si cercherebbero le tracce di un reato – tranne uno, la corruzione di alcuni finanzieri, di cui peraltro egli stesso si è confessato colpevole quale concusso e non quale corruttore – si tornerà fra pochi giorni con più agio. Per ora, occorre evidenziare una vicenda processuale di contorno che però tanto di contorno non è, se si pensa che si riferisce alla sua libertà personale e visto che egli si trova in stato di custodia cautelare da circa quattro anni, protestando sempre la propria innocenza. Infatti, pur dopo numerose e qualificate consulenze disposte d’ufficio dal Tribunale che attestano la sua situazione soggettiva di incompatibilità con il carcere per ragioni gravi di salute di ordine psichico – vere patologie attestate senza ombra di dubbio – il Tribunale di Milano, in sede di riesame, ne ha escogitato una nuova ed inaspettata: disporre una nuova perizia di un altro medico, pochi giorni dopo che il perito d’ufficio nominato dal medesimo Tribunale aveva concluso per la necessità di concedere a Lampada, per oggettive ragioni di salute, gli arresti domiciliari. A mia memoria, una cosa del genere non è mai capitata. È certo successo che un Tribunale chiedesse un approfondimento, un chiarimento sull’esito della perizia, anche per cercare di comprendere meglio la situazione nella sua oggettività. Ma sempre allo stesso perito che abbia effettuato la perizia; mai è invece accaduto che dopo che il perito nominato dal Tribunale concluda nel senso della necessità di concedere la detenzione domiciliare, il Tribunale ne nomini un altro con il medesimo incarico già espletato dal precedente perito. Cosa il Tribunale si aspetta dal nuovo perito? Che forse pensa che possa dire qualcosa di diverso dal collega che l’ha preceduto? E se sì, perché? Ed in che senso? E perché allora non mette in preallarme un terzo perito che si tenga pronto, nel caso in cui decidesse di nominarne ancora un altro? Insomma, un enigma processuale, un rompicapo giudiziario inesplicabile quanto inaspettato che però mette molto in allarme chi abbia a cuore le ragioni del diritto e della giustizia. Infatti, se un Tribunale non si fida del perito da lui stesso nominato al punto da volerne verificare l’attendibilità attraverso la nomina di un altro perito, cosa si potrà salvare dell’operato di entrambi, cosa resterà della credibilità del processo?  E ancora? Che dire della legittimità di un tale operato? Cosa della imparzialità del Tribunale?  Domande tutte che esigono una risposta. Ciascuno dia la propria.

Il delitto di Ilaria Alpi. Parliamo di Giorgio Comerio.

Tutto è iniziato il 26 aprile 2015 con una email info@ ed il nome del suo sito web. “Buon giorno Dr. Antonio Giangrande. Ho letto alcune sue pubblicazioni ove ho trovato, ancora una volta, le false informazioni che mi riguardano. Gradirei che, da qualche parte, emergesse la semplice constatazione della seguente realtà investigativa: dopo 4 anni di indagini sul mio conto e su quello dei miei collaboratori, la magistratura ha potuto appurare, senza ombra di dubbio, che nei miei comportamenti non vi é stato mai alcun atto illecito o penalmente rilevante”.

Sig. Comerio – rispondo - mi dispiace essermi reso corresponsabile per la pubblicazione di notizie, a suo dire false, che riguardano la sua persona. Io non ho dolo diffamatorio nei suoi riguardi. Io mi limito a far diventare storia la cronaca di tutti i giorni. Proprio perché il tempo è galantuomo e non è ideologizzato, io sono sempre pronto a rettificare od integrare quanto da altri scritto e da me riportato. Nel suo caso mi sono limitato a citare gli articoli di “La Repubblica”, Rai 3, ecc. che a loro volta si avvalgono, come fonte, della relazione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta. In tal caso mi indichi cosa io devo aggiungere a sua difesa, lasciando a lei l’opportunità di dire la sua, sinteticamente, in aggiunta a quanto da me pubblicato, affinchè abbia più efficacia. Non tralasci numero e data del procedimento penale, con il nome del pm che ha chiesto l’archiviazione e il gup che l’ha confermata. O comunque altro atto giudiziario definitivo che la riguardi.

"Egregio Dr. Giangrande, grazie della sollecita risposta. La magistratura non ha mai ravvisato nessun atto penalmente rilevante e, di conseguenza, non si é mai avuto nessun procedimento nei miei riguardi oppure di qualsiasi dei miei collaboratori. Nel mio sito web trova ogni dettaglio, inclusa la copia del mio certificato penale. Non é quindi necessaria alcuna difesa non essendoci mai stata alcuna accusa. Piuttosto sarebbe interessante che Lei riuscisse a pubblicare gli atti relativi alle false e gravissime dichiarazioni del Dott. N. e del Maresciallo S.. Dichiarazioni rilasciate alla commissione di inchiesta ed alla stampa solo per crearsi pubblicità personale. Oppure come mai documenti archiviati presso il tribunale di Reggio Calabria siano stati rubati da ignote mani e poi, giunti misteriosamente  nella redazione di “Repubblica”, non siano stati resi al legittimo proprietario (il Tribunale di Reggio) al fine di arrestare i ladri, ma pubblicati con commenti artatamente falsificati per creare dubbi e discredito. Un cordiale saluto".

Sono andato se suo sito  web ed ho letto: Busto Arsizio - Varese - 3 Febbraio 1945 - Lavora e vive ovunque sia necessario. E quindi ormai é necessario che ognuno di noi si organizzi le sue difese mediatiche. Sul web non esiste un elenco dei cittadini assolti, oppure di quelli semplicemente indagati e che si sono dimostrati innocenti. Giornalisti alla sola ricerca dello scoop considerano un indagato poco più di un fantasma al quale non dare ascolto. E poi di solito, già che ci sono, lo condannano in partenza. La presunzione di innocenza non esiste né sulla stampa e neppure sul web. Sul mio conto é facile trovare illazioni senza alcun fondamento, notizie riportate e modificate, informazioni del tutto inventate. Dopo anni di indagini condotte da diverse procure non é stato trovato alcun atto penalmente rilevante nel mio comportamento in tutta la mia vita ed in quella dei miei collaboratori tecnici. Per questo motivo potete scaricare il mio certificato "carichi pendenti" che conferma l'assenza di ogni e qualsiasi procedimento in corso - Agosto 2013 - Sul web troverete anche diversi file artatamente modificati e video-montaggi realizzati da G. "Tino" S., un truffatore abituale attualmente sotto processo in Tunisia per gravi minacce.

La macchina del fango si realizza con la correlazione fra due fatti (o quasi fatti) del tutto scollegati fra di loro. Viene realizzata da giornalisti senza nessuna professionalità, veri e propri " faccendieri" della disinformazione. La notizia di partenza é spesso attribuita a "pentiti" ( conclamati delinquenti a caccia di uno sconto di pena ) oppure a "informazioni dalla procura di responsabili che desiderano restare dell'anonimato". Ovvero gli stessi giornalisti cialtroni e spocchiosi buffoni che si inventano gli informatori anonimi. Esempio: Trovata sulla nave "Jolly Rosso" una carta nautica "ODM" con segnate la posizioni delle navi affondate. Da chi: dal Comandante Natale de Grazia morto il 12 Dicembre 1995. Le informazioni manipolate: Ma la società ODM é nata.. due anni dopo. E via di seguito. Cartina, ovviamente sparita dagli atti ma disponibile, in file .pdf, da "il Manifesto". Inviatami, con esemplare correttezza, da Andrea Palladino. Miracoli dell'elettronica. Visto che la cartina, in realtà, nessuno l'ha mai vista. Che esista solo come file .pdf? Ma quando è che andrà in galera chi la guida, questa "macchina del fango"?

1 - Carta in bianco e nero dell'ammiragliato inglese (diciture in inglese e non in Italiano);

2 - Carta molto datata: tutte le carte nautiche utilizzate, anni dopo, dall'ODM erano a colori e non in bianco e nero;

3 - Profondità in Pathom (braccia inglesi) e non in metri;

4 - Altezze in feet e non in metri;

5 - La calligrafia che ha scritto sul lato sinistro " CARTINA ODM" in stampatello sembra essere la stessa che ha scritto il nome delle navi ipoteticamente affondate nelle aree indicate. Comerio non avrebbe certo avuto la necessità di scrivere, su una sua carta, "cartina ODM" ... oltre che piuttosto illogico segnare comunque delle aree e tenere a bordo della Jolly Rosso la carta stessa...Piuttosto potrebbe essere la stessa calligrafia del De Grazia.. o di altri.. Sono elencati i nomi e descritti i fatti che hanno dato modo al procuratore Francesco Neri, a seguito di una denuncia del dott. Ferrigno di Greenpeace, di avviare una colossale inchiesta che mi ha coinvolto pesantemente rovinando un decennio della mia vita. Basta leggere con attenzione i documenti della Commissione Bicamerale.

Eppure la Stampa di sinistra ha una certa idea del personaggio.

Comerio, l’ingegnere dei rifiuti e il certificato di morte di Ilaria Alpi, scrive Antonella Beccaria. Nato nel 1945 a Busto Arsizio, in provincia di Varese, su Giorgio Comerio, ingegnere e imprenditore di professione, alcune informazioni le forniscono i carabinieri che hanno a lungo indagato su di lui. E queste informazioni raccontano che «è persona di intelligenza spiccata, sicuramente massone, appartenente ai servizi segreti argentini e legato ai più grossi finanzieri mondiali, e in particolare europei [...]. Sarebbe stato espulso dal Principato di Monaco il 24 marzo 1983 e avrebbe avuto problemi con la giustizia belga per truffa e altro [oltre a essere stato] arrestato il 12 luglio 1984 a Lugano per truffa e frode, nonché per violazione delle leggi federali sugli stranieri». Di lui, però, si parlerà molto poco fino a un certo punto: progetterà e promuoverà sistemi per lo smaltimento di rifiuti in mare aperto nel sostanziale anonimato, al di fuori del circuito degli addetti ai lavori. Il suo nome però finisce sulle pagine dei giornali nel 1995 (e vi rimarrà fino a oggi), quando un pubblico ministero di Reggio Calabria, Francesco Neri (oggi sostituto procuratore generale), dispone una perquisizione a San Bovio di Garlasco, in provincia di Pavia, a casa di Comerio. Qui viene trovata un’agenda del 1987 che, nel giorno dell’affondamento della Rigel, una delle navi dei veleni, riporta un’annotazione, “lost ship” (“nave perduta”, anche se l’ingegnere sosterrà che si deve leggere come “nave affondata”). Inoltre furono rinvenute anche due cartellette. In una di esse, su cui era stata scritta la parola “Somalia”, ci sarebbe stato il certificato di morte di Ilaria Alpi, la giornalista del Tg3 uccisa insieme al suo operatore, Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994 a Mogadiscio. Il clamore del ritrovamento fu notevole e fu letto come una conferma della pista su cui l’inviata della Rai stava indagando: smaltimento illegale di rifiuti nel Corno d’Africa. E a far pensare che l’ingegnere lombardo fosse coinvolto nei traffici di scorie (non solo in Somalia) ci sarebbero stati altri documenti, tra cui alcune mappe, oltre l’agenda che ricordava l’affondamento della Rigel. Giorgio Comerio, a fine 2009, ha diffuso un memoriale per dare la sua versione a proposito delle ipotesi investigative che in questi anni lo hanno chiamato in causa. Secondo lui sono “fantasie” dei pubblici ministeri e, come riportato da Repubblica l’8 dicembre scorso, «l’unico certificato di morte che avevo era quello della signora Giuseppina Maglione, morta il 9 febbraio 1996, per il cancro, mia suocera». Mai avuto a che fare, insomma, con alcun traffico illecito e, anzi, parlando di sé alla terza persona singolare, aggiunge ancora: «Comerio ha collaborato a diverse ricerche archeologiche in antiche chiese nel Nord Italia e [...] alla scoperta a Roma dei resti del ponte di Muzio Scevola. All’epoca ha lavorato per il ministero dei Beni Culturali. Per un breve periodo è stato anche iscritto al Partito dei Verdi a Milano [...]. La storia personale del signor Comerio mette in evidenza come egli abbia sempre lavorato a fianco della Legge e della difesa dell’ambiente e mai contro». Eppure, quella legge – che scrive con l’iniziale maiuscola – di lui racconta un’altra storia. Seguendo il percorso intrapreso dal pubblico ministero Neri, questa storia inizia a Ispra, sul lago Maggiore, al Ccr, il Centro Comune di Ricerca. Che dal 1977 al 1988 riceve supporto da dodici nazioni – Italia, Francia, Stati Uniti, Belgio, Canada, Australia, Giappone, Inghilterra, Svezia, Germania Ovest, Olanda e Svizzera – per cimentarsi con una serie di piani, tra cui uno chiamato Dodos, altro acronimo che sta per Deep Ocean Data Operating. Per usare una terminologia meno scientifica ma più esplicita, l’obiettivo era «lo stoccaggio di scorie radioattive in ambiente naturale terrestre o marino». A pronunciare queste parole fu il responsabile del Ccr, Charles Nicholas Murray, quando nel 1995 raccontò alla magistratura la sostanza della storia: si intendeva ricorrere a missili penetratori dentro cui venivano stipati i rifiuti da infossare nei fondali marini. In questo progetto, il ruolo di Comerio sarebbe stato nello specifico quello di progettare una boa che consentisse di controllare i siluri via satellite. Ma poi non se ne fa più nulla perché – ufficialmente – sarebbero emerse varie difficoltà, tra cui un ipotetico rischio di attentati terroristici. Solo che a un certo punto, dal centro di Ispra, scomparve un componente elettronico della boa e gli inquirenti di Reggio Calabria sospettarono che dietro a quella sparizione ci fosse l’imprenditore di Garlasco. Inoltre, secondo la loro ricostruzione, sarebbe stato coinvolto anche lo stesso Murray. Per quanto nel suo memoriale Comerio sostenga che tutti i test siano stati fatti in pieno oceano, sempre a Reggio Calabria sono custoditi i video – resi pubblici dell’Espresso nel 2008 – che sembrano dimostrare che qualche esperimento sia stato condotto anche nel Mar Ligure, almeno per quanto riguarda la boa. Anche se poi – secondo un’informativa dei carabinieri datata 1995 – i missili sarebbero stati lanciati in mare non per provare la tecnologia, ma per vere e proprie attività di smaltimento in quarantacinque nazioni che comprendono, tra gli altri Paesi, Iraq, Egitto, ex Jugoslavia, Kenya, Sudan, Sierra Leone, America centrale e l’arcipelago delle Filippine. Fin qua arriviamo all’inizio degli anni Novanta. Il pezzo successivo della storia – una storia complicatissima, fatta di intercettazioni, testimoni, ritrattazioni e accuse incrociate – racconta di una trattativa giunta a compimento nel settembre 1994, sei mesi dopo l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, tra la Odm [Oceanic Disposal Management, società fondata da Giorgio Comerio] e Ali Mahdi, il presidente ad interim somalo imparentato per via della cugina, Fatima, moglie di Giancarlo Marocchino, di cui si è parlato in un precedente pezzo. Ali Mahdi però smentisce l’esistenza della trattativa e se la prende con il pubblico ministero Neri, che viene querelato (ma la faccenda finirà per essere archiviata). A proposito però del presunto accordo, scrive ancora L’Espresso nel 2005, prendendo come fonte sempre un’informativa dell’Arma: «Le condizioni finanziarie indicate nel contratto per i dispositivi nel nord della Somalia [parlano] di 10 mila marchi tedeschi per ogni penetratore sull’importo complessivo di 5 milioni di marchi l’anno. Il Comerio”, continuano i carabinieri, “precisava che il pagamento extra sarebbe avvenuto a fronte del rilascio della licenza da parte [di] Ali Mahdi Mohamed. I pagamenti dovevano avvenire attraverso una banca non indicata, presso cui la società avrebbe costituito un deposito di 500 mila marchi valido per un anno, dal quale verranno pagati 10 mila marchi già previsti per ogni penetratore entro i dieci giorni successivi alla posa in opera” [...]. Un accordo verso cui [...] Ali Mahdi mostra grande attenzione, come dimostra il fax in lingua inglese che il 17 giugno 1994 invia su carta intestata della Repubblica somala al segretario e ministro plenipotenziario Abdullahi Ahmed Afrah. All’interno, spiegano i carabinieri, “il presidente gli comunica la titolarità della gestione degli accordi con la Odm, la cui validità sarà però sempre soggetta a ratifica da parte del governo o del presidente stesso”. Da quel momento, si legge nell’informativa, partirà un lavorìo di fax e incontri, proposte e iniziative. Fino all’accordo conclusivo e il passaggio alla fase due: quella operativa». Mentre oggi si prospetta la possibilità che il caso Alpi-Hrovatin venga riaperto dopo il rifiuto di archiviare l’indagine a carico Ali Rage Ahmed, soprannominato “Gelle”, il principale accusatore dell’unico condannato per il duplice delitto di Mogadisco perché ritenuto non più affidabile, ci sono altri fatti poco rassicuranti che emergono in questa vicenda. Oltre ai documenti (compreso il certificato della morte della giornalista rinvenuto a casa di Comerio) trasmessi dalla procura di Reggio Calabria a quella di Roma e mai arrivati – gli stessi documenti che la commissione Taormina non ha trovato -, le vicende degli smaltimenti illegali e delle navi dei veleni hanno compreso vicende come l’episodio del 3 giugno 2008 raccontato a Riccardo Bocca da Lorenzo Gatto, l’avvocato di Francesco Neri, ai tempi della querela di Ali Mahdi contro il magistrato calabrese. «Sono andato in Procura a Reggio per cercare ancora il certificato di Alpi e ho notato un’altra anomalia: lo scatolone numero nove, quello che contiene il primo e il secondo volume di informazioni del Sismi, era aperto sul lato destro. L’ho segnalato al pm di turno e al cancelliere capo, i quali hanno riconosciuto che era staccato l’adesivo. Il cancelliere capo, allora, mi ha invitato a verificare se riuscissi a sfilare documenti, e l’ho fatto senza difficoltà: ho estratto sei fogli, chiedendo che la questione venisse messa a verbale». Ma ci sono anche altre vittime che vanno ricordate. Tra queste, c’è la morte di Natale De Grazia, il capitano di corvetta che faceva parte del pool calabrese che indagava sui rifiuti, morto il 12 dicembre 1995 senza che si capisse esattamente cosa gli accadde. Arresto cardiaco, disse l’autopsia, ma la moglie dell’ufficiale, stroncato mentre andava a La Spezia per alcuni accertamenti, fin dall’inizio si batté facendo rilevare tutte le incongruenze intorno al decesso di suo marito. Poi però giunse l’archiviazione delle indagini sui presunti stoccaggi abusivi e la trasmissione – per errore – di alcuni fascicoli alla procura di Lamezia Terme, dove le carte giudiziarie stanziarono per tre anni senza ragione. Dal palazzo di giustizia di Paola, un anno fa, si è ripartiti, pur concentrandosi soprattutto sullo spiaggiamento della motonave Rosso (ex Jolly Rosso), arenatasi sulla spiaggia di Formiciche, nei pressi di Amantea, in provincia di Cosenza. Ma il quadro che si va ricostruendo, pur con una focale differente, riporta in auge quando già emerso nelle inchieste precedenti, sia a livelli di nomi che di fatti. Non a caso dunque sembra giungere una notizia: Francesco Neri – è stato annunciato il mese scorso-– l’estate prossima riceverà il premio CalabriAmbiente perché – ha dichiarato Beatrice Barillaro, presidentessa del Wwf Calabria – si vuole tributare «un riconoscimento doveroso per chi, come Neri, si batte quotidianamente e a rischio della propria incolumità per affermare le ragioni della legalità e della difesa dell’ambiente e della salute dei cittadini». Una notizia che giunge proprio mentre la prima commissione del Csm ha deciso di procedere contro il magistrato per “incompatibilità ambientale” chiedendone il trasferimento d’ufficio.

Navi dei veleni, atti desecretati: da traffico di scorie a costruzione di gommoni per i migranti: ecco chi è Giorgio Comerio, scrive invece Andrea Tornago su “Il Fatto Quotidiano”. L’uomo che la Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Gaetano Pecorella ha cercato a lungo, ora è in Tunisia. E se negli anni '90 si occupava di “inabissamento in mare di rifiuti radioattivi”, il suo nome torna, dieci anni dopo, legato alla fornitura di imbarcazioni destinate all'immigrazione clandestina dal Nord Africa. Negli anni ’90 progettava di affondare le scorie radioattive sui fondali marini. Ora è in Tunisia, dov’è fuggito dopo una condanna passata in giudicato per tentata estorsione. Si fa chiamare De Angeli. E il servizio segreto rivela, nei documenti desecretati sui traffici di rifiuti, quale sarebbe la sua reale attività nel paese nordafricano. Giorgio Comerio è la figura chiave di tanti misteri sui traffici di armi e veleni. L’uomo che la Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti presieduta da Gaetano Pecorella ha cercato a lungo, fino a progettare una missione in Tunisia, annullata poi per problemi di sicurezza. Finora della sua nuova vita si sapeva poco: solo la zona in cui operava, quella di Bizerte, nel nord del Paese, e i suoi interessi nella società Avionav, che produrrebbe velivoli leggeri. Ma una nota dell’Aisi, ex Sisde (il servizio segreto civile) declassificata dal 23 maggio, riferisce di averlo trovato impegnato in ben altre occupazioni: contatti con trafficanti di armi, stupefacenti, e di migranti verso l’Europa. Comerio sarebbe amministratore della ditta Cnt – Costructions navales tunisiennes e disporrebbe “di un cantiere per la costruzione di barche e gommoni nella località mineraria di Zaribah”. “Nel corso di attività informativa diretta nei confronti di un’organizzazione criminale transnazionale – scrive l’intelligence italiana nel maggio del 2010 – volta a verificare il coinvolgimento di cittadini italiani nella fornitura di imbarcazioni destinate all’immigrazione clandestina dal Nord Africa, è emerso il ruolo di rilievo di un cittadino italiano residente in Tunisia successivamente identificato in Comerio Giorgio, il quale sarebbe stato coinvolto anche in un presunto traffico di stupefacenti e armi”. Le informazioni si riferiscono al periodo tra gennaio 2007 e aprile 2008 e sarebbero state già allora “riferite alla polizia di Stato e al comando generale dell’arma dei Carabinieri”. Comerio, però, è risultato sempre “irreperibile” tanto che nel gennaio 2012 il giudice dell’esecuzione del tribunale di Bolzano è stato costretto a dichiarare estinta la pena a 4 anni di reclusione – ridotta a un anno dall’indulto – per decorso del tempo. La difficoltà della autorità italiane nel catturare Comerio appare però singolare alla luce dei contatti da lui avuti con i servizi segreti. Rapporti che sono sempre stati negati dai vertici delle agenzie, ma che emergono nei documenti declassificati. Almeno due incontri ravvicinati tra Comerio e l’intelligence militare hanno contorni poco chiari. Il direttore del Sismi, nel 2005, riferiva alla Commissione Alpi-Hrovatin: “Su iniziativa promossa dal II reparto della guardia di finanza, il predetto Comerio è stato attenzionato nel mese di luglio 2001 dalla scrivente Divisione, risultando tuttavia assolutamente inadeguato a divenire fonte, o a qualsiasi titolo collaboratore, della Divisione stessa”. Un interessamento che aveva suscitato la curiosità del presidente della Commissione d’inchiesta sui rifiuti, Gaetano Pecorella, che nel 2011 ne aveva chiesto ragione al direttore del servizio. Ma i rapporti dell’imprenditore di Busto Arsizio con il Sismi sono anche più antichi. Comerio, considerato dal Sisde in un appunto del 2003 “sedicente appartenente ai servizi segreti, noto faccendiere italiano presumibilmente legato alla vicenda delle cosiddette “navi a perdere” e al centro di una serie di vicende legate alla Somalia”, è stato in contatto fin dalla fine degli anni ’80 con una fonte della Prima divisione del servizio militare, che all’epoca aveva rapporti di lavoro con Comerio. Comerio e la Oceanic disposal management (Odm), una delle sue società, sono stati al centro delle indagini del nucleo investigativo del corpo forestale dello Stato nel ’95 sull’affondamento delle “navi a perdere” nel Mediterraneo. I contatti della Odm, che si occupava di “inabissamento in mare di rifiuti radioattivi”, arrivavano fino ai Paesi dell’Est Europa. Secondo una nota desecretata del Sismi, inviata alla Ottava divisione nel febbraio del ’95, i titolari dell’azienda sarebbero stati “in procinto di andare a Mosca per sottoscrivere un contratto con i russi, i quali sono molto interessati all’eliminazione clandestina delle scorie radioattive”. Il nome di Comerio emerge anche in relazione all’affondameto di navi considerate coinvolte in traffico di materiale bellico e radioattivo (anche se l’inchiesta è stata archiviata): la motonave Rigel, affondata il 21 settembre 1987 al largo delle coste calabresi (sull’agenda di Comerio di quell’anno, sequestrato nel maggio ’95 dal gruppo di investigatori di cui faceva parte il capitano Natale De Grazia, venne trovato l’appunto “Lost the Ship” – “Persa la nave”) e la motonave Rosso spiaggiata ad Amantea nel dicembre del ’90, su cui si concentra, in molti dei documenti desecretati, l’interesse dei servizi.

20 marzo 1994: come muore una giornalista italiana. Senza perché, continua Gianni Cirone. Il presidente della Commissione parlamentare, l’avvocato Carlo Taormina, ora privilegia la tesi dell’assassinio eseguito da terroristi islamici. L’indagine viene così dirottata dalla pista del traffico illegale di residui radioattivi. Fu uccisa il 20 marzo 1994, a Mogadiscio. Con lei perse la vita anche l’operatore, Miran Hrovatin. Il suo nome era Ilaria Alpi, inviata per il Tg3 in Somalia. Da allora, molti altri giornalisti sono stati eliminati, rapiti, soppressi in zone di guerra o, come si dice oggi, in aree soggette a “missioni di pace”. Troppi nomi, tanti. Una tendenza che andata consolidandosi nell’ultimo decennio. Ormai una consuetudine che deve far riflettere. Nel caso di Ilaria Alpi, però, ciò che colpisce è l’ingannevole quadro che per anni si è andato ricomponendo intorno alla sua morte. Uno scenario tuttora in movimento, a ben 11 anni di distanza dall’evento. Ricostruire la vicenda, adesso, significa rivolgere l’attenzione verso una così ampia mole di documentazione che appare improbo riproporre in questa sede: una Commissione parlamentare di inchiesta è stata costituita per fare luce sui mandanti dell’agguato. Al tempo stesso, comunque, il filo della matassa può essere ripreso da recenti articoli, pubblicati su alcuni settimanali, prova del fatto che il “caso Alpi” resta all’ordine del giorno soprattutto grazie al lavoro di altri giornalisti. In questo senso, è prezioso il contributo che Riccardo Bocca ha sostanziato con un’inchiesta corposa su l’Espresso. Nello scorso mese di gennaio, alcuni suoi articoli danno un colpo al già traballante dispositivo, di silenzio e omissioni, scattato immediatamente dopo l’esecuzione della giornalista e del suo operatore. Cosa indica, in sé, questo scossone? Un accostamento, anzi un nesso, ed è interessante ripercorrerlo riga per riga. Il nesso dovrebbe unire le indagini sull’omicidio dei due giornalisti del Tg3 alle indagini svolte su un ingegnere italiano, Giorgio Comerio. Secondo attività investigativa, questo professionista sarebbe stato al centro di un vasto traffico di rifiuti radioattivi, con altri faccendieri, malavitosi, trafficanti d’armi. La vicenda proviene da Reggio Calabria ma, incredibilmente, sembra coinvolgere numerosi governi, europei e non, con l’ausilio di apparati dello Stato obbedienti a logiche estranee alle istituzioni. E’ stata la Procura di Reggio Calabria a indagare su tale intreccio, negli anni ’90, e l’archiviazione ha rappresentato l’esito conclusivo delle indagini. I magistrati volevano dimostrare che numerose navi, caricate di scorie radioattive, venivano fatte affondare volutamente in mare. I rifiuti speciali erano trasportati dall’Europa all’Africa. In più, si usufruiva del Odm (Oceanic disposal management), un sistema che utilizzava siluri carichi di scorie da far perdere nei fondali. Al termine dell’inchiesta nessuna incriminazione ma, nelle informative riservate della Procura di Reggio Calabria, il segno dello stretto nesso coi fatti somali. Ebbene, non appena è riemersa la portata della suddetta inchiesta, la Commissione parlamentare d’inchiesta viene scossa. Improvvisamente, e con un precisione madornale, sono apparse da nulla foto satellitari che mostrerebbero lo scenario dell’agguato. Immagini che giungono, solo adesso, dalla profondità di quel 1994. Ma c’è di più e Domenico D’Amati, avvocato della famiglia Alpi, dice la sua: “Fornire falsi indizi su soggetti sospetti, per screditare l’indagine o inventarsi nuove piste per allungare i tempi. La riprova che gli interessi in ballo sono enormi, e ancora oggi c’è chi teme che vengano svelati”. Ma è possibile ritenere la pista calabrese lo snodo della morte di Ilaria Alpi? Settembre 1999. Francesco Gangemi, per poche settimane sindaco di Reggio Calabria nel 1992, cugino dell’omonimo Francesco condannato a 10 anni per camorra, direttore del mensile calabrese Il dibattito, mensile attualmente sequestrato con conseguente arresto del direttore, accusato di pressioni su magistrati dell’Antimafia di Reggio Calabria per conto di una lobby di potere che voleva influenzare inchieste su politici e mafiosi locali. Sei anni fa questa rivista pubblica un’inchiesta a puntate, intitolata “Chi ha ucciso Ilaria Alpi?”. La premessa è di Gangemi, che scrive: “Fin dai primi passi di questa mia lunga strada, che immagino irta di ostacoli e contraccolpi, voglio informare i nostri lettori e le autorità che eventuali rappresaglie che dovessi subire non sarebbero certo riconducibili alla ’ndrangheta o ad altre organizzazioni criminali, ma ai servizi segreti deviati e assoggettati a taluni magistrati inadempienti ai loro doveri d’ufficio e al governo, che rimane il fulcro delle operazioni sporche che stanno inginocchiando l’umanità intera a fronte di vantaggi di varia natura”. In realtà Gangemi pubblica non pochi documenti segreti dell’inchiesta reggina: notizie, rivelazioni, illeciti, che indicano il sistema occulto volto allo smaltimento delle scorie nucleari, e ancora indizi sull’intera vicenda Alpi. Si vedano le dichiarazioni, del luglio 1995, del teste denominato Alfa-Alfa (Aldo Anghessa, ndr) che al sostituto procuratore di Reggio Calabria, Francesco Neri, e al capitano di corvetta, Natale De Grazia, consulente deceduto dopo in circostanze sospette, dice: “A partire dal 1987 è attiva in Italia una lobby affaristico-criminale che gestisce le seguenti attività: traffico di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi, stupefacenti, armi, titoli di Stato falsificati e (...) materiali strategici nucleari (…). Si ha certezza che lo smaltimento può avvenire con tre distinte modalità: l’interramento in località del sud Italia in vecchie cave o di scariche, l’affondamento di navi normalmente in zone extraterritoriali o lo smaltimento presso paesi del Terzo mondo come (...) il Libano, la Somalia fino al 1992, la Nigeria e il Sahara ex spagnolo (...)”. In merito ai traffici, secondo Anghessa, “sono sicuramente gestiti a livello di vertice da soggetti iscritti a logge massoniche italiane ed estere (…). E’ opportuno far rilevare (…) che nell’occasione del sequestro di 29,5 chili di uranio effettuato a Zurigo furono fermati dalla polizia elvetica otto individui tra i quali due italiani. Uno di questi è Pietro Tanca, il quale ha affermato: ‘Io sono qui non per ritirare denaro (se ricordo bene 18 milioni di dollari), ma per verificare l’esistenza del denaro di competenza della parte politica italiana che copre l’operazione’. I nostri tentativi per capire quale fosse la parte politica cui si riferiva sono stati vani, anche per la proterva azione della Polizia elvetica, che anziché collaborare ha scientificamente ostacolato le indagini”. Su Tanca, Anghessa aggiunge che “appena rilasciato dalla Polizia elvetica e rientrato in Italia è stato arrestato su ordine di custodia cautelare emesso dal gip Felice Casson”. Chi è Aldo Anghessa? E’ personaggio discusso. Ammette di essere protagonista di azioni di intelligence e, in quel momento, agli arresti domiciliari, è indagato per traffico di armi e materiale nucleare. Anghessa dà nomi, particolari, indirizzi, e fa balenare l’operatività di una rete di coperture istituzionali a livello internazionale. A riguardo cita Guido Garelli, arrestato in un’inchiesta sui traffici nocivi, spesso citato nell’inchiesta Alpi. Garelli, per Anghessa è “riconducibile a un organo di informazione dello Stato (…) era uso chiamare numeri telefonici di basi militari italiane e aveva pass Nato per entrare e uscire in basi militari italiane”. Secondo Alfa-Alfa, ci sarebbe poi Elio Sacchetto, “tessera P2, arrestato nel 1988 assieme al Garelli”, e dunque Giorgio Comerio, titolare del sistema di affondamento delle scorie con missili, ma anche protagonista di indagini delicate come quella sul naufragio della nave Rigel o sullo spiaggiamento della motonave Rosso, dove la Capitaneria di porto trova copia del suo progetto Odm. Sul mensile che dirige, il profilo di Comerio viene così presentato da Gangemi: “La Procura di Reggio Calabria ha accertato l’esistenza di un brutto affare collegato allo scarico dei rifiuti in Somalia, proprio dove la giornalista Ilaria Alpi si era recata per cercare la verità che altri hanno insabbiato, uccidendola per la seconda volta. La ‘cosa’ girava sotto gli occhi consapevoli del governo somalo allora in carica, e a farla girare ci pensava il faccendiere Giorgio Comerio, considerato nell’ambiente della raffinata criminalità collegata ai servizi segreti e ai governi europei, e non solo europei, la mente eccelsa a disposizione dei primi ministri che avessero avuto interessi particolari nel traffico illecito a livello interplanetario”. Affermazioni molto pesanti, anche se l’analisi che emerge dai carabinieri di Reggio Calabria non è certo una passeggiata. Secondo l’Arma “Comerio è al centro (...) di un’organizzazione mondiale dedita allo smaltimento illecito dei rifiuti radioattivi nell’ambito di uno scenario inquietante, ove si muovono soggetti senza scrupoli, compresi uomini di governo di tutte le latitudini che pur di trarne vantaggi economici non stanno esitando a mettere in pericolo l’incolumità dell’intera popolazione mondiale”. “Nella sua abitazione – affermano gli investigatori – è stata sequestrata una cartella gialla, tra le altre, contraddistinta dal numero 31 ed intestata alla ‘Somalia’. All’interno vi era custodita documentazione inerente al progetto Odm relativo ai siti marini somali. In particolare le cartine indicano due ampie zone di mare, di cui una a nord e l’altra al centro della suddetta nazione. La prima zona è indicata con sei punti di affondamento” il primo dei quali è situato “leggermente a sud rispetto allo specchio d’acqua antistante la città di Tohin”. Rilevamento chiave, che si somma alle dichiarazioni, del novembre scorso, da parte del maresciallo dei carabinieri Nicolò Moschitta, davanti la Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti: “Comerio era l’unico a inabissare lì rifiuti radioattivi”. Esiste agli atti un fax di un membro dell’Autorità del servizio mondiale per i diritti umani di Bosso, Ali Islam Haji Yusuf, che si rivolge al dipartimento del nord-est somalo dell’Onu denunciando che “al largo della città di Tohin, del distretto di Alula, nella regione del Bari, due navi sconosciute stavano effettuando un’operazione insolita, vale a dire che mentre una scavava sui fondali del mare, l’altra seppelliva in dette buche dei container dal contenuto sconosciuto”. Per i carabinieri, questo lavoro “stava creando tensione fra la popolazione locale, che è ostile al seppellimento in mare di rifiuti tossici e radioattivi”. Da qui la richiesta di aiuto di Haji Yusuf, richiesta di cui sono rimasti sconosciuti gli sviluppi. Per l’Arma, però, è sicuro che il primo sito di affondamento indicato nella mappa di Comerio è “in prossimità della zona segnalata lo scorso novembre da Haji Yusuf (...). Evidentemente, Comerio è già operativo in dette acque. (…) Non deve meravigliare il fatto che al posto dei penetratori il Comerio stia utilizzando le trivelle, in quanto quest’ultima soluzione è stata sempre l’alternativa alla prima nell’ambito del progetto Odm”. A casa di Comerio i magistrati trovano una cartella targata ‘Somalia’: comunicazioni fra il possessore e le autorità somale. Tra queste, una lettera inviata al mediatore Pietro Pagliariccio, alias Giampiero, in cui, su carta intestata dell’Odm, Comerio “lo informa – affermano gli inquirenti – che la sua società è disponibile a pagare 10 mila marchi tedeschi ad ogni lancio (di missili-penetratori, ndr) quale importo extra” rispetto “alle condizioni finanziarie indicate nel contratto per i dispositivi nel nord della Somalia, che è di 10 mila marchi tedeschi per ogni penetratore sull’importo complessivo di 5 milioni di marchi l’anno”. Comerio, affermano i carabinieri, “precisava che il pagamento extra sarebbe avvenuto a fronte del rilascio della licenza da parte del presidente ad interim Ali Mahdi Mohamed. I pagamenti dovevano avvenire attraverso una banca non indicata, presso cui la società avrebbe costituito un deposito di 500 mila marchi valido per un anno, dal quale verranno pagati 10 mila marchi già previsti per ogni penetratore entro i dieci giorni successivi alla posa in opera”. L’accordo c’è. Un accordo a cui tiene molto il presidente ad interim, Ali Mahdi che il 17 giugno 1994 invia un fax, in lingua inglese e su carta intestata della Repubblica somala, al segretario e ministro plenipotenziario Abdullahi Ahmed Afrah. “Il presidente – dicono i carabinieri – gli comunica la titolarità della gestione degli accordi con la Odm, la cui validità sarà però sempre soggetta a ratifica da parte del governo o del presidente stesso”. Dall’accordo si deve passare solo alla fase operativa. Ilaria Alpi si era avvicinata a tutto questo? Se non del tutto vero, estremamente verosimile. Come ricorda Gangemi, riferendosi agli atti della magistratura di Reggio Calabria, “il fascicolo 18 con gli atti relativi alla Somalia contiene pure il certificato di morte della Alpi”. Inoltre, Fadouma Mohamed Mamud, figlia dell’ex sindaco di Mogadiscio, il 16 giugno del ’99 dichiara a verbale: “Ilaria mi aveva dichiarato che seguiva una certa pista, una pista abbastanza pericolosa (...) di cui non dovevo parlare con nessuno (...). Si interessava a certe cose orrende che venivano fatte sulle coste della Somalia, che venivano scaricate sulle nostre coste, sul mare dei rifiuti tossici”. Inutile ricordare, a questo punto, che del materiale della giornalista del Tg3 è rimasto solo la parte meno interessante. Spariscono gli appunti (mancano ben tre block notes), spariscono fogli contenenti numeri telefonici. Cosa accade nella Commissione parlamentare d’indagine a seguito di tali rivelazioni? La deposizione del pm Neri “smentisce nettamente ipotesi di collegamento fra inchiesta su traffico di rifiuti e omicidio della giornalista”. Accade questo. Accade cioè che, in una nota, Enzo Fragalà, membro della Commissione, smentisce seccamente il nesso. “La commissione – afferma Fragalà – non consentirà ad alcuno di orientare, in alcun modo, la ricerca della verità con teoremi astrusi. Ai colleghi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sta sicuramente a cuore la ricerca della verità sull’omicidio dei due colleghi. La deposizione del pm della Procura di Palmi, dottor Francesco Neri, ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta che indaga sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, fa definitivamente chiarezza sui tentativi di depistaggio attuati nei confronti della Commissione stessa e smentisce, oltre ogni ragionevole dubbio, l’ipotesi avanzata attraverso alcune inchieste giornalistiche, non supportate da prove, su presunte relazioni fra l’omicidio della giornalista del Tg3 e l’inchiesta, condotta a Palmi, sul traffico di rifiuti. Le nette parole del pm Neri a questo proposito debbono essere di monito a chi pensa di poter condizionare il lavoro della Commissione parlamentare utilizzandolo per fini propri o per supportare astrusi teoremi preconcetti. La Commissione andrà avanti, come sempre senza perdere di vista l’obiettivo finale che è quello di far luce sull’omicidio dei due operatori dell’informazione e non permetterà a chicchessia di orientare, in alcun modo, la ricerca della verità”. Dunque, tutto falso. Falso quanto scritto da Riccardo Bocca su l’Espresso, e qui in parte riportato, falso quanto sostenuto dall’inchiesta della procura calabrese nelle sue parti di congiunzione con il nome di Ilaria Alpi. Avverranno altre cose. Ad esempio la perquisizione subita da alcuni giornalisti, tra cui Maurizio Torrealta, collega del Tg3 di Ilaria Alpi, stabilita nell’ambito di accertamenti dalla Commissione parlamentare. Anche qui, il membro Fragalà ricorda, a chi ha protestato per l’iniziativa, che “assolutamente ineccepibili” sono da ritenere metodo e merito delle perquisizioni, decise “unanimemente” dall’ufficio di presidenza della Commissione. E mentre si parla di innumerevoli tentativi di depistaggio, si è in attesa di conoscere dove porterà la “al qaedizzazione” dell’omicidio di Ilaria Alpi e del suo operatore. Il presidente della Commissione, Carlo Taormina, sente di aver fiutato un’ottima pista. Per adesso, dunque, non resta che ricordare quel 20 marzo 1994. Colpi a bruciapelo sulle teste pensanti dei due reporter. I loro corpi flosci come sacchi, in fondo ad un vano bagagli di un auto privata che, in un attimo, li conduce via da quel loro ultimo luogo terreno. Senza perché.

Omicidio Alpi-Hrovatin: Giorgio Comerio, baluardo sulla strada della verità, scrive Claudio Cordova su “Strill”– Gaetano Pecorella è, almeno a parole, chiarissimo e assai deciso: “Per capire se la morte della giornalista Ilaria Alpi sia collegabile ai traffici di rifiuti radioattivi bisogna trovare e ascoltare Giorgio Comerio”. Pecorella, presidente della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei rifiuti, ha, negli scorsi giorni, annunciato il proposito dell’organismo bicamerale di riaprire le indagini sulla morte della giornalista della Rai, giustiziata a Mogadiscio, in Somalia, il 20 marzo del 1994, insieme al proprio operatore, Miran Hrovatin. Questo il primo lancio dell’agenzia Ansa, del 20 marzo 1994: “La giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e il suo operatore, del quale non si conosce ancora il nome, sono stati uccisi oggi pomeriggio a Mogadiscio nord in circostanze non ancora chiarite. Lo ha reso noto Giancarlo Marocchino, un autotrasportatore italiano che vive a Mogadiscio da dieci anni”. Un agguato condotto da sette sicari. Da lì a pochi giorni Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sarebbero tornati in Italia, dato che proprio in quel periodo era previsto il rientro in Patria del contingente italiano impegnato nella missione di pace “Restore Hope” in Somalia, costata al Paese 1400 miliardi di lire. Ilaria Alpi è inviata in Somalia, per conto del Tg3, come corrispondente di guerra. Ma non si limita al “compitino”, a registrare, pedissequamente, i bollettini del comando militare, ma si mette a indagare su presunti traffici di armi e, soprattutto, di scorie radioattive. Ascolta le testimonianze della gente, visita i luoghi sospetti, si avvicina anche ai tanti signori della guerra che, in quegli anni, ma non solo, regnano in Somalia. Fa la giornalista. Da anni vi è il sospetto che il movente dell’esecuzione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sia stato proprio quanto i due reporter avrebbero scoperto in Africa. Sospetti alimentati, nel tempo, nonostante una verità giudiziaria che ha condannato, in via definitiva, un unico uomo, somalo, ritenuto uno dei componenti del commando, che sarebbe stato composto da circa sette uomini. Nessuna verità, nessuna specificazione sulle ragioni che avrebbero portato alla morte dei due reporter del Tg3. Verità (assai presunte) e specificazioni (assai labili) che arrivano, invece, da una Commissione, istituita proprio per far luce sul duplice omicidio, presieduta, negli scorsi anni, dall’avvocato Carlo Taormina, a quel tempo deputato di Forza Italia. La Commissione sul duplice delitto Alpi-Hrovatin arriverà alla conclusione che i reporter sarebbero stati uccisi per errore nel corso di un tentativo di sequestro finito male. Resta più di qualche dubbio sulla relazione finale del presidente Carlo Taormina: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, una donna e un uomo, sono due giornalisti, sono disarmati, vengono assaliti da un commando composto da numerosi uomini armati fino ai denti. Insomma, qualora il vero obiettivo del gruppo di fuoco fosse stato rapire i due giornalisti, non avrebbero fatto fatica ad avere la meglio. Ilaria Alpi, per giunta, viene uccisa con un colpo d’arma da fuoco alla testa: una modalità che lascerebbe presagire una vera e propria esecuzione. Alcuni deputati di minoranza, tra cui Raffaello De Brasi, Rosi Bindi, Deiana Elettra e Carmen Motta lanciarono contro Taormina un vero e proprio atto d’accusa. Secondo i parlamentari, Taormina avrebbe fatto un uso personale e politico della Commissione, strumentalizzando il lavoro finale per dare addosso alla sinistra, poco prima delle elezioni politiche, addossandole la colpa di un complotto contro la verità. Il padre di Ilaria Alpi, Giorgio, morirà nell’estate del 2010. Senza conoscere, probabilmente, la verità sulla morte della figlia. Oggi, invece, a distanza di ben diciassette anni, un altro avvocato, Gaetano Pecorella, in qualità di presidente della Commissione sulle Ecomafie, afferma di volerci vedere chiaro e indica nell’audizione dell’ingegnere Giorgio Comerio un passaggio chiave per l’accertamento della verità. Ma perché la deposizione di Comerio sarebbe così importante per stabilire se il duplice omicidio Alpi-Hrovatin sia da ricondurre alle vicende del traffico internazionale di scorie radioattive? Comerio, oggi vicino ai settant’anni, nel 1993 fonda la Oceanic Disposal Management (ODM), una società registrata alle Isole Vergini Britanniche. La ODM, con sede a Lugano, ma con diramazioni a Mosca e in Africa, si occupa di qualcosa di molto particolare: si occupa dello smaltimento delle scorie nucleari. Comerio propone agli Stati di mezzo mondo la sua idea: inabissare le scorie in acque dai fondali profondi e soffici le scorie, inserendole all’interno di grossi e pesanti penetratori, che, arrivando a pesare fino a duecento chili, una volta sganciati in mare, acquisterebbero una velocità tale da permettere la penetrazione nei fondali. I quarantadue Stati a cui Comerio propone la propria idea, ovviamente, rifiutano, ma, secondo molti, l’ingegnere originario di Garlasco avrebbe messo in atto, occultamente, i propri propositi. Secondo Legambiente “Comerio e i suoi soci avrebbero gestito, dietro il paravento dei “penetratori”, un traffico internazionale di rifiuti radioattivi caricati su diverse “carrette” dei mari fatte poi affondare, dolosamente, nel Mediterraneo”. Personaggio assai particolare, Giorgio Comerio: negli anni ’80 partecipa alla battaglia delle isole Falkland tra Inghilterra e Argentina; iscritto alla Loggia di Montecarlo, ha anche alcuni problemi con la giustizia venendo arrestato il 12 luglio 1984 a Lugano per truffa e frode, nonché per violazione delle leggi federali sugli stranieri. Sarebbe un elemento legato ai servizi segreti e, in passato, socio dell’avvocato David Mills, condannato in primo e secondo grado per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza in favore di Silvio Berlusconi e “salvato”, in Cassazione, dalla prescrizione. Ma ecco il dato più inquietante. Negli scorsi anni, su ordine della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, la casa di Comerio viene perquisita. All’interno di un cassetto, il Capitano della Marina Militare, Natale De Grazia, elemento di spicco del pool investigativo, morto in circostanze assai sospette proprio mentre indagava sulle “navi dei veleni”, trova qualcosa. Un’agenda. Alla data 21 settembre 1987 c’è una strana scritta: “lost the ship”. La frase, tradotta, significa “la nave è persa”. Vengono disposti degli accertamenti che svelano un particolare assai interessante, ancorché grave: il 21 settembre 1987 nel mondo affonda una sola nave. La Rigel, fatta colare a picco, dolosamente, a largo di Capo Spartivento, in provincia di Reggio Calabria. Ma nell’abitazione di Comerio, gli investigatori trovano dei fascicoli che, in copertina, hanno nomi di Stati africani. Tra questi vi è anche la Somalia. E all’interno della cartella vi è il certificato di morte di Ilaria Alpi, uccisa a Mogadiscio, capitale della Somalia. Viene disposta l’acquisizione del documento che, però, in seguito scomparirà dai faldoni di indagine, venendo probabilmente trafugato. Nessuno ha mai potuto chiedere a Comerio cosa ci facesse, all’interno di un cassetto della sua scrivania, quel documento: non è mai stato possibile ascoltarlo in Commissione. In un’intervista a Riccardo Bocca per L’Espresso, il magistrato Francesco Neri, a quel tempo titolare delle indagini sulle navi dei veleni, afferma: “Il giorno che interrogai Comerio mi disse: questi rifiuti non si possono buttare nell’atmosfera con gli Shuttle perché esplodono. È pericoloso interrarli perché i gas che si sprigionano coi terremoti possono provocare catastrofi ancora peggiori. Quindi l’unico posto è il mare. Ha continuato dicendo che lui li gettava con boe oceaniche di rilevamento e coi satelliti che controllavano il sito. Affermava di aver scelto, tutto sommato, il modo meno criminale di disfarsene. Questa fu la sua difesa…”. Anche per questo sarebbe assai interessante ascoltare, su tali vicende, l’invisibile Giorgio Comerio, da sempre abile a comparire e scomparire a proprio piacimento. Le ultime notizie lo darebbero in Tunisia.

Camera. Commissione Bicamerale d’inchiesta: Ciclo Rifiuti. Seduta del 12/12/2012. Audizione del redattore della rivista on line www.strill.it, Claudio Cordova.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'approfondimento che la Commissione sta portando avanti sulle cosiddette navi a perdere, l'audizione del dottor Claudio Cordova. Avverto il nostro ospite che della presente audizione sarà redatto un resoconto stenografico e che, se lo riterrà opportuno, i lavori della Commissione proseguiranno in seduta segreta, invitandolo comunque a rinviare eventuali interventi di natura riservata alla parte finale della seduta. Cedo la parola al dottor Cordova per avere una valutazione anche sul questo rapporto tramite e-mail con Comerio. Prima che i colleghi della Commissione le pongano alcune domande, le chiedo se, nel frattempo, sa dove si trova Comerio e se ha avuto contratti o relazioni con lui, in modo da avere un quadro rispetto a questo tema.

DANIELA MAZZUCONI. Prima che il dottor Cordova cominci a parlare, posso intervenire? Nel suo articolo lei scrive: «Esclusivo. Giorgio Comerio: "Pronto a collaborare per ricerca verità, ma tra me e Ilaria Alpi link impossibili"». Lei è, dunque, entrato in contatto con Comerio. Sarebbe utile capire come è entrato in contatto con lui e chi è stato l'intermediario. Può aver avuto solo un incontro di carattere informatico, ma qualcuno avrà funto da intermediario. Vorrei sapere se lei sa dove oggi si trova Comerio e, dal momento che mi pare di capire che forse il contatto non è stato diretto, ma solo mediato informaticamente, se lei è certo dell'identità della persona che le ha risposto. Trattandosi di una persona che tutti cercano e che ha compiuto azioni non esattamente positive nella vita, ci chiediamo se siamo di fronte a una mistificazione, oppure se lei ha la prova che dall'altra parte del mondo, non so dove, ci fosse il signor Comerio e che fosse lui a rispondere alle sue domande.

PRESIDENTE. Ringrazio la senatrice Mazzuconi, che ha completato la domanda, e do la parola al dottor Cordova.

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Innanzitutto svolgo una premessa per consentirvi di capire le motivazioni da cui nasce questa intervista. Più o meno dal 2009 mi sono interessato alle tematiche delle navi dei veleni, o comunque dello smaltimento illecito di rifiuti in Calabria. Io vivo a Reggio Calabria, ma mi sono occupato anche, per esempio, del caso della Pertusola Sud di Crotone, che tutti conoscerete. Sono temi a me molto cari. La genesi di questa intervista deriva proprio dalle dichiarazioni a mezzo stampa - tenete presente che sono passati quasi due anni, ragion per cui compirò alcune piccole imprecisioni - del presidente della Commissione sul ciclo dei rifiuti, il quale affermava che Comerio avrebbe potuto essere utile all'eventuale riapertura delle indagini sul caso di Ilaria Alpi. Io scrissi un articolo sulla base di quelle dichiarazioni, riportando un buon numero di informazioni in mio possesso. Ho scritto un libro sul tema delle ecomafie, sulle navi dei veleni e anche su altri temi. Ho, dunque, una buona dimestichezza con l'argomento. La questione molto singolare - l'articolo è, se non ricordo male, del 6 febbraio 2011 - è che, quasi nell'immediatezza, all'indirizzo della redazione del sito per il quale lavoravo allora, ma per il quale ora non lavoro più, www.strill.it, arrivò, da un indirizzo che eventualmente potrò fornire, se la Commissione riterrà opportuno acquisire il dato, un'e-mail di smentita a firma di Giorgio Comerio. Mi confrontai ovviamente con il mio direttore del tempo e decidemmo di pubblicare integralmente la smentita. Mi lasciò molto perplesso la tempistica, nel senso che fu veramente un'e-mail pressoché immediata. Il fatto che il sito internet per il quale lavoravo avesse un taglio regionale e si occupasse di fatto di questioni calabresi su tutto il territorio regionale lo rendeva difficile da comprendere. Abbiamo elaborato tante ipotesi, alcune veramente grottesche. A un dato punto arrivammo anche a pensare, dal punto di vista tecnico, che questo signore potesse avere un programma che, ogniqualvolta veniva inserito un documento su internet in cui veniva nominato, gli arrivasse una notifica. Come ripeto, fu una risposta molto immediata. Pubblicammo, dunque, la replica di Comerio e poi, dal punto di vista giornalistico, confrontandomi con il direttore, stabilimmo di vedere se, al di là di questa scarna smentita, intendesse aggiungere di più. Lo contattai, questa volta dalla mia e-mail personale e non da quella della redazione, e questa persona rispose, sostenendo in parte quanto ha poi ripetuto anche nell'intervista, ovverosia che quelle a suo carico erano tutte macchinazioni. Ricordo che in un passaggio precedente all'e-mail che poi io mandai con l'elenco delle domande, lui mi allegò un memoriale, un testo, che aveva spedito e che era stato pubblicato sul Financial Times. Dopodiché, io elaborai un elenco di domande e lo mandai all'indirizzo che avevo. Anche in questo caso ho atteso non moltissimo e alcuni giorni dopo l'articolo originario, quello che ha dato il via a tutto il confronto epistolare, pubblicammo questa intervista. Come è possibile verificare, anche per evitare che questa persona potesse nuovamente strumentalizzare la questione, l'assemblai effettuando un vero copia e incolla. Probabilmente troverete anche alcuni errori grammaticali. Non avevo corretto nulla. Questo è quanto. Ricordo che successivamente l'ultimo scambio di e-mail fu quando io mandai il link, una volta pubblicata l'intervista, e lui mi ringraziò, facendomi notare che non c'era stato alcun tipo di alterazione dei propri convincimenti.

DORINA BIANCHI. Essendo io calabrese di Crotone, conosco benissimo la testata. Da quanto lei riferisce, lei non ha mai avuto contatti vocali...

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. No, né, tantomeno, personali, ovviamente. Dubito che si trovi in Italia.

DORINA BIANCHI. Tutto è avvenuto tramite e-mail, dunque. Al di là dell'immediatezza della risposta iniziale, a distanza di quanto tempo avete avuto l'intervista?

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Tre o quattro giorni dopo. Credo che l'articolo originario fosse dei primi giorni di febbraio e l'intervista - correggetemi, se sbaglio - del 6 febbraio. Comunque erano i primi dieci giorni di febbraio.

DORINA BIANCHI. Voi avete avuto la percezione che comunque fosse realmente lui?

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. La persona che ha scritto, al di là dell'indirizzo, che ha un dominio straniero, che già potrebbe rappresentare un'indicazione, ha fornito una serie di informazioni e di passaggi, dal suo punto di vista, per carità, piuttosto dettagliati. D'altra parte, abbiamo avuto alcuni dubbi, ovviamente. Poi, però, abbiamo considerato che per fornire una risposta tanto immediata qualcuno si sarebbe dovuto spacciare per una persona che, come ricordava la senatrice, ha notevoli problemi. Io non mi metterei nei panni di una persona con tutti questi problemi. Credo che sia verosimile che dall'altra parte del computer ci fosse Comerio in persona o comunque qualcuno incaricato per conto di Comerio.

DORINA BIANCHI. Come lei ha riferito, strill ha una redazione prettamente calabrese, presente in Calabria. Avete avuto nel tempo altri contatti con Comerio?

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. No. Ci siamo occupati altre volte di questi temi, ma contatti non ne abbiamo più avuti.

DORINA BIANCHI. Non avete avuto altri contatti. È stato un unicum.

DANIELA MAZZUCONI. È verosimile pensare, però, che qualcuno in Calabria abbia compulsato il materiale che voi, di volta in volta, mettevate nel sito e abbia agito da ponte oppure, secondo lei, l'accesso al sito della vostra redazione è stato diretto dal corrispondente remoto? È una curiosità. Sarebbe interessante capirlo, perché una testata diffusa solo in Calabria normalmente non viene consultata neanche nelle altre regioni italiane. Potrebbe anche essere che qualcuno abbia visto e poi abbia agito da tramite. Ciò sarebbe inquietante, perché significherebbe che qualcuno nel sito conosce e ha contatti con Comerio.

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. All'interno del sito no. Se si intende un calabrese, come accennavo prima, la velocità con cui è arrivata la smentita - non posso essere precisissimo, perché è passato un po' di tempo, ma siamo nell'ordine di poche ore - ci lasciò intendere, ma è una mia illazione, anche perché non ho competenze informatiche così approfondite, che questo personaggio potesse avere un sorta di programma che, ogniqualvolta lui venisse nominato, gli segnalava gli aggiornamenti. È un'ipotesi che abbiamo formulato noi, perché ci ha veramente sorpreso la velocità della risposta. Abbiamo svolto lo stesso ragionamento. Noi ci occupiamo di Calabria ed è capitato più volte che ci occupassimo anche di questi temi, che abbracciano ambiti molto più ampi, ma non al punto da dover avere Comerio come abituale lettore.

PRESIDENTE. Le vorrei chiedere di comunicarci l'indirizzo e-mail di Comerio. Nell'intervista, verso la fine, attraverso le domande che voi avete rivolto a Comerio, cui lui ha risposto, alla fine si chiede: «Lei pensa di apparire o di scomparire di nuovo?». Comerio ha risposto: «Io non debbo né apparire, né scomparire». Secondo un suo rapporto avuto tramite e-mail - visto che non ha avuto la possibilità di parlargli - che impressione, che valutazione si è creato rispetto al personaggio? Se non ha problemi di scomparire o di apparire, perché si pone in questa condizione?

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Io credo che la Commissione conosca anche meglio di me - io ne ho scritto nel mio libro - i tipi di coinvolgimenti, cointeressenze e appoggi di cui, secondo atti di indagine, può aver goduto in passato, e non so se anche oggi, Comerio. Sicuramente la mia opinione è che sia un personaggio degno di attenzione. Lui sostiene di essere di fatto una persona libera, cioè di non avere alcun mandato che lo obblighi a dover comparire di fronte a qualsiasi Autorità. Io non ho elementi per smentire o confermare questa notizia, ma sicuramente, per quanto è a mia conoscenza e che ho messo anche per iscritto, è un personaggio che quantomeno in passato ha goduto di diverse cointeressenze.

PRESIDENTE. Ha avuto anche una condanna.

DORINA BIANCHI. Alla domanda che ha richiamato il presidente, cioè «scomparirà un'altra volta?», Comerio risponde: «Non dipende da me, ma da voi». A quanto pare, però, è scomparso comunque. Non si è fatto più risentire.

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. No, non si è fatto più risentire. Ora vado più a intuito. Non ho memoria di un articolo specifico. Come strill, anche io, con il sito di cui ora sono direttore, mi sono occupato di questa tematica, proprio perché, come accennavo in apertura, è una tematica che mi sta molto a cuore. Se la sua apparizione è stato un unicum, di Comerio si è continuato a trattare anche da parte mia. Ne parleremo anche nei prossimi giorni, perché proprio domani, per inciso, cade l'anniversario della morte di un altro personaggio, Natale De Grazia, il capitano che indagava sulle navi dei veleni. Cerchiamo spesso di approfondire o di ricordare quello è avvenuto con riferimento a queste tematiche. Con riferimento, invece, all'indirizzo e-mail, ve lo fornirò, ma forse è il caso di segretare questo passaggio. Valutate voi.

PRESIDENTE. Dispongo la disattivazione dell'impianto audio. (I lavori della Commissione proseguono in seduta segreta).

PRESIDENTE. Dispongo la riattivazione dell'impianto audio. (I lavori della Commissione proseguono in seduta pubblica).

DORINA BIANCHI. Non so se possiamo riferire quanto ci è stato comunicato stamattina sulla morte di De Grazia. Noi oggi abbiamo ricevuto una relazione sulla presunta causa di morte di De Grazia, dalla quale pare che non ci sia stato un problema di tipo cardiaco, ma di tipo tossico. Lo cito per riallacciarmi al tema.

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Anche gli ambientalisti e i familiari hanno sostenuto che le motivazioni stesse per le quali De Grazie fu insignito della medaglia dal Presidente della Repubblica era che si lasciavano intendere, purtroppo, storie molto oscure. Io ovviamente non sapevo di questo passaggio.

PRESIDENTE. La ringraziamo. Se ha nell'immediato ulteriori contatti con Comerio, ce lo faccia sapere.

CLAUDIO CORDOVA, Redattore della rivista on line www.strill.it. Sicuramente. Grazie.

PRESIDENTE. Ringraziando il nostro ospite, dichiaro conclusa l'audizione.

La relazione della Commissione Ecomafie: il ruolo oscuro dei Servizi, scrive Claudio Cordova su "Il Dispaccio" - Il dato numerico più esplicativo per corroborare le conclusioni cui arriva la Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti è il 500. Sono ben 500 i milioni di lire che il Sismi (i Servizi Segreti militari) spenderà, solo nel 1994, per i servizi d'intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi. Con la relazione sulle "navi dei veleni", la Commissione di Gaetano Pecorella mette un punto fermo sul ruolo che gli 007 italiani avrebbero potuto svolgere nelle oscure vicende che riguardano lo smaltimento di scorie. 308 pagine quelle redatte da Pecorella e da Alessandro Bratti che mettono nero su bianco alcuni dei sospetti più inquietanti che le associazioni ambientaliste (su tutte Legambiente) sollevano da molti anni. Secondo un dossier di Legambiente, infatti, gli affondamenti sospetti di navi, tra il 1979 ed il 2000, sarebbero 88. E tutto nasce, nel 1994, proprio da una denuncia dell'associazione ambientalista alla magistratura reggina sull'interramento di rifiuti in Aspromonte. Si formerà così un pool di investigatori, composto, tra gli altri, dal pm Francesco Neri e dal Capitano di Corvetta, Natale De Grazia, che, ben presto, allarga i propri orizzonti. Contemporaneamente allo svolgimento degli accertamenti sulle caratteristiche del territorio calabrese, giunse alla procura di Reggio Calabria la notizia che la nave Koraby, battente bandiera albanese e salpata dal porto di Durazzo con destinazione Palermo, era stata perquisita nella rada antistante Pentimele perché sospettata di trasportare materiale radioattivo (scorie di rame di altoforno). La nave, giunta a Palermo, era stata respinta per radioattività del carico. Tuttavia, al successivo controllo presso il porto di Reggio Calabria, ove si era ormeggiata, la radioattività non era stata riscontrata. La nave aveva, perciò, ripreso la sua navigazione con destinazione Durazzo: "Questo dato – è scritto nella relazione -  è stato rappresentato dal dottor Neri come particolarmente inquietante perché poteva far presumere che la nave si fosse disfatta del carico radioattivo nel percorso tra Palermo e Reggio Calabria". Il tema, dunque, è quello delle "navi a perdere", in cui un ruolo fondamentale sarebbe stato giocato dall'ingegner Giorgio Comerio che, con la sua ODM, avrebbe progettato (e secondo qualcuno realizzato) un sistema di smaltimento di scorie radioattive nei fondali soffici e profondi. L'abitazione di Comerio verrà anche perquisita proprio da Natale De Grazia, che ritroverà un serie molto lunga di dati: "Agende, video-tape, dischetti magnetici, fascicoli relativi alla commercializzazione del progetto Euratom (DODOS) trafugato a detto ente (centro Euratom di Ispra) clandestinamente dal Comerio stesso (...) Veniva sequestrata anche numerosa corrispondenza (e fotografie) di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l'autorizzazione a smaltire in mare rifiuti radioattivi. Si accertava così che soci nell'affare erano tale Paleologo Mastrogiovanni (presunto principe dell'Impero di Bisanzio) e tale Dino Viccica, uomo ricchissimo che avrebbe dovuto finanziare l'operazione «Sierra Leone» (...) Al riguardo il console onorario della Sierra Leone sentito in merito ha confermato che il Comerio ha concluso l'affare con i governanti di detti Stati corrompendo un ministro. (...)»". Proprio con riferimento alla figura di Comerio arrivano i passaggi più interessanti, allorquando si parlerà dei presunti rapporti che Giorgio Comerio avrebbe avuto con gli stabilimenti Enea di Rotondella (Matera) e Saluggia (Vercelli), che per anni saranno sospettati per un eventuale coinvolgimento nei traffici di scorie. Dal racconto di uno dei funzionari: "Non vi è dubbio che il Comerio ha avuto rapporti diretti con l'Enea se intendeva smaltire rifiuti radioattivi in mare (...) Addirittura nella strategia dell'ente si sta cercando di eliminare ogni prova o traccia di rapporti tra il Comerio ed altri dirigenti dell'ente. Il Comerio infatti ha offerto all'ente i suoi servigi circa lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi". L'Enea peraltro sarebbe stata infiltrata dalla massoneria: "Proprio per il tramite della massoneria deviata i traffici illeciti del materiale nucleare e strategico o quelli relativi allo smaltimento in mare possono essere attuati nell'ambito dell'Ente ai massimi livelli e con la copertura più ferrea compresa quella con i servizi deviati, da sempre e notoriamente coinvolti in detti traffici". La relazione di Pecorella e Bratti, però, punta l'attenzione anche sulla sospetta morte di Natale De Grazia, proprio mentre si recava a La Spezia (uno dei porti-chiave dei traffici) per svolgere delle indagini non meglio identificate: "Deve sin d'ora sottolinearsi come questo approfondimento, teoricamente agevole in quanto erano state predisposte deleghe di indagine da parte del pubblico ministero procedente, si è rivelato nei fatti difficoltoso. La documentazione acquisita, costituita da ben sei deleghe, alcune delle quali conferite specificatamente ai militari in missione, non si è rivelata risolutiva in quanto le deleghe in questione sono state formulate in modo alquanto generico. Non è noto se per ragioni precauzionali e di riservatezza o per lasciare ampio margine di manovra agli ufficiali di polizia giudiziaria. Neppure chiarificatrici sono state le dichiarazioni rese sul punto da quegli stessi ufficiali che parteciparono alla missione in questione. Contraddittorie, infine, sono state le informazioni acquisite dagli altri investigatori impegnati nell'indagine". Più volte la relazione parlerà di misteri, contraddizioni e passaggi per certi versi inspiegabili. A parte l'audizione di una fonte anonima, infatti, non troverà conferme la circostanza secondo cui De Grazia stesse andando a La Spezia per indagare sul conto di una nave, la Latvia, diversa dalle più famose Rigel e Rosso, su cui, finora, si è puntata l'attenzione. Dal racconto della fonte: "(...) sulla nave di Capo Spartivento il capitano De Grazia doveva venire a La Spezia a conferire con me e con Tassi con riferimento ad un'altra nave, la Latvia, ex nave del KGB sovietico che era ormeggiata a fianco di una struttura della marina militare nell'area del San Bartolomeo. Poi, questa nave è stata monitorata. (...) Questa nave era stata poi acquistata da una società fatta a La Spezia, non ricordo il nome ma non è difficile recuperarlo, (...) È stata ormeggiata alcuni mesi sulla diga foranea a La Spezia. (...) questa nave era rimasta ormeggiata prima ad un molo prospiciente il comando Nato dell'Alto Tirreno a La Spezia, quindi nell'area del San Bartolomeo proprio sotto la discarica Pitelli ed era stata acquistata da una società costituita da alcuni industriali e altri di La Spezia (...). Non poteva prendere il mare, era smantellata e priva di equipaggio. Poi, improvvisamente, questa nave dopo la costituzione di questa società che aveva recuperato questa nave come rottame, ha preso il largo trainata da un rimorchiatore che credo fosse turco ed è arrivata in Turchia. Voci dicevano che fosse stata riempita, non riempita, ma che fosse stato immesso del materiale particolare sulla nave prima della sua fuoriuscita dalla rada di La Spezia. Questo era uno dei lavori che abbiamo fatto io e l'ispettore Tassi del Corpo forestale". Ma una delle peculiarità dell'indagine condotta dal dottor Neri sarà certamente quella della costante interlocuzione con il Sismi al quale vennero richieste informazioni e documenti sia su Comerio sia, più in generale, su tutti i temi oggetto di inchiesta (traffico di rifiuti radioattivi, traffico di armi, affondamenti di navi). Sui rapporti con il Sismi riferirà anche il maresciallo Moschitta, uno dei compagni dell'ultimo viaggio di Natale De Grazia: "Un giorno mi presento al Sismi e sequestro un documento, con tanto di provvedimento del magistrato. Ho trovato grande collaborazione nel generale Sturchio, il capo di gabinetto. Mi chiese se volessi il tale documento e me lo dettero tranquillamente. (...) Chiedevamo se avevano qualcosa su Giorgio Comerio. Il primo documento che emerse mostrava che Giorgio Comerio era colui il quale aveva ospitato in un appartamento, non so se di sua proprietà, a Montecarlo l'evaso Licio Gelli". Ma la presenza dei Servizi non sarebbe stata solo corretta e leale. Nel corso delle tante audizioni ascoltate dalla Commissione, infatti, sarà prospettato un ulteriore ipotetico interessamento dei Servizi all'indagine svolta dal dottor Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla Procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria. Dalle dichiarazioni del Colonnello Rino Martini, del Corpo Forestale dello Stato: "In quel periodo, si verificarono due episodi. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un'altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trent'anni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio. Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell'autovettura siamo risaliti al proprietario: il Sisde di Milano. Non ho altri episodi da raccontare. Certamente, c'era un controllo telefonico e attività ambientali di verifica su come ci muovevamo".  Gli inquirenti si accorgeranno di essere spesso, spessissimo, osservati o pedinati. Sospetti condivisi anche dal maresciallo Moschitta: "Il muro di gomma su cui inevitabilmente andava a cozzare l'attività degli inquirenti e della polizia giudiziaria ha rappresentato il principale ostacolo da abbattere per poter entrare nei meandri del fenomeno in esame. È sembrato che forze occulte di non facile identificazione controllassero passo passo gli investigatori nel corso delle diverse attività svolte. In effetti, sentivamo che c'era qualcosa. Qualcuno ci pedinava, però nessuno si manifestava. [...] Parlo di impressioni di investigatori, non di falegnami o baristi. Capivamo che qualcosa attorno a noi non quadrava". I Servizi entrano un po' ovunque. Nelle dichiarazioni (giudicate inattendibili) del collaboratore di giustizia Francesco Fonti, ma anche nello spiaggiamento, ad Amantea, della Motonave Rosso. Significative, in tal senso, le contraddittorie dichiarazioni del Comandante della Capitaneria di porto di Vibo Valentia Giuseppe Bellantone. Questi sentito all'epoca dai magistrati nel corso dell'inchiesta che gli stessi stavano svolgendo sulle "navi a perdere", dichiarerà testualmente: "Ricordo che destò la mia curiosità la circostanza riferitami di un continuo andirivieni di persone e di mezzi in particolare nelle ore notturne. Effettivamente mi venne riferito che si erano recati a bordo militari dell'Arma dei carabinieri nonché agenti dei servizi segreti". Proprio al fine di chiarire questi aspetti la Commissione sentirà l'ex comandante Giuseppe Bellantone, che rilascerà dichiarazioni in parte diverse, ridimensionando il significato delle espressioni usate all'epoca della sua escussione da parte dei magistrati di Reggio Calabria: "Io voglio precisare che non ho mai detto che ci fossero agenti dei servizi segreti. Ho detto che ho avuto l'impressione che ci fossero dei rappresentanti dei servizi segreti, a causa del modo di fare che questi soggetti avevano, del loro modo di presentarsi, girare attorno e guardare (...) io avevo il mio personale che andava a bordo, che girava e guardava. Il personale della Guardia di finanza controllava allo stesso modo. Qualcuno mi diede questa notizia, ma io non la approfondii. Ho avuto anch'io l'impressione che ci fosse qualcosa, ma non ho approfondito la questione. Mi sarà stato riferito da qualcuno dei miei uomini, oppure da qualcuno della Guardia di finanza o dei Carabinieri che erano lì sul posto, ma non saprei dirvi con precisione chi mi ha detto quelle cose (...) Qualcuno me lo ha riferito, però se lei mi chiede di chi si trattava, non so risponderle. Non posso ricordarmelo. Se lo avessi ricordato, lo avrei detto anche al magistrato". A parlare dell'interessamento dei Servizi Segreti sarà anche il dottor Alberto Cisterna, magistrato che, dopo la morte di De Grazia e lo sfaldamento del pool, erediterà le indagini di Neri.  Secondo quanto riferito dal magistrato i servizi gli chiesero espressamente di proseguire quella collaborazione che già avevano prestato allorquando le indagini erano coordinate dal sostituto procuratore circondariale Francesco Neri: "Va detto che in quel processo comparivano tante carte e non erano ben chiare le fonti; questo si collega a quella vicenda su cui ho mantenuto una posizione precisa, ossia quando il servizio segreto militare offrì, nel cambio di titolarità, di proseguire nell'attività di collaborazione. Ricordo a mente che fosse una prosecuzione, ma comunque vedo in una nota di una dichiarazione alla stampa del collega Neri confermare il dato che il Sismi avesse collaborato nella prima parte. Questa lettera arrivò in una doppia busta chiusa, cosa per me ignota. Ero stato giudice fino allora e, quindi, avevo poca esperienza di contatti che, per carità, magari sono anche normali. Operativamente anche in quegli anni si è lavorato con i servizi, nella misura in cui offrivano ausilio informativo, fino alla circolare Frattini, che fece divieto di queste forme di contatto. Non era il dato in sé che preoccupava, quanto il fatto che non fosse chiaro in che cosa si dovesse estrinsecare questa collaborazione. D'accordo con il procuratore, la lettera venne cestinata e messa da parte, decidendo di non rispondere e di andare avanti per conto nostro". E sull'azione dei Servizi non sarà particolarmente utile neanche l'audizione del direttore del Sismi dell'epoca, il generale Sergio Siracusa, attualmente consigliere del Consiglio di Stato: ""Il servizio è sempre stato molto interessato alle scorie radioattive e a che fine facessero queste scorie. Non solo le scorie delle centrali in funzione, ma era anche interessato alle centrali già dismesse, per lo stesso motivo, ed anche allo smantellamento delle armi nucleari dovute agli accordi successivi alla caduta del muro di Berlino (...) nel sommario delle attività svolte nel 1994 e precedenti inviata al Presidente del Consiglio c'è un capitolo proprio dedicato allo stoccaggio di materiale radioattivo in cui si indicava con un certo dettaglio qual era stata l'attività svolta, vale a dire il censimento delle centrali nucleari, tutte quelle di interesse, comprese quelle dell'Europa orientale, quindi della Russia, della Comunità di stati indipendenti intorno alla Russia" dirà Siracusa che escluderà inoltre qualsiasi coinvolgimento con Comerio precisando che l'attività svolta dal Sismi con riferimento a Comerio era esclusivamente di carattere informativo, nell'ambito della collaborazione che il Sismi aveva avviato con la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Quanto al capitano De Grazia, dichiarerà di avere appreso della vicenda leggendo i resoconti della Commissione. Testualmente: "Non avevo cognizione a quei tempi della morte in quelle circostanze, della sua attività che stava svolgendo insieme ad altri del nucleo di polizia giudiziaria in questo specifico settore". Una circostanza che la stessa Commissione definisce "particolare" e che spinge i relatori Pecorella e Bratti a conclusioni assai dure: "Il dato che risulta evidente è che la magistratura non è stata adeguatamente supportata per affrontare indagini così complesse sia per l'oggetto sia per l'estensione territoriale, trattandosi di traffici transazionali. Ne è un esempio significativo l'indagine portata avanti dalla procura circondariale di Reggio Calabria, che poteva contare sull'apporto di un gruppo investigativo composto da pochi uomini, seppur qualificati [..] È ovvio che in un contesto siffatto un ruolo necessariamente predominante lo abbiano avuto i servizi di sicurezza. Si tratta del loro privilegiato campo d'azione, quello cioè in cui è necessario agire in modo determinato, e imbastire una fitta rete di relazioni funzionali ad avere consapevolezza degli accadimenti e quindi funzionale alla possibilità di interagire con essi. Sembra però che la dedotta "ignoranza ufficiale" dei servizi di sicurezza in ordine a vicende che di per sè appaiono come assai sospette: morte del Capitano De Grazia, spiaggiamento della motonave Jolly Rosso, debba necessariamente ascriversi o ad uno svolgimento di tale attività in modo non esauriente o negligente, ovvero a ragioni inconfessabili, non necessariamente illecite".

"Su di me dette e scritte solo fantasie". Il memoriale dell'affondatore di veleni, scrivono Anna Maria De Luca e Paolo Griseri su “La Repubblica” l'08 dicembre 2009. La nave "Mare Oceano" che ha condotto le ricerche sulle navi dei veleni. Ecco il memoriale di Giorgio Comerio, l'uomo al centro delle inchieste delle procure italiane sul traffico di veleni di cui per anni è stato accusato di essere uno dei registi. Al punto che, intervenendo in Parlamento a nome del governo, Carlo Giovanardi lo ha definito "noto trafficante". Comerio ci ha inviato il testo per posta elettronica. Si tratta delle tesi difensive che lo stesso Comerio intende sostenere per replicare a quelle che lui definisce "fantasie" e che sono state invece oggetto delle inchieste dei pm. Nel memoriale Comerio dà le sue spiegazioni sui punti più controversi della sua attività dalla Somalia connection alla scoperta del certificato di morte di Ilaria Alpi ritrovato tra le sue carte. E poi ancora: l'agenda con la scritta "lost ship" annotata proprio il giorno in cui affondò la "Rigel", al largo di Reggio Calabria, una delle presunte navi dei veleni. Comerio inizia spiegando i suoi progetti di affondamento dei rifiuti tossi sotto i fondali marini, portati avanti con i governi di mezzo mondo: "La tecnologia Free Fall penetror's - scrive - è stata sviluppata dagli Stati Membri della Comunità europea, congiuntamente con gli Stati Uniti, Svizzera e Canada per un investimento totale di circa 300.000.000 dollari USA. La tecnologia è una libera proprietà comune di tutti i cittadini delle nazioni che hanno investito su questo. I risultati sono pubblici e disponibili. E' possibile acquistare numerosi volumi a Parigi, in una libreria specializzata in tecnologia, che mostrano tutti gli studi e le analisi effettuate nell'Oceano Atlantico e dove si possono trovare anche le immagini delle testate penetratrici. Ma gli studi non sono stati continuati a causa della indisponibilità di fondi". In realtà il sistema di affondamento dei rifiuti con siluri sarebbe stato bloccato perché una convenzione internazionale vieta questa pratica. Comerio contesta questa versione spiegando che la rinuncia a utilizzare il sistema "non ha niente a che fare con la London Dumping Convention che in quel periodo non era in vigore e non era stata firmata da diverse nazioni come Stati Uniti, Australia, Russia, ecc". Addirittura, aggiunge, "la Federazione Russa per diversi anni (ma anche ora?) ha disperso rifiuti radioattivi incapsulati in elementi di cemento nel mare di Barents e Kara, vicino all'isola Novaja Zemija. Nessuno poteva fermare quella attività". Infatti, sostiene Comerio, "la London Dumping Convention riguardava solo lo smaltimento illegale dei rifiuti in mare e non un sistema ben realizzato e sicuro per depositare penetratori sotto il letto del mare in zone sicure, con una precisa mappatura subacquea e test di prova per la procedura". Comerio iniziò quindi in quegli anni la sua attività "ma solo dopo aver ricevuto una risposta positiva circa l'uso dei Free Fall Penetrators". La risposta veniva "da un consulente di diritto internazionale con sede a Locarno (Svizzera). Solo a quel punto iniziai l'attività di marketing offrendo la tecnologia (e non i servizi di dumping) agli enti governativi interessati". Comerio definisce l'uso della Free Fall Penetrators "un modo per risolvere il livello medio dello smaltimento dei rifiuti radioattivi (composto da elementi radiologici ospedalieri, tute di lavoro ecc ma non da elementi ad alta energia). Una soluzione capace di ridurre la dipendenza dall'uso del petrolio e dai signori del petrolio". E racconta come "la tecnologia sia stata presentata ufficialmente dall'European Joint Research Centre in numerosi eventi pubblici dedicati alla tecnologia, mostrando i modelli, immagini, video, diagrammi, per vendere l'uso di un certo numero di elementi hardware che compongono il sistema, sia ai privati che alle società". Niente di illegale quindi, secondo l'autore del memoriale, perché "è stata una strategia finanziaria della Comunità europea per provare a recuperare un minimo degli investimenti fatti, incassando royalties dallo sviluppo dei diversi elementi di tecnologia che compongono il sistema di smaltimento. Con nessun risultato. Uno dei team leader di quel periodo, il prof. Dr. Avogadro, potrebbe confermarlo". In questo quadro Comerio si definisce "uno dei diversi fornitori di elementi che compongono il sistema: "Ho venduto al Jrc la boa in grado di raccogliere dati sott'acqua e di trasmettere tutte le informazioni da un satellite ad una stazione centrale di controllo che si trova in Germania". Anni dopo Giorgio Comerio fonda Odm, "come un provider che offre la sua tecnologia solo a organi di Governo o a società governative. Odm non è mai stato in contatto con soggetti privati, ma solo con le istituzioni nazionali tramite le ambasciate. Odm non è mai stato coinvolto in alcuna attività illegale. L'attività iniziale di marketing è stata fatta presso l'Ufficio del Lugano, illegalmente attaccato dagli attivisti di Greenpeace. Ogni tipo di documento è stato analizzato dalla polizia svizzera e dal Procuratore di Lugano e, dopo due settimane di dettagliate analisi, la Corte svizzera ha riconosciuto che l'attività Odm era solo un legal marketing preliminare senza connessioni con qualsiasi tipo di attività illegale o criminale. In seguito gli attivisti di Greenpeace tedeschi sono stati condannati dalla Corte di Lugano. L'attività di marketing è stata realizzata contattando solo le ambasciate delle possibili nazioni interessate. Senza alcun risultato (testualmente with no result at all). Dopo questi eventi l'ufficio Odm è stato chiuso e l'attività di marketing è stata stoppata". Questa versione dei fatti contrasta con il fatto che Comerio è stato accusato dalla magistratura italiana di aver partecipato, in realtà, a un vasto traffico di armi e veleni. Ecco le risposte che l'accusato ha voluto fornirci. Comerio inizia dicendo che "la fantasia italiana è uno sport nazionale" e che "copie dei documenti di Comerio sono stati presi in consegna, come 'corpo del reatò da parte della procura di Catanzaro e delle copie sono state "diffuse" da attivisti di Greenpeace su testate "specializzate" come "Cuore", "Il Manifesto", "L'Espresso", ecc ecc. Risultato: una serie di fantastiche "connessioni" riportate dalla stampa italiana". E le affronta una per una. Somalia connection. Comerio dice che la tecnologia Odm era pubblica e totalmente disponibile sul web in diverse lingue. Senza segreti, nessun modo di agire "sotto il tavolo". E spiega: "Odm è stato avvicinato da un gran numero di studenti, ricercatori e anche uomini d'affari. Uno di loro ha proposto di prendere contatto con il Governo somalo. Ma prima di prendere qualsiasi contatto con l'ambasciata somala, Odm ha chiesto all'Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra (Svizzera) un chiarimento sul governo della Somalia. La risposta è stata negativa. Al momento sembrava non ci fossero ufficiali in ricognizione per conto del Governo. Così Odm non ha proceduto in ulteriori contatti con l'uomo d'affari privato".

Ilaria Alpi connection. Scrive Comerio: "Si tratta di una pura falsità. Sembra che in casa mia sia stato trovato un inesistente certificato di morte della signorina Alpi. L'unico certificato di morte che avevo era quello della signora Giuseppina Maglione, morta il 9 febbraio 1996, per il cancro, mia suocera".

"Jolly Rosso". "Sulla stampa è stata pubblicata una storia divertente. A bordo della Jolly Rosso sarebbe stata trovata una mappa dei fondali del mare realizzata da Odm con possibili sedi di dumping nel mare Mediterraneo. Ma nessuna delle autorità ha mai mostrato questa mappa. Del tutto normale. Odm ha iniziato la sua attività anni dopo lo spiaggiamento della Jolly Rosso, e non sono stati individuati luoghi valutati da Odm come aree di smaltimento nel mare Mediterraneo".

La connessione "Rigel" e la differenza tra "Lost" e "affondato". "Per Greenpeace e la Procura di Palermo c'è una connessione tra Comerio e una nave "Rigel" scomparsa presso l'isola di Ustica. Il motivo? Dentro una delle agende del signor Comerio è stata scritta la frase 'perso la navè nella settimana nella quale sembra scomparsa una nave nei pressi di Ustica .. In effetti il signor Comerio a quel tempo perso il traghetto dalla Gran Bretagna alla Francia. (Vela da St. Peter Port - Guernsey - a St. Malo - Francia). Era abbastanza difficile da spiegare che "perso" non significa "sommerso" .. Dopo mesi di indagini la connessione con Comerio è stata abbandonata".

Affondamenti illegali nel Mediterraneo. È il capitolo più scottante nelle vicende che lo riguardano. Comerio risponde in modo articolato e parlando in terza persona. "Per un certo numero di giornalisti - scrive - lo scarico dei rifiuti illegali nel Mediterraneo era legato ai piani di ODM". Ma questo, dice, è falso per diverse ragioni: "Prima di tutto nelle mappe del ODM tra le possibili aree di smaltimento non c'era nessuno punto nel Mar Mediterraneo. Tutti i settori considerati erano solo in oceano aperto. In secondo luogo: il signor Comerio non è mai stato in contatto con elementi criminali: non vi è alcuna prova di un contatto del genere in tutta la sua vita. In terzo luogo, per un lungo periodo il signor Comerio ha lavorato con la sua società Georadar proprio per smascherare le discariche di rifiuti chimici pericolosi. Georarad ha goduto di importanti citazioni in letteratura scientifica. È stata citata su riviste e nei servizi della Rai3 Lombardia. La tecnologia Georadar è stata presentata dal dottor Comerio al Collegio degli ingegneri di Milano con positivi riscontri. Quella stessa tecnologia è stata utilizzata dalle Ferrovie, da Enel, Sirti, Agip e da importanti società in Italia, Svizzera e Germania. Le attività di Georadar sono iniziate nel 1988-89". Grazie a quella tecnologia (un sistema di indagine sotterranea), Comerio sostiene di "essere stato incaricato di collaborare con i giudici di Milano Antonio Di Pietro e Francesco Greco. Con il primo per scoprire alcuni fusti nascosti in diverse località del Nord Italia, con il secondo durante le indagini su un rapimento".

Nel memoriale si aggiunge che "Comerio ha collaborato a diverse ricerche archeologiche in antiche chiese nel Nord Italia e ha collaborato alla scoperta a Roma dei resti del ponte di Muzio Scevola. All'epoca ha lavorato per il ministero dei Beni Culturali. Per un breve periodo è stato anche iscritto al Partito dei Verdi a Milano". Ecco dunque la conclusione: "La storia personale del signor Comerio mette in evidenza come egli abbia sempre lavorato a fianco della Legge e della difesa dell'ambiente e mai contro".

Mafia, 14 aprile 2015, Strasburgo su Contrada: «Non andava condannato». Bruno Contrada non doveva essere condannato secondo la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. "Dispiace che l'abbia fatto così tardi", commenta l'avvocato Giuseppe Lipera, difensore dell'ex 007 riconosciuto colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa. "E' un reato che non esiste nel codice penale tutt'ora vigente, se lo sono inventati certi magistrati", afferma il legale.

All’epoca dei fatti (1979-1988), reato non «era sufficientemente chiaro». Lo Stato deve versare a ex 007 10 mila euro per danni morali. Lui: «Sentenza sconvolgente», scrive "Il Corriere della Sera”. Bruno Contrada, ex poliziotto, ex capo della mobile di Palermo, non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all’epoca dei fatti (1979-1988), il reato non «era sufficientemente chiaro». Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani. Lo Stato italiano deve versare all’ex numero tre del Sisde (l’ex servizio segreto civile, oggi Aisi) 10 mila euro per danni morali. A caldo, l’ex 007 dice: «Sentenza sconvolgente, dopo una vita devastata». Per la Corte, più in dettaglio, l’Italia ha violato l’articolo 7 della Convenzione europea per i diritti umani che stabilisce che non ci può essere condanna senza che il reato sia chiaramente identificato dai codici di giustizia. Nel caso della fattispecie di reato contestata a Contrada, il concorso esterno in associazione mafiosa, la Corte nota che essa «non era sufficientemente chiara e prevedibile per Contrada ai tempi in cui si sono svolti gli eventi in questione», e quindi ha riconosciuto la violazione, in quanto le pene non possono essere applicate in modo retroattivo. L’ex funzionario del Sisde (tornato in libertà dopo avere scontato la pena) era stato condannato in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, dopo le accuse di diversi collaboratori di giustizia di passare informazioni a Cosa nostra e di avere consentito la fuga di pericolosi latitanti, come il boss Totò Riina, ricevendo la «copertura» di non identificati vertici istituzionali. Contrada è stato arrestato la prima volta il 24 dicembre 1992 e detenuto in carcere fino al 31 luglio 1995. Dal 10 maggio 2007 al 24 luglio 2008 è stato nel carcere militare a Santa Maria Capua Vetere, dal 24 luglio 2008 è agli arresti domiciliari nella sua abitazione di Palermo per il suo stato di salute. A giugno 2012 la Cassazione, ancora una volta, aveva detto «no» alla richiesta di revisione del processo. Contrada negli anni è stato un investigatore di punta dell’antimafia, a più riprese è stato capo della squadra mobile di Palermo negli anni 70, poi dirigente della Criminalpol, capo di gabinetto dell’Alto commissariato antimafia e, infine, «numero tre» del Sisde. La condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa risale al maggio del 2007. «Sono frastornato, sconvolto, ansioso di sapere di più». Così Bruno Contrada parla della decisione della Corte di Strasburgo. Raggiunto al telefono dall’Agi, Contrada dice: «Lei sta parlando con un uomo la cui vita è stata devastata da 23 anni, dal 1992 ad oggi: ho subito sofferenza, dolore, umiliazione e devastazione della mia esistenza e della mia famiglia. Si può immaginare ed è intuibile qual è il mio stato d’animo in questo momento. Aspetto di leggere la sentenza -conclude l’ex numero tre del Sisde- per rendermi conto di cosa dice e per quale motivo è stato accolto il mio ricorso». «Ho presentato due mesi fa la quarta domanda di revisione del processo a Bruno Contrada e la Corte di appello di Caltanissetta mi ha fissato l’udienza il 18 giugno. La sentenza di Strasburgo sarà un altro elemento per ottenere la revisione della condanna». Lo dice l’avvocato Giuseppe Lipera, legale dell’ex agente Sisde. «Ora capisco perché nonostante le sofferenze quest’uomo a 84 anni continui a vivere», conclude Lipera che ha telefonato subito a Contrada per comunicargli la notizia.

Mafia, la Corte di Strasburgo: "Contrada non andava condannato". Lui: "La mia vita è distrutta". Il reato contestato "non era sufficientemente chiaro". Stato italiano condannato a versare 10 mila euro per i danni morali. L'ex agente del Sisde: "Sentenza sconvolgente", scrive “La Repubblica”. Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non "era sufficientemente chiaro". Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani. Lo Stato italiano deve versare all'ex numero due del Sisde 10 mila euro per danni morali. Già nel 2014 la corte di Strasburgo aveva condannato l'Italia per la detenzione dell'ex funzionario del Sisde. Secondo i giudici le condizioni di salute di Contrada, tra il 2007 e il 2008, non erano compatibili con il regime carcerario. Adesso i suoi legali puntano alla revisione del processo. "Ho presentato due mesi fa la quarta domanda di revisione e la corte di appello di Caltanissetta mi ha fissato l'udienza il 18 giugno. La sentenza di Strasburgo sarà un altro elemento per ottenere la revisione della condanna", commenta l'avvocato Giuseppe Lipera legale dell'ex numero 2 del Sisde dopo al decisione della Corte europea dei diritti umani. "Ora capisco perché nonostante le sofferenze quest'uomo a 84 anni continui a vivere", conclude Lipera. "Sono frastornato, sconvolto, ansioso di sapere di più", commenta a caldo Bruno Contrada. "Lei sta parlando con un uomo la cui vita è stata devastata da 23 anni, dal 1992 ad oggi: ho subito sofferenza, dolore, umiliazione e devastazione della mia esistenza e della mia famiglia. Si può immaginare ed è intuibile qual è il mio stato d'animo in questo momento. Poco fa ho sentito il mio avvocato che mi ha comunicato la decisione della Corte europea per i diritti dell'uomo. Aspetto di leggere la sentenza -conclude l'ex numero tre del Sisde- per rendermi conto di cosa dice e per quale motivo è stato accolto il mio ricorso". Da 23 anni la sua vicenda giudiziaria tiene banco non solo nelle aule di giustizia italiane ed europee ma anche nel dibattito politico e giudiziario perchè Bruno Contrada, 84 anni, napoletano ma palermitano d'adozione, quando fu arrestato era ai vertici degli apparati investigativi italiani, numero tre del Sisde, dopo aver percorso tutte le tappe dell'investigatore da dirigente di polizia ad alto funzionario dei servizi segreti nell' arco di un trentennio. Arrestato, la vigilia del Natale '92, l'anno delle stragi palermitane, poi a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa, è stato condannato a 10 anni di carcere il 5 aprile '96. Sentenza ribaltata in Corte d'appello il 4 maggio 2001: assolto. La Cassazione ha rinviato gli atti a Palermo. Poi la nuova condanna a 10 anni nel 2006, dopo 31 ore di Camera di consiglio della Corte d'appello palermitana, e la conferma della Cassazione l'anno successivo. Quindi il carcere, i domiciliari e poi la fine pena nell'ottobre 2012. Sono poi cominciati i tentativi di revisione del processo e gli appelli alla corte di Strasburgo per i diritti umani. Italia condannata due volte: nel febbraio 2014 perché il detenuto non doveva stare in carcere quando chiese i domiciliari per le sue condizioni di salute e oggi perchè l'ex poliziotto non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non "era sufficientemente chiaro". Contrada in questi anni ha sempre combattuto per "salvaguardare - diceva - l'onore di un uomo delle istituzioni". "Voglio l'onore che mi hanno tolto, non ho perso fiducia nello Stato" ripeteva. Ha parlato dei tanti collaboratori di Giustizia che lo accusavano, con disprezzo, ricordando quando lui e i suoi uomini della questura di Palermo li arrestavano trattandoli come delinquenti e presentavano ai magistrati dossier corposi sulla mafia. E si è sfogato, in questi anni, con gli amici su quella nebbia che nel processo è sembrata calare sul suo rapporto col capo della mobile di Palermo, Boris Giuliano, assassinato nel luglio '79 da Leoluca Bagarella mentre prendeva un caffè da solo al bar. "Eravamo due fratelli - ha detto - lavoravamo fianco a fianco. Non mi sono mai fermato nelle indagini sul suo omicidio". Sono stati scritti almeno quattro libri sulla sua vicenda giudiziaria e migliaia di articoli di giornale che hanno aperto dibattiti nel mondo politico e che hanno diviso l' opinione pubblica italiana.

Dell'Utri e la balla dei libri rubati. L'ex senatore, in carcere a Parma, viene accusato dai mass media di avere "ricettato decine di migliaia di libri antichi". Ma non è vero, scrive Maurizio Tortorella su "Panorama". Ancor più che nel salto sul carro del vincitore, uno sport nel quale eccellono a livello mondiale, gli italiani sono campioni olimpionici nel tiro allo sconfitto. Prendiamo Marcello Dell’Utri: già senatore di Forza Italia e del Pdl, dal 13 giugno 2014 Dell’Utri è recluso nel carcere di Parma a causa di una controversa condanna definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. L’uomo è atterrato, vinto. Anche se negli anni Novanta ha già dato prova di una grande tempra, durante una lunga custodia cautelare nel carcere di Torino, dove aveva trascorso il tempo leggendo I pensieri di Sant’Agostino. Per qualche tempo sui giornali si scrive del disagio del condannato per la sua impossibilità di tenere più di un libro per volta in cella: del resto, la passione di bibliofilo dell’ex numero uno di Publitalia è nota. Poi su di lui cala il silenzio. Ma la gogna non può accontentarsi, deve insistere. E allora che cosa accade, improvvisamente, il 31 marzo scorso? Accade che su più giornali, contemporaneamente, escono articoli nei quali si racconta che Dell’Utri è nuovamente nei guai. E che guai. Titoli e articoli sono a dir poco disastrosi, e non solo perché lo colpiscono nella sua grande passione: “Indagine su Dell’Utri per ricettazione: 10 mila libri da chiese e biblioteche” scrive il Corriere della Sera. Aggiunge il Fatto quotidiano: “L’ex senatore è accusato di ricettazione e di esportazione illecita di opere d’arte che per gli inquirenti valgono milioni di euro”. La Repubblica insiste: “Volumi stimati milioni di euro trafugati a enti pubblici e religiosi”. “Sequestrati a Dell’Utri 20 mila libri antichi rubati da biblioteche”, spara il Messaggero. Nessuno si sottrae all’attacco. Si parla di una rete di complici, attiva nella fornitura di libri rubati. Emerge la figura di un Dell'Utri, se possibile, ancor più abominevole di quella che lo vuole "amico dei mafiosi": espone un potente e ricco razziatore di chiese e di biblioteche, alla continua ricerca di libri antichi e ovviamente preziosissimi. Così che anche un'altra tra le caratteristiche positive dell'uomo, la sua cultura e l'amore per la pagina scritta, venga devastata. A nulla serve che Giuseppe Di Peri, l'avvocato che di Dell'Utri è lo storico difensore, controbatta quello stesso giorno con un comunicato stampa nel quale ricorda che “l’indagine è partita dalla Procura di Napoli nei confronti di Massimo De Caro”, già direttore della biblioteca nazionale dei Girolamini, a Napoli, e accusato di avervi sottratto numerosi libri, e aggiunge che Dell’Utri in realtà "ha collaborato con l’autorità giudiziaria mettendo spontaneamente a disposizione e consegnando tutti i volumi ricevuti in dono da De Caro”. Dal comunicato si capisce inoltre che il sequestro non è un fatto nuovo, né pertanto una notizia, perché in realtà risale al 12 aprile 2014. E a nulla probabilmente servirà il comunicato inviato oggi dallo stesso Dell'Utri in cui si dice che "Ancora una volta, partendo da notizie su indagini in corso, è stata posta in essere una campagna denigratoria e diffamatoria a mio danno. Sulla base di mere supposizioni investigative sono stato indicato come un ricettatore e un ladro, al cui confronto impallidisce la mitica figura di Guglielmo Libri. Quest’accusa è per me inaccettabile e mi ferisce più della stessa detenzione. Ho acquisito e raccolto uno per uno i volumi attraverso librerie antiquarie italiane ed internazionali, aste, mostre, bancarelle e privati collezionisti in un arco di tempo di oltre quarant’anni. E se anche, quindi, su decine di migliaia di testi si dovesse rinvenire qualche volume di cui è sospettabile la provenienza, sarebbe assurdo ritenermene responsabile. A testimonianza della mia buona fede, basta considerare che i libri in questione sono stati dettagliatamente descritti, catalogati e messi a disposizione del pubblico nella biblioteca milanese di Via Senato; pubblicati nel bollettino mensile della stessa ed esposti in numerose mostre tematiche. Ciò a riprova del fatto che mai ho dubitato della origine lecita degli stessi. La diffusione delle infamanti notizie mi ha colto nell’impossibilità di rispondere tempestivamente, data la condizione di prigioniero, limitativa della mia possibilità di difesa. Per quanto detto, e viste la superficialità e la scorrettezza con cui i “media” – e chi li ha informati – hanno trattato la vicenda, intendo rivolgermi all’Autorità Giudiziaria per ristabilire la verità dei fatti a tutela della mia dignità". Tutto, è inoltre avvenuto dopo che Dell'Utri ha catalogato ed esposto al pubblico i suoi libri nei locali della biblioteca di via Senato, a Milano. Se mai l'ex senatore avesse avuto la certezza che alcuni di quei volumi erano frutto di un furto, di certo non si sarebbe esposto a quel rischio. Aggiunge Di Peri: "Il sequestro è servito solo a consentire l'esame dei volumi in un luogo diverso rispetto a quello dove erano custoditi,tenuto conto sia del loro numero, sia del tempo necessario per il loro esame". Per di più, il legale spiega che i libri "sospetti" non sono 10 o 20 mila, ma sono pochi, alcune unità. E quindi se anche su decine di migliaia di testi si dovesse sospettare della legittima provenienza di qualche volume, sarebbe assurdo ritenerne in qualche modo responsabile l'ex senatore. Tutt'al più potrebbe trattarsi di un "incauto acquisto". Conclude il penalista: "Ipotizzare, come hanno fatto alcuni media, che vi sia una rete di complici in grado di fornire illegalmente volumi antichi e preziosi a Dell'Utri è una congettura, neppure suffragata dall'esito di indagini". Tutte balle, insomma, Ma intanto la gogna , ancora una volta, ha colpito nel segno.

PLATI': UN PAESE DI MAFIOSI?

Platì, la 'Ndrangheta nel Comune. In quella montagna di carte che il sostituto procuratore Nicola Gratteri ha presentato al giudice per le indagini preliminari ci sarebbero le prove che a Platì la mafia si era insediata al Comune, governava cioè direttamente, scrive Pantaleone Sergi su “La Repubblica” del 15 settembre 1991. Settantatrè persone sono indagate, infatti, per associazione a delinquere di stampo mafioso e tra esse cinquantuno sono ex amministratori (tra cui l' ex sindaco dc Natale Marando costretto alle dimissioni, nel giugno scorso, sotto l' urto di una rivolta di donne) o dipendenti del comune. E' l' "indagine globale" su mafia e politica in quel microcosmo di Platì, 3700 abitanti circa nella tormentata Locride, la cui drammatica telenovela di conflittualità con lo Stato va avanti da un secolo e più, arrivando a punte estreme come è accaduto nei giorni scorsi quando alla scadenza nessuna lista è stata presentata per le elezioni comunali. Nella relazione dell' Alto commissariato antimafia era detto esplicitamente che "la cosa pubblica a Platì era in mano alle cosche mafiose", e si faceva riferimento, tra gli altri meno potenti, al clan guidato da Francesco Barbaro, detto "u castanu", personaggio emblematico nelle vicende mafiose degli ultimi venti anni a Platì, attualmente detenuto nel carcere di Fossombrone. Di questa indagine, su cui lavoravano carabinieri, polizia e "007" dell' Alto commissariato antimafia, si sapeva da tempo. Addirittura si era detto che, nel giugno scorso, l' amministrazione dc si era dimessa per precedere un possibile commissariamento in base alla cosiddetta "legge Taurianova". Nei giorni scorsi, esploso l' ennesimo caso di braccio di ferro tra Platì e lo Stato dopo che nessuna lista era stata presentata per le elezioni indette per il 29 settembre, era addirittura trapelata la voce di una possibile conclusione immediata dell' inchiesta con arresti e rinvii a giudizio. Ma il Gip non sarebbe stato d' accordo. L' inchiesta di Gratteri spazia dai sequestri (tra le persone indagate c' è anche uno Strangio di San Luca, forse lo stesso del sequestro Casella), all' indebita appropriazione di gruppi mafiosi del demanio comunale senza che alcuna rivendicazione sia stata mai fatta da parte dell' ente; dagli appalti e dalle forniture del comune, alla refezione scolastica e agli abusi edilizi. Così tra gli indagati sono finiti anche il tecnico del comune e l' ufficiale sanitario, in quanto componenti della commissione edilizia. Dieci anni di vita comunale (sotto inchiesta ci sono tutte le amministrazioni a guida democristiana) e di criminalità sono stati passati al setaccio. Tutti gli atti del comune dal 1981 in poi sono stati scrutati con la lente d' ingrandimento. Fatti noti e meno noti sono stati sviscerati dagli investigatori tra cui c' è stato anche il brigadiere Antonio Marino, ucciso proprio un anno fa a Bovalino Superiore, al tempo in cui era comandante della stazione dei carabinieri di Platì. L' inchiesta della Procura però ha avuto alcune complicazioni perché si è incrociata con altri processi del passato e con alcuni in corso. Scaduti i termini per le indagini preliminari bisognava quindi decidere se far scoppiare la santabarbara con arresti a raffica e celebrazione immediata del processo, come forse il giudice Gratteri avrebbe voluto. Questo avrebbe significato però "pubblicizzare" documenti che, se noti, avrebbero compromesso lo sviluppo di altre indagini. E si è arrivati quindi alla concessione di una proroga fino al 2 febbraio 1992 data entro cui il sostituto procuratore dovrà chiudere definitivamente l' inchiesta. Tutto ciò però ha costretto il magistrato inquirente a dover scoprire diverse sue carte avvisando le settantatrè persone, di cui si stava occupando in gran segreto in base al nuovo codice di procedura, di essere indagate e in gran segreto in base al nuovo codice di procedura, di essere indagate e consentendo loro quindi di poter intervenire con i loro legali nel prosieguo dell' istruttoria. Tra gli indagati ci sono, oltre all' ex sindaco, Natale Marando, della Dc, il vicesindaco missino Francesco Mittica, un medico benvoluto dalla gente, alcuni segretari comunali che si sono succeduti in questi anni a Platì, tra cui la dottoressa Nobile, attualmente segretaria alla Comunità Montana di Bovalino di cui Marando era stato anche presidente. Tutti sono accusati non solo di associazione per delinquere di tipo mafioso ma anche di abuso di potere ed altri reati connessi all' esercizio di pubblici poteri. Per il Comune, attualmente retto da un commissario prefettizio insediatosi nello scorso mese di giugno dopo le dimissioni della giunta comunale imposte dalle donne del paese - che avevano occupato il municipio per protestare contro nuove tasse a fronte di servizi inesistenti e per ottenere il ripristino degli antichi usi civici sui terreni demaniali privatizzati da gruppi mafiosi - questa nuova inchiesta è forse la mazzata finale. Gli spazi di manovra per il ritorno a una gestione democratica e pulita appaiono al momento inesistenti. C' è chi paventa addirittura il rischio che l' esasperazione dello scontro possa sfociare in un nuovo brigantaggio. Ma in questo lembo d' Italia non c' è mai da stupirsi di nulla. Neppure del fatto che, per esempio, proprio quando lo Stato dice di voler produrre lo sforzo maggiore nella lotta alla mafia e il Csm non riesce però a coprire i buchi ormai storici negli organici di procure e corti varie, sette magistrati del tribunale di Palmi, il fortino della giustizia più esposto nei territori della ' ndrangheta, siano pronti a fare le valige per una sede più tranquilla. Se ne vanno, ma chi e quando li sostituirà?

Nel paese dei bunker sono terminati i latitanti, scrive Andrea Galli su "Il Corriere della Sera". Per la prima volta nella storia criminale nessun ricercato platiota è nascosto nei sotterranei della Calabria e in particolare di Platì, Comune sciolto per mafia, dal 2009 senza sindaco (sostituito da vari commissari), 3.600 abitanti in provincia di Reggio Calabria. Una geografia dura e aspra: i platioti, insieme ai vicini abitanti di San Luca, hanno scalato i vertici della ’ndrangheta con i sequestri di persona e il traffico di droga. «Se San Luca è il cuore delle cosche, Platì ne è la mente» ha detto il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri. Nel tempo sono arrivati miliardi di lire e oggi arrivano milioni di euro. Poco cambia: Platì, distante una ventina di chilometri dalla costa jonica, conserva un aspetto di precarietà, nemmeno fossimo nel 1951 quando un’alluvione distrusse gran parte delle case. Piani lasciati in sospeso, facciate non intonacate. Platì ha sempre lavorato su un «altro» paese. Quello segreto. Quello dei cunicoli e rifugi due anni fa «visitati» dalla Bbc (un suo documentario è stato trasmesso in tutto il mondo), e via via scoperti dai carabinieri i quali adesso non possono non ripensare alle origini della «caccia» e al grado elevato di ingegnosità dei «bunkeristi». I bunkeristi sono una categoria professionale esistente per davvero e fra le più «inseguite» e pagate dalla ’ndrangheta. Non hanno comunque impedito la cattura, una ventina di giorni fa, del superlatitante Natale Trimboli, uno dei fratelli della potente cosca che ha ramificazioni in Sudamerica e Oceania. Trimboli lo cercavano a Platì, l’hanno trovato nella Piana di Gioia Tauro e la cattura ha «certificato» la vittoria contro i boss. Alla voce latitanti su Platì, il numero è zero. Ora ci sono due considerazioni da fare. Il risultato naturalmente è provvisorio, nessuno è in grado di escludere che nuovi platioti possano «scomparire». Dopodiché bisogna registrare il completamento di una lunga e a volte dolorosa stagione, cominciata a metà degli anni Ottanta, di ricerca dei latitanti (in alcuni periodi ce ne sono stati in contemporanea anche 15-20) e basata su una peculiarità investigativa della provincia di Reggio Calabria: il lavoro di squadra dei carabinieri. Dai Cacciatori, élite addestrata per operazioni impossibili, ai mastini del Ros senza dimenticare l’instancabile attività, spesso in zone «ostili», dei reparti territoriali. L’integrazione fra le forze e gli uomini è dimostrata dalla coabitazione, magari nella stessa sede, di più «sigle» senza troppe gelosie e personalismi. Le caratteristiche naturali della Calabria, la sua lontananza da Roma — una lontananza a lungo non soltanto fisica — e la stessa strategia offensiva della ’ndrangheta hanno spostato il duello sullo scontro anche militare. Il mitico generale Gennaro Niglio, già comandante provinciale di Reggio Calabria, deceduto nel 2004 in un incidente stradale, guidò personalmente azioni, sortite, blitz, con coraggio e decisione, con «un ardore garibaldino» ricorda chi ha avuto la possibilità (e la «fortuna») di prendere ordini da lui. Non lo frenava neanche una milza spappolata in conseguenza d’un conflitto a fuoco, che gli creava problemi nel mangiare e figurarsi nel correre. Nel dossier riservato dei carabinieri «La ricerca del bunker» sono illustrati e spiegati i segreti e le tecniche dei rifugi delle cosche. Le decine di nascondigli di Platì confermano l’«esclusività» dei suoi bunkeristi. In vico San Nicola è stata trovata una «tana» la cui apertura avveniva «attraverso lo slittamento di un blocco di cemento mediante due rotaie e l’attivazione di un motore elettrico» e che consisteva in una stanza di 15 metri quadrati con «televisione, sedie, letto matrimoniale e deumidificatore». Nella quinta traversa di via De Gasperi è stato scoperto un «tracciato clandestino» con segmenti orizzontali e verticali che passavano sotto le case e dopo trenta metri portavano allo sbocco su una fiumara. In un’altra circostanza ecco un nascondiglio il cui ingresso era «costituito da una botola in ferro riempita di cemento armato rivestito da due mattonelle in marmo, perfettamente combacianti con le altre dell’intero pavimento che ne celavano l’apertura». Platì è il «regno» dei Barbaro del patriarca Francesco «Castanu», classe 1927. Nei campi di sue proprietà intorno al paese, in coincidenza dell’«uscita» dei nascondigli, gli alberi avevano sulla corteccia delle tracce colorate di verde e blu: ai latitanti indicavano il percorso per la fuga nel cuore dell’Aspromonte. 

 ‘Ndrangheta, il prefetto delle cosche. Tutte le verità nascoste di Antonio Pelle, scrive  Davide Milosa su "Il Fatto Quotidiano". Nel libro "Il Patriarca" (edito da Rizzoli) il giornalista del Corriere della Sera Andrea Galli ricostruisce la storia criminale di uno dei padrini più influenti della mafia calabrese. Comanda sull’intero pianeta, fa affari in Russia e in Australia, investe in Sudafrica, costruisce in Francia e in Scozia, traffica droga con i cartelli colombiani. Da anni, ormai, ha superato in forza, autorevolezza, ricchezza Cosa nostra. In politica non punta a Roma ma alla periferia, comune dopo comune, regione dopo regione, dove i soldi sono reali, gli appalti anche, i ricavi pure. E’ la ‘ndrangheta. Parola difficile da pronunciare, dura nel suono, arcaica nel senso. Criminale a 360 gradi. Capace di mutare e adattarsi, seguendo tempi e abitudini. Dalla Lombardia al Canada. E ben oltre. Mafia internazionale certo. Eppure senza il legame con la terra d’origine, padroni e padrini dei clan potrebbero ben poco. Dice bene, infatti, Antonino Belnome, boss lombardo, catturato nel 2010 e poi buttatosi pentito. “Il nord – spiega il giovane principe della locale di Seregno – senza la Calabria non conta niente”. Questo il senso che riporta business, interessi e lobby tutti lì, nel cuore calabro della ‘ndrangheta: l’Aspromonte. Perché per capire bisogna conoscere la Calabria e i suoi signori. Questo fa il giornalista milanese del Corriere della Sera Andrea Galli nel suo ultimo libro che fin dal titolo rende chiaro lo scopo. Il Patriarca (trecento pagine da leggere tutte di un fiato) racconta la vita di uno dei più importanti signori oscuri della Calabria. Antonio Pelle, classe ’32 da San Luca. Un boss, senza dubbio. Ma anche di più. “Uno – dice il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri – che potremmo paragonare a una sorta di presidente della Repubblica delle cosche”. Il Patriarca però non è un libro inchiesta. Non vi è qui, solo, il racconto per carte giudiziarie che, già di per sé, varrebbe a disegnare la figura di uno dei boss più importanti della mafia calabrese. Si perché Pelle ha vissuto per anni ai piani alti del crimine. Buon amico di Giuseppe Morabito, alias u Tiradrittu, signore di Africo e di mezza Milano. Capo criminale, ma anche carisma diplomatico per dirimire faide e sangue come fu nel 2007 dopo la strage di Duisburg. Contadino nell’animo si sapeva muovere tranquillamente tra le istituzioni e i salotti buoni della Milano anni Ottanta, quando uno sbirro tenace come Carmine Gallo lo fotografò al tavolino con Antonio Papalia, capo crimine del Nord fino a metà degli anni Novanta. Eppure questa è cronaca. Che serve ma non basta. Ed è qui che il libro di Galli regala inaspettati passi in avanti nella comprensione, quasi fenomenologica, della ‘ndrangheta. E lo fa scendendo in Calabria una, due, sette volte. Scarpe, taccuino, penna e qualche buon contatto. A Reggio ascolta le storie di Nicola Gratteri, che ben conosce le dinamiche internazionali della cosca Pelle. Da qui arriva nella Locride, oltre Melito Porto Salvo, Bova Marina, Africo. E poi sale verso l’Aspromonte, oltre le terribili fiumare, tra le case vecchie dell’antico borgo di San Luca, dove ‘Ntoni Gambazza nacque nel 1932, al numero 28 di via Fiore. Il libro così s’immerge nei paesaggi meravigliosi che circondano San Luca e Platì, allungandosi in alto verso il Piano dello Zillastro, luogo di sequestri di persona, ma anche luogo di stupefacente bellezza. E poi c’è lo straordinario lavoro d’archivio attraverso il quale l’autore affonda le mani in faldoni vecchi di cent’anni per ricostruire, decifrare, capire uno dei personaggi più enigmatici della ‘ndrangheta. Nel cui fascicolo riservato si legge: “Soggiorni in albergo: negativo. Controlli in frontiera: negativo. Autoveicoli: negativo. Armi denunciate: negativo. Utenze telefoniche: negativo”. Un vero e proprio fantasma. Che come tale ha vissuto, fino alla sua cattura definitiva nel 2009. In quel momento, da latitante, Gambazza si stava curando un’ernia all’ospedale di Polistena. Morirà a 77 anni il 4 novembre 2009 all’ospedale di Locri.

All’assalto di Platì, il paradiso della ‘ndrangheta, scrive Gennaro De Stefano - pubblicato su Oggi nel novembre del 2003. Nel cuore della notte 600 paracadutisti in assetto di guerra hanno circondato le case, fatto saltare con l’esplosivo i portoni blindati, portato alla luce covi e gallerie - In manette sono finiti due ex sindaci, il comandante dei vigili, dodici ex amministratori comunali e intere «famiglie» - Come si vive senza Stato. «Megghju pani e cipuia e l’onuri in franti», sibila l’uomo, guardandosi attorno circospetto e togliendosi la coppola per asciugare il sudore del caldo pomeriggio novembrino. Indica la montagna dell’Aspromonte, come se volesse completare il saggio pensiero sulla rettitudine, poi scrolla le spalle, si volta e se ne va.  Sono le prime parole che in un’intera giornata, siamo riusciti a sentire a Platì. Per il resto, solo sguardi ostili e sbeffeggiamenti hanno accompagnato il nostro viaggio nel centro aspromontano, dove siamo andati per capire come sia possibile che un’intera comunità viva con il marchio dell’infamia mafiosa. Dicono oggi che Platì sia un paese ferito mortalmente, dopo la retata dei carabinieri che hanno messo in galera 125 tra uomini e donne (il cinque per cento della popolazione, come se a Roma in una notte venissero arrestate, per lo stesso reato, 150 mila persone), con l’accusa di aver reso «mafiosa» pure l’aria. Un’operazione militare come non si vedeva da anni, con «dispiegamento di uomini e mezzi» degni di un rastrellamento in Iraq e, difatti, l’Arma ha dedicato questa azione alla memoria dei colleghi uccisi a Nassiriyah. Seicento carabinieri del battaglione paracadutisti Tuscania, dei Cacciatori di Vibo Valentia, dei Reparti Operativi Speciali e della Compagnia di Locri hanno circondato Platì alle 3.30 del 12 novembre e, a plotoncini di sei, sono piombati nelle case, hanno fatto saltare con l’esplosivo i portoni blindati, scoperchiato covi e sotterranei e assicurato alla giustizia due ex sindaci, il comandante dei vigili urbani e una vigilessa (una delle 13 donne arrestate), 12 ex amministratori comunali, due ex segretari del Comune e poi interi nuclei familiari dei Barbaro, degli Agresta, dei Sergi, dei Triboli, nomi conosciuti anche a Milano (Buccinasco e Corsico il loro regno) e a Griffith, in Australia, dove, per non smentirsi, qualche anno fa hanno fatto fuori un deputato e un vicecapo della polizia locale che non si assoggettavano alla loro legge. Mafiosi, o ‘ndrangheristi. chiamateli come vi pare, «capaci>>, come hanno scritto i magistrati Nicola Gratteri (della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria) e Anna Maria Arena, giudice per le indagini preliminari, «di rendere affar loro anche l’aria respirata dagli abitanti». Senza dimenticare che, nei sotterranei scavati sotto il paese, dove i latitanti trovavano comodo rifugio, hanno vissuto per mesi se non per anni, numerose vittime dei sequestri di persona: Alessandra Sgarella, Carlo Celadon, Cesare Casella. Il colpo sembra mortale, ma in realtà non lo è: da questa retata scaturirà ulteriore odio e «orgoglioso» desiderio di appartenenza all’«organizzazione», perché qui lo Stato è qualcosa di estraneo, un nemico occupante e, disconoscendone l’autorità, ci si fregia di un marchio qualificante. Platì appare piegata su se stessa, da una parte incapace di far nascere qualsiasi anelito di ribellione alla ‘ndrangheta, dall’altra insofferente alla legge, anzi interamente contro, sì da farsi definire paese totalmente mafioso: «Il territorio di Platì», scrivono infatti i magistrati di Reggio Calabria, «è completamente assoggettato alle consorterie mafiose e ogni minima iniziativa è costantemente soggetta a questo potere, la cui tracotanza non ha limiti. Ma come ha fatto questo veleno a permeare l’intera comunità? «È un costume che viene da lontano», dice padre Enrico Redaelli, 70 anni, originario della Brianza, ex missionario in Mozambico e oggi parroco a Platì. «È difficile farli ragionare sulla legalità. C’è un gran malessere per la retata, perché ogni famiglia ha un uomo in carcere e questo dà la sensazione che ci sia un gran funerale. Ma io invito i miei parrocchiani a fare questo passo verso la legge, perché il paese sta morendo, si sta spopolando e qui rimangono solo quelli che hanno il comando, capaci di costruire una cerchia sempre più chiusa e impenetrabile». Gli fa eco il sostituto procuratore Gratteri: «La Chiesa deve fare la sua parte», lasciando intendere che non ci si può limitare a registrare l’esistenza dei fenomeni criminali, ma bisogna combatterli. Il nostro viaggio comincia, dunque, davanti la chiesa principale. Non si può circolare per Platì senza la scorta dei Carabinieri (in tanti anni di professione giornalistica, è la prima volta che ci consigliano di evitare di girare da soli, di avvicinare la popolazione, di fare domande), potrebbe accadere di tutto: perché qui sei forestiero, o sei sbirro o giornalista; due categorie poco amate. C’è qualcosa di antico nella ribellione di questo paese, come se i suoi abitanti avessero nel DNA il ricordo di un sopruso subito e mai dimenticato. «Nel 1861, il territorio di Platì fu teatro di un sanguinoso brigantaggio capeggiato da Ferdinando Mittiga, ex ufficiale dell’esercito borbonico», spiega lo storico Antonio Delfino. «Mittiga aveva inquadrato nella sua banda grosse schiere di contadini, di renitenti alla leva e di delinquenti comuni, al fine di provocare la reazione contro il nuovo Stato unitario italiano. Ma le cose andarono tragicamente: l’esercito piemontese circondò Platì e la mise a ferro e fuoco, gli abitanti furono deportati a centinaia nelle isole, il brigante ucciso». E, come se si rinverdisse il passato (quando ufficiali piemontesi venivano a «domare» le località che rifiutavano l’annessione allo Stato Sabaudo), è tosco-lombardo il capitano dei carabinieri, Maurizio Biasin, che ci accompagna nel giro del paese e ci mostra le abitazioni con i rifugi segreti sotto le scale sotto i pavimenti, i portoni blindati, la rete di cunicoli. A soli 34 anni commanda la compagnia di Locri e spiega: «Tra noi e loro c’è una fortissima indifferenza: se li senti parlare, la colpa è sempre dello Stato, sono impermeabili a qualsiasi forma di legalità e hanno un vincolo di sangue molto stretto, tanto che finiscono con lo sposarsi frequentemente tra cugini, con le conseguenze che si possono immaginare. «La gente qui ostenta povertà e se gli chiedi che mestiere fanno, ti rispondono “bracciante agricolo”. Poi, tutte le volte che siamo entrati nelle loro case, abbiamo scoperto televisori ultra piatti, tre telefonini e le Mercedes ultimo modello parcheggiate in garage. E amaro dirlo, ma è l’intera comunità a essere coinvolta e solidale con quelli che finiscono nelle maglie della giustizia. Basti ricordare che, anni fa. una pattuglia della polizia, che aveva catturato un latitante in un bar, fu circondata da centinaia di persone e costretta a rifugiarsi nella nostra caserma». Platì è anche numeri scandalosi: su 1.500 proprietari di abitazioni, solo 120 pagano l’Ici, chiunque costruisce una casa si fa anche il bunker («Per quando diventeranno latitanti», scherza un maresciallo); «i ragazzini girano su motorini che non hanno targa, né assicurazione», spiega il capitano Biasin, «quando arriva una nostra auto sono soliti fare gli sbruffoni, girando a tutto gas attorno al mezzo, come a dire che qui comandano loro. Questo è anche uno dei centri con il più alto numero di renitenti alla leva». Insomma qui, nell’Italia del terzo millennio e della globalizzazione, lo Stato non esiste, né si hanno notizie dell’esistenza di un poliziotto o di un carabiniere nato in questo paese. Anzi, uno molto famoso c’è stato pure, il generale Francesco Delfino (figlio di un altro carabiniere detto Massaru Peppi, perché in missione si travestiva da pecoraio), coinvolto in vicenda di truffa legata al sequestro Soffiantini. Normalmente, come in questo periodo, il sindaco non c’è perché il Comune è commissariato e, quando cè, o viene ammazzato assieme alla moglie (Franesco Prestia), o arrestato perché faceva costruire i cunicoli per i latitanti, con i soldi e il supporto dei tecnici del Comune; oppure pagava fatture false per lavori mai eseguiti secondo l’accusa cortro Francesco Mittiga, centrosinistra e Anunzio Aurelio, centrodestra); oppure, ancora, aggiudicava appalto per la mensa scolastica al ristorante del paese, di proprietà della famiglia mafiosa Barbaro. Le case di Platì sono tutte, o quasi, abusive; la scuola ha insegnanti che vengono da fuori regione; il prete è milanese; i carabinieri sono veneti, napoletani, lucani. E scapoli. La sera, nella caserma, giocano a biliardino tra loro o guardano la tv satellitare; nessuno li saluta, né buongiorno né buonasera, men che mai fidanzarsi in paese. Insomma, Platì come una enclave straniera in terra patria. Possibile? «Purtroppo è così e noi ci abbiamo fatto l’abitudine», dice amareggiato Biasin, che ricorda il parmense capitano Bellodi del libro Il giorno della civetta di Sciascia, «ma la sola azione repressiva dei reati non è sufficiente, qui è un problema di cultura della legalità». Già, la cultura. Non c’è un cinema, figuriamoci una biblioteca, non esiste un Peppino Impastato (la coscienza antimafia di Cinisi, che osò contrapporsi al boss Badalamenti), un martire antimafia con la tonaca, come don Puglisi, un centro antimafia. Niente di niente. Perché qui tutto rientra nella mentalità della ‘ndrina, la famiglia, dove a capo c’è il boss e, sotto, schiere e schiere di parenti e consanguinei che, inseguiti o cacciati dalla loro terra, hanno seminato la cultura mafiosa ovunque siano andati. Infangando il nome della Calabria e rendendo i calabresi vittime di un pregiudizio ingiusto. «Mi dica cosa ci va a rare in un posto così», s’era incuriosito il barista di un autogrill sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, al quale avevamo chiesto di indicarci la strada più breve per Platì: «Per noi calabresi», aveva aggiunto, «è inconcepibile che possa esistere un paese dove comanda la mafia e lo Stato non faccia niente. Dovremmo vergognarci di avere nella nostra regione un comune così». Platì non risorge, non ne ha voglia, né tempo. Ora deve leccarsi le ferite degli arresti e delle decine di ragazzini rimasti senza genitori (perché entrambi finiti in prigione), e perciò affidati a istituti di accoglimento. Cresceranno nell’odio verso uno Stato che li ha resi orfani e la spirale continuerà. No, non sembrerebbe esserci speranza in questa terra, dove i cartelli di benvenuto in paese sono crivellati di colpi di lupara ma, intonsa, fa bella mostra una ironica scritta: «Platì, Comune d’Europa». Eppure... Lo scrittore Corrado Alvaro, una delle più austere coscienze nazionali (c’è un parco letterario che lo ricorda) era dell’Aspromonte.

Processo Marine: 8 condanne su 125 arresti. La disfatta di Gratteri, scrive giovedì 9 aprile 2015 "Il Garantista". Era stata l’operazione più grande della storia, ma dei 125 arresti del 12 novembre 2003, a Platì, restano solo condanne per pochissimi anni di carcere…Platì, 12 novembre 2003. Alle 3 di notte centinaia di uomini in divisa cingono d’assedio il paese e traggono in arresto 125 cittadini (tra i quali due ex sindaci, dodici ex assessori comunali, due ex segretari comunali, due tecnici, il comandante della polizia municipale e un vigile urbano) su richiesta del sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria Nicola Gratteri, con l’accusa di associazione a delinque di stampo mafioso. Fin dal principio, arrivare al giudizio di quelle 125 persone appare complicato e già si sa che ci vorrà del tempo prima di giungere al verdetto finale. A undici anni e mezzo di distanza il processo “Marine” arriva finalmente a una conclusione, ma sicuramente non era quella sperata da chi aveva dato l’ordine d’esecuzione del blitz più grande della storia. A seguito delle condanne in primo grado, il procuratore generale Giuseppe Adornato, lo scorso 25 febbraio, aveva chiesto la conferma delle stesse, miranti a infliggere complessivamente 84 anni di carcere a dieci imputati, assolvendone definitivamente altri nove. Ma quelle condanne non sono state confermate. Benché l’associazione a delinquere, in alcuni casi, sia stata riconosciuta, non sarebbe volta all’agevolazione delle ‘ndrine. Altre 59 persone, che avevano scelto il rito ordinario, non sono nemmeno state rinviate a giudizio. Morale della favola, su 44 imputati restanti, sono solo 8 le condanne effettive. Si pensava di aver smembrato le cosche che per anni avrebbero controllato il territorio di Platì, ma 8 condanne in rito abbreviato su 125 arresti preliminari sono davvero una disfatta che difficilmente ha sradicato questo male dal paese.

Se questo è un genio…, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Si è concluso la settimana scorsa, con una valanga di assoluzioni, il processo contro 202 abitanti di Platì (Locride, provincia di Reggio Calabria). Erano stati tutti catturati, in una notte del novembre di 12 anni fa, sotto l’accusa di essere mafiosi. L’operazione, ordinata dal dottor Nicola Gratteri, era stata eseguita da oltre mille carabinieri in assetto di guerra, che avevano circondato il paese e lo avevano messo a soqquadro, avevano trascinato via in manette uomini, donne, persone anziane, qualche ragazzo (anche un ragazzo handicappato) e avevano persino cercato di arrestare un assessore che era morto da un anno e mezzo… 202 arrestati su 4000 abitanti. Circa uno ogni cinque famiglie. Platì, da quel giorno, in tutto il mondo è diventata famosa come la capitale della mafia. Beh, era una bufala. I lettori calabresi del Garantista conoscono bene questa vicenda della quale ci siamo molto occupati. I cittadini del resto d’Italia la ignorano, perché nessun giornale e nessuna Tv ne hanno parlato. È curioso che nessuno parli di un fiasco giudiziario di queste proporzioni – forse senza precedenti nella storia giudiziaria della Repubblica italiana – che oltretutto ha coinvolto uno dei tre quattro nomi più noti tra i Pm dell’intera penisola, l’uomo che dirige una commissione incaricata di preparare una riforma della giustizia, il candidato a fare il ministro del governo Renzi (bloccato solo dall’intervento, provvidenziale, di quel sant’uomo di Napolitano…), l’autore di tanti libri, di tante interviste televisive (l’ultima l’altra sera alla Rai da Fabio Fazio). Eppure è così. È così per due ragioni: prima ragione, la stampa italiana è restia ad occuparsi di cose calabresi, non considera la Calabria territorio nazionale e ritiene comunque di poterla menzionare solo quando si tratta di raccontare che i calabresi sono ’ndranghetisti. Una notizia di segno opposto non è notizia. Seconda ragione, la stampa nazionale è restia a fare le bucce ai magistrati. Se un politico fa una sciocchezza, o ha un insuccesso, è giusto crocifiggerlo e sommergerlo col fango; se un magistrato ha un infortunio (diciamo così) è meglio tacere. Da questo punto di vista l’intervista condotta l’altra sera da Fabio Fazio è un esempio clamoroso di giornalismo subalterno. Possibile che devi intervistare un Pm che quarantotto ore prima ha subito lo smacco clamoroso di una inchiesta famosissima, finita in una bolla di sapone, e non gli fai neppure una domanda su quell’inchiesta e quella sconfitta? Niente, silenzio, velo complice? Sono rimasto senza parole vedendo quell’intervista. Ero convinto che prima o poi almeno un accenno di domandina, Fazio, gliela avrebbe fatta. Macché! Andrebbe proiettata nelle scuole di giornalismo questa puntata di Che Tempo che fa  sotto il titolo: come non si fa un’intervista. Chissà se stavolta interverrà il consiglio di amministrazione della Rai, o la commissione di vigilanza. Dal punto di vista professionale l’infortunio di Fazio è spettacolare. Ma torniamo a Gratteri. Tenendo conto del fatto che l’operazione Platì, nel 2003, ebbe un’eco gigantesco sulla stampa nazionale e internazionale. È stata un delle poche volte nelle quali i media si sono occupati di Calabria, e lo hanno fatto per spiegare come un intero paese dell’Aspromonte fosse abitato da mafiosi, e poi per lodare il Pm sceriffo, Gratteri, appunto, che era stato capace di sgominare le cosche e far vincere lo Stato. Ora si scopre che i casi sono due. O davvero Platì è tutta mafiosa, e allora Gratteri è stato un incapace a condurre un’inchiesta che ha portato all’assoluzione di tutti. Oppure (come è largamente probabile) non è vero che Platì è tutta mafiosa, e allora Gratteri ha fatto sbattere in galera duecento anime innocenti. Naturalmente in questa “Caporetto” di Gratteri non esiste alcun “profilo penale”, come si dice sempre quando i giornali prendono di punta un politico. Per esempio l’ex ministro Lupi. Poi i giornali dicono: però c’è un profilo di opportunità, e Lupi deve dimettersi. E si è dimesso. Perché suo figlio ingegnere aveva avuto un posto di lavoro da ingegnere precario a 1200 euro al mese. Ora io dico: ma non c’è un motivo di opportunità grande come una casa perché Gratteri, quanto meno, la smetta di presiedere commissioni che dovrebbero stabilire come riformare la giustizia? Un insuccesso professionale di queste proporzioni, che in qualunque altra professione porterebbe ad una vera e propria rovina nella propria carriera, per un Pm non ha alcuna conseguenza? Va bene, prendiamo atto che i Pm sono al di sopra di ogni sospetto. Prendiamo atto che la stampa è pronta a perdonare loro ogni cosa. Però almeno che si sappia che le cose sono andare così, e si sappia che, insomma, forse, Gratteri, che è stato dipinto a tutti come un genio, come il numero uno, come il più bravo di tutti, insomma… diciamo la verità… No? P.S. Nell’intervista a Fazio, Gratteri si è mostrato nella vesti del magistrato inflessibile, reazionario, nostalgico dei regimi forti. Un uomo di estrema destra, ordine, disciplina, pene esemplari. E questo è del tutto legittimo. Sono assolutamente convinto che Gratteri sia un magistrato in buonafede al 100 per cento. Il problema è che lui è convinto di essere stato investito da Dio di una missione epocale: quella di ripulire il paese dai corrotti, dai sospettabili di corruzione, dai cattivi, dai disonesti, dagli anarchici, e naturalmente dai garantisti…. Ecco, bisognerebbe spiegargli che non è così. Lui deve occuparsi di fare le inchieste giudiziarie, di cercare i delitti, i colpevoli e le prove. Deve applicarsi di più a queste cose, in modo da evitare bufale come quelle di Platì, fare meno interviste, pontificare di meno, e soprattutto rinunciare all’idea che tocchi a lui riformare la giustizia, perché penso che a nessuno possa venire in mente di affidare la riforma della giustizia al Pm che ha preso la topica di Platì.

Strangio: Vittime o carnefici? Tutti i giornali ne parlano. L'uomo condannato per la strage è stato intervistato il 16 marzo 2015 da Klaus Davi. Su You Tube ha parlato Giovanni Strangio. «Non ho ucciso nessuno nella mia vita, non avevo alcun motivo al mondo per desiderare la morte di quei poveri ragazzi». “Lo voglio gridare ad alta voce: sono innocente, non ho commesso gli omicidi per i quali sono stato condannato in via definitiva”. Lo ha detto Giovanni Strangio, difeso dagli avvocati Antonio Foti e Isabella Doré, condannato per la strage di Duisburg avvenuta nell’agosto del 2007, nel corso del programma “KlausCondicio” condotto da Klaus Davi. “Vorrei – ha aggiunto – incontrare Bergoglio. Un incontro con questo Papa, così umano e così vicino a noi poveretti, mi sarebbe di immenso conforto, anche perché sono certo che i suoi occhi guidati da Dio saprebbero leggere i miei, la mia innocenza e la mia bontà. Rivolgerei un appello al Santo Padre a prescindere dall’esito delle mie vicende processuali. Ho troppo rispetto di Dio e del suo rappresentante in terra per rivolgergli suppliche personali e per chiedergli di intercedere in queste vicende. Posso dirle, però, che, nel corso delle lunghe, disperate e solitarie riflessioni, mi sono spesso interrogato sul perché proprio a un poveretto come me Dio abbia dato una croce così pesante da portare. Chiederei al Santo Padre di spiegare a un poveretto come me, che non ha studiato, ma che ha tanta fede in Dio, il senso del dolore, perché ci sono momenti di sconforto in cui mi allontano da Dio e altri in cui lo prego di farmi capire dove ho sbagliato, in che modo l’ho offeso per mandarmi tutto questo dolore”. “Sono innocente – ha proseguito Strangio – e continuerò a gridarlo con tutto il fiato che ho in corpo fino alla fine dei miei giorni. Se lo Stato italiano vorrà condannarmi a morire in carcere e, cosa ancor più grave, vorrà togliere un padre a due figli per fatti che non ho commesso, deve sapere che sta distruggendo la vita di un innocente e io non smetterò mai di ribadirlo. Non ho ucciso nessuno nella mia vita, non avevo alcun motivo al mondo per desiderare la morte di quei poveri ragazzi e le sentenze che mi hanno condannato non sono riuscite a dimostrare il contrario”.

Strangio: io vittima di sequestro di Stato, scrive “La Gazzetta del Sud” il 04/11/2013. "Il mio è un sequestro di Stato, fatto scientemente. Sono innocente". E' quanto scrive in una lettera dal carcere di Rebibbia, Giovanni Strangio, ritenuto l'ideatore ed uno degli esecutori materiali della strage di Duisburg. "Il mio è un sequestro di Stato, fatto scientemente. Sono innocente". E' quanto scrive in una lettera dal carcere di Rebibbia, Giovanni Strangio, ritenuto l'ideatore ed uno degli esecutori materiali della strage di Duisburg, condannato in primo grado all'ergastolo. Strangio ha fatto arrivare la lettera nel luglio scorso alla madre, Antonia Alvaro, che l'ha diffusa stamattina. La strage di Duisburg, compiuta a Ferragosto del 2007 e nella quale furono uccise sei persone, è stata il culmine della faida di San Luca tra i Nirta-Strangio ed i Pelle-Vottari. "Nel processo - afferma Strangio - mi hanno dipinto come un boss di alto rango. Io che sono stato sempre incensurato, mai attenzionato dalla magistratura italiana e straniera. Può un giovane, che all'età di 17 anni lasciò il suo Paese per l'estero per cercare un futuro migliore, diventare dall'oggi al domani un mostro, un boss? Il clamore scaturito dall'uccisione di quei sei giovani aveva bisogno di un colpevole e per questo motivo si è puntato contro di me. Il mio nome fu fatto in seguito ad un accordo tra Stato, o meglio uomini di Stato, e un boss. Io non so chi e perché ha voluto mettermi in mezzo a questa storia". La madre di Giovanni Strangio, da parte sua, ha evidenziato che "è stato mandato all'ergastolo un innocente. Mio figlio mi ha mandato questa lettera per far sentire la voce di un innocente rinchiuso come una bestia senza la possibilità di difendersi, non c'è un solo indizio contro mio figlio Giovanni ma ciò nonostante è stato condannato senza la possibilità di difendersi, visto che la procura di Duisburg ha indagato in ogni direzione scrivendo agli atti ogni cosa, ma la Procura di Reggio Calabria non ha voluto inserire tutti gli atti dove viene attestata l'estraneità di mio figlio con questa assurda strage". (ANSA)

Giovanni Strangio, nato a Locri (Reggio Calabria) il 2 settembre 1966 (residente a Duisburg, Germania). Presunto ’ndranghetista, ritenuto appartenente alla cosca Pelle-Vottari, in lotta contro gli Strangio-Nirta (porta lo stesso cognome degli avversari, ma si tratta di famiglie diverse) (vedi Francesco Vottari, nato nel 1979). Condannato a otto anni di reclusione per associazione mafiosa (sentenza di appello del 6 luglio 2011). Il 25 ottobre 2012 la Cassazione ha rimesso il processo alle Sezioni Unite perché decidano se meriti l’applicazione della circostanza aggravante della transnazionalità. Arrestato il 30 agosto 2007 a San Luca dalla polizia nel corso dell’operazione “Fehida” (totale dei fermi 43, tutti a carico di persone ritenute appartenenti a famiglie coinvolte nella faida di San Luca), scarcerato dopo quattro anni per decorrenza dei termini, il 16 maggio la Cassazione ha ripristinato la custodia in carcere stante il pericolo di fuga. Era lui a gestire, insieme al fratello Sebastiano, il ristorante “da Bruno”, a Duisburg, quello della strage di ferragosto: la notte tra il 14 e il 15 agosto 2007 due sicari aspettarono che lui e altre sei persone, tra cui il fratello, uscissero dal locale, per scaricare contro di loro settanta colpi di pistola automatica calibro 9 (ammazzando tutti tranne lui). Dopo la strage si persero le sue tracce. Il giorno dopo un meccanico di 32 anni raccontò: «Ho visto due uomini davanti al locale, avevano abiti scuri e uno di essi stava sbirciando dentro la pizzeria attraverso la vetrina. Era passata da poco l’1.30 di notte. Mi aveva sorpreso la forte illuminazione e la musica a tutto volume del ristorante, che di solito a quell’ora è chiuso». Secondo le dichiarazioni di Giovanni Strangio festeggiavano il diciottesimo compleanno di una delle vittime (Francesco Venturini), secondo gli inquirenti celebravano invece l’affiliazione del ragazzo alla ’ndrangheta (rito c.d. della “copiata”). Apposta per l’iniziazione avevano allestito una sala, senza finestre, con tutto il necessario (tavolo in legno di sei metri con dodici sedie, santini con l’immagine della Madonna di Polsi e un libro di preghiere, la pagina del Padre Nostro segnata con la foto di Giovanni Strangio). La statua di san Michele Arcangelo evidentemente stonava con l’arredamento elegante del ristorante (uno dei più cari della città), infatti stava davanti all’ingresso dello scantinato. Un santino del santo mezzo bruciato fu trovato anche in tasca al Venturini. Copiata: «Al picciotto appena battezzato viene assegnato o indicato un gruppo di uomini d’onore di grado elevato (copiata) e superiore a quello di cui si viene investiti, che, poi, saranno punti di riferimento (Corone in testa) di tutto il percorso delinquenziale. Nei confronti di questi padrini bisogna nutrire la massima stima, disponibilità e deferenza. La copiata per “picciotto” semplice e camorrista è composta da cinque membri effettivi e senza supplenti, mentre per i gradi successivi è di tre» (Antonio Bruno, collaboratore di giustizia). Nello scantinato invece erano nascosti un fucile d’assalto Remington, una valigia con quattro caricatori Colt, munizioni 357 Magnum e trecento cartucce. I carabinieri nel 2001 avevano scoperto che i calabresi riciclavano il denaro sporco aprendo ristoranti in Germania (operazione “Luca’s”), e avevano segnalato alle autorità tedesche, tra gli altri, proprio il ristorante gestito dai fratelli Strangio. «L’ordinamento legislativo tedesco ha impedito il prosieguo di indagini efficaci e preventive. Ora nutro la speranza che quanto è accaduto a Ferragosto possa inaugurare una nuova stagione, magari più consapevole che la minaccia mafiosa la patisce non solo il Paese che l’esporta, ma l’incuba anche chi la importa, magari qualche volta cedendo alla tentazione di chiudere gli occhi perché, si sa, pecunia non olet» (Marco Minniti intervistato da Giuseppe D’Avanzo, la Repubblica 18 agosto 2007). Il gip di Reggio Calabria, Natina Pratticò, su richiesta della Dda di Reggio Calabria, dispose il sequestro del locale e trasmise il tutto per l’esecuzione alla Corte di Duisburg, che invece ritenne di rigettarlo (aprile 2008), perché era intestato anche a persone non indagate nell’inchiesta. «Trattoria-Pizzeria “Da Bruno”, Mülheimer Strasse, 47051 Duisburg» (il biglietto pubblicitario trovato nel bunker sotterraneo della palazzina Vottari, in contrada Ricciolìo a San Luca, scovato dai carabinieri l’11 marzo 2007). (a cura di Paola Bellone). Giorgio Dell’Arti, Catalogo dei viventi 2015 suIl Corriere della Sera”.

Non solo Giovanni, ma anche Teresa Strangio scrive al Presidente. Tre sorelle a San Luca, scrive Vito Barresi con un editoriale su videocalabria. Sul Die Welt, un quotidiano tra i più autorevoli della stampa tedesca, le hanno chiamate "le sorelle amichevoli dal sorriso ingannevole". Posso offrirvi qualcosa, chiede Aurelia con un sorriso caloroso. Un caffè un latte di mandorla? Sfogliando le pagine della testata di Amburgo, nel 2008 un anno dopo la feroce strage di Duisburg, il grande pubblico della Germania, oltre ai dettagli di cronaca nera, scopriva anche la vita e il ruolo familistico e morale di tre donne, tre sorelle in qualche modo cechoviane, Aurelia, Teresa ed Angela Strangio, sorelle di Giovanni, ritenuto l'ideatore e tra gli autori della strage di Duisburg del Ferragosto 2007, sei persone spedite al quadrato senza alcun appello. La vita agra di Teresa adesso è come quando il resto lontano di un`antica tragedia greca irrompe nei racconti di `ndrangheta, come se una donna spartana prigioniera ad Atene chiedesse a Pericle clemenza, lei scrive al presidente Napolitano. «Vi imploro con grande civiltà - scrive in una lunga lettera aperta - di aiutarmi, di far intervenire l`antimafia perché mi è stata rubata la libertà ingiustamente senza avere commesso nessun reato, mi sono stati rubati anni di vita e di salute che nessuno mai mi potrà restituire». Nell`aula in cui si svolse il processo anche contro le sorelle di San Luca, ancora rimbombano le urla strazianti delle Strangio, di Angela e Teresa condannate per mafia a otto e sette anni di carcere, che disperatamente ma invano inveirono contro i loro inquisitori. "Nessun essere umano dovrebbe ergersi a giudice di un altro essere umano perché uno solo è il giusto giudice, Dio". Teresa fu la prima della famiglia Strangio che si trasferì in Germania. Era nel 1997, quando trovò un posto da Tony Pizza Parlour a Kaarst . Giovanni la raggiunse un anno dopo e lì iniziarono a lavorare nella stessa pizzeria ."Ha lavorato molto duramente ", ricorda Teresa. "Non ha mai fumato, bevuto. Era sempre allegro, gli piaceva raccontare barzellette. Durante le vacanze di Natale, tornava a San Luca dai nostri genitori . Ma poi non restava a sempre voluto tornare alla Germania." Per le tre sorelle Strangio il fratello non è un assassino ma soltanto "un innocente mandato all`ergastolo senza un giusto processo, senza un solo indizio che lo collochi in quel luogo maledetto del delitto".

Ed ancora, Teresa Strangio scrive alla stampa il 7 gennaio 2014 per protestare contro la sua detenzione.  Pubblichiamo la lettera integrale della sorella di uno degli accusati della strage di Duisburg. Riportiamo la lettera integrale diramata agli organi di stampa da alcuni familiari di Teresa Strangio.

«Sono Strangio Teresa  scrivo da San Luca Rc, sono sottoposta ai domiciliari da anni, dopo 5 lunghi mesi di sciopero della fame in carcere, per manifestare contro l'ingiusta detenzione, MI HANNO INSERITA IN UN ASSURDA ASSOCIAZIONE CON MIO FRATELLO, MIA SORELLA, MIO COGNATO, MIO CUGINO, CON IL PRETESTO DI UN VIAGGIO IN OLANDA, DOVE  RISULTA CHIARAMENTE CHE NON HO COMMESSO NULLA DI ILLECITO. La mia vita l'ho passata all’estero, rientro in Italia e questa umile vita viene distrutta da chi dovrebbe tutelare  le persone oneste come me, io non mi sono mai sottratta nel dovere di portare  conforto ai carcerati, ma questo non può essere motivo di 416 bis, perché non ho commesso nessun reato  tanto che non ho mai avuto nessun fermo nessuna intercettazione con membri della cosiddetta cosca  in cui mi hanno inserito. Fino all’appello ho creduto nella giustizia speravo che i giudici lessero gli atti, e mi avrebbero restituito la libertà rubatami ingiustamente, ma ciò non è stato, hanno solo confermato la pesantissima condanna che neanche a chissà quale boss avrebbero dato, solo perché sono la sorella di Giovanni Strangio, un innocente mandato all’ergastolo  solo perché la procura di Reggio Calabria vuole questo, mentre i tedeschi che hanno condotto le indagini hanno detto che Giovanni non e perseguibile, perchè tutto questo accanimento verso la mia famiglia? Tutti sbagliano, anche  Giudici, riconoscete i vostri sbagli, perché sbagliare è umano, l'importante  è rimediare. Nessun  giudice del nord avrebbe firmato il mio arresto, fatto senza prove e senza fatti, solo perché la procura di RC ha voluto cosi, ma parlano gli atti, io non appartengo a nessuna cosca perché il mio cognome è Strangio ma non centra nulla con gli Strangio che sono sulla pagina della cronaca, e comunque sia, prima della faida 3 ci sono state altre 2 faide e tratto in arresto altre donne che tutti sanno essere appartenenti alla cosiddetta  faida, come le sorelle Vottari, sono state filmate, tutto documentato e trasmesso nei tg locali, mentre trasportavano uomini armati nei bagagliai delle loro macchine, ogni episodio di reato è stato documentato dagli inquirenti, ma i giudici hanno ritenuto che la loro condanna andasse riformulata, dal 416 bis sono passate al 418, mentre su di me non esiste nulla di ciò, nessun episodio, nessuna intercettazione, ma solo accuse della procura formulate sul nulla, ed ai giudici che mi hanno giudicato non gli è importato questo, ne il diverso trattamento usato e ne i miei problemi di salute che oggi sto pagando dopo l’ingiusta detenzione. Ma come è possibile questo? La commissione antimafia perché nn interviene? Cosa aspetta? Che venga a fare luce su questi procedimenti, e su come hanno lavorato questi giudici, e poi si dice che la legge uguale per tutti? Perché non sono stata giudicata con il criterio d’imparzialità ed il diritto d’eguaglianza che spettava anche  a me? Sono Strangio sii fiera di essere la sorella di Giovanni. Perché non c’è la responsabilità personale dei magistrati? Solo cosi si potranno avere processi giusti, solo quando si leggeranno gli atti, e giudicheranno le cose come stanno e non facendo i voleri altrui. Voglio giustizia!!! Ho manifestato sin dall'inizio contro l’assurdo arresto nell'unico modo che un carcerato ha quello di farsi sentire anche facendosi del male, come l'ho fatto io proseguendo un lungo sciopero della fame alternato con quello della sete, sono stata sottoposta al TSH contro la mia volontà nonostante io sia stata sempre lucida, sono stata umiliata come donna è come essere umana, oggi sono affetta da numerose patologie, danne permanenti che non passeranno più, hanno distrutto il mio equilibrio psicofisico,sono costretta  a dormire con porte e finestre aperte, perchè ho bisogno d’aria, ho solo incubi dell’assurdo arresto, ho problemi alla vista, edema palpebrale che mi sta rovinando l’esistenza a malapena riesco ad aprire gli occhi, sono stata in cura da specialista del territorio ma senza risultato, dovrei andare fuori dalla Calabria e provare delle cure, ma i giudici e la procura di Rc rigettano le mie istanze? Ministro intervenga nel nome della giustizia, anche i detenuti sono umani, anche noi abbiamo diritto alla salute è garantito dalla costituzione, vi prego fate qualcosa, vi allego la foto della gravità di uno dei miei numerosi problemi di salute quale gli okki.»

Strage di Milano. I magistrati fanno le vittime ma non erano loro l'obiettivo. Subito dopo la sparatoria è partita la corsa a legare il fatto al clima d'odio contro le toghe. Ma nel mirino di Giardiello non c'era solo un giudice, scrive Orlando Sacchelli su "Il Giornale. Il giorno dopo la mattanza al Tribunale di Milano, con un uomo che ha fatto fuoco per tredici volte uccidendo tre persone, come spesso purtroppo avviene nel nostro Paese ci si è subito divisi in fazioni. E qualcuno (volutamente o no) ha strumentalizzato la vicenda, dimenticandosi una cosa molto importante: quando si verificano certi episodi a perdere è tutta la società, nessuno escluso. E non ci sono, non possono esserci, vittime di serie A e di serie B. Invece abbiamo assistito a qualche stonatura di troppo. Con parole a sproposito pronunciate a caldo, quando i morti ancora giacevano per terra, subito dopo la strage. Sono stati i magistrati i primi a fare quadrato, ergendosi a vittime, le prime vittime di quanto è accaduto. Eppure i morti sono tre, e oltre al giudice Fernando Ciampi, tra loro c'è anche un avvocato, Lorenzo Claris Appiani, e un'altra persona, Giorgio Erba, coimputato nello stesso processo a carico di Claudio Giardiello, autore della sparatoria. Il primo ad aprire le danze, ieri, evocando un clima infame da "caccia ai magistrati" è stato il giudice Gherardo Colombo, ex pm del pool di Mani pulite: "Temo che il sentimento che si nutre nei confronti della magistratura in questi periodi, questa sottovalutazione e svalutazione del ruolo, sia un’aria che contribuisce, ovviamente involontariamente, a rendere più facilmente possibile atteggiamenti mentali di questo tipo. Non faccio un collegamento diretto, certo è che la scarsa considerazione che a tutti i livelli hanno i magistrati toglie loro credibilità e in qualche misura li svaluta". Frasi su cui si può tranquillamente discutere. Ma, tralasciando il fatto che, lo ripetiamo, il killer non ha sparato solo a un magistrato, era proprio il caso di pronunciarle ieri, aprendo una polemica pochi minuti dopo la strage? Dopo Colombo il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha usato lo stesso "tasto". Dopo aver convocato un plenum straordinario del Csm per esprimere il dolore per quanto accaduto e onorare la memoria del giudice ucciso, prendendo la parola davanti ai consiglieri ha detto: "I magistrati sono sempre in prima linea e ciò li rende particolarmente esposti, anche per questo va respinta con chiarezza ogni forma di discredito nei loro confronti". Oggi alla commemorazione delle vittime a Palazzo di Giustizia, il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli, ha ricordato che la strage "ha un valore simbolico", anche perché "troppe tensioni e troppa rabbia si raccolgono sulla giustizia e occorre richiamare tutti al diffuso rispetto verso la giustizia". Sulla stessa lunghezza d'onda il vice presidente del Csm Giovanni Legnini: "I magistrati non possono essere lasciati soli". Poi, dopo aver espresso un ringraziamento alla magistratura milanese, "che insieme alle istituzioni, ai cittadini, hanno dato una risposta ferma, addolorata e costernata ma serena", ha sottolineato che "questa è Milano e ci rappresenta tutti, rappresenta il nostro Paese". Molto toccante il ricordo della mamma di un'altra vittima, l’avvocato Lorenzo Claris Appiani, intervenuta all’assemblea convocata dall’Anm nell’aula magna del palazzo di giustizia di Milano. "E' morto perché non è stato una marionetta" in mano al suo cliente, ha detto Alberta Brambilla Pisoni. "Sono la mamma di Lorenzo e Francesca, avvocato e giudice - ha esordito la donna, di fronte alla vasta e commossa platea - chi più di me può sentire la necessità che questi due mondi stiano insieme. Mia figlia è giudice fallimentare a Pavia, come lo è stato Ciampi per molti anni. Anche lei rischia come lui, ma oggi è morto mio figlio". Brambilla Pisoni, anche lei avvocato, ha rievocato il momento del giuramento del figlio: "Quando era venuto Lorenzo a giurare, il discorso di accoglienza lo fece l’avvocato Biagi, il quale diceva 'voi non dovete fare i ventriloqui, dovete avere la vostra testa e non dovete essere delle marionette, dovete fare quello che è giusto per il cliente...'. Lorenzo è morto perché non è stato una marionetta in mano a quelle persone. "Era orgoglioso del suo lavoro - ha proseguito - ci facevano tanta compagnia alla sera, veniva spesso a mangiare con me, perchè suo padre era spesso via per lavoro. Mi diceva sempre: Sai che il nostro giuramento è il più bello di tutti, è la cosa più bella, quando la formula richiama alla consapevolezza della funzione sociale dell’avvocato; senza di noi, mi diceva, non ci sarebbero la dignità, la famiglia, la comunità. Voglio che tutti gli avvocati siano orgogliosi - ha concluso la mamma di Lorenzo - della dignità della professione forense, solo così non sarà morto per niente".

Che strano! Una famiglia di geni. Tutti avvocati e giudici! C'è da chiedersi come si fa a nascere in certe famiglie e vincere tutti i concorsi pubblici e gli esami di Abilitazione?

Dura presa di posizione dell’Organismo unitario dell’avvocatura. L’Oua, che oggi ha riunito la giunta a Roma, chiede che si metta fine alle polemiche sterili, ricordando che nei tribunali lavorano fianco a fianco avvocati e magistrati, nonché tutti gli altri operatori del settore: "Sarebbe inaccettabile che si facessero differenze di fronte a un fatto tragico come questo: non esistono vittime di serie A e di serie B". "Evocare un clima contro i giudici - sottolinea in una nota l’Unione delle camere penali - è fuorviante e quantomeno inopportuno. L’omicida ha, infatti, espresso il suo sentimento di rabbia e vendetta nei confronti di chi riteneva ingiustificatamente responsabile delle sue disavventure, e ciò non ha nulla a che vedere con un’asserita delegittimazione o con il discredito della magistratura. Speravamo di non dovere aggiungere altro di fronte a una tragedia quale questa. Avevamo rilevato che si trattava di un dramma per il quale si doveva esprimere il più profondo cordoglio alle famiglie delle vittime e che colpiva avvocatura, magistratura e società nel suo complesso. Come bene ha detto il presidente della Corte di Appello di Milano Giovanni Canzio di fronte a episodi come questo occorre misurare gesti e parole e non è il tempo per rivendicazioni corporative o sindacali". A conferma del clima da caccia alle streghe e del "tutti contro tutti", per salvare credibilità (e faccia), spunta anche un'altra grave accusa. Quella di alcuni vigilantes in servizio al tribunale di Milano, che puntano il dito contro gli avvocati, accusandoli di non voler aspettare troppo tempo, di pretendere di entrare subito e in alcuni casi di far passare i propri clienti per evitare le code. La colpa, come si vede, è sempre di qualcun altro. Anche questo è un il solito brutto vizio italiano. La giustizia farà il proprio corso (almeno si spera) e Giardiello pagherà per quanto ha fatto. "Li ho uccisi per vendicarmi", ha detto subito dopo l'arresto. Non ha premuto il grilletto tredici volte per punire i magistrati. Ce l'aveva con tutti: con le regole, con i soci, con il suo ex avvocato (e con quello nuovo). Con lo Stato. E, forse, con il mondo intero.

All'origine di ogni forma di corruzione. Responsabilità, ma dov’è finita? Si domanda Donatella Di Cesare su “Il Corriere della Sera”. Oggi nessuno vuole più rispondere di nulla ma chi scarica sugli altri ogni fardello nei fatti si dichiara sostituibile e superfluo. «Non ne rispondo io — mi spiace». «Che si assuma la responsabilità chi di dovere!». «Sarà il caso di passare la palla ad altri». Quante volte al giorno capita di ascoltare frasi del genere? O persino di pronunciarle? Sfuggire alla responsabilità è una prassi diffusa nella vita privata come nella sfera pubblica. Dai piccoli gesti della quotidianità ai rapporti affettivi, dai legami sociali all’agire politico: non c’è ambito che non sia pervaso da una rinuncia sistematica alle risposte che ciascuno è chiamato a dare. E la rinuncia finisce per volgersi in vera abdicazione là dove le responsabilità aumentano. Gli esempi sono molteplici: l’insegnante acquiescente che chiude gli occhi sulla prepotente bullaggine dell’allievo; il giornalista che sceglie sbrigativamente la parola più comoda o passa sotto silenzio quel che dovrebbe dire a gran voce; il magistrato che strizza l’occhio agli imputati, proscioglie quando dovrebbe condannare, allunga i tempi del processo fino alla prescrizione; il medico che tratta il paziente come un corpo malato, tra disattenzione e volontà di lucro; il politico che, mentre dovrebbe sollevare lo sguardo verso il bene comune, è chino sul proprio tornaconto. La rinuncia ad assumere le proprie responsabilità erode ogni relazione, corrode la comunità. La corruzione nasce da qui. È un fenomeno etico, prima ancora che politico. Questo non vuol dire né diluirne la portata né ampliarne pericolosamente i confini. Ma non sarà mai possibile vederne con chiarezza gli effetti devastanti, se non si risale a quel luogo in cui la corruzione affiora. Ed è là dove il legame con l’altro si deteriora, dove chi dovrebbe rispondere preferisce sottrarsi. L’io si deresponsabilizza. Chiamato in causa, non si assume l’onere della decisione, e aggira l’impegno, evade l’obbligo che lo lega agli altri. Così apre una falla, una incrinatura. E mentre una crepa si aggiunge alla precedente, la comunità, inevitabilmente, si sgretola. La corruzione non sta solo nelle mazzette — simbolo del disfacimento che prevale, dell’integrità che viene meno. Una comunità corrotta è quella i cui membri non rispondono di sé e non rispondono agli altri. La leggerezza inebriante di cui si compiace l’io deresponsabilizzato è a ben guardare una trappola. Chi ha eluso il fardello della responsabilità, crede di averla fatta franca. Si prepara a schivare così tutti i fardelli a cui andrà incontro. L’onore senza l’onere diventa il suo stile di vita. Ma ogni volta che l’io abdica, che lascia agli altri la responsabilità a cui era stato chiamato, crede, e fa credere, di essere sostituibile. «Perché mai dovrei risponderne proprio io? Che se la veda qualcun altro!». Può darsi che il «qualcun altro» che viene dopo si comporti in modo analogo — in un continuo rinvio, un incessante riversarsi a vicenda pesi e obblighi. Eppure nessuno è sostituibile. La responsabilità che incombe su di me, in questo momento, non può essere ceduta. Se la cedo, non solo apro una falla, ma accetto l’idea che qualcuno potrebbe rimpiazzarmi. Mentre nessuno, mai, può farlo. L’io deresponsabilizzato ammette invece di essere sostituibile, avvalora la sconcertante ipotesi della propria superfluità. Si crede in genere che la responsabilità sia un gesto ulteriore di un soggetto autonomo e sovrano. Nella sua superba priorità questo soggetto, privo di vincoli, detterebbe legge a se stesso. Ma che cosa sarebbe l’io senza l’altro che sempre lo precede? Il mondo non è cominciato con me. Prima di me c’è sempre l’altro che mi convoca, mi interroga, e a cui sono chiamato a rispondere. Non per un atto di adesione volontaria — valutando se dire sì o no. Ma semplicemente volgendomi verso chi mi chiama. Prima ancora di ogni possibilità di scelta, perché è nella torsione verso l’altro che l’io si costituisce. Rispondo, dunque sono. Senza la responsabilità, l’io non esisterebbe neppure. La mia esistenza si coagula ogni volta nell’obbligo che mi vincola all’altro. Se eludo l’obbligo, gli effetti ricadono sul mio stesso esistere. La leggerezza inebriante si rivela inconsistenza angosciosa. E quel detestabile io, che pretendeva di essere soggetto assoluto, rischia di restare tragicamente intrappolato nella sua errata idea di libertà astratta, senza più via d’uscita. I filosofi non hanno mai parlato tanto di «responsabilità» come in questi ultimi decenni. Con Emmanuel Lévinas e con Hans Jonas la responsabilità è diventata, anzi, uno dei temi più discussi nel dibattito contemporaneo. Il che non sorprende. Perché viviamo nell’epoca di una crescente deresponsabilizzazione. La complessità del mondo globale, la rilevanza assunta dalla scienza che, malgrado i progressi compiuti, appare sempre più incapace di offrire un orientamento e dar conto delle sue stesse scelte, la specializzazione estrema e il connesso ruolo dell’«esperto», al quale viene spesso lasciata la parola ultima, la frantumazione della responsabilità, che impedisce di scorgere le ripercussioni dei propri gesti: tutto ciò ha contribuito a privare i più della possibilità di decidere e di agire. È la razionalizzazione tecnica della vita a influire, però, in modo determinante. Dove trionfa la tecnica viene meno la responsabilità. Non solo perché l’essere umano è diventato «antiquato» rispetto ai suoi stessi prodotti, costretto — come ha sostenuto Günther Anders — a rincorrerli disperatamente, nel tentativo vano di sincronizzarsi alla loro disumana rapidità. Ma anche perché l’ingranaggio della tecnica stravolge il rapporto tra mezzi e fini, nel senso che potenzia i mezzi e fa perdere di vista i fini, sia quelli individuali, sia quelli comuni, che rendono coesa una comunità. Si è in grado di fare molte più cose, ma non si sa bene a che scopo. Così, mentre si moltiplicano le etiche applicate, dalla bioetica all’«etica degli affari», volte non di rado a rassicurare l’opinione pubblica sulla moralità di un settore, ad esempio quello delle imprese, mentre dunque l’etica può diventare a sua volta fonte di profitto, la «responsabilità» resta la terra incognita di questa tarda modernità, la stessa che abita un pianeta devastato, dove nulla sembra ci sia ancora da scoprire. La responsabilità è infatti rispetto sia per gli altri, sia per quell’altro che sono le cose del mondo. Da quando gli esseri umani sono diventati più pericolosi per la natura, di quanto la natura fosse per loro, si rende necessaria un’etica che risponda all’esigenza di lasciare alle generazioni future un pianeta ancora vivibile. Sono responsabile non solo verso l’altro che sempre mi precede, ma anche verso l’altro che viene dopo di me. E guardando al suo futuro non dovrei allora mai mancare di chiedermi se anche il più piccolo dei miei gesti non avrà ricadute su di lui. Proprio quello che non mi riguarda richiede la mia attenzione. Solo io sono responsabile — sta qui la suprema dignità umana.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: "Per l'Europa è tortura anche il carcere duro. I forcaioli che dicono?". Se fosse introdotto il reato di tortura allora dovremmo abrogare anche il 41 bis, il cosiddetto carcere duro: come la mettiamo? Il paradosso è decisamente sfuggito all’ampio fronte che ieri ha plaudito alla decisione della Corte Europea di condannare l’Italia per il reato appunto di tortura, che da noi non esiste: ed è interessante che trattasi dello stesso fronte che considera il 41 bis come un moloch sacro e intoccabile, anzi, vorrebbe estenderne l’applicazione. Tocca citare il solito Fatto Quotidiano (che ieri ha ufficialmente scoperto la Corte Europea per i diritti umani) ma anche il Corriere della Sera e nondimeno ampi settori del Pd, tutta gente che invoca una legge che sembra eternamente pronta, sempre in dirittura d’arrivo: ma di cui, di fatto, si parla e basta dal 1984, anno in cui l’Italia firmò la convenzione Onu contro la tortura. La condanna del 2008 - E quel che non si ricorda - dicevamo - è che la stessa Corte Europea ha condannato lo Stato italiano per il regime del 41 bis: il 16 gennaio 2008 fu deliberato che quel regime violava due articoli della Convenzione, al punto che l’avvocato del ricorrente dichiarò che «il 41 bis è una Guantanamo italiana». Ma non c’è solo la Corte Europea. Più di un giudice statunitense, negli anni passati, condannò il carcere duro all’italiana come un regime di detenzione al quale la giustizia americana non voleva prestare il fianco. Uno dei casi più noti risale all’11 settembre 2007, quando un magistrato di Los Angeles negò l’estradizione in Italia del narcotrafficante Rosario Gambino - che aveva già scontato 22 anni - perché a suo dire il 41 bis aveva caratteristiche «che costituiscono una forma di tortura» e violavano la convenzione delle Nazioni Unite in materia: le stesse motivazioni della Corte Europea. Ma le fonti sono anche altre: basta rileggere i rilievi del Dipartimento di Stato americano sul rispetto dei diritti umani nel nostro Paese, quelli di Amnesty International, così pure i rapporti degli ispettori europei che visitarono il nostro sistema penitenziario: nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (C.P.T.) disse che il 41 bis italiano era risultato il più duro tra tutti quelli esaminati dagli ispettori: la delegazione parlò di trattamenti inumani e degradanti che potevano tradursi in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili. Ultime ma non ultime, ci sono le denunce solitarie e puntuali di Amnesty Italia e di Nessuno tocchi Caino. Risale a meno di due settimane fa, poi, la denuncia del senatore Giuseppe De Cristofaro di Sinistra Ecologia e Libertà: «Se la ratio del 41 bis resta quella di costringere al pentimento, allora è una tortura». Celebrazioni selettive - Insomma: questa celebrazione selettiva delle sentenze della Corte Europea - soprattutto da parte del fronte forcaiolo - può diventare imbarazzante, perché è la stessa Corte che ci ha condannato non solo per il 41 bis (tortura anche quella) ma anche per  durata eccessiva dei procedimenti e per il sovraffollamento carcerario. Da non confondere con la Corte di giustizia europea, quella che nel novembre 2011 ha detto che dovevamo aggiornare la norma sulla responsabilità civile dei giudici. Morale: è un attimo santificare le cortei e trovarle, subito dopo, tremendamente impiccione.

Quante vittime della giustizia condannate a perdere la testa. Dal dirigente convinto che Borrelli fosse un clone al «vendicatore» che suonava «Bella ciao» Stritolati da attese infinite e sentenze inaccettabili, molti crollano. E diventano casi clinici. Ci sono quelli che sparano. Quelli che si mettono a suonare la fisarmonica sotto il tribunale. E poi c'è l'infinito numero di quelli che si consumano nel chiuso delle loro case e delle loro teste, e dissolvono anni e patrimoni in carte bollate e fotocopie, sempre più voluminose e sempre meno comprensibili. Non sono matti. Ma sono tutti, in diverso modo e misura, vittime della psicosi da giustizia. Una malattia reale e inguaribile, che chiunque frequenti i tribunali conosce bene. E talmente pervasiva da far ritenere quasi consolatorio che i casi come quelli Claudio Giardiello, cui il senso di persecuzione ha armato la calibro 9 e la voglia di sangue, siano così pochi. É una psicosi che non ha nulla a che vedere con la delegittimazione della magistratura berlusconiana o renziana; ma che nemmeno è figlia di particolari brutalità di questo o quel magistrato. Se si vanno ad analizzare una per una le cento storie di cittadini che hanno perso il senno inseguendo il mito di una giustizia giusta, l'impressione che se ne cava è che a stritolarli non sia stata l'effettiva iniquità del loro caso, ma la potenza distruttiva del sistema giudiziario in quanto tale. La macchina del processo parte, viaggia coi suoi ritmi imperscrutabili, trita. Non solo quando si occupa di delitti o di anni di galera, ma anche - e anzi più spesso - quando piccoli, quasi futili diritti (l'avanzamento di carriera; il prato usurpato; eccetera) veri o immaginari che siano non trovano soddisfazione. Davanti alla sentenza contraria c'è chi si rassegna. E c'è chi si avvita in un mondo tutto suo, dove giudici, avvocati, testimoni contrari finiscono per impersonare gli attori di un unico gigantesco complotto ai loro danni. Nel palazzo di giustizia di Milano, quello che l'altro ieri Giardiello ha trasformato in mattatoio, la galleria di queste vittime dell'illusione di giustizia è lunga: e potrebbe apparire persino pittoresca se dietro ognuno di questi casi non si celassero tragedie profonde. Ai tempi di Mani Pulite, un dirigente di banca urlava la sua rabbia nei corridoi della Procura, sostenendo che il Borrelli che vi si aggirava fosse in realtà un sosia del vero procuratore, finito agli arresti per le sue malefatte. A portare il dirigente sull'abisso era stata una causa contro la sua banca, in cui si era visto dare torto; aveva denunciato i giudici ad altri giudici, e questi ad altri ancora. Uno dei vice di Borrelli aveva un suo stalker personale, un maestro di musica che accusava la cantante Mietta di avergli rubato una canzone: tra magistrato e visionario si stabilì una sorta di simbiosi, al punto che quando il primo cambiò procura se lo portò appresso. Un medico accusato e poi prosciolto dall'accusa di avere ucciso in collega si è aggirato a lungo, tuonando o ragionando a seconda dell'umore, nei corridoi del tribunale. Oggi a incarnare queste tristezze è un ingegnere di profonda cultura, che nella sua rabbia sommerge l'intera magistratura di insulti irriferibili, e si vendica suonando Bella Ciao sotto le finestre del palazzo di giustizia, fin quando a ondate successive di Tso - trattamenti sanitari obbligatori, il destino di tanti di questi sventurati - lo spediscono a venire sedato in un reparto ospedaliero. Questi sono i casi estremi. Ma il punto di non ritorno lo superano in tanti. Certo, la lentezza estenuante della giustizia italiana ha il suo peso, nel logorare l'equilibrio, nell'ingigantire la portata dei torti subiti e dei diritti negati; a spezzare l'equilibrio della gente però è soprattutto la distanza siderale tra il proprio carico emotivo e la freddezza della giustizia: che ha nei suoi simboli a volte la spada, a volte la bilancia, ma mai il cuore. Nell'autunno scorso, quando il Giornale aprì la sua casella di mail alle storie di malagiustizia, insieme a tante vicenda gravi e oggettivamente scandalose, fu impressionante il numero di racconti dove era difficile districarsi tra paranoia, delirio di persecuzione, battaglie contro i mulini a vento. Forse affidare nell'immaginario collettivo una visione salvifica della Giustizia con la «G» maiuscola ha incrementato il numero di queste catastrofiche disillusioni. Ma le psicosi da diritto negato sono sempre esistite, e probabilmente esisteranno per sempre.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi.    Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

A conferma di ciò mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano  i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali  con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis  ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova  per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati  della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

I magistrati sanno solo dire: “Lei non sa chi sono io?”

Giudice insulta il vigile che lo multa e finisce sotto processo al Csm. Ad aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Pier Franco Bruno una sanzione disciplinare, scrive Fulvio Fiano su "Il Corriere della Sera”. «Ma tu sai chi sono io? Non mi riconosci o fingi di non riconoscermi? ». « Dispiacente, io in servizio non riconosco nessuno.... ». Non è il dialogo tra il sindaco Vittorio De Sica e il vigile Alberto Sordi, ma molto vi somiglia. Il più classico dei «Lei non sa chi sono io» l’ha pronunciato stavolta un giudice «infastidito» dall’insolenza di un pizzardone che pretendeva di multarlo. La sua reazione per l’auto sanzionata in divieto di sosta in pieno centro a Roma diventa ora materia per il Csm. «Io sono un magistrato della Corte costituzionale, la multa me la deve togliere e basta», avrebbe sostenuto in un rigurgito di «lesa maestà» il giudice del tribunale di sorveglianza Pier Franco Bruno di fronte al vigile e al suo blocchetto delle contravvenzioni. La lite è raccontata nell’atto di incolpazione redatto dalla procura generale della Cassazione. E quando il semplice titolo di magistrato non è bastato ad ammorbidire l’agente della municipale, il giudice sarebbe andato oltre, minacciandolo: «sappia che tutto questo avrà un seguito». Il 17 aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Bruno una sanzione disciplinare. Il magistrato si sarebbe spinto sino a offendere «l’onore e il decoro» del suo interlocutore. E lo avrebbe fatto sostenendo che l’80% delle violenze e degli oltraggi che ricevono i vigili sono provocati dai loro atteggiamenti. Insomma, una sceneggiata. Tra la divertita curiosità dei passanti e il «disagio e sconcerto» degli altri vigili accorsi. Per le sue escandescenze il giudice è finito anche sotto processo a Perugia,dove però il gip ha archiviato.

Se invece succede qualcosa di cui loro sono responsabili se ne escono a “Coppe”.

Come ha fatto Giardiello a entrare armato nel Palazzo di giustizia? “E’ veramente qualcosa che non riesco a spiegarmi – spiega a SkyTg24 il giudice Gherardo Colombo, membro del pool di Mani Pulite – sia l’entrata per il pubblico, sia quella per avvocati e magistrati sono controllate in modo rigoroso. Non so proprio spiegarmi come possa essere stata introdotto una pistola all’interno del Palazzo”. “Sono frastornato e sconvolto – ha detto ancora Colombo – conoscevo personalmente il giudice Ciampi, che si possa morire così, mentre si sta svolgendo il proprio lavoro, è assurdo”. Un episodio del genere è rivelatore “di un clima che c’è oggi contro la magistratura – ha detto ancora il magistrato – non dico che vi sia un collegamento, me ne guardo bene, ma certamente questa continua sottovalutazione del ruolo, di svalutazione dei magistrati, contribuisce a creare un clima. Quanto è successo è terribile”.

Neanche la morte è uguale per tutti. Dal capo dello Stato a Di Pietro: cordoglio solo per il giudice ucciso. E nessuno si "ricorda" del giovane avvocato morto Vaglio (Ordine avvocati di Roma) "Spero che non mancherà di ricordare il collega" Tagliaferri (Camera penale Roma): "Tutte le vite hanno lo stesso valore", scrive Luigi Garbato su "Il Tempo". Onore a Fernando Ciampi, magistrato morto ammazzato a Milano per mano di un uomo fallito, in tutti i sensi. Il capo dello Stato ha reso omaggio alla memoria del giudice ma ha ammonito: "Basta discredito sulle toghe». Antonio Di Pietro, con lui i soliti noti, tra un Fatto e l’altro, è apparso in tivvù e ha accusato il sistema, governanti e affini, di avere allestito, in questi ultimi vent’anni, un attacco feroce alla magistratura; il morto di Milano, dunque, sarebbe il conto da fare pagare non soltanto all’omicida Giardiello, in galera a vita mi auguro, ma al resto della ciurma, di giornalisti e folla di piazza, che si è scagliata contro i depositari della giustizia. Invece di ammettere le proprie colpe, sostiene Di Pietro, si preferisce accusare chi è chiamato a correggerle e a punirle. Verissimo ma, a volte, l’ammissione dovrebbe essere reciproca e non risulta, agli atti e agli archivi, che nessun magistrato finora abbia pubblicamente dichiarato un proprio errore, chiedendo almeno scusa al condannato senza colpa. Ma questo nulla toglie alla gravità dell’evento e alle vittime della pazzia (Di Pietro, in verità, sostiene che l’azione di Claudio Giardiello non sia stata un atto di improvvisa follia ma un disegno studiato, preparato e realizzato ad arte). La domanda sorge spontanea: come mai Mattarella, Di Pietro e gli altri di cui sopra, non hanno fatto un accenno, così anche per distrazione non dico per cordoglio, a Lorenzo Claris Appiani, l’avvocato ucciso anche lui nelle stanze, buie e sporche, del Palazzo di Giustizia milanese? Forse perché la morte di un avvocato ha un valore inferiore a quella di un giudice? Forse perché nei confronti della categoria degli stessi avvocati, o di quella dei medici o, ancora, di quella dei giornalisti, uccisi anch’essi negli anni di piombo e ancora oggi, non ci sia stata mai, in questi ultimi vent’anni, una strategia della tensione e dell’odio? O forse perché se muore un avvocato non fa notizia come, invece, accade quando a morire è un giudice? Allora la casta si ribella, chiama all'ordine il Paese tutto, interviene anche il Capo dello Stato che chiede rispetto per le toghe. Ma la toga di un magistrato è differente da quella di un avvocato in giudizio? Chi non la indossa vada pure all'inferno, si limiti a registrare un cenno di cronaca e una carezza ai parenti e sappia che la sua morte passa in secondo piano, anche nei titoli dei tiggì e dei giornali. Dopo il martirio, in esclusiva, si esige la beatificazione del magistrato. Fernando Ciampi non ha alcuna colpa di questo vociare opportunista. Lorenzo Claris Appiani non sapeva che, se la legge è uguale per tutti, la morte ha la facoltà di distinguere. Parola di giudice. Non di Dio.

L'ira degli avvocati contro i giudici "Per loro siamo le vittime di serie B". Dopo la sparatoria in tribunale, i legali protestano per l'eccessivo protagonismo delle toghe: "Fuorviante parlare di clima antimagistrati, ci siamo anche noi", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”.  Anche in mezzo a una tragedia, c'è chi cerca di rubare la scena agli altri. E mentre tutti parlano di «attacco alla magistratura», gli avvocati insorgono: «Non esistono vittime di serie A e di serie B». L'Organismo unitario dell'avvocatura si appella al Capo dello Stato Sergio Mattarella, perchè «si contrasti anche la campagna denigratoria contro l'avvocatura in corso da anni, non solo quella rispetto alla magistratura». Stessa linea dei penalisti: «Evocare un clima contro i giudici è fuorviante e quantomeno inopportuno», dicono, per un fatto «attribuibile a una lucida follia, frutto forse della disperazione e di un disagio sociale». La nota dell'Unione Camere Penali parla chiaro: «Sul processo, civile o penale che sia, si scaricano tutte le tensioni e le aspettative sociali, il che rende più vulnerabili i suoi protagonisti, senza nessuna distinzione». Per i penalisti, «l'omicida ha espresso il suo sentimento di rabbia e vendetta nei confronti di chi riteneva ingiustificatamente responsabile delle sue disavventure, e ciò non ha nulla a che vedere con una asserita delegittimazione o con il discredito della magistratura». In quell'aula del tribunale di Milano, diventata la scena del crimine, è caduto sotto i colpi di un imprenditore folle un ragazzo biondo di 37 anni, il giovane avvocato Lorenzo Claris Appiani. Quando il padre e la madre, avvocato pure lei, sono entrati nella sala del palazzo di Giustizia per la sua commemorazione, ne uscivano i neoavvocati che avevano prestato giuramento. Come Lorenzo, solo pochi anni fa. Gli applausi e le lacrime, più ancora dei discorsi, ricordano quel momento. Un entusiasta avvocato agli inizi di una carriera che si prometteva brillante e uno stimatissimo magistrato, Fernando Ciampi, che a 71 anni si avviava alla sua conclusione: due vittime della strage che sono, devono essere, sullo stesso piano. Lo dice anche l'ex Guardasigilli, l'avvocato Paola Severino: «Questo episodio raccapricciante ha riguardato giudici, ma anche avvocati e testimoni. Tutti coloro che contribuiscono alla formazione di una sentenza e della giustizia devono essere tutelati». Sottolinea il presidente Oua, Mirella Casiello: «Sarebbe inaccettabile che si facessero differenze di fronte a un fatto tragico come questo. L'avvocatura, da anni, subisce una continua campagna di denigrazione, si viene dipinti come azzeccagarbugli, come lobby di affaristi e compagnia cantando. Non vengono discreditati solo i giudici, quindi, come ha giustamente sottolineato la massima carica dello Stato. Anche gli avvocati sono troppo spesso, ingiustamente, sul banco degli imputati». Ieri l'Oua ha riunito la giunta a Roma. Chiede che si metta fine alle polemiche sterili e un incontro urgente con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: sulla sicurezza, sì, ma anche su come recuperare fiducia e rispetto dei cittadini verso la Giustizia e chi la rappresenta. «Spesso i tribunali sembrano dei bazar, dei mercati, non i templi del diritto», dice la Casiello. «Da sempre prima linea della lotta alla criminalità e ai soprusi, sono diventati la trincea simbolica del disagio sociale e, in alcuni casi, della follia assassina. Gli avvocati, spesso, diventano capri espiatori. Se c'è la crisi, se la mia impresa va male, rischio di fallire, la colpa è dell'avvocato che mi ha difeso male nel processo». L'Ucpi sottolinea: «Gli avvocati sono, al pari dei magistrati, soggetti della giurisdizione, che concorrono all'amministrazione della giustizia e non sono ospiti in tribunale. Meritano la stessa fiducia e devono sottoporsi agli stessi controlli di magistrati e personale amministrativo». E il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin: «L'avvocatura resterà in prima linea a tutela della nostra democrazia, ma non può e non dev'essere lasciata sola».

“Il mio Giorgio ignorato da tutti. Non voglio i funerali di Stato”. La vedova dell’uomo ucciso in Tribunale con il giudice e l’avvocato: “Alla commemorazione non c’ero: nessuno mi aveva invitata”. La cerimonia dell’altro giorno in ricordo delle vittime: la vedova di Sergio Erba non c’era, scrive Fabio Poletti su “La Stampa”. Saranno funerali di Stato a metà. Non ci sarà il feretro della terza vittima, Giorgio Erba, l’ex socio di Claudio Giardiello ammazzato anche lui in Tribunale. Lo ha deciso sua moglie Rosanna Mollicone: «Ci sono stati vari annunci ma nessuno ha parlato con me. I funerali di mio marito avverranno mercoledì alle 10 e 45 nel Duomo di Monza con tutti i suoi amici».

Signora Rosanna Mollicone, perchè questa scelta?

«L’unica persona con cui ho parlato in tutti questi giorni è un tal signor Ferraro o Ferrari del Tribunale... Questo incaricato mi ha contattato venerdì pomeriggio per dirmi che al mattino c’era stata in Tribunale a Milano la commemorazione delle vittime. Ma io non c’ero. Perchè nessuno mi aveva avvertito. Nessuno mi ha chiesto di partecipare. Ho visto la cerimonia al telegiornale della sera. L’unico telegiornale che ho guardato in questi giorni».

E allora lei ha deciso che la bara di suo marito non sarà ai funerali di Stato...

«Sono lusingata se i famigliari delle altre vittime che stimo - un bravo giudice e un bravo avvocato - hanno pensato che si potessero fare i funerali tutti insieme...».

Ma?

«A me non importa la vetrina delle autorità. Io non sono mai stata contattata da nessuno, tantomeno da Matteo Renzi o da altre persone dello Stato come ho letto. E non ho ricevuto alcuna telefonata dal cardinale Angelo Scola come qualcuno aveva preannunciato. Allora preferisco che mio marito sia ricordato dai suoi amici. Sono stati i primi a pensare che ci fosse un momento di preghiera tutto loro per Giorgio».

In che senso?

«Mio marito era un grande appassionato di volo a vela. I suoi compagni avrebbero voluto che i funerali fossero celebrati nel campo che frequentava da tanti anni. La curia di Como ci ha fatto però sapere che non era possibile perchè i funerali devono avvenire solo ed esclusivamente in una chiesa. Allora mi sono informata e ho deciso che i funerali di Giorgio saranno mercoledì ma nel Duomo di Monza. Dove sono sicura verranno tutti i suoi amici».

E magari zero autorità...

«A me non interessa. Anche se nessuna delle cariche dello Stato mi ha chiamato io non mi sono mai sentita sola un minuto. Ci sono 300 o 400 persone che mi stanno vicine. Sono persone che volevano partecipare a un momento di preghiera per mio marito. Se io avessi accettato di far celebrare i funerali di mio marito con quel giudice e quell’avvocato solo 4 o 5 degli amici di Giorgio sarebbero entrati in chiesa».

Quindi lei tra le autorità e gli amici di suo marito sceglie questi ultimi?

«Io credo molto in Dio. Credo che davanti a lui siamo tutti uguali senza distinzioni. Preferisco che in chiesa ci siano tutte le persone che lo amavano e lo rispettavano, non una parata di autorità. Per mio marito sarebbero stati più importanti i suoi amici con cui divideva la passione del volo a vela».

Dopo le polemiche di questi ultimi giorni sui morti di serie A e di serie B, lei crede che ci siano anche partecipanti ai funerali di serie A e B?

«Se non avessero ucciso anche un giudice - una persona degnissima, un bravo magistrato - quello che è accaduto sarebbe finita come tutte le cose che avvengono in Italia. Io so che quelle 300 o 400 persone che mi stanno vicino in questi momenti tra qualche giorno diventeranno molto meno e alcune le perderò di vista per sempre. Ma adesso le sento vicinissime a me. L’altro giorno una famiglia musulmana che conosco ha detto che avrebbe pregato per me. È una cosa che mi ha fatto molto piacere anche se non siamo della stessa religione. Davanti a Dio siamo tutti uguali, siamo 7 miliardi di anime».

Lei non aveva mai parlato con un giornalista...

«E non intendo farlo più».

Va bene. Ma in questi giorni si è parlato molto di suo marito. Del fatto che era il coimputato di chi lo ha ucciso, delle liti che avevano... Vuole raccontarci lei chi era Giorgio Erba?

«Non mi interessa. Non è un problema mio quello che viene scritto sui giornali o detto alla televisione. Io so molto bene che Giorgio era una persona onesta. E lo sanno tutti i suoi amici che vorranno essergli vicino al funerale, mercoledì in Duomo a Monza».

L’ex moglie difende l’assassino «Troppo facile dire che è un folle». Anna Siena: «I suoi legali non si sono impegnati come avrebbero dovuto Nel lavoro ha aiutato tante persone, le stesse che gli hanno voltato le spalle», scrivono Andrea Galli e Gianni Santucci su “Il Corriere della Sera”. Eppure «è troppo facile adesso dire che è un folle impazzito». Nonostante tutto. Nonostante le vittime innocenti, le famiglie annientate. Anna Siena è l’ex moglie di Claudio Giardiello. Si sono innamorati e sposati da giovani. Hanno avuto due figli, il maggiore di 30 anni e la minore di 24. Più di metà vita insieme. Fino alla separazione, effetto collaterale della devastazione nella quale il killer era caduto travolto dai debiti, dai fallimenti, dalle ossessioni di un uomo convinto d’essere un perseguitato. «Ho letto sui giornali e sentito in tivù colleghi che hanno parlato del raptus di un pazzo, di una persona psicologicamente fuori controllo. Ma nessuno si sta fermando a ricordare il lato umano di Claudio. Quello che ha fatto per aiutare tanta gente nel mondo del lavoro. La stessa gente che l’ha affossato e lasciato affondare». Agli investigatori e ai (pochi) conoscenti che in questi giorni drammatici l’hanno ascoltata e incontrata nella sua casa di Brugherio, subito fuori Milano, la cinquantenne Anna ha po-sto alcune domande. «Perché Claudio ha cambiato così tanti avvocati? Possibile che non ce ne fosse uno che andava bene? Oppure gli avvocati non si sono impegnati come avrebbero dovuto, hanno lasciato che le cose andassero per la loro strada senza intervenire?». Un altro degli interrogativi dell’ex moglie era già stato anticipato da Fabio Fanciullacci, uno degli amici più intimi di Giardiello; l’interrogativo riguarda i procedimenti che vedevano imputato il killer. Dall’estorsione alla truffa, dalla bancarotta fraudolenta alle lesioni. Problemi con le banche, problemi con gli ex soci, problemi con i curatori fallimentari, problemi con il povero nipote Davide Limongelli, uno dei feriti di giovedì in Tribunale. Come Fanciullacci, anche Anna si domanda se qualcuno ha mai voluto per davvero esaminare il «contenuto» dei procedimenti. Siamo proprio sicuri che tutte le accuse avessero un fondamento? L’ex moglie non ha potuto vedere Giardiello in carcere. È in contatto con l’avvocato Nadia Savoca che l’aggiorna sulla detenzione nel penitenziario di Monza, una detenzione condotta in isolamento, sotto sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro nel timore che il killer si tolga la vita, come aveva in progetto di fare se fosse riuscito a eliminare l’ultimo «obiettivo», Massimo D’Anzuoni. Non ha nessuna intenzione, Anna, di seguire il coro e accodarsi a chi considera Claudio Giardiello uno psicopatico che ha trascorso l’esistenza puntando a litigare col mondo fino a farsi giustizia da solo. Con l’ex moglie, a Brugherio, in una palazzina costruita proprio da una delle imprese di Giardiello, vive la figlia, una bella ragazza che ha i lineamenti del padre e ha un passato lavorativo da hostess. Il figlio invece abita da solo, dopo aver trascorso parecchio tempo insieme al papà, a Milano, dalle parti di corso Sempione, quando già la caduta era cominciata e i soldi esauriti: il killer non aveva denaro per pagarsi un trasloco, i vecchi amici gli avevano prestato una loro macchina e avevano fatto una colletta. Quegli stessi amici adesso vorrebbero poter incontrare Giardiello, mandargli un telegramma, far sì che riceva un messaggio. Sono tutti reduci di una Milano sparita, euforia e ricchezza, lavoro e divertimento in abbondanza. Uno degli amici, il tassista di notte Mauro Malvenuti, è da un pezzo che non vede più la famiglia di Giardiello. Pescando nei ricordi, ripete che Anna e Claudio formavano una bella coppia, serena, affiatata; ma dice anche, il tassista di notte, che di solito le immagini di facciata sono illusorie, che da fuori è impossibile conoscere appieno un rapporto di coppia, anche longevo, e che bisogna star lontani dai giudizi facili. Anna ha avuto un’attività di parrucchiera e ha fatto molto la mamma. Chi la conosce giura che la sua non è una difesa d’ufficio oppure una reazione scarsamente lucida a causa dello strazio per una strage che ha prostrato anche lei e i figli. Piuttosto, appare come una donna che vuol sapere quand’è cominciato l’epilogo e che cosa da allora è stato fatto per provare a evitarlo. Alle persone che le telefonano, dice: «Se vi chiedono, non ripetete che è soltanto un folle impazzito».

«Giardiello criminale o eroe?». La pagina choc su Facebook su chi era l’imprenditore fallito. Sul social aperta una pagina dedicata all’imprenditore autore della strage in tribunale: alcuni «mi piace» e soprattutto reazioni indignate: «Vergognatevi, è un assassino», scrive “Il Corriere della Sera”. Sullo sfondo la facciata del tribunale di Milano e come «foto profilo» quella in bianco e nero di Claudio Giardiello, l’uomo che ha sparato e ucciso tre persone, durante un’udienza nel palazzo di giustizia: sono le immagini scelte per la pagina Facebook che è comparsa nel primo pomeriggio sul social network. Si chiama «Claudio Giardiello criminale o eroe?», finora conta alcuni «mi piace« e non ha indicazioni su chi l’ha creata. Non mancano però reazioni indignate da parte di utenti Facebook: «Ma cosa avete nel cervello!!! Le vittime sono i 4 poveri cristi - è il tenore di una serie di commenti - che sono stati uccisi da Giardiello... già forse vi era sfuggito, ma è appena morto il quarto. Vergogna!». Sicuramente gesto sbagliato. Poche righe descrivono il senso della pagina: «Sicuramente gesto sbagliato ma quanti Claudio Giardiello ci sono vittime del sistema che ti rovina l’esistenza e ti induce a commettere queste azioni». Poi un post in cui si chiede una riflessione sulla situazione di un uomo «tagliuzzato da uno Stato che vuole solo fregarti le tasse». E il post conclude: «Ora io non voglio assolutamente giustificare il suo gesto ma riflettiamo su quanti Claudio Giardiello ci sono in Italia».

Su Facebook spunta una pagina a favore di Giardiello. Frasi choc sul social network: "Riflettiamo su quanti Claudio Giardiello ci sono in Italia per colpa di uno stato strozzino, con situazioni simili pronti ad esplodere", scrive Luca Romano su  “Il Giornale”. Incredibile ma vero, c'è qualcuno che si schiera dalla parte dell'uomo che ha sparato e ucciso tre persone all'interno del Palazzo di Giustizia di Milano. Su Facebook spunta una pagina intitolata "Claudio Giardiello Criminale o Eroe?". Si capisce subito da che parte sta chi l'ha creata: "Sicuramente un gesto sbagliato - si legge - ma quanti Claudio Giardiello ci sono vittime del sistema che ti rovina l’esistenza e ti induce a commettere queste azioni". "Come definire Claudio Giardiello! - si legge nel post -. Sicuramente gesto forte ma pensiamo alla situazione dietro a quest’uomo, tagliuzzato da uno stato che vuole solo fregarti le tasse, messo in croce con continui processi e condanne, sicuramente derubato di tutti i suoi beni materiali e per finire hanno tentato di metterlo pure in gabbia. Ora io non voglio assolutamente giustificare il suo gesto ma riflettiamo su quanti Claudio Giardiello ci sono in Italia per colpa di uno stato strozzino, con situazioni simili pronti ad esplodere".

Milano, su Facebook spunta la pagina che inneggia al killer. Il web offre uno spazio di difesa all'imprenditore. Ci si chiede: "Giardiello criminale o eroe?" Scrive Michele Di Lollo su “Il Tempo” . Aveva un falso tesserino da mostrare all'ingresso e un'imputazione per bancarotta fraudolenta. Il fallimento sarebbe alla base del gesto estremo dell'imprenditore. Claudio Giardiello ha 57 anni. E' nato a Benevento, ma risiede in Brianza, a Brugherio. Aveva un paio di società immobiliari, entrambe fallite, la prima nel 2008, la seconda nel 2012. Ha sparato questa mattina nel Tribunale di Milano. Ha fatto 3 morti e 2 feriti. Ha ucciso un giudice, un avvocato e un testimone. Da tre anni le sue aziende erano entrate in una profonda crisi economica. Dovrebbe essere questa la causa scatenante della follia. Dopo una fuga durata poco più di un'ora Giardiello è stato rintracciato e fermato dai carabinieri a Vimercate. È stato quindi accompagnato in caserma, dove gli è stato notificato l’ordine di arresto per essere poi interrogato. E' chiamato a spiegare i motivi del tragico gesto. "Criminale o eroe?" Tra lo stupore di opinione pubblica e governo (Matteo Renzi parla di "gesto incomprensibile", ndr), la rete si muove in fretta. Non prende le parti del folle, ma si pone una domanda che, se comparata alla violenza e alle vittime della tragedia, sembra offrire uno spazio di difesa all'attentatore. Viene creata una pagina su Facebook dal titolo: "Giardiello criminale o eroe?" Un titolo che sembra mancare di rispetto alle famiglie e alle vittime, innocenti, della strage. Mentre il premier in conferenza stampa, prima che parta per un impegno internazionale a Malta, si chiede come sia stato possibile e cosa sia andato storto nel comparto sicurezza del Tribunale milanese, il web offre un primo riparo al killer. Il social network, come un avvocato d'ufficio senza madato, mostra un lato in ombra del crimine. Nel post pubblicato sulla bacheca si legge: "Sicuramente un gesto sbagliato, ma quanti Claudio Giardiello ci sono vittime del sistema che ti rovina l'esistenza e ti induce a commettere queste azioni?" Una riflessione a sostegno dell'uomo. "Come definire Giardiello? Sicuramente autore di un gesto forte, ma pensiamo alla situazione dietro il gesto: uno Stato che vuole solo fregarti con le tasse, un imprenditore messo in croce con continui processi e condanne, derubato di tutti i suoi beni materiali prima di tentare di metterlo pure in gabbia". Chi scrive prende poi le dovute distanze: "Ora io non voglio assolutamente giustificare il suo gesto ma riflettiamo su quanti Giardiello ci sono in Italia. Un branco di disperati, ridotti sul lastrico per colpa di uno Stato strozzino". Uomini con un'ingiustizia da espiare e con una pistola carica pronta a uccidere.

Sparatoria a Milano: Claudio Giardiello è un eroe per molti utenti di Facebook. Su Facebook sono già nate diverse pagine a sostegno di Claudio Giardiello l’imprenditore che stamattina ha compiuto una strage al Tribunale di Milano, per molti utenti del noto social network, l’uomo, adesso arrestato, è un eroe, scrive “Urban Post”. Gli utenti di Facebook hanno impiegato pochi minuti a creare sul social network delle pagine di solidarietà a sostegno di Claudio Giardiello, l’imprenditore presunto pluriomicida che ha sparato stamattina al Tribunale di Milano uccidendo 4 persone. In questi gruppi leggono frasi del tipo: “Giardiello ha sbagliato, ma lo Stato vessa i cittadini e li spinge a gesti estremi”. Mentre in un altra pagina a difesa dell’imprenditore gli internauti si chiedono: “Claudio Giardiello, criminale o eroe?”. Le discussioni all’interno di queste pagine sono molto significative, uno dei commenti dice: “Sicuramente gesto sbagliato ma quanti Claudio Giardiello ci sono vittime del sistema che ti rovina l’esistenza e ti induce a commettere queste azioni”. In un’altro gruppo ancora più schierato a favore di Giardiello e della strage che gli viene attribuita si trova scritto: “Claudio Giardiello sicuramente ha fatto un gesto estremo spinto dal’esasperazione e da uno stato che pensa solo a strozzarti con tasse assurde spingendoti al fallimento.
Non voglio giustificarlo ma fermiamoci un’attimo a pensare quanti Claudio Giardiello ci sono pronti ad esplodere con situazioni simili, tagliuzzati da uno stato che pensa solo ad incassare spingendoti alla bancarotta togliendoti tutto quello che possiedi e poi tenta pure di metterti in gabbia”.

Quelli che… «Claudio Giardiello? È quasi un eroe». Commenti disgustosamente gentisti sulla strage del tribunale di Milano. Dove chi spara diventa vittima - della burocrazia, dei giudici - e chi muore aveva sicuramente fatto qualcosa di male. E non poteva mancare V per Vendetta e la minaccia al parlamento, scrive Alessandro D’Amato su “Nexquotidiano”. Ce ne sono tanti, sono intorno a voi e potrebbero esservi amici su Facebook. I commenti gentisti su Claudio Giardiello e sulla strage al tribunale di Milano non serve nemmeno cercarli: sono puntualmente tra i più votati e commentati sulle pagine Facebook dei quotidiani. Tutti i commentatori sono convinti che Giardiello fosse una specie di Taxi Driver pronto a riparare a un’ingiustizia subita lavando l’onta con il sangue. Ovviamente senza conoscere nulla della storia che ha portato il Conte Tacchia – come veniva chiamato in un documento finito per diventare una prova per la Corte – a finire a Palazzo di Giustizia.

QUELLI CHE A CLAUDIO GIARDIELLO DANNO QUASI RAGIONE. Ci sono quelli che se la prendono con gli “sciacalli usurai” del tribunale, che osavano far rispettare la legge sulla bancarotta fraudolenta. Ci sono evidentemente un sacco di giustificazionisti a prescindere. Ci sono quelli che decidono che Giardiello era un piccolo imprenditore tartassato dal sistema. Nonostante, come sappiamo, Giardiello si fosse autodenunciato per aver preso soldi in nero spartendosi gli anticipi con altri tre soci di un’azienda di cui la sua possedeva una quota, ben prima della bancarotta fraudolenta. Poi ci sono quelli che riescono a infilarci la colpa degli zinghiri anche stavolta. Oppure, come sempre, della burocrazia. Ci sono poi incredibili offese a pubblici ministeri come Ilda Boccassini. E tentativi francamente disgustosi di buttarla in politica. Insieme a tanti convinti che ci sia Equitalia di mezzo. E non poteva mancare, come nelle migliori famiglie c’è uno un po’ meno sveglio, anche quello che suggerisce di andare invece in Parlamento.

V PER VENDETTA E ALTRE SCIOCCHEZZE. Parliamo di commenti presi da quotidiani come il Fatto e il Corriere. Protesi di complotto invece riporta questa meravigliosa perla di origini sconosciute ma intuibili. Altri poeti si nascondono sulla pagina Fb di Beppe Grillo. Mentre l’aspetto sociologico della vicenda è quello che trova un collegamento tra un pazzo che spara per uccidere e i cosiddetti suicidi causa crisi, altra categoria demagogica strautilizzata in questi giorni. Anche Alba Dorata Italia, imitazione della greca, ha aperto una sottoscrizione per aiutare quella che chiamano “Una vittima del sistema usuraio. D’altro canto lo stesso Giardiello ha detto: “Volevo vendicarmi di chi mi ha rovinato”, per spiegare il suo gesto ai carabinieri che l’hanno catturato a Vimercate. La strage è scattata dopo una discussione con il suo avvocato che intendeva rinunciare al mandato. Giardiello prima ha sparato al testimone avvocato Claris Appiani, uccidendolo, poi ha esploso colpi contro Davide Limongelli, rimasto gravemente ferito. Uscito dall’aula si è imbattuto in Stefano Verna, commercialista che in passato si era occupato del fallimento della sua azienda, e gli ha sparato ferendolo a una gamba. Infine si è recato nell’ufficio del giudice Ciampi colpito con due spari: uno che gli ha trapassato il collo e l’altro all’altezza dell’inguine. Infine la fuga in moto in direzione di Vimercate, paese della Bassa Brianza nell’intenzione di uccidere altre persone e dove, fortunatamente, il killer e’ stato fermato dai Carabinieri. Ora Giardiello, che avrebbe accusato un malore, si trova ricoverato in ospedale. Gli inquirenti contano di interrogarlo il prima possibile. Lui stava andando a Vimercate per uccidere un’altra persona che considerava responsabile della sua situazione. Proprio il modus operandi di un eroe, no?

Claudio Giardiello, su Facebook create pagine: "Criminale o eroe?". Scrive “Il Giorno”. Tutte con stile simile, riportano una foto in bianco e nero di Giardiello: "Pensiamo a quest'uomo tagliuzzato dallo Stato. Quanti Claudio Giardiello ci sono vittime del sistema?" Claudio Giardelli, le pagine Facebook dedicate all'uomo che ha sparato in Tribunale a Milano. Poche ore dopo la tragedia nel tribunale di Milano, su Facebook sono comparsi sei gruppi dedicati a Claudio Giardiello, l'uomo accusato di bancarotta che durante il processo ha scatenato la sparatoria lasciando dietro di sè tre morti e un ferito. I nomi delle pagine create da ignoti autori vanno dal semplice "Claudio Giardiello" (comunità) a "Giocare a Call of Duty con Claudio Giardiello" (Chiesa), per proseguire con "Claudio Giardiello vittima dello Stato" a "Claudio Giardiello Criminale o Eroe?", "Io sono Claudio Giardiello" e "Io sto con Claudio Giardiello?" (allenatore). Su "Claudio Giardiello criminale o eroe?" si vede ad esempio la facciata del tribunale di Milano e come foto profilo quella in bianco e nero di Claudio Giardiello. Finora conta alcuni mi piace e non ha indicazioni su chi l'ha creata. Poche righe descrivono il senso della pagina: «Sicuramente gesto sbagliato ma quanti Claudio Giardiello ci sono vittime del sistema che ti rovina l'esistenza e ti induce a commettere queste azioni». Poi un post in cui si chiede una riflessione sulla situazione di un uomo «tagliuzzato da uno Stato che vuole solo fregarti le tasse». E il post conclude: «Ora io non voglio assolutamente giustificare il suo gesto ma riflettiamo su quanti Claudio Giardiello ci sono in Italia». Uno stile che si ripete anche nelle altre pagine che parlano di "uno Stato che pensa solo a strozzarti con tasse assurde spingendoti al fallimento" e "alla bancarotta togliendoti tutto quello che possiedi e poi tenta pure di metterti in gabbia" defindendo "stato strozino (sic), con situazioni simili pronti ad esplodere", per concludere con un altro che dichiara "siamo tutti vittime dello Stato e della crisi, non carnefici". Non mancano i commenti, per lo più prevalenti quelli di coloro che esprimono riprovazione per gli amministratori di tali pagine.

Virus Rai 9 aprile 2015. 21:55, in collegamento dal tribunale di Milano, c'è Filippo Barone. Parla l'ex avvocato di Claudio Giardiello: "L'ho sempre visto come una persona perbene. Da come si vestiva, poteva assolutamente sembrare un avvocato". Barone intervista un altro avvocato che afferma che entrare con un'arma nel tribunale è molto semplice. Va in onda un servizio dedicato a ciò che succede nei tribunali italiani, mandato in onda più di un anno fa.

Ma il torto sta sempre da una parte? E quindi dalla parte di quei Giardiello che, però, killer non lo sono diventati?

È la bestia nera delle banche. "Errori nei conteggi e usura". Giovanni Battista Frescura: "Ho visto fallire bellissime aziende per insolvenze inesistenti. Le Procure archiviano le denunce perché colluse con il potere finanziario: è un cancro", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. «Tutti i conti delle banche sono sbagliati. Le prime a saperlo sono le banche stesse». Con tale premessa, s'intuisce perché Giovanni Battista Frescura, consulente tecnico nei processi sul contenzioso bancario, sia diventato la bestia nera degli istituti di credito. Quando lo denunciò, una decina d'anni fa, gli italiani disposti ad assumersi l'onere di un'affermazione così temeraria si contavano sulle dita della mano sinistra di Capitan Uncino. In pratica, lui solo. E subito ne aggiunse un'altra: «Tutte le banche hanno praticato o praticano l'usura». Era più scusabile, all'epoca, una bestemmia in duomo. A sconsacrare le chiese laiche dove la religione dei soldi celebra i suoi riti è stato Frescura, che in questo momento sta seguendo circa 200 casi di clienti presi per il collo da Bolzano a Messina. Lo ha fatto dapprima con il libro Usura e anatocismo nelle operazioni di credito finanziario e poi con un secondo tomo di 698 pagine, L'usura nei prestiti di banche e finanziarie, che nel sottotitolo in latino riprende la definizione attribuita a Carlo Magno nel capitolare di Nimega dell'anno 806, Usura est ubi amplius requiritur quam datur, si ha usura quando si richiede più di quanto si dà. Quasi 2 connazionali su 10 hanno qualche problema con le banche. La stima è di un banchiere, Dino Crivellari, amministratore delegato di Uccmb, gruppo Unicredit, che si occupa di crediti deteriorati. Per l'esattezza il contenzioso coinvolge 10 milioni di cittadini su 60. Frescura, 61 anni, residente a Valdagno (Vicenza), sposato, tre figli ormai adulti, è uno di questi. «Nel 1995 comprai una casa con un mutuo di Unicredit, poi rimborsato in 15 anni. Per ristrutturarla, chiesi un finanziamento quinquennale di 40 milioni di lire ad Antonveneta. Ebbi qualche difficoltà a pagare le rate. Dopo tre anni il debito era salito a 60 milioni. Avete sbagliato i conti, protestai, e ne restituii 40. Invece, secondo loro, l'anatocismo, cioè il calcolo degli interessi sugli interessi, pesava solo per 1 milione di lire. Per cui mi fecero un decreto ingiuntivo di 19 milioni. Con le spese legali, la somma da restituire superava addirittura i 20 che, a loro dire, ancora gli dovevo. Mi rifeci da solo i conteggi. Alla mia minaccia di denunciarli per usura, reagirono con violenza: "La quereliamo per diffamazione". Querela mai arrivata. In compenso, per un contenzioso da 10.000 euro, mi hanno venduto all'asta la casa, che ne vale 350.000. Ho denunciato per usura ed estorsione la banca, l'avvocato dell'ingiunzione, il notaio che ha gestito l'asta e anche l'acquirente. Per il momento abito ancora dentro la mia abitazione, in attesa che il tribunale di Vicenza decida chi ha torto e chi ha ragione». A differenza dei giudici, quasi tutti usciti dal liceo classico e quindi impermeabili alle formule matematiche, Frescura sa far di conto, avendo frequentato lo scientifico: «Non è un vantaggio da poco, mi creda». All'abilità contabile unisce una solida preparazione giuridica: si è laureato in giurisprudenza quando all'Università di Padova ancora insegnava Giuseppe Bettiol, docente di diritto penale che attirava l'attenzione degli studenti picchiando il bastone da passeggio sulla cattedra. Concluso un master al Politecnico di Torino, è diventato perito e consulente tecnico del tribunale di Vicenza. Si occupava di immobili messi all'asta dagli uffici giudiziari, argomento sul quale ha scritto un libro per le edizioni del Sole 24 Ore. Poi la crociata contro le banche. «Nonostante in Italia siano in corso innumerevoli inchieste penali - 300 solo nel Veneto - a carico degli istituti di credito, con centinaia di amministratori, dirigenti e funzionari coinvolti, finora le condanne pronunciate sono state appena quattro».

Cane non mangia cane, è questo che mi sta dicendo?

«Sì. Le Procure di solito archiviano con la motivazione che l'usura c'è stata però non si può dimostrare il dolo da parte della banca. Siamo arrivati all'assurdo per cui a Vicenza un caso di usura su un mutuo casa, già sanzionato in sede civile, non approda alla sentenza penale perché il Pm non sa a chi affibbiare l'imputazione. Ma come? È così difficile sapere il nome del presidente di una banca? E guardi che l'usura è un reato gravissimo».

Non lo metto in dubbio.

«Non mi riferisco all'aspetto etico. Gravissimo per le conseguenze sul reo: da 2 a 10 anni di reclusione. E nel caso delle banche sono contemplate tre aggravanti specifiche che possono portare a una condanna fino a 20 anni».

Ma le condanne scarseggiano.

«Già. A parte il caso Parmalat, in cui quattro funzionari dell'Ubs hanno patteggiato e il presidente della Banca di Roma è stato assolto in Cassazione per prescrizione. Il rappresentante italiano di Bank of America è ancora sotto processo a Parma. Nel frattempo la Svizzera, dove costui ha subìto una condanna per reati finanziari, l'ha fatto estradare dalla Slovenia e l'ha sbattuto in galera. Giusto per darle un'idea delle differenze tra la giustizia elvetica e quella italiana».

Il suo mestiere precisamente qual è?

«Aiuto i clienti ad accertare se i calcoli degli interessi presentati dalle banche sono esatti oppure no. Vado a caccia di tassi usurari e costi occulti. All'inizio lo facevo per passione civile, una forma di volontariato che è diventata un mestiere».

Lei sostiene che le banche sbagliano i conti intenzionalmente.

«È così. Vuole un piccolo esempio? Il conteggio degli interessi sui mutui va fatto con divisore 365. Invece alcune banche arrotondano a 360. È illegale. Un anno ha 365 giorni, non 360. Pensi che mostruose cifre complessive genera quest'arbitraria decurtazione».

Sarà perché tre dei miei quattro fratelli ci lavoravano, ma ho sempre pensato le banche fossero infallibili con la calcolatrice.

«Fino agli anni Novanta lo pensavano tutti, perché gli imbrogli venivano compensati dall'inflazione alta. Con l'avvento dell'euro, la gente s'è messa a leggere gli estratti conto con più attenzione e sono venuti alla luce gli imbrogli».

Che genere di imbrogli?

«L'uso piazza, l'anatocismo e l'usura. Tralascio la commissione massimo scoperto, che pure incide parecchio».

Parla ostrogoto. Andiamo per ordine. L'uso piazza che cos'è?

«Pochi sanno che tutti i contratti per i conti correnti aperti prima del 1992 erano standard. L'articolo 7 rinviava a un inesistente tasso "uso piazza" per il calcolo degli interessi a debito e a credito. Però la magistratura non l'ha mai contestato. Nel 1992 una legge ha stabilito che o nel contratto viene fissato un tasso preciso oppure va applicato il tasso legale. Questo significa che i conteggi a partire da allora, su tutti i contratti stipulati prima di 23 anni fa, vanno rifatti. Crede che le banche abbiano avvisato la clientela? All'epoca il tasso legale era del 5 per cento, mentre loro applicavano sui passivi un'aliquota dal 15 al 20 per cento».

Uno sbilancio pazzesco.

«Le dico solo questo: il mio elettrauto è andato in pensione e le tre banche con cui lavorava pretendevano da lui la restituzione di debiti per 100.000 euro. Rifatti i conteggi solo sull'ultimo decennio, perché le carte precedenti le aveva buttate via, è andato a credito. Devono dargli indietro parecchi soldi».

Veniamo all'anatocismo.

«Era ritenuto lecito nei conti correnti, ma nel 1999 la magistratura ha precisato che è vietato. Le banche lo calcolavano ogni tre mesi sugli interessi a debito e una volta l'anno su quelli a credito, quindi a svantaggio del cliente. Una legge ha stabilito che l'anatocismo è valido solo se applicato paritariamente. Per i contratti antecedenti al 2000 i conteggi sono tutti da rifare. Solo che gli istituti di credito si rifiutano di pagare anche quando perdono le cause».

Be', esiste il pignoramento.

«Lo sa come sfuggono quando il cliente lo chiede? Si fanno pignorare un assegno circolare con l'importo che dovrebbero versargli. Ma, anziché a suo favore, lo intestano alla cancelleria del tribunale. Quindi, finché non arriva la sentenza della Cassazione, il cliente non vede un euro».

Parliamo dell'usura.

«In Italia fu reintrodotta come reato penale dal codice Rocco del 1930 per punire lo sfruttamento dello stato di bisogno. Dal 1996 la tutela è estesa anche ai soggetti in stato di necessità economica o finanziaria. Ma le banche si sono prontamente autoescluse, sostenendo che la normativa non le riguardava».

Possibile che istituti quotati in Borsa, vigilati dalla Banca d'Italia e dalla Consob, si arrischino a praticare tassi fuori legge? Vuol dire che pensano di poter contare sull'impunità.

«È così. Giustizia e sistema bancario sono collusi, è questo il grande cancro».

Ma i tassi usurari vengono applicati da singoli dipendenti oppure costoro obbediscono a ordini di scuderia?

«Entrambi i casi. Vincenzo Imperatore, un ex funzionario di Unicredit, lo ha confessato in un libro, Io so e ho le prove. Ma si guarda bene dal restituire il maltolto».

Qual è il tasso d'interesse oltre il quale scatta l'usura?

«Magari ce ne fosse uno soltanto. Sono una trentina. Dipendono dall'importo in ballo e dalla categoria del prestito: mutui ipotecari, leasing, prestiti personali, cessioni del quinto, anticipi e via di questo passo. Nel primo trimestre del 2015 il più basso è quello dei mutui ipotecari a tasso variabile: 8,33. Il più alto è quello delle carte di credito revolving: 24,9. L'usura scatta sostanzialmente quando gli interessi applicati da banche e finanziarie superano del 50 per cento il tasso medio rilevato ogni tre mesi».

Rilevato da chi?

«Dovrebbe essere il ministero dell'Economia. Ma, con un abuso, ha delegato a computarlo la Banca d'Italia».

Il carnevale di Viareggio.

«No, è una guerra civile, questa dell'usura. Per non parlare della grande rapina chiamata cessione del quinto».

Di che si tratta?

«Di un prestito che il lavoratore riceve e che è garantito dallo stipendio. Fino al 2005 lo potevano chiedere solo i dipendenti pubblici, con un tasso d'interesse molto basso. Ma ora lo concedono anche al personale delle imprese private e ai pensionati, con un tasso soglia che va dal 18,55 al 19,57. Si sono infilate nel business finanziarie e mediatori senza scrupoli. Bankitalia sarebbe dovuta intervenire, ma fino al 2010 non ha mosso un dito. Nello spingere la povera gente a farsi tosare ci hanno guadagnato tutti, persino i sindacati, che ricevono cospicue provvigioni dalle banche, e l'Inps, che per ogni pratica evasa incassa 10 euro».

Conosce casi di imprenditori portati al fallimento o, peggio, al suicidio?

«Parecchi. Le banche hanno fatto fallire un orafo di Trissino che aveva 50 dipendenti. Una ditta bellissima. Ho rifatto i conteggi e ci siamo accorti che l'insolvenza non esisteva. Ma è molto difficile rimediare: il fallimento è come una sentenza passata in giudicato. Ha quasi perso il lume della ragione, poveretto».

Però anche le banche hanno problemi con la clientela insolvente. In sette anni di crisi le sofferenze hanno raggiunto i 181 miliardi di euro.

«Ma sarà vero credito? I conteggi sono stati fatti tenendo conto degli errori? Perché Unicredit ha messo prudenzialmente a bilancio un passivo di 17 miliardi di euro per cautelarsi da brutte sorprese? È l'unica banca ad averlo fatto».

Come si fa a chiudere questo buco?

«Ci vorranno dieci anni».

Esisterà pure una banca virtuosa.

«No, tutte applicano gli stessi trucchi. Le uniche sarebbero le banche arabe, che non possono compiere operazioni con gli interessi, come prescritto dal Corano, ma in Italia non le lasciano entrare».

E di che campano le banche arabe?

«Invece dei mutui, fanno vendite con patto di riscatto. La banca acquista una casa, me la consegna, per 20 anni pago l'affitto, trascorso il termine diventa mia. Non molto diverso da quanto fece Amintore Fanfani all'epoca del boom, senza bisogno degli arabi».

Il caso più clamoroso di cui s'è occupato?

«Due fratelli di Empoli che hanno dovuto chiudere un'azienda di pelletteria per colpa dell'anatocismo. Si sono ritrovati indebitati per 300.000 euro con la banca e per altri 300.000 con Equitalia. Ho rifatto i calcoli. La prima ha dovuto riconoscere d'aver praticato l'usura. Perciò s'è detta disposta a rinunciare ai 300.000 euro di credito, a versarne al fisco altri 300.000 al posto dei clienti e a offrirne 100.000 a titolo di risarcimento».

Ma lei si fida delle banche?

«Certo. Basta non chiedergli prestiti».

Quindi i nostri soldi depositati nelle banche sono al sicuro.

«Sì, perché il denaro non esiste. È una creazione normativa».

Magistrati coraggiosi contro le banche cercasi, scrive Enzo Di Frenna su “Il Fatto Quotidiano”. C’è qualcosa di legale in questo meccanismo? A novembre 2011 il presidente della Banca centrale europea, l’italiano Mario Draghi, incontra i vertici di alcune grandi banche – tra cui Goldman Sachs, Morgan Stanley, Barclays Capital– e dopo qualche settimana annuncia prestiti fino a tre anni per le banche europee con l’obiettivo di “ridare fiato all’economia” ed evitare il “credit crunch”, cioè la chiusura dei rubinetti monetari alle piccole e medie imprese. I soldi, in pratica, sono regalati (tasso 1%). Non si ha notizia che Draghi abbia fatto firmare alle banche un contratto che le costringesse ad usare quel denaro per sostenere gli imprenditori. Insomma, una roba del tipo: se li usi per speculare, il tasso passa al 15% e paghi anche una penale. È una soluzione elementare, non ci vuole una laurea in economia per usare una tale precauzione. Invece, cosa succede? Le banche succhiano un torrente di denaro alla Bce – cioè soldi dei cittadini europei – e li usano per speculare e acquistare titoli di Stato, sui cui guadagnano somme elevate. Ecco cosa è accaduto in Italia. Il 21 dicembre 2011 la Bce di Draghi mette a disposizione delle banche italiane 116 miliardi di euro lordi, ma – attenzione – l’incasso netto è intorno ai 60 miliardi. Nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia si scopre che tra dicembre 2011 e gennaio 2012 le banche  hanno speso 28 miliardi di euro per acquistare BTP e altri titoli: in soli trenta giorni la loro quota complessiva è passata da 209 a 237 miliardi. Altri 41 miliardi li hanno spesi per acquistare bond e il totale arriva a 69 miliardi di euro. Quindi hanno usato i soldi per speculare e arricchirsi, invece che “ridare fiato all’economia” e aiutare le imprese. Tra febbraio e marzo 2012 si suicidano diversi imprenditori, anche con metodi violenti come darsi alle fiamme. Poi scopriamo che 12 mila aziende hanno chiuso nell’ultimo anno e 50 mila lavoratori sono stati licenziati. Emergono storie di imprenditori a cui le banche hanno chiuso i rubinetti del credito. Michele Santoro a Servizio pubblico, la scorsa settimana ha intervistato Maria Teresa Carlucci, la moglie di un imprenditore suicida a cui la banca ha rifiutato un prestito di 500 euro. Posso aggiungervi che anche un paio di amici – titolari di piccole attività commerciali – mi hanno riferito che sono in gravi difficoltà a cause della stretta creditizia applicata improvvisamente dalle loro banche. Ecco invece un commento copiato dal mio profilo Facebook: “Vedo che la gente è spaventata, che tante attività chiudono o che stanno per chiudere. Negozi chiusi da tanti mesi che nessuno prende in affitto perché avviare qualsiasi attività è troppo rischioso. Sono molto preoccupata per il futuro. Tanto tanto preoccupata. Non capisco perché la crisi la devono risolvere le classi meno abbienti» (Antonella). Quindi abbiamo la seguente situazione: la Bce ha fallito il suo obiettivo. Le imprese sono strangolate nel “credit crunch” e altri padri di famiglia potrebbero decidere di uccidersi. Ci sono i presupposti per avviare un’inchiesta giudiziaria? Si possono sequestrare i contratti che Mario Draghi ha firmato con le banche italiane? Possiamo conoscere i nomi degli amministratori delegati di quelle banche che hanno preso i soldi della Bce per comprare titoli e speculare? Mi rivolgo dunque alla magistratura. E chiedo ad Antonio Di Pietro, ex magistrato, di farsi portavoce di questa istanza presso la categoria che ha rappresentato negli anni di Mani Pulite. È possibile trovare magistrati coraggiosi che possano indagare su questo meccanismo e – se saltano fuori le prove di illegalità – far scattare le manette a chi usa il denaro in modo così spregiudicato? È’ possibile vedere in galera qualche banchiere senza scrupoli, che non arrossisce neppure quando nega un prestito di 500 euro a un padre di famiglia e anzi – cosa atroce – usa gli spiccioli per fare profittto con manovre speculative? Avete presente Callisto Tanzi dimagrito e col sondino al naso? Avete presente il suo pentimento in tribunale per aver causato sofferenze ai suoi clienti truffati? «Non mi rendevo conto dell’esaltazione…», ha detto. Ecco, vorrei vedere decine banchieri in galera e poi cospargersi il capo di cenere per aver causato così tanta sofferenza. Vorrei vederli pentiti per l’ubriacatura finanziaria e rinchiusi al sicuro dietro le sbarre. I giornalisti con la schiena dritta hanno fatto il loro dovere denunciando queste anomalie. Ora tocca ai magistrati.

Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.

"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."

Usura, un imprenditore accusa: «Ora a Milano i giudici stanno con le banche». Da qualche mese il Tribunale del capoluogo lombardo, dove hanno sede legale parecchi istituti di credito, ha iniziato a respingere le cause di usura bancaria. Motivando così la scelta: le perizie tecniche devono essere svolte secondo i criteri fissati dalla Banca d'Italia. I cui azionisti, però, sono gli stessi istituti, scrive Stefano Vergine “L’Espresso”. «Grazie all’azione di lobbying, le banche hanno fatto breccia nel Tribunale di Milano. Da qualche mese i giudici della corte lombarda stanno infatti rigettando le cause per usura che imprese come le mie stanno continuando a proporre, e questo è paradossale considerando che invece nel resto d’Italia le ragioni dei consumatori continuano a prevalere». A parlare è G.P., un imprenditore del settore immobiliare, titolare di due società e amministratore di altrettante imprese. Preferisce non rivelare il suo nome perché - dice – «ho ancora diverse cause in corso e questa intervista potrebbe danneggiarmi». Il suo è però un attacco diretto. Contro le banche, accusate di applicare tassi d’usura all’insaputa di imprese e cittadini. E contro l’orientamento prevalente nel Tribunale di Milano che, spiega l’imprenditore, «ultimamente ha iniziato ad accettare acriticamente la posizione sostenuta dagli istituti di credito». Sul tavolo c’è una questione spinosa come quella dell’usura. Non quella applicata dalla criminalità organizzata, ma l’usura bancaria. Un fenomeno difficile da quantificare con precisione. Le uniche cifre sono quella della Fondazione SDL, un centro studi basato a Brescia, di cui fanno parte avvocati, commercialisti e imprenditori come G.P. Analizzando circa 150 mila prodotti bancari, SDL dice di aver rilevato nel 71 per cento dei casi la presenza di usura oggettiva ai sensi del codice penale. E sulle 19 mila pratiche giudiziarie intentate finora contro le banche, afferma di aver ottenuto per i propri clienti, quasi sempre tramite transazioni, diverse decine di milioni di euro. «Tutte queste vittorie hanno costretto le banche a reagire», sostiene G.P., convinto che ora «la loro attività di lobbying abbia attecchito al Tribunale di Milano».

G.P., ci racconti in breve la sua storia personale.

«Nel 2012, grazie ad un amico che fa il perito per le banche, ho scoperto che sui conti correnti e sui mutui delle mie aziende venivano praticati tassi d’usura. Mi sono allora rivolto alla studio legale SDL, del professor Serafino Di Loreto, il quale mi ha spiegato come, in base alla legge 108 del 1996, mi veniva effettivamente praticata usura».

Ha fatto causa alle banche?

«Sì, ho fatto una decina di cause. Ovviamente per recuperare quanto pagato ingiustamente, ma anche per un senso di responsabilità civile: riflettendo su quanto mi stava accadendo, ho capito che dovevo farlo per non lasciare ai miei figli una società in cui la classe dirigente, in questo caso quella bancaria, esercita usura sulla piccola e media impresa e sulle famiglie».

Alla fine le cause le ha vinte?

«La prima l’ho vinta, a Milano: nel conto corrente di una mia azienda la perizia disposta dal tribunale ha rilevato usura penale per 50 mila euro. Le altre cause sono ancora in corso».

E cosa c’entra il Tribunale di Milano allora?

«Al Tribunale di Milano l’orientamento predominante è pro-banche, e questo è particolarmente importante visto che gran parte degli istituti ha la propria sede legale proprio nel capoluogo lombardo».

In che cosa consiste questo orientamento pro-banche di cui parla?

«Le cause per usura bancaria a Milano incontrano resistenze molto maggiori rispetto al resto d’Italia. Questo lo dico perché, da collaboratore di una fondazione che si occupa a livello nazionale di difendere i consumatori dall’usura bancaria (la fondazione SDL, ndr), ho avuto modo di notare la differenza di trattamento che ultimamente Milano sta riservando alle banche».

Concretamente, in che cosa consiste questo trattamento privilegiato?

«Tutto si gioca sulle perizie che il tribunale dispone per analizzare i conti correnti e ravvisare se vi è stata o meno usura. Nel resto d’Italia prevalgono le indicazioni di redigere la perizia sulla base dei criteri della legge 108 del 1996 e delle successive conferme della Cassazione. A Milano, invece, la linea predominante è quella di analizzare i conti correnti non sulla base della legge dello Stato, ma seguendo le istruzioni secondarie della Banca d’Italia».

E qual è il problema?

«Il problema è che le istruzioni della Banca d’Italia sono decisamente più vantaggiose per gli istituti. E non è un caso, visto che gli azionisti della Banca d’Italia sono le stesse banche. E’ un po’ come se, dopo un incidente d’auto provocato dallo scoppio di una gomma, il perito valutasse le cause dell’incidente seguendo le indicazioni della ditta costruttrice di pneumatici e non quelle previste dalla legge».

Lei però ha detto che a Milano una causa l’ha vinta, in realtà.

«Sì, è vero. L’ho vinta perché la banca aveva talmente esagerato che, nonostante siano stati applicati i criteri favorevoli della Banca d’Italia, il conto corrente è risultato essere comunque in usura».

Quindi alla fine le imprese che fanno causa alle banche continuano a vincere anche a Milano?

«La gravità della situazione è proprio questa. Ultimamente, sia personalmente che alla Fondazione SDL, risulta che l’orientamento prevalente del Tribunale di Milano sia quello di rigettare le cause per usura se la perizia con la quale si presenta il caso non è redatta sulla base delle istruzioni della Banca d’Italia. Questo mi sembra gravissimo perché le istruzioni di una società privata, seppur autorevole come la Banca d’Italia, disattendono diverse sentenze della Cassazione. Mi pare inoltre molto grave precludere la via del contenzioso a tutte quelle aziende piccole e medie che non hanno la forza economica per ricorrere in appello e cassazione, dove invece potrebbero ottenere ragione».

Adesso cosa farà?

«Continuerò a seguire le mie cause, che fortunatamente sono state presentate prima di questa ulteriore virata pro-banche del Tribunale di Milano. Di certo se subirò delle sentenze ingiuste ricorrerò, con il mio avvocato Biagio Riccio, in appello e in Cassazione, perché sono sicuro che alla fine otterrò giustizia. Al di là delle questioni personali, però, vorrei che questa intervista desse origine a un dibattito, aperto a tutte le parti in causa, perché sulla questione dell’usura bancaria e più in generale del credito alle imprese si gioca la ripresa italiana e il futuro dei nostri figli».   

Banche, tassi usurai alle aziende. Una società di consulenza bresciana ha scoperto che i tassi applicati sui prestiti si sono alzati, al limite dello strozzinaggio. Ma pochi imprenditori denunciano e l'ABI e la Banca d'Italia non controllano. Cronaca di una nuova, pericolosa deriva, scrive Massimiliano Carbonaro su “L’Espresso”. Anche le banche, in Italia, prestano 'a strozzo', attraverso meccanismi complessi nel rilascio dei finanziamenti a favore delle imprese. Sono molti gli istituti di credito coinvolti in questa nuova e pericolosa deriva. Sul fenomeno non esistono cifre complessive esatte, così come non si conosce la quantità di questi prestiti a tassi usurai. Questo perché, nelle occasioni in cui finora il problema è emerso in sede giudiziale, le stesse banche attraverso accordi di conciliazione sono riuscite a non far diventare pubblica la questione. La stessa Banca di Italia, pur ammettendo di non avere il polso complessivo della situazione, ha annunciato che deve rivedere il sistema di rilevazione dei tassi bancari. Come è noto, il grosso del tessuto imprenditoriale italiano è fatto da piccole e medie imprese che non sono strutturate per affrontare problematiche di natura finanziaria. Solo quando i costi di gestione dei loro conti correnti diventano particolarmente alti, gli imprenditori cominciano a porsi domande: così i titolari delle aziende hanno cominciato a rivolgersi a consulenti esterni per cercare di capirci di più. Tra queste società di consulenza c'è la bresciana SDL Centro Studi. Si tratta di una società con una trentina di dipendenti, unica rispetto al panorama delle concorrenti perché offre gratuitamente il primo screening sui conti. Negli ultimi due anni e mezzo ha esaminato oltre 29mila conti correnti intestati ad aziende, scoprendo che il 90% è afflitto da questo problema. Tutto è cominciato nel 2010 quando l'avvocato bresciano Serafino di Loreto è stato coinvolto nel fallimento della società di un amico che per la disperazione si è tolto la vita. A una attenta analisi della situazione societaria della ditta fallita è emerso che i conti erano infettati da usura e soprattutto che la somma degli interessi non dovuti estorti dalle banche l'avrebbe salvata dal fallimento. Questa scoperta ha spinto Di Loreto a creare una società in grado di scandagliare in maniera rapida la situazione finanziaria di un'impresa evidenziandone le anomalie. L'accertamento della SDL sui conti aziendali procede secondo vari step. In primo luogo si verifica se il tasso applicato è inferiore o meno al tasso oltre il quale siamo davanti all'usura. Ogni tre mesi Banca di Italia segnala i tassi effettivi medi rilevati e segnala i tassi 'soglia' su base annua per ogni categoria di operazione e per differenti range di importo oltre cui si verifica l'usura. L'altro fronte su cui lavora la SDL riguarda l'anatocismo, ovvero l'applicazione di interessi sugli interessi maturati che fanno crescere esponenzialmente il debito. «Il risultato degli accertamenti è per molti versi inaspettato. Tendenzialmente non sei portato a credere che una banca possa fare una cosa simile» commenta l'avvocato Di Loreto, responsabile legale della SDL «ma la cosa impressionante è che in pratica sono coinvolte tutte le banche italiane. Si stanno accanendo sulle nostre aziende, infliggendo costi ben superiori a quanto dovuto». Nel dettaglio la SDL è entrata dentro le carte di 9845 imprese, prevalentemente dislocate tra il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e la Toscana: il 90% dei conti presentava usura e anatocismo. Secondo i calcoli, poi certificati da commercialisti esterni, quello che le banche non avevano diritto a percepire oscilla tra il 30% e il 70% di quanto prelevato dai conti: si varia molto in base agli istituti di credito e alle tipologie di conto. Non sono solo i conti correnti delle imprese ad essere attaccati: ciò che emerge è un sistema perverso in cui le banche colpiscono gli imprenditori stessi rivalendosi sul loro patrimonio con l'intento di riuscire a rientrare dei debiti contratti per portare avanti l'attività dell'azienda: spesso, però, una parte di questi è frutto di interessi illegittimi. Il quadro del fenomeno fatica a venir fuori perché quando un imprenditore si ribella, utilizzando le perizie fornite da Di Loreto, e cita la banca in tribunale, l'istituto di credito preferisce arrivare a una transazione amichevole e soprattutto segreta. E' molto chiaro in tal senso l'accordo raggiunto tra un'azienda bresciana cui SDL ha fatto da consulente e una banca (non si può rendere noto il nome dei soggetti coinvolti altrimenti l'intesa potrebbe saltare) in cui l'istituto di credito ha preferito rinunciare a 350 mila euro dei 650mila concessi come prestito all'azienda. Questo dopo che era intervenuta una sentenza relativa ad un decreto ingiuntivo in cui il giudice rilevava che 42mila euro di debiti dell'impresa con la banca erano frutto di usura e anatocismo. Secondo il panorama delle conciliazioni esaminate, nessun gruppo creditizio italiano sembra sfuggire a questa strategia. C.C., un imprenditore del milanese attivo nel settore dei servizi che preferisce rimanere anonimo, si è sentito dire da un direttore di banca: «Non siamo un ente di beneficenza». «Sono furente» commenta l'imprenditore «non solo per i soldi che mi hanno rubato, ma anche i mancati investimenti e la perdita di competitività in campo internazionale». L'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato una richiesta di interessi non dovuti per 200mila euro. «Fino a un anno fa, spiega Di Loreto, si trattava esclusivamente di un recupero crediti legittimo. Ora invece stiamo assistendo da parte delle banche a una vera caccia alle imprese per far rientrare a tutti i costi e in tempi rapidi i clienti dei crediti concessi». Uno scenario per G.P., un imprenditore edile che con il suo gruppo di società detiene un patrimonio di immobili da circa 30 milioni di euro, definisce drammatico: «Sono 40 anni» spiega «che lavoro con le banche, ma in una situazione simile non mi ero mai trovato. Tra l'altro questo attacco indiscriminato alle imprese farà sì che quando ci sarà la ripresa rimarremo bloccati. Il tessuto di piccole e medie aziende che sostengono l'economia italiana nel frattempo sarà stato distrutto». Manco a dirlo, l'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato crediti estorti dalle banche per 1,5 milioni di euro. L'aspetto più assurdo della vicenda è che gli istituti procedono pressoché impuniti e che l'Abi (Associazione bancaria italiana) non rilascia alcuna dichiarazione. Il motivo? Non sono tenuti a esercitare il controllo sui loro soci. Banca d'Italia, che invece questo controllo lo dovrebbe effettuare, sottolinea come «le numerose denunce per usura siano basate sull'impiego di criteri di calcolo difformi». A questo però aggiunge che «sta rivedendo le istruzioni in materia di rilevazione dei tassi effettivi globali». Insomma, la situazione sembra priva di reale controllo.

I magistrati indagano i banchieri, poi ci vanno pure a scuola, scrive “Alètheia”. E pensare che ci stupivamo della telefonata fatta dal ministro della giustizia Cancellieri alla famiglia Ligresti. Le banche, tramite l’Abi (Associazione bancaria italiana), hanno sempre cercato di condizionare la giustizia, con protocolli di intesa (novembre 2006) con il Ministero della giustizia per progetti di formazione destinato a magistrati, cancellieri, ed altri operatori del settore giudiziario, per favorire la conoscenza e l’adozione degli strumenti del processo civile telematico, contribuire allo scambio di informazioni e best practice tra gli addetti ai lavori e agevolare la costruzione di una cultura italiana sulla giustizia telematica. Molti gli episodi di evidenti conflitti di interessi, come quella di alcune banche di finanziare i corsi dei magistrati, o la poco trasparente gestione delle esecuzioni immobiliari tra la società Asteimmobili di natura privatistica, chiamata a svolgere nei tribunali compiti di natura pubblicistica, nonché il palese conflitto di interessi sotteso alla decisione di assegnare all’Abi la gestione integrata di tutte le informazioni relative ai procedimenti giudiziari nei fallimenti ed esecuzioni immobiliari e l’invio informatico degli atti processuali. Lo scorso 4 luglio 2014 ed a seguito chiusura indagini per il reato di usura a carico di alcune banche e di ex dirigenti Bankitalia da parte del Pm di Trani Michele Ruggiero, la Scuola superiore della magistratura ha organizzato, d’intesa con la Banca d’Italia e l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) i cui ex vice-presidenti sono stati indagati (Emilio Zanetti scandalo Ubi-Banca) o arrestati (Giovanni Berneschi, scandalo Banca Carige Genova), un corso interdisciplinare sul tema dell’usura, riservando 30 posti per magistrati addetti al settore civile e 40 posti per magistrati addetti al settore penale (funzioni giudicanti e requirenti). Come si può leggere dalla lettera, Prot.n. 1980/2014USSM; inviata alla Direzione Generale dei Magistrati, Ispettorato Generale, Al Presidente della Corte di Cassazione Dr. Giorgio Santacroce, Al Procuratore Generale della Corte di Cassazione Dr. Gianfranco Ciani, Ai Presidenti delle Corti d’Appello, Ai Procuratori Generali delle Corti d’Appello, con l’oggetto: incontro di studi ”L’Usura: profili civilistici e penalistici“ 14-15 luglio 2014 Roma; Piazza del Gesù n. 49 – Sala della Clemenza, Palazzo Altieri. Roma, 4 luglio 2014. Firmato: la Segreteria della Scuola Superiore della Magistratura. Essendo gravissimo questo ultimo tentativo di indottrinamento degli operatori della Giustizia ad interessi di parte, che si consumerà il 14 e 15 luglio a Roma, nella sede Abi di Palazzo Altieri, dove è stato convocato un incontro di studio organizzato in fretta e furia dalla SSM (Scuola Superiore della Magistratura) d’intesa con la Banca d’Italia e l’ABI, proprio sul tema dell’usura bancaria, dove sono stati ammessi 70 magistrati, che potrebbe avere la finalità di condizionare indagini penali in corso, che vedono tra gli indagati primari esponenti delle banche associate all’Abi, che annovera molti banchieri incriminati e perfino arrestati, con sede in Piazza del Gesù, 49, a Roma proprio a Palazzo Altieri, e la Sala della Clemenza è tra le più prestigiose sale dove vengono svolti incontri, dibattiti, convegni, conferenze. Adusbef e Federconsumatori hanno denunciato un aspetto ancor più grave, che vede l’ex ministro della Giustizia del Governo Monti, prof.ssa Paola Severino nella duplice funzione di docente e partecipante attiva al corso sull’usura somministrato ai magistrati nella tavola rotonda di apertura per disquisire, assieme ad altri illustri relatori, sui profili civili e penali della legislazione antiusura, ed allo stesso tempo nella veste di avvocato difensore e consulente legale di celebri indagati (probabilmente anche nel processo penale istruito dal Pm di Trani Michele Ruggiero), accusati di aver violato la legge 108/96 ed il reato sull’usura. Poiché tale palese commistione tra organi giudiziari come il SSM, che avrebbe finalità di offrire formazione oggettiva ai magistrati, con i rappresentanti di dirigenti indagati o arrestati come Abi e Banca d’Italia, fa sorgere il dubbio di una giustizia addomesticata a misura di potenti, al contrario di quanto sancito dalla Costituzione Repubblicana ancora vigente, configura insanabile vulnus per la necessaria terzietà materiale e sostanziale, con lo studio dell’usura “a casa” del principale indiziato di attività usuraria, analogamente a corsi di formazione sui reati di mafia organizzata a Corleone, a casa di Totò Rjina o Bernardo Provenzano, Adusbef e Federconsumatori hanno inviato un corposo esposto alle maggiori cariche istituzionali italiane ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, denunciando il grave pericolo per le garanzie Costituzionali ed i diritti delle persone, specie se correntisti e risparmiatori, da una giustizia molto spesso ingiusta per i comuni cittadini.

Corso anti-usura per pm. In cattedra le banche, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano, 12/07/2014 pagina 10. Il problema è molto complesso. Da quando il codice penale è stato modificato e il reato di usura non è più tipico dello strozzino ma anche dei banchieri qualora applichino tassi esagerati, le nostre scienze giuridiche si arrovellano: quando si può considerare superato il tasso-soglia oltre il quale scatta il reato? Pare che dopo quasi vent'anni non siano " ancora sopiti i problemi interpretativi", e così il presidente della Scuola Superiore della Magistratura, Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, ex candidato a sindaco di Milano ed ex saggio di Giorgio Napolitano, ha avuto un'idea notevole. Ha organizzato un corso di formazione per magistrati in collaborazione con l'Abi (associazione bancaria italiana) e con la Banca d'Italia. Gente che di usura se ne intende, ovviamente, ma con il difetto di essere potenzialmente nel mirino dei magistrati che sono chiamati a formare. I Presidenti di Adusbef e Federconsumatori, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, hanno preso carta e penna per scrivere una lettera di protesta alle Nazioni Unite, alla Corte Europea per i diritti dell'uomo, al presidente Napolitano, al premier Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Chiedono che Onida sia severamente censurato, e lo fanno con parole forti: " Chi ha ordito questa turpe trovata merita di essere sollevato dagli incarichi. Tanto al fine di evitare che altri magistrati magari siano costretti in futuro a partecipare a corsi antimafia a Corleone, nelle ville di Totò Riina o Bernardo Provenzano". Il corso si tiene il 14 e il 15 luglio 2014 nella sede dell'Abi, gentilmente messa a disposizione dal presidente dell' Abi, Antonio Patuelli. Colpisce che settanta magistrati provenienti da tutta Italia vengano mandati a scuola di usura presso un' associazione che si è trovata in pochi giorni con un vicepresidente arrestato, Giovanni Berneschi ex presidente di Carige, e uno indagato, Emilio Zanetti, ex presidente di Ubi-Banca. Lo stesso Patuelli deve la nomina alle dimissioni del predecessore Giuseppe Mussari, travolto dallo scandalo Montepaschi e oggi rinviato a giudizio anche per usura. Competenza per competenza, non si capisce perché non abbiano invitato anche Mussari a spiegare ai magistrati in cerca di formazione professionale i segreti dell'usura. C'è però, tra i docenti, Paola Severino, ex ministro della Giustizia e penalista di primo piano. Prima di diventare Guardasigilli a novembre 2011, era impegnata nel processo sull'aeroporto di Ampugnano che coinvolgeva Mussari e altri esponenti del Monte dei Paschi. E proprio a causa della nomina dovette abbandonare la difesa di una banca accusata di usura. Non è dato sapere se le due giornate di aggiornamento professionale prevedano anche esercitazioni pratiche. Ci sarebbe un ottimo caso di scuola a disposizione, l'inchiesta per usura del pm di Trani Michele Ruggiero, che vede indagati, tutti insieme, il presidente della Rai Anna Maria Tarantola come ex capo della Vigilanza della Banca d'Italia, l'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni in quanto ex direttore generale della Banca d'Italia, e poi i capi o ex capi di alcune della maggiori banche italiane: Luigi Abete e Fabio Gallia della Bnl, Alessandro Profumo di Unicredit e il suo successore Federico Ghizzoni, Mussari per il Montepaschi insieme all'ex vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone, di cui Severino è da sempre difensore di fiducia. Peccato solo che il pm Ruggiero non sia stato invitato al corso, poteva essere l'occasione per i vertici di Abi e Bankitalia, e per la stessa Severino, di spiegargli per le vie brevi l'eventuale esagerazione delle sue ipotesi investigative. Per Adusbef e Federconsumatori, che hanno sollevato il problema, in gioco c'è la separazione dei poteri, "il doveroso distacco tra Abi e Ordine Giudiziario il cui collante risalente nel tempo stride con un paese ad ordinamento costituzionale e democratico". Una questione antica. Nel 2010 Lannutti, da senatore, interrogò il ministro dell' Economia Giulio Tremonti e il Guardasigilli Angelino Alfano, per sapere come mai l'Abi, con il patrocinio del ministero della Giustizia, avesse "sviluppato un progetto di formazione e-learning destinato a magistrati, cancellieri, avvocati e a tutti gli operatori del settore giudiziario per favorire la conoscenza e l'adozione degli strumenti del processo civile telematico". E riproponendo il tema della società Asteimmobili, costituita dall'Abi per gestire l'esecuzione dei fallimenti. Un'altra invasione di campo.

Esame di Stato. Come si diventa avvocato? Copiando!

La risposta di un esperto, qual è il Dr Antonio Giangrande, scrittore che sul tema ha scritto “Concorsopoli ed Esamoli” e “L’Esame di Avvocato”.

Superare una prova dell’esame da avvocato senza aver studiato nulla. E’ quanto hanno dimostrato le telecamere di Studio Aperto che ha messo in onda un filmato realizzato con telecamera nascosta da un giornalista che ha preso il posto di un candidato assente e si è fatto “passare” il compito scritto valido come secondo test della prova per l’iscrizione all’albo degli avvocati. Il reportage ha messo in evidenza tutti i “vizi” tipici degli esami di Stato in Italia. Il cronista del tg di Mediaset è entrato tranquillamente nella sala d’esame e nessuno ha mai controllato la sua identità. Sarebbe potuto essere un magistrato che sostituisce un parente impreparato o un avvocato deciso ad aiutare un collega principiante. Il reporter si è tranquillamente seduto sul banco vuoto destinato a tal Federico C. poi – una volta cominciata la prova – si è fatto passare tutto il compito riempiendo gli appositi moduli timbrati e firmati dalla Corte d’Appello di Roma. Il tutto sotto l’occhio di una telecamerina che ha anche filmato come nella vasta aula ci si passassero manuali, e suggerimenti atti a superare la prova. Infine nel filmato di Studio Aperto si documenta anche come nei bagni del mega-hotel che ha ospitato gli esami i candidati abbiano potuto consultarsi sui contenuti del compito e passarsi le relative soluzioni.

Copi alla maturità, a un esame o a un concorso o a un esame di Stato? Ecco cosa rischi legalmente. Hai il vizietto di copiare? Lo sai che in alcuni casi si rischia anche l'arresto? Ecco, caso per caso, cosa rischi a livello legale quando copi. Quante volte incappate in persone che copiano agli esami o a un concorso pubblico, o magari chissà..siete voi stessi a farlo. Quello che forse non sapete è che copiare non è uno scherzo, ma in molte circostanze costituisce un vero e proprio reato perseguibile a livello penale.

Se copi vi è il reato di plagio. Secondo l'art. 1 della legge n. 475/1925 infatti: Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito.

Se poi qualche commissario ti aiuta nell'ordinamento italiano, vi è l’abuso d'ufficio che è il reato previsto dall'art. 323 del codice penale ai sensi del quale: 1. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. 2. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.

Se chi ti aiuta ti obbliga o ti induce a pagare c’è la concussione. La concussione (dal latino tardo concussio «scossa, eccitamento» dunque «pressione indebita, estorsione») è il reato del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o delle sue funzioni, costringa (concussione violenta) o induca (concussione implicita o fraudolenta) qualcuno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità anche di natura non patrimoniale. Reato tipico dell'ordinamento giuridico penale della Repubblica Italiana, la fattispecie concussiva non è presente nella maggior parte degli ordinamenti europei e internazionali (al suo posto troviamo l'estorsione aggravata). I beni tutelati dalla fattispecie sono pubblici (buon andamento e imparzialità della Pubblica amministrazione) e allo stesso tempo anche privati (tutela contro abusi di potere e lesioni della libertà di autodeterminazione). Tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, la concussione è il reato più gravemente sanzionato. Oggi, a seguito della riforma introdotta dalla l. 6 novembre 2012, n.190, è prevista la reclusione da sei a dodici anni (anche ante riforma era il reato contro la P.a. più sanzionato). La normativa italiana di contrasto al fenomeno concussivo è contenuta nel codice penale e precisamente nel Libro II, Titolo II "Dei delitti contro la pubblica amministrazione" (art. 314-360).

Se chi ti aiuta si fa pagare è corruzione ed indica, in senso generico, la condotta di un soggetto che, in cambio di danaro oppure di altri utilità e/o vantaggi che non gli sono dovuti, agisce contro i propri doveri ed obblighi. Il fenomeno ha molte implicazioni, soprattutto dal punto di vista sociale e giuridico; uno stato nel quale prevale un sistema politico incontrollabilmente corrotto viene definito "cleptocrazia", cioè "governo di ladri", oppure "repubblica delle banane". In Italia il concetto di corruzione è riconducibile a diverse fattispecie criminose, disciplinate nel Codice Penale, Libro II - Dei delitti in particolare, Titolo II - Dei delitti contro la pubblica amministrazione.

Se poi chi ti aiuta falsifica i verbali d’esame vi è Falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici , previsto dall'art. 476 C.P. Il pubblico ufficiale, che, nell'esercizio delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero, e' punito con la reclusione da uno a sei anni. Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso, la reclusione è da tre a dieci anni.

Se poi chi ti aiuta, afferma in atti pubblici, che tu inabile al ruolo, sei invece capace e meritevole, vi è Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, punito dall'art. 479 c.p.: Il pubblico ufficiale, che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute, o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite nell'articolo 476.

Se poi chi ti aiuta fa parte di una commissione di esame (formata da avvocati od altre figure professionali specifiche al concorso o dall'esame; magistrati; professori universitari)  ed è d’accordo con i solidali vi è un’associazione a delinquere. L'associazione per delinquere è un delitto contro l'ordine pubblico, previsto dall'art. 416 del codice penale italiano.

Se l'organizzazione stabilita ha carattere di sistema generale, taciuto, impunito e ritorsivo contro chi si ribella vi è l'associazione per delinquere di stampo mafioso. Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa un'associazione è quindi la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne deriva.

Quel di cui si parla è all’ordine del giorno, ma tutti fanno finta di niente.

Bari. Test per avvocati 2014-2015, trovati i soldi l’accusa: ora è di corruzione. Blitz a Giurisprudenza. Sequestrati i computer della dirigente Laquale, sotto inchiesta.  Indagate madre e figlia: pagarono per ottenere le tracce dell’esame, scrive Francesca Russi su Repubblica. Catanzaro. Esame di Avvocato 2013-2014. Copiano gli esami per avvocato, annullati 120 compiti. Nulle le prove scritte degli aspiranti avvocati del distretto di Corte d’Appello: contenevano passaggi identici. La commissione ammette agli orali soltanto il 40% degli oltre 1.600 candidati, scrive “La Gazzetta del Sud”.

Lecce. Esame di Avvocato 2012-2013. L’Interrogazione parlamentare del  dr Antonio Giangrande, scrittore e Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia.

Al Ministro della Giustizia. — Per sapere – premesso che: alla fine di giugno 2013 si apprendeva dalla stampa che a Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di esame di avvocato presso la Corte d’Appello di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati dell’esame di avvocato sessione 2012 tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce. Più di cento scritti sono finiti sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati.

Tenuto conto che le notizie sono diffamatorie e lesive della dignità e dell’onore non solo dei candidati accusati del plagio, ma anche di tutta la comunità giudiziaria di Taranto, Brindisi e Lecce coinvolta nello scandalo, si chiede di approfondire alcune questioni (in relazione alle quali l’interrogante ritiene opportuno siano comunicati con urgenza dati certi) per dimostrare se di estremo zelo si tratti per perseguire un malcostume illegale o ciò non nasconda un abbaglio o addirittura altre finalità.

Per ogni sede di esame di avvocato ogni anno qual è la media degli abilitati all’avvocatura ed a che cosa è dovuta la disparità di giudizio, tenuto conto che i compiti corretti annualmente presso ogni sede d’esame hanno diversa provenienza. Se per l’esame di avvocato è permesso usare codici commentati con la giurisprudenza; Se le tracce d’esame di avvocato indicate del 2012 erano riconducibili a massime giurisprudenziali prossimi alla data d’esame e quindi quasi impossibile reperirle dai codici recenti in uso i candidati e se, quindi, i commissari, per l’impossibilità acclamata riconducibile ad errori del Ministero, hanno dato l’indicazione della massima da menzionare nei compiti scritti;

Nella sessione di esame di avvocato 2012 a che ora è stabilita la dettatura delle tracce; presso la sede di esame di avvocato di Lecce a che ora sono state lette le tracce; se in tal caso la conoscenza delle stesse non sia stata conosciuta prima dell’apertura della sessione d’esame con il divieto imposto dell’uso di strumenti elettronici; Quali sono le mansioni delle commissioni d’esame di avvocato: correggere i compiti e/o indagare se i compiti sono copiati e quanto tempo è dedicata ad  una o all’altra funzione;

Quali sono i principi di correzione dei compiti, ed in base ai principi dettati, quali sono le competenze tecniche dei commissari e se corrispondono esattamente ai criteri di correzione: Chiarezza, logicità e metodologia dell’esposizione, con corretto uso di grammatica e sintassi; Capacità di soluzione di specifici problemi; Dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati e della capacità di cogliere profili interdisciplinari; Padronanza delle tecniche di persuasione. Tra i principi indicati qual è la figura professionale tra avvocati, magistrati e professori universitari che ha la perizia professionale adatta a correggere i compiti dal punto di vista lessicale, grammaticale, sintattico,  persuasivo ed ogni altro criterio di correzione riconducibile alle materie letterarie, filosofiche e comunicative.

Quanti e quali sono le sottocommissioni in Italia che da sempre hanno scoperto compiti accusati di plagio e in base a quali prove è stata sostenuta l’accusa;

Quante e quali sono le sottocommissioni di Catania che hanno verificato il plagio de quo e quanti sono gli elaborati accusati di plagio ed in base a quali prove è sostenuta l’accusa.

Se le Sottocommissioni di Catania coinvolte erano composte da tutte le componenti necessarie alla validità della sottocommissione: avvocato, magistrato, professore.

Se tutti i compiti di tutte le sottocommissioni di esame di avvocato di Catania (contestati, dichiarati sufficienti, e dichiarati insufficienti) presentano segni di correzione (glosse, cancellature, segni, correzioni, note a margine);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (anche quelle che non hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione (apertura della busta grande, lettura e correzione dell’elaborato, giudizio e motivazione, verbalizzazione e sottoscrizione);

Quanto tempo, in base ai verbali apertura-chiusura sessione, per ogni compito tutte le sottocommissioni di Catania (quelle che hanno scoperto le plagiature) hanno dedicato alla fase di correzione e quanto tempo alla fase di indagine con ricerca delle fonti di comparazione e quali sono stati i periodi di pausa (caffè o bisogni fisiologici).

Al Ministro si chiede se si intenda valutare l’opportunità di procedere ad un indagine imparziale ed ad un’ispezione Ministeriale presso le sedi d’esame coinvolte per stabilire se Lecce e solo Lecce sia un nido di copioni, oppure se la correzione era mirata, anzichè al dare retti giudizi,  solo a fare opera inquisitoria e persecutoria con eccesso di potere per errore nei presupposti; difetto di istruttoria; illogicità, contraddittorietà, parzialità dei giudizi.

Salerno. Copiano all’esame, indagati 12 avvocati. Inchiesta sulla prova scritta della sessione 2011/2012, scrive Clemy De Maio su La Città di Salerno. Salerno, l’inchiesta sull’esame divide gli avvocati. In dodici sono indagati per avere copiato da internet. Il presidente Montera: «Si controllino pure magistrati e notai», scrive Clemy De Maio su "La città di Salerno". «La Procura indaga sugli esami degli avvocati? E perché non si verificano pure quelli per magistrati o notaio, visto che negli anni scorsi un concorso al notariato è stato persino annullato perché qualche figlio “illustre” conosceva già le tracce prima di entrare».

Gli aspiranti avvocati copiano i temi: 110 indagati a Potenza. L'esame di abilitazione è stato corretto a Trento nel 2007, scrive “La Stampa”.

Campobasso. Trentotto persone sono indagate nell'ambito di un'inchiesta sullo svolgimento dell'esame per diventare avvocato. L'esame, tenutosi nel dicembre del 2007 in Molise, sarebbe stato "truccato", scrive "Altro Molise".

Sotto inchiesta la prova scritta che si è tenuta a Catanzaro nel '97. Avvisi di garanzia a legali di tutta Italia. Avvocati, all'esame di Stato hanno copiato 2.295 candidati su 2.301, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”.

Cassazione SU: l’avvocato che favorisce i candidati durante l’esame di abilitazione va sospeso, scrive Francesca Russo su Filo Diritto del 16 febbraio, le Sezioni Unite hanno rinviato al Consiglio nazionale forense la decisione sulla sospensione di un avvocato per aver aiutato un candidato durante l’esame di abilitazione. (Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili, Sentenza 16 febbraio 2015, n. 3023).

UNA COSA E’ CERTA. NESSUNO DI COLORO CHE HA USUFRUITO O HA AGEVOLATO UN CONCORSO OD UN ESAME DI STATO TRUCCATO E’ STATO MAI CONDANNATO O RADIATO. SE POI VAI A PARLAR CON COSTORO SI DIPINGONO COME ANIME BIANCHE E TI ACCUSANO DI MITOMANIA O PAZZIA. ADDIRITTURA ARRIVANO A DIRTI: TI RODI PER NON AVER SUPERATO L'ESAME O IL CONCORSO!!!

Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

LA IRRESPONSABILITA' DEI BUROCRATI.

L’assessore ex magistrato: “A Roma la burocrazia è più corrotta dei politici”. Parla Alfonso Sabella, entrato in giunta dopo Mafia Capitale: “Da tre mesi annullo gare e invio segnalazioni in Procura”, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Va direttamente al cuore del problema, Alfonso Sabella: «Ho trovato un sistema alterato di assegnazione delle commesse pubbliche con profonde e antiche radici». Quando è arrivato a Roma come assessore alla Legalità, il 23 dicembre scorso, il ciclone di Mafia capitale era già passato per il Campidoglio facendo morti e feriti. Grande fiuto investigativo quand’era magistrato negli anni delle stragi mafiose a Palermo, nel palmarès le catture di Luchino Bagarella, Giovanni Brusca, Pietro Aglieri e la bassa macelleria delle stragi dei Corleonesi, Sabella è stato scelto dal sindaco Marino per un compito delicato. 

Assessore, cosa ha trovato al Campidoglio?

«Una macchina amministrativa totalmente fuori controllo. Paradossalmente ai miei tempi a Palermo le carte erano tutte al loro posto, voglio dire veniva garantita una loro regolarità formale. A Roma no. Da tre mesi e passa sto firmando una serie di richieste di annullamento di gare in autotutela. Quando mi sono insediato, ho trovato un paio di decine di gare con procedure a evidenza pubblica, cioè quelle gare che prevedono il bando pubblico, la commissione giudicatrice, la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Un paio di decine a fronte di almeno diecimila procedure negoziate, cottimi fiduciari, affidamenti diretti, somme urgenze». 

Questo cosa significa?

«Sia chiaro, volendo si può truccare anche la gara pubblica però questo dato dimostra l’esistenza di una patologia e occorre intervenire. La patologia è quella che di fronte a un ceto politico locale scarsamente preparato c’è una burocrazia comunale in grado di amministrare, decidere, scegliere senza che nessuno possa ostacolarla. Aggiungo che anche la politica sana di un’amministrazione come quella Marino ha avuto difficoltà a controllare questa burocrazia».

Se dovesse qualificare questa patologia, insomma analizzare quello che non va, come sintetizzerebbe la situazione?

«La maxitangente Enimont fu un maxi finanziamento illegale della politica. Oggi dobbiamo parlare di microtangenti ai burocrati e di briciole ai politici. E preciso che il ceto politico amministrativo potrebbe anche non essere oliato con le tangenti perché in realtà le sue scelte e decisioni si fermano alla politica di indirizzo. Chi decide tutto sono i burocrati, i dirigenti comunali».

Lei come si sta muovendo?

«Con una direttiva di giunta, ho azzerato la possibilità di attivare le somme urgenze e gli affidamenti diretti. E ho dettato le regole per le procedure negoziate per ridurle all’osso e in ogni caso renderle trasparenti come una casa di vetro».

Lei è arrivato al Campidoglio dopo la retata del procuratore Pignatone su Mafia capitale. Cosa ha trovato, al di là delle macerie?

«Una mafia che come la lama calda di un coltello aveva tagliato in due del burro senza trovare la minima resistenza. Una mafia che, nel periodo della giunta Alemanno, aveva occupato i settori delle politiche sociali e dell’ambiente del Campidoglio, Insomma, rifiuti e immigrazione».

Dunque un cancro circoscritto?

«No. Non è che gli altri settori fossero sani, i fenomeni corruttivi purtroppo sono diffusi. Ho la prova della distorsione della procedura a favore di determinate ditte, non delle mazzette».

Ma girano mazzette al Comune di Roma?

«Spetta alla Procura di Roma accertarlo, per quanto mi riguarda ho già segnalato e continuo quasi ogni giorno a inviare denunce alla Procura su queste “distorsioni” diffuse».

Da palermitano, qual è la differenza tra la mafia siciliana, Cosa nostra, e Mafia capitale?

«Questa romana non usa i kalashnikov come i Corleonesi ma la mazzetta e non controlla il territorio di Roma strada per strada, quartiere per quartiere. Ha occupato alcuni spazi delle istituzioni. Quando sono arrivato in Campidoglio, i mafiosi erano scappati o comunque si erano clandestinizzati. Le fragilità del sistema sono rimaste intatte».

Tutto questo che ricadute ha sulla cittadinanza?

«La corruzione e la distorsione delle procedure hanno un costo in termini di qualità e quantità di servizi garantiti ai cittadini».

I riflettori sui magistrati. Nell'opinione pubblica si è diffusa la tendenza a "politicizzare" l'immagine della magistratura, e l'orientamento dei cittadini verso la politica e i partiti è sempre più disilluso. Ma a differenza di vent'anni fa, non riconoscono più i giudici come moralizzatori, scrive Ilvo Diamanti su “La Repubblica”. Il Presidente Mattarella dopo il massacro avvenuto al palazzo di Giustizia, a Milano, ha lanciato un messaggio esplicito. Contro la campagna di discredito che, da tempo, investe i magistrati. Come, d'altronde, Gherardo Colombo, in passato pm di "Mani pulite", e il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli. D'accordo nel denunciare il clima di rabbia e di veleni, non estraneo all'azione criminale dell'assassino. Il quale, non per caso, ha individuato il "luogo" responsabile del proprio fallimento (in senso letterale) proprio nel palazzo di Giustizia. Dove ha ucciso il giudice Ciampi e altre due persone (tra cui un avvocato). Naturalmente, non è possibile ricondurre a ragioni sociologiche comportamenti criminali, che hanno radici largamente patologiche. Tuttavia, l'idea che esista un clima d'opinione sempre meno favorevole ai magistrati e al sistema giudiziario è sicuramente fondata. E il ri-sentimento verso l'ambiente della giustizia è, anzi, cresciuto negli ultimi tempi. È lontana l'epoca di Tangentopoli, quando, nei primi anni Novanta, gli italiani affidarono a pm e giudici il compito di decapitare (metaforicamente) la classe politica che aveva governato l'Italia repubblicana fino ad allora. Corrotta e delegittimata. Giudici e pm divennero, allora, gli esecutori della "volontà popolare". In quegli anni, la fiducia nei loro confronti si avvicinò al 70%. Senza grandi differenze di schieramento politico. Pochi anni dopo, però, questo atteggiamento divenne più tiepido e sicuramente meno trasversale. Soprattutto perché l'interprete principale della nuova stagione (anti) politica, Silvio Berlusconi, insieme a Forza Italia, venne coinvolto da indagini e inchieste "giudiziarie" compromettenti. E concatenate, come la trama fitta del conflitto di interessi del Cavaliere. Così, la fiducia nei magistrati cominciò a declinare, in modo sensibile, soprattutto a centrodestra. Questa tendenza, in seguito, si è allargata. La fiducia nella magistratura, infatti, è scesa costantemente, fino a oscillare intorno al 35-40%, fra il 2005 e il 2010. In seguito è calata ancora. Fino al 30%, rilevato da Demos alcune settimane fa. Dunque, prima degli omicidi avvenuti al palazzo di Giustizia. Si tratta dell'indice di consenso più basso registrato dal 1994 ad oggi. Il clima di sfiducia denunciato dai magistrati, effettivamente, esiste. E ha diverse ragioni. Alcune delle quali, sicuramente, "politiche". Come dimostra la profonda, differenza di atteggiamenti, in base alla posizione politica e alle scelte di partito. Attualmente, infatti, la quota di elettori che esprime fiducia verso i magistrati è intorno al 41%, nella base del Pd, ma scende al 29% nella base del M5S, al 25%, fra gli elettori di Fi e, infine, al 18% fra quelli della Lega. C'è, dunque, un'evidente "frattura" politica, che marca l'atteggiamento verso i magistrati. Guardati con ostilità da destra, con diffidenza dal M5S. Visti, invece, con maggiore favore a sinistra. Tuttavia, il pregiudizio politico nei confronti dei magistrati è cresciuto in modo generalizzato e trasversale. Anche fra gli elettori di centrosinistra, infatti, il consenso nei loro riguardi è calato, di quasi20 punti negli ultimi 5 anni. La causa di questo mutamento d'opinione è, dunque, in gran parte, "politica". E ha alcune spiegazioni precise. Anzitutto, i magistrati, dagli anni di Tangentopoli in poi, hanno assunto un ruolo "politico". Perché hanno contrastato l'illegalità cresciuta insieme all'intreccio fra partiti e interessi. Sono, dunque, divenuti i controllori di un sistema compromesso e poco credibile. Alessandro Pizzorno ha osservato che si sono trasformati nei "garanti della pubblica virtù". In grado di delegittimare, con un'inchiesta, un leader o un amministratore. In secondo luogo, i magistrati stessi, in alcuni casi, sono divenuti attori politici di rilievo. A partire da Antonio Di Pietro. Fino a Antonio Ingroia. Ma sono molti, oggi, i magistrati in Parlamento, alcuni eletti anche nelle liste di centrodestra. Altri, invece, impegnati come sindaci in città importanti. Emiliano a Bari. De Magistris a Napoli. Mentre Casson è candidato a Venezia. Difficile non venire coinvolti dai (ri) sentimenti politici quando si diviene canale di formazione della classe politica. Perché l'identità del magistrato persiste. E Di Pietro, De Magistris ed Emiliano restano "magistrati" anche se hanno cambiato ruolo e attività. Così, presso l'opinione pubblica, si è diffusa la tendenza a "politicizzare" l'immagine dei magistrati. A percepirli come "attori", oltre che "controllori", della politica. In altri termini, oggi l'orientamento dei cittadini verso la politica, i politici e i partiti è sempre più disilluso. E, a differenza di vent'anni fa, non riconosce più i magistrati come moralizzatori. Nonostante che la "questione morale", sollevata da Enrico Berlinguer all'inizio degli anni Ottanta, sia sempre attuale. E colpisca settori politici e amministrazioni  -  regionali e comunali  -  di destra ma anche di sinistra. Non per caso il 48% dei cittadini (Demos, marzo 2015) ritiene che oggi la corruzione politica, in Italia, sia più diffusa che all'epoca di Tangentopoli. Mentre solo l'8% pensa il contrario. Per questo la preoccupazione espressa dal Presidente e dal Csm è fondata. Ma non facilmente risolvibile. Perché lo spazio della magistratura si è allargato nel vuoto della politica. Le sue funzioni di controllo e di intervento si sono moltiplicate parallelamente al riprodursi della corruzione e degli illeciti. Nella realtà politica ma anche nella vita pubblica. Al punto che oggi si assiste a una sorta di "giuridificazione della vita quotidiana". Che accompagna, a fini di controllo, le nostre attività  -  pubbliche, ma anche private. Praticamente ogni giorno. Per alleggerire le tensioni sulla magistratura, dunque, dovremmo "rassegnarci" al ritorno della politica. E dell'etica: nella vita pubblica e privata. Si tratta di un'impresa difficile, mi rendo conto. Ma, voglio credere, non impossibile.

I riflettori sulla cooperazione. Cooperazione a delinquere: ormai è pioggia di inchieste. Dall'ultimo caso di Ischia fino alle tre coop coinvolte nel "sistema Incalza" per realizzare le grandi opere. Quei soldi all'ex ministro Kyenge, Zingaretti e Sposetti, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Se si volesse scherzare con il codice penale (ma solo per ironia, giacché la materia è serissima), si potrebbe inventare un nuovo reato: la «cooperazione a delinquere». Un po' per celia e un po' perché tutti gli ultimi grandi scandali legati a fenomeni corruttivi che hanno interessato le Procure di mezza Italia vedono quasi sempre tra gli indagati esponenti di spicco delle coop, soprattutto di quelle «rosse». Insomma, la storica gemmazione del vecchio Pci, la terza via del fare impresa - né capitalismo né comunismo ma socialità - non è poi così diversa da quella tradizionale. Il viaggio a ritroso non può non partire dalla fine. Con la coop rossa Cpl Concordia, gigante modenese della distribuzione del gas, che avrebbe «unto» numerose ruote, in particolare quelle del sindaco di Ischia Giosi Ferrandino e dell'ex premier Massimo D'Alema, per garantirsi l'appalto per la metanizzazione dell'isola campana. Un contratto da 160mila euro all'albergo del primo cittadino ischitano, tre bonifici da 20mila euro a ItalianiEuropei (ma «nel Pd - giura il presidente Matteo Orfini - non credo ci sia questione morale»). Poi si contano i 2mila euro all'ex ministro Cécile Kyenge, altri 10mila nel 2013 per la Lista Civica Nicola Zingaretti, 10mila euro nel 2013 per l'ex tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti. Non trascurabili altri 6mila euro al Pd Comitato Provvisorio Roma che, sempre nel 2013, aveva ottenuto un finanziamento da 10mila euro dalla 29 Giugno di Salvatore Buzzi. Basta tornare a due settimane fa ed è la Procura di Firenze a salire in cattedra denunciando il «sistema Incalza», cioè il potere del super dirigente del ministero delle Infrastrutture di indirizzare appalti e commesse. Nell'occhio del ciclone tre Coop rosse: la Cmc di Ravenna, partecipante al consorzio Cavet che ha realizzato la Tav Firenze-Bologna, è accusata di aver versato oltre 500mila euro a Incalza tra il 1998 e il 2008. Le fanno compagnia la reggiana Coopsette («favori» in cambio della nomina dell'imprenditore Perotti alla direzione di alcuni lavori) e la Cmb di Carpi. Ancora un po' indietro e si palesa la corruzione di Mafia Capitale. Al centro c'è sempre una cooperativa rossa, la 29 giugno di Salvatore Buzzi: una piccola grande holding di servizi da 59 milioni di fatturato. Dalle pulizie alla nettezza urbana, dai centri di accoglienza ai campi rom. Gestita da un dominus in grado di far sedere al proprio tavolo il presidente della LegaCoop, Giuliano Poletti (oggi ministro), e il sindaco di Roma Gianni Alemanno. «I classici risolutori di problemi, che vanno a mette' 'e mani nella merda». È il braccio destro di Buzzi, l'ex Nar Massimo Carminati, parlando proprio delle Coop a introdurre quel vocabolo triviale che si ritroverà anche nelle intercettazioni napoletane su D'Alema. Nell'inchiesta milanese sugli appalti Expo, invece, si ritrova il colosso Manutencoop e anche un protagonista della prima Tangentopoli, il «compagno G.», ossia Primo Greganti, che aveva un contratto di consulenza con la Cmc di Ravenna. Cambiano città e temi, ma i protagonisti sono sempre le coop che, tra un «favore» e l'altro ai politici amici, riescono ad ottenere commesse pubbliche importanti. E anche il Mose di Venezia non è esente dal sistema. «Il 20% dei lavori alle aziende Iri, 60% a quelle private, 20% alle cooperative rosse», raccontò al pm Nordio un dirigente Italstat circa trent'anni fa. L'inchiesta dell'anno scorso ha dimostrato che l'impostazione non è cambiata molto. Le coop presenti nei consorzi che dovevano realizzare il sistema di barriere mobili «finanziavano» la politica per garantirsi la prosecuzione del sistema. E che dire dell'ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati che impose la Ccc di Bologna per la riqualificazione dell'area Falck di Sesto San Giovanni? E poiché le coop rosse sono nate e cresciute all'interno della «famiglia» Pci-Pds-Ds-Pd, occorre interrogarsi sulla natura di questo rapporto. In alcuni casi, i risvolti penali sono spariti per prescrizione, causa ridefinizione del reato di concussione da parte del governo Monti (con incluso salvataggio delle grandi coop). Ma c'è anche un sostanzioso profilo politico: Cpl Concordia, 29 giugno, Cmb, Ccc, Manutencoop e compagnia cantante sono spesso comparse nell'elenco dei finanziatori (leciti, per carità) del partito: sia di quello tinto di rosso dei vecchi Bersani, D'Alema e Veltroni sia quello più sbiadito di Renzi. I Comuni di Roma, Venezia e Ischia, la Provincia di Milano, se guidati dal centrosinistra, avevano, tra gli altri, un interlocutore privilegiato che, a sua volta, compariva tra gli sponsor del partito. E quando si parla di grandi appalti, il «sistema» non trascura mai o quasi mai le Coop. Forse non c'è nemmeno corruzione o concussione, è solo familiarità.

I riflettori sui sindacati e le loro protette:Libera di Don Ciotti e Emergency di Gino Strada. La Cisl rinnega Gino Strada e don Ciotti «Stanno con Landini, basta 5 per mille». Una nota dei metalmeccanici Fim vieta di devolvere il 5 per mille a Emergency e Libera, scrive Nadia Muratore su “Il Giornale”. Basta 5X1000 ad Emergency e a Libera. Lo ha deciso la Fim Cisl di Torino e del Canavese che non lascerà più devolvere il contributo dei suoi 12mila e 500 iscritti alle due associazioni, perché, come spiega il segretario torinese della Fim, Claudio Chiarle, in una lettera indirizzata alla presidente di Emergency, Cecilia Strada, e al rappresentante legale di Libera Davide Pati: «Abbiamo sempre lasciato liberi i nostri associati di scegliere a chi devolvere il 5X1000, perché il nostro sindacato ha nel suo dna l'idea che chi aderisce alla Fim sia un uomo o una donna liberi di fare le sue scelte politiche, sociali, religiose senza condizionamenti da parte nostra. Questo si chiama autonomia dai partiti, rispetto del pensiero politico e religioso altrui». Ma adesso le due associazioni sono finite nel libro nero. Quello che non va giù al presidente Chiarle è la loro adesione alla «Coalizione sociale», lanciata dal segretario Fiom Maurizio Landini che, sempre secondo il segretario torinese fa venir «meno lo spirito con cui, in piena autonomia e libertà, avete costruito il progetto della vostra associazione e con cui molti nostri iscritti versavano il 5X1000 a Emergency o Libera. Preso atto di questo vostro cambiamento e come vi dicevo in precedenza, la Fim di Torino e Canavese aderisce e supporta economicamente progetti di solidarietà con Ong territoriali e nazionali a cui, stante la vostra adesione alla Coalizione sociale, d'ora in poi daremo indicazione ai nostri iscritti di versare il 5X1000». Un attacco diretto e una presa di posizione forte, che gli iscritti al sindacato dei metalmeccanici della Cisl, pare abbiano apprezzato e condiviso, facendo così venir meno a Libera ed Emergency, un bel po' di denaro, visto che, sempre per ammissione dello stesso Chiarle, erano numerosi a firmare a favore delle due associazioni umanitarie. Ha apprezzato un po' meno, invece l'associazione fondata da don Luigi Ciotti, che a stretto giro di posta ha già replicato senza celare il malcontento e così, probabilmente dopo essersi fatta due conti in tasca, è arrivata anche a smentire di aver teso la mano al movimento creato dal leader della Fiom. Il coordinatore nazionale di Libera, Enrico Fontana, ha infatti precisato al «caro segretario Chiarle» di essersi stupito per la decisione presa dal sindacato torinese perché, «come ha ribadito a più riprese in interviste pubblicate da diversi giornali il nostro presidente don Luigi Ciotti - scrive Fontana - e come è stato sottolineato in un documento del nostro ufficio di presidenza, Libera non ha aderito ad alcuna Coalizione sociale. Se questa è la motivazione per cui intendete non segnalare più ai vostri iscritti la nostra associazione come possibile destinataria del 5x1000, è davvero priva di fondamento». E poi, lascia una porta aperta, spiegando che da Libera avrebbero «potuto fornirle tutti i necessari chiarimenti prima che venisse assunta una decisione che ci auguriamo possa essere rivista alla luce di questa risposta». Tutto tace, invece da Emergency ma tanto il segretario Chiarle non pare intenzionato a cambiare idea.

Antimafia e cooperazione. Gasparri: “Coop rosse: 416 bis. Don Ciotti: corruzione coop perché non ne parla”, scrive Blitz quotidiano. Sullo scandalo della coop rossa che pagava mazzette a Ischia, Maurizio Gasparri, vice presidente del Senato chiama in causa un sacerdote icona della sinistra da tv, don Luigi Ciotti e paragona il sistema delle cooperative alla peggio malavita organizzata, invocando l’applicazione del 416 bis. La provocazione è un po’ estrema, perché il mondo degli affari ha le sue regole spietate ma non è malavita e forse sarebbe stato più appropriato invocare il conflitto di interessi: cooperative vs Pd come Mediaset vs Berlusconi. Parallelo arduo ma questi sono i due lacci che impastoiano l’Italia. Le dichiarazioni di Maurizio Gasparri diffuse dalla agenzia Ansa sono urticanti provocazioni: “Don Luigi Ciotti rilascia, a sua discrezione, patenti di pubblica moralità a questo e a quello. Cosa ha da dire sulla lunga scia di fatti di corruzione riguardanti le cooperative rosse aderenti alla Legacoop, visto che il presidente della Lega delle cooperative, Mauro Lusetti, partecipa alle sue iniziative ed ha addirittura letto una parte della lista delle tante vittime massacrate dalla mafia? Potrebbe scegliere lettori migliori. O potrebbe dire qualche parola anche su questo capitolo di corruzione. La sua libertà di espressione si indirizza su tanti obiettivi. Riservi qualche attimo del suo tempo alla Lega delle cooperative per la quale forse bisognerebbe interrogarsi sull’opportunità o meno di applicare il 416 bis”. Il 416 bis alle Coop. “Ancora uno scandalo che coinvolge il mondo delle coop rosse. Corruzione, malaffare, mondo di mezzo. Dall’inchiesta su Filippo Penati alla recente Mafia Capitale, dal viadotto in Sicilia all’Expo e ora l’appalto per la metanizzazione di Ischia. Sempre in prima linea le coop rosse. Le loro mani sulle principali opere pubbliche del nostro Paese. Non è forse il tempo che sia ipotizzata l’applicazione del 416 bis a questa autentica piovra rossa? “Dall’inchiesta di Ischia emergono indiscrezioni sempre più inquietanti. Non solo si ha conferma dell’intreccio affaristico tra coop rosse e pezzi importanti della sinistra e del Pd già emerso in altre indagini. Le casse della Cpl Concordia pare infatti siano state aperte per finanziare Fondazioni, eventi, cene e campagne elettorale di esponenti di primo piano dell’attuale Pd. Da Renzi a D’Alema, da Marino a Zingaretti. Ma risulterebbe anche un legame con la criminalità organizzata. Una circostanza che tra l’altro si sarebbe verificata anche in altre occasioni, come appare nell’inchiesta su Mafia Capitale. Coop rosse, Pd, criminalità. La magistratura chiarirà la liceità dei finanziamenti. Ma il verificarsi ripetuto di certe circostanze dovrebbero far riflettere sull’opportunità di ipotizzare, anche in questa inchiesta, il reato di associazione mafiosa. Le coop rosse meritano un bel 416 bis. Hanno scritto da decenni pagine da non dimenticare. Dall’Emilia al viadotto crollato in Sicilia, da Sesto San Giovanni al finanziamento a tutta la sinistra”.

Il prete delle coop fustiga tutti ma salva gli amici che lo finanziano. Questa volta don Ciotti, di fronte a scandali e corruzione, non ha lanciato scomuniche come nel suo stile. Nessuna sorpresa: sono le cooperative rosse che danno soldi alla sua associazione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Cacciate i ladri: è un vasto programma quello che don Luigi Ciotti, il sacerdote dell'antimafia, ha assegnato alla Lega delle cooperative. Era lo scorso dicembre, i giorni dello scandalo romano di «Mafia capitale». Degli arresti tra i «buoni». Dei cooperatori che sfruttano i disperati. Dei volontari (o pseudo tali) che intascano soldi da Stato e Regioni pontificando che invece li avevano usati per accogliere gli extracomunitari. Dei portaborse Pd che facevano da intermediari tra enti pubblici e malaffare. Del ministro Poletti fotografato a tavola con i capi di Legacoop poi indagati. Dell'ipocrisia di una certa parte della sinistra pronta a denunciare le pagliuzze negli occhi altrui senza accorgersi delle proprie travi. Ma don Ciotti, il custode della legalità, il campione della lotta contro le mafie, il prete che marcia in testa a qualsiasi corteo anti-corruzione e pro-Costituzione, ha trattato con i guanti le coop rosse. «Bisogna sempre vigilare - ha detto - non c'è realtà che si possa dire esente». E ancora: «Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode». E poi: «Siate sereni, cacciate le cose che non vanno. Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli - ha proseguito -. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma dobbiamo evitare che ci rubino le parole. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione». Un appello generico, parole di circostanza davanti a un sistema smascherato dalla magistratura. Nulla a confronto delle scomuniche lanciate contro i mafiosi, i sì-Tav, i «nemici della Costituzione», i «guerrafondai», e naturalmente Silvio Berlusconi. D'altra parte, difficile per lui usare un tono diverso. Perché il prete veneto cresciuto a Torino è anche il cappellano di Legacoop. Il rapporto è organico. Le coop rosse (con la Torino-bene, la grande finanza laica e le istituzioni pubbliche) sono tra i maggiori finanziatori del Gruppo Abele e di Libera. L'associazione antimafia ha tre partner ufficiali: le coop della grande distribuzione, il gruppo Unipol e la loro fondazione, Unipolis. Nei bilanci annuali c'è una voce fissa: un contributo di 70mila euro da Unipolis. Legacoop collabora con il progetto «Libera terra», che si occupa di mettere a reddito i terreni confiscati ai mafiosi. «Un incubatore per la legalità», lo definiscono i cooperatori rossi che grazie a questa partnership aprono sempre nuove coop al Centro-Sud che sfornano prodotti «solidali». Don Ciotti si scomoda perfino per le aperture di qualche punto vendita, com'è successo quando le coop inaugurarono la loro libreria davanti all'Università Statale di Milano. L'agenda del prete è fittissima. Firma appelli, presenta libri di Laura Boldrini, promuove manifestazioni, guida cortei, interviene a tavole rotonde (a patto che non odorino di centrodestra), appare in tv, commemora le vittime della mafia, incontra studenti, ritira premi: l'ultimo è il Leone del Veneto 2015, ma nel 2010 fu insignito, tra gli altri, del premio Artusi «per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo». E poi inaugura mostre fotografiche e fa addirittura da padrino a rassegne di pattinaggio (è successo a Modena lo scorso 7 febbraio per il 19° trofeo intitolato a Mariele Ventre). In questo turbine di impegni, don Luigi non ha trovato il tempo di condannare apertamente le infiltrazioni della malavita organizzata nella galassia della cooperazione rossa. E non esistono soltanto «Mafia capitale» a Roma o le mazzette per il gas a Ischia; ci sono le indagini per la Tav, i lavori al porto di Molfetta, gli appalti di Manutencoop, le aziende legate al «Sistema Sesto» che coinvolgeva Filippo Penati, i cantieri Unieco in Emilia Romagna dove lavoravano famiglie della 'ndrangheta. Nei bilanci delle associazioni di don Ciotti i finanziamenti di Unipolis sono tra i pochi di cui è chiara la provenienza. Libera e Gruppo Abele rappresentano realtà consolidate. L'organizzazione antimafia ha chiuso il 2013 con entrate per 4 milioni 770mila euro raccolti in gran parte da enti pubblici: mezzo milione per la gestione dei beni confiscati, altrettanti per progetti e convenzioni internazionali, ulteriori 766mila per attività di formazione; 645mila euro arrivano grazie all'8 per mille, 200mila dalle tessere, 700mila dai campi estivi e 900mila da campagne di raccolta fondi. Maggiori problemi ha il Gruppo Abele, che ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita di 273mila euro, e il 2012 era andato pure peggio: un buco di quasi due milioni su uno stato patrimoniale di circa 10. La situazione finanziaria è disastrosa, con debiti verso le banche per 5 milioni e altri 800mila verso fornitori garantiti da un cospicuo patrimonio immobiliare valutato in circa 6 milioni 300mila euro: la sede di Corso Trapani è un ex immobile industriale donato a don Ciotti dall'avvocato Agnelli. Affrontare il disagio sociale costa e molte attività assistenziali non possono essere soggette a «spending review». Indebitarsi è oneroso: 261mila euro (quasi tutta la perdita di esercizio) se ne vanno in anticipi e interessi su prestiti principalmente verso Banca Etica, Unicredit e Unipol banca. I ricavi non seguono l'andamento dei costi. Le rette delle persone ospitate in comunità e i proventi per corsi di formazione o vendita di libri e riviste fruttano 2.838.000 euro. Più consistenti sono le entrate da contributi: quasi 3.700.000 euro. Oltre tre milioni piovono da Commissione europea, ministeri, regioni ed enti locali, fondazioni imprecisate; altri generici «terzi» hanno donato 731mila euro mentre istituti bancari senza nome hanno erogato quasi 350mila euro. Don Ciotti è un campione nel fare incetta di finanziamenti pubblici. Ma non bastano. Ecco perché deve girare l'Italia e sollecitare la grande finanza progressista a essere generosa con i professionisti dell'antimafia e dell'antidroga. È uno dei preti di frontiera più famosi, con don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi. Dai convegni coop alle telecamere Mediaset (è andato da Maria De Filippi, ma nessuno si è indignato come per Renzi e adesso Saviano), dagli appelli per la Costituzione (con Rodotà, Zagrebelsky, Ingroia, Landini) perché «l'Italia è prigioniera del berlusconismo» fino alle manifestazioni no-Tav, don Ciotti è in perenne movimento. Non lo frenano gli incidenti di percorso: il settimanale Vita ha segnalato («legalità parolaia») che Libera e Gruppo Abele figurano tra i firmatari di un accordo con i gestori del business delle sale gioco mentre il loro leader si è sempre scagliato contro l'azzardo. Dopo che Papa Francesco l'anno scorso l'ha abbracciato e tenuto per mano alla commemorazione delle vittime di mafia, don Ciotti vive anche una sorta di rivincita verso la Chiesa «ufficiale» che a lungo l'aveva tenuto ai margini. Lo scorso Natale ha promosso un appello per «fermare gli attacchi a Papa Francesco»: è l'ultimo manifesto, per ora, proposto da don Ciotti. Ma non passerà troppo tempo per il prossimo.

Ok, basta coi professionisti dell’Antimafia. Ma adesso chi combatterà le mafie? E’ la domanda che si pone Gaetano Savatteri su “Gli Stati Generali”. L’antimafia è morta. L’antimafia dei movimenti, delle associazioni di categoria, dei bollini e dei certificati, ma anche quella dei magistrati e della politica. L’antimafia, quella che abbiamo visto e conosciuta fino ad oggi, è definitivamente sepolta. Perché le ultime vicende – l’arresto di Roberto Helg per una mazzetta conclamata o l’indagine per mafia sul presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, per dichiarazioni di pentiti ancora tutte da chiarire e che potrebbero nascondere una manovra di delegittimazione – sanciscono in ogni caso e definitivamente la fine di un modello che per molto tempo, e fino all’altro ieri, è stato visto con favore e incoraggiato perché segno di una “rivoluzione” che metteva in prima linea la cosiddetta società civile. Attilio Bolzoni su Repubblica, lo stesso giornale che ha sparato per primo la notizia dell’indagine su Montante, ha posto un interrogativo: “Forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando”. Ma probabilmente la domanda più corretta è un’altra: potrà esserci ancora un’antimafia? Peppino Di Lello, a lungo magistrato del pool antimafia di Palermo, quello di Falcone e Borsellino, scrive sul Manifesto che “i bollini, le autocertificazioni, gli elenchi incontrollati e incontrollabili degli antimafiosi doc sono ormai ciarpame e bisogna voltare pagina riappropriandosi di una qualche serietà nella scelta di esempi di antimafia vera, scelta fondata sulla prassi, sui comportamenti che incidono realmente in questa opera di contrasto”. Di Lello, giustamente, attacca la retorica dell’antimafia, citando non a caso l’ormai storico articolo del 1987 di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Ma le ultime vicende e un sottile veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia (don Luigi Ciotti ha fornito qualche anticipazione: “Mi pare di cogliere, e poi non sono in grado di dire assolutamente altro, che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di legalità, di antimafia”) percuotono chi, per entusiasmo o per mestiere o, usiamo pure questa parola, per “professionismo”, si è iscritto negli ultimi anni nel fronte antimafia. Serpeggia il disorientamento tra quanti si chiedono: e adesso, infranti alcuni simboli dell’antimafia, non si rischia di veder naufragare il lavoro fatto in tanti anni, compresi i buoni esempi concreti realizzati? L’indagine della Commissione parlamentare antimafia sull’antimafia, per individuare quando questa sia stata reale o di facciata – paradosso segnalato da Giuseppe Sottile sul Foglio – pone una questione centrale. Se molti movimenti, associazioni, progetti nelle scuole, iniziative si sono riempiti, nella migliore delle ipotesi, di un tot di vuota retorica e, nella peggiore, di piccoli o grandi interessi economici sotto forma di finanziamenti, privilegi, guadagni, chi dovrà stabilire da ora in poi la genuinità della natura antimafia? La struttura dello Stato italiano, per oltre centosessant’anni, ha costruito soggetti e ruoli incaricati di definire e individuare le mafie, arrivando a darne nel 1982 perfino una definizione normativa con l’articolo 416bis del codice penale. Ma l’Italia non ha, e forse non poteva avere, strumenti per individuare con esattezza la natura antimafiosa di soggetti, singoli o plurali, se non in termini di opposizione: in parole semplici, era antimafioso chi combatteva la mafia. Con opere o parole. Così, per lungo tempo, l’antimafia sociale – cioè quella non costituita da magistrati e poliziotti incaricati, per ragioni d’ufficio, dell’azione di contrasto e repressione – finiva per autodefinirsi. E’ bastata, per un lunghissimo periodo, la petizione di principio di dichiararsi antimafia per essere considerati tali. In un Paese che fino a una quarantina d’anni fa ancora sosteneva, spesso anche nelle sedi giudiziarie, che la mafia non esisteva, già il fatto stesso di dichiararne l’esistenza e di porsi in posizione alternativa a essa, era sufficiente per attribuirsi o vedersi attribuita la patente antimafia. Se oggi questo non basta più, quale sarà il criterio futuro per definire la nuova antimafia? I fatti, i comportamenti e la prassi, dice Di Lello. Tutto ciò è facilmente verificabile, ad esempio, nell’attività delle associazioni antiracket che convincono i loro associati a testimoniare nei processi, li sorreggono, si costituiscono accanto a loro parte civile. Ma questo principio può valere per associazioni culturali, singoli di buona volontà, gruppi di opinione, insegnanti la cui unica forza risiede solo nella dichiarazione d’intenti?  E’ ovvio che laddove le parole non coincidano con i fatti (come nel caso della tangente che ha fatto finire in galera Helg), la contraddizione è talmente stridente che non ci sono dubbi. Ma anche in questo caso, è una dimostrazione al contrario: il fatto (cioè la mazzetta) mostra la non appartenenza di qualcuno al fronte autenticamente antimafioso. Ma quale può essere il fatto che, giorno dopo giorno, possa dimostrarne invece l’appartenenza? Per Confindustria Sicilia, ad esempio, sembrava già rivoluzionario e significativo che un’associazione di categoria che per molto tempo aveva ignorato la mafia o ci aveva convissuto, con molti casi di imprenditori contigui o aderenti a Cosa Nostra, avviasse una inversione di rotta pubblica, con l’annuncio di espulsioni dei propri soci che non avessero denunciato le estorsioni. Era certamente un fatto capace di attribuire identità antimafiosa a quell’associazione. Naturalmente, il movimento antimafia nel suo complesso si è nutrito di errori e di eccessi. E questi nascono probabilmente dall’evidenza che ogni movimento antimafioso, per sua natura, tende ad occupare tutti gli spazi morali a sua disposizione. La discriminante etica, ragione fondante, tende ad allargarsi e spostarsi sempre più avanti in nome della purezza antimafia, escludendo altri soggetti e movimenti. Qualsiasi movimento antimafia, poiché si costituisce e si struttura in alternativa e in opposizione a qualcosa, in primo luogo la mafia e i comportamenti che possono favorirla o sostenerla, non può tentare di includere tutto, ma deve per forza di cose escludere. Ecco perché dentro il mondo dell’antimafia non c’è pace, e ciascun gruppo di riferimento tende a vedere negli altri gruppi degli avversari, se non dei nemici insidiosi o subdoli. L’antimafia spontaneistica e aggregativa dal basso si contrappone a quella ufficiale in giacca e cravatta e viceversa, quella sociale si contrappone a quella di Stato e viceversa. La vocazione alla supremazia della leadership del mondo antimafioso, diventa allarmante quando l’antimafia non è più esclusivo appannaggio di gruppi sociali d’opposizione (i preti di frontiera contro la Chiesa ufficiale timorosa, le minoranze politiche contro le maggioranze o i governi prudenti o contigui, gli studenti contro la burocrazia scolastica troppo paludata, tanto per fare alcuni esempi), ma comincia a diventare bandiera dei gruppi dominanti. Al potere economico o politico, finisce così per sommarsi il potere di esclusione di potenziali concorrenti, che può essere esercitato anche facendo baluginare legami oscuri o poco trasparenti. L’antimafia può servire al politico di governo per demonizzare gli avversari. Siamo di fronte a quel meccanismo che viene indicato come “la mafia dell’antimafia”, definizione che non amo perché rischia di far dimenticare che nel recente passato in Sicilia, e non solo, politici,  imprenditori e funzionari contigui o affiliati alla mafia facevano eliminare i loro avversari direttamente a colpi di kalashnikov. In questi giorni, in queste ore, il mondo dell’antimafia, soprattutto quello siciliano, il più antico e radicato, il più organizzato e selezionato negli anni delle stragi e delle mattanze mafiose, si trova davanti a molte domande. Chi dovrà stabilire, nel futuro prossimo, la genuinità dei comportamenti antimafia? I giornali? La tv? Il governo? Il Parlamento? Non esistono organismi o autorità morali in grado di fornire garanzie valide per tutti.  La domanda principale finisce per riguardare l’esistenza stessa di un’antimafia diffusa. Se l’antimafia, per come è stata fino ad oggi, è morta, potrà esserci ancora qualcosa o qualcuno in grado di dichiararsi antimafia? Ma, soprattutto, chi potrà crederci ancora?

Imprenditori e giornalisti cantori dell’antimafia, non ci mancherete per niente. Abbiamo letto su queste colonne l’annuncio della morte dell’antimafia. Un annuncio articolato. Esteso, ragionato, scrive Salvatore Falzone su “Gli Stati Generali”. Forse però vale la pena allungare il necrologio, non foss’altro che per rispetto del de cuius e delle sue gesta. Il decesso, diciamocelo, è stato causato da colpi di toga. Ancora una volta, purtroppo. Perché se non spuntano i primi fascicoli con l’intestazione “Procura della Repubblica”, nel Belpaese tutto è lecito e tutto va bene. Prima di leggere paroline come “arresto”, “tangente”, “indagine”, “pentiti”, nessuno s’interroga, nessuno ha dubbi. Succede così che da qualche anno a questa parte un’antimafia che non è antimafia ha messo le mani sulla città, per dirla con Rosi, per fare affari e costruire carriere. Nel nome della legalità, s’intende, e con l’avallo di una torma di pensatori, magistrati, prefetti, questori e alti ufficiali che non hanno fatto altro che alimentare una colossale bugia (Giovanbattista Tona, consigliere della Corte d’Appello di Caltanissetta: “Come il mafioso di paese otteneva rispetto perché passeggiava col sindaco, col parroco, col maresciallo e col barbiere, l’antimafioso 2.0 può esercitare potere su tutto sol perché in confidenza con ministri, magistrati e autorità”. Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma: “Bisogna fare l’esame di coscienza: non è che tra magistrati e forze dell’ordine ci sono soltanto santi, eroi e martiri. Ci sono, come in tutte le categorie, persone per bene e persone meno perbene”). C’era bisogno di scoprire Helg con la mazzetta in mano? Dovevamo leggere Bolzoni su Repubblica – che ha dato notizia di un’inchiesta per mafia a carico del presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante – per accorgerci che dalle parti di Caltanissetta l’antimafia ha i pennacchi impastati di gel? E’ mai possibile che quel “cretino” del professor Laurana continua a morire in una zolfara abbandonata, “sotto grave mora di rosticci”, senza sapere ciò che tutti sanno? Già, perché tutti sanno, e tutti sapevano. Ecco perché la meraviglia e il disorientamento del giorno dopo sono espressioni vuote, bianche come quelle di certe statue. La Sicilia è un salone da barba. E anche Roma lo è. E pure Milano. Mentre in questi anni si firmavano protocolli ai tavoli delle prefetture, mentre si stilavano codici etici, mentre procuratori generali inauguravano l’anno giudiziario magnificando le imprese dei nuovi paladini dell’antimafia, dal barbiere si sussurrava e si rideva. Si rideva (con gli occhi) e si facevano smorfie (con la bocca). Ora ci si chiede se, dopo le scosse telluriche delle ultime settimane, possa esserci ancora un’antimafia. E perché no? Un’antimafia ci sarà. Ma non questa. Non questa che ha mandato in solluchero, da nord a sud, cronisti e narratori, i “cuntastorie – come ha scritto Sergio Scandura su Gli Stati Generali – dello storytelling epopea che danno voce ai Pupi: ora con la prodezza, la tenacia e l’enfasi di battaglia, ora con l’incanto-disincanto e la passione della bella Angelica di carolingia memoria”. Sì, ci sarà un’altra antimafia. Anzi, c’è già. C’è sempre stata da quando esiste la mafia. Silenziosa, non remunerativa. E’ l’antimafia del proprio dovere quotidiano, che non fa regali, che non compra e che non paga. Un siciliano illuminato, Cataldo Naro, l’arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006, parlava di legalità e santità nelle parrocchie tra Partinico e Corleone. A proposito di Chiesa e mafia, diceva che il cristiano non può non vivere secondo il Vangelo, e che il Vangelo è di per sé incompatibile con la mafia: il discorso vale per tutti, spiegava il presule, per il carabiniere, per il politico, per il professore, per il bidello, per il magistrato, per la guardia municipale… Ma lasciamo stare i santi e torniamo ai diavoli. Adesso che succede, adesso che l’antimafia in ghingheri traballa e che non ci sono ammortizzatori che tengono? Il tema non è “il veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia”, né l’esistenza o meno di una “manovra di delegittimazione” ai danni del leader degli industriali siciliani. E neppure i progetti delle scuole, le navi della legalità che attraccano a Palermo in un’esplosione di cappellini o altre simpatiche pagliacciate. Il tema è molto più – come dire? – terra terra: ed è quello del proverbio “predicare bene e razzolare male”. Il tema è la trasparenza delle azioni di chi afferma di combattere il malaffare. E’ la concretezza – oltre che la qualità – dell’impegno sul fronte della legalità (parola che Michele Costa, il figlio del procuratore di Palermo ucciso nel 1980, propone giustamente di abolire). Da questo punto di vista non c’è bisogno di attendere misure cautelari o sentenze definitive per mettere in discussione l’operato non dei “professionisti” (lasciamolo in pace il maestro di Racalmuto) ma degli “imprenditori dell’antimafia”: etichetta, quest’ultima, che ben si attacca alle giacchette dei nostri eroi. Perché debbono scriverla i giudici la storia di questa ennesima truffa? La scrivano gli artisti, se ce ne sono ancora. O gli intellettuali, ma non quelli “col senno del poi”. La raccontino le inchieste dei giornalisti e degli scrittori che non prendono soldi, i registi di cinema e di teatro… Materiale ce n’è in abbondanza. Certo per raccoglierlo bisogna superare lo Stretto, penetrare nell’entroterra incontaminato, fra colline che d’inverno sono così verdi che sembra di stare in Irlanda, e fare un salto nella “Piccola Atene”, la Caltanissetta dove la leggenda vuole che a metà degli anni duemila sia nata la rivoluzione degli imprenditori (che qualcuno, con parole misurate, ha definito copernicana). Ma va detto che nella Caltanissetta delle mitologie c’è stato pure chi in questi anni ha lavorato sul serio resistendo alle bordate sia dalla mafia che dall’antimafia. Il pm Stefano Luciani, in una requisitoria a conclusione di un processo in cui la Procura riteneva di avere scoperto estorsioni non denunciate dagli imprenditori e accordi tra imprenditori e mafiosi proprio in terra nissena, aveva evidenziato che ancora si aspettava l’effetto dell’impegno di Confindustria sul comportamento della categoria. Era il 23 gennaio 2012. Bè, dopo pochi giorni il giornalista Filippo Astone scriveva un pezzo intitolato “Le incredibili dichiarazioni del pm nisseno Stefano Luciani”: l’accusa era che il magistrato, non riconoscendo i meriti degli imprenditori antimafia, non si rendeva conto di aiutare oggettivamente la mafia. Dunque l’antimafia è morta? Macché. Se l’antimafia è quella di Helg e di Montante possiamo stracciare il necrologio e stappare champagne. Perché non è morta l’antimafia. Ma un sistema di potere che ha occupato tutti gli spazi (non morali), che controlla ogni angolo del territorio, che dai tempi di Raffaele Lombardo gestisce nell’Isola il potente assessorato alle Attività Produttive, che tiene in pugno giornali e giornalisti: l’ordine di Sicilia ha aperto un’inchiesta sui finanziamenti elargiti dalla Camera di Commercio di Caltanissetta, di cui Montante è presidente, a testate e pubblicisti. “Potrà dunque esserci un’antimafia?” Sì. “Chi dovrà stabilire nel futuro prossimo la genuinità dei comportamenti antimafia?”. Non certo questi signori. Gaetano Savatteri, sempre su Gli Stati Generali, si è chiesto chi potrà credere ancora all’antimafia… Ma la domanda va forse ribaltata: chi ci ha mai creduto a questa antimafia? E se qualcuno ci ha creduto, perché?

Ultimissime dalla Sicilia perduta. L'Antimafia che indaga sull'antimafia. Siamo arrivati al punto che l'Antimafia indaga sull'antimafia, come annunciato da Rosy Bindi. Un percorso che si annuncia di complicatissima riuscita. Perché non c’è verità, in Sicilia, che non abbia la sua controverità.  Il direttore di LiveSicilia il 06 Marzo 2015 su “Il Foglio”. Sono più di vent’anni che i giudici di Caltanissetta indagano sull’omicidio di Paolo Borsellino. Hanno celebrato quattro processi ma non hanno ancora trovato la strada per venire fuori dal labirinto. Un labirinto giudiziario: dove ogni verità finisce per smentire un’altra verità, e dove ogni pentito viene puntualmente smentito da un altro pentito. In questa Caltanissetta, così nebbiosa e incerta, è arrivata l’altro ieri in pompa magna la Commissione parlamentare antimafia, quella presieduta da Rosy Bindi. Una novità. Basti pensare che in oltre cinquant’anni di vita la gloriosa commissione non era mai andata oltre Palermo e si era guardata bene dal mettere piede in terre scottanti, come quelle che dal Vallone si estendono fino a Mussomeli e che negli anni del feudo furono regno di boss come Giuseppe Genco Russo e Calogero Vizzini. Gente senza peli sulla lingua: “Qui, chi mette la testa fuori dalla tana, pum pum”, avvertiva bonario e crudele l’onorevole Calogero Volpe, un democristiano che li conosceva bene e che per sette volte riuscì a farsi eleggere in Parlamento. Ma la Commissione guidata dalla Bindi non è arrivata l’altro ieri a Caltanissetta per capire il perché dei processi che non si chiudono mai o per scovare gli eventuali eredi dei mammasantissima che, con la forza della lupara, spodestarono baroni e sovrastanti, e si impadronirono delle loro terre e delle loro miniere di zolfo. No. L’Antimafia, quella ufficiale, grande e istituzionale, è venuta a Caltanissetta per indagare sull’altra antimafia, quella nata dopo la stagione delle stragi, sull’onda dell’emozione per l’uccisione di Falcone e Borsellino, ma anche perché di quella mafia e di tutto quel sangue non se ne poteva più. Un’antimafia che si è estesa e dilatata ad ogni settore, in ogni provincia, coinvolgendo associazioni spontanee, come “Addiopizzo”, e associazioni di ben più solida consistenza come “Libera”, fondata dal torinese don Luigi Ciotti e trasformata dai suoi manager in una holding di dimensioni nazionali; un’antimafia, quella sulla quale indagherà la Bindi, che ha scavalcato da tempo il recinto doloroso dei familiari delle vittime e ha sempre più coinvolto categorie già strutturate, come quelle degli imprenditori o dei commercianti. La Confindustria siciliana ad esempio, prima con Ivan Lo Bello e poi con Antonello Montante, ha tentato di segnare un confine tra chi pretendeva di gestire le proprie aziende con la complicità protettiva di Cosa nostra e chi intendeva invece battersi per un mercato libero dal condizionamento mafioso. Certo, di errori ne sono stati fatti e non c’è passaggio, nella storia di questa antimafia, come ogni cosa nata in Sicilia, dove non sia affiorato l’immancabile, abusato gattopardismo del tutto cambia perché nulla cambi. Certo, molte di queste associazioni si sono man mano trasformate in lobby, monopolizzando finanziamenti pubblici e arrogandosi perfino il diritto di assegnare attestati di legalità ai propri amici e canaglieschi mascariamenti ai propri nemici. Certo, dopo l’antimafia dell’innocenza è arrivata l’antimafia degli affari e pure l’antimafia del potere: Rosario Crocetta, issando la bandiera della legalità, è riuscito a conquistare la presidenza della Regione siciliana e a distribuire incarichi e consulenze a un cerchio magico di fedelissimi; a cominciare da quell’Antonio Ingroia, che fu pubblico ministero della famosa trattativa tra stato e mafia e che dopo quell’impresa, montata sui giornali di mezzo mondo, tentò pure l’azzardo di una sua discesa in politica. Oggi però, sia la bandiera del governatore Crocetta sia quella dell’ex magistrato Ingroia, amministratore di un’azienda partecipata dalla Regione, mostrano i segni di un profondo logoramento: la Corte dei Conti li subissa con pesantissimi richiami alle regole della buona amministrazione e, in tempi di mafia e antimafia, anche i bambini dell’asilo dovrebbero sapere che non c’è legalità senza l’osservanza delle regole. Ma bastano le cose che sono state sin qui raccontate – errori e sbandamenti, eccessi e sovraesposizioni – per arrivare al punto dove è arrivata la Bindi, e cioè che la vecchia e appesantita Commissione deve finalmente aprire gli occhi non solo sulla mafia ma anche e soprattutto sull’antimafia? La visita in Sicilia era programmata da tempo, nel quadro di un giro di ricognizione che comprende diverse tappe, ma l’arrivo dei commissari parlamentari a Caltanissetta è coinciso martedì con l’arresto di Roberto Helg, il presidente della Camera di Commercio di Palermo che, dopo tanti proclami contro le estorsioni e la firma di tantissimi protocolli di legalità, era stato sorpreso all’aeroporto di Punta Raisi mentre incassava una tangente di centomila euro per agevolare il rinnovo della licenza a un pasticciere. Innegabile esempio di un’antimafia di facciata, anzi da sottoscala, che qualche dubbio in seno alla Commissione lo avrà di certo sollevato. Non solo. A metà febbraio proprio Caltanissetta fu teatro di uno dei più clamorosi ribaltamenti di immagine: Antonello Montante, numero uno di Confindustria Sicilia, braccio destro di Giorgio Squinzi per la legalità e protagonista con Ivan Lo Bello della prima rivolta degli imprenditori siciliani contro boss e picciotti, è finito all’improvviso sotto inchiesta per concorso esterno. Tre o cinque pentiti – non c’è mai una sola verità negli intrighi di mafia – l’avrebbero tirato dentro una storiaccia di amicizie vecchie nate tra paesani in quel di Serradifalco, con l’immancabile corredo di una fotografia, scattata venti e passa anni fa in compagnia di un testimone di nozze poi rivelatosi un malacarne, e con quel codazzo di sospetti, allusioni, illazioni e circostanze tutte da verificare che i pentiti avrebbero consegnato nelle mani dei magistrati. Mentre per Helg la verità, purtroppo per lui, è a portata di mano, per il capo di Confindustria Sicilia ogni interrogativo è destinato a suscitare nuovi interrogativi. Intanto, si saprà mai la verità? Chi stabilirà se Montante, tuttora protetto da una scorta che lo Stato gli garantisce da quattordici anni, è un campione di legalità o un doppiogiochista senza scrupoli? I pentiti che lo mascariano sono mossi da un sincero spirito di giustizia o sono mandati da quegli stessi boss che Confindustria ha combattuto ed emarginato? E se Montante, ipotesi tra le ipotesi, fosse stato silurato da un’altra antimafia magari gelosa e invidiosa del fatto che lui, in virtù dei suoi rapporti con troppi prefetti e questori, fosse diventato una macchina da guerra buona per conquistare altri galloni e altre posizioni di potere? E se dopo le guerre di mafia stessimo per un paradosso assistendo a una guerra tra antimafie? Lo scontro esploso sulla gestione dei beni confiscati, patrimonio di quasi cinquanta miliardi, non potrebbe essere la spia di un conflitto ben più profondo e lacerante? Per la Commissione presieduta da Rosy Bindi l’annunciata indagine “sul movimento antimafia” non sarà comunque una passeggiata. Perché non c’è verità, in Sicilia, che non abbia la sua controverità. Il caso Montante sta lì a dimostrarlo. Se da un lato ci sono due procure che hanno ritenuto di metterlo sotto inchiesta, quantomeno per verificare le dichiarazioni dei pentiti, dall’altro lato c’è la procura nazionale antimafia che pochi giorni dopo ha ritenuto anzi opportuno inviare al Parlamento una relazione nella quale si legge che Confindustria, proprio per la sua azione di contrasto, è costantemente sotto attacco dei boss, sia a Caltanissetta che nel resto della Sicilia. Rosy Bindi, per evitare equivoci e strumentalizzazioni, ha tenuto a precisare che la Commissione si muoverà “con grande serenità e con intenti non polizieschi, ma politici”. E ha pure tenuto a sottolineare che, “per quanto ci riguarda, abbiamo ritenuto importante l’impegno di Confindustria e anche di altre associazioni nella lotta alla mafia”. Ma ormai il dado è tratto, l’indagine si dovrà fare. E sarà un’impresa difficilissima per la presidente Bindi tenere a bada i cinquanta commissari (25 senatori e 25 deputati) che fin dai prossimi giorni si troveranno di fronte a un arcipelago di sigle, a una complessità di storie e motivazioni, a diverse se non addirittura contraddittorie “visioni del fenomeno”. Fino a quando la materia d’indagine era la mafia, con il suo reliquario di nefandezze, era sin troppo facile mantenere l’unità della Commissione. Ma di fronte all’indagine sull’antimafia e sulle antimafie, ogni partito finirà per seguire la propria convenienza politica. Si parlerà di Crocetta? Quelli che lo sostengono, e sono politicamente schierati con lui, produrranno una relazione di maggioranza per assolverlo da ogni peccato, anche il più lieve; mentre gli oppositori firmeranno quella di minoranza, ovviamente per ribadire le loro critiche e le loro riserve. Lo stesso se mai si discuterà di come la legalità è stata praticata e gestita, nei rispettivi ruoli, da Ingroia o da Montante o da don Ciotti: gli uni tenderanno a glorificare, gli altri tenderanno a demonizzare. E’ la politica, bellezza. Del resto, è dal 1962 che il Parlamento sforna, ad ogni legislatura, una nuova commissione bicamerale. Sono cinquantatré anni che l’Antimafia, quella con la maiuscola e la magnificenza delle istituzioni parlamentari, vaga da un angolo all’altro dell’Italia, raccogliendo documenti e testimonianze per conoscere e approfondire, per combattere e prevenire. Sono cinquantatré anni che a San Macuto si redigono verbali e ci si accapiglia su ogni tesi, su ogni faldone, su ogni dossier. Cinquantatré anni di dibattiti, mai una verità.

Mafia Capitale, gli affari del Pupone: il fallo da dietro su Totti di Fatto e Espresso, scrive “Libero Quotidiano”. Settantacinque mila euro al mese: tanto ha pagato il Comune di Roma dal 2008 ad oggi, a una delle società di Francesco Totti che ha "messo a disposizione" del Campidoglio 35 case in periferia per l'emergenza abitativa. A rivelarlo un capitolo del nuovo libro di Lirio Abbate e Marco Lillo "I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di Mafia Capitale", appena uscito per Chiarelettere, nel quale gli autori raccontano dello spreco di denaro pubblico che c'è stato, e c'è (43 milioni l'anno), dietro i Caat, una parolina criptica che sta per Centri di assistenza abitativa temporanea, creati nel maggio 2005 dal consiglio comunale.  Precisando che "nessuno è indagato per queste storie", Abbate e Lillo raccontano di come siano stati attivati alloggi di emergenza in numerosi palazzi, quasi sempre in periferia, di proprietà dei soggetti che ne hanno richiesta dopo un apposito bando del Comune. Ebbene nell'elenco degli immobiliaristi consegnati dal pm Luca Tescaroli al Ros per le "concordate verifiche" c'è anche il residence della "Immobiliare Ten", amministrata dal settembre del 2009 da Riccardo Totti, fratello del capitano della Roma, e controllata indirettamente per l'83 per cento proprio dal fuoriclasse giallorosso, mentre il restante 17 per cento è diviso tra la mamma e il fratello stesso. La catena societaria a monte del palazzo di via Tovaglieri, zona Tor Tre Teste, scrivono Lillo e Abbate, è composta da tre società che fanno tutte riferimento al numero impresso sulla maglia del "Capitano": a valle c'è l' Immobiliare Ten, proprietaria dell immobile affittato al Comune; più su c'è invece l' Immobiliare Dieci che possiede - oltre al 100 per cento delle quote della Ten - anche altri due palazzetti (ora uniti in un unico stabile, ndr) in via Rasella, a due passi da via Veneto. Più su ancora c' è la holding di famiglia, la Numberten Srl: per l 83 per cento di Francesco Totti, per il 6,7 per cento del fratello maggiore Riccardo, amministratore di tutte e tre le società, e per il 10 per cento circa della mamma Fiorella Marrozzini. La società Immobiliare Ten del Capitano ha ottenuto dal Comune di Roma più di 5 milioni di euro in sei anni, per l' affitto di 35 appartamenti arredati in una zona dell'estrema periferia romana. Grazie al canone accordato dall'amministrazione, la società ha potuto realizzare negli anni utili interessanti: nel 2013 (ultimo bilancio depositato in Camera di commercio), 128.000 euro; nel 2012 addirittura 184.000. Il punto è che il grande affare di Francesco Totti con il Campidoglio è stato fatto grazie anche a un signore che oggi è in galera: Luca Odevaine, grande tifoso giallorosso e amico del capitano che addirittura fece pubblicare un necrologio nel 2005 in occasione della morte del padre del capo di gabinetto di Veltroni. Odevaine era infatti il presidente della commissione che doveva decidere chi inserire nella lista degli immobili a disposizione del Comune per l'emergenza abitativa. Il 27 settembre 2007, si legge nel libro "I re di Roma", l'Immobiliare Dieci Srl "spara" l'offerta: per l'affitto di via Tovaglieri chiede un canone annuale complessivo di 1 milione e 280.851 euro. In pratica Francesco Totti, o meglio, l'amministratore di allora che non era il fratello Riccardo - subentrato solo nel 2009 - ma il commercialista Adolfo Leonardi, chiede al Comune di Roma di pagare più di 3.000 euro al mese per ognuno dei 35 appartamenti del palazzo di Tor Tre Teste. Lo stesso giorno il Campidoglio fa sapere alla società che è interessato, ma a un "a un canone di locazione di 15 euro/mq per mese e 9,50 euro/mq per mese per i servizi gestionali pari a un canone annuo di 714.481 euro oltre Iva al 20 per cento (in tutto fanno 857.000 euro) di cui 437.437 euro oltre Iva al 20 per cento per le unità abitative e 277.000 e 44 oltre Iva al 20 per cento per i servizi di pulizia delle parti comuni (tre volte alla settimana), la portineria 24h, la pulizia al cambio inquilino e la manutenzione ordinaria". Il contratto, dalla cifra originaria di 857.000 euro, forse per gli aumenti automatici, sale poi a 908.000 euro l'anno. Un'enormità, fanno notare Lillo e Abbate, se si pensa che la società di Totti ha comprato l' immobile con un leasing, poco prima di affittarlo al Comune di Roma, e lo ha pagato 6 milioni di euro più Iva. In pratica, se il Campidoglio avesse acquistato a rate il palazzo invece di pagare la locazione e i servizi di portierato e pulizie alla società di Totti, avrebbe speso quasi la stessa cifra entrando, però, in possesso di un bene. Nonostante il contratto sia scaduto il 31 dicembre 2014, si legge sul Fatto Quotidiano, l'amministrazione capitolina continua a pagare anticipatamente ogni mese i 75.000 euro di affitto per le 35 unità immobiliari di questo palazzo di periferia. Case non proprio di lusso, come invece il prezzo lascerebbe presumere. La signora Elisa Ferri che abita con il marito e tre figli piccoli in un appartamento di 75 metri quadrati al primo piano denuncia agli autori del libro che ci sono "infiltrazioni in camera da letto, piove dal bagno di sopra, gli scarafaggi ci tormentano". "Quando siamo entrati qui era tutto in ordine con i mobili ancora imballati", racconta la signora. "Dopo sei anni e mezzo la situazione è ben diversa. La manutenzione è fatta male. Da un mese nella nostra camera da letto e nel bagno ci sono le infiltrazioni che vengono dall'appartamento del piano di sopra. Uno schifo! Non possiamo fare intervenire i nostri idraulici e siamo costretti ad aspettare quelli della proprietà". E ancora: "In realtà qui in via Tovaglieri non c'è nessuno della Immobiliare Ten di Francesco Totti. Siamo costretti a passare tramite il portiere che mi risulta lavori per una cooperativa (...)". "Non sappiamo nemmeno il cognome del responsabile con cui parliamo. Io - si lamenta Elisa Ferri con Lillo e Abbate - so solo che si chiama Stefano. Nonostante le promesse, però, a casa mia dopo un mese non è venuto nessuno, piove da sopra e la macchia si allarga a vista d' occhio. Anche l' ascensore è rimasto rotto per settimane questa estate senza che nessuno intervenisse nonostante la presenza di anziani. La casa è molto umida. Le pareti e i tramezzi sono troppo sottili e questo palazzo non è stato costruito per essere abitato ventiquattr' ore al giorno, ma solo per lavorarci". E come se non bastasse, "il Comune spende tanto per la bolletta elettrica. Inoltre siamo tormentati dagli scarafaggi. Io penso che Francesco Totti non immagini nemmeno in che situazione ci troviamo. Qui non lo ha mai visto nessuno. Pensi che nel palazzo si era diffusa la voce che aveva regalato tutto al Comune". In realtà non è così. La Immobiliare Ten, amministrata da Riccardo Totti, in questa storia si è comportata come una società che massimizza il profitto. Semmai è il Comune che ha fatto beneficenza al calciatore più ricco di Roma. Tra affitto e spese, gli appartamenti "ci" costano l'uno 2.161 euro di affitto al mese. Un canone degno del centro di Roma, non certo di Tor Tre Teste.

Totti e gli affari d’oro col Campidoglio: 75mila euro al mese dalle case popolari, scrivono Lirio Abbate e Marco Lillo su “Il Fatto Quotidiano”. Le società del capitano della Roma affittano immobili in periferia al Comune di Roma per l'emergenza abitativa. E il canone è extra large: 900mila euro l'anno per 35 alloggi del residence di Tor Tre Teste. A capo della commissione di gara, l'ex vice capo di gabinetto di Veltroni Odevaine, ora in carcere per Mafia Capitale. Un palazzo in locazione anche all'ex Sismi. Il 19 maggio 2014, meno di tre mesi prima di presentare la richiesta di arresto per i protagonisti di “Mafia Capitale”, i pubblici ministeri romani mettono nel mirino i Caat, una parolina criptica che sta per Centri di assistenza abitativa temporanea, uno scherzetto da quasi 43 milioni di euro di spese all’anno nel bilancio di Roma Capitale. (…) Questi centri vengono creati nel maggio del 2005 con una delibera del consiglio comunale ai tempi in cui è sindaco Walter Veltroni. Negli anni successivi vengono attivati alloggi di emergenza in numerosi palazzi, quasi sempre in periferia, di proprietà dei soggetti che ne fanno richiesta dopo un apposito bando del Comune. (…) L’amministrazione spende 42 milioni e 597.000 euro all’anno per 33 residence, a cui si sommano i centri della Eriches 29, di Salvatore Buzzi, che ospitano complessivamente 584 persone. Nell’elenco dei Caat troviamo grandi immobiliaristi (…). La procura finora non ha mosso accuse sull’emergenza abitativa. Non mancano casi di estrema “concentrazione”. Su 18 strutture a disposizione del Dipartimento Politiche sociali, ben 16 sono delle solite “coop bianche” (…). Alla fine le cooperative vicine a Comunione e liberazione racimolano grazie ai Caat del Comune più di 8 milioni di euro. Secondo il prospetto del Campidoglio, consegnato ai pm nel maggio del 2014 e poi girato al Ros dei carabinieri, Eriches 29 – quindi il versante “rosso” – costa alle casse dell’amministrazione pubblica ben 5 milioni e 179.000 euro, circa 740 euro al mese per immigrato (…). Nella lista consegnata dal pm Luca Tescaroli al Ros per le “concordate verifiche” c’è anche, all’undicesimo rigo della tabella dei Caat, il residence della Immobiliare Ten, amministrata dal settembre del 2009 da Riccardo Totti, fratello del capitano della Roma, e controllata indirettamente per l’83 per cento proprio dal fuoriclasse giallorosso, mentre il restante 17 per cento è diviso tra la mamma e il fratello stesso. La catena societaria a monte del palazzo di via Tovaglieri, zona Tor Tre Teste, è composta da tre società che fanno tutte riferimento al numero impresso sulla maglia del“Capitano”: a valle c’è l’Immobiliare Ten, proprietaria dell’immobile affittato al Comune; più su c’è invece l’Immobiliare Dieci che possiede – oltre al 100 per cento delle quote della Ten – anche altri due palazzetti (ora uniti in un unico stabile, ndr) in via Rasella, a due passi da via Veneto. Più su ancora c’è la holding di famiglia, la Numberten Srl: per l’83 per cento di Francesco Totti, per il 6,7 per cento del fratello maggiore Riccardo, amministratore di tutte e tre le società, e per il 10 per cento circa della mamma Fiorella Marrozzini. La società Immobiliare Ten del Capitano ha ottenuto dal Comune di Roma più di 5 milioni di euro in sei anni, per l’affitto di 35 appartamenti arredati in una zona dell’estrema periferia romana. Grazie al canone accordato dall’amministrazione, la società ha potuto realizzare negli anni utili interessanti: nel 2013 (ultimo bilancio depositato in Camera di commercio), 128.000 euro; nel 2012 addirittura 184.000. Il punto è che il grande affare di Francesco Totti con il Campidoglio è stato fatto, come è accaduto per il gruppo Pulcini e per Salvatore Buzzi, grazie anche a un signore che oggi è in galera: Luca Odevaine. Nessuno è indagato per queste storie, ma resta lo sperpero di denaro pubblico (…). Il 16 ottobre 2007, dopo la pubblicazione di un bando sulla Gazzetta ufficiale il 13 agosto 2007 e dopo l’arrivo delle offerte, viene nominata dal direttore del Dipartimento Politiche abitative del Comune di Roma in carica, Luisa Zambrini, una commissione di gara. (…) Il presidente della commissione è il “dottor Luca Odevaine”. Qualche giorno prima, il 27 settembre, l’Immobiliare Dieci Srl “spara” l’offerta: per l’affitto di via Tovaglieri chiede un canone annuale complessivo di 1 milione e 280.851 euro. Una cifra spropositata. In pratica Francesco Totti, o meglio, l’amministratore di allora che non era il fratello Riccardo – subentrato solo nel 2009 – ma il commercialista Adolfo Leonardi, chiede al Comune di Roma di pagare più di 3.000 euro al mese per ognuno dei 35 appartamenti del palazzo di Tor Tre Teste. Lo stesso giorno il Campidoglio dispone di sottoporre l’offerta a un “parere di congruità tecnica” e “a seguito di tali verifiche l’amministrazione di Roma ha informato l’Immobiliare Dieci Srl di essere interessata all’offerta in locazione della struttura” però “a un canone di locazione di 15 euro/mq per mese e 9,50 euro/mq per mese per i servizi gestionali pari a un canone annuo di 714.481 euro oltre Iva al 20 per cento (in tutto fanno 857.000 euro) di cui 437.437 euro oltre Iva al 20 per cento per le unità abitative e 277.000 e 44 oltre Iva al 20 per cento per i servizi di pulizia delle parti comuni (tre volte alla settimana), la portineria 24h, la pulizia al cambio inquilino e la manutenzione ordinaria”. Il contratto, dalla cifra originaria di 857.000 euro, forse per gli aumenti automatici, sale poi a 908.000 euro l’anno. Un’enormità se si pensa che la società di Totti ha comprato l’immobile con un leasing, poco prima di affittarlo al Comune di Roma, e lo ha pagato 6 milioni di euro più Iva. In pratica, se il Campidoglio avesse acquistato a rate il palazzo invece di pagare la locazione e i servizi di portierato e pulizie alla società di Totti, avrebbe speso quasi la stessa cifra entrando, però, in possesso di un bene. Il contratto è scaduto il 31 dicembre 2014 ma l’amministrazione continua a pagare anticipatamente ogni mese i 75.000 euro di affitto per le 35 unità immobiliari di questo palazzo di periferia. (…) La società, inoltre, incassa gli affitti dei negozi – per un totale di 1900 metri quadrati – che sono esclusi dal contratto con il Comune. Al piano terra, infatti, troviamo un bel bar, della catena Blue Ice, e un supermercato Conad. Nel 2007 questi affitti extra erano pari a 231.000 euro all’anno. (…) Lo stabile è il classico immobile costruito per ospitare uffici, non certo appartamenti residenziali. “Quando siamo entrati qui – racconta Elisa Ferri che abita con il marito e tre figli piccoli in un appartamento di 75 metri quadrati al primo piano – era tutto in ordine con i mobili ancora imballati. Dopo sei anni e mezzo la situazione è ben diversa. La manutenzione è fatta male. Da un mese nella nostra camera da letto e nel bagno ci sono le infiltrazioni che vengono dall’appartamento del piano di sopra. Uno schifo! Non possiamo fare intervenire i nostri idraulici e siamo costretti ad aspettare quelli della proprietà”. E ancora: “In realtà qui in via Tovaglieri non c’è nessuno della Immobiliare Ten di Francesco Totti. Siamo costretti a passare tramite il portiere che mi risulta lavori per una cooperativa (…)”. “Non sappiamo nemmeno il cognome del responsabile con cui parliamo. Io – si lamenta Elisa Ferri – so solo che si chiama Stefano. Nonostante le promesse, però, a casa mia dopo un mese non è venuto nessuno, piove da sopra e la macchia si allarga a vista d’occhio. Anche l’ascensore è rimasto rotto per settimane questa estate senza che nessuno intervenisse nonostante la presenza di anziani. La casa è molto umida. Le pareti e i tramezzi sono troppo sottili e questo palazzo non è stato costruito per essere abitato ventiquattr’ore al giorno, ma solo per lavorarci”. E come se non bastasse, “il Comune spende tanto per la bolletta elettrica. Inoltre siamo tormentati dagli scarafaggi. Io penso che Francesco Totti non immagini nemmeno in che situazione ci troviamo. Qui non lo ha mai visto nessuno. Pensi che nel palazzo si era diffusa la voce che aveva regalato tutto al Comune”. In realtà non è così. La Immobiliare Ten, amministrata da Riccardo Totti, in questa storia si è comportata come una società che massimizza il profitto. Semmai è il Comune che ha fatto beneficenza al calciatore più ricco di Roma. Tra affitto e spese, gli appartamenti “ci” costano l’uno 2.161 euro di affitto al mese. Un canone degno del centro di Roma, non certo di Tor Tre Teste. Un bell’autogol per tutti. A questo punto è interessante capire la storia del palazzo di via Tovaglieri. Inizialmente il proprietario, come accaduto per altri residence poi affittati come Caat al Comune, è la società Fimit Sgr, un grande fondo immobiliare italiano nato nel 1998 per iniziativa di Inpdap e Mediocredito Centrale. Fino a maggio del 2007, alla guida c’è Massimo Caputi, un manager molto importante che ha guidato colossi come Invitalia e Grandi Stazioni (…). Il 30 maggio 2007 l’Immobiliare Dieci Srl stipula un preliminare con Fimit per comprare il palazzo di via Tovaglieri e due stabili in via Rasella. La società del Capitano si impegna ad acquistare il “pacchetto” a 16 milioni e 950.000 euro. Il prezzo è buono per gli acquirenti e permette al fondo di fare una plusvalenza di 3,3 milioni. Il vero affare per i Totti sono i due palazzetti accanto a via Veneto, mentre quello di Tor Tre Teste viene infilato giusto per venderlo. In via Rasella, infatti, il Capitano compra immobili quasi totalmente liberi da inquilini, con una superficie netta da affittare pari a 1.860 metri quadrati al prezzo di 10 milioni e 950.000 euro, tutt’altro che elevato per quella zon (…) Ben diversa, almeno sulla carta, la situazione di via Tovaglieri. (…) Nel maggio del 2007, quando la società di Totti firma il contratto preliminare di acquisto al prezzo di 6 milioni con Fimit, è un mezzo bidone: difficile da affittare e con un valore in calo. Tra il preliminare e il definitivo però le cose cambiano. (…) Il 16 ottobre viene nominata la commissione che deve valutare le offerte, presieduta da Luca Odevaine, e venti giorni dopo, il 7 novembre, la società di Totti stipula il contratto definitivo di acquisto con Fimit per il palazzo di via Tovaglieri. Sembra un azzardo ma il 16 dicembre 2008, il Comune e l’Immobiliare Ten firmano il contratto di locazione. (…) Via Tovaglieri, grazie al contratto per sei anni rinnovabile tacitamente, è una gallina dalle uova d’oro (…). I due palazzi di via Rasella sono stati invece uniti e ristrutturati. Oggi ci sono gli uffici amministrativi dei servizi segreti italiani. L’Immobiliare Dieci detiene in leasing lo stabile e ottiene, nel 2013, ricavi per 1 milione e 70.000 euro. Probabilmente pagati tutti dall’Aise (Agenzia informazione e sicurezza esterna). Sul palazzo c’è anche la targa della presidenza del Consiglio. L’Immobiliare Dieci sostiene per via Rasella una rata del leasing pari a 545.000 euro ai quali bisogna assommare altri costi e ammortamenti. Alla fine, il netto utile è di 182.000 euro nel 2013.  (…) Francesco Totti, pur essendo il maggiore azionista delle due società immobiliari e quindi “il beneficiario” economico principale, non è amministratore delle due società e potrebbe non essere a conoscenza della genesi e dell’evoluzione dei rapporti con il Comune di Roma e con la presidenza del Consiglio per la locazione dei palazzi di via Tovaglieri e di via Rasella. In Comune raccontano che Francesco Totti, ai tempi di Veltroni sindaco, aveva un buon rapporto personale con Luca Odevaine. L’allora braccio operativo del primo cittadino è un romanista sfegatato. Il Capitano lo conosceva bene e andava anche a trovarlo talvolta nel suo ufficio in Campidoglio. A testimonianza di un rapporto profondo tra i due, c’è un necrologio pubblicato in occasione della morte del padre di Luca, Remo Odevaine (…): “Sinceramente addolorati per la triste circostanza porgiamo le nostre condoglianze. Vito Scala e Famiglia, Francesco Totti e Ilary Blasi”. Il necrologio è datato 15 novembre 2005, quindi precedente alla decisione, da parte della commissione presieduta da Luca Odevaine, di affittare per sei anni a un canone complessivo che supera i 5 milioni di euro il palazzo di proprietà della società dell’amico Francesco. Nonostante ciò, Odevaine non riterrà più opportuno astenersi da quel ruolo che spetterebbe a persone “terze” e in Comune nessuno dirà nulla. Il rapporto tra i due non si è mai interrotto, come il contratto di affitto. Una traccia di questa stima reciproca si trova anche sui quotidiani del 24 gennaio 2013. Quel giorno Odevaine, sotto la bandiera di Fondazione Integra/Azione e in collaborazione con Legambiente e cooperativa Abitus, organizza una partita contro il razzismo (…). “L’iniziativa – scrive Repubblica – è stata apprezzata dal capitano dell’A. S. Roma, Francesco Totti” (…). Un’altra “battaglia giusta” potrebbe essere anche quella contro gli sprechi, che dovrebbe imporre a Totti – certamente all’oscuro dei malaffari di «mafia Capitale» – di migliorare la condizione degli inquilini del palazzo di via Tovaglieri e al Comune di chiudere al più presto il contratto con la società Immobiliare Ten e trovare una sistemazione più degna per 35 famiglie.

Mafia capitale, De Rossi e altri vip al telefono col boss: le intercettazioni. C'è anche il nome del calciatore giallorosso nelle carte dell'inchiesta sull'organizzazione criminale della capitale. La telefonata a Giovanni De Carlo arriva dopo un diverbio in un locale: "Famme sentì Giovanni...". Il boss ha incontrato anche Sculli e le compagne di Destro e Dzemaili , scrive “La Gazzetta dello Sport”. Calciatori, cantanti, uomini e donne dello spettacolo: Giovanni De Carlo, personaggio di rilievo dell'inchiesta Mafia Capitale consegnatosi ieri ai carabinieri del ros, aveva contatti con tutti: "Era un uomo che amava la bella vita, conosceva i migliori locali della movida romana ed era in frequente contatto con personaggi del mondo dello spettacolo e dello sport", si legge nelle carte dell'inchiesta. Tra gli sportivi sono coinvolti Daniele De Rossi e Giuseppe Sculli. de rossi — Nelle carte dell'inchiesta Mafia Capitale c'è un'informativa del Ros che intercetta telefonate tra Daniele De Rossi e Giovanni De Carlo. Il calciatore chiama la notte del 30 settembre 2013 dopo una lite in un locale. "Avevo pensato che quello aveva chiamato qualche coattone... ho detto famme sentì Giovanni", dice De Rossi. Nell'informativa si dà conto anche dell'intercettazione fatta alle ore 2.56 del 30 settembre 2013. De Carlo, "rispondendo a due tentativi di chiamata fatti poco prima dello sportivo", chiamava De Rossi "chiedendogli di cosa avesse bisogno". De Rossi riferisce di averlo contattato perché "assieme al compagno di squadra Mehdi Benatia, aveva avuto poco prima una discussione in un locale e temendo conseguenze aveva pensato a De Carlo". L'informativa sottolinea che De Carlo, "dando prova di grande confidenza, gli confermava di poter contare sempre sul suo aiuto: 'Chiamame sempre... bravo! Hai fatto bene Danié, amico mio...' ". A prendere le difese di De Rossi è Mauro Baldissoni, d.g. della Roma: "Non montiamo casi. L'indagine in sé è molto seria, bisogna fare attenzione - ha detto alla radio ufficiale del club -. Mi auguro non si strumentalizzi la posizione di nessuno. Non ci sono rilievi penali. Alcuni giocatori stavano festeggiando una vittoria in un locale, a quanto pare un tifoso per eccesso d'entusiasmo era diventato un po' molesto e aveva aspettato Benatia, all'uscita, con atteggiamento minaccioso. De Carlo era all'interno del locale, solo per questo che De Rossi l'ha chiamato. Lo spiegherà Daniele stesso già da domani. In questi giorni è un po' sfortunato. Quando cerca di aiutare i compagni, rischia poi di trovarsi coinvolto in situazioni spiacevoli". Gli investigatori del Ros nella loro informativa riportano anche di un incontro tra Giovanni De Carlo e l'ex calciatore della Lazio Giuseppe Sculli, poi coinvolto nell'inchiesta sul calcioscommesse della procura di Cremona e nipote del superboss della 'ndrangheta Giuseppe Morabito, detto U tiradritt´. Le intercettazioni del Ros hanno appurato anche "numerosi contatti» di De Carlo con le compagne dei calciatori Mattia Destro della Roma e Blerim Dzemaili all'epoca in forza al Napoli e con la coppia Stefano De Martino e Belen Rodriguez. Sempre a De Carlo si era rivolto il cantante napoletano Gigi D'Alessio dopo che i ladri avevano rubato dalla sua casa dell'Olgiata una collezione di Rolex del valore di quasi 4 milioni di euro. In quell'occasione De Carlo si presentò a casa del cantante dove rimase per trenta minuti. E lo stesso fece il conduttore Teo Mammuccari chiedendo "sostanze dopanti per la palestra in particolare GH, ormone per la crescita". "Sono chiacchierone, ma non spiattello i cavoli tuoi in giro...non dico che vuoi diventare Hulk", la risposta a Mammuccari.

Roma, la Città dello sport di Calatrava già costata 200 milioni e che forse non sarà mai terminata. Per completare l’opera avveniristica, che si trova a Tor Vergata, servirebbero altri 426 milioni. Sei volte la stima fatta quando venne ideata, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Chi crede che la Città dello sport di Tor Vergata, nella landa desolata della periferia a Sud Est di Roma, sia un’opera incompiuta fra le tante, sbaglia di grosso. Perché è assolutamente unica. Non per le sue dimensioni: la copertura reticolare a forma di vela che l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti avrà potuto ammirare chissà quante volte dallo spazio è alta 75 metri e per tirarla su c’è voluto tanto ferro quanto nella Tour Eiffel. Per questo gigantesco monumento allo spreco i contribuenti hanno speso finora 201 milioni, Iva esclusa. E per completarla ne servirebbero altri 426. Per un costo totale pari a sei volte la stima fatta quando l’idea, una decina d’anni fa, venne partorita. Numeri che portano realisticamente a escludere che il progetto concepito dall’architetto spagnolo Santiago Calatrava possa mai vedere la luce, almeno in quella forma. L’unicità di una questa incompiuta, la cui costruzione è paradossalmente cominciata quando già erano stati versati fiumi d’inchiostro sullo scandalo delle opere pubbliche non finite, consiste nel fatto che non si sa nemmeno chi ne sia il padrone. Il terreno sul quale sono stati costruiti gli scheletri delle gradinate degli stadi del nuoto e del basket sono di proprietà dell’Università statale Tor Vergata. Ma ciò non significa che tutto quel meraviglioso cemento e la vela che sormonta le tribune del nuoto (il progetto di Calatrava ne prevede una seconda identica sopra quelle del basket) siano di proprietà dell’Ateneo. I soldi sono statali, certo. Dunque quel mostro è certamente dello Stato. Ma di quale pezzo, nessuno lo sa. E forse non era chiaro nemmeno all’inizio. Già, l’inizio. Vale la pena di ricordare com’è andata. Quando nasce l’idea di realizzare alcuni impianti sportivi sui terreni dell’università di Tor Vergata (600 ettari!) il sindaco di Roma è ancora Walter Veltroni. Si tratta di un’area immensa accerchiata da un’edilizia disordinata e orribile, e priva di collegamenti: anche se a pochissima distanza passano le linee A e C della metropolitana. Per il progetto iniziale viene prevista una spesa di 60 milioni, che subito però raddoppiano. Anche perché nel frattempo Roma si è vista assegnare i mondiali di nuoto del 2009. E siccome salta fuori l’idea di farli nel nuovissimo impianto che si sta costruendo, le operazioni passano nelle mani della Protezione civile di Guido Bertolaso. I mondiali di nuoto non sono forse un Grande evento, e dal 2001 i Grandi eventi non sono sempre stati gestiti da palazzo Chigi con un commissario ad hoc? Ecco allora spuntare anche qui Angelo Balducci, l’ex provveditore delle opere pubbliche protagonista delle inchieste sulla Cricca. Ma sarebbe ancora niente, se l’opera avveniristica progettata da Santiago Calatrava e la cui realizzazione è affidata al gruppo Caltagirone, venisse conclusa per tempo. Peccato però che già quando si comincia a lavorare allo stadio del nuoto è chiaro che difficilmente sarà pronto per i mondiali. E allora? Succede tutto quello che non dovrebbe succedere. A palazzo Chigi c’è Silvio Berlusconi e al Comune di Roma s’è insediato Gianni Alemanno. La figuraccia internazionale incombe: ma anziché cercare di evitarla si pensa di risolvere la faccenda spostando le gare nel vecchio impianto del Foro Italico. Quanto alla città dello sport, tornerà buona per le prossime olimpiadi. Per i giochi olimpici, però, non bastano le piscine. Ci vuole anche uno stadio da 15 mila posti per il basket, la pallavolo, il tennis e gli sport al coperto. Che prontamente viene messo in cantiere. Ci sono soltanto un paio di problemini. Il primo è che ci sono soldi soltanto per uno stadio, quello del nuoto: per due impianti non bastano di certo, ma di questo nessuno si cura. Il secondo è che le Olimpiadi a Roma sono ancora nel mondo dei sogni: e quando arriva il governo di Mario Monti anche il sogno svanisce. Un suicidio in piena regola. Non fosse bastato, nel disperato tentativo di dare un senso a quella storia c’era chi aveva pensato di coinvolgere alcuni privati non meglio identificati. Ma l’idea di una trasformazione “commerciale” è per fortuna abortita subito, tanto era balzana. Andateci adesso, alla città dello sport. Vedrete fino a che punto possa arrivare il dilettantismo e l’irresponsabilità di certi politici. E come si possano buttare allegramente dalla finestra duecento milioni dei cittadini. Ora si sta cercando di salvare il salvabile, ma non è certo facile. Un anno fa, durante una riunione di commissione al Comune di Roma, il nuovo rettore Giuseppe Novelli ha fatto intravedere la possibilità di adattare il progetto con “ampliamento della destinazione alla Scienza”, naturalmente “salvo il benestare dell’architetto Calatrava”. Mentre la delegata per l’Ambiente dell’Ateneo, Antonella Canini, si è spinta a ipotizzare, è riportato nel verbale della commissione la realizzazione di “una serra che diventerebbe la più grande d’Europa e potrebbe ospitare piante, farfalle e altri percorsi dell’evoluzione, spaziando come tematiche dall’informatica alla natura. Potrebbe divenire, con il benestare dell’architetto Calatrava, un enorme polo di interesse turistico”. Nascerà allora una facoltà universitaria nello stadio delle piscine? O quella gigantesca serra? Comprensibile che almeno la vittima di questa assurdità, l’Università di Tor Vergata, si faccia venire qualche idea. Ammesso però che qualcuna di queste ipotesi abbia un senso, ed è tutto da dimostrare, servirebbe sempre una somma compresa fra i 60 e i 150 milioni. Si potrebbero ricavare dai fondi europei, pensa Novelli. Ma per il momento non ci sono, anche se sono molti meno dei 426 necessari al completamento della città dello sport. Una cifra che da sola rappresenta il 24,3 per cento dei soldi (un miliardo 751 milioni) che servirebbero per finire le 683 opere pubbliche incompiute censite dal ministero delle Infrastrutture e dall’Ance: 83 delle quali nel Lazio, la regione in assoluto più funestata dal fenomeno.E non possiamo nemmeno immaginare dove il premer Matteo Renzi troverà tutti quei soldi se davvero, come ha detto, pensa di utilizzare gli impianti per le Olimpiadi del 2024: ma questo ci sembra un film purtroppo già visto. Ogni giorno che passa, nel frattempo, corrono il degrado e i costi che si devono sopportare per questo stato di cose, dalla vigilanza alle manutenzioni. Ed è davvero inaccettabile che nessuno dei responsabili di questa follia ai danni dei contribuenti finora abbia pagato.

Città dello Sport, cronaca degli sperperi. Dieci anni di lavori stop and go, già spesi almeno 240 milioni, ma ne mancano 400 per terminare le opere, scrive Paolo Foschi Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”.

2005: Veltroni annuncia il progetto da 60 milioni. Il progetto della Città dello Sport di Tor Vergata viene annunciato l’8 febbraio del 2005 dalla giunta guidata da Walter Veltroni con una conferenza stampa in Campidoglio. Secondo il piano originario, il costo stimato dell’opera è di 60 milioni di euro a carico del Comune grazie ai fondi di Roma Capitale. La consegna del cantiere ultimata è prevista per la primavera del 2008, un anno e mezzo prima dei Mondiali di Nuoto di Roma del 2009.

2006: affidati i lavori, i costi subito raddoppiano. Il 9 maggio del 2006 in Campidoglio l’architetto Santiago Calatrava illustra il plastico del progetto della Citta dello Sport. E il costo stimato è più che raddoppiato rispetto alle prime stime: si parla infatti di 120 milioni di euro. I lavori sono affidati alla Vianini (gruppo Caltagirone), mentre la gestione dei fondi è affidata alla Protezione civile, all’epoca guidata da Guido Bertolaso, che chiama Angelo Balducci (che sarà poi travolto dagli scandali giudiziari legati agli appalti del G8 alla Maddalena), che a sua volta sarà sostituito da Claudio Rinaldi.

2007: Veltroni promette la fine dei lavori in 24 mesi. Il 21 marzo 2007, con i lavori già avviati da qualche mese per la preparazione dell’area, si svolge la cerimonia di posa della prima pietra della Città dello Sport, alla presenza del sindaco Walter Veltroni, del presidente Coni Gianni Petrucci e del progettista Santiago Calatrava. Il sindaco garantisce che entro 24 mesi i lavori saranno terminati.

2008: i costi lievitano ancora, 240 milioni di euro. Il 2008 è l’anno più tormentato per la storia della Città dello Sport di Calatrava. Il preventivo dei costi balza a 120 milioni, le spese lievitano e i tempi sembrano allungarsi, mentre i Mondiali di Nuoto si avvicinano. Gianni Alemanno, da poco eletto sindaco, a ottobre visita il cantiere, si dice ottimista. A dicembre però dopo una frenetica consultazione con direzione lavori, comitato organizzatore dei Mondiali di Nuoto e vari enti interessati, viene issata la bandiera bianca: la rassegna iridata non potrà svolgersi a Tor Vergata.

2009: fine dei soldi, bloccati i lavori. Sfumati i Mondiali di Nuoto, i lavori vengono bloccati dopo che sono stati spesi quasi 250 milioni di euro. Scoppiano polemiche e si assiste al solito rimpallo di responsabilità, mentre Calatrava continua a difendere la validità del progetto.

2011: i lavori ripartono ma senza date di consegna. Nel 2011, con la candidatura (poi sfumata) di Roma per le Olimpiadi del 2020, viene riaperto il cantiere, ma non viene fissata una data certa per la consegna, anche perché intanto la stima complessiva delle spese per il completamento dell’opera arriva a 660 milioni di euro, cioè esattamente 11 volte il prezzo iniziale annunciato nel 2005.

2012: Alemanno annuncia l’arrivo di fondi privati. Il cantiere ufficialmente è di nuovo aperto, ma i lavori procedono al rallentatore. A novembre però il sindaco Alemanno annuncia che le opere saranno completate con fondi privati. A oggi, promessa non ancora mantenuta.

2014: ipotesi orto botanico al posto di una delle «vele». A gennaio l’università di Tor Vergata propone di cambiare la destinazione d’uso della «vela» incompleta: è cioè coprirla (costo stimato 60 milioni) e realizzare un orto botanico al posto dello stadio del nuoto, lasciando aperta comunque la possibilità di utilizzare lo spazio anche per eventi sportivi e eventi vari.

2014: il Codacons propone la demolizione della grande incompiuta. Nell’ottobre del 2014 il Codacons, associazione di consumatori, con una proposta dal sapore anche provocatorio propone la demolizione delle opere incompiute della Città dello Sport di Tor Vergata, perché la struttura lasciata a metà «danneggia il paesaggio e la collettività».

2015: le ipotesi in ballo per completare l’opera. Il 13 gennaio, nel corso del convegno a Roma intitolato «Opere incompiute, quale futuro?», tenuto proprio a Tor Vergata, si è parlato proprio del caso della Città dello Sport. «Sono convinto - ha detto l’architetto Calatrava - che le Vele saranno terminate, non mi è mai capitato in 30 anni di professione che una mia opera iniziata non sia mai stata conclusa. L’avanzamento dei lavori è attualmente al 70-75%». Mancano circa 400 milioni. Il Campidoglio non ha la possibilità di finanziare il completamento delle opere. L’università di Tor Vergata, proprietaria dei terreni, propone di utilizzare fondi europei, il rettore, Giuseppe Novelli, è perentorio: «La Città dello Sport va completata».

Ritratto della Roma mafiosa che fingiamo di non vedere. Il libro di Lirio Abbate e Marco Lillo è una spietata fotografia della Capitale e insieme un resoconto da brivido sulle complicità criminali nella città, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Questo libro è dedicato a chi ha fatto finta di niente e ha preferito voltarsi dall'altra parte. Leggetelo, almeno sfogliate qualche pagina, cercate un nome, controllate se  - per caso -  sotto casa vostra o dentro al ristorante dove di solito andate a mangiare con i vostri amici c'è puzza. Puzza di mafia. Potete mostrare meraviglia, restare a bocca aperta, balbettare qualche scusa, ma d'ora in poi nessuno vi crederà più. Nella migliore delle ipotesi qualcuno vi dirà che siete dei fessi, che avete frequentazioni poco raccomandabili, che pur mostrandovi sempre e ovunque molto politicamente corretti siete stati trascinati in una zona di confine molto scivolosa, "terra di mezzo" la chiama un fascio-boss che tutti conoscono come "Er Cecato". Non ve n'eravate accorti? La mafia c'è davvero anche a Roma? Il libro di Lirio Abbate e Marco Lillo, reporter allenati a inseguire indizi e a metterli sapientemente uno dietro l'altro, è una spietata fotografia della capitale e insieme un resoconto da brivido sulle complicità   -  politica di destra e di sinistra, soubrette, calciatori famosi, attori, cantanti, ultras, "padroni" di cooperative rosse e rispettabilissimi professionisti al di sotto di ogni sospetto  -  con un sistema criminale che per troppo tempo è stato protetto dal silenzio. Prima di anticipare cosa concedono i capitoli, riportiamo subito uno dei tanti dettagli inediti contenuti in quest'indagine giornalistica, che comprende sì una ricostruzione giudiziaria, ma che ha la sua origine sul campo, dal mestiere di chi racconta la realtà che ha intorno. Il dettaglio da segnalare riguarda un'elargizione di 5 milioni di euro spalmata in sei anni in favore dell'Immobiliare Ten, amministrata dal 2009 da Riccardo Totti, fratello di Francesco, il capitano della Roma che di quell'immobiliare controlla l'83 per cento. Nulla di illecito, niente di penalmente rilevante  -  e infatti i personaggi di questa vicenda affiorano appena fra le pieghe dell'inchiesta  -  ma molto significativa per capire Roma e i suoi gironi con protagonisti e comparse tutti allacciati fra loro in affettuosa confidenza. È l'affare dei Caat (Centri di assistenza abitativa temporanea), 43 milioni all'anno da spendere e quel Luca Odevaine che è stato vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni prima e a capo della polizia municipale con Zingaretti poi, che "segue" la pratica per l'affitto di 35 appartamenti arredati a Tor Tre Teste intestati all'Immobiliare Ten. Quasi tremila euro al mese per ogni appartamento nell'estrema periferia romana, "una beneficenza al calciatore più ricco di Roma". Il libro di Abbate e di Lillo sulla mafia che sporca la capitale d'Italia, oltre alla mole di informazioni che ci offre e alla chiarezza dell'esposizione, ha un pregio particolare: parla di un crimine "attuale". È cronaca in diretta, accade tutto sotto il nostro naso. Merito anche dei magistrati che quest'inchiesta hanno sviluppato (da Pignatone a Prestipino, da Ielo a Tescaroli a Cascini) insieme ai carabinieri del Ros, un'inchiesta che può considerarsi a pieno titolo "apripista". Questo libro, ecco il valore, guarda dentro un "laboratorio" criminale. Si comincia dal racconto di come è nata una copertina dell'Espresso e si arriva "al Comune agli ordini di Massimo Carminati", si passa dall'esercito degli "impresentabili" dell'ex sindaco Alemanno e dalla "santa alleanza" fra i rossi e i neri. All'ultima pagina manca il respiro. Però, d'ora in poi, sarà più difficile dire: io non ne sapevo nulla.

Mafia: neri, rossi e boss. Chi comanda a Roma. La ragnatela criminale di Carminati aveva unito politici di destra e sinistra. Il volto nuovo del potere criminale in un saggio-inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo che svela intrecci con vip, calciatori, professionisti e imprenditori, scrivono Lirio Abbate e Marco Lillo su “L’Espresso”. È l'inchiesta più clamorosa dell'ultima stagione, l'incredibile ragnatela di potere creata intorno al Campidoglio da Massimo Carminati. Adesso quella rete di malaffare viete setacciata da un saggio scritto da Lirio Abbate de "l'Espresso" e da Marco Lillo de "il Fatto". "I Re di Roma" (Chiarelettere, 256 pagine): prende il titolo dall'inchiesta giornalistica del nostro settimanale che nel 2012 svelò la spartizione criminale della metropoli capitolina, prima ancora che le indagini ne ricostruissero l'organizzazione. Ecco in anteprima il capitolo finale, sulla matrice politica di questo scandalo: a comandare era il terrorista mai pentito che dava ordini a uomini di destra e sinistra. In libreria per Chiarelettere il nuovo libro inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo: ''I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale''. Una storia incredibile, che è poi diventata l'inchiesta di Pignatone e che propone al lettore una mappa inquietante e dettagliata di ''un sistema criminale senza precedenti, che ha dominato Roma con la complicità di politica e istituzioni. Un sistema che pesa sui cittadini con disservizi visibili ogni giorno''. E dunque "Mafia Capitale" è di destra o è di sinistra? Massimo Carminati è il capo dell’organizzazione ed è un ex Nar, non certo un ex Br. Poche storie: «mafia Capitale» è di destra. Gaber risponderebbe: eh no, sembra facile. Il Nero è socio dipendente di una coop rossa, la 29 giugno, dunque lo vedi che «mafia Capitale» è di sinistra? L’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è indagato per associazione mafiosa con Buzzi e Carminati, dunque «mafia Capitale» torna a destra. Sì, ma Giuliano Poletti, da capo della Legacoop, andava a cena con uno dei capi di «mafia Capitale», Salvatore Buzzi, e dunque è di sinistra. Sì, ma a quella cena c’era pure il manager dell’Ama legato ad Alemanno, Franco Panzironi, dunque è di destra. E Ignazio Marino si faceva finanziare la campagna elettorale dalla coop rossa 29 giugno, quella che poi lucrava sugli immigrati, lo vedi che è di sinistra? Peccato che la coop 29 giugno finanziava la fondazione di Gianni Alemanno, mica quella di Renzi, quindi è di destra. Dimentichi che il Rosso finanziava anche le cene elettorali dell’attuale premier, quindi è di sinistra. Sì ma Buzzi faceva il tifo per il centrodestra alle elezioni comunali del 2013 e poi, per cambiare il bilancio del Comune a favore della sua cooperativa, sono intervenuti Massimo Carminati e il segretario del sindaco Alemanno, mica Che Guevara. Quindi è di destra. Il bilancio del Comune con le correzioni a favore della coop amica di Carminati, però, poi lo approvavano anche i consiglieri del Pd, quindi «mafia Capitale» è di sinistra. Alla fine forse è più corretto prendere atto che «mafia Capitale» è sia di destra che di sinistra, ma tradisce insieme i valori della destra e quelli della sinistra. Chi fa saltare le regole della concorrenza e del libero mercato, chi usufruisce di sconti e condoni per continuare a violare la legge, come hanno fatto Buzzi e Carminati, è la negazione dei valori della destra economica e sociale. All’opposto, chi usa persino il disagio degli immigrati, dei nomadi e dei senzatetto per gonfiare il proprio portafoglio compie il peggiore tradimento possibile ai valori della sinistra. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Se «mafia Capitale» fosse solo di destra o solo di sinistra, sarebbe più facile da combattere. Invece, gli affari rossi e quelli neri si mescolano e diventano verdi: il colore dei soldi. Carminati è socio della coop di Buzzi che con una mano scrive discorsi di ringraziamento al ministro Poletti e al premier Renzi e con l’altra sostiene e finanzia le elezioni di Gianni Alemanno. L’ex collaboratore di Veltroni, Luca Odevaine, è lo sponsor delle cooperative care al Vaticano e a Giulio Andreotti. Dov’è la destra e dov’è la sinistra? Sono in parlamento e governano insieme da molti anni, prima con Mario Monti, poi con Enrico Letta e ora con Matteo Renzi. Non è un caso se l’opposizione si è rivelata inefficace sia nell’era Veltroni che nell’era Alemanno. Solo il lavoro del Ros dei carabinieri e dei magistrati della Procura di Roma ha scoperchiato il verminaio che oggi, a prescindere dalle possibili condanne, è già sotto gli occhi di tutti. In tutte le indagini maggiori del 2014, dall’Expo al Mose fino a «mafia Capitale», sono emerse tre costanti: la presenza di finanziamenti non trasparenti alle fondazioni dei politici di destra e di sinistra; la nomina di manager incapaci e asserviti al potere politico a capo delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi pubblici che gestiscono le grandi opere; l’alleanza tra coop rosse e coop bianche per entrare negli appalti maggiori. Se il governo Renzi avesse voluto, avrebbe potuto approvare un decreto per intervenire su questi problemi composto di tre articoli: tutti i finanziamenti a una fondazione nella quale figuri un politico in qualsiasi veste, non solo quelli ai partiti, devono essere resi pubblici su internet; i manager delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi che devono gestire soldi pubblici sono scelti con concorso nazionale per titoli, primo dei quali la fedina penale intonsa; le cooperative che sono sorprese a truccare le gare o a corrompere pubblici ufficiali perdono ogni beneficio di legge dal punto di vista fiscale. In pochi giorni l’ampia maggioranza destra-sinistra che ha dominato la scena della politica italiana negli ultimi anni avrebbe potuto risolvere i tre problemi posti dall’indagine su «mafia Capitale». Non ci sarebbero stati più i finanziamenti «segreti» della coop rossa a Gianni Alemanno né le nomine di soggetti condannati per ricettazione come Riccardo Mancini a capo dell’Eur Spa. Le cooperative rosse sarebbero state più accorte ad assumere un tipo come Massimo Carminati. Invece il governo Renzi ha preferito proporre l’ennesimo pacchetto di grida manzoniane che aumentano le pene minime senza sfiorare i veri nodi delle fondazioni, delle municipalizzate e del sistema cooperativo. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? All’indomani della scoperta di «mafia Capitale», l’animo dei politici è confuso, molto confuso. E non solo a livello locale. Il presidente del Consiglio Renzi difende il suo ministro Poletti, fotografato quando era responsabile delle coop, insieme a Buzzi, e dice: «È un galantuomo». E annuncia il commissariamento del Pd romano con Matteo Orfini. Il premier è «sconvolto, perché vedere una persona seria come il procuratore di Roma parlare di mafia mi colpisce molto. Vale per tutti il principio di presunzione di innocenza e il governo ha scelto Raffaele Cantone per l’anticorruzione. Certe vicende fanno rabbia, serve una riflessione profonda». E ancora: «Certo, l’epicentro è l’amministrazione di Alemanno, ma alcuni nel Pd romano non possono tirare un sospiro di sollievo». E così il presidente di Dem annuncia che il partito a Roma è «da rifondare e ricostruire su basi nuove». Ci sono un assessore e il presidente del consiglio comunale indagati e dimissionari e altri esponenti sotto inchiesta. E il sindaco Ignazio Marino parla di «pressioni» sulla sua amministrazione e assicura che «ha sbarrato le porte a chiunque volesse influenzarla in qualsiasi modo». E dell’ormai ex assessore alla Casa, Daniele Ozzimo, indagato e dimessosi, che nel rimpasto di giunta era in predicato per assumere le deleghe al sociale, dice: «L’ho conosciuto per la sua forza nell’imporre la legalità». Il ciclone giudiziario soffia anche su quello che è stato il partito di Silvio Berlusconi a Roma, il Pdl. A cominciare da Gianni Alemanno, ex sindaco, indagato per associazione mafiosa, che appena ricevuto l’avviso di garanzia si autosospende dagli incarichi in Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale e afferma su “Libero” e “la Repubblica”: «Un anno e mezzo fa, dopo il primo articolo de “l’Espresso” sui “quattro re di Roma”, tra cui Carminati, che io non ho mai conosciuto, anzi pensavo fosse morto oppure in pensione, sono cominciate le allusioni. Allora chiesi ai miei collaboratori: ma voi avete contatti, ci parlate? Fu un coro di no». La scena che descrive l’ex sindaco potrebbe essere quella di una commedia. Ma la storia è seria per poterci ridere sopra. E Alemanno ribadisce la propria innocenza: «Due cose non rifarei. La prima: trascurare la composizione della squadra. Ho sbagliato i collaboratori. Ma è capitato pure a Veltroni con Odevaine, che era il suo vicecapo di gabinetto e che io ho allontanato appena arrivato in Campidoglio. La seconda: non aver agito in totale discontinuità con il passato». «Salvatore Buzzi – aggiunge Alemanno – il patron della cooperativa 29 giugno, io l’ho trovato ed è cresciuto sotto le amministrazioni di sinistra. Non volevo fare la figura del sindaco di destra che caccia tutti quelli di sinistra». Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Fra intercettazioni e sviluppi investigativi, nell’inchiesta finiscono nomi di politici, non solo quelli indagati ma anche altri che, pur non essendo stati colpiti da provvedimenti giudiziari, vengono trascinati in questa storia dai protagonisti dell’indagine. Nelle lunghe conversazioni spunta anche il nome di un altro politico di destra, l’ex ministro Ignazio La Russa. Di lui parlano Pozzessere e Carminati: «Ignazio doveva mette’ a pareggia’ all’interno... i conti di Ligresti... Ignazio faceva... fa il capo bene lui... me lo ricordo, da ragazzini era così, eh, io quando andavo a Milano... la federazione del Mis erano solo loro, lui, Romano, er padre... vanno ai congressi e gli rompono sempre il cazzo al padre, gli dicono che era mafioso perché era amico di Ligresti ... è Ligresti che viene da me, no io che vado da lui». E c’è anche Gianni Letta, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Buzzi punta alla gestione del Cara di Castelnuovo e ottiene un incontro con Letta per tentare di sensibilizzare il prefetto di Roma. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?

E poi c'è Pompei. La maledizione di Pompei: sequestrati 6 milioni all'ex commissario. Da Legambiente alla corte di Berlusconi: la parabola del manager sedotto dal potere, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”. Quella di Marcello Fiori è la paradigmatica storia italiana del promettente manager di Stato corrotto dalla politica, un destino di mala pianta pubblica maledettamente simile a Luca Odevaine, quello che "ancora adesso non riesco a crederci" disse Veltroni. Fiori e Odevaine hanno infatti la stessa bella origine da Legambiente. E fu capo di gabinetto di Veltroni l'Odevaine; e capo di gabinetto di Rutelli il Marcello Fiori. L'uno è finito in mafia capitale. L'altro è un rovinatore di rovine, con un solo grande rimpianto, a Pompei avrebbe voluto spendere di più: "È uno scandalo che l'insieme dei siti archeologi italiani incassi appena il dieci per cento di quanto da solo incassa da solo il Louvre". Mannaggia! Di sé dice, ed è vero: "Sono figlio di un muratore e di una mondina". Ma è invece raccontato come la macchietta degli sprechi questo fondatore dei crepuscolari club "Forza Silvio". Infatti la Finanza gli vorrebbe sequestrare la casa (intestata al figlio), oltre ai conti correnti e la macchina perché secondo la Corte dei conti deve risarcire almeno 6 milioni di euro alla martoriata Pompei. Ma Fiori, per la verità, fa una vita modesta, non gli si conoscono lussi privati, né aragoste né club massaggi, ha sposato una segretaria e ha un figlio di 17 anni. E del suo maestro Bertolaso ha preso l'idea che solo i proconsoli risolvono le emergenze nazionali e che i codici vanno azzerati perché "in Italia a volte ci vuole un'intelligenza militare" ripete. Ma di Bertolaso non ha la comicità di tutti quei giubbotti, scarponcini, cappellini da baseball, caschetti di plastica dura, insomma la muta dell'operaio di Junger, la divisa del milite della fatica. E dunque Fiori ha sicuramente sperperato i soldi ma per cementificare il teatro di Pompei dove poi si esibì un virtuosissimo Riccardo Muti con la quinta sinfonia. E spese addirittura dieci milioni per gli impianti telefonici, centomila euro per spostare 19 pali della luce, 90mila per accogliere Berlusconi che neppure venne, centomila per cacciare 55 cani randagi "perché erano rabbiosi". E diecimila per autocelebrarsi con un libro a tiratura limitata: 50 copie. E ora "rifarei tutto" dice. La spavalderia è come si vede, quella del "pulisco Napoli in dienizzati ci giorni", del "fatemi intervenire prima che ci scappi il morto", e ancora "a Pompei sto facendo miracoli". La stessa sbruffoneria appunto di Bertolaso che è "il modello della mia vita, il più grande e straordinario manager che l'Italia abbia mai avuto nella gestione della cosa pubblica, il servitore dello stato che ha unito efficienza, velocità e umanità". E invece l'Italia ricorda Bertolaso come l'imperatore di tutti gli appalti sporchi, lo sciacallo della protezione incivile che imponeva costi maggiorati e senza controllo e si affidava a imprese che lucravano in nome della fretta e della furia. Un passo dietro lui, il mite e discreto Fiori ad ogni uscita si esibiva un po' di più sulle macerie dell'Aquila mentre organizzavano il G8. Finché come Bertolaso si mise a parlare da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso: "Non ho paura dei tribunali. Venissero loro a lavorare". Il diavolo piegava la testa e seguiva il suo comandante. Era un profilo, una sagoma, un esecutore d'ombra che diventava a poco a poco un altro uomo, un altro Bertolaso. Per 12 anni Fiori è rimasto alla Protezione civile dei Grandi Eventi e dei disastri, delle risate degli speculatori e dello strazio delle vittime, degli show sulla morte orga- per Berlusconi. Finché un giorno Giovanni Minoli a Radio 24 gli chiese: qual è il difetto di Berlusconi? "È troppo buono" rispose lasciando allibiti quelli che lo avevano conosciuto da ragazzo. Io stesso lo ricordo giovane cronista a Montecitorio, preciso e stimato collaboratore della Dire, l'agenzia fondata da Antonio Tatò, il segretario di Berlinguer. Veniva da Legambiente appunto, nemico di quelle discariche di cui sarebbe diventato il Signore. Riccioluto, occhi chiari, belloccio, il suo intercalare in escalation romanesca era ed è ancora: "ciccio, ti dico che se fa così. Fidate!" Il mondo era quello di Mattioli e Scalia, Chicco Testa, Ermete Realacci, Enzo Tiezzi, Giovanna Melandri con Odevaine al seguito, Michele Anzaldi, Renata Ingrao. Qualcuno dice che aiutò Valerio Calzolaio a scrivere la legge sull'inquinamento acustico, di sicuro Renato Strada gli passava i documenti della commissione Ambiente. Fiori si occupava di consumatori. Ed era amico di Della Seta e di Francesco Ferrante. Dunque nessuno si meravigliò quando il sindaco Rutelli gli chiese di aiutarlo nel restituire il "decoro urbano" a Roma. Tutti lo ricordano "informatissimo, sempre attivo, l'uomo dei dati, delle carte, delle leggi, della soluzione geniale ai problemi disperati". Sul decoro urbano disse subito: "C'è un rapporto tra la bruttezza e il malaffare e l'indecenza estetica è la forza d'urto di interessi organizzati ". Poi si mise al lavoro e sfornò uno studio articolato di bonifica, quartiere per quartiere, piazza per piazza: insegne, bancarelle, marciapiedi. Quando fu eletto Sergio Mattarella, Rutelli, non solo per vanità, elencò i suoi ragazzi:, Renzi, Gentiloni, Giachetti, Franceschini, Filippo Sensi, Linda Lanzillotta... E poi: "Sono affezionato a Marcello Fiori che guida i club di Forza Italia". Adesso infatti Fiori vuole rifondare il berlusconismo "nel nome di Einaudi, Benedetto Croce, John Stuart Mill, ma anche Borges, Vittorini, Calvino e Leopardi". E ha lasciato il ruolo di dirigente dello Stato per intrupparsi con gli irriducibili di Salò, come un Toti qualsiasi. Dunque Fiori è lo Smeagol del Signore degli Anelli, un hobitt che, inserito nello Stato, anno dopo anno si è lasciato guastare dall'anello della Forza. E come nell'Epica di Tolkien, gli si annerivano i denti mentre contava i miliardi del Giubileo accanto a Roberto Giachetti che,  -  come nel caso di Odevaine,  -  "ancora non riesco a crederci". Poi mentre seguiva Bertolaso tra i disgraziati dell'Aquila gli esplosero i ponfi e le pustole del potere. E ovviamente, prima di mostrificarsi definitivamente nel Gollom, passò per Sandro Bondi che lo spedì Commissario a Pompei, ma soprattutto divenne, anche lui, un cocco di Gianni Letta, come Bertolaso appunto, e come Scelli e Bisignani. Letta è anche il referente politico della cricca, di Angelo Balducci ma è soprattutto il capo, anzi l'amico composto di quella brutta Italia che, come nel caso di Fiori, ogni tanto ancora viene fuori da quel Vaticano dei corridoi che è il mondo dei funzionari, dei dirigenti, dei soprintendenti e dei Commissari Supereroi con pieni poteri. C'è ancora in Italia un bertolasismo diffuso che pervade tutto, come un blob che attraversa le fessure e si impossessa dei grandi eventi, delle feste nazionali, delle ristrutturazioni, delle ricostruzioni, dei rifacimenti, degli ammodernamenti, da Pompei sino all'Expo. Abbiamo un commissario persino all'anticorruzione. Dunque quella di Fiori non è solo la storia drammatica di una grande speranza del management pubblico rovinata dalla politica. È anche il sintomo di una brutta infezione della democrazia italiana.

E poi c'è l'Eterna Incompiuta. A3: morte per l’operaio, milioni per il manager, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Se leggete il sito “Viaggiare informati”, i dati che riguardano la Salerno-Reggio Calabria sembrano un bollettino di guerra e se trovate i punti esclamativi (quattro), insieme all’indeterminatezza della scadenza, dovrebbero mettervi sull’allarme. Per chi viaggia sulla Salerno-Reggio Calabria non c’è bisogno di punti esclamativi: uno sta già in allarme di suo. Guidare un Hammer, uno dei veicoli americani usati negli scenari di guerra, capaci di resistere anche a un Ied, Improvised explosive device, che so un’autobomba o un ordigno collocato in una buca sul terreno, piuttosto che la vostra automobile vi sarebbe di conforto, vi darebbe un po’ di sicurezza. Quella coi quattro punti esclamativi è la disposizione dopo l’incidente – il quarto mortale negli ultimi due anni – sul viadotto Italia, 1160 metri di lunghezza, 225 di altezza, con 19 campate, il più alto della Penisola e il secondo in Europa. La campata stradale ha ceduto di schianto. Nel crollo è morto un operaio, un venticinquenne, Adrian Miholca, rumeno. Miholca era alle prese con la demolizione della quinta campata del viadotto, direzione Reggio Calabria, quando c’è stato il crollo che ha fatto sprofondare la fetta di asfalto su cui stava spostandosi il trattorino guidato dall’operaio. Ottanta metri di volo. Adesso hanno chiuso tutto, anche perché precipitando la campata è andata a sbattere su un altro pilone rendendo instabile tutta la struttura. I lavori sul viadotto sono stati appaltati nel 2005. Poi, tra contenziosi vari, il cantiere è stato aperto un paio d’anni fa. Il progetto prevede la messa in sicurezza del collegamento, con una parziale demolizione «dell’impalcato del vecchio viadotto», per stare alle parole ufficiali dell’Anas. Cioè, su una carreggiata si viaggia in doppia corsia e sull’altra si facevano quelle che l’Anas ha definito «prove di demolizione». Poteva essere una tragedia. Che la giungla di appalti e subappalti, costringendo a lavorare anche dodici ore al giorno in condizioni di precarietà di contratti a termine, sia la causa principale della mancanza di sicurezza appare talmente scontato da ritenere irritanti le parole del sottosegretario alla presidenza Delrio: «Fatto indegno di un Paese civile». Già, lo si scopre solo quando muore qualcuno. Una lunghezza di 443 chilometri. Nel 1962, l’allora presidente del Consiglio Amintore Fanfani prevedeva la pratica risolta in due anni e invece n’è venuto fuori un cantiere lungo più di cinquant’anni. Solo le profezie sono rimaste incessanti. «La Salerno-Reggio? Pronta nel 2003», giura nel ’98 il sottosegretario diessino Antonio Bargone. «Sistemata in cinque anni», puntualizza nel 2000 il ministro Nerio Nesi (governo Prodi). «Finiremo nel 2004- 2005», conferma l’anno dopo il berlusconiano Pietro Lunardi. «Nel 2008», rettifica l’Anas. «Ce la faremo per il 2009», assicura Berlusconi nel 2006. A febbraio 2009 Altero Matteoli profetizza: «Per fine 2011 o inizio 2012». Finché nel settembre 2010, in parlamento, il Cavaliere decreta: «Sarà completata nel 2013». Nel 2011 Giulio Tremonti, ministro all’Economia in carica, fece un blitz a sorpresa sulla Salerno-Reggio Calabria e scoprì che tanti cantieri erano aperti, ma senza uomini al lavoro. Se sulla A3 «ci sono molti cantieri, vuol dire che qualcosa è in atto però serve l’autostrada». Qualcuno chiese: bisogna finire questi cantieri? «Infatti. Prima è meglio è», rispose Tremonti. Entro il 2013? «Vediamo, vediamo». Sì, ciao. Tutto era iniziato con una legge del 1961. Voluta dall’allora leader socialista Giacomo Mancini. E centrata sulla convinzione che quella strada rappresentava dopo un secolo «il compimento dell’Unità d’Italia». Craxi, nel 1987, allora premier, assicurò: la Salerno-Reggio Calabria sarebbe stata sistemata con mille miliardi di lire, ovvero 983 milioni di euro di oggi. Cinque anni più tardi i miliardi erano diventati già cinquemila. Altri cinque anni e il preventivo salì a seimila. E ancora: su a 6,9 miliardi di euro nel 2004, a nove nel 2008, a nove miliardi e 698 milioni nel 2010. In un articolo del 2007, sul Corriere della Sera Sergio Rizzo scrive che ogni chilometro dell’A3 è costato 20,3 milioni di euro. Una cosa senza possibilità di paragone nel mondo. L’Europa a un certo punto s’è stufata. Nel 2012, dopo le ripetute testimonianze riguardanti pizzo e mazzette accertate nei tribunali, l’Unione europea ha ingiunto all’Italia di dirottare su altri progetti i 388 milioni di euro di fondi europei destinati al tratto autostradale. Certo, la Salerno-Reggio Calabria non è solo una storia di mazzette, pizzo, sprechi, errori, morti. D’altronde, la pessima condizione dei viadotti e delle strade è dappertutto in Italia. In Sicilia, l’ultimo viadotto a crollare, lo Scorciavacche sulla statale 121 tra Palermo e Agrigento, ha battuto tutti i record restando transitabile appena una settimana: inaugurato alla vigilia di Natale del 2014 è stato chiuso alla fine dell’anno. All’inizio di luglio 2014 collassò il viadotto Petrulla sulla statale 123 tra Licata a Ravanusa. Subito dopo si accorsero che il vicino ponte Ficili era a rischio e lo chiusero. Nella stessa estate fu sprangato il ponte Gurrieri a Modica e quello della Balata Baida sulla statale 187 a Castellammare in provincia di Trapani. Poco più di un anno prima, febbraio 2013, s’era ammosciato il Verdura sulla statale 115 tra Trapani e Siracusa e il 28 maggio 2009 nella provincia di Caltanissetta venne giù un pezzo del ponte Geremia II. Succede anche al Nord: il caso più grave, con un autista di camion morto, risale a una decina d’anni fa sulla statale 42 in provincia di Brescia dove si spezzò il viadotto Capodiponte. L’incidente più clamoroso è però quello del ponte sul Po tra San Rocco al Porto e Piacenza. Lì la mattina del 29 aprile 2009 sprofondò nel fiume un’intera arcata trasformando la strada in una botola. Nello stesso anno si verificarono due crolli sulla Teramo-Mare mentre il 2 marzo 2011 le impalcature del ponte sulla statale 407 Basentana a Calciano in provincia di Matera si abbassarono all’improvviso di 2 metri. Nello stesso periodo sempre in Basilicata chiusero il ponte di Baragiano. Otto giorni dopo in Puglia crollò una parte del ponte tra Vieste e Peschici sulla statale 89. L’11 maggio di due anni fa toccò a un ponte Anas in Abruzzo sulla linea ferroviaria tra Terni e Rieti all’altezza di Scoppito. Però, come dire, la Salerno-Reggio Calabria è ormai una metafora del paese. Quando i lavori dell’Autostrada del Sole ebbero inizio, nel 1956, il boom economico era dietro l’angolo e quello era inizio di un sogno. Doveva unire Nord e Sud, velocizzare i trasporti, dunque il mercato, e la mobilità degli uomini. Doveva rappresentare una prova concreta di quello che era, almeno a quei tempi, lo spirito italiano. Il terminale dell’infrastruttura doveva essere la Calabria, fino allora considerata la terza isola, proprio per la scarsità di collegamenti con il resto del Paese. Però, invece di raggiungere l’estremo sud, si fermò a Napoli. È così che nasce la Salerno-Reggio Calabria, declassificata nel piano dell’Iri tra le cosiddette autostrade aperte, quelle cioè che non potevano essere soggette a un pedaggio per le particolari condizioni di sottosviluppo dei territori attraversati, e la si affida all’Anas. Così, il sistema autostradale del centro nord, gestito da Società Autostrade per conto dell’Iri, cresce fino a far raggiungere all’Italia il primo posto in Europa quanto a dotazione autostradale, mentre al Sud inizia il calvario. La scelta di abbandonare l’iniziale progetto sulla litoranea tirrenica e di addentrarsi nel cuore della montagna calabrese, sulle pendici del massiccio della Sila, orograficamente molto complessa, per acconsentire il passaggio a Cosenza voluto da Mancini e Misasi – allungando il suo percorso di 40 km, entrando per 22 km in galleria e dispiegandosi per 45 km su viadotti -, fu determinante: opere di ingegneria colossale, viadotti su viadotti, il trenta per cento del percorso dentro gallerie. Quasi trent’anni dopo il termine del percorso, nel 2001, il Piano generale dei trasporti e della logistica pronuncia una sentenza inequivocabile: «L’A3, la Salerno-Reggio Calabria non ha caratteristiche autostradali, anche se è classificata come tale». Non ci sono gli standard minimi richiesti per un’autostrada. Dal 1997 in avanti l’A3 diventa un enorme cantiere senza soluzione di continuità che attraversa tutto il tracciato dell’Autostrada, montagne comprese. Le condizioni  difficili permangono. L’autostrada più difficile da costruire adesso è ovviamente la più difficile da ammodernare. Di fatto, ha raggiunto l’obiettivo opposto per il quale era stata pensata, voluta, progettata, costruita: separare il Nord dal Sud, isolando logisticamente il Meridione. La Calabria rimane la terza isola d’Italia. Dopo l’incidente mortale al rumeno Adrian Miholca sul viadotto Italia, il presidente dell’Anas Pietro Ciucci ha pensato di mandare un telegramma di condoglianze. Pochi giorni prima, è stata presentata un’interpellanza urgente alla Camera per chiarire la questione dei compensi percepiti da Ciucci. Succede che nel 2013 l’attuale presidente e amministratore dell’Anas Pietro Ciucci decida di non fare più il direttore generale. Forse un uomo e tre cariche erano davvero troppe. Così, si autolicenzia, cioè il Ciucci presidente e il Ciucci amministratore delegato licenziano il Ciucci direttore generale. Risoluzione consensuale. Succede pure però che lo stesso Ciucci direttore generale avanzi al Ciucci presidente e al Ciucci amministratore delegato riconoscimento “dell’indennità di risoluzione senza preavviso”. Questa vale circa ottocentomila euro, e quella, la risoluzione consensuale, vale circa un milione.  Totale un milione e ottocentomila euro. Una somma che non potrebbe sommarsi, dato che delle due l’una, o è consensuale o è senza preavviso. Ovviamente, aspettiamo tutti di sapere quanto varrà la buonuscita del Ciucci presidente e anche quella del Ciucci amministratore delegato. Ora, certo, l’A3 è stata una gruviera, la ‘ndrangheta ci ha bagnato il pizzo per decenni e le cosche hanno fatto affari di lusso, la follia della scelta del percorso più complesso è stata il male dell’origine e strologate dei politici succedutesi e le porcate di appalti e subappalti hanno fatto il resto. Però, ecco, almeno i soldi del telegramma di condoglianze sentite se li poteva risparmiare Ciucci.

E poi ci sono loro: gli "innominati".

La caduta (parziale) degli Dei, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Il segretario dell’Anm, il dottor Maurizio Carbone, dice che la riforma delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati, approvata l’altro ieri dal Parlamento, «è un tentativo di normalizzare la magistratura». Lo ha dichiarato ieri, durante la conferenza stampa dell’ Anm, che è su tutte le furie per questa piccola riforma. Già: «normalizzare». Cioè rendere normale. Oggi la magistratura non è normale: è l’unica istituzione dello Stato ad essere al di sopra dello Stato, della legge, ad essere – nell’esercizio delle sue funzioni – immune dalla legge, e insindacabile, e non dipendente dallo Stato ma sovraordinata allo Stato. «Normalizzare» la magistratura, cioè toglierle la sua caratteristica di ”deità” (che non è la ”terzietà” di cui spesso l’Anm parla) non sarebbe una cosa cattiva. Libererebbe forse l’Italia da un sovrappeso ”feudale” che ancora ne condiziona profondamente la struttura democratica, e che probabilmente è in contrasto con lo spirito della Costituzione, che è una Costituzione Repubblicana e che prevede l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alcuni magistrati dicono: ma noi siamo magistrati, non cittadini. E su questa base pretendono di non dover sottostare alla legge. Ritengono – temo in buona fede – che la saldezza di una società, e la sua moralità, e il suo essere ”società etica” (successivamente si passa all’idea dello ”Stato Etico”) non possono che essere affidati ad una entità e ad un gruppo di persone migliori degli altri (”aristoi”) i quali siano in grado di ”sapere” la vita degli altri, valutarla, giudicarla, punirla. Non è questa una funzione – pensano – che possa essere affidata alla democrazia, o al libero svolgimento delle relazioni umane e sociali, perché la democrazia è un buon sistema di governo ma è viziato da corruzione. E l’eccesso della libertà, della deregolamentazione, sono pericolose per la collettività. La democrazia deve essere ” corretta” , o comunque controllata, e anche la società, da qualcosa di superiore e di ”certamente morale” : e cioè da i giudici. Contestare questa funzione dei giudici vuol dire contestare la loro indipendenza. E mettere in discussione l’indipendenza dei giudici vuol dire correre il rischio che la magistratura finisca per non essere più autonoma dalla politica. L’autonomia dalla politica non è vista come una condizione di funzionamento della magistratura, o come un elemento necessario nell’equilibrio dei poteri, ma come un valore assoluto al quale una società ”morale” deve sottomettersi, e in assenza del quale la società diventa ”immorale” e la democrazia, e le istituzioni, scendono in una condizione di subalternità alla politica. La politica è ”il male” , la giustizia (lo dice la parola stessa) è il bene, e il bene può governare il male, e può redimerlo, correggerlo, sottometterlo. Il male non solo non può governare il bene, ma non può aspirare ad essere alla pari col bene. Ecco, questo ragionamento è alla base delle molte dichiarazioni rilasciate ieri dal dottor Carbone, e anche dal presidente dell’Anm Sabelli. Il quale ha rimproverato al governo di avere promesso una riforma della Giustizia in 12 punti, e di avere realizzato invece l’unico punto che non va bene, e cioè la riforma della responsabilità dei giudici. I magistrati invece – ha spiegato – vogliono cose diverse: per esempio la riduzione della prescrizione, l’estensione dei poteri speciali ”antimafia” anche ad altri reati, il processo telematico (cioè la cancellazione del diritto dell’imputato ad essere presente al suo processo), la riduzione dei gradi di giudizio, eccetera. In sostanza, la proposta dell’Anm (che più o meno è stata organicamente strutturata nella proposta di riforma del dottor Nicola Gratteri) è quella di escludere norme che riportino alla normalità la magistratura, ristabilendo la legittimità dello Stato liberale e dell’equilibrio dei poteri, ma, viceversa, decidere un forte aumento dei poteri della magistratura, un ridimensionamento drastico dei diritti dell’imputato, e un rafforzamento della condizione di preminenza e di insindacabilità dei pubblici ministeri. Sabelli ha anche annunciato che l’Anm ha chiesto un incontro al Presidente della Repubblica. Per dirgli cosa? Per esprimere le proprie rimostranze contro il Parlamento. Già nella richiesta dell’incontro c’è un elemento di scavalcamento dell’idea (puramente platonica in Italia) dell’indipendenza dei poteri. La magistratura ritiene che il suo compito non sia quello semplicemente di applicare le leggi, ma di condizionarne il progetto e la realizzazione. L’associazione magistrati chiede al Presidente della Repubblica di frenare, o condizionare, o rimproverare il Parlamento. E vuole discutere nel merito delle leggi. La magistratura considera inviolabile la propria indipendenza dagli altri poteri, e inaccettabile la pretesa di indipendenza degli altri poteri dalla magistratura. Devo dire che la passione con la quale i magistrati hanno reagito alla miniriforma della responsabilità civile mi ha colpito soprattutto per una ragione: questa riforma è quasi esclusivamente simbolica. La responsabilità dei giudici resta limitatissima. L’unica vera novità è la rimozione del filtro che in questi vent’anni aveva permesso solo a 4 cittadini di ottenere un risarcimento per la mala-giustizia (nello stesso periodo sono stati processati e condannati 600.000 medici). Tutte le altre barriere restano. I magistrati saranno giudicati solo in caso che sia accertata una colpa grave, o addirittura un dolo nel loro comportamento, saranno giudicati non da una autorità esterna ma dai loro colleghi (visto che oltretutto non esiste una divisione delle carriere) e se alla fine saranno ritenuti colpevoli pagheranno con una sanzione che in nessun caso potrà superare la metà dell’ammontare di un anno di stipendio. Voi conoscete qualche altra categoria professionale protetta fino a questo punto? La probabilità di essere condannati per i magistrati è così bassa, e l’esiguità della pena così forte, che chiunque può mettersi al riparo pagando una assicurazione con poche decine di euro. Cosa che non vale per i medici, o gli ingegneri (non parliamo dei giornalisti) che essendo espostissimi al rischio di condanna (anche senza dolo e senza colpa grave) se vogliono sottoscrivere una assicurazione devono pagare migliaia e migliaia di euro. Diciamo che il privilegio non è affatto toccato da questa riformetta. Appena appena scalfito. E allora? Il fatto è che comunque la riforma ha un valore ideale, è una specie di metafora. Il Parlamento, per una volta, non si è inginocchiato davanti alla magistratura. E’ questa la novità che ha messo in allarme i settori più corporativi della magistratura. Il timore è che davvero possa cambiare il clima politico e possa essere aperta una via alle riforme vere, e al ridimensionamento della ”Divina Giustizia”. No, la riforma non comporterà la caduta degli Dei. Solo che gli Dei non sopportano gli oltraggi. Sono permalosi. E’ sempre stato così, dai tempi di Omero. E questa legge è uno sberleffo inaccettabile, anche se innocuo.

«Legalizzate gli spinelli» Lo chiede l’antimafia, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Non lo dice Marco Pannella. Non è una campagna dei radicali. Signori, è il procuratore nazionale antimafia, che parla. O meglio, l’organismo da lui presieduto, la Dna: depenalizzate. Rendete lecito l’uso e la diffusione delle droghe leggere. Non perdete tempo. Perché di tempo, a dare la caccia agli spinelli, ne stiamo perdendo pure troppo. Lo dice con una chiarezza micidiale la relazione annuale 2014 della Direzione Nazionale Antimafia. Ci sono sei cartelle interamente dedicate alla questione degli stupefacenti – e riportate interamente in questa pagina. C’è un’analisi impietosa del fenomeno, con dati che fanno impressione: in Italia l’anno scorso sono stati immessi sul mercato 3 milioni di kg di cannabis, tra hashish marijuana e piantine. Tradotto in dosi, fanno 200 per ciascuno italiano. Duecento spinelli a testa, vecchi e bambini compresi. Parliamo dunque di qualcosa come 10 miliardi di dosi, o canne, commercializzate ogni anno nel nostro Paese. E questo si legge nella relazione dell’antimafia, nonostante siano impiegata «enormi risorse umane e materiali» per contrastare il fenomeno. Ma è come voler svuotare il mare con un secchiello da spiaggia. «Con le risorse attuali non è né pensabile né auspicabile, non solo impegnare ulteriori mezzi ed uomini sul front anti-droga inteso in senso globale, comprensivo di tutte le droghe », ma neppure « tantomeno, è pensabile è pensabile spostare risorse all’interno del medesimo fronte, vale a dire dal contrasto al traffico delle (letali) droghe pesanti al contrasto al traffico di droghe “leggere”. In tutta evidenza sarebbe un grottesco controsenso». Ecco: sarebbe un grottesco controsenso. Si darebbe la caccia agli spinelli, anziché perfezionare per esempio l’azione nei confronti di produttori e spacciatori di droghe sintetiche, campo nel quale «la tecnica d’indagine» non è ancora sufficientemente «matura». Tenete poi conto, ci dice la direzione anti-mafia guidata da Franco Roberti, di altre due questioni. Da una parte «le ricadute che la depenalizzazione avrebbero in termini di deflazione del carico giudiziario di liberazione di risorse disponibili delle forze dell’ordine e magistratura per il contrasto di altri fenomeni criminali» e, soprattutto, « di prosciugamento di un mercato che, almeno in parte è di appannaggio di associazioni criminali agguerrite»( e qui nulla si aggiunge quanto a introiti che lo Stato potrebbe ricavare con la vendita legale). Dall’altra parte, l’antimafia ricorda opportunamente«la minore deterrenza delle norme penali riguardanti le cosiddette droghe leggere, sancita dalla recente sentenza numero 32/2014 della Corte costituzionale, che sostanzialmente non consentono l’arresto in flagranza». Quest’ultimo particolare aspetto fa prevedere, sempre nella relazione,  una diffusione sempre in maggiore crescita delle droghe leggere. E d’altra parte se la Dna è arrivata a chiedere apertamente la depenalizzazione della cannabis (del suo uso privato e, evidentemente, anche della sua commercializzazione) è proprio perché i dati del 2014 sopra ricordati corrispondono addirittura al 120% di quelli del 2013. Cioè, nel nostro Paese,  in un anno appena,  la quantità di hashish e marijuana che c’è in giro è assai più che raddoppiata. Si tratta ormai di «un fenomeno oramai endemico, capillare e sviluppato ovunque, non dissimile, quanto a radicamento e diffusione sociale, a quello del consumo di tabacco ed alcool». La conclusione del documento difficilmente avrebbe potuto essere più chiara: «Spetterà al legislatore valutare se, in un contesto di più ampio respiro (ipotizziamo, almeno, europeo, in quanto parliamo di un mercato oramai unitario anche nel settore degli stupefacenti) sia opportuna una depenalizzazione della materia». Ma a questo punto, come si fa ad avere ancora dubbi?

Voto di scambio di Grillo: prestiti con i nostri soldi. Il trucco dei Cinque stelle per captare consensi: aiutano le imprese con il microcredito ma dimenticano che il fondo è foraggiato dagli stipendi pubblici dei parlamentari, scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. Quando si dice l'allievo che supera il maestro. Il Movimento Cinque stelle è riuscito in un'impresa leggendaria. I grillini sono passati dal vecchio assunto della sinistra cachemire et champagne «abbiamo una banca!», di fassiniana memoria, a «siamo una banca!».  Direttamente. L'idea è ghiotta, non c'è che dire, e anche furbona. Lo slogan efficacissimo: «Possiamo salvare un'impresa al giorno per i prossimi 10 anni, i soldi li mettiamo noi dai nostri stipendi». Nemmeno quel gran ganassa di Matteo Renzi con lo spot elettorale degli 80 euro al mese seppe fare di meglio. I Grillo boys annunciano fino a 25mila euro di finanziamento (con una possibile ulteriore integrazione di 10mila, per un totale di 35mila euro) di cui potranno godere subito duemila imprese. Un fondo di rotazione alimentato dalle rate restituite e dai nuovi stanziamenti che arriveranno dagli stipendi del M5S e dal ministero dello Sviluppo economico. E c'è pure un sito, www.microcredito5stelle.it , che spiega tutto. Il gran capo Beppe specifica sul blog: «Non servono garanzie reali, basta un business plan e un'idea sostenibile di impresa. Il credito viene erogato a tassi molto bassi su un termine fino a 7-10 anni». Tutte le persone che vogliano intraprendere una nuova attività imprenditoriale o che abbiano un'impresa da meno di 5 anni da oggi possono bussare a casa Grillo. Microimprese fino a 5 dipendenti, società a responsabilità limitata semplificata e cooperative fino a 10 dipendenti, lavoratori autonomi e società di professionisti. Un bel consulente del lavoro e il gioco è già fatto. La Banca (nazional) popolare Cinque Stelle ha aperto gli sportelli. Il Movimento dice di avere già 50 milioni di euro disponibili. Soldi che arrivano dai due Restitution day , quando i parlamentari Cinque Stelle hanno versato la metà delle loro indennità insieme alle eccedenze della diaria non rendicontata, compresi i famigerati scontrini. Tradotto: soldi pubblici. L'iniziativa è nobile. I parlamentari grillini hanno deciso di destinare quei soldi a un fondo per le imprese e non al loro conto corrente. Ma va comunque specificato che il loro bel gesto non è stato reso possibile grazie ai fondi personali, ma bensì con parte dei soldi pubblici che gli stimatissimi onorevoli-cittadini ricevono ogni mese da Camera e Senato. La cosa è ben diversa. Tutti coloro che da ora in poi riceveranno soldi dalla Bank of Grillo («40 imprese al mese»), matureranno un enorme debito di riconoscenza nei confronti di chi gli ha fornito quei finanziamenti. Riconoscenza che potrebbe essere sfruttata da Grillo, Casaleggio & Co. al momento più opportuno. Sotto elezioni per esempio. Silvio Berlusconi è stato accusato di voto di scambio per molto meno. Ma, come insegna il nostro presidente del Consiglio, in politica non conta tanto quello che si fa, ma quello che si fa credere di aver fatto. Occhi sgranati, voce tremante, sguardo spiritato, Alessandro Di Battista (che, infatti, da grande aspira a fare il premier) ha pubblicato sul blog di Grillo un video per presentare questo «giorno storico» e invitare tutti al mercato romano del Testaccio insieme al vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio con il quale si è cimentato nello sport preferito dai Cinque Stelle: lo srotolamento dello striscione (con cifra dell'assegno da 10 milioni per il fondo microcredito). Strette di mano al banco del pesce, sorrisi a quello dei formaggi, selfie con gli ambulanti. Passa dall'auto congratulazione («È una cosa buona, datecene atto») alla lezione di filosofia («Un mare è fatto di tante gocce»). Il banchiere Di Battista della Bank of Grillo ora è pronto a incassare.

E poi c'è la Rai. Rai, i giudici assolvono Libero e Oscar Giannino: "E' lottizzata, non è diffamazione", scrive “Libero Quotidiano”. La lottizzazione politica in Rai? E' cosa nota. Con questa motivazione la Corte di Appello di Milano ha assolto dall'accusa di diffamazione Oscar Giannino, il giornalista di Libero Enrico Paoli e l'allora direttore Alessandro Sallusti, portati a processo nel 2008 da viale Mazzini a causa di alcuni articoli pubblicati su Libero nel febbraio 2008. La tesi di quegli articoli, corredati da un diagramma, era chiara: in Rai le 900 poltrone dirigenziali erano spartite a seconda dell'appartenenza politica, seguendo un rigoroso manuale Cencelli che rispettasse le quote riservate a destra, sinistra e tecnici. Gli allora presidente e direttore generale della tv pubblica Claudio Petruccioli e Claudio Cappon non la presero bene e adirono alle vie legali. "Non era sicuramente un documento ufficiale Rai, e non è dunque il prodotto di una illecita schedatura domestica - spiegano i giudici milanesi -, tuttavia deve ritenersi atto informale interno, di provenienza verticistica, perché redatto da soggetto molto ben informato dell'effettivo organigramma". E sulla distribuzione "politica" dei dirigenti, la Corte d'Appello sottolinea come sia "circostanza notoria" che in Rai "anche i soggetti più che meritevoli siano avvantaggiati dalle conoscenze in ambito politico, perché sovente per fare carriera le sole doti personali non bastano e la meritocrazia è concetto di eccezionale applicazione, riservato a quei rari casi che emergono dal coro per peculiari e incontestabili capacità".

"Rai lottizzata", l'articolo di Oscar Giannino su Libero del febbraio 2008. Ripubblichiamo il pezzo di Libero del 7 febbraio 2008 a firma Oscar Giannino. Che l’organico Rai fosse figlio delle lottizzazioni era noto da tempo. Un direttore di Rete a te, una testata a me. Meno nota era l’esatta ripartizione di questa lottizzazione, figlia degli accordi fra maggioranza e opposizione. Del tutto sconosciuta era invece l’entità, più o meno esatta, di quanto fosse vasta e diffusa la presenza del centrosinistra all’interno dell’assetto organizzativo della Rai. La prova di tutto questo è contenuta in un documento ufficioso in cui si dà conto da che parte sta chi occupa posizioni dirigenziali che vanno dal ruolo di direttore a caporedattore. La fotografia che ne esce fuori è una vera onda rossa. Quando parliamo di parte alta dello schema, tanto per esser chiari, facciamo riferimento all’area Staff, limitandoci al Cda, ai direttori e ai vice (tabella di pagina 11). Ebbene su 36 posizioni, 21 sono occupate dal centrosinistra, 13 dal centrodestra e 2 da tecnici. Quante volte gli esponenti di centrosinistra, in questi ultimi due anni, hanno gridato che la politica doveva star fuori dalla Rai, quante volte hanno accusato il centrodestra di voler militarizzare la Rai? Quante volte? Colorando le caselle si scopre un’altra realtà. Volete un altro esempio? Presto fatto. Prendiamo l’area staff e l’area editoriale nella sua parte più ampia. Su 164 posizioni , 95 sono colorate di rosso, 62 di blu e 7 di verde. Più della metà fa massa critica. Scendendo verso il basso il rosso diventa alta marea. Per fare un altro esempio, i deputati e senatori di Forza Italia, nonché membri della commissione di vigilanza sulla Rai, sostengono che i tg regionali «sono troppo sbilanciati a sinistra». Possibile, essendo Rai Tre tradizionalmente di sinistra. Sta di fatto che gli esponenti azzurri, a partire da Paolo Bonaiuti, vice presidente della commissione di vigilanza Rai, hanno chiesto all’azienda i dati dell’osservatorio di Pavia, che si occupa di monitorare quanto spazio viene dato a ogni partito. Certo, osservando la divisione “dei pani e dei pesci” di cui vi diamo conto in questa e nelle pagine successive, qualche dubbio ci viene, e diventa difficile dar torto agli esponenti azzurri. Stando al gioco del “chi sta con chi”, tanto in voga in Rai, si scopre che all’interno della testata giornalistica regionale, su 51 posizioni dirigenziali, ben 32 sono occupate da vice direttori e capiredattori che, per la vulgata interna dell’azienda, sarebbero di centrosinistra. Sarebbero. Perché questo non è un documento ufficiale, ma una variazione sul tema: l’assetto organizzativo corrisponde ai fatti, i colori invece, un po’ come le bandierine di Emilio Fede, sono stati piazzati lì secondo le «voci di dentro», riprendendo le indicazioni dell’editore, cioè la politica. E pensare che i nomi “colorati” sono quelli di professionisti. E non tutti hanno una tessera in tasca. Se poi uno volesse andare sino in fondo, scoprire che alcuni rami dell’albero rosso-blu sono isole completamente rosse, fa un certo effetto. Ribadiamo, si tratta di professionisti dell’informazione, dipendenti della Rai, la cui colorazione dipende da una presunta appartenenza politica. Spesso però da quella presunta appartenenza dipende il ruolo, soprattutto nelle posizioni di vertice, come quelle di direttore e vice direttore. E volendo disquisire sui direttori delle testate giornalistiche, 9 in totale, al centrosinistra ne toccano quattro, altrettante al centrodestra, mentre una è di competenza tecnica. Par condicio rispettata dunque? No, non è esattamente così. Perché secondo il risiko Rai, nel gioco dei vice direttori il rosso fa la parte del leone, finendo così con il controllare la macchina dell’informazione. Seguendo lo schema che trovate in questa pagina, al Tg3 l’unica voce fuori dal coro è quella di Anna La Rosa. Un capo redattore contro tutti. Mica male no? Qualcosa di simile avviene a Rai News 24 e a Radio Uno e Gr Rai, guidati da Antonio Caprarica. Il quale, tanto per dare l’idea di quanto sia flessibile il gioco dei rossi e dei blu, sta puntando ad occupare una casella dell’area televisione. Della radio, l’ex fashion corrispondente da Londra, non ne potrebbe proprio più. Per chi volesse divertirsi un po’, invece, seguendo le regole del gioco enunciate all’inizio di questo pezzo, vi ricordiamo che la Rai e Deborah Bergamini, ex direttore del Marketing Strategico dell’azienda, ieri hanno raggiunto un accordo per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con effetto dal 31 gennaio. Chi prenderà il suo posto? Di che colore diventerà quella casella? Attualmente è verde, si accettano scommesse. Nel frattempo uno dei verdi dell’albero rosso-blu, ieri ha battuto un colpo. Il Consiglio di Amministrazione della Rai infatti ha approvato a maggioranza il piano di produzione 2008 della fiction. Il Cda ha anche avviato l’esame del piano di produzione e trasmissione 2008 delle reti televisive, illustrato dal vice direttore generale per il prodotto, Giancarlo Leone. All’interno del Cda poi è stato affrontato anche il caso di Michele Santoro, che con il suo Annozero è finito nel mirino del garante dell’Agcom. Ma questa è un’altra storia, che non fa parte dei rossi e dei blu in senso stretto, visto che i conduttori sono sì schierati, ma in modo netto, senza dover ricorrere a tabellini o tabelloni. Insomma il gioco della lottizzazione in Rai, alla fine, rischia di essere tutt’altro che una cosa seria, se non fosse che quelli che ci credono di più sono quelli che stanno dentro al gioco. E non fuori. Ma sì, avanti popolo rosso-blu.

Stipendi Rai, la metà dei giornalisti del servizio pubblico guadagna più di 105 mila euro, scrive “Libero Quotidiano”. Dopo decenni di lottizzazione dei partiti sulla Rai, viale Mazzini sembra più un Titanic affollato, eppure fa ancora gola a tanti, soprattutto ai giornalisti. E non c'è da stupirsi se si considera che su 1.581 giornalisti del servizio pubblico, la metà guadagna più di 105 mila euro all'anno. Un'allegra comitiva dove il più sfigato è un caposervizio (in tutto 279), fino a salire con dirigenti giornalisti e capiredattori che (303 fortunati) che incassano stipendi tra i 120 mila e 240 mila euro. Non di più solo grazie all'imposizione del ministero del Tesoro che ha stabilito il tetto massimo per i dirigenti nelle società partecipate. I dati messi insieme dal Fatto quotidiano aggiungono anche i 64 inviati speciali dei tg della Rai che a cranio guadagnano 126 mila euro. E poi ci sono i 150 vice capiredattori che in media portano a casa ciascuno 120mila euro per un totale sul bilancio aziendale di 18 milioni di euro. Se c'è una cosa che non si può contestare all'azienda di viale Mazzini è come sa gratificare economicamente i propri dipendenti. Il buon cuore con i soldi pubblici trova la sua fulgida espressione anche con i 688 redattori ordinari con contratto a tempo indeterminato che in media beccano all'anno 85 mila euro, roba avveniristica per tante altre redazioni. Un po' più sfigati sono i redattori "a scadenza" che incassano ciascuno 54 mila euro annui. I dirigenti in tutta la Rai sono 262. Nonostante le promesse di spending review della gestione Gubitosi, nel 2013 ne sono arrivati altri 13. In 35 sono stati promossi e ovviamente a questi meritevoli manager è stato adeguato lo stipendio, sempre con il tetto massimo di 240 mila euro. C'è poi la pletora degli 8.501 dipendenti, tra impiegati di varie mansioni, quelli di fascia superiore guadagnano in media 67mila euro. C'è un gruppone di 1360 lavoratori a tempo determinato. Di questi 262 sono altri giornalisti, 349 sono operatori di regia. Ma il vero mare magnum dello sfruttamento, continua il Fatto, spunta nella tabella "collaboratori con contratto di lavoro autonomo, a progetto e partite Iva". Un esercito di 10.019 persone che in tutto costano 110 milioni di euro. 31 di questi nel 2013 hanno incassato 310 mila euro a testa, 175 hanno portato a casa tra gli 80 mila e i 240 mila euro. Tutti gli altri, più di 9 mila dipendenti autonomi hanno i compensi più disparati da poche decine di migliaia di euro.

E poi ci sono le province. Gattopardi di provincia: aboliti gli enti, non è cambiato nulla. Doveva essere la grande riforma per tagliare gli sprechi e modernizzare il paese. Ma è ancora tutto bloccato. Tra impiegati che dormono sulle scrivanie e dirigenti che saltano su poltrone migliori, scrive Fabrizio Gatti “”L’Espresso”. Il principe dei Gattopardi è uno come Fabrizio Sala. No, non è un refuso di stampa. Il nome del principe siciliano era Fabrizio Salina, certo, ma solo nel famoso romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il nostro Gattopardo di provincia, quasi omonimo, viene dalla Brianza. «Cambiare adesso con Sala si può», promette il motto sui suoi manifesti con lo stemma del Popolo delle libertà. Non conoscete Fabrizio Sala? Appunto. L’importante è che lo conoscano loro: l’amico Paolo Berlusconi, il fratello Silvio con cui il principe si fa fotografare prima delle elezioni, l’onorevole da aiutare nella ricerca di una casa, insomma tutti quelli che da vent’anni militano nel cambiamento perché l’Italia rimanga com’è. Ed eccolo, da assessore provinciale all’Ambiente e alle bonifiche a Monza, riapparire accanto al governatore della Lombardia, Roberto Maroni: sì, oggi il principe dei Gattopardi è assessore regionale all’Expo e all’immagine delle imprese lombarde nel mondo. È riuscito a svignarsela dalla Provincia. Dal 2013 rappresenta l’esposizione mondiale di Milano per conto della Regione. E chissà se, come eredità, Sala, 43 anni, si è portato anche il mucchio di soldi e il conto aperto con il costruttore che a Monza le bonifiche le aggirava facendo taroccare i documenti. Nessun reato contestato all’assessore, per carità. Solo coincidenze. Mettetevi comodi. Perché questo viaggio nel caos dell’intramontabile Provincia attraversa l’Italia. Da Nord a Sud, isole comprese. Un momento, però. Le Province non dovevano sparire? Già: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», è scritto nell’immortale romanzo. Partiamo. Non ci sono soltanto principi. I Gattopardi hanno pure i loro re. Il titolo va a pari merito ai due dipendenti incontrati nella sede della Protezione civile della Provincia di Napoli: la mattina di lunedì 16 febbraio alle 11.25 fanno beatamente la nanna. Uno accasciato sulla scrivania in ufficio, l’altro stravaccato sulla poltroncina accanto. Meno male che un loro collega è sveglio: sta guardando attentamente un cartone animato alla tv. Almeno non la tengono accesa per nulla. E il capo dov’è? Ah, eccolo in cortile a dire che lui riceve «mille e duecento euro al mese e non riesco nemmeno a vivere... Cioè, mi vai a impegnare a me che sono operaio specializzato con un lavoro che non mi dà allegria, non dà gioia...». Forse il cartone animato non lo faceva ridere. La copertina dell'Espresso Dovrebbero tenere puliti e pronti all’uso il grande capannone e i locali dove ospitare i senzatetto e i materiali di soccorso in caso di calamità: il rischio Vesuvio, terremoti, alluvioni. Questa è una base operativa della Protezione civile. La loro divisa blu è linda come il vestito di uno sposo. Mentre capannone e locali fanno letteralmente schifo. Ridotti in quel modo sono inutilizzabili come rifugio per gli sfollati: spanne di guano di piccione, macerie, rifiuti ovunque, vetrate rotte, cavi elettrici strappati. A Vibo Valentia, quattro ore di autostrada più a Sud, per milleduecento euro al mese farebbero festa: qui i Gattopardi si sono mangiati la cassa, la Provincia è in dissesto e gli impiegati non ricevono lo stipendio da cinque mesi. Per questo a pranzo ci si ritrova in un garage, davanti a una ruspa irreparabile perché non ci sono soldi. Cuociono sulla brace salsicce comprate con la colletta. Solidarietà tra colleghi: anche oggi, chi non può permettersi di fare la spesa ha evitato la fame. La famiglia dei Gattopardi di Provincia costa cara. Ma c’è posto per tutti: assessori, consiglieri, dirigenti, funzionari, amici, operai, assenteisti, dormiglioni e poliziotti, cioè agenti della polizia provinciale, la settima forza pubblica, ultima esosa invenzione del federalismo di quartiere. In questa Italia che cambia per rimanere quella di sempre, trovi anche un famoso procacciatore di spogliarelliste: famoso per i gestori di locali di lap-dance e per i compagni di lavoro che hanno visto il custode timbrare il cartellino in una scuola della Provincia, a Vimercate in Brianza, e poi mettersi al telefono (della scuola) a organizzare spettacoli. La più grande riforma del governo dopo il Senato, avevano detto. Sarebbe questione di mesi, secondo l’ottimistico piano del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, e della ministra per la Pubblica amministrazione, Marianna Madia. Il 31 marzo le Province devono presentare le liste dei soprannumerari. Li chiamano come i membri dell’Opus Dei, forse il lapsus di qualche alto burocrate devoto: ma è l’elenco del personale in esubero che sarà trasferito, messo in mobilità o collocato a riposo dal 31 dicembre 2016. Sono quasi ventimila persone sui 54.242 dipendenti provinciali assunti in tutta Italia, di cui 51.968 a tempo indeterminato e 1.200 dirigenti. In contemporanea arrivano i tagli alla spesa: 2,9 miliardi già persi dal 2009, via un altro miliardo nel 2015, via due miliardi nel 2016, via tre miliardi nel 2017. A parità di servizi, però, e quindi di costi: strade (piene di voragini), manutenzione e riscaldamento nelle scuole (al minimo), trasporti (ridotti), assistenza ai disabili (quasi inesistente), stipendi (in ritardo). Le Province di Biella e Vibo Valentia hanno dichiarato il dissesto. Molte altre, come Novara, Verbano, Imperia, Ascoli, Chieti, Potenza, Lecce hanno formalizzato la mancata copertura delle spese. Numeri in pareggio solo in apparenza ad Alessandria, La Spezia, Bologna, Teramo, Isernia, Foggia, Messina, Siracusa: in realtà nell’esame di fine 2014 la Corte dei conti ha rilevato che anche quei bilanci sono fuori equilibrio. E per risparmiare su luce e riscaldamento, da Milano a Bergamo si sta discutendo se introdurre la settimana corta nelle scuole provinciali. Un disastro. Avanti di questo passo la «road map», come hanno definito il programma dandogli lo stesso nome del processo di pace in Palestina, rischia di trasformarsi in una drammatica Intifada: la protesta sta per riunire studenti lasciati al freddo, dipendenti disperati, fornitori non pagati sull’orlo del fallimento. E relative famiglie. Presto sapremo se Matteo Renzi passerà alla storia come il premier delle riforme. Oppure il principe del caos. E per dimostrare di essere sulla strada del risparmio, anche la Provincia di Reggio Calabria è stata promossa città metropolitana. Reggio Calabria una metropoli? Certo, se lo vogliono i Gattopardi, Reggio diventa una metropoli: appena 180 mila abitanti il capoluogo, 550 mila la provincia, conti sottozero e debiti fuori bilancio. Già, i debiti fuori bilancio. Ecco un’altra eredità delle Province. Sono costi dovuti a imprevisti: sentenze di condanna, liti nell’acquisizione di beni, disavanzi nelle aziende controllate. Fanno 186 milioni nel 2013, ultimo rilevamento, suddivisi tra 75 enti: 12 euro per abitante in Sicilia, 7 in Liguria, quasi 6 in Abruzzo. Un aumento medio dell’80 per cento rispetto al 2012. Ma in Basilicata raggiunge il 934 per cento, in Campania il 714, in Sicilia il 584, il Liguria il 492. Una massa consistente «che non compare nelle scritture contabili», denuncia la Corte dei conti, «e rende i bilanci non veritieri». Eppure, questo strangolamento a mani nude delle Province alla fine inciderà soltanto sull’1,26 per cento della spesa pubblica nazionale: dieci miliardi da ridurre a meno della metà. Il grosso, 562 miliardi destinati all’amministrazione centrale e 163 miliardi alle Regioni, non verrà toccato. Resteranno compensi e vitalizi da favola a parlamentari, segretari, sottosegretari e deputati regionali. I Gattopardi, certo, ringraziano. Andiamo avanti. Vimercate, incrocio di superstrade e di clan della ’ndrangheta, è sulla via che da Milano porta ad Arcore. È qui che potete incontrare un dipendente della Provincia di Monza con due lavori: di giorno custode dell’istituto scolastico più grande della zona e sempre di giorno procacciatore di spogliarelliste. Come fa? Lui certo non dorme in ufficio. Le ragazze vanno ingaggiate prima che tramonti il sole. La sera devono essere già pronte per lo spettacolo. A volte succede che davanti alla scuola arrivi l’autocisterna con il gasolio per il riscaldamento. E il custode non si trova. Ha timbrato il cartellino, è vero. Ma lui non c’è, confessano i colleghi. Tanto il suo stipendio lo paga la Provincia. Cioè i cittadini. Sicuramente le spogliarelliste sono meno pericolose dei mafiosi cresciuti in Brianza. Lo ha capito Rosario Perri, primo assessore al Personale della Provincia monzese, costituita soltanto nel 2009. E primo a dimettersi nel giro di un anno: l’hanno tirato in ballo nell’operazione «Infinito» alcune confidenze telefoniche tra boss della ’ndrangheta. Lui dice che straparlavano, ma ha dovuto lasciare. Un viaggio di 740 chilometri e in fondo alla valle appare Isernia, Molise, la seconda provincia più piccola d’Italia: 87 mila abitanti, 22 mila il capoluogo e la metà dei comuni compresa tra i 127 e i 796 residenti. Ciascuno con i suoi sindaci, assessori, consiglieri, segretari, municipi, uffici tecnici, anagrafe, vigili, elezioni, ordinanze. Questa è la cronaca di una giornata qualunque in via Giovanni Berta, sei piani di palazzo grigio, sede dell’amministrazione provinciale e quasi due milioni e mezzo di debiti fuori bilancio. Alle 8.28 un impiegato timbra il cartellino. Poi esce a comprare il giornale. Tre colleghi timbrano alle 8.29, salgono in ufficio. Alle 8.40 camminano tutti insieme verso il bar Sayonara. Caffè, chiacchiere. Alle 8.55 uno va via. Alle 9.02 solo i due rimasti ritornano in ufficio. Oggi l’Ordine dei commercialisti ha organizzato un convegno: l’amministrazione degli enti locali, è l’argomento. Per fare numero hanno invitato quattro scolaresche delle superiori. Ma la sala sotto la biblioteca è troppo piccola. Il magazziniere della Provincia porta le sedie avanti e indietro. Gran baccano e discussione tra funzionari e professori fino alle 9.50. Gli studenti vengono mandati via, mattinata persa. Il convegno può cominciare: tre relatori, otto partecipanti, tre sul balcone a fumare. L’ufficio turistico apre alle 9 tutti i mercoledì, dice il cartello. Sono quasi le 11, è mercoledì. Ufficio turistico chiuso. Roma non è lontana. Dal primo gennaio la Provincia ha lasciato il posto alla Città metropolitana di Roma Capitale. L’eredità comunque resta a carico dei cittadini. A cominciare da un bell’impegno di 263 milioni: l’acquisto della nuova sede unificata, la Torre Parnasi, dal nome della famiglia di costruttori e proprietari dell’area. E i soldi? Arriveranno dalla vendita degli uffici storici: i palazzi di prestigio del centro saranno ceduti per trasferire personale, sportelli e servizi in un’area di estrema periferia all’Eur, lontana dalla metropolitana, tra un centro commerciale e la superstrada. Insomma, per il momento la spesa è certa, le entrate ancora no. I romani devono ringraziare il presidente provinciale Enrico Gasbarra, che ha dato il via all’operazione Parnasi. E il suo successore Nicola Zingaretti, attuale presidente della Regione Lazio, che l’ha portata a termine. Sul suo sito, elencando i meriti della scelta, Zingaretti ammette che «l’idea è stata avviata dalla precedente amministrazione» e che solo così ha potuto evitare «una salatissima penale». Scherzi tra Gattopardi e principi del Pd. Torniamo nell’elegante sede presidenziale di palazzo Valentini, sopra le Domus romane a due passi da piazza Venezia. Piani alti. L’usciere seduto in corridoio si occupa di cose private sul computer portatile. Sì, qui mantengono ancora gli uscieri come ai tempi di Alberto Sordi, Totò e i re di Roma. Ultimo sguardo al piano terra, la sala operativa della polizia provinciale. Porta aperta. Gli affreschi bellissimi e la stanza con il tavolo di faggio e il maxi schermo. La chiamano ancora sala Odevaine, dal nome dell’ex comandante Luca Odevaine arrestato a dicembre con il boss fascista Massimo Carminati per l’operazione «Mafia capitale». Su questo stesso piano, al di là della parete divisoria, c’è anche la sala operativa della prefettura. A un chilometro, la sala operativa del ministero dell’Interno. A un chilometro e cento metri, la sala operativa della questura. La più alta concentrazione europea di monitor, video, personale di turno giorno e notte, telecamere piazzate ovunque. È così che pochi giorni fa, su questi stessi schermi, hanno potuto assistere all’arrivo indisturbato dei tifosi olandesi. E alla devastazione di piazza di Spagna. A Napoli la polizia provinciale, 150 dipendenti, ha addirittura una motovedetta. «Ci tengo a ribadire che in Italia siamo forse l’unica polizia provinciale a possedere un parco nautico così importante», dice Alberto Bouchè, dirigente promosso al grado di comandante della polizia navale della Provincia. A guardarla meglio la presunta motovedetta è un piccolo e comodo yacht cabinato, buono per portare i turisti in gita a Capri. Quella di Napoli è anche l’unica polizia provinciale ad avere una parcheggiatrice abusiva davanti al proprio comando. «Noi siamo riconosciuti come una delle forze più cattive sul territorio rispetto ai reati ambientali», assicura la comandante, Lucia Rea, «questo ce lo riconosce il comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza». Magari. Basta scegliere l’entroterra di Pompei, meta mondiale del turismo. Superata la strada panoramica, si sale a piedi lungo una mulattiera. Siamo nel parco nazionale del Vesuvio, un gioiello naturale. C’è soltanto questo stretto passaggio. Non sarebbe difficile bloccare l’accesso di auto e furgoni. Invece vengono qui a scaricare rifiuti industriali, fusti tossici, vecchi mobili, amianto, migliaia di barattoli di olio e pelati, scarti di verniciatura, frigoriferi. Strati di plastica colorata si alternano alla roccia lavica fin sotto la splendida pineta che abbraccia il vulcano. All’ombra del sottobosco appaiono da lontano distese di funghi colorati. Da vicino si trasformano in quello che sono: colli di bottiglia che spuntano dal terreno. È il paesaggio di Marcovaldo inventato da Italo Calvino. Eppure ad appena cinque chilometri la polizia provinciale ha il suo comando distrettuale. Nei fine settimana, quando aziende e artigiani si liberano dei rifiuti, l’ufficio ovviamente è chiuso. Due anni fa la tv della Provincia (sì, hanno anche la tv) ha girato proprio qui un documentario su Lucia Rea e i suoi agenti. Esclusi i tubi di eternit e un’auto abbandonata che hanno fatto rimuovere, dal giorno delle riprese tutto il resto non si è mosso. E molto altro si è aggiunto. «Chiediamo a questo punto anche l’intervento delle altre forze, come i carabinieri, come la polizia», dice Andrea Valente, comandante del distretto di Nola. Pure loro alla fine devono chiamare la polizia. Quella vera. E che ne sarà delle migliaia di agenti provinciali sparsi per l’Italia? Il viaggio di Fabrizio Gatti fra i Gattopardi di provincia. Fra sprechi, scandali e degrado. Come a Napoli: dove i dipendenti dormono nell'ufficio della Protezione civile provinciale e la struttura che dovrebbe ospitare i senzatetto in caso di calamità è ridotta a una discarica. Molti nuclei hanno dato ottimi risultati. Quindi resteranno. E forse si occuperanno di Protezione civile. Come gli operatori della base di via Cupa del Principe, periferia di Napoli. Con la trasformazione della Provincia in città metropolitana, i dipendenti della Protezione civile sono già passati al Comune. C’è adesso il dirigente? «No, pare che non è venuto», risponde il caposquadra degli addetti alle pulizie e alla manutenzione. Due dei suoi uomini continuano a dormire in ufficio, il terzo guarda i cartoni animati in tv. Dovrebbero andare a rimuovere la sporcizia, le bottiglie, i rifiuti, gli anni di guano di piccione accumulati sulle scale. E magari anche riparare, dove è possibile, i buchi nel tetto, le finestre sfondate. Napoli è una delle città italiane più a rischio. Una base della Protezione civile non può essere ridotta a questo schifo. Si fa avanti il più alto in grado. Stavo vedendo in quali condizioni tenete la sede... Lui ride: «Infatti è meglio non vederla». Lei è il responsabile? «Il responsabile sta in ferie. E poi il dirigente sta a San Giacomo, la direzione. Qui c’è solo la struttura operativa per Napoli». Dovrebbero fare tutti un pellegrinaggio a Vibo Valentia. I dipendenti pubblici non hanno cassa integrazione. Luca Greco, 52 anni, ufficio concessioni della Provincia di Vibo, Bruno Schipano, 47, ufficio ragioneria, Ornella Zappiato, 50, avvocato dell’ufficio legale, e tutti i loro colleghi non vedono soldi da novembre. Fanno i turni per le pulizie degli uffici. Lavorano al freddo. Oppure si raccolgono nell’aula del consiglio. È l’ora di pranzo. Adesso ci si sposta nel garage dei mezzi. Anche oggi salsicce, pane e formaggio. Un bicchiere di vino. Fuori piove, vengono tutti qui. Non solo per mangiare: in tutta la sede, l’unica fonte di calore è la brace sotto la griglia.

Province, lo spreco resiste. Viaggio fra Gattopardi e privilegi. Alla Protezione Civile di Napoli i dipendenti dormono in ufficio mentre la struttura è una discarica. A Roma e Monza si mantengono palazzi inutili. E gli assessori si riciclano con nuovi incarichi. Anche dopo la soppressione, gli enti continuano a macinare debiti, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Napoli, i due dipendenti della Protezione civile della Provincia dormono in ufficio E le Province? Sono state ridotte soltanto sulla carta. Nella realtà continuano a generare potere, favori e sprechi. L'inchiesta di copertina che lancia il nuovo «Espresso» in edicola e online su Espresso racconta il viaggio da Nord a Sud dell'inviato Fabrizio Gatti attraverso l'Italia dei Gattopardi di Provincia: politici, assessori, consiglieri, dirigenti, funzionari ma anche impiegati e operai che hanno sfruttato e sfruttano gli enti pubblici per i propri privilegi. Tante storie di piccolo e grande degrado. C'è l'assessore all'Ambiente della Provincia di Monza che parla al telefono con un costruttore, poi condannato per alcune finte bonifiche: « Devo darti un mucchio di soldi per quel conto che mi avevi aperto lì», dice il costruttore. «Hai ragione», risponde il politico del Pdl che, riformata la Provincia, ha fatto carriera: oggi Fabrizio Sala è assessore all'Expo per la Regione Lombardia. Ecco la telefonata tra l'attuale assessore all'Expo della Regione Lombardia, Fabrizio Sala, e il costruttore brianzolo Angelo Narducci, condannato a gennaio in primo grado per alcune bonifiche fasulle. La conversazione risale al 2010 quando Sala era assessore all'Ambiente della Provincia di Monza. «Devo darti un mucchio di soldi per quel conto che mi avevi aperto lì», dice il costruttore. «Aaaahhh», risponde l'assessore Sala e ripete sei volte: «Hai ragione». L'attuale assessore all'Expo risponde così alle domande dell'Espresso: «Dal 1997 svolgo l'attività professionale di promotore finanziario. Sono quindi tenuto al rispetto del segreto professionale, bancario e al rispetto della privacy». C'è la casa con lo «sconto amico» al figlio del senatore Paolo Romani , anche lui consigliere provinciale. Ci sono i dipendenti nella base operativa della Protezione civile della Provincia di Napoli filmati mentre dormono in ufficio o guardano la tv : intanto intorno a loro la struttura, che dovrebbe ospitare i senzatetto in caso di calamità, è sommersa dai rifiuti. C'è la polizia provinciale che ha addirittura uno yacht mentre vicino al comando di Pompei nessuno controlla le discariche di rifiuti tossici che hanno invaso il parco nazionale del Vesuvio. Rifiuti, abbandono e sporcizia nel parco del Vesuvio. Mentre la polizia provinciale ha pure uno yacht. Ma ecco anche lo spreco della sala operativa degli agenti provinciali di Roma, dove ancora esiste la «sala Odevaine», dal nome dell'ex comandante arrestato nell'inchiesta «Mafia capitale». E le spese folli per la nuova sede della Provincia romana: 263 milioni che due presidenti Pd hanno lasciato in eredità ai cittadini, mentre l'eliminazione delle Province era già in discussione. O la nuova sede in Brianza: oltre 24 milioni di costo e gran parte dei locali vuoti. L'analisi economica mette a nudo conti sottozero e debiti fuori bilancio. I tagli del governo azzerano i servizi, ma non le furbizie. In Sardegna le quattro Province più piccole d'Italia sono state abolite nel 2012, ma continuano a produrre spese: ora si chiamano «ex Province». A Vibo Valentia, una delle Province che ha dichiarato il dissesto, i dipendenti, senza stipendio da cinque mesi, cuociono sulla brace in garage le salsicce comprate con la colletta: così anche chi non può più permettersi di fare la spesa, ha da mangiare.

I dinosauri della burocrazia che non vogliono cambiare. In un libro Corrado Giustiniani chiama dinosauri i 70 mila dirigenti pubblici italiani, che sono «i più pagati del mondo». Non solo: un viaggio nella cancrena dell’immobilismo, scrive Andrea Garibaldi su “Il Corriere della Sera”. Corrado Giustiniani, per 25 anni inviato speciale de «Il Messaggero», ha scritto un libro sui Dinosauri che non sono animali estinti, anzi. Giustiniani chiama dinosauri i 70 mila dirigenti pubblici italiani, che sono «i più pagati del mondo» nel Paese dove «i cittadini sono i peggio serviti». Giudizio generale, che fotografa un «sistema», senza condannare chi lavora con scrupolo. Secondo i dati di Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review, segretari generali, capi di gabinetto, capi dipartimento dei ministeri guadagnano due volte e mezzo i loro colleghi tedeschi, il doppio dei francesi. Nell’agosto del 2014 «The Economist» ha scritto: «Per guadagnare 136 mila euro l’anno una ricerca su Internet rivelerà che tu debba essere il direttore dell’information technology in una società inglese, il governatore dello Stato di New York o un usciere del Parlamento italiano». Il «caso dinosauri» ha un altro aspetto, oltre a quello economico: «Qual è il cuore della questione burocratica in Italia? L’assenza della cultura del risultato», ha detto il giurista Sabino Cassese. Nel libro Giustiniani annota: «Per allacciarsi alla rete elettrica in Germania sono necessari 17 giorni, in Italia 124. Per un permesso di costruzione in Finlandia bastano 66 giorni, in Italia 234». Nell’anno 2009 Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione del governo Berlusconi, fece approvare un decreto «per favorire la produttività, l’efficienza e la trasparenza del pubblico impiego». Prevedeva premi per i migliori. Solo che l’applicazione delle norme non sempre corrisponde agli intenti. In molti casi gli obiettivi per ottenere i premi erano stabiliti dalle stesse amministrazioni. Prendiamo gli Esteri. L’Ufficio comunicazione viene premiato, scrive Giustiniani, se distribuisce almeno 10 mila rassegne stampa (fatte compilare, peraltro, da una società esterna) o esegue almeno 100 accrediti per giornalisti stranieri. La Direzione per la promozione del sistema Paese, che ha il compito di catalogare le opere d’arte nelle ambasciate, si dà metà del premio se visita almeno tre ambasciate in un anno e l’altra metà se le visite guidate alle collezioni della Farnesina staccano almeno 500 biglietti. Gratifiche per il minimo del proprio dovere. I dirigenti pubblici italiani guadagnano in media poco meno di 300 mila euro l’anno. Uno dei provvedimenti del governo Renzi è stato l’imposizione di un tetto a 240 mila euro lordi, prendendo come limite le retribuzioni più basse nel pubblico impiego, moltiplicate per dieci. Positiva inversione di tendenza, dunque, e Giustiniani ne segnala altre. Ecco gli avvocati dello Stato, che non possono più sommare gli alti stipendi alle parcelle obbligatorie che le amministrazioni da loro difese dovevano versare. Ecco, per gli stessi avvocati dello Stato, il divieto di partecipare ad arbitrati. Ecco i tagli alle retribuzioni dei dipendenti di Camera e Senato. Ed ecco, di contro, i ricorsi contro i tagli, quasi duemila nei due rami del Parlamento. Cambiamenti faticosi, da queste parti.

Dinosauri, burocrati che ci affossano. Tra proteste e proposte, un viaggio nell'Italia dei privilegiati, scrive Marzia Apice su “L'Ansa”.

CORRADO GIUSTINIANI, "DINOSAURI. Nessuna riforma ci libererà dai superburocrati di Stato" (Sperling & Kupfer, pp.206, 17 euro). "Li ho chiamati dinosauri nella speranza che si estinguano. Ma poiché hanno 50 anni di media, credo che dovremo aspettare". La prende con ironia il giornalista Corrado Giustiniani, mentre racconta all'ANSA del suo ultimo libro, chiamato per l'appunto "Dinosauri" (Sperling & Kupfer) in riferimento ai tanti burocrati che affollano le strutture dello Stato lasciando per lo più irrisolti i problemi dei cittadini. Stipendi alti, anzi i più alti del mondo nella Pubblica Amministrazione, a fronte di un Paese che oltre alla crisi economica ci mette del suo in tema d'inefficienza, servizi al cittadino inesistenti, per non parlare di corruzione, opacità e lentezze, e commissioni d'inchiesta che si risolvono in una bolla di sapone lasciando ogni cosa inalterata. Iniquità e ingiustizia dilaniano l'Italia, gravandola di una zavorra che sembra essere il primo ostacolo verso la tanto agognata ripresa. "Il problema - spiega il giornalista - è senza dubbio culturale, ma non solo. In Italia, ci sono persone che diventano ricche con i soldi pubblici, che hanno bonus e privilegi pur non raggiungendo i traguardi: questo non è più accettabile, e non si tratta di essere qualunquisti, perché la generazione dei giovani rischia di non avere un futuro". "Se i politici fissano gli obiettivi, i dirigenti pubblici hanno autonomia di realizzazione", continua, "è così dal '93, e non può essere sempre colpa degli altri se non si ottengono risultati. La vittoria di un concorso pubblico non può essere una giustificazione a vita. E' ora che gli uffici divengano fabbriche in cui produrre, come ha ben esemplificato Sabino Cassese". Snello nella struttura e nel linguaggio, appassionante come un'inchiesta, il libro prende per mano il lettore e lo trascina in un viaggio nelle storture italiane, raccontando dati e storie, citando nomi e fonti, enumerando alcuni di quei 70mila fortunati (tra giudici costituzionali, ambasciatori, avvocati dello Stato) che sembrano avere diritto a tutto, senza dover rendere conto del proprio operato. Se è senz'altro necessario agire su più fronti, anche "cambiando la cultura giuridica predominante nella scelta dei candidati dei concorsi - afferma ancora - a tutto discapito della chiarezza nel linguaggio con cui si scrivono i provvedimenti", forse la riforma della pubblica amministrazione targata Renzi-Madia "potrebbe addirittura far sperare in qualcosa di buono". "Ora c'è lo slogan delle riforme anche se non sempre sono una panacea - precisa - i tempi di risposta sono lunghi, ammesso che si riesca a penetrare in tutti i settori. In ogni caso, il ruolo unico della dirigenza e la maggiore mobilità dei dirigenti senza più paletti tra amministrazioni diverse sono un'opportunità, ma la precarizzazione dei candidati con l'incarico a 3 anni li porterà a produrre di più, o li legherà maggiormente al carro della politica?". Una domanda che resta senza risposta, almeno in attesa che la riforma si realizzi, e a cui ne seguono almeno altre tre: come organizzare una Scuola della Pubblica Amministrazione davvero efficace? Perché non si riesce in Italia a "fare i giapponesi", ossia a copiare - visto che da soli non se ne esce - quello che di buono in materia di amministrazione di Stato accade negli altri Paesi? E ancora, perché non ci si ispira ai criteri di assunzione adottati dall'Ue? Un ginepraio di problemi, eppure, da noi non è sempre stato così. "Quando iniziai a fare il giornalista negli anni '70 pensavo, guardando le retribuzioni di allora, che un alto dirigente pubblico avrebbe dovuto guadagnare anche di più, proprio per il difficile lavoro che lo attendeva", racconta Giustiniani con amarezza, aggiungendo che "negli anni '90 c'è stato però un boom retributivo a cui non è corrisposto un miglioramento nei servizi. Ora è tempo di darci una regolata e cambiare verso la trasparenza".

La burocrazia italiana è un dinosauro famelico, scrive Silvano Guidi su “Resegoneonline”. Per le scartoffie che non producono reddito, ma anzi lo consumano, ogni impresa, in media, spende 7.000 euro l'anno. Sembra che il presidente del Consiglio incaricato, Matteo Renzi, ne abbia consapevolezza: la vera metastasi che rallenta lo sviluppo dell'Italia, il tumore pernicioso e silente che succhia e neutralizza le energie vitali del Paese si chiama "burocrazia". Ma sarebbe ancora meglio passare dal terreno astratto di "categoria", che tutti e nessuno colpisce, ai singoli burocrati, agli uomini e donne degli uffici (dal francese bureau, ufficio), agli addetti, con nome e cognome, che esercitano il potere appunto degli uffici (di infimo, basso, medio, mediocre, alto, altissimo, supremo livello). Sono personaggi di potere, interpreti e strumento di regole e procedimenti che solo loro conoscono e manovrano, facendone leva vessatoria, e incentivo alla corruzione, per qualunque cittadino costretto a sottostare alle forche caudine dei bizantinismi normativi. Dall'addetto ad un ufficio pubblico a cui ci si rivolge per una pratica fino al megafunzionario di ministero, che scivola a suo agio fra leggi e regolamenti, i burocrati rallentano, impastoiano, imboscano, negano, concedono; spesso con discrezionalità sacrale. Il vero potere è il loro. I tempi li decidono loro. I costi che derivano dalla loro azione li determinano loro (ma li paghiamo noi). La Cgia di Mestre (associazione molto quotata , per la serietà dei suoi studi, di artigiani e commercianti) ha messo a confronto i servizi alle imprese, offerti dalle amministrazioni pubbliche dei diversi Paesi di Eurolandia, per giungere alla seguente conclusione: la burocrazia italiana è tra le meno efficienti (al 15mo posto in UE e addirittura al 65mo nel mondo), ma in compenso è tra le più onerose, costando ad ogni impresa, in media, 7.000 € l'anno. La burocrazia italiana è pessima fornitrice di servizi (in Europa fanno peggio solo Grecia e Malta) ed è anche la peggiore pagatrice del Continente, tanto che parecchie aziende italiane sono fallite e falliscono non per debiti, ma per crediti non riscossi. Ricorda Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia: "Il 74 per cento degli artigiani e commercianti lavora da solo; pertanto la gestione degli adempimenti burocratici viene svolta direttamente dal piccolo imprenditore oppure, in alternativa, da un fiscalista a cui lo stesso artigiano o commerciante è costretto a rivolgersi. In entrambi i casi perdendo tempo e denaro supplementare". Flavio Briatore non ha peli sulla lingua e accusa: "Il vero problema dell'Italia è la burocrazia: un dinosauro famelico che ha generato infiniti altri piccoli dinosauri che sono ovunque. Bisogna semplificare leggi, in modo che ogni cittadino possa capirle. Oggi invece per capire le leggi servono gli avvocati. E la burocrazia famelica ha creato, a proprio uso e consumo, un linguaggio incomprensibile per giustificare la propria essenzialità e sopravvivenza". Quanti siano i superburocrati in Italia è stima evanescente: il vero potere nasconde se stesso. E questo potere, da domani, lotterà contro Renzi e i suoi ministri, per la gran parte giovani, neofiti e inesperti; e quando non inesperti non sufficientemente grintosi. L'esercito dei burocrati è silenzioso, felpato, inossidabile e guadagna molto, a volte moltissimo. Sono eminenze grigie (ma chissà quanti giovani dinamici professionisti farebbero meglio di loro!) che si scambiano i posti, si coprono a vicenda, occultano gli errori, appartengono alla stessa rete di protezione. Dai, Matteo! Dimostra che hai davvero capito da dove cominciare il ripulisti.

Meglio se taci, scrivono Guido Scorza ed Alessandro Gilioli. Siamo un Paese in cui per aprire un blog bisogna obbedire a una legge del 1948, altrimenti si rischia un processo penale; siamo un Paese in cui non puoi fare il giornalista se non hai la tessera dell’Ordine, ma per avere la tessera devi fare il giornalista. Siamo un Paese in cui un’autorità amministrativa può chiudere un sito web senza nemmeno passare da un giudice. Siamo un Paese insomma nel quale tutto sembra suggerire che «è meglio se taci». Lo scrivere, diffondere e fare informazione è disincentivato dalla paura dei processi, dalla minaccia di risarcimenti milionari, dalla confusione delle norme e dalla burocrazia. Nel loro viaggio, Gilioli e Scorza ci raccontano e spiegano questo paradosso attraverso casi concreti, vergognosi e grotteschi. Non solo per denunciarli, ma soprattutto per cambiare le cose. Nell’interesse della democrazia. La rete è libera. Libera per natura, per definizione, si pensa spesso. Perché chiunque può aprire un blog o postare quello che preferisce sui social network. Chiunque può leggere on line le opinioni più diverse, comprese quelle strampalate, eccentriche, assurde, complottiste, perfi no razziste e violente. Chiunque può caricare o scaricare un video a piacimento, compresi quelli pornografi ci o quelli in cui ci si fa esplodere con una cintura esplosiva; e c’è tutto, in Internet, dal Ku Klux Klan al Califfato islamico, dai teneri gattini al gruppo Facebook che invita all’omicidio di Justin Bieber. E così via...

Meglio se taci”, contraddizioni e censura della libertà di parola sul web in Italia. Nel libro di Alessandro Gilioli (L'Espresso) e Guido Scorza (avvocato e blogger de ilfattoquotidiano.it) il caos normativo in un Paese in cui chi fa informazione online è ancora soggetto alla legge sulla stampa del 1948. E dove il digital divide è aggravato per parte politica da una "radicata subcultura nemica della libertà della rete", scrive Eleonora Bianchini su “Il Fatto Quotidiano”. Ordine e contrordine, uguale disordine. Eccolo l’iter normativo che regola l’informazione sul web in Italia, dove i blog rischiano ancora di essere condannati per il reato di stampa clandestina e chi pubblica notizie può incorrere nell’esercizio abusivo della professione. Perché “non è possibile fare il giornalista senza tessera dell’Ordine, ma per averla bisogna fare il giornalista”. Sono solo la punta dell’iceberg delle contraddizioni riordinate in “Meglio che taci” (Baldini&Castoldi), il libro di Alessandro Gilioli (L’Espresso)e dell’avvocato e blogger de ilfattoquotidiano.it Guido Scorza. Un’inchiesta che attraverso esempi di cronaca mostra come spesso l’interpretazione delle norme si traduca in censura, obiettivo condiviso da disegni di legge presentati in Parlamento che puntano a imbavagliare il web, ignorando che i provvedimenti validi nel mondo reale sono già estesi anche in ambito digitale. Molto lontano dal “far west” immaginato da deputati e senatori, tra i quali prevale “spesso una radicata subcultura nemica della libertà della rete“. Un caso in cui la difesa del diritto d’autore è diventato pretesto per censurare l’informazione è la vicenda del forfait di Gabry Ponte raccontata dall’emittente locale “Vera Tv Abruzzo”, che si è vista rimuovere i video su YouTube dove aveva ricostruito la vicenda. E poi c’è la vicenda di Carlo Ruta, blogger siciliano condannato per il reato di stampa clandestina in primo grado e in appello prima che la Cassazione precisasse che a un blog non è applicabile la legge sulla stampa del 1948. Non ultima la storia di PnBox, web tv di Pordenone che dava semplicemente voce ai cittadini, segnalata all’ordine dei giornalisti per esercizio abusivo della professione. Un’accusa poi smontata davanti ai giudici: l’attività della web tv, hanno detto, “non è paragonabile a quella di un giornalista perché non prevede alcuna rielaborazione critica dei contenuti”. Stessa accusa anche per Pino Maniaci, direttore di TeleJato, tv antimafia di Palermo che dopo due rinvii a giudizio e altrettante assoluzioni, ha preso il tesserino dell’Ordine. Come se la “patente” da giornalista fosse la condizione indispensabile per denunciare fatti criminosi e infiltrazioni mafiose. E questo in cosa si traduce? Nel pagamento nel bollettino annuale all’Odg, che per Gilioli e Scorza è fatto di “burocrati e gabelle” e che “non ha più alcuna funzione se non quella di garantire stipendi, segretarie, uffici e brandelli di potere si suoi incravattati vertici”. Lasciando da parte i casi giornalistici, in Italia il 34 per cento della popolazione non ha “mai aperto un browser” in vita sua. In più, siamo penultimi in Unione Europea per velocità della connessione misurata. Il digital divide italiano però si spinge oltre i confini della banda larga e “della scarsa penetrazione della rete nelle abitudini sociali”. Come? Ad esempio con il compenso per la copia privata promosso dal Mibac di Franceschini, che disincentiva l’acquisto di device digitali. Ed è anche il Paese dell’ostacolo al wi-fi, dove gli esercenti possono rischiare multe da migliaia di euro se mettono a disposizione della clientela alcuni tablet. Perché in base all’articolo 110 del testo unico che disciplina la messa a disposizione del pubblico di apparecchi da gioco – “il cui impianto originario risale a un regio decreto del 1931″ – sono equiparabili alle slot-machine. E se sul fronte trasparenza andasse meglio? Magari. Perché in Italia manca un Free of Information Act (Foia), legge che esiste dalla Svezia al Ruanda, per garantire ai cittadini una pubblica amministrazione trasparente. A dire il vero, ad annunciare un Foia nazionale era stato il governo Monti. Ma il testo non aveva nulla a che vedere con il modello Usa a cui avrebbe dovuto ispirarsi e ribadiva solo quello che le norme già prevedevano. Se esistesse, potremmo, ad esempio, conoscere nel dettaglio il contenuto del famigerato dossier Cottarelli sulla spending review. Proprio quello che né Palazzo Chigi né il Ministero dell’Economia allo stato attuale riescono a trovare. Oltre i confini nazionali, poi, rimangono aperte le domande sulle policy arbitrarie di Facebook e Google, big player che godono di potere incontrastato sul mercato virtuale e che decidono anche quali notizie possono pubblicare gli utenti. In occasione della diffusione del video della decapitazione di James Foley, ad esempio, Dick Costolo di Twitter ha avvisato che la pubblicazione degli immagini avrebbe potuto causare la sospensione dell’account. Questioni in cerca di sintesi e risposte, che coinvolgono Europa e Stati Uniti. Senza spingersi tanto oltre, però, possiamo limitarci al recinto italiano. Per vedere che anche dentro i nostri confini c’è già – e ancora – molto da fare. Alessandro Gilioli, alla faccia della rete libera, scrive Ilaria Bonaccorsi su “Left”. Meglio se taci. Alessandro Gilioli, giornalista de L’espresso, e Giulio Scorza, avvocato e docente di diritto delle nuove tecnologie, nel loro ultimo libro “istigano” alla rivoluzione, quella per la libertà d’informazione che passa per «un accesso libero, non discriminatorio e neutrale alla rete». Una rivoluzione già in atto, di cui protagonisti sono «tanti ragazzini pieni di estro, genio, creatività che all’estero danno vita a piattaforme di informazione dal basso, citizen journalism e whistleblowing in stile Wikileaks» ma che in Italia, raccontano i due autori, avrebbero gettato la spugna, patteggiato la minore delle pene possibile e rinunciato ad esprimersi. Troppo duro lo scontro contro il dinosauro a tre teste (malapolitica, tv e giornalismo della carta) che non ha intenzione di estinguersi, né di evolversi, e sbatte la coda per sfasciare tutto. Un colpo è, per esempio, l’ultimo ddl che riforma la legge sulla stampa, approvata al Senato e in discussione alla Camera. Per capire se è veramente l’ennesima «legge bavaglio», ne abbiamo parlato con Alessandro Gilioli.

Il dubbio che questo ddl possa essere una difesa contro tanto pessimo giornalismo le è mai venuto?

«Certo che sì: la nostra categoria è sputtanata almeno quanto quella dei politici e l’Ordine renderebbe miglior servizio al Paese se si autodissolvesse, dato che serve solo a perpetuare se stesso e a mettere recinti alla libera comunicazione. La battaglia invece è per non far retrocedere ulteriormente un Paese che è già al 49° posto nel mondo per libertà di espressione: non per difendere una categoria scarsamente stimata».

Una delle cose che prevede questa riforma è che in caso di diffamazione non ci sia più il carcere per i giornalisti, ma multe fino a 50mila euro. Eppure giuristi e cronisti sono arrivati a dire: #meglioilcarcere. Perché?

«La nuova norma è stata pensata per mettere al sicuro politici e potenti del-l’economia non “dai giornalisti”, ma dalle critiche in genere, anzi soprattutto da quelle dei semplici cittadini, sui social  o nei blog. I giornalisti assunti in un’azienda non temono più di tanto quelle multe, che vengono pagate dagli editori che sono assicurati; al contrario, i cittadini che non hanno le garanzie dei giornalisti assunti si troveranno in una condizione di maggiore fragilità. Lì scatterà l’autocensura».

Altro punto contestato del ddl è il diritto all’oblio: chi crede di essere oggetto di diffamazione potrà scrivere a siti web e persino a motori di ricerca, chiedendo di eliminare quei contenuti ipoteticamente diffamatori.

«Sul diritto all’oblio la soluzione più intelligente mi pare quella indicata dal Garante per la Privacy, nel 2013, quando ha proposto di non cancellare nessuna notizia, anche se superata dai fatti, bensì di aggiornarla. Quindi se uno scrive che il signor Y è probabilmente un ladro e poi il signor Y viene prescritto o assolto, non si cancella l’accusa ma la si integra con un visibile “update”. Tutte le altre formule di diritto all’oblio, in questa legge così come nella sciagurata sentenza della Corte di giustizia dell’Ue che delega il potere di cancellazione a Google, sono violazioni del diritto alla conoscenza, alla cronaca, alla storia».

Ma le risposte vanno date. Le regole della comunicazione da noi sono ferme al 1948. Chi deve farlo e come?

«Contemperare il diritto alla privacy e all’onorabilità con il diritto di cronaca e di opinione non è facile, ma nemmeno impossibile. Pensare che la strada giusta sia quella penale, nel 2015, è fuori dal tempo. Oggi il patrimonio più importante per ogni cittadino è la reputazione: tanto quella di chi ha diritto a non vedersi attribuire pubblicamente fatti che non ha commesso, quanto quella di chi scrive le sue opinioni, sia giornalista o no. Quest’ultimo perde ogni autorevolezza e credibilità se viene identificato come “bufalaro”: quindi il modo migliore per contemperare i due diritti sarebbe semplicemente un sistema di rating (publico) che classifica sia chi scrive sia chi fa causa contro chi scrive. Dopo la quarta o quinta volta che un giudice stabilisce che Tizio è un bufalaro chi crederà più a quello che scrive Tizio? Dopo cinque o sei volte che Caio fa causa per diffamazione e il giudice gli dà torto, che reputazione avrà Caio, se non quella di chi tenta di censurare? Oltre questo scenario forse futuribile, già da subito si possono bilanciare meglio le cose. Ad esempio, se il querelante ha torto, alla fine paga lui, fino all’ultimo euro, rimborsando anche i danni morali di chi ha dovuto perdere il sonno per difendersi da un’accusa infondata».

Nel libro ripetete che «un “freedom of information act” sarebbe un antidoto contro le mazzette». Ma che l’unica cosa che si percepisce in Italia è un «ostruzionismo burocratico regolamentare». Domanda retorica: un’informazione poco trasparente serve a una politica poco trasparente?

«Un Freedom of information act costringerebbe alla più assoluta trasparenza su appalti e gare, e quindi sarebbe un colpo contro la corruzione a ogni livello. Ma, certo, è un po’ come con il famoso tacchino che difficilmente è felice quando arriva il Thanksgiving: non tutta la politica è così entusiasta di una norma che abbatte la corruzione».

Anche la rete non è un’oasi di libertà. facebook, twitter e google sono i padroni, noi gli ospiti. Da una parte loro garantiscono la comunicazione, dall’altra si riservano diritti e poteri assoluti.

«Siamo talmente imbevuti di mentalità proprietaria e privatista da considerare normale che Facebook ci possa censurare perché “tanto è un’azienda privata”. Sciocchezze: l’iniziativa privata non può prescindere dall’interesse pubblico. E l’articolo 21 della Costituzione non può essere calpestato da presunte policy aziendali e da censori che spesso non capiscono gli stessi contenuti perché scritti in altre lingue. Nel libro abbiamo raccontato tre o quattro casi di censura esilaranti, per la loro stupidità. Ma non c’è molto da ridere, se le corporation del web diventano i nuovi poliziotti della Rete».

A chi tocca decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato che il mondo veda? Sulla carta lo decidono l’editore e il direttore, ma è giusto che riguardi anche un intermediatore di contenuti altrui?

«Se l’intermediatore non ha responsabilità per i contenuti immessi da altri, com’è giusto e com’è stato stabilito a livello Ue, non si capisce perché poi debba avere il potere di filtrare e censurare contenuti. Se usa questo potere, assume implicitamente la responsabilità di quanto fa apparire e contraddice quella non responsabilità a cui tutti gli intermediatori tengono moltissimo. È una questione da risolvere con norme nazionali o internazionali che siano cogenti e rispettino i principi di libertà costituzionale: nessun intermediario, in nessun Paese, può essere più censorio delle leggi del Paese in questione. Ad esempio, in Italia: nessuna censura preventiva e la possibilità di oscurare un contenuto solo su decisione della magistratura, che valuta sentendo le parti e concedendo appelli. Sono principi di base. Oggi Fb, Twitter o Youtube invece sono allo stesso tempo poliziotti, giudici e legislatori».

«La poca democrazia dei network può indebolire quella della società reale», denuncia il filosofo Peter Ludlow. Sta accadendo questo?

«Ludlow fa presente che se ci abituiamo a pensare che è lecito e normale essere censurati da un’azienda digitale, disimpariamo a considerare la libertà d’espressione un valore inalienabile e rischiamo di finire per considerare accettabile essere censurati in genere. Temo non abbia torto».

Le cinque cose peggiori di quello che definite il bestiario della regolamentazione anti-digitale italiana?

«Più che di regolamentazione anti-digitale, anche se poi molte norme impattano soprattutto sulla rete, parlerei di norme contro la libertà d’espressione, che ci dicono appunto “meglio se taci”. Tra le varie brutture ci sono senz’altro la norma del 1948 sulla stampa clandestina, che oggi non so se fa ridere o piangere; il reato di esercizio abusivo della professione giornalistica, che è frutto del combinato tra l’articolo 348 del Codice penale e la legge sull’Ordine del 1963; la legge 41 del 1990, che è il contrario esatto di un Freedom of information act; il regolamento Agcom sul copyright, che rende il nostro Paese l’unica democrazia al mondo in cui un’autorità amministrativa e di nomina politica può oscurare dei siti Internet. Poi ovviamente ci sono infinite regole minori che, interpretate in modo stupido, producono risultati tragicomici. Nel libro raccontiamo la vicenda del titolare di una piadineria di Asti che è finito nei guai per aver messo a disposizione dei clienti quattro tablet: gli è arrivata la Finanza contestandogli di gestire “apparecchiature atte al gioco d’azzardo”, perché ovviamente con i tablet si può “anche” andare sui siti di scommesse.»

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

Papa Francesco condanna la strage di Charlie Hebdo, ma "non si può insultare la fede", scrive “Libero Quotidiano”. "È una aberrazione uccidere in nome di Dio" ma "non si può insultare la fede degli altri". Con queste parole, pronunciate a bordo dell’aereo diretto nelle Filippine e riferite da Radio Vaticana, Papa Francesco interviene sull’azione dei terroristi islamici a Parigi contro Charlie Hebdo. "Non si può prendere in giro la fede", avverte il Papa.  "C’è un limite, quello della dignità di ogni religione". Per Bergoglio, sia la libertà di espressione che quello di una fede a non essere ridicolizzata "sono due diritti umani fondamentali". Alla domanda di un cronista francese che gli chiedeva "fino a che punto si può andare con la libertà di espressione", il Pontefice ha chiarito: sì alla libera espressione "ma se il mio amico dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno". Questo il limite che secondo il Papa regola la libertà religiosa: "Non si giocattolizza la religione degli altri", dice Bergoglio. Francesco ha ricordato che la "libertà di espressione è un diritto, ma anche un dovere". Neppure, dice il Papa, "si offende la religione", ma in questo caso "non si reagisce con violenza". Poi ha spiegato, "senza mancare di rispetto a nessuno" che "dietro ogni attentato suicida c'è uno squilibrio, non so se mentale, ma certamente umano". In una nota diramata subito dopo la strage Bergoglio aveva condannato "ogni forma di violenza, fisica e morale, che distrugge la vita umana, viola la dignità delle persone, mina radicalmente il bene fondamentale della convivenza pacifica fra le persone e i popoli, nonostante le differenze di nazionalità, di religione e di cultura". Il Papa aveva precisato che "qualunque possa esserne la motivazione, la violenza omicida è abominevole, non è mai giustificabile e la vita e la dignità di tutti vanno garantire e tutelate con decisione. Ogni istigazione all’odio va rifiutata, il rispetto dell’altro va coltivato". E ancora: tre giorni fa Bergoglio, ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, aveva detto che "la tragica strage avvenuta a Parigi" è una dimostrazione che "gli altri non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti: l’essere umano da libero diventa schiavo, ora delle mode, ora del potere, ora del denaro e perfino di forme fuorviate di religione". Rispetto alle minacce dirette dai terroristi fondamentalisti di matrice islamica contro il  Vaticano e il pontefice, Papa Francesco assicura di affrontare questo pericolo "con una buona dose di incoscienza". Il Papa - come riferisce ancora Radio Vaticana - afferma semmai di "temere soprattutto per l’incolumità della gente", con migliaia di fedeli che tradizionalmente affollano le sue udienze generali in piazza San Pietro e gli ’Angelus’ dal Palazzo Apostolico e sottolinea che "il miglior modo per rispondere alla violenza è la mitezza".

Ferrara su Papa Francesco: "Le sue parole su Charlie non sono una gaffe. Sono molto peggio", scrive “Libero Quotidiano”. "Se dici una parolaccia su mia mamma ti devi aspettare un pugno", ha detto ieri Papa Francesco a proposito della libertà di espressione e della blasfemia. "È aberrante uccidere in nome di Dio", ha detto il gesuita Bergoglio, ma è sbagliato anche "insultare le religioni". Parole molto forti pronunciate mentre era in aereo in volo verso le Filippine che hanno in qualche modo hanno stupito cattolici e non. E proprio a quelle parole Giuliano Ferrara dedica oggi il suo editoriale sul Foglio sottolineando che "il fantasma di Voltaire e della sua irrisione delle religioni, dai maomettani ai papisti agli ebrei, il fantasma di un Charlie del Settecento, è ancora troppo vivo, nonostante si faccia finta di averne cancellato anche il ricordo con il Concilio ecumenico vaticano II". "Perché il Papa ha parlato in modo da essere identificabile come il tutore dell' autodifesa della dignità delle religioni invece che come il custode della sacralità della vita umana e del diritto alla libertà d' espressione?", si chiede il direttore del Foglio. La risposta arriva un paragrafo più sotto: "Non credo sia una gaffe, modalità a parte, ché il magistero posta aerea è effettivamente un po' troppo colloquiale per valere erga omnes. Non ha perso la brocca, il Papa, il che sarebbe umano, possibile, riparabile. C' è dell'altro. C'è la convinzione, comune al Papa e a molta cultura irenista occidentale, che si debba convivere con l'orrore, che il distacco concettuale e spirituale dell'islam dalle pratiche violente del jihad è una conquista che spetta eventualmente all'islam di realizzare, che non esiste alternativa alla sottomissione o all'abbandono al dialogo interreligioso". Del resto, spiega Ferrara nell'articolo firmato con l'elefantino rosso, "per quanto si voglia essere Papa del secolo e nel secolo, per quanti omaggi si facciano, anche per i creduloni, alla libertà piena di coscienza come fondamento della fede, della possibilità della fede, alla fine quel che conta è non perdere il contatto con l'universo islamico, e la chiesa sa bene, ben più e meglio di altri, che il nemico violento non è il terrorismo ma l'idea coranica radicalizzata di cui il terrorismo è il frutto". "Parole e gesti del Papa, le risate risuonate nella carlinga del suo aereo, la metafora del pugno risanatore che colpisce e ripara l'offesa alla dignità, la declamazione tra pause teatrali del concetto "è normale, è normale", tutto questo non è gaffe", conclude Ferrara. "E' di più e peggio". "La piazza araba militante, gli imam che predicano nelle moschee e riluttano a un rigorosa condanna della decimazione con fucile a pompa di redazioni di giornale e negozi ebraici, da ieri si sentono meno isolati, meglio protetti dalla convergenza con il Papa di Roma".

Giuliano Ferrara: "#JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly, vi spiego perché provo pena e ammirazione per gli stragisti di Parigi", scrive “Libero Quotidiano”. Controcorrente. Sempre. Sin dal principio della questione, che ne è anche il presupposto, ossia quell'idea di essere in "guerra santa" contro l'islam gridata negli studi di Servizio Pubblico, idea espressa pochi minuti dopo l'attacco al Charlie Hebdo in un videoeditoriale sul sito del Il Foglio. "Guerra santa", appunto, il presupposto di Giuliano Ferrara, un concetto rifiutato con sdegno da gran parte dell'auditorio, da chi opera dei distinguo forse necessari, ma non per l'Elefantino. E sul tema, Ferrara, ci torna nel suo editoriale su Il Foglio di lunedì, pur prendendolo da una prospettiva diametralmente opposta che emerge sin dal - controverso - titolo: "#JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly: ecco perché". Il direttore parafrasa lo slogan #JeSuisCharlie e lo dedica ai tre protagonisti dell'orrore di Parigi, ai tre terroristi islamici. Ferrara spiega nell'attacco: "Una pena profonda e un'ammirazione per il loro fanatico coraggio mi legano ai nemici, ai fratelli Said e Sherif Kouachi e Amely Coulibaly. In un certo senso di origine cristiana, #JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly". L'Elefantino prosegue: "Hanno assassinato persone più o meno come me, libertini della mia razza culturale e civile, gente che disegnava e rideva e sbeffeggiava, con una tinta blasfema che non ho ma che comprendo perfettamente nella dismisura anarchica e fragile e folle del loro essere artisti in una società secolarizzata e nihilista". Il direttore traccia nitidamente i contorni del suo sentimento, della "pena" e dell'"ammirazione", e sottolinea: "Mi vengono non da quella abbondanza di misericordia e di accoglienza che è diventata una pappa senza intimo rigore logico, senza giustizia linguistica, senza verità che non sia sentimentale. Non dal cuore ma dalla testa. Perché non è vero che tutto questo, come ha infelicemente detto Francois Hollande e come ripete lo stolto collettivo sul teatro mondiale della correttezza politica, non ha nulla a che fare con l'islam". I dettagli multiculturali - Ferrara nel suo editoriale si addentra nel "diritto come sharia, come legge divina", parla di Egitto, di Torquato Tasso dell'eroe cristiano Tancredi. Un lungo presupposto per rimarcare come "i dettagli meno multiculturali della storia tragica di Parigi sono come scomparsi". E secondo lui, senza comprendere a fondo quei "dettagli", non si può comprendere a fondo l'intera vicenda, che come Ferrara ha ripetuto negli ultimi giorni non è "terrorismo", bensì "guerra santa". Tornando sui terroristi, l'Elefantino ricorda come "hanno scelto di eseguire un ordine divino che impone di castigare la blasfemia come è accaduto a Charlie Hebdo". E ancora: "Hanno scelto la morte degli altri, e la loro, in un rito culturale di conversione e arruolamento, di esecuzione della legge coranica, al quale hanno saputo corrispondere fino alla fine nella follia della testimonianza di gioventù, uscendo allo scoperto e sparando all'impazzata davanti alla falange dei gendarmi di cuoio, oppure pregando alle cinque, ora del blitz, e correndo poi verso l'esecuzione nel negozio kosher". I dettagli, appunto. Ferrara insiste ancora sui dettagli, e nella conclusione dell'articolo di fondo ribadisce: "Sono dettagli importanti, sono il punto di vista che conta, più della rapida capacità di allineamento menzognero al mainstream politico islamo conformista di un capo Hezbollah o di un presidente iraniano che si dissociano a sorpresa". Il punto, per il direttore, è che il pensiero buonista e dominante rischia di far perdere il fuoco dell'obiettivo. Così Ferrara sottolinea, riferendosi ai terroristi: "Se li degradate a lupi, degradate voi stessi. Disconoscete il nemico. Non sarete mai capaci di combatterlo né di amarlo. Al posto del vangelo, libro eccelso, primitivo e terribile e selvaggio, metterete il prontuario della cultura del piagnisteo, una specie di ideologia che fa dello scontro di religione e di civiltà in atto una storiaccia di cronaca nera e di impazzimento terrorista". Ma per Ferrara, bene ribadirlo ancora una volta, è tutt'altro: è "guerra santa".

Mario Giordano: Basta, ecco perché non posso più dire "Je suis Charlie Hebdo", scrive su “Libero Quotidiano”. Scusate, ma devo dire una cosa un po’ difficile, forse persino un po’ dolorosa. Anche per me stesso. Però devo dirvela: è da stamattina che non mi sento più tanto Charlie. Anzi, proprio per nulla. Je ne suis pas Charlie. Je ne suis plus Charlie. Ne ho avuto la netta sensazione sfogliando il nuovo numero del settimanale satirico francese appena arrivato in edicola. Guardavo le pagine, diventate loro malgrado il simbolo della nostra civiltà offesa, e pensavo: ma possono essere davvero il simbolo della nostra civiltà offesa? Abbiate pazienza, ma io in quelle vignette non mi riconosco. Nemmeno un po’. Anzi, al contrario: penso che qui dentro, dentro questi fogli della sinistra sessantottarda, dentro questa cultura anarchica e distruttiva, dentro questi schizzi blasfemi che fanno a pezzi i nostri valori, dentro gli sberleffi che mettono alla berlina i nostri credi, ci sia il motivo vero della debolezza occidentale. Il motivo per cui siamo in balia di un nemico così terribile come quello islamico. Sia chiaro: da questo nemico terribile Charlie Hebdo va difeso con ogni mezzo perché dobbiamo salvare la libertà di espressione. Ed è stato giusto, per una settimana, essere diventati tutti Charlie, con quello slogan che ha riempito le piazze, Je suis Charlie, Nous sommes Charlie... Ma un conto è difendere la libertà di esprimersi, un conto è difendere ciò che viene espresso: la differenza, ne converrete, non è nemmeno così sottile. Siamo pronti alla battaglia per garantire la libertà di Charlie Hebdo di disegnare e scrivere ciò che vuole. Ma allo stesso modo dobbiamo essere liberi di dire che quello che Charlie Hebdo disegna e scrive non ci piace. Nemmeno un po’. Perché Charlie Hebdo incarna in sé il peggio del nichilismo post-Sessantotto, il peggio del gauchisme radical-nullista, il peggio della rivoluzione permanente ed effettiva. Si sono messi contro gli islamici perché amano da sempre mettersi contro tutto: contro gli ebrei, contro i cattolici, contro la Patria, contro l’esercito, contro le istituzioni, contro la famiglia, contro l’ordine, contro la sicurezza, contro la polizia, contro il commercio, contro le imprese, contro l’idea stessa di nazione e contro ogni Dio. Amano, cioè, mettersi contro tutto quello che costituisce il fondamento stesso di questa società occidentale, che pure oggi li difende a spada tratta. Ma da cui loro - ne siamo sicuri - continuano a sentirsi estranei. Anzi: avversari. Perché, diciamocela tutta, questa società occidentale che li difende a spada tratta a loro fa un po’ schifo. E allora Je suis Charlie, sicuro, fin che devo difendere il diritto di questi colleghi a dire la loro opinione. Ma Je ne suis plus Charlie se devono identificarmi con loro, che bestemmiano Dio, insultano le tradizioni, e usano il sacrosanto diritto di opinione per minare la società che glielo garantisce. Dunque, da oggi, visto che il settimanale è di nuovo uscito, scusate ma Je ne suis plus Charlie. Je ne suis plus Charlie perché non voglio e non posso accettare che i simboli della nostra società attaccata dal terrore islamico diventino proprio coloro che la nostra società la odiano. Coloro che la vorrebbero abbattere. E che la mettono in pericolo ogni giorno attaccandola nei suoi valori fondamentali. Se, in questa battaglia, dobbiamo metterci in fila dietro una bandiera, mi piacerebbe che essa fosse la bandiera della libertà dell’Occidente. Non un foglio che l’Occidente, al contrario, lo disprezza. Invece si sta compiendo proprio questo. Un po’ per interesse (operazione Hollande), un po’ per soggezione culturale (la predominanza della sinistra), alla fine la difesa dell’Europa colpita al cuore si è trasformata nella difesa tout court dei contenuti (assai discutibili) di una rivista. Fateci caso: anche se nella carneficina di Parigi sono morti agenti, ebrei, custodi di palazzo, alla fine tutto si riduce al simbolo di Charlie Hebdo. Al suo messaggio irresponsabile e irriverente. Questo è l’errore fondamentale. Perché non dobbiamo dimenticare che nella guerra contro il fondamentalismo islamico la loro forza è la nostra debolezza. Se loro osano alzare le armi contro di noi è perché noi siamo in ginocchio, se credono di poterci sottomettere ai loro valori è perché noi abbiamo rinunciato ai nostri, se ritengono di poterci imporre le loro tradizioni è perché noi abbiamo rinunciato alle nostre. E di questa rinuncia il settimanale francese è la dimostrazione più lampante. Perciò, dopo essere stato per una settimana Cabu, Charb, Wolinski, Tignous, da oggi mi sento in dovere di dirvi: maintenenat non plus. Ora non più. Per difenderci davvero non possiamo essere Charlie.

Dopo Charlie Hebdo: perché bisogna fermare la censura dei buoni. Si comincia a ritenere che chi critica vignette blasfeme sia contro la libertà. E chi ha una posizione culturale ben definita ostacoli l'integrazione, scrive Marco Cobianchi su “Panorama”. Temo che dalla grandiosa marcia parigina nasca un nuovo tipo di censura. La censura dei buoni. La censura di quelli che vogliono abbassare i toni; quelli che se dici che siamo di fronte ad una guerra e non a dei terroristi, fomenti l’odio; quelli che sanno ciò che è opportuno dire e cosa no e se non collabori, allora sei un guerrafondaio, un estremista, un fondamentalista anche tu. Oppure un cretino. La censura dei buoni è funzionale al disegno del potere: nessun leader europeo (Hollande è scusato) ha osato esprimere un’opinione diversa dal “sono terroristi, la religione non c’entra” e così i assassini diventano “sedicenti islamici” e a chi fa notare che mentre macellavano innocenti gridavano “Allah Akbar” viene tacciato di perseguire lo scontro di civiltà. Ecco perché i terroristi sono diventati "sedicenti islamici". Davanti a chi ha una posizione diversa i buoni sono pronti a sventolare il ditino inquisitore spiegando che così non si fa il bene dell’umanità che consiste nell’integrazione e nel dialogo. E siccome l’ostacolo maggiore al dialogo sarebbe avere una posizione culturale, religiosa, sociale ben definita, allora la colpa della mancata integrazione è tua. L’unica posizione culturale accettata diventa così quella laica che, indifferente a tutto, non fomenta l’odio. Perciò bisogna, adesso più di prima, stare attenti a non cadere nell’eccesso contrario facendo passare l’idea che Charlie Hebdo è un giornale di anarchici scapigliati e va difeso mentre chi ritiene le sue vignette volgari, blasfeme e ripugnanti sta armando le mani degli assassini. Bisogna stare attenti a non accusare chi esercita la propria libertà di critica di intelligenza con il nemico. Bisogna vigilare, perché questo tipo di censura dei buoni è in grado di devastare lo spazio pubblico togliendo libertà a chi non è allineato con il pensiero mainstream. Quello secondo il quale solo chi non crede in niente accetta tutto ed è pronto a dialogare con chiunque. Per dirsi cosa, poi, non si sa. La censura dei buoni è quella che pensa che la pace nel mondo, che si raggiunge con l’integrazione, è un fine talmente nobile che della libertà della singola persona si può anche fare a meno.

Solidarietà già finita: "Charlie se l'è cercata". E Greta e Vanessa no? Buonismo addio, per i vignettisti trucidati spuntano i distinguo. Per le nostre cooperanti amiche dei nostri nemici, invece..., scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Dire che non siamo sorpresi ci farebbe apparire presuntuosi, nonostante avessimo segnalato, già dal giorno della strage di Parigi, il diffondersi dell'opinione che i giornalisti di Charlie Hebdo se lo sono cercata. Certo, nel mondo dell'islam radicale hanno esultato perché chi ha offeso Maometto, secondo il loro delirante pensiero, va punito con la morte. Ma scoprire che, anche in Europa, ci sia più d'uno che definisca l'orrendo massacro solo una brutale conseguenza delle continue provocazioni del settimanale satirico, ci fa inorridire. Perché questo significa abbracciare le tesi dei fondamentalisti e diventare, di fatto, loro fiancheggiatori. Esageriamo? Tutt'altro. È come se si giustificassero le stragi delle foibe, perpetrate dai partigiani di Tito contro la popolazione italiana di Venezia Giulia e Dalmazia alla fine della seconda guerra mondiale: il regime fascista è stato brutale durante l'occupazione dell'ex Jugoslavia, quindi è naturale e giusto che tutti gli italiani, indistintamente, siano sterminati. Una tesi riprovevole, anche se tanto cara, fino a pochi anni fa, ai comunisti nostrani. Ma Charlie Hebdo non è stato neppure un regime brutale. Ha esagerato nella sua satira anti religiosa? Secondo la legge, no. E, fino a prova contraria, nei Paesi del Vecchio Continente sono in vigore norme in sintonia con la democrazia moderna e non con la sharia. Se la maggioranza dei cittadini deciderà in futuro di modificare le leggi sulla libertà d'espressione, allora giornali e tv si adegueranno. Ma guai a farlo per compiacere qualcuno o nel nome del «politicamente corretto». Se uno crede che la satira superi i limiti della decenza, può sempre rivolgersi a un tribunale e chiedere giustizia. Nei Paesi civili funziona così, almeno fino a quando anche in Europa, grazie alla politica delle porte aperte, non nasceranno le prime teocrazie. È comprensibile che Papa Francesco ritenga inaccettabile che la fede sia ridicolizzata, lui è un leader religioso. Meno accettabile è che lo sostengano esponenti laici, garanti della libertà d'espressione o, addirittura, fondatori di giornali satirici, come Henri Roussel, uno dei padri di Charlie Hebdo , che ha criticato il direttore assassinato per le sue scelte editoriali. La blasfemia non è più un reato, grazie alla laicità dello Stato, e in Francia questo è accaduto già nel 1789. Non sappiamo se a spingere queste persone sia la paura o altro, ma il loro modo di interpretare le stragi del terrorismo jihadista è uno schiaffo ai nostri valori e un assist a chi dell'estremismo continua a fare la sua bandiera. Se si usasse la stessa malevolenza, oggi si dovrebbe dire che Vanessa Marzullo e Greta Ramelli andavano lasciate al loro destino perché se la sono cercata. Sono entrate illegalmente in Siria attraverso la Turchia, sapevano di andare in un Paese dove era in corso una guerra civile, hanno fatto una scelta di parte diventando amiche del «nemico». Cosa si aspettavano, che sventolare una bandiera anti Assad avrebbe fornito loro l'immunità?

Siria, Candiani (Ln): Magistratura indaghi onlus per circonvenzione d'incapaci, scrive “Libero Quotidiano”. “Nella vicenda di Greta e Vanessa consiglierei ai magistrati di aprire un filone di indagine anche per ‘circonvenzione d’incapaci’: devono essere perseguite anche quelle associazioni ed onlus poco serie che spingono le persone a rischiare la vita, senza le adeguate tutele e i minimi requisiti di sicurezza”. A dirlo il senatore leghista Stefano Candiani, in relazione alla liberazione delle due cooperanti. “La magistratura faccia approfondite indagini sui ‘reclutatori’ che, indottrinando al terzomondismo, mandano allo sbaraglio i giovani e li espongono così ai peggiori pericoli”. Candiani punta il dito contro “l’atteggiamento irresponsabile e colpevole di chi fa ideologia a basso costo, mettendo a rischio la vita di attivisti, militanti, cooperanti, e di chi è poi chiamato a occuparsi dei rapimenti”. “Oggi i cattivi maestri sono responsabili di aver messo a repentaglio vite umane e, nella malaugurata ipotesi (peraltro non smentita da Gentiloni) che sia stato pagato un riscatto, anche di tutti gli italiani nel mondo, che oggi rischiano di essere prede facili del crimine internazionale, che ha capito la scarsa serietà del paese italico”.

Greta e Vanessa, il giornalista del Foglio: "Non mi trovavo con loro". Daniele Raineri scrive che, quando avvenne il sequestro delle due italiane, era ad alcuni chilometri di distanza. "Cercavano anche me", scrive Lucio Di Marzo su “Il Giornale”. C'era anche Daniele Raineri con Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, la sera che le due italiane sono state rapite in Siria? Questo si è detto dal giorno del loro sequestro, sostenendo che l'inviato del Foglio fosse riuscito a fuggire dall'abitazione dove si trovavano tutti e tre, mentre le due volontarie venivano catturate. Una storia su cui oggi ha detto la sua anche il diretto interessato, che in un articolo pubblicato sul quotidiano di Giuliano Ferrara sostiene invece che no, quella notte non si trovava con le due ragazze italiane. "Ero a circa venticinque chilometri dalla casa dov'erano loro", scrive Raineri. In una casa di campagna, usata come base dai ribelli, "a sud di Aleppo". La versione del giornalista sembra dunque smentire uno dei dettagli legati al sequestro, spiegando che nell'abitazione ("Il capo della casa era un ex soldato delle forze speciali di Assad") ci è rimasto fino al mattino alle cinque. Poi alcuni colpi alla porta e la notizia, portata da due siriani, del sequestro di Greta e Vanessa, per mano di un gruppo che in quel momento non si riesce a identificare. Forse - prova a ricostruire il Fatto Quotidiano, grazie ad alcuni documenti del Ros - sono "rimaste vittime proprio di quelli che volevano soccorrere", se è vero che il loro progetto era anche in funzione di supporto a quell'Esercito libero composto da gruppi che l'Occidente ha spesso identificato come moderati.

Ma così siamo il bancomat dei terroristi, scrive Francesco Maria De Vigo su “Il Giornale”. Sono libere. Sono vive. È una buona notizia e, ora più che mai, ne abbiamo bisogno. Ma ci sono tanti “ma”. E non si possono tacere. Il primo è che se loro stanno bene, in compenso, il nostro stato non gode di altrettanta buona salute. Il governo infatti avrebbe pagato dodici milioni di euro di riscatto per Greta e Vanessa. Un conto salatissimo in un Paese che, per legge, congela i beni dei parenti di chi è stato sequestrato. Ma qui i parenti, si fa per dire, sono lo Stato, siamo noi. Ed è noto che per lo Stato non valgono le leggi dello Stato. Bene, dunque dobbiamo farci una domanda: è giusto pagare i terroristi? Perché è chiaro che se noi – gli italiani, gli occidentali -, paghiamo il riscatto per ogni nostro concittadino, ogni nostro concittadino – italiano, occidentale -, diventa un salvadanaio deambulante per qualsiasi tagliagola. Una slot machine facile da sbancare. Ma così ci trasformiamo nel bancomat dei terroristi. Ed è abbastanza stupido. Dodici milioni sono tanti, abbastanza per armare un plotone di jihadisti (nel deep web con 1500 euro si compra un kalashnikov). Non possiamo dare la paghetta, e che paghetta!, a chi ci vuole sbudellare. Parliamoci chiaro: possiamo farci carico di tutti gli sprovveduti che pensano di farsi una “vacanza intelligente” in una zona di guerra, di fare il buon samaritano a spese nostre? No. Non lo dico solamente perché le due ragazze pensavano che Assad fosse il babau e i suoi nemici dei chierichetti vessilliferi della libertà più specchiata (questo lo pensava – erroneamente o con complicità – anche buona parte della stampa internazionale). Lo dico perché lo Stato italiano non può fare da badante a qualunque suo cittadino, che si tratti del più stupido o del più intelligente, si cacci nei guai nell’ultimo pertugio del mondo. Specialmente in un periodo in cui non riesce a garantire la minima sussistenza anche a chi se ne sta comodamente seduto sul divano di casa sua. Ma avanza un’altra domanda: perché lo Stato che non ha trattato (giustamente) con le Br tratta con gli jihadisti? Trattare significa arrendersi. E in questo momento è l’ultima cosa da fare.

L’Italia finanzia il terrorismo internazionale a forza di riscatti, scrive Giusi Brega su “L’Ultima Ribattuta”. Il nostro Governo ha l’abitudine di pagare i riscatti chiesti dai terroristi per restituirci i nostri connazionali rapiti. In questo modo contribuisce a finanziare le organizzazioni eversive internazionali come l’Isis e innesca un circolo vizioso. In queste ore stanno avendo luogo le trattative per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria e apparse, il 31 dicembre, in un video postato su YouTube nel quale le ragazze supplicano il nostro governo di riportarle a casa prima che vengano uccise. Le fonti non escludono che il video sia stato girato per dare alle autorità italiane la prova in vita delle due ragazze e che successivamente è stato reso pubblico dai rapitori per «alzare il prezzo del riscatto». Riscatto che l’Italia è sicuramente pronta a pagare visto che, ogniqualvolta il nostro Governo si ritrovi a trattare con il terrorismo internazionale per la liberazione degli ostaggi, finisce sempre con l’aprire il portafogli: i prigionieri tornano a casa e, anche se le Istituzioni si guardano bene dal confermarlo, è risaputo che dietro alla liberazione c’è stato il pagamento di un riscatto che va a confluire dritto dritto nelle tasche delle organizzazioni eversive: un giro di affari che a livello internazionale è stimato in 125 milioni di dollari (dal 2008 ad oggi) a cui l’Italia contribuisce in maniera considerevole. Fare i terroristi costa. Il business degli ostaggi rende parecchio. Ed è un guadagno facile. Soprattutto se si ha a che fare con un Paese come l’Italia sempre pronta a pagare quanto chiesto. Fonti di stampa sostengono, infatti, che dal 2004 ad oggi il nostro Paese abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per 14 ostaggi catturati dai terroristi operativi nelle zone a rischio del mondo. Qualche esempio: per liberare lo scorso maggio il cooperante italo-svizzero Federico Motka, il nostro governo ha versato nelle casse degli jihadisti qualcosa come 6 milioni di euro. Anche per il rilascio del giornalista Domenico Quirico (sequestrato in Siria il 9 aprile 2013 e rilasciato l’8 settembre) sembra sia stato pagato un riscatto di oltre 4 milioni di dollari. Ricordate Giuliana Sgrena? La giornalista del Manifesto fu rapita nel febbraio del 2004 in Iraq e liberata un mese dopo grazie al sacrificio del funzionario del Sismi Nicola Calipari e a fronte del pagamento di 6 milioni di dollari. E le due Simone? Simona Pari e Simona Torretta furono rilasciate nel settembre 2004 dopo aver fatto pagare un riscatto di 11 milioni di dollari. E poi Marco Vallisa (il tecnico italiano rapito in Libia nel luglio scorso) per il quale sembra sia stato pagato un riscatto di 4 milioni di dollari. I nostri governi dal 2004 ad oggi si sono guadagnati la fama di pagatori di riscatti” elargendo milioni di euro di denaro pubblico finanziando così la follia omicida di organizzazioni come l’Isis  pronte a usare il denaro per uccidere e torturare, mettendo a repentaglio la sicurezza e la democrazia mondiale. Come se ciò non bastasse, questo atteggiamento mette a repentaglio l’incolumità dei nostri connazionali all’estero trasformandoli in “merce preziosa”. Per fare in modo che i sequestri non siano più considerati una risorsa di finanziamento e rompere questo circolo vizioso basterebbe applicare le norme internazionali in vigore che proibiscono di pagare riscatti ai terroristi come stabilito da una risoluzione delle Nazioni Unite (approvata dopo l’11 settembre 2001) e da un accordo sottoscritto dai Paesi del G8. D’altra parte se il sequestro avviene in Italia, la magistratura blocca i beni del sequestrato. Non si capisce perché se il sequestro avviene all’estero si finisca sempre col pagare un riscatto milionario (con i soldi dell’erario, cioè i nostri).

Vanessa e Greta: I commenti di Magdi Allam e Adriano Sofri, scrive Niccolò Inches su “Melty”. Il video messaggio di Vanessa e Greta, detenute in Siria dal gruppo jihadista Al Nusra, ha scatenato il dibattito sull'opportunità dell'iniziativa umanitaria delle due attiviste. Il punto di vista di Adriano Sofri e Magdi Cristiano Allam. La pubblicazione del video messaggio di Vanessa e Greta, le due attiviste umanitarie scomparse nel luglio scorso mentre si trovavano in Siria, ha confermato l'ipotesi del rapimento. Le due ragazze sarebbero nelle mani del gruppo jihadista Al Nusra, cellula legata ad Al Qaeda, attiva nel paese arabo in cui è in corso una guerra civile tra i corpi militari fedeli al regime di Bachar Al Assad e i ribelli, tra i quali non figurano solo forze democratiche ma anche numerosi nuclei del fondamentalismo islamico. In Siria era detenuto anche il giornalista de “La Stampa” Domenico Quirico, liberato nel 2013 quando soffiava il vento di una “guerra lampo” pensata dagli Stati Uniti di Barack Obama (poi mai realizzata per via della resistenza della Russia di Putin e della Cina). Su Quirico, però, non si scatenò il vespaio di commenti offensivi e sessisti apparsi sul web per attaccare la presunta irresponsabilità delle due giovani cooperanti. Ogni conflitto porta con sé il rischio di sequestri e violenze nei confronti di cittadini stranieri: il caso di Vanessa e Greta si accoda a quanto successo in passato a Giuliana Sgrena, le due Simone, Daniele Mastrogiacomo e altri in Iraq. Come puntualmente si verifica ad ogni notizia di rapimento, inoltre, scoppia dunque la polemica tra i partigiani dell'intransigenza, quelli che il racconto della guerra o un aiuto umanitario non possono valere il prezzo di un riscatto (specialmente se dovesse servire a riempire le casse dei terroristi), e coloro che tessono le lodi di una – pur rischiosa – iniziativa, in nome di valori universali e cosmopoliti. Sul rapimento di Vanessa e Greta (ecco chi sono le due cooperanti) sono intervenuti due illustri rappresentanti di entrambi i fronti, all'interno di due editoriali: la critica di Magdi Cristiano Allam, autore di “Non perdiamo la testa” (pamphlet di denuncia della presunta cultura violenta veicolata dall'Islam) e firma del Giornale da una parte, dall'altra l'ossequio dell'ex esponente di Lotta Continua – condannato per l'omicidio Calabresi - Adriano Sofri, oggi penna di Repubblica. Ne riportiamo alcuni passaggi.

Magdi Allam: i riscatti finanziano i terroristi. “Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebberosequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico (…) Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta!”

Adriano Sofri difende le due cooperanti. “Furono istruttive certe reazioni al sequestro. Con tanti auguri di uscirne sane e salve, per carità, ma con un abietto versamento di insulti, a loro e famiglie. Stiano a casa a giocare con le bambole, sono andate a farsi il selfie coi terroristi, non ci si sogni di riscattarle con “i nostri soldi”, paghino gli irresponsabili genitori… Un genitore si sentì costretto a spiegare che sua figlia era maggiorenne, che lui l’aveva dissuasa, che non poteva legarla… Io mi sforzerei di dissuadere una ragazza che, per amore dei bambini senza cibo senza medicine e senza amore, volesse partire per la Siria. Non potrei legarla, e soprattutto non potrei fare a meno di ammirarla (...) Greta e Vanessa [sono] donne, e giovani: troppo giovani e troppo donne, verrebbe da dire, in questa euforica infantilizzazione anagrafica universale. Avevano alle spalle un’esperienza da invidiare di conoscenza e aiuto al proprio prossimo in Africa e in Asia, e della stessa Siria erano veterane. Questa volta andavano ad Aleppo col proposito preciso della riparazione di tre pozzi, per gente privata anche dell’acqua (…) I ritratti che ne fanno delle creaturine in balia di slogan e smancerie sono contraddetti da una loro mania contabile scrupolosa ed efficiente, e dall’idea che la rivoluzione sia l’autorganizzazione di ospedali, scuole, mense… (…) Gli insulti contro Vanessa e Greta avevano argomenti come il tifo per Bashar al Assad e il precetto di farsi gli affari propri: farsi gli affari di Bashar al Assad, insomma (…) perché riscattare vite a pagamento? Perché sì, perché la minaccia che incombe su una persona, la mano già alzata sul suo capo –era vero per Aldo Moro- viene prima della preoccupazione sul vantaggio che il carnefice trarrà dall’incasso di oggi”.

Vanessa Marzullo e Greta Ramelli: vittime del cuore o “incoscienti da salvare”? Scrive “Blitz Quotidiano”. Il sequestro ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli ha provocato sul Giornale un titolo di prima pagina un po’ fuori falsariga nazionale: “Due italiane rapite in Siria. Altre incoscienti da salvare”. È il titolo a un articolo di Luciano Gulli, sulla stessa linea, che si stacca dal tono generale degli articoli sul rapimento ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli che ha suscitato un turbine di solidarietà e notizie, mentre certamente i servizi segreti italiani hanno iniziato a prelevare, dai conti segreti e fuori della giurisdizione del Fisco, i milioni di euro che serviranno per pagare il loro riscatto. Proprio pochi giorni fa il New York Times aveva messo in fila tutti i rapimenti opera di gruppi terroristici, indicando tutti i paesi che hanno alimentato le casse di Al Qaeda con i riscatti per liberare connazionali. La cosa sorprendente è che non solo L’Italia paga, ma anche Francia, Austria, Svizzera e la rigorosissima Germania. Vicende angosciose come i rapimenti si risolvono in bagni di lacrime collettive e pagamenti occulti, exploit come ai tempi di Maurizio Scelli, e poi tutti tornano ai loro problemi di tutti i giorni, in attesa del prossimo. Luciano Gulli invece va giù piatto e definisce Vanessa Marzullo e Greta Ramelli “due incoscienti da salvare sull’orlo del baratro” scrivendo così: “Solidarietà, certo, mancherebbe. Come si fa a non essere vicini, a non sperare il meglio per due ragazze che invece di andarsene al mare con gli amici decidono di passare l’estate in Siria, tra le macerie, sotto le bombe, ogni giorno col cuore in gola per dare una mano ai bambini di quel martoriato Paese? Meno bello – e questo è l’aspetto che varrà la pena sottolineare, quando tutto sarà finito – è gettare oltre l’ostacolo anche i soldi dei contribuenti per pagare riscatti milionari o imbastire complesse, rischiose, talvolta mortali operazioni di recupero di certe signorine che oltre alla loro vita non esitano a mettere a repentaglio anche quella degli altri. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, sparite nel nulla sei giorni fa ad Aleppo, sequestrate da una banda di tagliagole torneranno, ne siamo certi. Ma quando saranno di nuovo tra noi qualcuno dovrà spiegar loro che la guerra, le bombe, quei territori «comanche» dove morire è più facile che vivere sono una cosa troppo seria, troppo crudele per due ragazzine. Che sognare di andare in battaglia «per dare una mano», per «testimoniare», come troppe volte abbiamo visto fare a tante anime belle, dalla Bosnia all’Irak di Saddam, è una cosa che si può sognare benissimo tra i piccioni di piazza del Duomo, un selfie dopo l’altro, abbracciate strette strette, quando il rischio maggiore è di beccarsi un «regalo» dai pennuti. Ma senza i nervi, la preparazione, il carattere, l’esperienza che ti dice cosa fare e cosa non fare; senza quel rude pragmatismo che ti viene dopo aver battuto i marciapiedi di tante guerre è meglio stare a casa. Non ci si improvvisa reporter di guerra e non ci si improvvisa neppure cooperanti senza aver imparato come si fa, come ci si comporta, come è fatto il sorriso che ti salverà la vita quando ti troverai di fronte a un mascalzone che vuole i tuoi soldi e le tue scarpe, o al ragazzino che sbuca dall’angolo di una casa, e per rabbia, per vendetta, o anche solo per paura, lascia partire una raffica di mitra che può spedirti all’altro mondo in un amen. Sono le stesse cose che scrivemmo nel settembre di dieci anni fa, quando a Bagdad vennero liberate Simona Torretta e Simona Pari. Le «due Simone» uscirono incolumi da un’avventura durata tre settimane. Non così andò l’anno dopo, quando sempre a Bagdad rapirono la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Per liberarla, quella volta, morì l’agente del Sismi Nicola Calipari. Che dire di più, in queste ore? Niente. Fermiamoci qui. Intrecciamo le dita, sperando di rivedere presto queste altre «Simone»”.

Vanessa e Greta a Roma: l'incubo è finito, scrive Giulia Vola su “Magazine delle donne”. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie rapite in Siria a luglio sono tornate in Italia questa mattina. Ad accoglierle il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. A far discutere il maxi riscatto che l'Italia avrebbe pagato per la loro liberazione. Libere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie ventenni rapite in Siria lo scorso luglio sono tornate in Italia questa mattina all'alba accolte all'aeroporto di Ciampino dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni: è festa grande a Gavirate (Varese), il paese di Greta, e a Brembate (Bergamo), quello di Vanessa. L’annuncio è arrivato nel tardo pomeriggio di giovedì con un tweet di Palazzo Chigi, seguito dalla conferma - alla Camera - del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi. Nel frattempo il premier Matteo Renzi aveva chiamato la famiglia di Greta per anticipare quella notizia che ha cambiato la vita di due famiglie che per mesi hanno temuto il peggio ma non hanno mai perso la fiducia. Nemmeno quando, lo scorso 31 dicembre, erano apparse in quel video diffuso dai rapitori in supplicavano "il nostro governo di riportarci a casa". Ieri la richiesta è stata esaudita e nei due piccoli centri lombardi le campane hanno suonato a festa spezzando quell'attesa straziante durata sei mesi, da quando le tracce delle due ragazze si erano perse ad Abizmu, poco lontano da Aleppo, nel Nord della Siria. Eppure, mentre in Lombardia si festeggia, a Roma c’è (già) chi fa polemica. Soprattutto dopo che la tv di Dubai al Aan - ripresa anche dal Guardian - ha parlato di 10 milioni di dollari, poco più di 12 milioni di euro versati nelle tasche dei rapitori. Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini tuona contro l’eventualità che si sia pagato un riscatto: "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il Governo avesse pagato 12 milioni sarebbe uno schifo" ha commentato senza mezzi termini seguito a ruota dal compagno di partito Roberto Calderoli e dalla forzista Maria Stella Gelmini, tutti accomunati dalla stessa domanda: è legittimo pagare sapendo che il denaro finanzierà gruppi terroristi? Nella polemica è entrato anche Roberto Saviano. Lo scrittore anticamorra, che vive una vita da sequestrato in casa, ha affidato a Facebook una lettera sfogo: “Care Greta e Vanessa, sono felice per la vostra liberazione, e come me lo sono in tanti. Ma vi aspetterà anche un’Italia odiosa, che vi considera ragazzine sprovvedute che invece di starsene a casa sono andate a giocare in Siria. Diranno che sono stati spesi molti soldi, molto più del valore della vostra vita". Secondo Saviano quelle dichiarazioni sono frutto del "senso di colpa per non avere coraggio, dell’insofferenza dell’incapace che fermo al palo cerca di mitigare la propria mediocrità latrando contro chiunque agisca". D'altra parte, anche di Saviano, costretto a uno strettissimo regime di protezione che annulla la sua libertà personale, molti hanno detto  che se l’è andata a cercare sfidando la camorra con il suo lavoro. "Spero saprete sottrarvi a questo veleno - scrive alle due volontarie -. Un’altra parte di questa Italia è convinta che il vostro sia stato un atto di coraggio e di umanità, e che nessuno possa essere considerato causa del proprio rapimento”. I commenti al post di Saviano sono il ritratto di un paese in difficoltà con il concetto di eroe e di coraggio: madri e padri trepidanti che condividono la gioia delle famiglie si mescolano a insulti contro le due ragazze e recriminazioni sul presunto riscatto. Uno scenario che si ripete: dopo Je suis Charlie, ora è la volta di Je suis Greta e Vanessa, identità che sui Social, in questi momenti, va per la maggiore. Il governo italiano naturalmente nega di aver pagato (ma non potrebbe fare diversamente). Resta il fatto che la La Jabhat al-Nusra, "il fronte di sostegno per il popolo siriano" vicino ad al Qaeda che aveva in custodia Greta e Vanessa e gli altri gruppi terroristici più o meno affiliati incassano, secondo il New York Times, circa 2 milioni di euro a ostaggio liberato. Denaro versato "in gran parte dagli europei" sottolinea il quotidiano del Paese che ha scelto la linea dura rifiutandosi di pagare. Ma oggi è il giorno della felicità e delle prime dichiarazioni che le ragazze faranno in Procura a Roma. Per le recriminazioni e le polemiche c'è tutto il tempo:  ''Quando la vedrò le darò un grande abbraccio - ha commentato emozionato Salvatore Marzullo, il papà di Vanessa -. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle''.

15 gennaio 2015. Vanessa e Greta liberate: si festeggia? No! Scrive Alberta Ferrari su “L’Espresso”. E’ ufficiale da poche ore: Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, giovanissime cooperanti sequestrate a luglio in Siria da terroristi jihadisti sono state liberate; stanotte giungeranno in volo dalla Turchia in Italia.  Prima di sapere il loro destino e ignorando volutamente la querelle sollevata da chi metteva in discussione motivazioni e/o imprudenza delle delle ragazze, avevo stigmatizzato l’inaudita violenza sessista che “la pancia” degli italiani riversava nei loro confronti in rete, con modalità becere e inaccettabili indipendentemente dal merito delle questioni. Come da previsioni e in linea con la politica estera italiana (differente, per esempio, da quella degli USA) è ovvio che sia stato pagato un riscatto, del quale iniziano a circolare cifre non confermate: 12 milioni di euro. E immediatamente, con le giovani non ancora a casa, persino tra i commentatori più pacati oltre il 90% esprime aperto malumore. Qualcuno premette che è un sollievo che siano state liberate, ma la maggior parte si limita a commenti come questo: “un solo pensiero nella mente di tutti gli italiani: E IO PAGOOOOOOOOOO”. Su facebook, cloaca massima di eiezioni senza filtro cerebrale, il concetto comincia a prender forma con le tristemente note modalità: invettiva, insulto, augurio di torture stupro morte etc. che rendono impossibile ogni civile argomentazione. Facciamocene una ragione perché questo background culturale si applica a tutte le donne: un caso apparentemente lontanissimo come l’annuncio di Emma Bonino di avere un tumore al polmone è stato gratuitamente accolto con analoga marea di triste commentario insultante e sessista, in cui la malattia diventa l’arma con cui colpire e augurare ogni male. Questo è il popolo che si riversa senza filtro sui social ed è bene conoscere, non ignorare. Perché il fenomeno denuncia che il degrado della pancia degli italiani sta arrivando alla barbarie e che le donne sono tipicamente oggetto delle più violente invettive. Nessuno stupore se nel nostro Paese i femminicidi non accennano a diminuire. Chi poi politicamente a questa “pancia” fa facile riferimento titillandone i riflessi pavloviani, ricordi che le masse strumentalizzate sono pericolose e volubili: si innamorano dell’uomo forte, pronti a rinnegarlo e sputare addosso al suo cadavere quando cambia il vento. Accusata personalmente da un commentatore di “becero buonismo” per il fatto che additavo la barbarie degli insulti alle ragazze senza addentrarmi in giudizi sul loro comportamento, oggi che sono in salvo mi permetto di esprimere anche riflessioni nel merito. Purchè rimanga ben chiaro che invettive e insulti rimangono condannabili in sè. Bene, Vanesssa e Greta: bentornate. Potrei essere vostra madre e forse a 20 anni ero più fulminata di voi. Tuttavia vi prego: appena scese dall’aeroporto non dite (come si è sentito in passato) “siamo pronte a tornare”. Non andate a fare le eroine nei talk show. Magari invece, riflettete con persone autorevoli, che si intendono di volontariato e di Paesi in guerra e fate tesoro, magari autocritica, di questa esperienza a lieto fine. Perché vedete, il problema dei milioni di euro di riscatto contiene sì tanta ipocrisia (basterebbe rinunciare a una costosa arma bellica o recuperare denaro da chi delinque o evitare gli sprechi che sono la vera piaga del nostro Paese), ma non merita per questo indifferenza: è pur sempre denaro dei vostri concittadini, che di questi tempi non se la passano troppo bene. Inoltre come pensate che verrà usato? Le vostre vite salvate al prezzo di altre, quando questo denaro diventerà altre armi (che sono arrivate e arrivano nonostante voi, ridimensioniamo anche questa ricorrente e ipocrita colpevolizzazione). Io non sono esperta del settore, quindi mi sono documentata attraverso contatti a me molto vicini; persone esperte che ideologicamente avrebbero ogni motivo per sostenere la vostra posizione. Il problema è che la vostra posizione non è sostenibile. perché, come sostiene la collega Chiara Bonetti (un anno in Mozambico, 6 mesi in Uganda, un anno in Tibet): nella scelta di andare all’estero in qualità di membro onlus o ong governativa, è fondamentale evitare personalismi e schieramenti. All’estero in veste ufficiale non sono ammesse improvvisazioni: si va nel mondo a titolo non personale, bensì a rappresentare il proprio Paese (che infatti si fa carico dei tuoi rischi), una civiltà e un modo di lavorare. Nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di esporsi a pericoli inaccettabili: proprio perché il prezzo del rischio non si paga di persona ma coinvolge potenzialmente tutti coloro che svolgono un’attività anche lontanamente simile, nonché i contribuenti del vostro Paese. All’estero esistono regole molto diverse da quelle con cui si è cresciuti: è imperativo non improvvisare. Ci vuole umiltà, cultura (tanta), una rete d’appoggio, esperienza. Tutte cose che a 20 anni con una onlus fai-da-te (con un terzo individuo che si è smarcato ed è rimasto a casa) sono ampiamente mancate. Ragazze, io diversamente da altri non entro nel merito della vostra buona fede, della nobiltà dei vostri obiettivi: non posso sapere. Ma l’avventatezza è analoga a quella di sciatori fuoripista/scalatori imprudenti che si mettono nei guai dopo aver contravvenuto a regole da bollino rosso o per semplice, sventata inesperienza: possono provocare smottamenti che uccideranno altre persone, oppure mettere a repentaglio la vita di chi deve soccorrerli in condizioni estreme. Termino lasciandovi le riflessioni di due grandi uomini, Walter Bonatti e Reinhold Messner, fini acrobati tra coraggio e paura: “Non esiste il coraggio senza la paura – dice Bonatti – bisogna aver paura delle cose paurose, di ciò che è sconosciuto, ma per combattere il terrore bisogna cercare di conoscere ciò che fa paura. Bisogna costruire il coraggio e poi usarlo”. “La paura – dice Messner – ti spiega bene il limite che non devi superare: fin qui va bene, oltre… scendi. Come è successo a te, davanti alla parete del Pilier d’Angle”. “Ho provato una paura spaventosa – confessa Bonatti – ed ero già molto esperto. Quella notte sono arrivato con il mio compagno, Luigi Zampieri, sotto al Col de la Fourche, a un’ora dall’attacco sono rimasto impietrito di fronte a quella parete che con un gioco di riflessi lunari mi è apparsa una lavagna levigatissima. L’unica cosa evidente che spiccava erano i grandi seracchi pronti a caderti addosso. Ho avuto una paura folle e sono stato un bel po’ a pensare, a chiedermi come fare. Fino a quando, saggiamente, ho concluso che era meglio tornare a casa. E sono tornato a casa. Qualche mese dopo sono tornato, la montagna non era più in condizioni così favorevoli, ma era favorevole il mio spirito, ero pronto. L’abbiamo attaccata e l’abbiamo spuntata”. Buon rientro ragazze, sono felice di riavervi a casa.

Le “stronzette di Aleppo” se la sono cercata, scrive Alberta Ferrari. Vanessa Marzullo e Greta Ramelli sono due govanissime cooperanti italiane di 20 e 21 anni rapite in Siria a luglio 2014. Sulla loro presenza in una zona tanto percolosa e in assenza di una solida organizzazione alle spalle le polemiche sono state sempre accese, spesso con toni grossolani e cinici (vedi “le stronzette di Aleppo” di Maurizio Blondet). Il tema di fondo: “due incoscienti sprovvedute” ci mettono nei guai. Linguaggio offensivo, squalificante e, stupore!, sessista: “con la guerra non si scherza e da bambine è bene che non si giochi alle piccole umanitarie, ma con la barbie”. Tra i commenti più soavi. Le due ragazze avevano fondato con il 47enne Roberto Andervill il progetto Horryaty per raccogliere aiuti destinati alla popolazione civile in Siria. Certo sprovvedute queste giovanissime entusiaste, ma non improvvisate. Vanessa, di Brembate, studia mediazione linguistica e culturale all’Università di Milano. Greta, di Besozzo, studentessa, è una volontaria della Croce Rossa e ha già prestato attività di cooperazione in Zambia e in India. Partono per la Siria a febbraio 2014 e vi tornano a luglio attraversando il confine turco con il giornalista de “Il Foglio” Daniele Ranieri. Tre giorni dopo vengono rapite ad Abizmu dopo essere state attirate nella casa del “capo del Consiglio rivoluzionario” locale, mentre Ranieri riesce a fuggire e a dare l’allarme. Per inciso, tocca notare un silenzio assordante – diversamente dai commenti al vetriolo riservati alle ragazze – su questo accompagnatore più che adulto che riesce a darsela a gambe. Nessuno che si stracci le vesti: “incosciente, quella è guerra vera e hai pure coinvolto due ragazze, ma stare a casa a giocare ai soldatini no? minimo meritavi il sequestro pure tu”. Sull’identità dei rapitori si avvicendavo ipotesi: jihadisti dell’Isis, gruppi criminali intenzionati a chiedere un riscatto, compravendita delle ragazze. Capodanno ci sorprende con un importante aggiornamento. Un video su youtube chiarice che le giovani sono sequestrate dal gruppo jihadista al-Nusra. Le ragazze sono state private del loro abbigliamento e vestono la tunica nera abaya. Parla Greta Ramelli senza mai alzare lo sguardo (“supplichiamo il nostro governo e i suoi mediatori di riportarci a casa prima di Natale. Siamo in estremo pericolo e potremmo essere uccise”) mentre Vanessa Marzullo espone un cartello che riporta la data del 17 dicembre 2014. Personalmente, cercando di non cadere in trappole di superficiale buonismo, ritengo che l’eccessivo rischio e le relative conseguenze che ora non possiamo non frontggiare, siano ragionevolmente da attribuire più alla responsabilità di chi autorizza e deve controllare viaggi in Paesi sede di guerre da bollino rosso che non all’entusiasmo giovanile dell’impegno fai-da-te. Mi ha turbato, leggendola come segno di imbarbarimento, l’impressionante sequenza di commenti intrisi di cinismo e grettezza che ho letto su Facebook, a commento della notizia del video riportata da Ilfattoquotidiano.it. In base al giornale, commentatori più “collocati a sinistra”, in teoria.

Riporto un campione di questi commenti: del resto fortemente ripetitivi.

Gianni C. ALTRI EURI di chi fa fatica buttati a PUTTANE…………

Fabrizio T. Riportarli a casa in cambio di armi? ? Mai!! Così per colpa di queste 2 idiote ne muoiono 1000.

Gianni P. io penso che “quelli che se la cercano” se la debbano poi sbrogliare.

Maria C. Se le tenessero. Nessuna pietà per chi si caccia nei guai, pur sapendolo.

Fiorni R. Quelle son andate per far carriera, vedi la nostra boldrinazza, vedi simona pari e dispari.

Giuseppe T. Che se le tenessero!

Giulio S. Tenetevele.

Donatella N. Ah si? Tenetevele.

Antonio M. Spero proprio di non avere figli così stupidi.

Angelo M. Per queste due nessuna pietà. ….all’inizio erano contente del sequestro ora che le scarpe gli vanno strette chiedono aiuto. ….tempo scaduto adesso subite il velo e la schiavitù di questo popolo musulmano.

Michele C. Ma fanculo stateve a casa.

Leone B. La guerra nn è un gioco per bambine in cerca di visibilità.

Lamberto C. SE NE STAVANO A CASA LORO NN GLI SAREBBE SUCCESSO NULLA. Se la son cercata.

Bartolomeo A. …. due incoscienti che non possono essere lasciate sole, due imbecilli che da presuntuose epocali, hanno pensato che i loro bei visini, accompagnati dai soliti buoni propositi terzomondialisti o giù di lì, potessero intenerire le carogne in generale che si contendono la siria e non solo…

Enrico D. sono andate li per supportare i tagliagole. se dovessero essere liberate dovrebbero essere processate per aver appoggiato dei terroristi! luride scrofe!

Carlo F. adesso la bandiera arcobaleno non la sventolano più ahahhahahhaahahhaaha.

Antonella R. Visto che non le ha obbligate nessuno ad andare la !!! Sono solo cavoli loro !! A me non me ne importa niente!!

Mino T. Credo che i buonisti, che sono la vera metastasi di questo paese , dovrebbero dare il buon esempio e partire per la Siria a loro spese (…) Per quanto mi riguarda hanno avuto ciò che si meritano.

Graziella T. Prima i nostri maro’, visto che sono andati per lavoro? Loro nonostante che gli si è detto di NON ANDARE, loro sono andate …se la sono cercata.

….. qualche timida voce fuori dal coro si trova ….

Roberto D. Per estendere il concetto, molti hanno perfino contrastato il ritorno in italia del medico italiano che curava l’ebola in africa. Il concetto è: “fai il medico in africa? WOW sei mitico… cosa? ti sei ammalato e vuoi tornare qui e così ci infetti tutti? Ma stai in africa, d’altronde…te la sei andata a cercare”. Ecco di questa gente stiamo parlando.

Daniela C. Son state delle sprovvedute ma vanno portate a casa.

Dominique B. Leggendo gran parte delle risposte invece, mi chiedo chi siano le bestie, quelli che hanno sequestrato le ragazze o quelli che commentano qui…

Emma R. Non ho mai letto tanta cattiveria pressapochismo crudeltà cinismo etc etc nei commenti ad un solo post !!!!! Complimenti a tutti.

Marianna L. Cercasi umanità

Concludo facendo mio il commento al video di Marina Terragni: “Che queste ragazze possano tornare a casa presto e levarsi quegli stracci dalla testa”.

“Menefreghismo assoluto per le attiviste rapite in Siria” e I CARE, continua la Ferrari Poiché i commenti violenti, odiosi e sessisti da me segnalati con stupore e raccapriccio due giorni fa verso le due cooperanti Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, rapite in Siria si sono rivelati vero allarme di una deriva crescente, qualcuno ieri alle 13.00 ha avuto l’idea geniale di creare una pagina Facebook che raccogliesse il turpe dileggio e le offese rivolte in questi giorni con sadico e ottuso accanimento . A seguire uno de tanti post della pagina. In 24 ore 1250 like alla pagina. Per darvi un’idea: io nella mia pagina professionale, che si occupa di salute della donna e i particolare di tumore al seno, il più frequente nel sesso femminile ad ogni età, non sono arrivata a 5000 like in oltre 2 anni. Il che dimostra chiaramente il potere d’attrazione che l’invettiva sessista esercita su gran parte di persone becere, quelli che girano sul social e si esprimono come al bar, offrendo un affresco sociologico veramente degno d’attenzione e preoccupazione. Sul mio post precedente, che segnalava la violenza brutale montante contro le due ragazze ricercandone retroterra culturali e contraddizioni (sugli adulti che le hanno aiutate / accompagnate, silenzio totale), si è aperto con mio sollievo un nutrito dibattito. I commenti hanno riguardato varie criticità della questione, compresa la scelta delle ragazze di addentrarsi in una zona di guerra senza protezione e la loro presunta simpatia per una fazione di combattenti (gli stessi peraltro che le avrebbero rapite), tuttavia il confronto di punti di vista differenti si è svolto in modo civile, contribuendo ad affrontare il problema con più strumenti conoscitivi. A chi invoca il menefreghismo, che evoca il triste “me ne frego” passato alla storia senza gloria né onore, contrappongo, fuori da un contesto religioso ma come espressione basilare di umanità, l’invito di Sabrina Ancarola (che giustamente non dimentica gli altri ostaggi in Siria) che ci ricorda il motto di don Milani: I Care.

Le stronzette di Aleppo, scrive Maurizio Blondet su “Il Punto di Prato”. Vanessa e Greta. Anni 20 e 21.Andate in Aleppo presso i ribelli anti-regime per un progetto umanitario. Progetto che,a quanto è dato dedurre, consisteva in questo:farsi dei selfie e postarli sui loro Facebook:su sfondi di manifestazioni anti-Assad, sempre teneramente abbracciate (Inseparabili, lacrimano i giornali), forse per fare intendere di essere un po’ lesbiche (è di moda), nella città da tre anni devastato teatro di una guerra senza pietà e corsa da milizie di tagliagole. La loro inutilità in un simile quadro è palese dalle loro foto, teneramente abbracciate, con le loro tenere faccine di umanitarie svampite, convinte di vivere dalla parte del bene in un mondo che si apre, angelicamente, grato e lieto al loro passo di volontarie. Una superfluità che i giornali traducono così: Le due ragazze avevano deciso di impegnarsi in prima persona per dare una risposta concreta alle richieste di aiuto siriane. Vanessa è studentessa di mediazione linguistica e culturale, Greta studentessa di scienze infermieristiche: niente-popò-di-meno! Che fiori di qualifiche! Due studentesse ( m’hai detto un prospero!), che bussando a varie Onlus erano riuscite a far finanziare il Progetto Horryaty, da loro fondato. Secondo una responsabile della Onlus che ha sganciato i quattrini alle due angeliche, il loro progetto era finalizzato ad acquistare kit di pronto soccorso e pacchi alimentari,da distribuire al confine. Ostrèga, che progettone! Nella loro ultima telefonata,chiedevano altri fondi. Pericolo per le loro faccine angeliche, o le loro tenerissime vagine? No,erano sicure:avevano capito una volta per tutte che i cattivi erano quelli di Assad,e loro stavano coi buoni,i ribelli. E i buoni garantivano per loro. Si sentivano protette. Nell’ultima telefonata hanno detto che avevano l’intenzione di restare lì. Un Paese serio le abbandonerebbe ai buoni, visto che l’hanno voluto impicciandosi di una guerra non loro di cui non capiscono niente, in un mondo che a loro sembra ben diviso tra buoni e cattivi. Tutt’al più, candidarle al Premio Darwin (per inadatti alla lotta per la vita), eventualmente alla memoria… Invece la Farnesina s’è sùbito attivata, il che significa una cosa:a noi contribuenti toccherà pagare il riscatto che i loro amici, tagliagole e criminali, ossia buoni, chiederanno. E siccome le sciagure non vengono mai sole, queste due torneranno vegete, saranno ricevute al Quirinale, i media verseranno fiumi di tenerezza, e pontificheranno da ogni video su interventi umanitari, politiche di assistenza, Siria e buoni e cattivi di cui hanno capito tutto una volta per tutte. Insomma, avremmo due altre Boldrini.

La liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria sei mesi fa, ha innescato due reazioni contrapposte: sollievo e soddisfazione espresse dalle istituzioni (lungo applauso in Parlamento dopo l'annuncio del ministro Boschi in Aula), polemiche e livore da rappresentanti delle opposizioni a cui è seguita una corsa all'emulazione sui social network, scrive “Ibtimes”. Non poteva mancare il commento di Matteo Salvini: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia. Presenteremo oggi stesso un'interrogazione al ministro degli Esteri per appurare se sia stato pagato un solo euro per la liberazione delle due signorine". Ma la palma dell'uscita più strumentale è del capogruppo di Forza Italia in Emilia-Romagna, Galeazzo Bignami: "Le due ragazze amiche dei ribelli siriani e sequestrate dai ribelli siriani sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli. Per inciso si liberano queste qui mentre chi porta la divisa e rappresenta lo stato è ancora in arresto in india. Bello schifo". Altri esponenti di centrodestra hanno puntato l'indice sulla questione riscatti. "Finita la fase di legittima soddisfazione, serve che il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa" le parole di Massimo Corsaro (Fratelli d'Italia). "Doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove" sostiene anche l'ex ministro Maria Stella Gelmini. Le strumentalizzazioni hanno dato il là a commenti simili anche degli utenti sui social network.  "Un riscatto milionario per due sceme", "sia chiaro a tutti che sono ben altri i cervelli da far rientrare". Altri ancora imitano Bignami nell'improprio parallelo con la vicenda dei marò. Oppure si leggono frasi sulla guerra "non adatta" alle donne. O ancora che non è giusto pagare 12 milioni di dollari (questa la presunta cifra pagata per liberare le due ragazze) per gente che "va in vacanza". Legittimo discutere sugli effetti collaterali delle possibile impreparazione delle cooperanti in zone di guerra, che si pongono in una situazione di oggettivo pericolo e mettono in difficoltà il paese. Ma non in quanto donne, né si può sostenere che le due fossero in Siria per prendere il sole. Strumentale, improprio e spesso in malafede, ogni altro genere di discorso o commento. Cosa c'entra la vicenda dei due marò, accusati di omicidio in India? Suggeriscono forse di corrompere gli indiani allo scopo di ottenere la liberazione di Latorre e Girone? Ipocrita anche la reazioni sul pagamento del riscatto, non perché sul tema non ci sia da discutere ma perché viene da pensare "da che pulpito parte la predica?". Il fatto che l'Italia (come Francia, Spagna o Svizzera) abbiano pagato in passato riscatti milionari ai sequestratori è il segreto di Pulcinella. Simona Pari e Simona Torretta (altre due cooperanti, stavolta in Iraq, 2004), Giuliana Sgrena (2005), Clementina Cantoni (2005), Rossella Urru (2011) e Mariasandra Mariani (2011) sono tutti sequestri che si sono probabilmente conclusi con il pagamento di un riscatto (ad Al-Qaeda o altre organizzazioni legate al fondamentalismo). Chi governava in quegli anni? Quel centrodestra che oggi attacca a testa bassa.

Ostaggi italiani, non sempre è finita bene, scrive “La Voce D’Italia”. Il primo rapimento recente di italiani nel mondo a lasciare il segno nella memoria collettiva è del 2004, in Iraq. Vengono sequestrati a Baghdad 5 contractor, Fabrizio Quattrocchi, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. Quattrocchi viene ucciso, gli altri liberati. Indimenticabile il video in cui la vittima dice ai carnefici: “vi faccio vedere come muore un italiano”. Lo stesso anno sempre in Iraq vengono rapiti il freelance Enzo Baldoni, ucciso poco dopo, e le due cooperanti Simona Torretta e Simona Pari, liberate dopo 19 giorni. Nel 2005 tocca alla giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Subito dopo la sua liberazione, un militare americano uccide per sbaglio il funzionario del Sismi Nicola Calipari che era andato a prenderla. Nel 2007 in Afghanistan viene rapito dai talebani il giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, poi liberato. In Mali nel 2009 Al Qaida rapisce due coniugi italiani, Sergio Cicala e Philomene Kabouré. Vengono liberati l’anno dopo. L’inviato della Stampa Domenico Quirico viene rapito due volte: la prima volta nel 2011 in Libia per due giorni (con i colleghi Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina, entrambi del Corriere della Sera, e Claudio Monici di Avvenire); la seconda volta nel 2013 in Siria per cinque mesi. I pirati somali nel 2011 catturano due navi mercantili italiane, la Savina Caylyn, con 5 italiani a bordo, e la Rosalia D’Amato, con 6 italiani. Gli ostaggi vengono liberati insieme alle unità lo stesso anno, dopo mesi di prigionia. Nel 2011 nel Darfur in Sudan viene catturato dai ribelli locali il cooperante di Emergency Francesco Azzarà, liberato dopo 124 giorni. Lo stesso anno gli shabaab somali catturano al largo della Tanzania l’italo-sudafricano Bruno Pellizzari, mentre si trova sulla sua barca a vela con la fidanzata sudafricana. Viene liberato dopo un anno e mezzo con un blitz dell’esercito somalo. In Algeria nel 2011 i terroristi islamici sequestrano la turista Sandra Mariani e la cooperante Rossella Urru. Entrambe vengono liberate nel 2012. In quello stesso anno finisce invece tragicamente il rapimento in Nigeria dell’ingegnere Franco Lamolinara, sequestrato dai jihadisti nel 2011: l’italiano viene ucciso dai sequestratori durante un blitz delle forze speciali di Londra, che volevano liberare un ostaggio britannico tenuto con lui. Nessuna notizia dopo oltre tre anni del cooperante Giovanni Lo Porto, sequestrato in Pakistan nel 2012 mentre lavorava per una ong tedesca, né del gesuita padre Paolo Dall’Oglio. Quest’ultimo scompare in Siria nel 2013, mentre cerca di mediare a Raqqa per la liberazione di un gruppo di ostaggi. Voci contrastanti lo danno prima per morto, poi prigioniero dell’Isis. Nel 2014 in Libia vengono rapiti due tecnici italiani, in due diversi episodi: l’emiliano Marco Vallisa e il veneto Gianluca Salviato, entrambi liberati dopo diversi mesi.

Greta e Vanessa a casa, polemiche sul riscatto: «Pagati 10 milioni di dollari», scrive “Il Messaggero”. È stata la tv di Dubai al Aan a ipotizzare che possa essere stato pagato un riscatto di 12 milioni di dollari (poco più di 10 milioni di euro) ai qaedisti anti-Assad del Fronte al Nusra per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due giovani italiane rapite in Siria nel luglio scorso e liberate giovedì. La voce, denunciata in Italia dal leader della Lega Matteo Salvini, è ripresa anche dal Guardian online, secondo cui si tratta di «un'informazione non confermata». «Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!», scrive in un tweet Salvini. Il governo italiano, come d'uso, nega di avere pagato un riscatto e incassa intanto l'ennesimo successo sul fronte della liberazione di ostaggi (sono stati oltre una dozzina negli ultimi 10 anni gli italiani sequestrati all'estero). A dare consistenza alle voci sul pagamento tuttavia in questo caso c'è anche un tweet di un account ritenuto vicino ai ribelli siriani anti-Assad in cui si parla di un "riscatto di 12 milioni di dollari” per la liberazione delle due italiane. La Jabhat al-Nusra, «il fronte di sostegno per il popolo siriano», è cresciuto esponenzialmente grazie alle vittorie sul campo ma anche a una incredibile disponibilità di armi e fondi per combattere contro le forze del presidente siriano Bashar al Assad. La sua fonte principale di finanziamento, oltre alle generose donazioni che arrivano dall'estero, è proprio quello che arriva dai riscatti: il New York Times ha stimato che al Qaida e i gruppi affiliati abbiano incassato oltre 125 milioni di dollari negli ultimi 5 anni, la massima parte versati «dagli europei». Il Fronte è stato fondato alla fine del 2011, nel pieno della rivolta contro il governo siriano, quando l'allora emiro di al Qaida in Iraq, e ora leader dell'Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, inviò i primi combattenti in Siria. Considerato "meno sanguinario" del ramo iracheno di al Qaida, il Fronte si è attribuito diversi attacchi anche contro i civili: nei primi tre mesi del 2012 si rende protagonista di diversi attentati, alcuni kamikaze, a Damasco e Aleppo contro le forze governative siriane, decine i morti. Nel 2013 Nusra finisce al centro di quello che evolverà in scontro violento tra Baghdadi e Ayman al Zawahri: il califfo dichiara che al Nusra è parte di al Qaida in Iraq nella nuova formazione Isis. Ma a giugno il leader di al Qaida lo smentisce. L'ostilità tra Nusra e Isis sfocia in aperti combattimenti che secondo alcune fonti lasciano sul campo 3.000 uccisi tra i jihadisti dei due fronti. Alla fine dell'anno Nusra rapisce 13 monache da un monastero cristiano che verranno rilasciate nel marzo del 2014. Pochi mesi dopo, il 27 agosto, mentre l'Isis guadagna le prime pagine per la barbara esecuzione di James Foley, Nusra in controtendenza libera lo scrittore americano Peter Theo Curtis, rapito due anni prima. Il Qatar gioca un ruolo di primo piano nelle trattative per il rilascio. Alla famiglia era stato chiesto un riscatto di 3 milioni di dollari «cresciuti fino a 25». Il giorno dopo la liberazione dell'americano, il 28, il Fronte gruppo avanza in Golan e cattura 45 peacekeeper dell'Onu, che vengono liberati l'11 settembre. L'ultima stima dei think tank Usa è che il Fronte possa contare su oltre 6.000 combattenti ben addestrati, dislocati soprattutto nella regione di Idlib. Nelle zone controllate da Nusra vige la Sharia e sono state introdotte le corti islamiche.

Due video «cifrati» in 15 giorni. Così i rapitori hanno alzato il prezzo. I ribelli: «Pagati 12 milioni di dollari». La banda di terroristi non è legata all’Isis. Le stragi di Parigi usate per alzare la posta. La cifra diffusa sembra comunque esagerata, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Lo scambio sarebbe avvenuto tra domenica e lunedì, dopo l’arrivo di un video che forniva la nuova prova in vita delle due ragazze rimaste prigioniere in Siria quasi sei mesi. Un filmato per sbloccare definitivamente la trattativa, con la consegna della contropartita ai sequestratori. Sembra esagerata la cifra di dodici milioni di dollari indicata dai ribelli al regime di Assad, ma un riscatto è stato certamente pagato, forse la metà. E tanto basta a scatenare la polemica, alimentata da chi sottolinea come il versamento sarebbe avvenuto proprio nei giorni degli attentati a Parigi. È l’ultimo capitolo di una vicenda a fasi alterne, con momenti di grande preoccupazione, proprio come accaduto dopo la strage di Charlie Hebdo e del supermercato kosher, quando i mediatori avrebbero tentato di alzare ulteriormente la posta. Saranno Greta Ramelli e Vanessa Marzullo a fornire ai magistrati i dettagli della lunga prigionia, compreso il numero delle case in cui sono state tenute. Ieri sera, dopo essere arrivate in un luogo sicuro - probabilmente in Turchia - e prima di essere imbarcate sull’aereo per l’Italia, sono state sottoposte al «debriefing» da parte degli uomini dell’ intelligence , come prevede la procedura che mira a ottenere notizie preziose sul gruppo che le ha catturate il 31 luglio scorso e su quelli che le hanno poi gestite nei mesi seguenti. Attivare i primi contatti per il negoziato non è stato semplice, anche se si è avuta presto la certezza che a rapirle era stata una banda di criminali, sia pur islamici, e non i jihadisti dell’Isis. A metà agosto, quando il Guardian ha rilanciato l’ipotesi che fossero tra gli ostaggi internazionali del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, i mediatori italiani si sono affrettati a smentire proprio nel timore che la trattativa potesse fermarsi. Circa un mese dopo è arrivata la prima prova per dimostrare che le ragazze stavano bene. E da quel momento è partita la trattativa degli 007, coordinata da Farnesina e Palazzo Chigi. Secondo le notizie iniziali a organizzare il sequestro è il «Free Syrian Army», l’esercito di liberazione della Siria. Ma la gestione delle prigioniere avrebbe avuto fasi alterne, con svariati cambi di «covo» e nell’ultima fase ci sarebbe stata un’interferenza politica di «Jabat al-Nusra», gruppo della galassia di Al Qaeda che avrebbe preteso un riconoscimento del proprio ruolo da far valere soprattutto rispetto alle altre fazioni e contro l’Isis. Non a caso, poco dopo la conferma dell’avvenuto rilascio delle due giovani, un uomo che dice di chiamarsi Muahhed al Khilafa e si firma sulla piattaforma Twitter con l’hashtag dell’Isis posta un messaggio per attaccare «questi cani del fronte al-Nusra che rilasciano le donne crociate italiane e uccidono i simpatizzanti dello Stato Islamico». Del resto è proprio la situazione complessa della Siria ad alimentare sin da subito la sensazione che il sequestro non possa avere tempi brevi. E infatti la «rete» attivata per dialogare con i sequestratori ha a che fare con diversi interlocutori, non tutti affidabili. Con il trascorrere del tempo le richieste diventano sempre più alte, viene accreditata la possibilità che i soldi non siano sufficienti per chiudere la partita, che possa essere necessario concedere anche altro. A novembre si sparge la voce che una delle due ragazze ha problemi di salute, si parla di un’infezione e della necessità che le vengano dati farmaci non facilmente reperibili in una zona così segnata dalla guerra. Qualche giorno dopo arrivano invece buone notizie, un emissario assicura che Greta e Vanessa sono in una casa gestita esclusivamente da donne. Informazioni controverse che evidentemente servono a far salire la tensione e dunque il valore della contropartita per la liberazione. A fine novembre c’è il momento più complicato. I rapitori cambiano infatti uno dei mediatori facendo sapere di non ritenerlo più «attendibile». Si cerca un canale alternativo e alla fine si riesce a riattivare il contatto, anche se in scena compare «Jabat al-Nusra» e la trattativa assume una connotazione più politica. La dimostrazione arriva quando si sollecita un’altra prova in vita di Greta e Vanessa e il 31 dicembre compare su YouTube il video che le mostra vestite di nero, mentre chiedono aiuto e dicono di essere in pericolo. È la mossa che mira ad alzare il prezzo rispetto ai due milioni di dollari di cui si era parlato all’inizio. Quel filmato serve a chiedere di più, ma pure a lanciare il segnale che la trattativa può ormai entrare nella fase finale. Anche perché contiene una serie di messaggi occulti che soltanto chi sta negoziando può comprendere, come il foglietto con la data «17-12-14 wednesday» che Vanessa tiene in mano mentre Greta legge il messaggio, che sembra fornire indicazioni precise. Si rincorre la voce che entro qualche giorno possa avvenire il rilascio. Ma poi c’è una nuova complicazione. Il 7 gennaio i terroristi entrano in azione a Parigi, quattro giorni dopo arriva un nuovo video. Questa volta viaggia però su canali riservati. L’intenzione dei sequestratori sembra quella di alzare ulteriormente la posta, la replica dell’Italia è negativa. Si deve chiudere e bisogna farlo in fretta. L’ intelligence di Ankara fornisce copertura per il trasferimento oltre i confini siriani delle due prigioniere. Ieri mattina gli 007 avvisano il governo: è fatta, tornano a casa.

Greta e Vanessa, malate e maltrattate nelle mani dei sequestratori, scrive “Libero Quotidiano”. Sono stati mesi molto duri quelli trascorsi da prigioniere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo ora sono finalmente libere, ma ciò che hanno dovuto subire durante il sequestro le ha molto provate sia psicologicamente che fisicamente. A rivelarlo sono gli 007 che hanno trovato fin dall'inizio della vicenda un canale di mediazione e dunque un interlocutore che ha permesso ai nostri servizi di "monitorare" costantemente le cooperanti per tutta la durata della trattativa. Hanno vissuto momenti molto difficili, rivela al Messaggero chi ha seguito in questi mesi la sorte di Greta e Vanessa. Una delle due è stata poco bene in salute, ma le sono stati forniti i medicinali e gli antibiotici per curarsi. Hanno subito soprusi, sorvegliate di continuo da uomini armati. L'intelligence spiega che le due ragazze erano nelle mani di banditi comuni e che Jahbat Al Nusra, il movimento vicino ad al Quaeda in Siria al quale era stato attribuito erroneamente il sequestro, avrebbe solo fornito soprattutto copertura politica, proprio perché quella parte di territorio a Nord della Siria è totalmente nelle loro mani. A sequestrarle, in realtà, sarebbero stati membri del Jaish al-Mujahideen, sigla che racchiude una decina di gruppi islamisti (alleati del Free Syrian Army, l' esercito siriano libero), una forza armata che combatte contro il governo di Bashar al-Assad. Poi sarebbero state "vendute" più volte, senza mai finire, fortunatamente, nelle mani dell' Isis, né in territori controllati da loro. Tutto quello che hanno passato resterà indelebile nella loro mente e nel loro cuore, ma oggi è il momento della gioia. All'alba Greta e Vanessa sono arrivate a Ciampino accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che alle 13 riferirà sulla vicenda alla Camera. Poi sono state condotte all’ospedale militare del Celio per gli opportuni controlli medici. Più tardi saranno ascoltate in procura a Roma. Solo al termine della deposizione potranno tornare finalmente nelle loro città che ieri, dopo mesi di tensione e angoscia, alla notizia della loro liberazione sono esplose di gioia. "E' un momento di grande felicità - ha detto il fratello della ragazza, Matteo Ramelli -, speriamo che Greta possa tornare presto a casa. La Farnesina ha fatto un lavoro fantastico, e anche i nostri concittadini sono stati meravigliosi". Alcuni automobilisti, passando davanti alla casa di Greta a Gavirate, un paese affacciato sul lago di Varese, hanno suonato il clacson, in segno di giubilo per la liberazione. E ieri sera il parroco del paese, don Piero Visconti, ha voluto "ringraziare il Signore" durante in momento di preghiera nell'oratorio di Gavirate. "Se tutti i giovani sapessero rischiare come ha fatto Greta - spiega - il mondo sarebbe un posto migliore. Spero che il suo esempio possa sostenere anche le tante altre persone che vogliono vivere donando amore agli altri". Il sindaco del paese, Silvana Alberio, ha incontrato i genitori, per esprimere la vicinanza di tutta la comunità. "Siamo felicissimi - racconta la madre di Greta - non vediamo l'ora di riabbracciarla". Altrettanta gioia è stata espressa dai familiari di Vanessa. "E' una grande gioia - dice emozionato Salvatore Marzullo, il papà che lavora in un ristorante di Verdello, il paese dove da qualche tempo vive appunto con la figlia. Appresa la notizia è scoppiato in lacrime. Dopo "un'angoscia unica", è arrivata "una gioia immensa che aspettavamo da mesi e che non si può descrivere", ha aggiunto. Momenti di sfiducia? "No - ha risposto - c'era preoccupazione e tristezza, ma abbiamo avuto sempre fiducia nel risultato. La Farnesina ci rassicurava sempre, devo ringraziare loro che sono riusciti a farci restare sempre ottimisti". "Quando la vedrò - ha concluso - le darò un grande abbraccio. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle".

Greta e Vanessa liberate in Siria, il retroscena sulla trattativa: i banditi, Al Nusra, il riscatto milionario, scrive “Libero Quotidiano”. La trattativa per liberare e riportare in Italia Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le giovani cooperanti lombarde rapite in Siria lo scorso 31 luglio e atterrate nella notte tra giovedì e venerdì a Ciampino, accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nonostante la smentita dell'intelligence italiana, tutte le ricostruzioni non escludono l'ipotesi di un riscatto di 12 milioni di dollari pagato dalle nostre autorità ai rapitori, anzi. Innanzitutto, però, occorre fare chiarezza su chi siano i "rapitori". "Banditi verniciati da islamisti": così li avrebbero etichettati i servizi italiani che hanno lavorato al caso di Greta e Vanessa. Di sicuro, non erano né dello Stato islamico né della fazione jihadista rivale, Al Nusra. A dare supporto logistico a questa banda più o meno improvvisata sarebbero stati i ribelli anti-Assad del Syrian Free Party, l'esercito libero siriano. Attraverso mediatori vicini ai ribelli "buoni" siriani Farnesina e intelligence hanno cercato per mesi un canale per risolvere positivamente la vicenda. A dicembre, però, improvvisamente si complica tutto. Tra 23 e 31, riporta Repubblica, a inizio mese secondo il Corriere della Sera, vengono meno i contatti. Poi, la sera di Capodanno, spunta in rete il video delle due italiane vestite di nero dal covo dei rapitori. Sarebbe stato un segnale al governo italiano: per liberare Greta e Vanessa servono soldi, più di quanti ipotizzati. La posta, insomma, si è alzata e il perché si scopre presto: sarebbero cambiati i mediatori. I rapitori si sarebbero infatti avvicinati ad Al Nusra, i "rivali" dell'Is che qualcuno, in maniera molto ottimistica, definisce "meno feroci" dei tagliagole del Califfato. L'unica differenza in realtà è che se questi ultimi i prigionieri li sgozzano in diretta video, i primi preferiscono venderli per fare soldi, molti soldi. Che servono ad acquistare armi, addestrare milizie (anche kamikaze), corrompere governi ed eserciti. Insomma, alimentare l'industria del terrore. Al Nusra fa pubblicare quel video, la notte del 31 dicembre, contro la volontà dei servizi italiani. Seguono giorni frenetici, fino agli attentati di Parigi che emotivamente potrebbero portare il governo di Roma a pagare ancora di più per non avere sulla coscienza la morte atroce di due ragazze. I jihadisti lo sanno, e alzano la posta. L'Italia chiede un'altra prova che le rapite siano vive e gli uomini di Al Nusra girano un secondo video, questa volta riservato e non pubblicato sul web. E' il segnale: Greta e Vanessa stanno bene e si possono liberare. A che prezzo, forse non lo si scoprirà. Lo scrittore Erri De Luca, che già in passato ha espresso posizioni controverse sulla questione della linea Alta velocità Torino-Lione, ha commentato la liberazione dal suo account twitter. "Se è stato pagato un riscatto - ha scritto -, per una volta sono stati spesi bene i soldi pubblici". A tal proposito, il leader della Lega Matteo Salvini ha affermato: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia". Come dire: i terroristi islamici si finanziano anche con questi riscatti.

Vanessa e Greta, samaritane innamorate del kalashnikov. Sui loro profili Facebook frasi pesanti e immagini forti. E amicizie con combattenti che posano con i cadaveri, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Fotomontaggi con il kalashnikov avvolto dai fiori, l'appello per salvare un barcone di clandestini, insulti alle Nazioni Unite e amici combattenti in Siria sono le tracce lasciate su Facebook di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli prima di sparire. Non proprio profili di buone samaritane, ma piuttosto di attiviste che appoggiano la lotta armata contro il regime di Damasco. Peccato che proprio fra i loro amici combattenti si annidino i presunti rapitori pronti a lucrare sulle due ragazze prese in ostaggio. Adesso che è apparsa la «prova in vita», ovvero il primo video delle due sequestrate, raccontiamo chi sono Vanessa e Greta attraverso le loro stesse parole o immagini postate in tempi non sospetti. Marzullo pubblica sul suo profilo la foto di un gruppo di soldatini di plastica. In mezzo c'è una ballerina dipinta di rosa, che imbraccia un fucile mitragliatore. Il primo ottobre 2013, un certo Ahmad Lion of Islam scrive in inglese: «Carina. Così adesso vieni a combattere con noi eroina. In qualsiasi momento sei la benvenuta». Un altro post mostra il fotomontaggio di un kalashnikov avvolto dai fiori ed il 24 luglio 2013 Vanessa si rivolge al presidente siriano, Bashar al Assad, con una frase che lo invita a darsi fuoco, dopo aver bruciato tutto nel suo Paese. Il primo aprile non ha dubbi e scrive: «Assad non è siriano, non è musulmano, non è laico (…). Assad non è neppure umano». L'8 febbraio, posta un inequivocabile «Onu di merda. Posso descrivere solo così il mio stato d'animo in questo momento». La deriva a favore dei ribelli siriani è evidente anche dalle risposte ad uno strano questionario in inglese che chiede cosa bisognerebbe fare in Siria? La prima risposta è «armare l'Esercito libero siriano». I giornalisti come Monica Maggioni, direttore di Rai news 24 che osa intervistare Assad, vengono insultati e sbeffeggiati. Il pensiero a senso unico delle due ragazze in ostaggio in Siria risulta evidente dalle immagini postate su Facebook. Un cartello del novembre 2012 è rivolto all'Occidente con la seguente scritta in inglese: «Allah o Akbar è un grido di vittoria. Nessun panico». Oppure un diretto «Cari Onu…Usa…Nato Vi odio». Il 3 giugno Vanessa lancia un appello «urgente» salva clandestini di Nawal Syriahorra, che chiede a «siriani/arabofoni di contattare» un telefono satellitare «presente sull'imbarcazione di cui ha parlato in questi giorni, con almeno 450 persone a bordo abbandonate al mare. Chiamare sperando che qualcuno risponda e chiedere: sono tutti vivi? c'è gente in acqua? la donna ha partorito? sono stati raggiunti da italiani o maltesi? Al più presto!». Il vero cognome di Nawal potrebbe essere Sofi, una fervente attivista della fallita primavera araba di Damasco di origine marocchina, che favorirebbe l'arrivo dei profughi siriani in Italia. La pasionaria partecipava alle stesse manifestazioni dove è stato fotografato Hassam Saqan, che in Siria si è fatto immortalare in un video di brutale esecuzione di soldati governativi prigionieri dei ribelli. Vanessa su Facebook ha postato una frase in italiano non perfetto scritta su un muro e firmata da Nawal Sofi: «Qui in Siria unico terrorista Bashar el Assad 15/3/2013 Mc- Italy».Greta Ramelli non è da meno come amicizie in rete con combattenti in Siria. Le piace molto una foto con dei miliziani in mimetica nella zona di Idlib, dove probabilmente le due ragazze sono trattenute in ostaggio. La didascalia non è proprio un esempio di pacifismo: «La bellezza e la forza sconvolgente della natura: tanto è stato il sangue versato che ora al suo posto spuntano dei meravigliosi fiori rossi». Abu Wessam, un giovane ribelle mascherato, amico in rete di Greta, posta le foto delle due ragazze in piazza Duomo a Milano con la bandiera dell'Esercito siriano libero. Su Facebook l'amico più importante dell'attivista «umanitaria» è Mohammad Eissa, il comandante delle Brigate dei martiri di Idlib, che in rete si fa fotografare davanti a una dozzina di corpi di nemici uccisi. Il gruppo islamista ha avuto rapporti altalenanti con l'Esercito libero, formazione laica e filoccidentale della guerriglia, ma pure con Al Nusra, la costola di Al Qaida in Siria, che rivendica il rapimento. Probabilmente il barbuto comandante aveva garantito protezione anche nei viaggi precedenti in Siria alle due ragazze innamorate della rivolta siriana. Questa volta qualcosa è andato storto e gli «amici» ribelli di Vanessa e Greta si sono trasformati in carnefici, o almeno così sembra.

Greta e Vanessa tradite da chi volevano aiutare, scrive “Libero Quotidiano”. Greta e Vanessa sarebbero state rapite proprio da chi volevano aiutare. Le due ragazze infatti, riporta il Fatto, erano partite per la Siria non per aiutare i civili, le vittime della guerra, ma per sostenere i combattenti islamici anti-Assad con kit di salvataggio. E' il retroscena sul sequestro delle due volontarie che si legge in alcune informative del Ros dove vengono riportate alcune intercettazioni di aprile tra Greta Ramelli - che stava organizzando il suo viaggio in Medioriente - e un siriano di Aleppo di 47 anni, Mohammed Yaser Tayeb, pizzaiolo di Anzolo in Emilia, che gli investigatori considerano un militante islamista legato ad altri siriani impegnati in "attività di supporto a gruppi di combattenti operativi in Siria a fianco di milizie contraddistinte da ideologie jihadiste". In sostanza il progetto delle due cooperanti era "rivolto a offrire supporto al Free Syrian Army ora supportato dall'occidente in funzione anti Isis ma anch'esso composto da frange di combattenti islamisti alcuni dei quali vicini ad Al Qaeda", a sostenere "un lavoro in favore della rivoluzione", e non a dare un aiuto neutrale. Si legge nell'informativa una telefonata tra Greta e Mohammed Yasser Tayeb così sintetizzata: "Greta precisa  che un primo corso si terrà in Siria con un operatore che illustrerà ai frequentatori (circa 150 persone tra civili e militari) i componenti del kit di primo soccorso e il loro utilizzo. la donna dice che ha concordato con il leader della zona di Astargi di consegnare loro i kit e cje a loro volta li distribuiranno ai gruppi di combattenti composti da 14 persone in modo che almeno uno degli appartenenti a questi gruppi fosse dotato del kit e avesse partecipato al corso". Tayeb secondo gli investigatori si attivò concretamente per aiutarle e le mise in contatto con un altro siriano residente a Budrio, Nabil Almreden, nato a Damasco, medico chirurgo in pensione. Tayeb gli chiede di inviare in siria una lettera di raccomandazione per Vanessa, "verosimilmente - annota il ros - un accredito presso una non meglio istituzione all'interno del territorio siriano".

Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono libere. Incassato con sollievo l'annuncio di Palazzo Chigi, con le due giovani cooperanti italiane rapite in Siria lo scorso 31 luglio e già di ritorno in Italia, il mondo politico e non solo già si divide, perché in ballo ci sono 12 milioni di dollari, scrive “Libero Quotidiano”. Quelli che secondo i ribelli siriani sarebbero stati pagati per la liberazione delle italiane, notizia che i nostri servizi hanno smentito seccamente. "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!", ha incalzato il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. E c'è chi come il capogruppo di Forza Italia alla Regione Emilia Romagna, Galeazzo Bignami, arriva a chiedere un "contrappasso" per le giovani volontarie temerarie: "Adesso le due tipe si mettano a lavorare gratis fino a quando non ripagheranno all'Italia quanto noi abbiamo dovuto versare, in nome della loro amicizia, ai ribelli siriani". "Sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani - scrive Bignami su Facebook -. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli". Sui social network e sui siti, il commento di molti utenti è critico. E anche tra i lettori di Liberoquotidiano.it l'umore non è di sola soddisfazione per la liberazione delle due giovani. E' tutto il centrodestra ha porre la questione al governo. Secondo Mariastella Gelmini di Forza Italia, è "doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove. Non vorrei che l'Occidente finisse vittima di un corto circuito provocato dai terroristi che dispensano la morte e la vita a secondo delle convenienze". Se la Gelmini chiede spiegazioni al ministro degli Esteri Paolo Gentoloni ("Lui e il governo faranno bene a chiarire rapidamente la vicenda in tutti i suoi aspetti rilevanti"), sulla stessa linea si pone Massimo Corsaro di Fratelli d'Italia: Greta e Vanessa "hanno esposto loro stesse e l'intero Stato italiano a una situazione di rischio e difficoltà coscientemente con la loro volontaria presenza in un Paese in gravi condizioni e una pesante presenza del terrorismo, il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa".

"Pagato riscatto da 12 milioni" Quante armi compreranno? Giallo sui soldi, un tweet dei rapitori fa scoppiare la polemica Dal 2004 a oggi abbiamo versato già 61 milioni ai terroristi, spiega Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Non possiamo che gioire per la liberazione di Vanessa Marzullo e di Greta Ramelli, le quali, dopo essere state quasi sei mesi nelle mani dei tagliagole jihadisti, potranno oggi finalmente riabbracciare le loro famiglie. Fatta questa doverosa premessa, non possiamo esimerci dall'esprimere un senso di vergogna e di disapprovazione per le modalità con cui il governo ha risolto la questione. È vero che siamo da anni abituati a pagare riscatti a talebani, pirati e terroristi per riportare a casa chi si avventura in zone altamente pericolose, ma averlo fatto consapevoli di foraggiare l'industria dei sequestri è perlomeno riprovevole. «Dodici milioni di dollari» proclamano i rapitori del Fronte Al Nusra, cioè circa dieci milioni di euro per riempire le casse del gruppo qaedista siriano, che fa dei sequestri una delle sue principali fonti di finanziamento per procurarsi armi e reclutare combattenti. C'è poco da scherzare o da sorridere. Secondo una stima fatta dal New York Times , Al Qaeda e i gruppi affiliati avrebbero incassato negli ultimi cinque anni almeno 125 milioni di dollari, versato in gran parte dai governi europei. I riscatti pagati dalla sola Italia dal 2004 a oggi a vari gruppi combattenti, ammontano a 61 milioni di euro. Un'industria fiorente, con un fatturato considerevole, alimentato proprio dai quei Paesi disposti e abituati a sborsare denaro per soddisfare le richieste dei terroristi. Quali clienti migliori per i piccoli eredi di Osama bin Laden. E l'Italia è un obiettivo «privilegiato». E pensare che Amedy Coulibaly, il terrorista islamico protagonista della strage nel supermercato ebraico di Parigi, aveva chiesto un mutuo di poco più di 30mila euro per finanziare la sua azione e quella dei fratelli Kouachi nella redazione di Charlie Hebdo. Fate una semplice calcolo di quanti Coulibaly si potrebbero mettere in pista con i dieci milioni di euro pagati dal nostro governo…. Inevitabili quindi, le proteste e le polemiche scaturite subito dopo l'annuncio del pagamento di un riscatto per liberare Vanessa e Greta. Lega, Fdi e Forza Italia hanno subito chiesto chiarimenti in Parlamento. «La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia - ha detto il leader del Carroccio Matteo Salvini -. Ma l'eventuale pagamento di un riscatto, che permetterebbe ai terroristi di uccidere ancora, sarebbe una vergogna per l'Italia». La Lega presenterà un'interrogazione al ministro degli Esteri proprio «per appurare se sia stato pagato un solo euro per le due signorine». «Un fatto assai grave - gli ha fatto eco il deputato leghista Molteni -. Il primo pensiero va alle famiglie. Va detto però che noi non abbiamo mai condiviso né giustificato le motivazioni della loro missione pseudomondialista». Chiede chiarezza anche Mariastella Gelmini, vicecapogruppo alla Camera di Forza Italia. «Quando si riconquista la libertà e la vita, ogni persona ragionevole non può che esultare - ha affermato - Adesso, con altrettanta ragionevolezza, il governo e il ministro degli Esteri devono riferire sulle modalità di questa liberazione».

Ora li paghiamo pure per farci mettere il velo. Il governo deve riportarle a casa. Ma ci costerà milioni e così finanzieremo i terroristi. Vietiamo alle Ong di andare in quei posti, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Tranne improbabili e comunque non auspicabili colpi di scena, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo rientreranno presto in Italia. Le trattative volgono alla fine e concernono esclusivamente, così come è stato sin dall'inizio del loro singolare sequestro lo scorso 31 luglio, l'entità della cifra da pagare. Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebbero sequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Comunque sia, nel caso degli ostaggi italiani detenuti dai terroristi islamici i riscatti si misurano in milioni di euro, per la precisione dai 5 milioni in su per i sequestri in Siria e Irak, «solo» un milione o poco più per i sequestri finora verificatisi in Libia. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Per avere un riferimento dell'entità della cifra da corrispondere ai terroristi islamici che detengono le due ragazze italiane, teniamo presente che l'ultimo ostaggio italo-svizzero, Federico Motka, sequestrato anche lui in Siria il 12 marzo 2013, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro. Nel video postato su YouTube Greta e Vanessa sono sostanzialmente tranquille, recitano un copione impartito loro, i loro sguardi s'incrociano con quelli dei carcerieri dietro la telecamera per assicurarsi di essere state diligenti. È un video diretto a noi cittadini italiani per prepararci psicologicamente ad abbracciare le due ragazze in cambio del pagamento di un lauto riscatto. Sostanzialmente diverso era il video del 2005 che ci mostrò Giuliana Sgrena disperata e in lacrime supplicando le autorità di intervenire per il suo rilascio. Ebbene quel drammatico messaggio era diretto al governo, forse inizialmente restio a sborsare la cifra richiesta tra i 6 e gli 8 milioni di euro. Saremo tutti contenti di riavere vive Greta e Vanessa. Però è ora di porre fine a queste tragiche farse il cui conto salatissimo paghiamo noi italiani. Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta! 

Finché "mandiamo" ostaggi siamo più vulnerabili. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo? Continua Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo islamico, a cominciare da Irak, Siria, Libia, Nigeria e Somalia? Nel caso specifico dell'Italia dobbiamo farlo sia perché avendo dato prova di essere un «buon pagatore», finiamo per alimentare le risorse finanziarie con cui i terroristi islamici accrescono i loro efferati crimini, sia perché le recenti decapitazioni di quattro ostaggi occidentali (due americani e due britannici) evidenziano che i terroristi islamici sono del tutto indifferenti al fatto che fossero degli «amici», solidali con i musulmani. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Con noi i terroristi islamici vanno sul sicuro: hanno la certezza che il governo italiano pagherà. Esattamente l'opposto della politica adottata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. La prova: mentre l'italo-svizzero Federico Motka, sequestrato il 12 marzo 2013 insieme al britannico David Haines, entrambi operatori umanitari, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro, Haines è stato decapitato dai terroristi dell'Isis (Stato Islamico dell'Irak e del Levante) il 14 settembre scorso. Diciamo che probabilmente i terroristi islamici considerano più vantaggioso sfruttare gli ostaggi italiani per finanziare la loro guerra criminale, rispetto al tornaconto politico che potrebbero avere dalla reazione alla loro decapitazione prendendo realisticamente atto che l'Italia conta poco sulla scena internazionale. Eppure avrebbero dovuto ringraziare Haines per l'aiuto dato ai musulmani. Era stato ribattezzato lo «scozzese matto» per la sua estrema disponibilità e dedizione a favore dei bisognosi. Aiutava tutti, soprattutto i musulmani. Anche l'altro britannico, Alan Henning, decapitato lo scorso 3 ottobre, semplice autista di taxi di Eccles, vicino Manchester, era amico dei musulmani. Sua moglie Barbara aveva invano implorato i terroristi dell'Isis: «Alan è un uomo pacifico, altruista, che ha lasciato la sua famiglia e il suo lavoro per portare un convoglio di aiuti in Siria, per aiutare chi ha bisogno, insieme con i suoi colleghi musulmani e i suoi amici». Anche il giornalista americano James Foley, decapitato dai terroristi dell'Isis lo scorso 19 agosto, era un simpatizzante dei gruppi islamici che combattono il regime di Assad in Siria. La madre Diane, appresa la barbara esecuzione del figlio, ha detto: «Ringraziamo Jim per tutta la gioia che ci ha dato. È stato straordinario, come figlio, fratello, giornalista e persona, ha dato la propria vita cercando di mostrare al mondo le sofferenze del popolo siriano». Ugualmente il secondo giornalista americano, Steven Sotloff, decapitato lo scorso 3 settembre, era un ebreo affascinato dal mondo islamico. La madre Shirley si era rivolta direttamente al Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi: «Steven è un giornalista che è venuto in Medio Oriente per raccontare la sofferenza dei musulmani nelle mani dei tiranni. È un uomo degno di lode e ha sempre aiutato i più deboli. Chiedo alla tua autorità di risparmiare la sua vita e seguire l'esempio del Profeta Maometto che ha protetto i musulmani». La prossima vittima preannunciata dei terroristi islamici, l'americano Peter Edward Kassig, di soli 26 anni, è anche lui un cooperante che ha fondato l'organizzazione umanitaria Special emergency response and assistance (Sera), addirittura convertito all'islam. Ebbene, nell'attesa che si ottenga la liberazione di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, cooperanti simpatizzanti dei terroristi islamici rapite lo scorso 31 luglio, e padre Paolo Dall'Oglio, anche lui filo-islamico, rapito il 29 luglio 2013, il governo vieti tassativamente i viaggi degli italiani in questi Paesi sia per porre fine alla vergogna dei riscatti pagati ai terroristi islamici sia per prevenire l'assassinio dei nostri connazionali.

Greta e Vanessa libere: il dilemma davanti alla loro generosità. Pagare i riscatti per i prigionieri dei jihadisti è sbagliato e ingiusto. Eppure davanti alle due ragazze ci dobbiamo interrogare sull'indicibile, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Questo articolo è stato scritto il 3 gennaio quando Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due amiche rapite in Siria, erano apparse in tv vestite di nero con il capo coperto. Lo riproponiamo oggi che le due giovani sono state liberate. Una riflessione su giudizi, generosità e difficoltà di decidere se e quando un riscatto va pagato. "Noi siamo Greta Ramelli e Vanessa Marzullo". Greta e Vanessa. Due amiche, unite dal desiderio di portare aiuto ai bambini in Siria. Ingenue, avventate, forse. Non giudichiamole. Ma noi non abbiamo il diritto di giudicarle. Mi urtano i (troppi) commenti che le dipingono in un linguaggio sprezzante come invasate manipolate e sprovvedute la cui prigionia crea un problema e pone un dilemma a chi deve gestirla (pagare o non pagare il riscatto? finanziare o no i rapitori? favorire o no con la trattativa altri sequestri?). Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Greta e Vanessa sono due giovani donne maggiorenni (il 31 dicembre Vanessa ha compiuto 22 anni, Greta ne ha uno di meno) che non fanno parte della schiera di chi non si cura degli altri, di chi bada solo a se stesso, di chi concepisce la propria esistenza fra routine e saltuari bagordi di fine settimana o fine anno. Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Ma è quella la strada che Vanessa, e con lei Greta, ha scelto. Voglio pensare che Vanessa e Greta fossero consapevoli di quel che facevano. Ma se anche non lo fossero state, credo nella verità dei loro intenti. Generosi. E coraggiosi. L'incoscienza che fa parte della vita. E se pure condivido il sospetto di molti, che non fossero del tutto lucide quando hanno valutato i rischi, credo che difficilmente si possano prevedere tutte le conseguenze di una decisione, nel momento della scelta. E, anzi, che una certa incoscienza faccia parte della vita, se la si vuole vivere. C’è chi ha parlato di plagio, insinuando una qualche adesione delle due giovani donne a un messaggio ideologico di chissà quale banda di predoni o gruppo islamico estremista che le tiene in ostaggio. Da quel video cosa si vede? Chi le guarda così, da lontano, da inesperto, le vede diversamente da come esemplarmente le ha viste (e ne ha scritto su “La Stampa”). Domenico Quirico, costretto pure lui da ostaggio, da “schiavo”, a registrare un messaggio. Dice Quirico che quel giorno lui era felice, perché il video era un modo per avvicinarsi alla famiglia e alla liberazione. Ma il commento si conclude con la distanza tra quelle immagini di Greta e Vanessa e la verità dell’avvicinamento, solo in quanto di nuovo visibili, alla loro vita di prima, alla famiglia. A se stesse. Ma da quel video si può solo dedurne il loro essere vive in quel momento. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Sì, colpisce vedere la fotografia di Greta e Vanessa sorridenti, una accanto all’altra come lo sono nelle foto da amiche del cuore nei giorni di festa (e magari di protesta) e il fotogramma di quei 23 lunghissimi secondi in cui si ritrovano ancora vicine ma senza sorriso, vestite di nero col capo coperto, Greta che recita il messaggio rigorosamente a occhi bassi, Vanessa che mostra un foglietto ambiguo con una data non verificabile (il 17 dicembre) e per ben due volte alza gli occhi, prima subito riabbassandoli consapevole d’aver infranto una regola o commesso un’imprudenza, poi guardando di lato, quasi astraendosi dal messaggio, dal luogo e dall’ora, e assumendo un’espressione seria (ma da bambina, così simile a certe espressioni vaghe dei nostri figli, delle nostre figlie). Un dilemma terribile. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Perché il riscatto finanzia il terrore. Perché pagando si incentiva il business dei rapimenti. Perché chi si vede pagata la liberazione ha la vita salva e gli altri, di altre nazionalità, no e questo non è giusto. E perché chi è adulto e affronta il pericolo deve anche esser pronto a subirne le conseguenze (il problema è di chi viene sequestrato, non del governo, soprattutto se non si ha indosso l’uniforme e non si svolge un ruolo istituzionale, da militare, ambasciatore, 007). E tuttavia, ci interroga la generosità di quelle giovani donne andate in Siria, credendoci. E mai come in questo caso si pone un dilemma terribile per chi è chiamato a fare di tutto per liberarle. C’è, qui, un fossato incolmabile tra il detto e l’indicibile.

5 motivi per cui non bisogna pagare riscatti. È bellissimo che Greta e Vanessa siano libere. Ma versare denaro ai sequestratori è sbagliato: condanna a morte altri ostaggi e indebolisce il paese, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.

1 - Dare un tesoretto ai sequestratori. Che siano stati pagati 12 milioni, di meno, o di più, il punto è che le bande di sequestratori, che sono anche manipoli di guerriglieri nei teatri dell’avanzata islamista in Iraq e Siria, hanno oggi un tesoretto da investire in armi o in nuovi rapimenti. Esattamente come in Italia (in Sardegna, in Calabria) qualche decennio fa. Ricordate l’anonima sequestri?

2 - La condanna a morte degli altri ostaggi. Il pagamento del riscatto per gli ostaggi italiani condanna a morte gli ostaggi degli altri Paesi. Chi rifiuta categoricamente di trattare con i sequestratori (soprattutto se terroristi) vede sistematicamente i propri ostaggi uccisi, sgozzati, decapitati, mentre magari i loro compagni di “cella” vengono rilasciati a suon di quattrini. È giusto?

3 - Il presente costruisce il futuro. Il presente costruisce il futuro. Chi paga oggi, pagherà domani. E allora perché non continuare a rapire tutti gli sprovveduti/e italiani/e che mossi da sentimenti di generosità verso i sofferenti delle zone più sventurate del pianeta si tuffano a sprezzo del pericolo in tutte le avventure umanitarie? (Ovvio che qui si pone un serio problema di equilibrio tra volontariato e sicurezza: se lo pongono l’ONU e i grandi organismi internazionali, a maggior ragione dovrebbero porselo i singoli e le piccole associazioni fai-da-te).

4 - Chiudere la fabbrica degli ostaggi. L’ostaggio è sempre lo strumento di un ricatto. Un’arma. Lo Stato deve quindi porsi a sua volta la questione di come “chiudere” la fabbrica degli ostaggi. Può farlo sposando la tesi (che personalmente condivido) di Stati Uniti e Gran Bretagna, di dire in anticipo (e poi agire di conseguenza e coerentemente) che nessun riscatto sarà mai pagato. O lo si può fare cercando il più possibile di impedire che italiani si trovino nelle zone a rischio dove la probabilità di essere rapiti, date certe condizioni, è troppo alta.

5 - Sottomettersi o vincere. Perché uno Stato paga riscatti? Per mancanza di senso dello Stato dei suoi governanti. L’uccisione di un ostaggio, per un’opinione pubblica come quella italiana, è una sconfitta della quale ha colpa il governo, mentre la sua liberazione è una vittoria. Sbagliato. Qui gli errori sono due. Di chi ci governa, perché dimostra non saper essere leader. E di noi che non abbiamo la maturità nazionale dei Paesi anglosassoni che affrontano le guerre con lo spirito di chi vuol vincerle e non di chi si sottomette. 

In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.

Vanno allo sbaraglio e noi paghiamo. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. La vedova di Enzo Baldoni, ucciso dieci anni orsono in Irak da assassini islamici (la cui umanità è nota), in un'intervista rilasciata alcuni giorni fa alla Repubblica , afferma di non essersi dimenticata di me e di Renato Farina che, all'epoca dei fatti, fummo molto critici con il povero pubblicitario-pubblicista perché aveva deciso di trascorrere le ferie nel Paese di Saddam Hussein (con l'ambizione di redigere un reportage) anziché - poniamo - a Rimini, dove non avrebbe rischiato nulla. Comprendo lo stato d'animo della signora e il suo rancore nei nostri confronti, visto come si è tragicamente conclusa l'avventura in Medioriente di suo marito. Ovvio, davanti alla morte, anche se avvenuta in circostanze sulle quali si può discutere, è giusto che prevalgano le ragioni del cuore su quelle del cervello. Ora il problema incarnato da Baldoni si ripropone negli stessi termini: mi riferisco al rapimento avvenuto in Siria di due ragazze italiane (alcune settimane fa) che si sono recate in quelle terre infuocate nei panni di cooperatrici. La storia di queste fanciulle è analoga a quella delle famose due Simone, loro coetanee, che, in occasione della seconda guerra del Golfo, erano andate a Bagdad per aiutare non si sa bene chi, e furono sequestrate dalle solite teste calde imbevute di Corano. La loro vicenda terminò felicemente. Nel senso che i nostri servizi segreti si mossero abilmente, trattarono sul riscatto, lo pagarono con i soldi dello Stato italiano, e liberarono entrambe le scriteriate turiste. Meglio così. Poi fu la volta di Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto, anch'essa finita ostaggio degli islamici e scarcerata grazie al pagamento di una somma rilevante versata dall'Italia ai banditi. Ma sorvoliamo per non farla tanto lunga. Ciò che ci preme osservare è l'inutilità dell'esperienza. C'è gente che, nonostante i precedenti, continua incoscientemente a sfidare il destino - notoriamente cinico e baro - e a mettere a repentaglio la pelle correndo in soccorso di chi non desidera essere soccorso, in Paesi in cui vige la legge del taglione, che non è neppure una legge, bensì una minaccia verso chiunque non adori Allah. Infatti, Greta Ramelli (di Varese) e Vanessa Marzullo (Brembate, lo stesso Comune di Yara, la tredicenne morta ammazzata 4 anni addietro), senza riflettere un secondo, quando hanno avuto l'opportunità di trasferirsi qualche giorno in Siria, sono partite piene di entusiasmo, appoggiate da un'organizzazione umanitaria, convinte di fare del bene. A chi? Ai siriani martoriati dalla guerra, dalle violenze che subiscono quotidianamente vittime di ingiustizie atroci. Ottime intenzioni, non abbiamo dubbi. Ma possibile che non ci sia nessuno in grado di far presente a chi si appresta a raggiungere il Vicino Oriente che non è il caso di affrontare certi viaggi densi di insidie? Possibile non informare i volontari che, persuasi di contribuire a salvare il mondo, in realtà vanno incontro a situazioni da cui è improbabile uscire vivi? Questo è il punto. Non condanniamo assolutamente coloro che, ignari delle trappole disseminate nei territori dove si combatte, vi si recano per il nobile scopo di aiutare persone in drammatiche difficoltà. Ma consentiteci di deplorare almeno quei pazzi che incitano tanti giovani a emigrare, sia pure temporaneamente, in luoghi nei quali uccidere una mosca o un cristiano è lo stesso. È sbagliato pensare che un atto d'amore sia sufficiente a rabbonire chi ti odia da secoli perché rappresenti, fisicamente, il nemico da eliminare. Occorre rieducare i diseducatori che in modo subdolo trascinano i giovani, e perfino vari adulti, a compiere imprudenze che non raramente portano all'irreparabile: sequestri ed esecuzioni capitali con metodi tribali. È un'operazione complicata e forse velleitaria. Ma non c'è altro da fare. Descrivere come eroi i Baldoni, le Simone, le Sgrene e anche le due ragazze tuttora in mano ai folli islamisti, cioè Greta e Vanessa, significa distorcere la realtà e la logica. Volare laggiù nel deserto, a qualsiasi titolo, equivale a percorrere l'autostrada contromano. Non si può pretendere di farla franca. L'evento più probabile è crepare ammazzati. Baldoni, pace all'anima sua, abbacinato da non si sa chi e che cosa, andò incontro alla propria fine senza valutare che in taluni casi la generosità sconfina nella stoltezza; le due Simone si salvarono perché al tempo avevamo ancora dei servizi segreti efficienti; idem la Sgrena; mentre Greta e Vanessa sono state abbandonate a se stesse. Auguriamo loro di tornare, ma non contino sui nostri 007, ormai disarmati e privi di forza contrattuale. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere. Le vacanze più intelligenti hanno quale meta Viserbella o Milano Marittima, almeno finché non saranno state invase dai cammellieri.

Scandalizzarsi è un'ipocrisia Quante vite salvate da un patto. Dai sequestri De Martino e Cirillo ai rapimenti di Mastrogiacomo e Sgrena: i negoziati con camorra, Br e terroristi islamici hanno consentito di evitare spargimenti di sangue, scrive “Il Giornale”. Esiste uno Stato immaginario che non si piega e non scende a patti, e anche nei momenti più difficili preferisce affrontare le conseguenze più tragiche anziché trattare col nemico. Ed esiste poi uno Stato reale che ufficialmente fa la faccia feroce ma sotto traccia incontra, dialoga, si aggiusta. Che promette, e a volte mantiene. Che riceve promesse, e quasi sempre qualcosa incassa. Se davvero - perché di questo in fondo si tratta - qualcuno ha trattato con Cosa Nostra la consegna di Totò Riina, beh, non sarà stata né la prima né l'ultima volta che il do ut des ha fatto la sua silenziosa comparsa nella guerra tra Stato e antistato. Il catalogo è lungo e ricco, e appartiene in buona parte alle cronache del terrorismo: quello domestico, all'epoca della furia omicida delle Brigate rosse e dei loro epigoni, quanto quello islamico in giro per il mondo. Ma non è che le vicende del crimine organizzato non portino anch'esse traccia di accordi sottobanco: nella sentenza d'appello ai calabresi che nel 1997 rapirono a Milano Alessandra Sgarella, una piccola nota a piè di pagina dà atto che a un boss in carcere vennero promessi benefici penitenziari in cambio delle sue pressioni per la liberazione dell'ostaggio. Si poteva fare, non si poteva fare? Si fece e basta, e la Sgarella tornò a casa dopo quasi un anno di terribile prigionia. Non fu, giurano gli addetti ai lavori, l'unica volta che un sequestro dell'Anonima si risolse così. D'altronde esiste un precedente storico anche se poco esplorato, il memorabile sequestro di Guido De Martino, figlio del segretario del Psi, rapito nel 1977 dalla malavita napoletana e rilasciato dopo una colletta tra banche, partiti, servizi. Nei rapporti con il terrorismo di ogni risma ed etnia, la trattativa sotterranea è invece - almeno in Italia - una prassi e quasi un'arte, spesso esercitata quasi alla luce del sole. A partire dal caso più noto e peggio concluso, quando intorno al sequestro del presidente democristiano Aldo Moro sorse addirittura un «partito della trattativa» che agiva per pubblici proclami senza che nessuno si indignasse o aprisse inchieste; e persino gli emissari della trattativa nel fronte brigatista avevano nomi e cognomi di pubblico dominio, e pubblicamene discusse se erano le possibili contropartite alla liberazione di Moro. Poi finì come finì, ma nessuno finì sotto inchiesta per avere cercato di salvare Moro. Nessuno venne incriminato per avere trattato sottobanco con frange di brigatisti la consegna di James Lee Dozier, il generale americano sequestrato subito dopo Moro. Si indagò, invece, ma senza quagliare granché, sulla più spudorata delle trattative, quella che portò alla liberazione dell'assessore napoletano Ciro Cirillo, sequestrato anche lui dalle Brigate Rosse, e tornato a casa dopo che per salvarlo si era mosso una specie di circo fatto di agenti segreti, politici, imprenditori, tutti a baciare la pantofola di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata che nel supercarcere dove era richiuso riceveva visite una dopo l'altra. Il pasticcio era tale che qualche anno fa Cirillo, ormai ottuagenario, disse di non voler raccontare nulla fino alla morte. «È tutto scritto in un memoriale da un notaio». Ma dove la decisione di scendere a patti è stata una costante, tanto notoria quanto inconfessata, è quando l'Italia si è trovata a fare i conti con il terrorismo islamico: una prassi così costante da suscitare l'indignazione degli alleati e della loro intelligence, ma resa inevitabile dalla commozione con cui vengono seguiti i casi dei nostri connazionali rapiti qua e là per il mondo. Per i poveri Quattrocchi e Baldoni, rapiti e ammazzati in Irak, per allacciare una trattativa mancò il tempo, non la volontà. Da allora in poi, è quasi incalcolabile il fiume di fondi riservati dei servizi segreti finiti nelle tasche della jihad pur di riportare in patria i malcapitati. Si racconta che la telefonata a casa che i rapitori concessero a Domenico Quirico, l'inviato della Stampa sequestrato in Siria, sia costata all'erario una robusta bolletta. E cifre ben maggiori sono servite per ottenere il rilascio delle due Simone, la Pari e la Torretta, sequestrate nel 2004 a Baghdad, o dell'inviato speciale di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. Qualche dettaglio emerse a margine della vicenda finita tragicamente della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena: il 4 marzo 2005 un funzionario del Sismi consegnò a un emissario dei rapitori il riscatto, in Kuwait o negli Emirati Arabi. L'emissario diede il via libera, a Baghdad la giornalista venne liberata e consegnata a un'altra squadra del Sismi. Ma sulla strada per l'aeroporto l'auto dei nostri 007 fu attaccata per errore da un posto di blocco degli americani, nell'uragano di colpi il capodivisione Andrea Calipari perse la vita, il suo collega Andrea Carpani venne centrato al petto, anche l'autista venne sfiorato, e solo la Sgrena uscì miracolosamente incolume. Nonostante lo choc e le polemiche, neanche i retroscena di quella trattativa sono mai stati ufficialmente resi noti. La sostanza è che si tratta, da sempre. E forse anche nel 1992, quando magistrati e poliziotti venivano fatti saltare in aria col tritolo insieme a interi tratti di autostrada, ci fu chi decise di tastare gli umori dell'altra parte, e non arretrò inorridito quando la testa di Riina venne offerta in cambio di questa o quella concessione.

L'ideologia contro Quattrocchi: "I killer non erano terroristi". La Corte d'Assise riconsidera le motivazioni dell'esecuzione del contractor in Irak. Come se le uniche vite preziose fossero quelle della Sgrena o delle due Simone, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Incredibile e raccapricciante. Non vi sono altri aggettivi per definire le motivazioni della sentenza della Corte d'Assise di Roma che manda assolti due degli assassini di Fabrizio Quattrocchi, la guardia privata rapita in Irak assieme a Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino che il 14 aprile 2004 davanti agli aguzzini pronti a freddarlo con un colpo alla nuca urlò «Vi faccio vedere come muore un italiano». Quell'atto di coraggio e di dignità gli valsero una medaglia d'oro al valor civile che il presidente della Repubblica Azeglio Ciampi così motivò: «Vittima di un brutale atto terroristico rivolto contro l'Italia, con eccezionale coraggio ed esemplare amor di Patria, affrontava la barbara esecuzione, tenendo alto il prestigio e l'onore del suo Paese». Ma gli atti di un Presidente della Repubblica non valgono nulla. Motivando la sentenza che lascia impuniti Ahmed Hillal Qubeidi e Hamid Hillal Qubeidi, due responsabili del rapimento catturati durante la liberazione di Stefio, Agliana e Cupertino, i giudici spiegano che l'identità dei due non è comprovata, il loro collegamento con gruppi eversivi non è evidente e - dulcis in fundo - l'esecuzione non è un atto di terrorismo. Insomma i due imputati, catturati mentre facevano la guardia a Stefio, Agliana e Cupertino, passavano di lì per caso e non sono stati identificati con precisione neppure durante gli anni trascorsi nella galera irachena di Abu Ghraib. I nostri giudici evidentemente la sanno più lunga degli inquirenti americani e iracheni che interrogarono i due imputati vagliandone generalità e responsabilità. Verrebbe da chiedersi come, ma porsi domande troppo complesse non serve. Dietro questa sentenza e le sue motivazioni non c'è il codice penale, ma l'ideologia. La stessa ideologia formulata dal giudice Clementina Forleo che nel gennaio 2005 assolse dall'accusa di terrorismo il marocchino Mohammed Daki e i tunisini Alì Toumi e Maher Bouyahia pronti a trasformarsi in kamikaze islamici in Irak. Nella motivazione del caso Quattrocchi quell'ideologia raggiunge la perfezione. Pur di mandare liberi due assassini i giudici arrivano a mettere in dubbio che l'uccisione di un eroe italiano decorato con la medaglia d'oro sia un atto terroristico. E per convincerci scrivono che «non è chiaro se quell'azione potesse avere un'efficacia così destabilizzante da poter disarticolare la stessa struttura essenziale dello stato democratico». Una motivazione sufficiente a far assolvere anche gli assassini di Moro visto che neppure quell'atto bastò a disarticolare lo stato italiano. Ma i magistrati superano se stessi quando tentano di convincerci che il collegamento dei due sospettati con i gruppi eversivi non è provato. L'assassinio di Quattrocchi viene deciso, come tutti sanno, per far capire al nostro governo che solo accettando il ritiro dall'Irak verrà garantita la salvezza degli altri rapiti. Ma evidentemente ricattare l'Italia uccidendo un suo cittadino e tenendone prigionieri altri tre per 58 giorni non è un atto sufficientemente eversivo. E a far giudicare eversori e terroristi gli assassini di Quattrocchi non basta neanche l'ammissione di uno degli aguzzini che racconta all'ostaggio Cupertino di aver partecipato all'attentato di Nassirya costato la vita a 19 italiani. Quelle per i magistrati sono semplici vanterie. Ma non stupiamoci troppo. Il problema anche qui non è la giustizia, bensì l'ideologia. In Italia, persino nelle aule giudiziarie, qualcuno continua a ritenere che le uniche vite preziose siano quelle di chi la pensa come lui. Soprattutto se quelli come lui sono «umanitari» di sinistra come le due Simone o giornaliste «democratiche» come Giuliana Sgrena. Le vite di chi non la pensa allo stesso modo invece valgono poco o nulla. Per questo uccidere l'eroe Fabrizio Quattrocchi non è reato.

Ostaggi «buoni» e «cattivi». Scontro tra destra e sinistra, scrive Paolo Conti su “Il Corriere della Sera” Possono esistere «buoni» e «cattivi», giudicati a seconda della necessità polemica da destra e da sinistra, persino tra gli italiani rapiti dai terroristi iracheni? Ora nelle loro mani, e sul video di Al Jazira, c'è Enzo Baldoni. Ma proviamo a fare un passo indietro, a tornare ad aprile, quando gli ostaggi si chiamavano Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino, quando Fabrizio Quattrocchi venne trucidato dalle Falangi di Maometto. Sui giornali della sinistra campeggiarono per intere settimane le stesse parole chiave: «mercenari», «vigilantes». Il manifesto parlò di «privatizzazioni da combattimento», l'Unità di «Mestiere della guerra». Scoppiò una durissima polemica quando Vauro, il giorno dopo l'assassinio di Fabrizio Quattrocchi, nella sua vignetta del giorno sul manifesto mostrò un dollaro penzolante da un pennone e sotto il titolo «morire per denaro» commentò con la battuta: «Banconote a mezz'asta». Liberazione insistette sulla tesi della collaborazione dei quattro italiani con i servizi segreti e irrise Piero Fassino che parlò di uccisione di un «civile inerme» («Viene da dire: ma di che cosa stanno parlando?»). Quando il centrodestra definì «eroico» il famoso ultimo momento di vita di Quattrocchi («ti faccio vedere come muore un italiano») ancora il manifesto titolò immediatamente «Eroi di scorta». Ora il rito in parte si ripete, specularmente opposto. La provocazione ieri è venuta da Libero: grande foto del pacifista Baldoni sotto il titolo «Vacanze intelligenti» e giù, nel sommario: «Aveva detto: "cerco ferie col brivido". E' stato accontentato». In perfetta linea con la titolazione il commento di Renato Farina. Si chiede come mai sia così rilassato nel video di Al Jazira: «Perché dovrebbero fargli del male? E' un giocherellone della rivoluzione... Dopo le ferie intelligenti, cominciamo a fare quelle sconvolgenti». Poi, più in là: «Signori di Al Qaeda, proprio dal vostro punto di vista, non vale la pena di ammazzarlo. Restituitecelo, farà in futuro altri danni all'Occidente come testimonial della crudeltà capitalistica». Quanto a Il giornale, è stato l'unico quotidiano a relegare la notizia in centro pagina, ben al di sotto di due inchieste. Commenta Franco Debenedetti, senatore ds: «Credo sia giusto cercare una logica nelle azioni di qualcuno, comprendere il senso delle scelte per esempio nel caso di un rapimento perché tutto questo può contribuire alla liberazione di un ostaggio. Ma i commenti così diversi propongono davvero una gran bella gara...» Qual è il suo giudizio su questo contrasto? «Ricordo che ai tempi dei tre rapiti, questo insistere sul loro ruolo di "mercenari" suggeriva quasi l'idea che si fossero andati a cercare una simile sorte. Un modo per esorcizzare il problema, di allontanarlo, come se il lavoro di vigilante non fosse onorevole come tanti altri, e anzi spesso indispensabile nella complessa ricostruzione dell' Iraq. E magari fosse meno nobile di un'occupazione intellettuale come quella del reporter». E quanto invece alla reazione di Libero? «Sinceramente mi sembra solo e soltanto agghiacciante. Comunque sia, insisto, mi pare davvero una bella gara...». Concorda Marcello Veneziani, intellettuale apprezzato dalla destra: «La figura di Quattrocchi combaciava con una mentalità che aveva caro il senso dell'onore e l'amor patrio. Invece Baldoni coltiva, lo abbiamo letto, valori dichiaratamente pacifisti. Motivazioni diverse, lontane, che hanno spinto le "tifoserie" a schierarsi da una parte e dall'altra, visto che in questa faccenda sembra contare ancora una labile appartenenza ideologica». E allora, Veneziani? «Allora sono state eccessive entrambe le reazioni. Voglio dire che sulla motivazione che spinge qualcuno a una scelta ci possono essere divisioni, diversità di vedute. Ma sulla vicenda in sé no: sono di rigore in ogni caso attenzione, rispetto, solidarietà...».

De Luca, quando la rivolta è un "marchio" da vendere. Dopo decenni di marxismo, sopravvive l'idea che uno scrittore debba essere militante. Ma di tanto impegno restano solo narcisismo e nostalgia attira-lettori, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. L'hashtag è #iostoconerri, e ci mancherebbe non stessi con lui, processato per essersi pronunciato contro la TAV e aver detto che secondo lui sabotarla è giusto. Uno potrà dire quello che vuole? Si può dire che gli Stati Uniti si sono abbattuti le Torri Gemelle da soli, si può essere perfino pro-Isis, Giulietto Chiesa è ancora stalinista, e portiamo in tribunale Erri De Luca? E poi sfiliamo con i cartelli Je suis Charlie? Ecco, Je suis Errì. Oddio, che effetto. E però che bello. È uno di quegli scrittori che invidio, e in Italia ce ne sono tantissimi. Non hanno bisogno di scrivere grandi opere, neppure opere medie. Errì poi scrive dei librini così tascabili che in tasca ce ne vanno venti, una pacchia. L'ultimo di Errì si intitola La parola contraria . Quattro euro e ve lo portate via, generosa la Feltrinelli. Piccolo ma denso: dentro c'è tutta la coscienza contraria di Errì. Per esempio Errì spiega che «può darsi che nella mia educazione emotiva napoletana ci fosse la predisposizione a una resistenza contro le autorità». Una cosa tipo: «Io i tass' nun le pag, ma vattenne và, accà niusciun'è fess». Oppure: «Chiust'o tren' che sa vò muov' veloce sa da fermà, compà». Je suis Errì, e un'altra cosa assurda è l'accusa di istigazione: ma vi pare che Errì possa aver istigato qualcuno a fare qualcosa? Casomai è stato istigato lui a diventare Errì. Come sono istigati tutti gli scrittori italiani, convinti da centocinquant'anni di marxismo intellettuale che si debba essere impegnati civilmente per essere intelligenti. Anzi peggio ancora: intellettuali. Non per altro perfino Aldo Busi, che non è di Napoli ma di Montichiari, su Alias denuncia il progresso tecnologico e rimpiange i casellanti. E Antonio Moresco, che non è di Napoli ma di Mantova, ha organizzato una nuova marcia della nota serie Cammina Cammina, la Repubblica Nomade, per essere tutti migranti. Che cagate. No, pardon, Je suis Errì. Che figate. Je suis Errì, e quanto erano belli i tempi di Lotta Continua. Dove c'erano tutti i migliori intellettuali, scrive Errì. Anche Pasolinì. E lo stesso Errì. Io non sono mai stato di Lotta Continua, neppure a favore di Lotta Continua, ma poi per caso ho scoperto che il mio amore Sasha Grey si è dichiarata simpatizzante di Lotta Continua. E quindi perfetto, je suis Errì, non voglio più essere Parente, che schifo. «Voglio essere lo scrittore incontrato per caso, che ha mischiato le sue pagine ai nascenti sentimenti di giustizia che formano il carattere di un giovane cittadino». Uno di quegli scrittori «che fa alzare d'improvviso e lasciare il libro perché è montato il sangue in faccia, pizzicano gli occhi e non si può continuare a leggere». E io che pensavo fosse l'allergia e stavo cercando un antistaminico. Invece è perché je suis Errì, il libro sta cominciando a fare effetto, mi sto trasformando in un giovane cittadino con dei sentimenti di giustizia e un'educazione emotiva napoletana con il sangue montato in faccia. A questo serve la letteratura. Per cui, siccome je suis Errì, ho buttato il libro e mi sono messo a protestare contro uno che ha parcheggiato sulle strisce pedonali, per sentimento di giustizia. Però poi mi sono accorto che il proprietario della macchina era negro, pardon di colore, e siccome je suis Errì mi sono scusato, sarà arrivato sicuramente da Lampedusa, e Errì dice che «dare cibo, acqua, vestiti, alloggio, premura per gli ammalati, i prigionieri, i morti: le sette opere di misericordia sono state compiute da loro, che vivono sul mare e usano leggi opposte. E non sono LampeduSanti, ma semplicemente LampeduSani. La rima nord e sud, Val di Susa e Lampedusa, riscatta oggi il titolo di cittadini da prepotenze che li vogliono sudditi». Ma come gli vengono, a Errì, questi giochi di parole? Val di Susa/Lampedusa, un genio. E poi ho pensato: chissà cosa succederebbe a scaricare qualche migliaio di profughi al mese direttamente da Lampedusa in Val di Susa, chissà dove lo manderebbero Errì, i valsusini. Ma poi ho pensato che era una malignità, i valsusini accoglierebbero tutti con rose e fiori e canti popolari e cantantando je suis Errì. Perché, questo il senso profondo delle parole del libro di Errì, «a ogni lettore spetta la sorpresa di fronte alla mescola improvvisa tra i suoi giorni e le pagine di un libro».

E quando avrete finito di leggere il libro avrete una bellissima mescola, vi assicuro. E anche voi potrete dire: Je suis Errì.

GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?

Cassazione su Ilva: «Giudici tarantini senza condizionamenti», scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.  Il processo sull’inquinamento provocato dall’Ilva si può tranquillamente e legittimamente fare a Taranto perché «non c’è una grave situazione locale tale da condizionarlo» e perché «l’esito non riguarderà il futuro produttivo dello stabilimento siderurgico e dunque anche quello economico-sociale di Taranto ma la condotta di singoli imputati». I provvedimenti adottati dai magistrati tarantini che finora si sono occupati della vicenda «non sono stati il frutto del condizionamento operato da una «grave situazione locale», ma rappresentano piuttosto l'espressione fisiologica dell'esercizio della funzione giudiziaria e non denotano in alcun modo mancanza di imparzialità dell'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo medesimo». La prima sezione penale della Corte di Cassazione ha depositato le 15 pagine di motivazioni con le quali lo scorso 7 ottobre ha respinto l’istanza di rimessione proposta da 15 dei 52 imputati del processo «Ambiente svenduto». Il collegio presieduto da Umberto Giordano (consigliere relatore Margherita Cassano) ha sostanzialmente accolta la tesi del sostituto procuratore generale Enrico Delehaye e della stessa Procura di Taranto che aveva sollecitato, inviando una memoria firmata dal procuratore capo Franco Sebastio e dagli aggiunti che si sono occupati dell’indagine, la permanenza del processo a Taranto. A rivolgersi alla suprema corte erano state le società Riva Fire (guidata da Claudio Riva) e Riva Forni Elettrici (presieduta da Cesare Riva), imputate ai sensi della norma che disciplina la responsabilità giuridica delle imprese; e le persone fisiche Fabio e Nicola Riva, figli del patron Emilio morto lo scorso 30 aprile, l’ex presidente dell’Ilva Bruno Ferrante, gli ex direttori del siderurgico Luigi Capogrosso e Adolfo Buffo, i dirigenti della fabbrica Ivan Dimaggio, Salvatore D’Alò, Salvatore De Felice, Angelo Cavallo, i fiduciari del gruppo Riva Lanfranco Legnani e Giuseppe Casartelli; l’ex responsabile dell’ufficio romana Caterina Vittoria Romeo; l’ex responsabile delle relazioni esterne Girolamo Archinà. A sorpresa, però, il giorno della discussione dell’istanza, aveva aderito alla richiesta di spostamento a Potenza del processo, tramite l’avvocato Luca Sirotti, anche il commissario dell’Ilva Piero Gnudi. L’azienda, sottoposta a commissariamento dal giugno del 2013, è imputata nel procedimento per i profili penali previsti dalla legge 231 del 2001 ma Enrico Bondi, primo commissario, non aveva firmato l’istanza di rimessione. Gnudi, nominato lo scorso giugno dal governo Renzi, aveva evidentemente deciso diversamente dal suo predecessore, dando mandato al suo legale di appoggiare la richiesta di spostamento del processo, con argomenti molto critici nei confronti del gip Patrizia Todisco e del gup Vilma Gilli. I giudici della Suprema Corte però hanno ritenute viziate le argomentazioni dei proponenti che «muovendo da indimostrate inferenze totalizzanti, valorizzano una logica presuntiva e dubita dell'imparzialità di un intero ufficio giudiziario non sulla base di fatti verificabili, ma di mere congetture che non trovano riscontro in circostanze obiettive». La Cassazione tornerà ad occuparsi di «Ambiente svenduto» il 4 febbraio, esaminando l’istanza di ricusazione del gup Vilma Gilli presentata dall’avvocato Michele Rossetti, legale dell’ex assessore provinciale Michele Conserva, uno dei 52 imputati.

A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?

Lo chiediamo al dr Antonio Giangrande, sociologo storico che sul tema ha scritto : “Malagiustiziopoli. Ingiustizia contro la collettività”, ovvero “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”.

«E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com, CreateSpace.com. Il processo all’Ilva resterà a Taranto e non sarà trasferito a Potenza: lo ha deciso la Corte di Cassazione la sera del 7 ottobre 2014. A presentare la richiesta di rimessione ad altra sede, per legittimo sospetto, erano stati i difensori di alcuni dei 52 imputati per disastro ambientale. I legali di Riva Fire, Ilva spa e di 13 imputati (tra i quali gli avvocati Franco Coppi, Francesco Mucciarelli, Adriano Raffaelli, Nerio Diodà, Stefano Goldstein e Marco De Luca) avevano depositato l’istanza il 5 giugno 2014. Il rigetto è avvenuto il 7 ottobre 2014. In poco meno di 200 pagine, i legali avevano cercato di far perno sull'articolo 45 del codice di procedura penale. Ovvero, come recita l’articolo, "la sicurezza o l'incolumità pubblica", o ancora "la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo sono pregiudicate da gravi situazioni locali" che possono turbare lo svolgimento del processo stesso e non sono neppure eliminabili. Ovvero per “legittimo sospetto”. Dopo l’annuncio i colpevolisti hanno festeggiato, pensando di trovare a Taranto un humus giudiziario favorevole per le loro aspettative. Ma quale è la notizia? Il rigetto scontato dell’istanza? Non ne era convinto del buon esito il buon Franco Coppi, che già ci aveva provato per Sabrina Misseri per il processo sul delitto di Sarah Scazzi. Ma ciò non gli ha impedito di presentare l’istanza insieme agli altri legali. Tarantini non lo sono e per questo hanno avuto il coraggio di presentare l’istanza di rimessione per legittimo sospetto che i magistrati del foro di Taranto non potessero essere sereni per il clima generato dalle campagne di stampa che hanno sobillato l’opinione pubblica. Quella stampa che prima era prona alla grande industria e come escort foraggiata. In attesa delle ovvie motivazioni degli ermellini, i giornalisti, degni di tale titolo facciano una ricerca approfondita dei precedenti ricorsi di Rimessione fatti in tutta Italia. Se non vi è capacità o volontà possono sempre attingere ai miei saggi di inchiesta: “Malagiustiziopoli. Ingiustizia contro la collettività”, ovvero “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”. Il tema è stato trattato e ci si accorgerà che la legge Cirami mai è stata applicata. Perché la legge si applica per i poveri cristi e si interpreta per i poteri forti, specie se corporativi. Una norma disapplicata in abuso di potere ed a spregio dei diritti di difesa.

“L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state solo due.»

Di queste due istanze accolte, però, non ve ne si trova traccia per farne un attendibile riferimento.

Il collegio della prima sezione penale è stato presieduto da Umberto Giordano, consigliere relatore Margherita Cassano che entro trenta giorni, circa, depositerà i motivi del «no» al trasloco del processo Ilva. Senza successo, quindi, i difensori degli imputati - tra i quali il professor Franco Coppi - hanno sostenuto che i giudici tarantini non sarebbero sereni nell’affrontare una vicenda che coinvolge tanta popolazione della città pugliese dove sorgono gli insediamenti dell’acciaieria che riversa le sue polveri sui quartieri vicino agli stabilimenti.

Via libera al Gup Vilma Gilli, allora. Alla sbarra compaiono non solo i vertici Ilva, accusati di aver creato un’associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale della città, ma anche politici, amministratori, funzionari regionali e del ministero dell’Ambiente: dal presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, all’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, al sindaco della città, Ippazio Stefano, per arrivare ad avvocati (c'è anche un legale Ilva), un poliziotto, un carabiniere e un sacerdote.

Per i manettari: Tutti dentro!!

L’accusa è portata dalla Procura della Repubblica di Taranto, guidata da Franco Sebastio, al quale sono affiancati in questa inchiesta il procuratore aggiunto, Pietro Argentino, e quattro sostituti procuratori.

Da ricordare che mina la credibilità del pool d’accusa l’indagine della procura di Potenza a carico di Pietro Argentino per falsa testimonianza, come tutti sanno, per una deposizione resa a favore del’ex Pm di Taranto Matteo di Giorgio, condannato a 15 anni di carcere dal Tribunale di Potenza.

Come ne sono tutti a conoscenza del conflitto interpersonale tra Sebastio ed Argentino. Nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino.

Quindi un iter giudiziario travagliato che, data la mia esperienza, mi permette, così come ho fatto per il processo Sarah Scazzi, di prevederne il finale: condanna per tutti, salvo prescrizione».

In Italia si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. La Corte di Cassazione – Supremo Organo di Giustizia Italiana – rigetta sistematicamente ogni istanza di rimessione dei processi per legittimo sospetto e ogni richiesta di ricusazione presentata dall’imputato per grave inimicizia con il magistrato che lo giudica. La Corte di Cassazione non applica mai le norme per il giusto processo e, sistematicamente, non solleva mai dalla sua funzione il giudice naturale, anche quando questo non è sereno nel dare i suoi giudizi.

Sarah Scazzi: perché il processo resta a Taranto, scrive Diana De Martino su “Golem Informazione”. In più occasioni la Cassazione ha ricordato come non solo le campagne di stampa, ma anche le pressioni dell’opinione pubblica, non sono di per sé idonee a condizionare la libertà di determinazione del giudice. L’omicidio di Sarah Scazzi è uno di quegli eventi delittuosi che, per una serie di ragioni non tutte comprensibili, ha assunto una dimensione di enorme rilievo sugli organi di informazione, e di riflesso sull’opinione pubblica. Proprio tale abnorme interesse mediatico è stato posto alla base dell’istanza di rimessione presentata dalla difesa di Sabrina Misseri, come è noto imputata assieme alla madre Cosima Serrano, dell’omicidio della giovane Sarah. In sostanza i difensori hanno sostenuto che la campagna di stampa tuttora in corso, dai toni quanto mai accesi ed astiosi nei confronti delle imputate, nonché la pressione dell’opinione pubblica pesantemente schierata per la colpevolezza delle 2 donne, avevano determinato un oggettivo condizionamento nelle attività del Pubblico Ministero e nelle valutazioni del GIP nonché del Tribunale del Riesame di Taranto. A fondamento di tale prospettazione la difesa riepilogava una serie di anomalie riscontrate nell’attività della Procura quali la mancanza di vaglio critico degli interrogatori in cui Michele Misseri, modificando l’originaria versione, aveva accusato la figlia Sabrina; la mancata considerazione delle successive ritrattazioni di tali accuse; l’affidamento di ulteriori consulenze finalizzate ad allineare le conclusioni tecniche con le nuove prospettazioni accusatorie; le iniziative assunte nei confronti dei precedenti difensori di Sabrina Misseri, indagati per fatti inerenti all’esercizio del mandato difensivo; le limitazioni alla corrispondenza dei detenuti Michele e Sabrina Misseri nonché la perquisizione nella cella del Misseri e il sequestro di tutta la corrispondenza rinvenuta. L’attività inquirente era stata orientata, secondo la difesa, dal forte condizionamento che la Procura aveva subito di fronte ad un opinione pubblica ormai schierata contro Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Ma tale inquinamento si era esteso agli uffici giudicanti cosicché, ad avviso della difesa, proprio tale pesante condizionamento spiegava la revoca della misura cautelare nei confronti di Michele Misseri, che pure in numerose interviste continuava a proclamarsi l’unico responsabile dell’omicidio di Sarah Scazzi. L’istanza di rimessione formulata sulla base di tali elementi è stata rigettata dalla Corte di Cassazione, con una motivazione a mio avviso del tutto condivisibile, che mette in luce i vari profili di infondatezza degli argomenti difensivi. Va premesso che l’istituto della rimessione, previsto dall’art. 45 del c.p.p., ha la finalità di garantire l’imparzialità e l’indipendenza del giudice nonché l’inviolabilità del diritto di difesa. In pratica la norma stabilisce che quando, per gravi situazioni ambientali, si presenti come probabile un condizionamento dei giudici, che non potrebbero dunque determinarsi in piena libertà ed indipendenza, il procedimento debba essere trasferiti ad altra sede. Si tratta peraltro di uno strumento eccezionale, che non tollera interpretazioni estensive in quanto la conseguente “translatio iudicii” va a collidere con un altro principio costituzionale ovvero quello del giudice naturale. La prima osservazione che deve essere fatta è che le “gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo” devono anche essere “non altrimenti eliminabili”. Ciò vuol dire che vengono in rilievo non l’imparzialità o l’indipendenza del singolo giudice o dello specifico collegio, perché in tali ipotesi sono previsti gli abituali strumenti dell’incompatibilità, dell’astensione e della ricusazione, tutti meccanismi destinati ad eliminare le situazioni che possono incidere sulla libertà di autodeterminazione e sull’indipendenza del singolo magistrato, senza incidere sul principio del “giudice naturale”. Perciò le “gravi situazioni locali” a cui fa riferimento la norma, e che legittimano il trasferimento del processo ad altra sede, devono essere tali da pregiudicare la libertà di determinazione del complessivo ufficio giudiziario. L’art. 45 c.p.p. dunque autorizza lo spostamento del processo nel caso in cui emerga che la grave situazione ambientale, alternativamente:

1) pregiudichi la libera determinazione delle persone che partecipano al processo;

2) metta in pericolo la sicurezza o l’incolumità pubblica;

3) determini motivi di legittimo sospetto.

Nella vicenda in esame si evidenzierebbero – secondo la prospettazione difensiva – le ipotesi di cui alle lettere a) e c). Al riguardo la giurisprudenza ha in più occasioni specificato che il pregiudizio alla libertà di determinazione degli attori del processo implica l’idea di una vera e propria coazione, fisica o psichica; mentre il legittimo sospetto coinvolge la probabilità, fondata su dati obiettivi e concreti, che risulti compromessa l’imparzialità di giudizio. In sostanza, poiché l’istituto della rimessione serve ad assicurare che il giudizio si svolga secondo gli irrinunciabili criteri di libertà e di indipendenza, esso può essere attivato soltanto in via eccezionale, quando, sulla base di elementi concreti, si possa ipotizzare che il giudice sia coartato fisicamente o psichicamente ad una determinata decisione ovvero vi sia il pericolo che possa essere condizionato.

Non sembra che tale situazione possa ravvisarsi a proposito del procedimento relativo all’omicidio di Sarah Scazzi per i seguenti motivi:

- in primo luogo la situazione che sarebbe alla base del sovvertimento del regolare svolgimento delle dinamiche processuali non è una situazione locale bensì nazionale. Proprio il clamore sulla stampa e sui mezzi televisivi - richiamato dalla difesa - ha evidentemente una ricaduta non sulla realtà del distretto di Taranto bensì su tutto il territorio nazionale: i talk show, i telegiornali, le interviste sui quotidiani, gli stessi social-network raggiungono ogni parte del territorio nazionale, cosicché lo spostamento del processo presso l’ufficio giudiziario di Bari (ai sensi dell’art. 11, richiamato dall’art. 45 c.p.p.) non risolverebbe in alcun modo la situazione di potenziale condizionamento.

- in secondo luogo, tale potenziale condizionamento dei magistrati di Taranto non è stato in alcun modo provato. Ed infatti gli argomenti evidenziati a tale proposito dalla difesa, da cui emergerebbe che l’attività inquirente è stata svolta con una sorta di accanimento o di “interpretazione meramente congetturale e illogica” delle emergenze, rappresentano in realtà - come la Cassazione ha riconosciuto - l’espletamento delle funzioni che l’ufficio di Procura è chiamato a condurre istituzionalmente. Analogamente i provvedimenti giurisdizionali indicati dalla difesa come “l’espressione di un pesante condizionamento ed inquinamento dell’attività giurisdizionale” non sono altro che le motivate e ponderate valutazioni dell’organo giudicante.

Si ha anzi l’impressione che la difesa tenti di ottenere – tramite l’istanza di rimessione – una nuova valutazione degli elementi posti alla base delle misure cautelari, in tale sede non consentita. È evidente che nel successivo corso processuale, il complessivo compendio probatorio dovrà essere sottoposto ad un vaglio particolarmente stringente in relazione alle varie ricostruzioni del delitto emerse nella fase di indagine, ma certo l’eventuale rivisitazione degli elementi emersi spetterà alla Corte d’Assise e non alla Cassazione, né può essere veicolata da un’istanza di rimessione.

Resta da aggiungere che in più occasioni la Cassazione ha ricordato come non solo le campagne di stampa, ma anche le pressioni dell’opinione pubblica, non sono di per sé idonee a condizionare la libertà di determinazione del giudice.
Ed infatti chi svolge funzioni giudiziarie è abituato a compiere scelte ed attività che sono oggetto di attenzione da parte dell’opinione pubblica, e spesso di critica anche esasperata. Ma il giudice non per questo svolge le sue funzioni con un’indipendenza menomata o con un giudizio minato da imparzialità.

Sarah Scazzi. Mentre la Cassazione lascia il processo a Taranto in procura ci si interroga per capire qual è il sogno migliore, scrive Massimo Prati su “Volando Contro Vento”. Volevate il processo a Potenza? Per quale motivo visto che a Taranto, a parte il tribunale invivibile in estate (ma le udienze sono iniziate e siamo solo in autunno), si sta benissimo? E vero, a Potenza l'aria è  fresca e si è meno ossessionati, ma vuoi mettere il gustarsi il mare in inverno? Quindi si resta a Taranto, tutti se ne facciano una ragione perché, come ha detto il procuratore Franco Sebastio, anche fosse cambiata la sede il quadro accusatorio sarebbe rimasto invariato. Per cui, dato che il quadro rimarrà invariato ed il processo si celebrerà nel luogo di origine, dobbiamo aspettarci prima una condanna a 30 anni e poi un'assoluzione in Appello (ultimamente capitano queste cose in Italia)? Può sembrare io vada controcorrente dato che tutti i giornalisti ieri e ieri l'altro hanno scritto di una nuova vittoria delle Misseri (tutti tranne il solito noto che ha scambiato i giudici di Cassazione con quelli di Assise). E questo perché nel Palazzaccio romano si è stabilito che le decisioni dei giudici di Taranto devono essere riviste in quanto fallaci in quasi ogni punto. Ed è vero, la Cassazione ha cassato per l'ennesima volta i giudici di Taranto e, per essere onesti, li ha pure bacchettati di brutto. Ma a guardare bene il tutto non sono io ad andare controcorrente in quanto nella stessa sentenza si accreditano un sogno, basta decidersi e dire quale dei tre portati dagli inquirenti ai giudici si ritiene giusto, le testimonianze ex novo di chi in prima ed in seconda battuta aveva dato orari differenti, ed un range cronologico all'interno del quale Sarah sarebbe morta. Per lo meno si accredita la formula ed il metodo usati dai giudici nell'accettarli. E non può essere che così dato che non è compito della Cassazione andare nel dettaglio e decidere se quanto portato dalla procura ha basi solide, e ci sarà tempo e modo per l'Accusa di ribadirle a processo, le testimonianze, e cercare di farle diventare verità definitive, e ci sarà tempo e modo per la Difesa di provare a tornare alla prima tesi. Ed io credo non sia così complicato, perché se non paiono fallaci quattro testimonianze che cambiano nel tempo, inizialmente concordanti in tutto e per tutto, anticipando o spostando gli orari in modo da tornare ad essere concordanti per affrancare una nuova ricostruzione, significa che il modo di fare chiarezza è ambiguo e non idoneo ad entrare in un processo. Significa che nessun alibi portato a discolpa potrà mai ritenersi valido. E non solo a Taranto ma ovunque ed in qualsiasi processo lo si porti. Significa che ai procuratori basterà convincere chi indirettamente l'alibi l'ha fornito, meglio ancora se assecondato da chi fa tele-disinformazione, specialmente nei più seguiti programmi pomeridiani (vanno bene sia la D'Urso con gli onnipresenti avetranesi, a partire da Anna Pisanò, sia la Venier coi suoi opinionisti e psicanalisti tascabili, buoni per tutte le occasioni, escluso il Marazzita), per poter disporre di una diversa ricostruzione dei fatti, per poter disporre di un maggiore spazio temporale e di un alleato in più. E questo non è ciò che voleva chi ha scritto le tavole della legge. Non lo voleva ma è quanto avviene in Italia, ed è già avvenuto, da quando le indagini sono seguite ossessivamente dai media. Tanto che pare quasi un fatto normale, nei giorni o nei mesi, il cambiare le testimonianze acquisite. E che i giudici credano che il tempo agevoli il ricordo a me pare una presa per i fondelli bella e buona. Come può la mia mente, fra due tre o quattro mesi, ricordare meglio ciò che ha visto ieri o una settimana fa? Come può la mia mente dopo essere stata il bersaglio continuo dei programmi televisivi pregiudizievoli, programmi in cui mi hanno detto e ripetuto che i magistrati "hanno una montagna di prove così" e che quella determinata persona è un'assassina, programmi che mi hanno fatto cambiare idea sull'uomo che inizialmente ritenevo un orco ed ora ritengo manipolato, perché ha "solo" gettato il corpo della nipote in una cisterna piena d'acqua (è stato costretto il poverino)... ripeto, come può la mia mente essere tranquilla e neutrale ad ogni interrogatorio in cui mi si dice che quanto ho dichiarato precedentemente non ci sta nel quadro accusatorio già sistemato e concordante? Come può la mia mente non credere di essersi sbagliata visto che il tam tam mediatico mi continua a dire che non è quello l'orario in cui ho visto e che per essere giusto deve spostarsi di, addirittura, 35/40 minuti? Ma i giudici di Cassazione, oltre ad aver concordato con quelli di Taranto che le procedure giuridiche adottate per anticipare o spostare gli orari erano nelle regole, in un certo senso hanno reso valido, anche se in modo del tutto particolare, uno dei sogni del fioraio. Certo è che in procura devono decidere quale sogno e quale ricostruzione vogliano portare al processo, visto che al momento ne stanno utilizzando tre, ed è ora che optino per la ricostruzione che ritengono migliore. Ma qual'è la migliore? Quella della coppia Cerra/Pisanò che parla di un sequestro avvenuto in via Deledda con Sarah presa per i capelli e trascinata in casa, racconto che si dice fatto dal fiorista alla Cerra poi da questa a sua madre e da quest'ultima ai magistrati? Oppure la migliore è quella delle sorelle Scredo? In questa si è parlato di un sogno dove si diceva ci fosse stato uno strangolamento avvenuto in auto da parte di un ombra robusta dai capelli neri chiamata Sabrina Misseri. Anche nel caso in questione il tutto è partito dalle parole del fiorista, stavolta però da quelle dette alla moglie, che passando di bocca in bocca sono arrivate alla Giuseppina Scredo e sono state scoperte dagli inquirenti, grazie alle intercettazioni telefoniche, mentre la stessa le riportava alla sorella Anna. Ma non sarà che dopo averlo tolto dagli imputati del processo principale, ed averlo messo in stand-by in attesa di decisioni, verrà accettata la ricostruzione dello stesso Buccolieri che, sempre in via onirica, ha semplicemente detto di aver visto la Serrano intimare alla nipote di salire in auto? Perché c'è una enorme differenza fra una testimonianza e l'altra, è innegabile, ed a mio modo di vedere pare che nei giorni, anzi nei mesi, il racconto del fioraio sia stato ripreso da più persone e sia stato, in base a chi lo ha ascoltato e ripetuto, modificato più volte e da più bocche (il solito telefono senza fili). Ma forse la mia è una mente troppo pessimista e condizionata da quanto visto e letto nel tempo, perché la sentenza è sostanzialmente davvero favorevole alle donne ora in carcere. I giudici di Cassazione hanno scoperto quali trucchi sono stati usati da chi continuamente metteva in scena nuovi giochi di prestigio. Hanno scoperto che sarebbe potuto accadere (ma il mio è uno scrivere per assurdo) che Sabrina Misseri fosse processata e condannata due volte, visto che ha due imputazioni diverse per la stessa accusa. Hanno scoperto che non ci sono indizi validi a pronosticare una certa condanna e che, quindi, la ragazza sta in carcere da un anno in base al nulla. Hanno scoperto che non si sa ancora quale sia il luogo in cui i magistrati di Taranto vogliano collocare l'omicidio, in auto, in casa, in garage, sotto il fico, in piazza, dal fiorista? Hanno scoperto che al tribunale di Taranto dal 1987 non amano aggiornarsi sulle Leggi che periodicamente entrano a far parte del Codice Penale italiano. Hanno scoperto che non si è dato spazio alla perizia della Difesa, quella sulla localizzazione dei cellulari, preferendo non aprirla neppure e continuare con la perizia che più li agevolava. Hanno scoperto che a Taranto ci si è dimenticati di ascoltare il Misseri quando ne ha fatto richiesta ed anche dopo, sia quando ha cambiato versione che quando si è inserito agli atti un suo soliloquio, dando di questo un'interpretazione parziale senza chiedere all'occultatore cosa volesse significare in realtà con quelle parole. Hanno scoperto che non si è cercato di capire cosa intendesse dire Sabrina Misseri quando "confessava" la sua colpevolezza ad Anna Pisanò, preferendo accettare le dichiarazioni di quest'ultima senza approfondirne il significato. Hanno scoperto che non esiste motivo alcuno, i giudici di Taranto non l'hanno scritto, che spieghi la carcerazione di Cosima Serrano. Hanno scoperto che i magistrati pugliesi non sanno se questa fosse a conoscenza dello "sfrenato amore" di sua figlia nei confronti di Ivano, non ci sono risultanze che lo provino, hanno scoperto che la si è inserita nel delitto, sia avvenuto in auto oppure in casa o in qualsiasi altra parte, senza giustificarne i motivi. Perché Cosima Serrano avrebbe dovuto aiutare sua figlia ad uccidere la nipote? Per "amore di mamma"? Ed inoltre a Roma hanno capito, salvo poi chiedere ai giudici tarantini di decidere quale ricostruzione accettare (come ho scritto sopra), che non si può ascrivere alle indagate il "sequestro di persona" in base a tre modus operandi onirici differenti e difficilmente provabili. Insomma, il caos continua in quel di Taranto. Però, seppure ora i magistrati debbano mettersi in riga, studiare ed aggiornarsi maggiormente, dopo la sentenza che li ha cassati all'80% nell'animo hanno qualche speranza di condanna in più. Una nasce dai cellulari delle due arpie che il giorno successivo la scomparsa non stavano, come detto dai loro difensori, alla ricerca della nipote ma stazionavano nei pressi di una cisterna. Questo la Cassazione non l'ha cassato, ma per renderlo credibile dovranno trovare il modo di restringere il raggio d'azione della cella che ha agganciato i cellulari, al momento di una ventina di chilometri. Un'altra nasce dal fatto che a Roma non si sono permessi di entrare nello specifico, guardando solo la forma e la scrittura, ed hanno lasciato passare liscia l'affermazione che vuole l'omicidio avvenuto fra le 14.00 e le 14.40. Ciò però non significa che il delitto si sia compiuto fra le 14.05 e le 14.15 (come ha scritto il patologo e come affermano i procuratori) perché potrebbe essere avvenuto anche 25 minuti dopo e restare ugualmente in questo lasso di tempo. Perciò il dire che si possono accettare le ricostruzioni degli orari accertati dalla procura, a riguardo di quanto fatto da Sarah prima della sua morte, anche se pare una forzatura per via delle testimonianze postume, in realtà non è sbagliato. Per capirlo basta fare un ragionamento logico (come ho scritto non toccava alla Cassazione farlo o spiegarlo ma lo si farà in Assise... chi lo spiega questo al giornalista pugliese?). Gli inquirenti tarantini danno credito al dottor Strada che in perizia scrive la morte essere giunta ad un'ora dall'aver mangiato il cordon bleu. E tutto andrebbe a posto se Sarah l'avesse mangiato alle 13.10. Ma le nuove testimonianze della madre e della badante vogliono che la ragazzina lo abbia mangiato alle 13.30, dopo aver ricevuto (a suo dire) il messaggio della cugina e poco prima di prepararsi per uscire di casa (l'orario è agli Atti). Ebbene, in base a questo è capibile da tutti che l'aggressione non può essere iniziata che attorno alle 14.30, e non fra le 14.05 e le 14.15 come si ipotizza nella ricostruzione della procura (che ha inserito appositamente un sms ed una telefonata dell'amica, a cui Sarah non ha risposto, per far credere che alle 14.18 fosse già cadavere). E se l'aggressione si posiziona sulle 14,30, e con quanto portato in Cassazione (pur non volendolo dire) lo dicono i Pm che prendono come base la perizia di Luigi Strada e non io, i minuti disponibili per l'omicidio, parlo di quelli necessari a Sabrina Misseri, tornano ad essere insufficienti per lei ma sufficienti per altri. O vogliamo credere che mentre la figlia spediva e riceveva messaggi la madre faceva il "lavoro sporco"? Perché o crediamo questo o siamo bloccati dalla ricostruzione della procura. Ed a meno che i Pm non tornino da Concetta Serrano e dalla badante romena per cercare un diverso orario del pasto grazie ad altri sforzi mnemonici...

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA. CONTRO LO STRAPOTERE DELLE TOGHE (MAGISTRATI ED AVVOCATI) DISPONETE L’ISTITUZIONE DEL DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO. PROPOSTA DI LEGGE IN CALCE.

PREMESSA

Il Popolo della libertà scende in piazza sabato 11 maggio 2013 a Brescia "in difesa di Silvio Berlusconi". Alle numerose esternazioni di esponenti del suo partito su un "uso politico della giustizia" segue quella dello stesso Berlusconi: "La sentenza di ieri è davvero una provocazione preparata dalla parte politicizzata della magistratura che da vent'anni cerca di eliminarmi come principale avversario della sinistra e il rinvio a giudizio di Napoli fa parte di questo uso politico della giustizia". Da una parte vi è Silvio Berlusconi che si presenta come vittima sacrificale della magistocrazia e dall’altra il solito Marco Pannella con i suoi scioperi della fame e della sete per denunciare la detenzione dei carcerati nei canili per umani. Puntano l’indice su aspetti marginali del problema giustizia. Eppure loro sono anche quei politici che da decenni presentano le loro facce in tv. Tutto fa pensare che non gliene fotte niente a nessuno se i magistrati sono quelli che sono, pur se questi, presentandosi e differenziandosi come coloro che vengono da Marte, sono santificati dalla sinistra come unti dall’infallibilità. Tutto fa pensare che se si continua a dire che Berlusconi è una vittima della giustizia (e solo lui)  e che le celle sono troppo piccole per i detenuti, non si farà l’interesse di coloro che in carcere ci sono, sì, ma sono innocenti. Bene, Tutto questo fa pensare che dopo i proclami tutto rimarrà com’è. E tutto questo nell’imperante omertà dei media che si nascondo dietro il dito dell’ipocrisia. Volete un esempio di come un certo modo di fare comunicazione ed informazione inclini l’opinione pubblica a parlare di economia e solo di economia, come se altri problemi più importanti non attanagliassero gli italiani?

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: «Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!»

«La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera». Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.

Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".

Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.

«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»

«Per quanto concerne la remissione per motivi di legittimo sospetto occorre che i capi delle procure generali si attengano a una concezione rigorosamente ristretta dell'istituto». La circolare ministeriale che abbiamo citato non esce dagli archivi del governo Prodi e neppure dal cassetto del terribile ex procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Si tratta invece di una direttiva piuttosto chiara che il ministro fascista Dino Grandi inviava a tutti i tribunali italiani nel 1939, consigliando loro di usare la legittima suspicione con cautela. Eppure se si dà uno sguardo alla storia giudiziaria italiana, se si ritorna su quei casi in cui la legittima suspicione è stata accolta vengono i brividi e si capisce perché la legittima suspicione si trasformi nel legittimo sospetto contro giudici, pubblici ministeri, tribunali. Il caso più drammatico, più doloroso, in cui l'accettazione della legittima suspicione fece danni incalcolabili fu il processo per la strage di piazza Fontana. Non è il caso di soffermarsi più di tanto su quel buco nero della nostra storia. E' tristemente noto: la legittima suspicione riuscì a strappare il processo ai giudici di Milano in un clima golpista e lo trasferì a Catanzaro. Per trent'anni la verità sulla strage rimase sotterrata dalla collusione tra servizi, governi e apparati militari. Il processo di piazza Fontana è il caso più clamoroso ma non certo il primo. Basta scartabellare negli archivi giudiziari per trovare le vittime della legittima suspicione. A due anni dalla fine della guerra si giunge al drammatico processo per la strage di Portella delle Ginestre. Il processo viene spostato da Palermo a Viterbo: la banda di Salvatore Giuliano viene condannata ma i mandanti assolti. Nel 1963 ci imbattiamo nel disastro del Vajont: il processo da Venezia viene trasferito a L'Aquila dove la strage viene definita «evento imprevedibile» e dove governo e Enel vengono assolti. Nello stesso anno il processo per la strage di Ciaculli viene trasferito da Palermo a Catanzaro. Buscetta viene condannato ma altri mafiosi del peso di Pippò Calò se la cavano. Se si leggono gli atti dei processi per mafia si scopre che la richiesta di legittima suspicione viene utilizzata a man bassa, come una chiave magica usata per ottenere in sedi più consone assoluzioni totali o per insufficienza di prove. Il caso più clamoroso è quello di Luciano Liggio, precursore e maestro di Totò Riina. Dopo l'esordio del 1948 con l'uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto, Liggio nel `58 ammazza il boss concorrente Michele Navarra. Liggio viene processato ma prevale la legittima suspicione: nel processo di Bari il fondatore della corrente dei corleonesi viene assolto dal tribunale di Bari per insufficienza di prove. Un altro caso clamoroso fu quello delle schedature Fiat. Negli anni `60 fu proprio Milano il luogo in cui si celebrò il processo alla Zanzara. Quelli sopra i cinquant'anni si ricorderanno che la Zanzara era un giornalino fatto dagli studenti del Liceo Parini usato per contestare ante litteram le regole del conformismo e dell'educazione borghese. In base a denunce e lamentele della parte più reazionaria dei genitori e dell'opinione pubblica ne nacque un processo che fece grande scandalo. Per evitare che nello scandalo finisse il buon nome di qualche famiglia milanese fu invocato addirittura l'ordine pubblico e per legittima suspicione il processo finì a Genova. Nel 1989, comunque, il legislatore decide che le maglie della legittima suspicione sono troppo larghe e discrezionali e soprattutto che vengono usate come strumento per impedire la celebrazione dei processi. A spingere al cambiamento sono proprio i numerosi processi per mafia finiti con l'assoluzione per insufficienza di prove. Viene introdotta una nuova norma, quella attuale. L'introduzione di questa norma restrittiva taglia le unghie a coloro che usavano la legge come un grimaldello, ma limita anche i diritti di coloro che hanno sospetti fondati . Per tutti gli anni `90 i ricchi avvocati dei ricchissimi imputati per tangenti tentano di utilizzare la legittima suspicione per farla franca. Il caso che tutti ricordano è quello di Bettino Craxi che durante la bufera di tangentopoli chiede attraverso i suoi legali ai giudici della Cassazione di spostare da Milano i numerosi processi a suo carico. La richiesta viene presentata in tutte le sedi processuali ma viene respinta proprio perché la suprema Corte si trova a dover fare i conti con una norma restrittiva che lascia poco scampo a chi vuole fare il gioco delle tre carte.

Il 6 maggio 2013 è stata respinta l'istanza di Berlusconi di trasferimento a Brescia dei suoi processi a Milano. La richiesta di trasferimento è basata sul legittimo sospetto che ci sia un accanimento giudiziario, “un’ostilità” da parte della sede giudiziaria del capoluogo lombardo (che giudica sul caso della giovane marocchina) e da parte della Corte d’Appello, che si occupa del processo Mediaset, nei confronti del Cavaliere. In quaranta pagine, stilate dai legali e giunte in Cassazione a metà marzo, vengono rappresentate una serie di decisioni, atteggiamenti e frasi pronunciate in aula dai giudici che sarebbero la dimostrazione dell’accanimento nei confronti del leader del Pdl; tra queste le ordinanze con cui sono stati negati i legittimi impedimenti, le visite fiscali a carico di Berlusconi ricoverato al San Raffaele per uveite, la sentenza del caso Unipol dove gli non sono state concesse le attenuanti generiche, la fissazione di 4 udienze in 7 giorni nel processo Ruby, e alcune affermazioni in aula del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del presidente del collegio, Giulia Turri. Nel 2003 la richiesta di trasferire da Milano a Brescia i processi del cosiddetto filone toghe sporche (Imi-Sir/Lodo Mondadori), in cui era imputato Cesare Previti (mentre Berlusconi era stato prosciolto per prescrizione) fu respinta dai giudici, i quali ritennero che la situazione prospettata non potesse far ipotizzare un concreto pericolo di non imparzialità a Milano.

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». È l' ennesimo colpo di scena sul caso Avetrana. Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate. Per spiegare in che cosa consiste la «grave situazione locale» che «turberebbe lo svolgimento del processo», Mazzotta si dilunga sull'arresto di Cosima (la madre di Sabrina) avvenuto praticamente in diretta tivù dopo la fuga di notizie che l'aveva preannunciato («Fu un tentativo di linciaggio» dice il professor Coppi), parla di testimoni presenti a raduni di piazza che contestavano Cosima, ricorda le pietre e le intimidazioni contro Michele Misseri, il marito di Cosima e padre di Sabrina che fece ritrovare il cadavere di Sarah e confessò di averla uccisa dopodiché cambiò versione più volte, accusò sua figlia dell'omicidio e tornò di nuovo al primo racconto («Ho fatto tutto da solo, Sabrina e Cosima sono innocenti»). Per riassumerla con le parole di Coppi: «L'abbiamo sempre detto, in questo procedimento sono avvenuti fatti di una gravità oggettiva e se non c'è serenità è giusto trasferirlo». Per argomentare meglio la sua richiesta, Coppi ha citato la sentenza Imi-Sir/lodo Mondadori del 2003 (imputati Previti e Berlusconi) con la quale le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono che in quel procedimento non ci fu legittima suspicione. Tutti i punti che in quel processo motivarono la mancanza del legittimo sospetto, nel caso Avetrana dimostrano, secondo Coppi, esattamente il contrario: cioè che esiste la legittima suspicione.

Eppure nonostante il dettato della legge fosse chiaro, la Corte di Cassazione per l'ennesima volta ha rigettato l'istanza.

Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Nonostante ciò da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge Piazza Fontana ll processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969 (foto), ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico Salvatore Giuliano Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica. Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".

C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona". Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.

In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti". Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura". Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini". Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.

Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella. 

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».

Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente.

Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri. Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri. La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata. Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; dal’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove. Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato. 

Paradossale è anche il fatto che è stato assegnato a Franco Coppi il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof. Coppi è per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato. Il riferimento è, appunto al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Processo la cui levatura professionale rispetto ad altri si è contraddistinta nell’assunzione di due atti fondamentali: richiesta di rimessione del processo per legittimo sospetto e minaccia di ricusazione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini.

Per quanto innanzi detto sarebbe auspicabile la predisposizione di un difensore civico giudiziario a tutela dei cittadini. Senza sminuire le prerogative ed i privilegi dei magistrati a questi doverosamente si dovrebbe affiancare, come organo di controllo, una figura istituzionale con i poteri dei magistrati, senza essere, però, uno di loro, perché corporatisticamente coinvolto. Tutto ciò eviterebbe l’ecatombe di condanne per l’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

PROPOSTA DI LEGGE

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI OPERATORI DELLA GIUSTIZIA

"Presso ogni sede di Corte d’Appello è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO DISTRETTUALE.

Esso svolge un ruolo di Garante della legalità, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione della Giustizia, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze e i ritardi degli operatori amministrativi, degli operatori giudiziari e degli operatori forensi, nei confronti del cittadino.

Il Difensore Civico Giudiziario deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino.

Il difensore civico Giudiziario, ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P..

La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative regionali.

Ogni Presidente di Corte d’Appello si attiva, affinché il Difensore Civico Giudiziario possa avere la facoltà operativa e logistica per poter operare.

Presso il Ministero della Giustizia è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO NAZIONALE, come organo superiore al Difensore Civico Amministrativo e Giudiziario, con compiti di controllo e coordinamento. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni politiche nazionali.

Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari.

La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato, rispettivamente, dell'assise regionale e nazionale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti."

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI UFFICI PUBBLICI E GLI UFFICI DI PUBBLICA UTILITA'

Ogni funzionario, pubblico o privato, addetto ad uno sportello aperto al pubblico, deve essere identificato con cartellino di riconoscimento. 

"Il comma 1 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Ogni Comune, deve istituire la figura del Difensore Civico Amministrativo, con compiti di garanzia della legalità, dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione territoriale in generale e di ogni attività di Pubblica Utilità, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni ed i ritardi nei confronti del cittadino. Il Difensore Civico Amministrativo deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative comunali ).

Il comma 2 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Il Difensore Civico Amministrativo ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P.. Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari).

Il comma 3 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato del Consiglio Comunale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti)".

Le norme precedenti si applicano anche presso i Consigli Provinciali e Regionali.

COSI' HANNO TRUFFATO DI BELLA.

Travaglio: Così hanno truffato Di Bella. Dosi sballate e farmaci scaduti, la sperimentazione della cura Di Bella sarebbe viziata da gravi irregolarità, scrive "La Fucina". A quindici anni dalla fine della sperimentazione il Metodo Di Bella sta tornando a far parlare. Migliaia di pazienti si stanno rivolgendo a Giuseppe Di Bella, che sta portando avanti la terapia inventata dal padre Luigi, per essere curati. Ci sono, inoltre, migliaia di casi di guarigione e i tribunali di diverse città hanno imposto alle ASL locali di rimborsare le cure ad alcuni malati. La sperimentazione di questa terapia alternativa era stata bocciata a fine anni ’90, ma da un’indagine del PM Raffaele Guariniello era emerso che c’erano stati gravi errori nella sperimentazione. È significativo un articolo di Marco Travaglio pubblicato su Repubblica nel settembre del 2000, in cui il giornalista raccontava i lati oscuri della vicenda. Lo riportiamo di seguito: “La sperimentazione della cura Di Bella sarebbe viziata da gravi irregolarità. Peggio: alcuni dei 386 malati di cancro che provarono la “multiterapia” (Mdb) del medico modenese sarebbero stati usati come cavie, trattati con farmaci “guasti e imperfetti”, non si sa con quali effetti sulla salute. E l’ Istituto superiore di Sanità, pur sapendolo, non avrebbe avvertito 50 dei 51 ospedali d’ Italia che sperimentavano i protocolli. Sono queste le conclusioni della lunga e minuzionsa indagine aperta due anni fa dal procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello, in seguito ad alcune denunce, sulla sperimentazione nei 4 “centri di riferimento” di Torino (Molinette, San Giovanni antica sede, Mauriziano e Sant’ Anna) e nei 4 della provincia (gli ospedali di Chivasso, Orbassano, Chieri e Cirè). Un’ indagine che non entra nel merito dell’ efficacia o meno della cura, ma si limita ad analizzare la regolarità della sperimentazione. Quattro gli accusati, tutti dirigenti dell’ Istituto superiore di sanità (Iss): Roberto Raschetti e Donato Greco, coordinatori della sperimentazione del 1998, Stefania Spila Alegiani, responsabile dei preparati galenici, ed Elena Ciranni, che curava i rapporti con i vari centri clinici. Grave l’ ipotesi di reato: “somministrazione di medicinali guasti o imperfetti” (punibile, secondo l’ articolo 443 del codice penale, con la reclusione fino a 3 anni). Il direttore Giuseppe Benagiano, a suo tempo indagato, è stato poi archiviato. Nessuna responsabilità per l’ ex ministro della Sanità Rosi Bindi, sentita come testimone in gran segreto, a Roma, all’ inizio dell’ anno. I 4 indagati hanno ricevuto l’ “avviso di chiusura indagini”. Una sorta di preannuncio di rinvio a giudizio, che poi però non è arrivato: grazie alla legge Carotti, i difensori hanno chiesto e ottenuto dal Pg della Cassazione Nino Abbate il trasferimento dell’ inchiesta a Firenze. Con la curiosa motivazione che i farmaci “incriminati” li produce l’ Istituto farmacologico militare fiorentino. Inutile l’ opposizione di Guariniello il quale, sentenze della Cassazione alla mano, ha ribattuto che il 443 non punisce la produzione o la detenzione, ma la somministrazione di farmaci guasti (avvenuta, appunto, a Torino). Spetterà dunque alla Procura di Firenze – che l’ anno scorso aveva già archiviato un’ altra inchiesta sui protocolli Di Bella – trarre le conclusioni: rinviare a giudizio o chiedere l’ archiviazione. Tutto dipenderà dall’ interpretazione delle irregolarità emerse a Torino: errori in buona fede o condotte dolose? Per Guariniello, la prova del dolo sarebbe in una lettera inviata nel ‘ 98 a un ospedale romano, che chiedeva lumi sulla conservazione e la composizione delle “soluzioni ai retinoidi” previste per i protocolli 1 e 9. Nella lettera i dirigenti dell’ Iss precisavano che quelle sostanze hanno una “validità” di soli 3 mesi, dopo di che “scadono” e vanno buttate. Peccato che la stessa direttiva non sia stata diramata agli altri 50 ospedali che sperimentavano la cura. E che infatti continuarono, ignari di tutto, a somministrare quelle soluzioni ampiamente scadute (addirittura vecchie di 4, 5, 9 mesi) e “deteriorate”. Non solo: un gravissimo errore tecnico avrebbe dimezzato il quantitativo di un componente, un principio attivo, fondamentale per l’ efficacia di quelle soluzioni: l’ “axeroftolo palmitato”. In pratica, per i due protocolli, quella sperimentata non era la multiterapia Di Bella, ma una “variazione sul tema” non dichiarata. Così com’ era emerso nel ‘ 98 per altri due protocolli, frettolosamente ritirati dopo che Guariniello vi aveva scoperto alcune sostanze mancanti e alcune altre (come il tamoxifene del professor Umberto Veronesi) aggiunte da una mano misteriosa. Ma quel capitolo è ancora aperto. A Torino.”

IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.

La Camorra nel business degli abiti usati. Così i boss lucravano sui cassonetti gialli. Un'organizzazione legata alla malavita campana ha fatto milioni gestendo il giro d'affari dei vestiti lasciati per beneficenza dai cittadini nei contenitori ai lati delle strade. Un giro gestito da cooperative sociali borderline e per cui sono finite in manette 14 persone. E sullo sfondo il ruolo di Carminati e Buzzi e la gestione anomala dell'Ama, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Vestiti usati, stracciati, sporchi, sono oro per la camorra. Magliette, pantaloni, maglioni e giubbotti, che finiscono nei cassonetti gialli ben visibili ai lati delle strade di ogni quartiere sono il nuovo business per i clan e di Mafia Capitale. Così hanno saputo trasformare una merce senza più alcun valore in una montagna di quattrini. La scoperta della Squadra Mobile di Roma guidata da Renato Cortese e coordinata dalla procura antimafia di Roma ha dell'incredibile. Ma rende bene l'idea di come le cosche sappiano sfruttare qualunque possibilità di fare soldi. In manette sono finite quattordici persone accusate di traffico illecito di rifiuti e associazione per delinquere che aveva tra i suoi scopi quello di raccogliere, trasportare, cedere e gestire una quantità enorme di indumenti usati grazie agli appalti ricevuti dalle amministrazioni pubbliche che senza gara hanno affidato ad alcune cooperative il servizio. Lavori conquistati a Roma, in Abruzzo, in Campania. Ma il traffico vero e proprio aveva come terminali il Sud Africa, i Paesi del Nord Africa e l'Est Europa. A capo dell'organizzazione, secondo gli inquirenti, il boss della camorra Pietro Cozzolino elemento di vertice del clan di Portici-Ercolano (Napoli) e il fratello Aniello. Uno dei promotori sarebbe invece Danilo Sorgente, titolare della cooperativa New Orizon, una delle due coop che a Roma hanno gestito da monopoliste il settore del recupero degli abiti usati. «Un sistema collaudato di “rete” mediante il quale le imprese riescono ad acquisire affidamenti diretti per il servizio di raccolta della frazione tessile differenziata presso i Comuni di Lazio, Campania e Abruzzo, attraverso compiacenze politiche e collaudati meccanismi procedurali di facilitazione degli affidi» si legge nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip del tribunale della Capitale. Complicità politiche dunque, molte delle quali ancora tutte da scoprire. Sindaci, assessori, consiglieri comunali, che avrebbero intrattenuto, non solo a Roma e dintorni, rapporti con gli indagati e con le cooperative pigliatutto. In rapporto sia con Legacoop che con la Caritas per quanto riguarda il recupero degli indumenti usati. Imprese sociali che godevano anche di uno speciale regime fiscale e di agevolazioni per l'assunzione di persone svantaggiate, come per esempio i detenuti. La gestione dell'affare prevedeva il finto recupero della merce raccolta e la sistematica falsificazione dei documenti di trasporto e dei certificati di «igienizzazione»: la legge prevede che gli abiti raccolti prima di poterli reinserire nel mercato vadano disinfettati e ripuliti. L'associazione scoperta dalla polizia, invece, per risparmiare non avrebbe effetuato questo passaggio e spediva direttamente all'estero i prodotti, che senza questo passaggio potevano diventare nocivi per la salute. Un esempio: una delle cooperative coinvolte, Lapemaia onlus, nei primi otto mesi del 2012 ha smerciato quasi tre tonnellate di abiti usati tra la Tunisia la Polonia e la Campania, guadagnando mezzo milione di euro. Il ricarico su ogni chilo venduto all'estero andava dai 35 ai 58 cent. Spiccioli che vanno moltiplicati per le 12 mila tonnellate: a tanto corrisponde, secondo uno degli indagati, il business. La spedizione, dai porti di Salerno e Civitavecchia, avveniva attraverso società di intermediazione che servivano a facilitare la falsificazione dei documenti e la spedizione verso Nord Africa e Europa dell'Est. Il meccanismo insomma è sempre lo stesso. Il tipico giro bolla che permette di declassificare i rifiuti. Un meccanismo che gli imprenditori della camorra conoscono molto bene. Con questo meccanismo è stata infatti avvelenata la provincia di Caserta trasformandola in Gomorra. I documenti raccolti dalla squadra Mobile coinvolgono indirettamente la società partecipata dal Comune di Roma Ama Spa, l'ente che affida il servizio già coinvolta nell'indagine Mafia Capitale . Il giudice per le indagini preliminari ha un giudizio netto su come è stata gestita la società e punta il dito sul potere che esercita il braccio destro del boss Massimo Carminati sull'azienda : «Tutti (gli indagati ndr) trovano la premessa del loro agire nella disfunzionale gestione di Ama SpA, nel fattuale potere gestorio in essa esercitato dal referente di tutte le cooperative sociali, Salvatore Buzzi, il cui assenso è stato la premessa della ripartizione del territorio comunale per la raccolta del tessile». In altre parole è stato necessario il permesso del ras delle cooperative romane, Buzzi, perché la camorra e gli imprenditori indagati potessero lucrare sugli abiti usati. A Buzzi, pur non facendo parte di questa associazione scoperta dalla Mobile, «si deve, tuttavia, l’operatività del sistema», grazie a lui è possibile l'aggancio all'ambito istituzionale, al mondo di sopra. Insomma è Buzzi «il raccordo terminale delle consorterie che si dividono l’affare dei rifiuti tessili a Roma», e lo farebbe tramite un imprenditore, tale Mario Monge, presidente dell'importante consorzio Sol.co che dal Comune di Roma ha pure ottenuto la gestione di un bene confiscato alla mafia, il nuovo cinema Aquila. Così come la stessa cooperativa Horizons, che fa parte di Sol.co e che gestisce quello che un tempo era il quartier generale di Enrico Nicoletti, il cassiera della banda della Magliana. È Monge. secondo gli inquirenti, che organizza l'incontro tra i titolari delle cooperative coinvolte nel traffico, l'ex assessore della giunta capitolina ai tempi di Veltroni Dante Pomponi e i rappresentati della Coin, per programmare un eventuale affidamento del servizio a Roma Sud ed Est. Buzzi e Monge, stando agli atti dell'indagine, dialogano e sono in rapporti. Anzi gli investigatori su questo sono più precisi: «Chi vuole vincere non paga più – come un tempo – solo alla Pubblica Amministrazione, in un contesto che è solo corruttivo, ma paga al titolare di poteri di fatto all’interno della Pubblica Amministrazione, poteri che sono correlati al dominio della strada(cioè Buzzi e "er Cecato ndr), e che si proiettano nel mondo istituzionale, condizionandolo anche con la corruzione, poteri che sono, in una parola, di stampo mafioso». A conferma di ciò riportano un episodio: «Le cooperative che risultano vincenti all’apertura delle buste 2013 (per la raccolta degli indumenti usati) sono quelle che hanno rinunciato all’appalto per la raccolta del rifiuto multimateriale, e sono quindi gratificate dal Buzzi». Ama Spa è per gli investigatori roba di Carminati. «Ama S.p.a. società posseduta dal comune di Roma, all’interno della quale – sotto l’occhiuta regia di Carminati  - si è svolta la collocazione in posizione apicale di soggetti che rispondono a un’organizzazione che non può che dirsi mafiosa, per i mezzi che utilizza, per i soggetti che la praticano e per la finalità che la animano». Parole pesanti che si aggiungono ai risultati dell'inchiesta su Mafia Capitale. Ma non finisce qui: «Buzzi , interfaccia economico di Carminati, che costituisce il regista anche dell’Ati Roma ambiente, aggregato di consorzi di imprese cooperative che è costola del più ampio disegno di ripartizione degli appalti distribuiti dall’Ama spa, in materia di verde pubblico , raccolta multimateriale dei rifiuti, raccolta del tessile». L'ipotesi della procura è che oltre a Mafia Capitale in Roma Ambiente ci sia anche la camorra guidata dal boss Cozzolino, uno degli artefici del grande traffico internazionale. Per questo secondo i detective della Mobile «vi è una concreta emergenza documentale, che consentono di chiarire che nemmeno gli appalti per i rifiuti tessili, connotati, peraltro, da un giro d’affari di milioni d’euro, sono sfuggiti alla regola della programmazione e del controllo nell’erogazione; e alla stura, anche, ad attività di interesse della criminalità organizzata, che hanno compromesso totalmente i beni della salute e dell’igiene pubblica, pur di massimizzare i profitti, nei Pesi esteri destinatati dell'invio».

Il business milionario degli abiti usati. Ogni anno circa 10mila tonnellate di vestiti finiscono nei cassonetti gialli presenti in tutte le città italiane. Ma solo una piccola parte arriva a chi ne ha davvero bisogno o viene utilizzata per sostenere progetti di solidarietà. Su questo enorme giro d'affari, grazie a regolamenti poco chiari e all'assenza di controlli, spuntano molte associazioni ambigue e la stessa criminalità organizzata. Come confermano anche gli ultimi sviluppi dell'inchiesta su Mafia Capitale che hanno portato all'arresto di 14 persone, scrivono Luigi Dell'Olio e Clemente Pistilli, con un commento di Carlo Ciavoni suLa Repubblica”.

Le troppe ambiguità di un circuito opaco scrive Luigi Dell'Olio. "Raccolta indumenti usati: grazie per il vostro aiuto", recita l'adesivo a caratteri cubitali apposto sul cassonetto giallo. Una scena che si può incontrare a Roma, Milano, Napoli, così come in centinaia di centri italiani di piccole e medie dimensioni. Ogni giorno decine di persone si recano presso i cassoni e vi depositano gli abiti che non utilizzano più, convinti di dare conforto ai più poveri. Complice la presenza di didascalie negli adesivi relativi alle principali destinazioni. Peccato che le cose non vadano sempre così: la maggior parte degli abiti raccolti, infatti, finisce nel circuito del riciclo, venduta a negozi specializzati in abiti vintage o a chi gestisce le bancarelle del mercato. Nel migliore dei casi, una piccola quota viene destinata a organizzazioni caritatevoli, ma la rendicontazione in merito è molto deficitaria e solo pochi (che fanno della trasparenza un tratto distintivo della loro attività) accettano di parlare. Così non sorprende che sul business si siano fondate organizzazioni criminali, che operano attraverso truffe ai cittadini e intimidazioni nei confronti degli operatori onesti. L'ultima conferma arriva dai 14 arresti eseguiti giovedì 15 gennaio dai carabinieri nell'ambito dell'inchiesta su Mafia Capitale. La raccolta differenziata dei rifiuti tessili è cresciuta sensibilmente negli ultimi tempi fino a raggiungere il 12% del totale (che si aggira su 80mila tonnellate annue), pari a 2 kg a persona, secondo stime dell'Ispra (ministero dell'Ambiente). Che tali rimangono, dato che non esiste un censimento ufficiale proprio per la carenza informativa di cui si è già accennato. Gli operatori del mercato formano un ventaglio molto ampio: vi sono enti caritatevoli così come organizzazioni senza fini di lucro attive nella cooperazione internazionale, ma anche aziende commerciali, oltre che cooperative sociali. Senza trascurare i casi di società for profit che agiscono in collaborazione con associazioni per i poveri, ma destinando a queste ultime solo poche briciole (spesso gli impianti di raccolta vengono collocati strategicamente accanto alle chiese). Il tratto comune a quasi tutte queste iniziative è che quasi mai gli abiti raccolti finiscono per coprire e scaldare i più poveri. Anche se va riconosciuto che donare gli abiti resta un valore, così come l'attività di chi utilizza i proventi della rivendita per finalità sociali/caritatevoli. La maggior parte dei comuni italiani ha affidato il servizio a operatori che raccolgono gli abiti dai cassonetti e li vendono a ditte di stoccaggio per pochi centesimi al pezzo (da 20 a 30, in base alla loro qualità). Il trattamento degli abiti raccolti prevede prima la selezione (escludendo i capi destinati al riutilizzo, ad esempio perché troppo rovinati) e poi l'igienizzazione, da effettuare prima che gli abiti siano rimessi nel ciclo post consumo. Diverse inchieste della magistratura hanno però messo in luce la non corretta gestione della filiera degli abiti usati (senza le giuste autorizzazioni per lo stoccaggio e per  il trasporto). Il fatto che non si abbia il pieno controllo della filiera presta il fianco ad  attività di trattamento illecito di rifiuti. Un fenomeno che ha portato anche a diversi arresti e accertamenti da parte dei carabinieri per l'ambiente. La scorsa primavera la Procura di Roma ha aperto un'indagine in merito, rilevando il diffuso interesse della camorra per questo business (i cassonetti gialli sono 1.800 nella Capitale, per un incasso annuo intorno ai 2 milioni di euro), che si è manifestato anche attraverso intimidazioni alle aziende impegnate nella filiera, dirette a eliminare la concorrenza. Partendo da alcune denunce anonime, il sostituto procuratore della Capitale, Alberto Galanti, ha scoperto che gli abiti usati, una volta prelevati, venivano rivenduti (soprattutto all'estero) senza i dovuti trattamenti di igienizzazione che la normativa impone prima della commercializzazione. Un filone di questa indagine è passato sotto la competenza della Direzione Investigativa Antimafia, che messo nel mirino i presunti legami tra i clan camorristici e diverse aziende impegnate nell'igienizzazione dei capi, con sede a Capua e San Sebastiano al Vesuvio, che avrebbero rilasciato attestati di trattamenti conformi alla legge, in realtà mai avvenuti. Per la mala campana non si tratta di una novità dato che già nel 2011 la Dda di Firenze aveva eseguito un centinaio di arresti dopo la scoperta di un traffico illecito di indumenti usati provenienti dalla raccolta sul territorio, in larga parte gestito dal clan camorristico Birra-Iacomino di Ercolano. Il processo che è seguito ha portato per la prima volta alla condanna di mafia per un imprenditore toscano "per condotta connessa alla sua attività imprenditoriale". Raccolti alla rinfusa e imballati, spiega il Report Ecomafie di Legambiente, gli abiti erano stati messi in vendita al pubblico nelle bancarelle dei vari mercati rionali, senza alcuna precauzione igienica, saltando dunque le fasi di selezione, cernita e igienizzazione, previste dalla procedura. Nello stesso filone si è mossa anche l'indagine New Trade, che lo scorso anno ha portato la Dda di Firenze a indagare il titolare di una ditta di Prato, che avrebbe messo in piedi un sistema di traffici illeciti di rifiuti plastici e abiti usati verso Cina e Tunisia. Gli indumenti venivano rivenduti senza trattamenti igienico-sanitari in Africa e nei mercatini vintage italiani. Il traffico è stimato per migliaia di tonnellate. Secondo gli inquirenti, a gestire il traffico una rete organizzata di trafficanti, che parallelamente aveva messo in atto sul territorio anche attività di stampo mafioso come estorsioni e usura.  Sono in attesa di processo anche gli imprenditori denunciati a Potenza in seguito all'operazione Panni Sporchi, che ha scoperto un flusso illegale di scarti tessili, con proiezioni anche verso l'Albania e alcuni paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Fingendo un'attività umanitaria, gli indumenti usati venivano raccolti e rivenduti illegalmente in Italia e all'estero. L'operazione ha portato al sequestro preventivo di 18 automezzi impiegati nel trasporto in tutta la penisola e alla denuncia di 57 persone, indagate per associazione a delinquere finalizzata alla realizzazione di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, falso ideologico e truffa, per un giro d'affari valutato dai forestali "in alcuni milioni di euro l'anno". Tra i denunciati, anche 15 funzionari comunali che hanno autorizzato la raccolta degli stracci senza aver verificato il possesso delle relative autorizzazioni da parte degli addetti alla raccolta. "Girando di casa in casa o attingendo ai cassonetti adibiti al recupero di indumenti  -  scrivono gli investigatori del Corpo forestale dello Stato  -  i presunti responsabili hanno raccolto abiti usati per commercializzarli sul territorio nazionale e internazionale".  Inoltre, spesso capita che qualcuno tiri fuori i sacchetti dai cassonetti e si appropri dei pezzi migliori, lasciando a terra il resto. Si tratta di illeciti, commessi da persone che vivono di espedienti: alcuni tra loro prelevano gli abiti per indossarli, ma la maggior parte li usa per venderli nei mercatini abusivi. Complessivamente, il danno alla raccolta è minimo, anche se questo produce un disordine ambientale. Vi è poi un mercato parallelo relativo alle aree private. Sarà capitato a tutti di trovare, affissi su portoni e citofoni, volantini per la raccolta di indumenti usati, con l'indicazione del giorno e dell'ora per il ritiro. Si tratta per lo più di biglietti anonimi o con indicazioni approssimative, che difficilmente consentono di risalire a chi gestisce il servizio. In questi casi, la raccomandazione è di segnalare il fatto alle autorità. A San Donato (Milano), addirittura, sono stati scoperti cassonetti abusivi collocati sui marciapiedi cittadini, di colore e conformazione simile a quelli ufficiali, ma abusivi (privi di logo e posizionati senza autorizzazioni). Le indagini dei carabinieri sono partite proprio grazie alla segnalazione di un cittadino. Al di là degli illeciti, la sensazione diffusa è di una scarsa trasparenza nel mercato. In pochi accettano di raccontare il proprio business, di spiegare quanta parte dell'incasso genera profitti e quanto invece viene destinata ad azioni caritatevoli. "Occorrerebbero normative per obbligare gli operatori del mercato a una maggiore trasparenza informativa nei confronti della comunità", osserva Karina Bolin, presidente dell'organizzazione umanitaria Humana People to People Italia, che nella Penisola gestisce 4.788 contenitori all'interno di 946 comuni e impiega 120 persone, con una raccolta che lo scorso anno è stata di 15,45 tonnellate. "Pubblichiamo ogni anno un bilancio delle attività svolte", rivendica Bolin ricostruendo la filiera: "Gli abiti estivi in buono stato vengono inviati in Africa (1,034 tonnellate lo scorso anno), dove sono regalati solo in casi di emergenza. Negli altri casi sono venduti a prezzi accessibili per ottenere fondi da impiegare per i progetti sociali attivi localmente. Gli abiti non adeguati all'invio in Africa, vengono venduti in Italia e in altri paesi europei, sia al dettaglio sia all'ingrosso. Con i fondi ricavati, oltre ad autofinanziare la nostra attività, impieghiamo gli utili per i progetti di sviluppo nei Paesi emergenti (pozzi, scuole e interventi sanitari) e per azioni sociali e di tutela ambientale in Italia. Andrebbe inoltre imposto l'obbligo di trasparenza dell'intera filiera, dalla raccolta degli abiti usati fino alla loro destinazione finale, e una rendicontazione adeguata", prosegue Bolin. "Anche perché non è giusto trarre in inganno i cittadini, inducendoli a pensare che i vestiti siano destinati a un'attività sociale: al contrario in questo settore si muovono molti operatori non in regola, spesso non controllati dalle istituzioni per la mancanza di adeguati strumenti di verifica".

Le mani della Camorra sugli stracci di Roma, scrive Clemente Pistilli. Gli abiti usati a Roma non hanno più la puzza degli stracci e neppure quell'odore acre ma caldo della beneficenza. Sulle pezze è ormai forte il profumo dei soldi e a imprimerlo sono state le mafie, camorra napoletana in testa. Un affare da oltre due milioni di euro l'anno quello dei 1.800 bidoni gialli sparsi nella capitale, dove i romani svuotano il guardaroba. Troppo ricco per sfuggire ai clan, che da circa un decennio - in base alle ultime indagini condotte dall'Antimafia capitolina - starebbero cercando di imporre la loro legge a suon di minacce e attentati, a partire da quelli alle tre principali cooperative che raccolgono i vestiti vecchi per conto dell'Ama, municipalizzata incaricata dell'igiene urbana, fino a trovare anche qualche forma di intesa con quelle che erano le loro vittime e a rientrare nella spartizione degli appalti pubblici con regista Mafia Capitale. Un business ideato dalle mafie ad Ercolano, in Campania, esportato in Toscana, a Prato, e infine nel Lazio e in Abruzzo, con protagonisti ex collaboratori di giustizia fuori controllo. I tentacoli stretti dai clan sulla capitale sono stati scoperti dopo due anni di indagini compiute dalla Mobile di Roma sulle tonnellate di stracci dirette in Africa e nell'Europa dell'Est, secondo la Dda senza disinfettare e ripulire gli abiti usati raccolti, e con una denuncia presentata nella scorsa primavera ai carabinieri di Cisterna di Latina da un imprenditore del posto, Alfonso Balido, originario di Napoli, impegnato nella Balidex, società che stocca vestiti vecchi. Un anello della catena delle pezze. L'Ama ha dato l'appalto per svuotare i cassonetti degli stracci a due consorzi, per i quali lavorano cinque cooperative. Le coop vendono i vecchi vestiti alle aziende come quella di Cisterna, che a loro volta li cedono a società campane che si occupano della cernita. E di passaggio in passaggio il valore delle pezze cresce. Basta poi evitare la sterilizzazione, o imporre i prezzi alle ditte di stoccaggio, e le somme schizzano verso l'alto. Proprio quello che fa la camorra. A Balido un gruppo di campani ha cercato di imporre il pizzo, furiosi perché aveva iniziato ad acquistare dalla coop New Horizons, prima appannaggio di una loro azienda con sede a Ferentino, nel frusinate. L'imprenditore, con la sua denuncia, il 12 giugno ha fatto arrestare dai carabinieri i fratelli Simone e Pietro Cozzolino, ex pentiti in libertà, e i nipoti dei due, Vincenzo Cozzolino e Vincenzo Scava. Le indagini sono poi andate avanti e le prove dell'estorsione mafiosa, per il pm antimafia romano Lina Cusano, sono talmente evidenti che ha chiesto e ottenuto dal gip Anna Maria Gavoni il giudizio immediato per i quattro, difesi dagli avvocati Giuseppe Bucciante e Giusi Grigoli, un processo iniziato il 16 dicembre a Latina. Gli inquirenti però hanno scoperto anche il cuore dell'infiltrazione della camorra delle pezze. Alla coop Lapemaia, tra il 2004 e il 2009, il deposito è stato bruciato tre volte e alla New Horizons una volta. Il titolare de Lapemaia, Marcelo Rodolfo Ocana, cinque anni fa, denunciò alla polizia: "Temo seriamente per la cooperativa, per la mia incolumità e quella dei miei venti dipendenti, considerando che, notoriamente, il mercato in questione interessa le organizzazioni criminali, camorra in particolare". Ma le intimidazioni sarebbero continuate. "Cozzolino a Cisterna fece capire  -  ha dichiarato lo scorso anno Ocana ai carabinieri  -  che la piazza di Roma era sua". Minacce infine anche alla coop Rau, come confermato agli inquirenti da un socio della cooperativa, Biagio Di Marzio: "Cozzolino mi minacciò in un bar sulla Prenestina Nuova". Ma c'è di più. A un tratto alcune delle coop vittime delle intimidazioni, come Lapemaia e la New Horizons, avrebbero preso parte all'affare illecito degli stracci che, senza alcuna sanitizzazione, venivano spediti all'estero, sotto la regia sempre di Pietro Cozzolino, e del fratello Aniello, latitante dal 2008, tanto che anche manager, come Ocana, e dipendenti delle cooperative sono stati arrestati giovedì scorso. Senza contare che per l'Antimafia sporchi sarebbero anche gli stessi appalti affidati dall'Ama per raccogliere gli stracci, frutto di "compiacenze politiche e collaudati meccanismi procedurali di facilitazioni degli affidi", in cui avrebbe avuto un ruolo di primo piano sempre quel Salvatore Buzzi ritenuto la cassaforte dei fasciomafiosi. E Balido? "La metà dei clienti che avevo a Napoli non vuole più lavorare con me", ci ha confessato due mesi fa, attendendo l'esito del processo in corso a Latina. Il prezzo che si paga denunciando la camorra. Come distinguere gli operatori seri. Come si è detto, nel settore della raccolta di indumenti usati regna la confusione in merito alle modalità di valorizzazione dei capi e dei ritorni per la comunità. Ma la situazione non è del tutto trasparente nemmeno sul fronte dei cassonetti perché, accanto a quelli posizionati in accordo con le amministrazioni comunali, spesso vi sono iniziative estemporanee, nelle quali è difficile persino capire chi sono i promotori e chi si occupa della raccolta. Alcuni accorgimenti possono aiutare a fare una scelta consapevole: sul contenitore per la raccolta degli indumenti devono essere indicati gli estremi della società o associazione che si occupa della raccolta, con un numero di telefono (se c'è solo un cellulare e non un fisso qualche sospetto può essere legittimo), l'indirizzo della sede e il sito Internet. È fondamentale, inoltre, che sia indicata la finalità dell'iniziativa di raccolta. Chi ha dubbi sulla conformità del cassonetto, può verificarne la regolarità telefonando al proprio Comune, che possiede la mappatura completa dei contenitori autorizzati. In alcuni centri queste indicano si trovano anche online.

Ogni città raccoglie a modo suo, scrive Luigi Dell'Olio. La situazione è molto diversificata a livello nazionale, quanto a modalità della raccolta e soggetti impegnati nell'attività. Il tratto comune (tranne poche eccezioni) è la scarsa trasparenza in merito all'incasso della raccolta e alla quota destinata effettivamente a iniziative sociali.

A Torino la municipalizzata Amia ha messo a punto un prontuario online con indicazioni puntuali: il materiale da conferire (abiti, maglieria, biancheria, cappelli, coperte, borse,  scarpe e accessori per l'abbigliamento), le modalità ("gli abiti usati devono essere riposti in sacchetti o imballaggi ben chiusi") e le destinazioni ("il materiale in buono stato viene gestito da aziende che lo mandano nei Paesi in via di sviluppo, mentre ciò che resta viene riciclato per l'ottenimento di materie prime, quali ad esempio la lana rigenerata").

Genova si è dotata di un sistema di tracciabilità che privilegia la trasparenza. Collegandosi al sito Staccapanni si ricavano informazioni sul servizio  -  curato dalla Fondazione Auxilium e dalla Caritas Diocesana, in collaborazione Amiu (Azienda Multiservizi e d'Igiene Urbana) e della cooperativa sociale Emmaus, che cura materialmente il servizio. Nello spazio Web sono presenti i numeri dell'attività (260 contenitori, 1.400 tonnellate raccolte), oltre alla destinazione dei capi, che segue tre strade: una parte viene selezionata e distribuita alle persone in stato di bisogno. Quello che avanza e risulta in buono stato, viene venduto ad operatori del mercato dell'abito usato, mentre il materiale in pessimo stato viene ritirato come pezzame industriale, senza che ciò produca ricavi economici.

A Milano la raccolta è affidata a un gruppo di cooperative sociali organizzate da Caritas Ambrosiana e Compagnia delle Opere, che provvedono al loro riutilizzo o riciclaggio. La capofila è la onlus Vesti Solidale, che ha messo a punto il sito Internet "Dona Valore", la stessa scritta che campeggia sui cassonetti che aderiscono all'iniziativa, con la rendicontazione delle attività svolte. "Complessivamente impieghiamo circa 50 lavoratori provenienti da situazioni di disagio", spiega il responsabile dalla onlus Carmine Guanci. "Dall'amministrazione comunale non riceviamo nulla; l'80% dei proventi della rivendita serve per coprire i costi del servizio e pagare gli stipendi. Il resto finisce nelle iniziative sociali". Nel 2013 sono stati destinati 290mila euro a sostegno dei progetti presentati dalle cooperative promosse da Caritas Ambrosiana e socie del Consorzio Farsi Prossimo. Un dato in crescita rispetto ai 228mila euro del 2012.

Il Comune di Padova ha affidato il servizio alla Caritas Diocesana, che ha predisposto il sito Internet "Che fine fanno", con l'intento di garantire trasparenza alla gestione del materiale riposto nei contenitori gialli. Il servizio è materialmente svolto da un gruppo di cooperative sociali  -  Città solare, Il Grillo, Cooperativa Ferracina, Montericco e Cooperativa Sociale insieme  -  che, attraverso accordi con alcuni comuni e con le società Etra, Acegas-Aps, Veritas, PadovaTre gestiscono la raccolta degli indumenti nel territorio della Diocesi patavina, che comprende cinque province venete. Al termine del processo di recupero e smaltimento le cooperative sociali destinano una parte degli utili derivanti dallo smaltimento o vendita (il 7%) per la realizzazione di alcuni progetti di Caritas Padova, rendicontati sul sito.

A Bologna hanno da poco debuttato i nuovi contenitori studiati da Hera, singolari per colorazione (il grigio, che si armonizza con i cassonetti stradali) e la "vestizione" (giocata su icone che hanno l'obiettivo di rendere facilmente comprensibile ai cittadini la funzione del cassone), con l'obiettivo di far crescere i numeri, dopo che già nel 2013 è stato raggiunto il livello ragguardevole di 647 tonnellate. Materialmente la raccolta è stata affidata al consorzio di cooperative sociali Ecobi, che è subentrato alla gestione frammentata che ha caratterizzato gli anni precedenti. Riunisce imprese locali, come La Fraternità (Ozzano), La Piccola Carovana (Crevalcore) e Pictor (Budrio). Vestiti e scarpe, per il momento, vengono stoccati presso gli impianti di due Onlus (Fraternità e Piccola Carovana). Una volta a regime, invece, Ecobi farà autorizzare a Ozzano un vero impianto di trattamento e selezione, che consentirà un puntuale controllo di tutta la filiera, dalla raccolta alla reimmissione sul mercato, posti di lavoro. Le cooperative infatti, potranno rivendere il materiale raccolto e tenere per le proprie attività sociali i ricavi. Questo sistema permette di non avere costi per Hera né, per il Comune.

A Roma lo scorso anno sono state raccolte 9.500 tonnellate di abiti usati (contro le 7.250 dell'anno precedente), attraverso 1.800 contenitori (nel 2008 erano appena 504), dislocati in tutto il territorio della capitale. Il prelievo (effettuato una volta a settimana, con l'impiego di 61 operai) viene svolto dall'associazione temporanea di impresa Roma Ambiente, composta da due consorzi, l'Alberto Bastiani e Il Solco. Entrambi contattati per questo servizio, non hanno voluto fornire numeri sulla raccolta e sulle destinazioni dei proventi. Di certo si sa che i numeri in gioco sono rilevanti: l'incasso stimato annuo è di 2 milioni di euro all'anno, tanto che ora l'Ama (spa del Comune di Roma) ha in corso il nuovo bando per l'assegnazione triennale del servizio, dal quale conta di incassare una somma consistente. La raccolta viene effettuata da un totale di 61 operatori (le coop danno lavoro anche a ex-detenuti, offrendo loro una possibilità di reinserimento), in media una volta a settimana. Il 15% circa degli abiti usati raccolti finisce nei negozi di vintage, il 45% nei Paesi in via di sviluppo soprattutto in Africa, il 25% viene impiegato come pezzame e il resto diventa scarto o finisce in beneficenza.

Infine a Napoli tre anni fa è stata bandita una gara d'appalto, che ha visto primeggiare il duo composto dalla Onlus Ambiente Solidale e della F. lli Esposito Sas. Gli aggiudicatari, che hanno posizionato un contenitore ogni 1.500 residenti, sono tenuti a corrispondere ad Asia (Agenzia servizi di igiene ambientale) Napoli 3 centesimi per ogni Kg di rifiuto raccolto. Somme che compongono un fondo impiegato per attività umanitarie.

Beffa atroce, ma resistiamo al cinismo, commenta Carlo Ciavoni. La solidarietà, il sentimento umano di aiutare il prossimo, che prende forma in azioni organizzate o individuali e spontanee, mostra a volte il suo volto fasullo, furbo, arcigno. Tutto così diventa più sgradevole, molto di più di quando ci si sente semplicemente fregati, da qualcuno che t'infila le mani in tasca per rubare, o ti raggira con un trucco. L'atto solidale, sospinto da ideali religiosi o laici che siano - quando viene tradito e sbeffeggiato, in chi lo compie si trasforma in un dolore acuto, come un chiodo nella propria intimità etica. La storia dei cassonetti gialli, con tutti quegli indumenti regalati a chi ne ha bisogno, si aggiunge ad altre beffe compiute alle spalle di chi cerca di cambiare in meglio la vita dei disgraziati di questo mondo i quali, senza chiederlo, dovrebbero ricevere senza troppi maneggi ciò che viene loro donato. Purtroppo, l'universo della Cooperazione e del volontariato nella sua complessità non è stato ancora analizzato a fondo. C'è da comprendere, infatti, quali proporzioni abbia davvero il fenomeno della speculazione sugli aiuti umanitari, se esiste, e che profilo ha il volto nascosto della Cooperazione, in ogni sua forma possibile. Si calcola, ad esempio, che nel mondo operino circa 50mila Organizzazioni non governative (Ong) e che le attività riferibili al cosiddetto Terzo settore (cioè Ong, Onlus, fondazioni, enti di carità, cooperative, soprattutto agenzie Onu) muovano un mare di denaro di circa 400 miliardi di dollari. Valentina Furlanetto - giornalista a Radio 24 - un paio d'anni fa ha scritto un saggio, assai contestato per la verità, anche con ottime ragioni, ma che ha avuto comunque il merito di accendere l'attenzione su un aspetto in questo ambito di cose, altrimenti nascosto dalla "nebbia" dei buoni sentimenti. Il saggio s'intitola L'industria della carità - Da storie e testimonianze inedite il volto nascosto delle beneficenza - Chiarelettere - 243 pagine, 13.90 euro). La Furlanetto sferra un attacco frontale al mondo della Cooperazione e del volontariato. E traccia un elenco di organizzazioni da lei annoverate fra le più ricche: Save the Children, World Visione Feed the Children (circa 1,2 miliardi di dollari di bilancio ciascuna). Poi si domanda da dove provengano quei soldi e si risponde che arrivano da enti pubblici o da donazioni private. La giornalista denuncia sprechi, ma anche i vuoti del nostro sistema d'assistenza e sottolinea come il Terzo settore sia lievitato negli ultimi quarant'anni: da una ventina che erano negli anni '60, le Ong italiane (una piccola porzione del Terzo settore) oggi riconosciute ufficialmente sono 248, coinvolte in 3.000 progetti in 84 Paesi del mondo, e impegnano 5.500 persone, con un budget gestito di circa 350 milioni di euro l'anno. Bene, detto tutto ciò, va però precisato che, semmai tutto questo "esercito" non ci fosse - e sono tutti a dirlo - quella parte del mondo, circa l'80% dell'umanità, non avrebbe compiuto enormi progressi per quanto riguarda la riduzione delle morti per fame, nel calo vistoso della mortalità infantile e della povertà in genere, oltre che aver aumentato complessivamente la scolarità. La macchina solidale costa: è vero. E sicuramente il rapporto tra quanto viene investito nei progetti di aiuto e il valore reale che resta sul terreno potrà (dovrà) migliorare di molto, a vantaggio dei beneficiari. Ma è altrettanto vero che la stragrande maggioranza dei cooperanti (che non vanno confusi con i missionari) lavora compiendo scelte spesso difficili di distacco dal proprio ambiente, con stipendi nient'affatto faraonici (almeno nella stragrande maggioranza dei casi) e che comunque riescono sempre a portare a termine programmi di sviluppo o interventi d'emergenza in contesti spessissimo difficili e pericolosi. In casi come questo dei cassonetti di raccolta fasulli, dunque, sarebbe bene non dar sfogo a fantasie che mettano tutto e tutti nello stesso calderone, in una baraonda "de magna-magna" che davvero sarebbe sbagliato e ingiusto associare a questo complicatissimo mondo. La totalità delle organizzazioni che lavorano per aiutare il prossimo, nelle emergenze, nei progetti di sviluppo, o nel lavoro sottile e complesso di chi punta sulla crescita della consapevolezza dei diritti (ignorati da intere popolazioni nel modo povero) lo fanno in totale trasparenza. Tutto è migliorabile, certo, ma sarebbe un grave errore mescolare tutto questo patrimonio di passioni e competenze con fattacci di cronaca nera dai quali, come nella vicenda dei cassonetti gialli, non a caso, fa capolino anche la camorra.

CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.

Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.

La mappa anche le guardie fanno i ladri. Pillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA. Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università. Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie? La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”. La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.

Una macchina senza benzina. Che non va avanti. Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”. A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.

L’authority chiama in causa la politica. Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.

Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza. Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni.

CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI  E PER SEMPRE.

Assenteismo lavoro, alla Calabria la maglia nera. Secondo la Cgia di Mestre ogni dipendente è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La Calabria è la regione più "assenteista" a livello nazionale, scrivono i giornali. Nel 2012 ogni lavoratore dipendente calabrese è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La media sale addirittura a 41,8 nel settore privato. E' quanto emerge da uno studio condotto dalla Cgia di Mestre secondo cui nel 2012 (ultimo anno in cui i dati sono a disposizione) i giorni di malattia medi registrati tra i lavoratori del pubblico impiego in Italia sono stati 16,72 (con 2,62 eventi per lavoratore), nel settore privato, invece, le assenze per malattia hanno toccato i 18,11 giorni (con un numero medio di eventi per lavoratore uguale a 2,08). Complessivamente sono stati quasi 106 milioni i giorni di malattia persi durante tutto l'anno. Oltre il 30 per cento dei certificati medici che attestano l'impossibilità da parte di un operaio o di un impiegato di recarsi nel proprio posto di lavoro è stato presentato di lunedì. Nel 71,7 per cento dei casi la guarigione avviene entro i primi 5 giorni dalla presentazione del certificato medico.

E nel 2014 centinaia di arresti per assenteismo, scrive Diodato Pirone su “Il Messaggero”. Non lo sa nessuno ma in Italia l'assenteismo è un fenomeno criminologico. Secondo le statistiche delle forze dell'ordine gli arresti per truffa aggravata causati dalle assenze ingiustificate dal lavoro di dipendenti pubblici sono centinaia all'anno. Di certo si supera quota mille con denunce a piede libero e sospensioni. Contrariamente a quello che si crede, infatti, la vita dell'assenteista s'è fatta dura. Giusta o sbagliata che fosse, la crociata dell'ex ministro Renato Brunetta contro i fannulloni ha lasciato in eredità una regola ferrea. Eccola: «E' previsto l'arresto nei confronti dei dipendenti pubblici accusati di falsa attestazione della presenza in servizio». Poche righe che dal 2010 hanno trasformato gli uffici italiani in covi di microcamere e video-spia con codazzo di denunce, tribunali e manette. Una vitaccia, insomma, quella dell'assenteista. Giornaloni e tivvù non ne danno conto perché i singoli arresti, presi in sè, non fanno notizia e al massimo finiscono nelle brevi. Ma la loro massa critica è sbalorditiva: si resta basiti di fronte alla leggerezza con la quale tanta gente, convintissima che i furbi la facciano sempre da padrone in Italia, finisce per rovinarsi la vita. Qualche esempio? Gli arresti del 2014 sono addirittura tambureggianti: a gennaio scattano le manette per due ginecologhe (sorprese nei propri studi privati mentre risultano al lavoro per l'Azienda sanitaria) e quattro impiegati dell'Asl Napoli Nord; a febbraio tocca a 15 addetti ai servizi veterinari della Asl di Vibo Valentia in Calabria e a due giardinieri di un parco pubblico di Napoli. Il 7 marzo finisce in galera un agente della polizia penitenziaria di Piacenza che nei giorni di falsa malattia spacciava droga e qui - caso rarissimo - piovono sberle anche per il suo medico cui la Procura chiude lo studio per avere concesso certificati senza controllo. Ma l'elenco delle amministrazioni dove sono scattate le manette è infinito: ospedali Monaldi e Cotugno di Napoli; Comuni di Sant'Agnello e Torre Annunziata; Università di Trieste e Udine; ufficio del giudice di Pace di Latina; Day SurgerY di Cuneo; Comune di Ancona; provincia di Chieti (dove un capo cantoniere si assentava dal lavoro per effettuare traslochi con i mezzi pubblici di cui era responsabile). Non c'è pace, da Nord a Sud. A giugno si spara nel mucchio nel Consorzio di Bacino Salerno/1: 22 arresti per truffa aggravata e peculato (gli assenteisti si segnavano anche lo straordinario). Ma è da settembre che le retate si moltiplicano: a Montenero di Bisaccia (il paese di Di Pietro) viene arrestato il medico dell'Asl e un suo collaboratore per danni per 70 mila euro causati dalle loro assenze e poi la Calabria alza il tiro con la decisione della Regione di licenziare quattro assenteisti cronici di in un gruppo di impiegati finito totalmente fuori controllo. Impiegati che vengono puniti anche con 5 sospensioni e 41 rimproveri. Ma l'assenteismo di massa della Regione Calabria non è isolato. Alla Asl di Siracusa la Procura ha imposto 9 sospensioni dopo aver scattato 1.500 fotografie ed effettuato 600 ore di videoregistrazioni per provare l'abitudine di 33 fra medici e impiegati di recarsi spesso insieme in piscina invece che al lavoro. Naturalmente dopo aver fatto timbrare agli amici il loro cartellino.

Invece, in contrapposizione all'immagine nefasta della Calabria, a "Presa Diretta" vanno in onda potenzialità e disagi della Calabria raccontata da Iacona, scrive Domenico Grillone su “Strill”. La Calabria l’11 gennaio 2015 scorre sulle immagini di Rai3 nel programma “Presa Diretta” di Riccardo Iacona. Problematiche, risorse, qualità e bellezze della nostra regione sotto la lente d’ingrandimento e questa volta nessuno potrà maledire la Rai ed i suoi giornalisti, colpevoli, secondo una parte dell’opinione pubblica locale, di mostrare sempre una Calabria tutta ‘ndrangheta e malaffare. Nell’occuparsi di dissesto idrogeologico attraverso un viaggio da Sud a Nord fino alla Liguria, “Presa Diretta” ha raccontato le bellezze e soprattutto i tesori tutti da scoprire della Calabria. Nel denunciare “le bruttezze di una terra spesso generate dall’uomo avido di cemento e non solo”, nel nuovo ciclo di trasmissioni le telecamere di “Presa Diretta” si sono soffermate su “un tesoro di potenzialità che potrebbe produrre ricchezza e posti di lavoro: l’arte, il cibo, l’agricoltura, il paesaggio se solo fossero difesi e valorizzati, renderebbero più ricco il nostro paese”. Il racconto di Iacona, quindi, una sorta di viaggio attraverso il quale, pur mantenendo fede al suo classico stile di denuncia “delle promesse fatte e non mantenute, degli errori che si ripetono da sempre” e nel domandarsi “a chi conviene gestire in regime di eterna emergenza la fragilità del nostro territorio?”, riesce a mostrare tutte, o almeno in buona parte, quelle potenzialità che secondo il giornalista dovrebbero essere messe al centro dell’agenda politica. Ma c’è di più. Perché il conduttore, nel raccontare la bellezza che potrebbero arricchirci, ricorda come spesso la cerchiamo in luoghi lontanissimi “quando a pochi chilometri da casa nostra abbiamo dei tesori tutti da scoprire”. “Quello che abbiamo scoperto in Calabria vale per tutta l’Italia che è un tesoro da accarezzare”, spiega Iacona, “se solo si valorizzassero tutte queste risorse e non si abbandonasse il territorio la Calabria sarebbe una regione ricca”. “La Calabria non è solo ‘ndrangheta malaffare e malapolitica. C’è tanta gente che sta già costruendo la Calabria del futuro” che la dice lunga su uno stile di fare giornalismo che, a differenza di quanto qualcuno rimprovera, non è preconcetto ma, al contrario, racconta le storie con stile semplice e diretto. Una trasmissione andata in onda proprio a ridosso dei risultati dello studio di Demoskopica sul tema “L’anno che verrà – il 2015 nell’opinione dei calabresi”, in cui tra l’altro si evidenzia come la fiducia degli stessi calabresi verso la politica, le istituzioni, e soprattutto verso una possibile ripresa economica si attesta su livelli decisamente ai minimi. Iacona con la sua inchiesta dimostra che forse non tutto è perduto per la Calabria, basterebbe solo una presa….di coscienza vera per voltare pagina e riprogrammare il futuro.

Eppure si leggono queste cose.

PALMI: CAPOMAFIA A 14 ANNI, INDAGATA LA FIGLIA DI UN POTENTE DEI GALLICO. Ha 17 anni e sarebbe un capoclan, scrive Alessandro Bevilacqua su “Telemia”. E' l'incredibile storia di una ragazzina di Palmi finita al centro delle indagini della Procura di Reggio Calabria. Secondo gli investigatori la ragazza, figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca armata dei Gallico di Palmi, nel reggino, risulterebbe ancora incensurata. I fatti contestati risalirebbero a quando la giovanissima non aveva neppure 14 anni. Alcuni reati che le vengono imputati sarebbero stati collocati nel periodo successivo al giugno del 2011, mese in cui la ragazza avrebbe compiuto l'età minima prevista dalla legge sui minori per essere imputata di associazione mafiosa. La ragazza, ospite dal 2014 di una famiglia del nord Italia, entrerebbe in un inchiesta che ha consentito di decimare il clan Gallico, nello specifico quella concernente una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. A metà del 2011 gli uomini della Squadra mobile di Reggio Calabria e  del commissariato di Palmi piazzarono nella casa in cui viveva all'epoca la giovane delle cimici che catturarono conversazioni che, sembrerebbe, facessero chiaro riferimento  alle estorsioni. Tra i partecipanti al dialogo anche l'allora 13enne. Pochi minuti dopo la ragazza lasciò la casa in questione per salire in auto insieme ad una donna. Gli investigatori predisposero quel giorno un posto di blocco e il risultato è che finirono tutti in caserma dove si scoprì che la 13enne nascondeva negli slip un foglio di calendario contenente i dettagli delle estorsioni. Per gli investigatori  dal momento che tutti i suoi parenti e membri del clan si trovavano detenuti l'allora 14enne avrebbe svolto il ruolo di reggente e anello di congiunzione tra la famiglia e il territorio fungendo da figura visibile.

«Quella bambina di 14 anni è un capomafia», scrive Francesco Altomonte su “Il Garantista”. Mancano sei mesi al compimento dei suoi 17 anni, ma leggendo i capi di imputazione riportati nell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari sembra di avere a che fare con un boss di lunga data, di un criminale incallito che ha dedicato la sua vita a “mamma ‘ndrangheta”. Lei (sì, stiamo parlando di una ragazzina), figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca Gallico di Palmi, nel Reggino, risulta ancora incensurata, benché la procura dei minorenni di Reggio Calabria l’accusi non solo di associazione mafiosa, ma anche di essere un capo promotore del clan (armato) di riferimento dei suoi genitori. Il primo pensiero che passa nella mente del cronista (o perlomeno dovrebbe passare) è: ma un ragazzina che all’epoca dei fatti non aveva compiuto 14 anni, è imputabile? La risposta è, anzi dovrebbe essere no, ma la data posta in calce al documento che decreta la fine delle indagini preliminari dissiperebbe i dubbi: «Accertato in Palmi e territori limitrofi in epoca successiva al 12.05.2011». Nel giugno di quell’anno (il 2011), infatti, la ragazzina avrebbe compiuto 14 anni, quindi poteva essere perseguita per il delitto associativo. Alcuni fatti che le vengono contestati, infatti, risulterebbero compiuti nei mesi successivi. Da qui, la possibilità da parte della procura dei minori di poterla accusare di associazione mafiosa. La ragazza, che dall’inizio del 2014 è ospite di una famiglia nel nord Italia, entra in una delle tante inchieste che hanno permesso di decapitare il clan Gallico, in particolare quella in cui viene colpita una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. Suo padre e sua madre sono in carcere, lei vive in casa con dei partenti. Gli uomini della squadra mobile di Reggio Calabria e del commissariato di Palmi, che stanno conducendo le indagini, hanno piazzato delle microspie in quella casa e a metà del 2011 intercettano una conversazione nella quale alcuni indagati parlano di soldi e di qualcosa nascosto all’interno di quella abitazione. Tra i partecipanti alla discussione c’è anche l’allora tredicenne. La ragazza dopo alcuni minuti lascia la casa insieme a una donna finita in carcere alla fine del 2011, Loredana Rao, salendo in auto con lei. Gli investigatori, per capire dove e cosa trasportassero nell’autovettura, piazzano un posto di blocco appena fuori la città. Le due donne pochi minuti dopo intravedono la volante della polizia, fermano la macchina e fanno marcia indietro. Quella è la prova per i poliziotti che qualcosa non quadra. Partono all’inseguimento e bloccano non solo la macchina nella quale viaggiavano la Rao e la ragazzina, ma anche un’altra autovettura con a bordo alcuni uomini della famiglia. La mossa conseguente è il trasferimento di tutti in commissariato per la perquisizione. Per evitare fughe o altri problemi, due poliziotti salgono a bordo delle due macchine. Un agente, si legge nell’informativa redatta dagli uomini della Mobile, durante il tragitto nota che la ragazzina cercava di sistemare qualcosa che aveva nascosto all’altezza dell’inguine. Appena giunti in commissariato chiedono se vogliono essere assistiti da un legale, soprattutto lei che ancora non ha compiuto 14 anni, ma tutti declinano l’invito. La ragazza, però, non si fa neanche perquisire perché spontaneamente consegna alla poliziotta un foglietto contenuto all’interno dello slip. Si scoprirà nel novembre 2011 di cosa si tratta, quando la procura antimafia di Reggio Calabria emette un decreto di fermo con il quale finisce in carcere l’intera rete di presunti estortori. Si trattava di un foglio di calendario sul quale erano state annotate date e cifre. Per gli inquirenti quei dati parlano chiaro: sono appunti per la riscossione del pizzo imposto dal clan Gallico agli imprenditori e commercianti della città. Alcuni di loro, per inciso, collaboreranno alle indagini confermando quanto ricostruito dalle forze dell’ordine. All’interno di un’altra informativa, la ragazzina viene intercettata con il fratello. Per gli inquirenti il parente le starebbe impartendo degli ordini per andare a ritirare delle estorsioni, o per intimarne in pagamento. Siamo nel 2012 e, quindi, per la legge italiana la 14enne è perseguibile e può essere incriminata. L’equazione sembrerebbe questa: siccome tutti i suoi parenti e membri del clan sono dietro le sbarre, dai mammasantissima fino ai fiancheggiatori, l’allora 14enne svolgerebbe il compito di “reggente” della cosca, anello di congiunzione con i detenuti e figura “visibile” della famiglia sul territorio. La ragazzina, intanto, dopo l’arresto di tutti i suoi parenti, compreso suo fratello ancora minorenne, viene data in affidamento a una famiglia del nord Italia dalla quale la giovane, secondo quanto appreso, fugge con regolarità per ritornare a casa. Con altrettanta regolarità viene ripresa e riportata indietro. Secondo quanto saputo nella giornata di ieri, pare che solo ad agosto scorso, il Tribunale dei minori le abbia concesso la possibilità di visitare suo padre in carcere.

Mio marito, ’ndranghetista per sempre. Ma è innocente anche per la legge, scrive Yvone Graf su “Il Garantista". «Racconto la mia storia, una storia qualunque di malagiustizia, di una vita segnata irrimediabilmente da un marchio posto sulle teste della mia famiglia e mai più rimosso: la ‘ndrangheta. Nel lontano 1991 ho incontrato l’uomo che oggi è mio marito. All’epoca lui era un sorvegliato speciale, doveva ancora scontare 4 anni di sorveglianza per una misura di prevenzione. Li abbiamo scontati insieme. Chi vive con un sorvegliato speciale patisce tutte le limitazioni e le conseguenze che ne derivano: andare tutti i giorni in questura a mettere la firma; non uscire da casa prima del alba e rincasare prima del tramonto; stare tutte le notti pronti a subire un controllo improvviso che può coglierti nel sonno profondo e farti rischiare una denuncia per evasione. Aveva 18 anni mio marito quando fu accusato di appartenere a una cosca della ‘ndrangheta e di essere il super killer di questa cosca. L’avevano accusato di una diecina di omicidi, altrettanti tentati omicidi, sequestri di persona, porto abusivo di armi da guerra e chi più ne ha più ne metta. Fu condannato in primo grado tenuto conto della sua giovane età a 101 anni e 6 mesi di carcere. Dopo i vari gradi di giudizio, nel 1990 fu assolto da tutte le incriminazioni per non aver commesso il fatto ma condannato per associazione a delinquere, art. 416 c.p. – all’epoca dei fatti il reato di associazione mafiosa non era ancora codificato. Mio marito si professava innocente. Le accuse specifiche erano cadute ma era rimasta in piedi quella associativa a salvare il teorema degli inquirenti e una misura di prevenzione, appunto, cinque anni di vigilanza. Condannato senza commettere un reato a tre anni di reclusione; cresciuto e vissuto in un paese dove tutti conoscono tutti e tutti si frequentano, giovani, nelle strade e nelle piazze di paese. Per quel ragazzo che era mio marito fu devastante, fu causa di un grave sbandamento. Era vittima di un’ingiustizia che gli stava distruggendo la giovinezza e la vita. Da detenuto si era ammalato di anoressia ed era stato messo ai arresti domiciliari a causa del suo deperimento organico. Poi mandato al confino nel Lazio, solo e lontano dalla famiglia, affetto da una grave depressione ed in balia di una assoluta incertezza sul suo futuro. Poi una sera, sbandato per come era all’epoca, commise il furto di una macchina e fu arrestato e condannato per questo a 4 mesi di reclusione. Dopo questa carcerazione e dopo di aver scontato la sua sorveglianza, nel dicembre del 1994 decidemmo di lasciare l’Italia e di venire in Svizzera, il mio paese di appartenenza. Speravamo di iniziare una vita serena, di trovarci un lavoro entrambi e di vivere lontano da tutto tranquillamente ma ancora una volta questo ci fu impedito dallo stato italiano. Dopo appena 4 mesi che eravamo in Svizzera siamo venuti a sapere che lui era di nuovo ricercato dalla giustizia italiana. Un pentito lo accusava, per sentito dire, di essere il killer di un duplice omicidio avvenuto nei primi anni 80. In primo grado per queste accuse ha preso una condanna a 26 anni di reclusione. Il pm in appello chiese l’ergastolo. Nel 1998 la polizia svizzera esegue l’arresto di mio marito che nel frattempo era stato inserito nella lista dei 500 latitanti più pericolosi d’Italia su mandato internazionale emesso dall’Italia nonostante da subito ci fossimo opposti all’estradizione. Mio marito si dichiarava un perseguitato dalla giustizia italiana. Intanto mio marito ancora lottava con gli effetti collaterali delle prime ingiustizie subite e le loro conseguenze: attacchi di panico, ansia, depressione maggiore. In quel periodo avviammo le pratiche per poterci sposare. Nel ’96 avevo partorito il mio primo figlio che lui non aveva potuto riconoscere in quanto latitante ed ero incinta al 5 mese, al momento del suo arresto, della mia seconda figlia. Nel dicembre del ’98 ci sposammo nel carcere in svizzera e ai miei figli fu riconosciuta la paternità. Nel febbraio 1999 arrivo l’estradizione e mio marito fu prelevato e portato via dalla Svizzera. Per giorni non sono riuscita a sapere dove l’avevano portato. Poi seppi che era nel carcere a Como. Partii subito e mi accompagnò al carcere un avvocato del posto cui il mio legale aveva chiesto una cortesia. Lo fece malvolentieri precisandomi che non era opportuno per un avvocato stare vicino a chi aveva quel genere di imputazioni. Non trovai mio marito a Como. Era stato trasferito in Calabria. Solo dopo tre settimane dall’estradizione ho potuto fare il primo colloquio con lui: devastante! Mio marito era l’ombra di sé, irriconoscibile, lo sguardo spento, movimenti spaventosamente rallentati, assente e incapace di formulare delle frasi compiute. Non gli somministravano la sua terapia e con delle punture di calmanti lo tenevano in quello stato. A marzo 1999 venne assolto con formula piena per non aver commesso il fatto! Ma non tornò libero subito. Continuavano a tenerlo in virtù di un’accusa fumosa e incomprensibile tanto che la Svizzera rifiutò l’estradizione. Mio marito restava però detenuto. Ho dovuto fare il diavolo a quattro con l’appoggio dell’ambasciatore che richiamava il ministero degli Interni al rispetto dei accordi. Per fortuna sul nostro cammino incontrammo un giudice onesto che dovette intimare la scarcerazione al direttore del carcere avvisandolo che rischiava una denuncia per sequestro di persona e mio marito tornò libero. Sembrava tutto finito, a parte le patologie depressive che ancora affliggono mio marito. Ma le conseguenze di una condanna per associazione sono immortali, ti seguono per sempre. Marchiano una persona e la sua famiglia in modo definitivo, incancellabile. La Svizzera nega a mio marito la cittadinanza in virtù di rapporti segreti e di una pericolosità sociale presunta ineluttabilmente e collegata alla qualifica di ‘ndranghetista. Mio marito non aveva commesso alcun reato ma è ‘ndranghetista per sempre per volontà dello Stato italiano, senza diritto di replica e senza speranza di redenzione. Mafioso da innocente, la sua vita, le nostre vite, proprietà dello stato, per sempre. I nostri figli, mafiosi per discendenza ereditaria e così, da padre in figlio, all’infinito.

I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.

«I Tribunali non sono proprietà dei giudici», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Vogliono rovinare la “festa”. Oggi sarebbe la giornata della giustizia, proclamata dall’Anm per protestare contro la riforma del ministro Orlando e in particolare contro il taglio delle ferie. I penalisti intervengono con una certa, brutale franchezza e mettono in discussione i dati che oggi i magistrati proporranno ai cittadini, per l’occasione liberi di entrare nei Palazzi di giustizia. Intanto, dice il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, l’iniziativa del sindacato delle toghe è «la dimostrazione, come se ce ne fosse bisogno, di una concezione proprietaria della giustizia e dei luoghi in cui essa si celebra, da parte dei magistrati». I cittadini, dice, «non hanno bisogno di alcun invito per accedere al Tribunale, luogo sacro in cui si svolgono i processi in nome del popolo italiano». Dopodiché «i numeri forniti dall’Associazione magistrati rischiano di offrire una visione autoreferenziale e alterata della situazione in cui versa la giustizia italiana, nella quale si enfatizza la loro efficienza a tutto discapito di una realtà che ci vede fra i primi paesi in Europa per numero di condanne dalla Corte di Strasburgo». I numeri sono altri, secondo il presidente dei penalisti, «a cominciare dalla sostanziale inattuazione del sistema di controllo sulla responsabilità dei magistrati, dalle frequentissime sentenze di riforma dei giudizi di primo grado, per passare al cospicuo importo dei risarcimenti che lo Stato è costretto ogni anno a pagare per indennizzare le vittime degli errori giudiziari, all’inevitabile ricorso, da parte della magistratura togata, all’ausilio di magistrati onorari, il cui apporto è determinante per il raggiungimento di quegli obiettivi di produttività che la Anm enfatizza». Su una delle “contro-statistiche” proposte da Migliucci interviene anche il cahier de doleance del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che dà notizia del boom di risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari pagati dallo Stato nel 2014. «L’incremento rispetto all’anno precedente è del 41,3%: 995 domande liquidate per un totale di 35 milioni e 255mila euro». Dal 1992, osserva Costa, «l’ammontare delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni: sono numeri che devono far riflettere, si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l’errore. Dietro c’è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare». Le contromisure di Parlamento e governo sono note: da una parte la legge sulla custodia cautelare, che naviga ancora in acque incerte, dall’altra quella sulla responsabilità civile dei giudici, prossima all’approvazione della Camera. Sui problemi più generali del processo penale è ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio l’atteso ddl del governo, che si accoda al testo base adottato proprio ieri dai deputati sulla prescrizione. «Sono soddisfatta, abbiamo avviato tutti e due i provvedimenti, coerenti tra loro», dice la presidente Donatella Ferranti. Su un altro capitolo della riforma, la soppressione di alcuni Tribunali, arriva dalla Consulta la bocciatura del referendum con cui alcune regioni avevano impugnato le chiusure. Tra queste, c’erano anche le sedi delle zone terremotate dell’Abruzzo.

CASO MARO’. ITALIANI POPOLO DI MALEDUCATI, BUGIARDI ED INCOERENTI. DICONO UNA COSA, NE FANNO UN’ALTRA.

Italiani, popolo di maleducati: non lasciamo passare i pedoni

Il 60,5% degli automobilisti italiani non si fermano davanti al pedone che attraversa sulle strisce o al semaforo. I conducenti più corretti sono i lombardi. I colleghi romani sono i più indisciplinati, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Il 60,5% degli automobilisti italiani non si fermano davanti al pedone che attraversa sulle strisce o al semaforo. È la drammatica media calcolata dall'Associazione sostenitori amici della polizia stradale (Asaps) monitorando 2mila "tentativi di attraversamento" in cinque delle più importanti città italiane. I conducenti più corretti (o meno scorretti, a seconda dei punti di vista) sono quelli lombardi, il 47% dei quali rispetta il diritto di precedenza del pedone, mentre i colleghi romani sono i più indisciplinati: il 45% rispetta i semafori ma solo il 15% le strisce. Per ogni città presa in analisi (Milano, Firenze, Roma, Napoli e Palermo) l’Asaps ha testato 200 tentativi di attraversamento sulle strisce e 200 in presenza di semaforo. Nel complesso, a Firenze dà la precedenza ai pedoni il 43% degli automobilisti, a Palermo il 39%, a Napoli il 38%, nella Capitale il 30%. Percentuali basse, che calano ulteriormente se si prendono i considerazione i soli passaggi "zebrati": a fermarsi, in questo caso, è appena il 22% dei conducenti milanesi, il 18% dei fiorentini e dei napoletani, il 12% dei palermitani. "Nei momenti del rilevamento - premette Giordano Biserni, presidente dell’Associazione - non erano presenti nelle vicinanze agenti della polizia locale, questo per certificare la spontaneità del gesto". Sarebbe interessante, tuttavia, poter analizzare quante multe vengono elevate a carico di automobilisti che non rispettano la precedenza del pedone. "Secondo l’articolo 191 del Codice della strada - continua Biserni - il conducente di un veicolo che non dà la precedenza ad un pedone che attraversa (o è nell’imminenza di farlo) sulle strisce è passibile di una contravvenzione da 162 a 646 euro e della decurtazione di 8 punti dalla patente". Una sanzione che potrebbe avere un’indubbia efficacia se fosse attuata costantemente. I frequenti investimenti di pedone hanno quasi sempre conseguenze tragiche. Come ricorda l’Asaps, sono 549 i morti e 21.234 i feriti complessivi nel 2013 e quasi il 30% travolti proprio sugli attraversamenti protetti. Mentre nei primi undici mesi del 2014 sono già 43 i morti e 363 i feriti (solo fra i pedoni) causati da pirati della strada.

Se fosse solo quello.

Quei nostri marò, ostaggi degli indiani ma anche di una verità indesiderata. Il caso dei due fucilieri di Marina, "trattenuti" in India, in qualità più di ostaggi che di imputati, si rivela oramai ogni giorno come una miniera di "anomalie", cioè; per parlar chiaro, di porcate. Ed ogni giorno di più il "grido di dolore" per la loro sorte, la parola d'ordine "riportiamoci a casa i nostri marò" si rivelano un espediente ambiguo e truffaldino per coprire situazioni e persone che con tali mezzi sono finora riusciti a tenersi fuori anche dai più naturali interrogativi che il caso prepotentemente propone siano loro rivolti, scrive Mauro Mellini su “Brindisi Report”. La giustizia indiana, lo abbiamo detto, scritto e ripetuto, non sta facendo una gran bella figura in tutta questa vicenda. Anzi, bisogna constatarlo senza che se ne possa trarre, oltre che un auspicio poco confortevole per la sorte di quei due nostri connazionali, e neanche un po’ di sollievo per i paragoni con le cose e lo stato della giustizia nostrana, si sta dimostrando ancora peggiore di quest’ultima. Il che non ha bisogno di commenti. Gli Indiani non sembra che abbiano alcuna fretta ed alcuna voglia di giudicare i due fucilieri di Marina italiani. Sarà magari per le stratosferiche somme incassate per risarcimenti e cauzioni, sarà perché temono di vedersi “sgonfiare” tra le mani un caso che essi hanno sbandierato come un’aggressione alla loro Nazione, un gesto razzista di sopraffazione, certo è che stanno facendo abbastanza per dare l’impressione che, tutto sommato, avrebbero preferito che i due non tornassero in India. E non sembrano troppo preoccupati di lasciar intendere che si tratta proprio di ostaggi e non di imputati in custodia cautelare. Da parte italiana le “anomalie” e le ambiguità sono assai maggiori. Se è vero che il tempo trascorso dal fatto ed il perdurare di quello strano stato di sequestro di persone è scandaloso anche per chi è abituato alle cose italiane, è certo però che, intanto, malgrado il clamore che di tanto in tanto si riaccende sulla vicenda, l’informazione in Italia sulle modalità del malaugurato incidente, sulle questioni e le responsabilità che esso implica, in ordine agli avvenimenti anche successivi alla sparatoria (rientro della nave in acque territoriali indiane, ad esempio, tempestività della notizia dell’accaduto alle diverse Autorità italiane etc.) è assai limitata ed evanescente. Gridare “ridateci i marò”, evitando però di mettere in chiaro di fronte al mondo e di fronte all’ONU, ai nostri alleati ed ai cointeressati alla lotta alla pirateria circostanze essenziali del fatto addebitato ai due militari è cosa a dir poco strana. E stranissima in un Paese come l’Italia in cui la cronaca nera si pasce abitualmente di tutto il materiale probatorio dei processi e formula giudizi e sentenze in fatto ed in diritto fin dalle prime battute delle vicende, che poco o nulla si sappia dei particolari del luttuoso incidente, del comportamento addebitato ai due militari (se vi è un addebito vero e proprio) di quello del capitano della nave e degli altri ufficiali di essa, delle comunicazioni con le Autorità italiane. Per non parlare, poi dei comportamenti successivi. Un’altra considerazione. Una parte notevole delle circostanze, specie successive all’incidente, sono pervenute alla stampa solo perché sottolineate dal Ministro degli Esteri, Ambasciatore Terzi di Sant’Agata, le cui dimissioni, per il “siluramento” della sua iniziativa (l’unica certa e, a quel che ci consta, seria) per “riportare a casa” i due militari sono state scioccamente ed arrogantemente liquidate definendole “irrituali”. Terzi è “rimasto sulla breccia” della polemica che altri sembrava voler eludere a tutti i costi, con il silenzio, le ambiguità e le “coperture” di una retorica rancida. Questo significa che si stanno delineando, oramai, due posizioni: quella che cerca di “tacitare” le vittime, stampa, cittadini che vogliono verità e quella, ancora esigua e che si cerca di far passare per una “impuntatura” di un ministro non confermato nella sua carica, di chi vorrebbe giuocare a carte scoperte. La nostra tesi che molti, specie al Ministero della Difesa, temono più la presenza ed il processo in Italia dei due marò che una conclusione ingiusta e precostituita di un loro processo in India, trova ogni giorno conferma ed indizi. Anzitutto quello del silenzio sulle prescrizioni impartite ai militari. Vorremmo sbagliarci, ma non è facile che ciò possa avvenire. La verità. Come al solito è più difficile da vedere che non il suo contrario. Ma credo che, intanto, possiamo esigere che la stampa non si volti dall’altra parte. Pare che qualcuno si dia un gran da fare a convincere giornalisti, opinione pubblica e, magari, le famiglie dei due militari che non bisogna prendere e portar avanti iniziative, diradare le nebbie dell’ambiguità. Ma rinunziare persino all’intervento della Croce Rossa Internazionale, evitare di “internazionalizzare” il caso. Tutta questa gente, in sostanza, si sta adoperando perché i nostri militari accettando la sorte degli ostaggi, diventino ostaggi, oltre che degli Indiani, di eventuali corresponsabili di Via XX Settembre. Dove pare che si abbia interesse a non affrontare la questione delle regole e delle istruzioni di servizio dei due marò, della loro assenza o inadeguatezza. Doppiamente ostaggi dunque. Come tali, del resto ricevuti beffardamente (purtroppo) al Quirinale. Peggio di questo non sembra che altro possa scoprirsi.

Mauro Mellini, 87 anni, avvocato, è stato deputato e uno dei fondatori del Partito Radicale, e componente del Consiglio superiore della magistratura. Ha fondato la rivista "Giustizia Giusta", e continua ad occuparsi dei grandi temi della società italiana producendo una vasta pubblicistica e saggistica.

Wu Ming: i due marò, quello che i media (e i politici) italiani non vi hanno detto, scrive “DielleMagazine”. Una delle più farsesche “narrazioni tossiche” degli ultimi tempi è senz’altro quella dei “due Marò” accusati di duplice omicidio in India. Fin dall’inizio della trista vicenda, le destre politiche e mediatiche di questo Paese si sono adoperate a seminare frottole e irrigare il campo con la solita miscela di vittimismo nazionale, provincialismo arrogante e luoghi comuni razzisti. Il giornalista Matteo Miavaldi è uno dei pochissimi che nei mesi scorsi hanno fatto informazione vera sulla storiaccia. Miavaldi vive in Bengala ed è caporedattore per l’India del sito China Files, specializzato in notizie dal continente asiatico. A ben vedere, non ha fatto nulla di sovrumano: ha seguito gli sviluppi del caso leggendo in parallelo i resoconti giornalistici italiani e indiani, verificando e approfondendo ogni volta che notava forti discrepanze, cioè sempre. C’è da chiedersi perché quasi nessun altro l’abbia fatto: in fondo, con Internet, non c’è nemmeno bisogno di vivere in India! Verso Natale, la narrazione tossica ha oltrepassato la soglia dello stomachevole, col presidente della repubblica intento a onorare due persone che comunque sono imputate di aver ammazzato due poveracci (vabbe’, di colore…), ma erano e sono celebrate come… eroi nazionali. “Eroi” per aver fatto cosa, esattamente? Insomma, abbiamo chiesto a Miavaldi di scrivere per Giap una sintesi ragionata e aggiornata dei suoi interventi. L’articolo che segue – corredato da numerosi link che permettono di risalire alle fonti utilizzate – è il più completo scritto sinora sull’argomento. Ricordiamo che in calce a ogni post di Giap ci sono due link molto utili: uno apre l’impaginazione ottimizzata per la stampa, l’altro converte il post in formato ePub. Buona lettura, su carta o su qualunque dispositivo.

Il 22 dicembre scorso Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due marò arrestati in Kerala quasi 11 mesi fa per l’omicidio di due pescatori indiani, erano in volo verso Ciampino grazie ad un permesso speciale accordato dalle autorità indiane. L’aereo non era ancora atterrato su suolo italiano che già i motori della propaganda sciovinista nostrana giravano a pieno regime, in fibrillazione per il ritorno a casa dei «nostri ragazzi”, promossi in meno di un anno al grado di eroi della patria. La vicenda dell’Enrica Lexie, la petroliera italiana sulla quale i due militari del battaglione San Marco erano in servizio anti-pirateria, ha calcato insistentemente le pagine dei giornali italiani e occupato saltuariamente i telegiornali nazionali. E a seguirla da qui, in un villaggio a tre ore da Calcutta, la narrazione dell’incidente diplomatico tra Italia e India iniziato a metà febbraio è stata – andiamo di eufemismi – parziale e unilaterale, piegata a una ricostruzione dei fatti distante non solo dalla realtà ma, a tratti, anche dalla verosimiglianza. In un articolo pubblicato l’11 novembre scorso su China Files ho ricostruito il caso Enrica Lexie sfatando una serie di fandonie che una parte consistente dell’opinione pubblica italiana reputa verità assolute, prove della malafede indiana e tasselli del complotto indiano. Riprendo da lì il sunto dei fatti. E’ il 15 febbraio 2012 e la petroliera italiana Enrica Lexie viaggia al largo della costa del Kerala, India sud occidentale, in rotta verso l’Egitto. A bordo ci sono 34 persone, tra cui sei marò del Reggimento San Marco col compito di proteggere l’imbarcazione dagli assalti dei pirati, un rischio concreto lungo la rotta che passa per le acque della Somalia. Poco lontano, il peschereccio indiano St. Antony trasporta 11 persone. Intorno alle 16:30 locali si verifica l’incidente: l’Enrica Lexie è convinta di essere sotto un attacco pirata, i marò sparano contro la St. Antony ed uccidono Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian Valentine (45 anni), due membri dell’equipaggio. La St. Antony riporta l’incidente alla guardia costiera del distretto di Kollam che subito contatta via radio l’Enrica Lexie, chiedendo se fosse stata coinvolta in un attacco pirata. Dall’Enrica Lexie confermano e viene chiesto loro di attraccare al porto di Kochi. La Marina Italiana ordina ad Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani. Il capitano – che è un civile e risponde agli ordini dell’armatore, non dell’Esercito – asseconda invece le richieste delle autorità indiane. La notte del 15 febbraio, sui corpi delle due vittime viene effettuata l’autopsia. Il 17 mattina vengono entrambi sepolti. Il 19 febbraio Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono arrestati con l’accusa di omicidio. La Corte di Kollam dispone che i due militari siano tenuti in custodia presso una guesthouse della CISF (Central Industrial Security Force, il corpo di polizia indiano dedito alla protezione di infrastrutture industriali e potenziali obiettivi terroristici) invece che in un normale centro di detenzione. Questi i fatti nudi e crudi. Da quel momento è partita una vergognosa campagna agiografica fascistoide, portata avanti in particolare da Il Giornale, quotidiano che, citando un’amica, «mi vergognerei di leggere anche se fossi di destra». Che Il Giornale si sia lanciato in questa missione non stupisce, per almeno due motivi:

1) La fidelizzazione dei suoi (e)lettori passa obbligatoriamente per l’esaltazione acritica delle nostre – stavolta sì, nostre – forze armate, impegnate a «difendere la patria e rappresentare l’Italia nel mondo» anche quando, sotto contratto con armatori privati, prestano i loro servizi a difesa di interessi privati. Anomalia, quest’ultima, per la quale dobbiamo ringraziare l’ex governo Berlusconi e in particolare l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, che nell’agosto 2011 ha legalizzato la presenza di militari a difesa di imbarcazioni private. In teoria la legge prevede l’uso dell’esercito o di milizie private, senonché le regole di ingaggio di queste ultime sono ancora da ultimare, lasciando il monopolio all’Esercito italiano. Ma questa è – parzialmente – un’altra storia.

2) Il secondo motivo ha a che fare col governo Monti, per il quale il caso dei due marò ha rappresentato il primo grosso banco di prova davanti alla comunità internazionale, escludendo la missione impossibile di cancellare il ricordo dell’abbronzatura di Obama, della culona inchiavabile, letto di Putin, della nipote di Mubarak, dell’harem libico nel centro di Roma e tutto il resto del repertorio degli ultimi 20 anni. Troppo presto per togliere l’appoggio a Monti per questioni interne, da marzo in poi Latorre e Girone sono stati l’occasione provvidenziale per attaccare l’esecutivo dei tecnici, mantenendo vivo il rapporto con un elettorato che tra poco sarà di nuovo chiamato alle urne. E’ il tritacarne elettorale preannunciato da Emanuele Giordana al quale i due marò, dopo la visita ufficiale al Quirinale del 22 dicembre, sono riusciti a sottrarsi chiudendosi letteralmente nelle loro case fino al 10 gennaio quando, secondo i patti, torneranno in Kerala in attesa del giudizio della Corte Suprema di Delhi.

Qualche esempio di strumentalizzazione? Margherita Boniver, senatrice Pdl, il 19 dicembre riesce finalmente a fare notizia offrendosi come ostaggio per permettere a Latorre e Girone di tornare in Italia per Natale. Ignazio La Russa, Pdl, il 21 dicembre annuncia di voler candidare i due marò nelle liste del suo nuovo partito Fratelli d’Italia (sic!). L’escamotage, che serve a blindare i due militari entro i confini italiani, è rimandato al mittente dagli stessi Latorre e Girone, irremovibili nel mantenere la parola data alle autorità indiane.

LA QUERELLE SULLA POSIZIONE DELLA NAVE E UNA CURIOSA “CONTROPERIZIA”

La prima tesi portata avanti maldestramente dalla diplomazia italiana, puntellata dagli organi d’informazione, sosteneva che l’Enrica Lexie si trovasse in acque internazionali e, di conseguenza, la giurisdizione dovesse essere italiana. Ma le cose pare siano andate diversamente. Il governo italiano ha sostenuto che l’Enrica Lexie si trovasse a 33 miglia nautiche dalla costa del Kerala, ovvero in acque internazionali, il che avrebbe dato diritto ai due marò ad un processo in Italia. La tesi è stata sviluppata basandosi sulle dichiarazioni dei marò e su non meglio specificate «rilevazioni satellitari”. Secondo l’accusa indiana l’incidente si era invece verificato entro il limite delle acque nazionali: Girone e Latorre dovevano essere processati in India. Nonostante la confusione causata dal campanilismo della stampa indiana ed italiana, la posizione della Enrica Lexie non è più un mistero ed è ufficialmente da considerare valida la perizia indiana. La squadra d’investigazione speciale che si è occupata del caso lo scorso 18 maggio ha depositato presso il tribunale di Kollam l’elenco dei dati a sostegno dell’accusa di omicidio, citando i risultati dell’esame balistico e la posizione della petroliera italiana durante la sparatoria. Secondo i dati recuperati dal GPS della petroliera italiana e le immagini satellitari raccolte dal Maritime Rescue Center di Mumbai, l’Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, nella cosiddetta «zona contigua». Il diritto marittimo internazionale considera «zona contigua» il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione.

Il capoverso qui sopra è stato molto criticato, ma nella sostanza riassume la posizione dell’India sulla «zona contigua», posizione ribadita ieri dalla Corte suprema di New Delhi: «The incident of firing from the Italian vessel on the Indian shipping vessel having occurred within the Contiguous Zone, the Union of India is entitled to prosecute the two Italian marines under the criminal justice system prevalent in the country.» Quest’aspetto verrà approfondito nel prossimo post di Miavaldi. Anche in quest’occasione, i media italiani hanno disinformato pesantemente, ripetendo a tamburo che secondo l’India l’incidente “non è avvenuto in acque territoriali”, senza però dire come proseguiva il discorso, e quindi cosa significhi. Secondo la Corte suprema l’incidente non è avvenuto nelle acque territoriali e perciò non è competenza dello stato del Kerala, ma è avvenuto nella “zona contigua”, sulla quale l’India – intesa come nazione tutta – rivendica la giurisdizione. Per questo il processo è stato spostato dal livello statale a quello federale.

A contrastare la versione ufficiale delle autorità indiane – che, ricordiamo, è stata accettata anche dai legali dei due marò e sarà la base sulla quale la Corte suprema indiana si pronuncerà – è apparsa in rete la ricca controperizia dell’ingegner Luigi di Stefano, già perito di parte civile per l’incidente di Ustica. Di Stefano presenta una serie di dati ed analisi tecniche a supporto dell’innocenza dei due marò. Chi scrive non è esperto di balistica né perito legale – non è il mio mestiere – e davanti alla mole di dati sciorinati da Di Stefano rimane abbastanza impassibile. Tuttavia, è importante precisare che Di Stefano basa gran parte della sua controperizia su una porzione minima dei dati, quelli cioè divulgati alla stampa a poche settimane dall’incidente. Dati che, sappiamo ora, sono stati totalmente sbugiardati dalle rilevazioni satellitari del Maritime Rescue Center di Mumbai e dall’esame balistico effettuato dai periti indiani. Nella perizia troviamo stralci di interviste tratti dal settimanale Oggi, fotogrammi ripresi da Youtube, fermi immagine di documenti mandati in onda da Tg1 e Tg2 (sui quali Di Stefano costruisce la sua teoria della falsificazione dei dati da parte della Marina indiana), altre foto estrapolate da un video della Bbc e una serie di complicatissimi calcoli vettoriali e simulazioni 3d. Non si menziona mai, in tutta la perizia, nessuna fonte ufficiale dei tecnici indiani che, come abbiamo visto, hanno depositato in tribunale l’esito delle loro indagini il 18 maggio. Di Stefano aveva addirittura presentato il suo lavoro durante un convegno alla Camera dei deputati il 16 aprile, un mese prima che fossero disponibili i risultati delle perizie indiane! In quell’occasione i Radicali hanno avanzato un’interrogazione parlamentare al ministro degli Esteri Terzi, chiedendo sostanzialmente: «Ma se abbiamo mandato i nostri tecnici in India e loro non hanno detto nulla, perché dobbiamo stare a sentire Di Stefano?» Il lavoro di Di Stefano, in definitiva, è viziato sin dal principio dall’analisi di dati clamorosamente incompleti, costruito su dichiarazioni inattendibili e animato dal buon vecchio sentimento di superiorità occidentale nei confronti del cosiddetto Terzo mondo. Se qualcuno ancora oggi ritiene che una simile perizia artigianale sia più attendibile di quella ufficiale indiana, cercare di spiegare perché non lo è potrebbe essere un inutile dispendio di energie. Di Stefano in persona è intervenuto nei commenti qui sotto… e mal gliene incolse. Oltre a ulteriori, serissimi dubbi sulla sua “analisi tecnica”, ne sono emersi anche sul suo buffo curriculum, sulla sua laurea (si fa chiamare “ingegnere” ma non risulta lo sia), sui suoi trascorsi e su precedenti, non meno raccogliticce “perizie”. Dulcis in fundo: presentato come tecnico super partes, in realtà Di Stefano è un dirigente del partitino neofascista Casapound. Suo figlio Simone è il candidato di Casapound alla presidenza della regione Lazio. Con Casapound, Di Stefano anima un “comitato pro-Marò”. Dopo che la discussione/inchiesta ha portato alla luce queste cose, Di Stefano è stato raggiunto dal Fatto quotidiano e ha ammesso di non essere andato molto più in là di una ricerca sul web, di non aver mai avuto contatti diretti con fonti indiane e di aver ricevuto alcuni dati da analizzare da giornalisti italiani suoi amici, omettendo di verificarli alla fonte primaria. Costui si aggirava da anni al centro o alla periferia di inchieste cruciali (Ustica, Ilva etc.), presentato dai media mainstream e dalle destre (fascisti e berluscones) come “esperto”, senza che nessuno avesse mai pensato di verificarne i titoli, la reale competenza, i metodi impiegati e chi gli dava copertura politica. Eppure non sarebbe stata un’inchiesta difficile, tant’è che per scoprire certi altarini sono bastati due giorni di discussione seria su un blog. Naturalmente, sia Di Stefano sia i suoi amici di estrema destra, dopo aver accusato il colpo, han cercato di rispondere facendo il free climbing sugli specchi e gridando al complotto internazionale ai loro danni.

UNGHIE SUI VETRI: «NON SONO STATI LORO A SPARARE!» 

Altra tesi particolarmente in voga: non sono stati i marò a sparare, c’era un’altra nave di pirati nelle vicinanze, sono stati loro. Nel rapporto consegnato in un primo momento dai membri dell’equipaggio dell’Enrica Lexie alle autorità indiane e italiane (entrambi i Paesi hanno aperto un’inchiesta) si specifica che Latorre e Girone hanno sparato tre raffiche in acqua, come da protocollo, man mano che l’imbarcazione sospetta si avvicinava all’Enrica Lexie. Gli indiani sostengono invece che i colpi erano stati esplosi con l’intenzione di uccidere, come si vede dai 16 fori di proiettile sulla St. Antony. Il 28 febbraio il governo italiano chiede che al momento dell’analisi delle armi da fuoco siano presenti anche degli esperti italiani. La Corte di Kollam respinge la richiesta, accordando però che un team di italiani possa presenziare agli esami balistici condotti da tecnici indiani. Gli esami confermano che a sparare contro la St. Antony furono due fucili Beretta in dotazione ai marò, fatto supportato anche dalle dichiarazioni degli altri militari italiani e dei membri dell’equipaggio a bordo sia dell’Enrica Lexie che della St. Antony. Staffan De Mistura, sottosegretario agli Esteri italiano, il 18 maggio ha dichiarato alla stampa indiana: «La morte dei due pescatori è stato un incidente fortuito, un omicidio colposo. I nostri marò non hanno mai voluto che ciò accadesse, ma purtroppo è successo». I più cocciuti, pur davanti all’ammissione di colpa di De Mistura, citano ora il mistero della Olympic Flair, una nave mercantile greca attaccata dai pirati il 15 febbraio, sempre al largo delle coste del Kerala. La notizia, curiosamente, è stata pubblicata esclusivamente dalla stampa italiana, citando un comunicato della Camera di commercio internazionale inviato alla Marina militare italiana. Il 21 febbraio la Marina mercantile greca ha categoricamente escluso qualsiasi attacco subito dalla Olympic Flair. A questo punto possiamo tranquillamente sostenere che:

1) l’Enrica Lexie non si trovava in acque internazionali; 

2) i due marò hanno sparato. Sono due fatti supportati da prove consistenti e accettati anche dalla difesa italiana, che ora attende la sentenza della Corte suprema circa la giurisdizione.

Secondo la legge italiana ed i suoi protocolli extraterritoriali, in accordo con le risoluzioni dell’Onu che regolano la lotta alla pirateria internazionale, i marò a bordo della Enrica Lexie devono essere considerati personale militare in servizio su territorio italiano (la petroliera batteva bandiera italiana) e dovrebbero godere quindi dell’immunità giurisdizionale nei confronti di altri Stati.

La legge indiana dice invece che qualsiasi crimine commesso contro un cittadino indiano su una nave indiana – come la St. Antony – deve essere giudicato in territorio indiano, anche qualora gli accusati si fossero trovati in acque internazionali.

A livello internazionale vige la Convention for the Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation (SUA Convention), adottata dall’International Maritime Organization (Imo) nel 1988, che a seconda delle interpretazioni, indicano gli esperti, potrebbe dare ragione sia all’Italia sia all’India.

La sentenza della Corte Suprema di New Delhi, prevista per l’8 novembre ma rimandata nuovamente a data da destinarsi, dovrebbe appunto regolare questa ambiguità, segnando un precedente legale per tutti i casi analoghi che dovessero verificarsi in futuro. Il caso dei due marò, che dal mese di giugno sono in regime di libertà condizionata e non possono lasciare il Paese prima della sentenza, sarà una pietra miliare del diritto marittimo internazionale.

IMPRECISIONI, DIMENTICANZE, SAGRESTIE E ROMBI DI MOTORI

In oltre 10 mesi di copertura mediatica, la cronaca a macchie di leopardo di gran parte della stampa nazionale ha omesso dettagli significativi sul regime di detenzione dei marò, si è persa per strada alcuni passaggi della diplomazia italiana in India e ha glissato su una serie di comportamenti “al limite della legalità” che hanno contraddistinto gli sforzi ufficiali per «riportare a casa i nostri marò». In un altro articolo pubblicato su China Files il 7 novembre, avevo collezionato le mancanze più eclatanti. Riprendo qui quell’esposizione. Descritti come «prigionieri di guerra in terra straniera» o militari italiani «dietro le sbarre», Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in realtà non hanno speso un solo giorno nelle famigerate carceri indiane. I due militari del Reggimento San Marco, in libertà condizionata dal mese di giugno, come scrive Paolo Cagnan su L’Espresso, in India sono trattati col massimo riguardo e, in oltre otto mesi, non hanno passato un solo giorno nelle famigerate celle indiane, alloggiando sempre in guesthouse o hotel di lusso con tanto di tv satellitare e cibo italiano in tavola. Tecnicamente, «dietro le sbarre» non ci sono stati mai. Un trattamento di lusso accordato fin dall’inizio dalle autorità indiane che, come ricordava Carola Lorea su China Files il 23 febbraio, si sono assicurate che il soggiorno dei marò fosse il meno doloroso possibile: «I due marò del Battaglione San Marco sospettati di aver erroneamente sparato a due pescatori disarmati al largo delle coste del Kerala, sono alloggiati presso il confortevole CISF Guest House di Cochin per meglio godere delle bellezze cittadine. Secondo l’intervista rilasciata da un alto funzionario della polizia indiana al Times of India, i due sfortunati membri della marina militare italiana sarebbero trattati con grande rispetto e con tutti gli onori di casa, seppure accusati di omicidio. La diplomazia italiana avrebbe infatti fornito alla polizia locale una lista di pietanze italiane da recapitare all’hotel per il periodo di fermo: pizza, pane, cappuccino e succhi di frutta fanno parte del menu finanziato dalla polizia regionale. Il danno e la beffa.» Intanto, l’Italia cercava in ogni modo di evitare la sentenza dei giudici indiani, ricorrendo anche all’intercessione della Chiesa. Alcune iniziative discutibili portate avanti dalla diplomazia italiana, o da chi ne ha fatto tristemente le veci, hanno innervosito molto l’opinione pubblica indiana. Due di queste sono direttamente imputabili alle istituzioni italiane. In primis, aver coinvolto il prelato cattolico locale nella mediazione con le famiglie delle due vittime, entrambe di fede cattolica. Il sottosegretario agli Esteri De Mistura si è più volte consultato con cardinali ed arcivescovi della Chiesa cattolica siro-malabarese, nel tentativo di aprire anche un canale “spirituale” con i parenti di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori morti il pomeriggio del 15 febbraio. L’ingerenza della Chiesa di Roma non è stata apprezzata dalla comunità locale che, secondo il quotidiano Tehelka, ha accusato i ministri della fede di «immischiarsi in un caso penale», convincendoli a dismettere il loro ruolo di mediatori. Il 24 aprile, inoltre, il governo italiano e i legali dei parenti delle vittime hanno raggiunto un accordo economico extra-giudiziario. O meglio, secondo il ministro della Difesa Di Paola si è trattato di «una donazione», di «un atto di generosità slegato dal processo». Alle due famiglie, col consenso dell’Alta Corte del Kerala, vanno 10 milioni di rupie ciascuna, in totale quasi 300mila euro. Dopo la firma, entrambe le famiglie hanno ritirato la propria denuncia contro Latorre e Girone, lasciando solo lo Stato del Kerala dalla parte dell’accusa. Raccontata dalla stampa italiana come un’azione caritatevole, la transazione economica è stata interpretata in India non solo come un’implicita ammissione di colpa, ma come un tentativo, nemmeno troppo velato, di comprarsi il silenzio delle famiglie dei pescatori. Tanto che il 30 aprile la Corte Suprema di Delhi ha criticato la scelta del tribunale del Kerala di avallare un simile accordo tra le parti, dichiarando che la vicenda «va contro il sistema legale indiano, è inammissibile.» Ma il vero capolavoro di sciovinismo è arrivato lo scorso mese di ottobre durante il Gran Premio di Formula 1 in India. In un’inedita liaison governo-Il Giornale-Ferrari, in poco più di una settimana l’Italia è riuscita a far tornare in prima pagina il non-caso dei marò che in India, dopo 8 mesi dall’incidente, era stato ampiamente relegato nel dimenticatoio mediatico. Rispondendo all’appello de Il Giornale ed alle «migliaia di lettere» che i lettori hanno inviato alla redazione del direttore Sallusti, la Ferrari ha accettato di correre il gran premio indiano di Greater Noida mostrando in bella vista sulle monoposto la bandiera della Marina Militare Italiana. Il primo comunicato ufficiale di Maranello recitava: «[…] La Ferrari vuole così rendere omaggio a una delle migliori eccellenze del nostro Paese auspicando anche che le autorità indiane e italiane trovino presto una soluzione per la vicenda che vede coinvolti i due militari della Marina Italiana.» La replica seccata del Ministero degli Esteri indiano non si fa attendere: «Utilizzare eventi sportivi per promuovere cause che non sono di quella natura significa non essere coerenti con lo spirito sportivo.» Pur avendo incassato il plauso del ministro degli Esteri Terzi, che su Twitter ha gioito dell’iniziativa che «testimonia il sostegno di tutto il Paese ai nostri marò», la Scuderia Ferrari opta per un secondo comunicato. Sfidando ogni logica e l’intelligenza di italiani ed indiani, l’ufficio stampa della casa automobilistica specifica che esporre la bandiera della Marina «non ha e non vuole avere alcuna valenza politica.» In mezzo al tira e molla di una strategia diplomatica improvvisata, così impegnata a non scontentare l’Italia più sciovinista al punto da appoggiare la pessima operazione d’immagine del duo Maranello-Il Giornale, accolta in India da polemiche ampiamente giustificabili, il racconto dei marò – precedentemente «dietro le sbarre» –  è continuato imperterrito con toni a metà tra un romanzo di Dickens e una sagra di paese. Il Giornale, ad esempio, esaltando la vittoria morale dell’endorsement Ferrari, confida ai propri lettori che «i famigliari di Massimiliano Latorre, tutti con una piccola coccarda di colore giallo e il simbolo della Marina Militare al centro appuntata sugli abiti, hanno pensato di portare a Massimiliano e a Salvatore alcuni tipici prodotti locali della Puglia: dalle focacce ai dolci d’Altamura per proseguire poi con le orecchiette, le friselle di grano duro.» L’operazione, qui in India, ha raggiunto esclusivamente un obiettivo: far inviperire ancora di più le schiere di fanatici nazionalisti indiani sparse in tutto il Paese. Ma è lecito pensare che la mossa mediatica, ancora una volta, non sia stata messa a punto per il bene di Latorre e Girone, bensì per strizzare l’occhiolino a quell’Italia abbruttita dalla provincialità imposta dai propri politici di riferimento, maltrattata da un’informazione colpevolmente parziale che da tempo ha smesso di “informare” preferendo istruire, depistare, ammansire e rintuzzare gli istinti peggiori di una popolazione alla quale si rifiuta di dare gli strumenti e i dati per provare a capire e pensare con la propria testa.

PARLARE A CHI SI TAPPA LE ORECCHIE

In questi mesi, quando provavamo a raccontare la storia dei marò facendo due passi indietro e includendo doverosamente anche le fonti indiane, ci sono piovuti addosso decine di insulti. Quando citavamo fonti dai giornali indiani, ci accusavano di essere «come un fogliaccio del Kerala»; quando abbiamo provato a spiegare il problema della giurisdizione, ci hanno risposto «L’India è un paese di pezzenti appena meno pezzenti di prima che cerca di accreditarsi come potenza, ma sempre pezzenti restano. E un pezzente con soldi diventa arrogante. Da nuclearizzare!»; quando abbiamo cercato di smentire le falsità pubblicate in Italia (come la memorabile bufala di Latorre che salva un fotografo fermando una macchina con le mani e si guadagna le copertine indiane come “Eroe”) ci hanno dato degli anti-italiani, augurandoci di andare a vivere in India e vedere se là stavamo meglio. Ignorando il fatto che, a differenza di molti, noi in India ci abitiamo davvero. Quando tutta questa vicenda verrà archiviata e i marò saranno sottoposti a un giusto processo – in Italia o in India, speriamo che sia giusto – sarà bene ricordarci come non fare del cattivo giornalismo, come non condurre un confronto diplomatico con una potenza mondiale e, soprattutto, come non strumentalizzare le nostre forze armate per fini politici. Una cosa della quale, anche se fossi di destra, mi sarei vergognato. Dopo mesi e mesi di propaganda a senso unico e rintocchi assordanti di una sola campana, quest’articolo è stato un sasso nello stagno. E’ il più “socializzato” della storia di Giap ed è stato ripreso in lungo e in largo per la rete. La discussione qui sotto è partecipata e ricchissima di spunti, approfondimenti, correzioni, precisazioni, conferme, rilanci, rivelazioni, scoperte. “Pare un film di 007″, ha scritto un commentatore sbigottito, riferendosi ai colpi di scena che si susseguivano rapidi. Mentre scriviamo, si sfiorano ormai i 300 commenti, con decine di sotto-discussioni ramificate, compresa la vera e propria inchiesta collettiva su metodi e titoli del dicentesi ingegner Di Stefano. Leggere tutto quanto è appassionante, ma anche impegnativo e non tutti hanno il tempo di farlo. Ci ripromettiamo, noi e Matteo Miavaldi, di preparare e pubblicare un secondo post, che aggiorni, faccia il sunto della discussione, affronti i punti critici, tenga accese le braci di un’informazione diversa sul caso. — fonte: wumingfoundation.com

"Marò sacrificati a interessi economici. Ora ci pensi l'Onu". L’ex ministro Terzi: siamo in una giungla, il governo si rivolga all’Onu, scrive Lorenzo Bianchi su “Il Quotidiano Nazionale”. «L’Italia evita le vie maestre del diritto e sceglie invece i sentieri della giungla. Questa è la mia sintesi sulla questione dei marò». Giulio Terzi di Sant’Agata, già ambasciatore a Washington, ha lasciato la carica di ministro degli Esteri il 26 marzo dell’anno scorso quando si decise di rimandare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in India. L’ex titolare della Farnesina ripete ancora oggi che quella decisione fu presa sulla spinta di interessi economici. «Lo disse chiaramente il presidente del consiglio Mario Monti nel suo intervento del 27 marzo. Cambiammo una posizione enunciata a tutto il mondo con i comunicati dell’11 e del 18 marzo 2013. Furono infatti gli indiani a violare gli affidavit. La Corte Suprema di Nuova Delhi aveva detto che i due paesi dovevano avviare consultazioni sulla base della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto Marittimo, in sigla Unclos, articolo 100. Noi eravamo disponibili. L’India disse che non se ne discuteva neppure».

Invece?

«Il 21 marzo la posizione del governo italiano fu ribaltata nel giro di poche ore».

Come mai non sono state coinvolte le Nazioni Unite?

«Ho informato il segretario generale del Palazzo di Vetro Ban Ki moon a Londra a margine della conferenza sulla Somalia, 8 o 9 giorni dopo il sequestro dei nostri fucilieri. Fu una trappola nella quale caddero la squadra navale e il comando operativo interforze che autorizzarono la Lexie ad andare a Kochi. Fui informato dalla difesa solo 5 o 6 ore dopo».

Come mai?

«Non si è mai capito il motivo del ritardo».

In ogni caso quale fu la risposta di Ban Ki moon a Londra?

«Mi disse: la questione deve essere risolta secondo il diritto internazionale. Me lo ha ripetuto almeno venti volte».

Quindi l’arbitrato internazionale, che l’Italia invece ha lasciato cadere.

«Torniamo all’Unclos, prevede una procedura di 30 giorni per avere misure cautelari, ossia l’affidamento dei marò a un Paese terzo, fino alla decisione della corte di Amburgo sul merito, in due o tre mesi. Su questa base a metà marzo avevamo deciso di trattenere Latorre e Girone in Italia. Invece poi per un anno e mezzo non si è fatto nulla».

Perché?

«Per non smentire l’operato di Monti. La cosa si è trascinata fino al governo di Renzi. È un motivo politico. Il progetto di internazionalizzazione è finito. L’unica volta nella quale Renzi dice di aver parlato dei marò è stato al G 20 di Brisbane in un corridoio con Modi durante una pausa caffè, senza un incontro bilaterale. Avremmo una potenzialità enorme di risolvere il pasticcio».

Come?

«Sollevando la questione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La lotta alla pirateria è all’ordine del giorno almeno ogni due o tre mesi. In ogni caso l’Italia potrebbe chiedere una discussione dopo un’azione preparatoria con i paesi nostri amici, gli Usa per esempio. Come si fa la lotta alla pirateria senza l’immunità funzionale ai militari che vi partecipano?».

Altre vie?

«Mi risulta che durante il governo Letta sia stata sondata a Ginevra la ex alta Commissaria dell’Onu Navi Pillay. Mi consta che la porta fosse aperta, ma non è stato fatto nulla. Infine c’era un terza possibilità».

Quale?

«L’8 luglio scorso il presidente della Croce Rossa Internazionale Peter Maurer ha inviato una lettera alla presidenza del consiglio e ai ministeri interessati sul caso dei fucilieri di marina. Citava considerazioni umanitarie. Offriva i suoi buoni uffici. Non c’è stata nessuna risposta. Latorre è stato male, si sa di sofferenze psicologiche di Girone. Pensi con quale maggior peso sarebbe sollevata la questione».

Si torna agli interessi.

«Vorrei che qualcuno dichiarasse pubblicamente i motivi per i quali un anno e mezzo fa c’è stata quella decisione».

Arrestate lo Stato, scrive Andrea Cangini su “Il Quotidiano Nazionale”. In una nazione così evidentemente incline al sotterfugio e al reato c’è bisogno anche di un’informazione manettara e moralista, inflessibile in scena e sempre arrabbiata. Un giornale di denuncia, una denuncia giudiziaria. Non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che lo spirito del «Fatto quotidiano» rappresenta la punta estrema di un sentimento largamente diffuso poiché politicamente corretto. Si è persa la terza dimensione, quella all’interno della quale la politica diventava grande percorrendo col mento all’insù le terre alte del potere, dell’interesse nazionale, della guerra e dello Stato. Ma politica, potere, interesse nazionale, guerra e Stato sono parole cadute in disgrazia, ormai prive di senso o dall’accezione negativa. Non resta allora che il moralismo giudiziario. L’esibita pretesa di schiacciare la politica sul terreno delle buone maniere, della coerenza assoluta, del codice penale e della rettitudine estrema. Rettitudine sconosciuta alle vite degli uomini, e dunque estranea anche alla quotidianità dei suoi profeti. Ma non è certo colpa di Marco Travaglio, di Antonio Padellaro o di Peter Gomez se per avere fatto sesso con una donna consenziente l’uomo più influente del mondo quindici anni fa è finito sotto processo del Congresso americano e di un Tribunale – sempre a favore di telecamere, s’intende – e per l’intera durata di quel duplice giudizio la Storia si è fermata e la cronaca abbondantemente sfamata. Dice: il punto è che Bill Clinton mentì alla nazione. E con questo? Davvero qualcuno pensa che un leader politico, il presidente degli Stati Uniti, addirittura, dica o possa dire sempre e solo la verità? Pretenderlo, è un segno di follia. Un’ossessione evidente. Eppure, solo in pochi colsero l’assurdità del «caso Lewinsky». Lo spirito del «Fatto» è dunque lo spirito del tempo, un tempo la cui letteratura sono i rotocalchi di gossip e i verbali delle procure. Un tempo fatto apposta per sputtanare la politica e svuotare gli Stati. Può anche essere un’idea, ma nessuno, neanche i colleghi del «Fatto», sa indicare alternative possibili. I «tecnici»? Abbiamo già dato. I magistrati? Ne faremmo volentieri a meno. Diciamo che ci sono bastate le avanguardie: i Di Pietro, i De Magistris, gli Ingroia... Se ne esce solo con una retorica politica, e in mancanza d’altro la retorica nazionale va sempre bene: è comunque un appiglio grazie al quale i leader politici possono eventualmente elevarsi. Ma la politica ha bisogno di simboli. Tutti hanno bisogno di simboli, e anche di eroi. La divisa è un simbolo; il soldato in divisa un’annunciazione di eroismo. Non ci vuole molto a capire che da quando sono prigionieri in India «i due marò» hanno cessato di essere due uomini in carne e ossa e sono diventati un unico simbolo, il simbolo della forza e della credibilità dello Stato italiano nel mondo. Ma per quelli del «Fatto», che in questi termini ieri ne hanno scritto, sono solo due italiani «accusati di omicidio». In galera, dunque, mettiamo direttamente in galera lo Stato.

“Il Mercato dei Marò”  è un’opera che narra la gestione di un avvenimento internazionale “tutto italiano”, come lo definisce  l’autore del libro l’Avvocato Mauro Mellini, proponendoci l’analisi di una vicenda assurda, forse unica nella storia moderna di uno Stato di diritto quale dovrebbe essere l’Italia, Patria di antiche tradizioni giuridiche, storiche e culturali, scrive Fernando Termentini su “Libero Reporter”. Un testo che stigmatizza l’assenza dello Stato nell’affrontare eventi  che dopo  più di 1000 giorni ancora presentano punti oscuri…E’  la storia evidente di come l’Italia abbia delegato le proprie funzioni sovrane ad uno Stato Terzo, affidandogli la gestione di un’azione giudiziaria indebita nei confronti di due militari italiani, due Sottufficiali della Marina Militare italiana, Fucilieri della prestigiosa Brigata S.Marco, incaricati dal Parlamento di assolvere compiti di contrasto alla pirateria marittima. Un racconto che ci propone un dramma che coinvolge due cittadini italiani e le loro famiglie e che cela “verità nascoste”, quelle che il 22 marzo 2013 hanno suggerito al Governo Monti di dare corso all’estradizione passiva di due nostri connazionali, consegnandoli nelle mani di un Paese in cui è prevista la pena di morte. Un’azione di “contrasto dissuasivo”, quella dei due Sottufficiali incaricati di garantire protezione anti pirateria ad  un a nave battente Bandiera italiana  ed in navigazione in acque internazionali,  durante la quale sarebbero stati uccisi due poveri pescatori indiani secondo quanto affermato, ma mai provato, dallo Stato Federale indiano del Kerala. Il Mercato dei Marò ci propone pagina dopo pagina questi ed altri dubbi a cui dopo 1000 giorni non è stata data ancora una risposta logica e convincente. Piuttosto confermano come lo Stato stia negando qualsiasi tutela a due suoi cittadini, peraltro titolari di uno  “status” particolare, quello di militari in servizio. Perplessità mai chiarite fin dal giorno successivo ai fatti, il 16 febbraio 2012, quando  un Comando Militare acconsentì che l’Armatore della nave  autorizzasse la petroliera a rientrare  in acque territoriali indiane, consegnando di fatto  i due Fucilieri di Marina  alla giurisdizione indiana.  Un atto di assenso dato sulla linea di Comando Operativo mai chiarito e reso noto solo il 17 ottobre del 2012 dall’allora Ministro della Difesa Gianpaolo Di Paola, Ammiraglio in quiescenza. Un chiarimento ufficializzato dal Ministro dopo  8 mesi dagli eventi, perché costretto a rispondere ad una precisa interrogazione parlamentare. Un testo quello scritto dall’Avvocato Mellini, che propone anche spunti di carattere giuridico che aiutano a comprendere come la vicenda dei due Fucilieri di Marina, nata da disposti legislativi nazionali in parte imprecisi, è portata avanti dalle Istituzioni senza alcun riferimento al Diritto Internazionale ed alle Convenzioni sul diritto del mare. Un’analisi anche delle versione dei fatti, quella indiana e quella italiana, che aiuta  ad individuare  i lati oscuri di una vicenda che coinvolge da oltre 1000 giorni i  due Marò. Una storia assolutamente italiana e peculiarmente italiana nel momento che improvvisamente agli eventi si accavallano notizie di tangenti internazionali. Fatti che coinvolgono, peraltro, un’importante realtà industriale italiana, Finmeccanica e che hanno portato a livello istituzionale di  considerare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone  “merce di baratto” con l’India, con un approccio che l’autore definisce a ragione “un vero e proprio atto di tradimento”. “Il Mercato dei Marò”, non è, quindi, un testo solo narrativo, ma una vera e propria denuncia della scarsa efficacia di come le Istituzioni stanno gestendo una vicenda di risonanza internazionale. Potrebbe essere il testo della scenografia di una tragicommedia  in cui protagonisti e comparse si scambiano i ruoli senza che nulla accada. E’, invece, il resoconto di una storia recente  ancora non terminata dominata dall’ipocrisia con cui è stata gestita la sorte di due nostri concittadini ai vari livelli istituzionali fino ad arrivare ad una non meglio connotata posizione del Presidente Napolitano quale Capo supremo delle Forze Armate. Un testo che denuncia anche l’assenza inaccettabile dell’Europa assolutamente disattenta alla sorte dei due cittadini europei proponendo la triste realtà che una volta “ripartiti i due Marò, restano, invece, “affaristi e cialtroni”. Il Mercato dei Marò è, in sintesi, la storia di un baratto senza fine, dove la merce di scambio non sono i sacchi colmi di grano o le gerle piene di frutta di un tempo. Piuttosto, due uomini, due cittadini italiani colpevoli di servire lo Stato, ma dallo Stato abbandonati per motivi ancora occulti.  Un mercanteggiare che dura ormai da più di 1000 giorni e dopo le dimissioni dell’Ambasciatore Terzi e la fine del Governo Monti si connota, sempre di più, come una “contrattazione di fronte ad un bicchiere di thè”, nelle migliori tradizioni di un Suck arabo.  Qualcosa di unico nella storia moderna e forse irripetibile, dove emergono, come ben delineato nel testo,  figure politiche italiane che riconoscono di fatto la giurisdizione indiana “concordando” una modesta sentenza da scontare in Italia. “Un premio” per i due militari per aver adempiuto al loro dovere nel rispetto delle  “regole d’ingaggio”  e da una necessità di legittima difesa”. Uno scenario fosco in cui emergono possibili interessi  personali anche di ex Ministri il cui parere fu determinante quando fu deciso di restituire all’India Massimiliano Latorre e Salvatore Girone quel fatidico 22 marzo 2013, oggi titolari di cariche di prestigio o prossimi ad assumere leadership politiche. Nel frattempo, Il “mercato” continua a danno della sovranità nazionale italiana e propone al mondo un’Italia sempre più timida nell’affermare i propri diritti ed a tutelare quelli dei propri cittadini. I due Marò sono lontani dalla loro Patria e dalle loro famiglie da quasi tre anni, colpevoli solo di aver detto  “OBBEDISCO” e, questo, non è più accettabile. E’ tempo, invece, che il baratto in corso sia messo in liquidazione e l’Italia si riappropri delle sue tradizioni storiche, culturali e giuridiche, con soluzioni anche suggerite da “Il Mercato dei Marò”. Dobbiamo essere grati all’Avvocato Mauro Mellini per essersi voluto cimentare in un impegno gravoso affrontandolo senza compromessi, ma privilegiando la massima trasparenza ed onestà intellettuale, tipica di coloro che rifiutano il compromesso privilegiando il diritto. Grazie Mauro !

Chi è il Generale Termentini? Ho frequentato l’Accademia Militare e lavorato come Ufficiale dell’Arma del Genio per 40 anni. Ho partecipato a missioni di Peace Keeping in Somalia, Bosnia, Mozanbico e quale esperto nel settore della bonifica dei campi minati e degli ordigni esplosivi in Kuwait, Bosnia, Pakistan per l’Afghanistan in occasione della Operation Salam. Una volta congedato ho fornito consulenza nel settore della bonifica ad ONG ed alle Nazioni Unite.

Napolitano doveva abdicare per dire finalmente la verità su giudici e Marò. Solo ora che va via dal Quirinale alza i toni sui grandi nodi della giustizia, scrive Francesco Carta su “La Notizia Giornale”. Ci ha impiegato otto anni Giorgio Napolitano per togliersi i sassolini dalla scarpa. Anzi, macigni veri e propri, considerando la forza delle parole usate contro un potere, quello della magistratura, per anni immune da accuse o critiche di ogni sorta. Ora, invece, il capo dello Stato, nelle vesti di presidente del Csm, non ha usato mezzi termini davanti al plenum dei magistrati. E allora, sebbene avesse precisato che “non spetta al capo dello Stato” valutare la “riforma della giustizia”, ha poi esordito proprio premendo sulla necessità di riformare il sistema. In modo organico. Dando vita ad un processo innovatore che ridia efficienza alla macchina della giustizia”. Tutto questo, tenendo però fermo un principio: “La politica e la magistratura non devono percepirsi come mondi ostili” e non devono orientare i loro rapporti nel segno del “reciproco sospetto”. Insomma, basta con l’eterna “lotta” tra magistratura e politica. Bisogna tornare a collaborare. E per farlo il primo passo è abbandonare il “protagonismo” di certi giudici. Se infatti da una parte “è fondamentale l’azione repressiva dei pm e della polizia”, è pur vero che “l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario” si garantiscono solo con “comportamenti appropriati“, cioè evitando “cedimenti a esposizioni mediatiche o a tentazioni di missioni improprie”. Cosa che, dice ancora Napolitano, accade spesso, dato che non si possono non “segnalare comportamenti impropriamente protagonistici e iniziative di dubbia sostenibilità assunti, nel corso degli anni, da alcuni magistrati della pubblica accusa”. Lo sforzo, dunque, dev’essere indirizzato al superamento di ogni ostilità. Affinchè questo accada, però, è necessario che sia la magistratura per prima a cambiare atteggiamento. A cominciare dalle tante correnti interno al corpo dei giudici che spesso sfiancano la stessa integrità delle toghe. “Le correnti – ha detto infatti il numero uno del Csm – sono state e devono essere ambiente qualificato di crescita, formazione e dibattito, in direzione di un miglioramento complessivo della funzione giudiziaria”. Insomma, formazione, integrità, trasparenza. E imparzialità. Ecco perché è necessario che il sistema giudiziario sia affidato “ad un organo indipendente e imparziale, che garantisce la regole della civile convivenza e la stessa credibilità delle istituzioni democratiche. Questi valori vengono posti in dubbio in presenza di ingiustificate lungaggini, sia in campo civile che penale”. Ecco, allora, che si torna al punto di partenza: è necessaria una riforma. Napolitano lo sa. E ora anche i giudici. L’assicurazione di un processo “rapido e corretto” per i marò ricevuta un anno fa dall’ambasciatore indiano “è rimasta una frase”. Duro l’attacco del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ieri, in collegamento con il marò, Salvatore Girone, in India. “Ci sono state prove molto negative, scarsa volontà politica di dare una soluzione equa e un malfunzionamento della giustizia indiana che non è solo italiana”, ha aggiunto il Capo dello Stato. Non sono mancati, poi, i plausi e l’elogio nei confronti di Girone: “Sono molto colpito dalla serenità mostrata da lei e dalle vostre famiglie”. Il quale ha contraccambiato immediatamente l’affetto espresso dal capo dello Stato: “Sono ancora fiducioso nelle nostre istituzioni nonostante tutto quello accaduto”.

La coerenza è merce rara, ma in Italia la conosce solo la mafia, scrive Eugenio Scalfari su “La Repubblica”. Qualche tempo fa, prendendo spunto dalle parole pronunciate da papa Francesco che giudicava la povertà come il più grave male che affligge il mondo degli umani, dedicai il mio articolo a quel tema il quale non si limita a dividere gli abitanti del nostro pianeta in ricchi e poveri. Da questa (crescente) diseguaglianza nascono una serie di altri malanni: la sopraffazione, le più varie forme di schiavitù sia pure chiamate in modi diversi, l'invidia, la gelosia, la corruzione, il malgoverno, le rendite parassitarie e perfino guerre e sanguinose rivoluzioni. Anche oggi utilizzerò parole recentissime di Francesco che hanno come tema la coerenza. "Gli uomini e le donne  -  ha detto  -  dovrebbero comportarsi in modo coerente con il loro pensiero e la loro visione della vita, ma purtroppo molto spesso le cose non vanno così. Accade che coloro che si dichiarano cristiani e pensano di esserlo, nella realtà vivono da pagani mettendosi sotto i piedi ogni straccio di coerenza. Questo è un peccato gravissimo e non deve più accadere. La Chiesa sarà molto vigile su questo peccato di incoerenza che ne provoca molti altri, fuori dalla Chiesa ma anche dentro la Chiesa". Francesco ha detto queste parole dal balcone del Palazzo Apostolico ad una piazza gremita e quando ha pronunciato la frase sulla gravità del peccato di incoerenza ha gridato quelle parole a voce altissima con quanto fiato aveva in corpo. Questo è dunque il tema sul quale oggi vi intratterrò: la coerenza, la sua frequentissima violazione e i danni gravi che ne derivano. Ed ora la coerenza. Mi è rimasto meno spazio di quanto pensassi ma qualcosa dirò. Noi non siamo un Paese abitato da persone coerenti. Parlo naturalmente di coerenza nei rapporti con la società e quindi con la vita pubblica e le istituzioni che la rappresentano. Noi non amiamo lo Stato, non amiamo le Regioni (che del resto fanno poco o nulla per meritarselo). Non amiamo i giudici e i loro tribunali. Insomma non amiamo chi emette regole alle quali dovremmo attenerci. Detestiamo le tasse e cerchiamo di evaderle. Noi amiamo il "fai da te". È una libertà? Certo è una grande e importante libertà, ma con un limite: la puoi applicare in pieno purché non danneggi gli altri e la società che tutti ci contiene. Le mafie prosperano in Italia perché i capi ottengono completa obbedienza e rispetto dello statuto dell'organizzazione e ai riti di iniziazione. Se li tradiscono li aspetta il giudizio del capo e la punizione da lui decretata. Perciò, salvo rare eccezioni, i mafiosi sono coerenti. I non mafiosi no. L'esercito ausiliario della mafia è fatto da non mafiosi il cui "fai da te" ha scelto quella zona grigia che tiene un piede dentro la scarpa mafiosa ed uno fuori. Senza di loro la mafia conterebbe assai poco ma con loro conta moltissimo. Le mafie sono Stati nello Stato perché lo combattono ma ci vivono dentro. Le persone coerenti della nostra vita pubblica sono molto poche. Li chiamiamo "padri della Patria", una buona definizione, ma quanti sono da quando nacque lo Stato unitario? Certamente Mazzini, Garibaldi, Cavour lo furono. In modi diversi e spesso conflittuali ma l'obiettivo era unico. Gran parte della Destra storica che andò al governo dopo la morte di Cavour, e lo tenne per sedici anni costruendo lo Stato unitario nel bene e nel male, merita quel titolo: Ricasoli, Sella, Minghetti, Fortunato, Silvio Spaventa, Nitti e in tempi più recenti Einaudi, De Gasperi, Parri, La Malfa, Di Vittorio, Trentin, Lama, Adriano Olivetti, Calamandrei, Berlinguer, Raffaele Mattioli, Menichella, Pertini, Ciampi, Napolitano. Ma poi ci furono scrittori e personaggi da loro creati, in Italia e in Europa, che sono esempi di coerenza. Pensate a padre Cristoforo dei "Promessi Sposi" e pensate a Jean Valjean dei "Miserabili" di Victor Hugo. Ed alcuni santi, specialmente monaci, a cominciare da Francesco d'Assisi e Benedetto. Sembrano tanti questi nomi e molti altri me ne scordo. Ma gli incoerenti sono una massa, senza nome e senza volto ma una quantità che esiste in ogni Paese del mondo. Qui da noi è una moltitudine, una popolazione che vuole ignorare la sua storia e vivere il presente ignorando passato e non riuscendo ad immaginare futuro. Se i docenti delle nostre scuole partissero dal concetto della coerenza e lo applicassero nel bene e nel male ai fatti accaduti, credo farebbero un'opera santa e fornirebbero un'educazione che costituisce la base di un Paese civile.

L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.

Un reportage su come la stampa ha presentato ed enfatizzato un evento mediatico giudiziario.

Blitz contro neofascisti, 14 arresti. Nel mirino politici, magistrati e sedi Equitalia, scrive “La Stampa”. Il gruppo clandestino aveva elaborato un piano per “minare la stabilità sociale” del Paese e voleva anche fondare un “proprio” partito. 14 persone arrestate e 48 indagate. È il bilancio dell’operazione antiterrorismo dei carabinieri del Ros, denominata “Aquila Nera”, che hanno scoperto un gruppo clandestino che, richiamandosi agli ideali del disciolto movimento neofascista “Ordine Nuovo”, progettava «azioni violente contro obiettivi istituzionali». Il piano degli indagati era «basato su un doppio binario»: «da un lato atti da compiersi su tutto il territorio nazionale al solo fine di destabilizzare l’ordine pubblico e la tranquillità dello Stato e dall’altro un’ opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro “nuovo” partito». Il gruppo si proponeva di uccidere politici “senza scorta”, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e compiere attentati nei confronti di Questure, Prefetture e far saltare le sedi di Equitalia con il personale dentro. Gli arresti sono avvenuti tra L’Aquila, Montesilvano, Chieti, Ascoli Piceno, Milano, Torino, Gorizia, Padova, Udine, La Spezia, Venezia, Napoli, Roma, Varese, Como, Modena, Palermo e Pavia. Nell’ordinanza di custodia cautelare si contestano i reati di associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico e associazione finalizzata all’incitamento, alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e tentata rapina.  I provvedimenti scaturiscono da un’attività investigativa, guidata dal procuratore dell’Aquila Fausto Cardella e dal pm, Antonietta Picardi, avviata nel 2013 dai carabinieri del Ros. In particolare, le indagini sono partite attorno al gruppo “Avanguardia ordinovista” guidato da Stefano Manni, 48 anni, originario di Ascoli Piceno ma residente a Montesilvano, fino a dieci anni fa era nell’Arma dei carabinieri. Vanta un legame di parentela con Gianni Nardi, terrorista neofascista che negli anni ’70 insieme a Stefano Delle Chiaie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito, uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. “Avanguardia ordinovista” intratteneva contatti con altri gruppi di estrema destra con cui, secondo i militari del Ros, intendeva unirsi nel processo di destabilizzazione e lotta politica quali i “Nazionalisti Friulani”, il “Movimento Uomo Nuovo” e la “Confederatio”.  Tra gli indagati anche Rutilio Sermonti, già appartenente al disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, prolifico scrittore e artista. È considerato una delle figure più note nel panorama degli intellettuali di estrema destra. Scrivono i Ros: «Sermonti fornisce sostegno ideologico alla struttura avendo inoltre redatto un documento denominato “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione esplicitamente ispirato all’epoca fascista. E incita i sodali del gruppo "all’offensiva"». Stando a quanto dichiarato in conferenza stampa dal generale Mario Parente, Comandante Nazionale dei Ros, e dal Procuratore della Repubblica dell’Aquila, Fausto Cardella, il gruppo avrebbe «utilizzato il web ed in particolare il social network Facebook come strumento di propaganda eversiva, incitamento all’odio razziale e proselitismo». A tal riguardo Manni aveva realizzato un doppio livello di comunicazione: in uno con un profilo pubblico lanciava messaggi volti ad alimentare tensioni sociali e a suscitare sentimenti di odio razziale, in particolare nei confronti di persone di colore in un altro, con un profilo privato limitato ad un circuito ristretto di sodali, discuteva invece le progettualità eversive del gruppo. Secondo quanto si è appreso sarebbero coinvolti anche due aquilani. Il gruppo necessitava di armi per poter realizzare i propri scopi. Ne aveva recuperate alcune sotterrate dopo l’ultima guerra mondiale, altre le aveva acquistate in Slovenia tramite contatti locali. Un ulteriore approvvigionamento era stato studiato tramite una rapina ai danni di un collezionista, poi sventata da uno stratagemma dei militari. Tra i progetti sfumati, hanno riferito gli investigatori, anche quello di assassinare il noto ordinovista, Marco Affatigato, ritenuto “infame” poiché asseritamente legato ai servizi segreti. Affatigato, esponente di Ordine Nuovo dal 1973 al 1976, è attualmente latitante in quanto accusato di «associazione sovversiva». Durante le indagini sono state utilizzate anche persone sotto copertura. «Noi crediamo di essere arrivati prima che l’organizzazione entrasse in azione, i progetti c’erano, non potevamo correre il rischio di scoprire dopo quanto fossero concreti», ha detto il procuratore distrettuale antimafia dell’Aquila, Fausto Cardella. «Abbiamo verificato che il comportamento e le condotte degli indagati rientravano nella fattispecie dell’articolo 270 bis, e abbiamo agito di conseguenza - ha continuato -. Per la prima volta abbiamo applicato la norma che prevede la presenza di agenti infiltrati, che hanno avuto un ruolo molto importante, assieme alle intercettazione e agli altri strumenti investigativi utilizzati». Cardella sottolinea che «la procura nazionale antimafia ha gli strumenti, tutte le potenzialità per creare un coordinamento più stretto tra le procure, serve una norma, un legge che gli dia facoltà a farla». Ha poi spiegato anche che «le non precisate azioni eversive erano in cantiere anche in Abruzzo, dove era la base operativa». 

“Uomini degenenerati, Stato tuteli l’igiene”. La folle Costituzione di Sermonti, scrive Andrea Cumbo su “Il Fatto Quotidiano”. Aberrante ogni attività che faciliti le donne a lavorare". Dal divieto di possedere tv private alla contrarietà all produzione di energia se non "quella umana o animale". Ecco l'Italia progettata da Rutilio Sermonti, l'ideologo del “Nuovo fronte politico italiano”. "Lo Stato considera aberrante qualsiasi iniziativa diretta a indurre e a facilitare alla parte femminile della popolazione un crescente accesso alle attività economiche retribuite". Sono quindi promossi corsi di economia domestica destinate a qualificare professionalmente la preziosa attività di casalinga. Così recitano gli articoli 14 e 15 dello “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita”, scritto da Rutilio Sermonti, 94enne ex repubblichino, considerato l’ideologo del gruppo neofascista “Avanguardia ordinovista”, finito il 23 dicembre nelle rete dei Ros, che hanno arrestato 14 membri nell’ambito dell’operazione “Aquila Nera”. Sermonti è ancora lucidissimo e la sua idea di una nuova Carta Costituzionale, composta di 85 articoli (leggi) , benché possa sembrare poco incline ai progressi degli ultimi settant’anni, è molto seria. Il capitalismo e la meccanizzazione sono il nemico numero uno della società, che deve muoversi per limitarne i danni. Così, nell’articolo 18, si legge che lo Stato deve privilegiare l’igiene sulla medicina: “Secoli di sviluppo economico finalizzato al profitto hanno provocato un modello di sviluppo gravemente pregiudizievole per l’integrità psico-fisica”. Tanto che non esistono più uomini e donne “completamete sani”, a differenza che tra le altre specie, per le quali “i rari menomati vengono prontamente eliminati dalla selezione naturale. Lo Stato ha il dovere di contrastare tale tendenza degenerativa”. Per igiene si intende proprio la preservazione di questi danni, causati dalla “ridicola pretesa di dominare la natura e di fare tutto spingendo un bottone“. Del progresso, insomma, il gruppo guidato da Stefano Manni non vuole saperne. La parola chiave è risparmio energetico: al bando ogni attività di “aumento di energia artificiale disponibile diversa da quella umana o di animali domestici, tranne che non sia strettamente indispensabile”. Per questo gli orari lavorativi verranno anticipati per sfruttare la luce solare e sarà prevista “l’educazione del pubblico attraverso vacanze che non siano a centinaia di chilometri”, per limitare il trasporto su gomma. La luce elettrica verrà limitata nelle campagne, al pari della programmazione h24 in televisione. Le trasmissioni saranno disponibili solo per alcune ore, dopodiché l’apparecchio, non importa se a schermo piatto o meno, dovrà essere spento. E proprio la disciplina dell’uso del mezzo televisivo avrebbe risolto il più grande conflitto d’interessi degli ultimi venti anni: l’articolo 70 vieta espressamente ai privati il possesso di una rete televisiva. Al contrario, è permesso l’uso commerciale degli altri mezzi stampa (radio e carta stampata, internet non è contemplato nella Costituzione) purché non svolgano azione persuasiva contraria a quella deliberata dalla Camera delle Funzioni. Quest’ultima è l’organo legislativo dell’ordinamento progettato dai neofascisti, dove tutti, anche i semplici cittadini, possono portare avanti proposte, per le quali, tuttavia, è esclusa la modalità del voto a maggioranza. Stando al restyling delle “leggi fascistissime” del ’25 e del ’26, chi promulga le leggi è il presidente della Camera delle funzioni, una sorta di neo-Duce scelto dalla stessa, che decade solo per morte o invalidità. “Le c.d. tornate elettorali – si legge infatti nelle disposizioni transitorie – non esistono più e le designazioni del popolo avvengono in modo continuo, meditato a ragion veduta e silenzioso”. Cosa si intenda per “silenzioso”, Sermonti non l’ha ancora spiegato. Nel testo viene riversata anche l’ideologia dei neofascisti sui diritti civili. “Viene tutelata la famiglia che nasce dalla comune volontà di due persone di sesso diverso che stipulano tra loro un patto indissolubile e di reciproca dedizione. Si denomina matrimonio”, recita l’articolo 28, da cui si evince una scarsa inclinazione ai cambi di nomenclatura. “Al padre è affidata la rappresentanza della famiglia nei rapporti con terzi ritenendosi il maschio più idoneo a tali funzioni”, si legge negli articoli seguenti, mentre il “divorzio è previsto solo in presenza di requisiti oggettivi, tra cui non figura la volontà dei coniugi in caso di presenza di figli minorenni”. Nell’Italia di Avanguardia ordinovista ritornerebbe anche la legalizzazione della prostituzione. Obbligatorio, si intende, il controllo sanitario.

Inchiesta “L’Aquila nera”. Ecco chi sono gli aspiranti terroristi di “Avanguardia Ordinovista”. «Progettavano attentati anche contro magistrati ed Equitalia», scrive Alessandro Biancardi su “Prima da Noi”. Due anni di indagini, indagini effettuate anche monitorando le pagine personali dei social network degli indagati e ascoltando le loro telefonate. Secondo la procura aquilana oltre i proclami e le frasi offensive, i propositi violenti c’era e il gruppo capeggiato da Stefano Manni, ex carabiniere marchigiano residente a Montesilvano, era pronto a colpire davvero. Il gruppo si identificava con la sigla “Avanguardia Ordinovista” e quale “Centro Studi Progetto Olimpo”, scuola politica di area neofascista. Secondo la procura de L’Aquila, pm Antonietta Picardi, si tratta della moderna riedizione del Movimento Politico Ordine Nuovo, che nasceva proprio quale omonimo “Centro Studi”. Il piano degli indagati nell'ambito dell'operazione del Ros che ha portato agli arresti disposti del gip dell'Aquila era «basato su un doppio binario»: «da un lato atti destabilizzanti da compiersi su tutto il territorio nazionale e dall'altro un' opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro "nuovo" partito».

I PROTAGONISTI.

STEFANO MANNI: IL PARENTE DI GIANNI NARDI. Secondo i carabinieri del Ros Manni, 48 anni, residente a Montesilvano, è il capo indiscusso dell’organizzazione. Nato ad Ascoli Piceno, ma residente a Montesilvano, è un ex sottufficiale dei carabinieri, congedato per infermità dopo oltre un decennio di servizio attivo. Il fatto di essere un ex militare è utilizzato dal Manni per accreditarsi quale conoscitore di dinamiche investigative, di addestramenti militari. Manni si vantava anche di una parentela con il terrorista Gianni Nardi. I due potrebbero avere una parentela alla lontana considerando che le rispettive famiglie sono originarie di Venarotta, piccolo comune dell’ascolano. Peraltro, i Carabinieri hanno rilevato come l’uomo, dopo essere stato congedato dall’Arma dei Carabinieri, sia stato assunto dalla “S.E.I. Servizi Elicotteristici Italiani” S.P.A., realtà industriale riconducibile alla famiglia Nardi. La storia di Gianni Nardi è quella di un terrorista neofascista che negli anni '70, insieme a Stefano Delle Chieie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito, rappresentava uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. Indiziato per l’omicidio del Commissario di Polizia Luigi Calabresi (che stava indagando su di lui in ordine ad un traffico d’armi tra Svizzera e Italia), morì in un incidente d’auto che, all’epoca, destò particolari sospetti circa l’accidentalità dell’evento. Molti anni dopo la morte, fu accertato che il suo nome era ricompreso nell’elenco degli appartenenti alla formazione paramilitare clandestina Gladio. Su Facebook Manni era molto attivo, con un profilo palese ed altri fake utilizzati per amplificare i messaggi divulgati dal primo ad un circolo ristretto di collaboratori. Due le cerchie di seguaci: una conosciuta di persona, un’altra no. Il linguaggio utilizzato con gli uni o gli altri appare differente: nella dimensione pubblica su Facebook Manni è esplicito nell’esporre quelle che ritiene essere le problematiche della società contemporanea, ma vago e generico nelle intenzioni e proposte di “soluzione”. Nel ristretto del privato cerchio degli affiliati, esplicitandava invece la via violenta da intraprendere per stabilire «il nuovo ordine sociale». Il doppio livello, ha ricostruito la Procura, vi è anche nelle operazioni di verifica dei soggetti con ‘gli amici’ con i quali entrare in contatto: una identificazione dei semplici simpatizzanti, eseguita per lo più con il coinvolgimento dei più stretti collaboratori, e un attento esame degli “operativi” che viene svolto con metodo militare (in almeno un caso, un utente sospettato di essere agente sotto copertura è stato oggetto di attente indagini interne ed in seguito se ne è programmata l’eliminazione).

MARINA PELLATI: LA CONVIVENTE. Marina Pellati, 49 anni, anche lei residente a Montesilvano, è la convivente di Manni. Secondo gli investigatori avrebbe effettuato proselitismo utilizzando principalmente Facebook, dove è registrata con numerosi profili anche utilizzando identità fittizie, compresa quella di un fantomatico “generale dei Carabinieri di 71 anni” che garantirebbe sostegno ideologico al suo gruppo tramite una pagina Facebook denominata “Nuovo Centrostudi Ordine Nuovo”.

RUTILIO SERMONTI: L’AUTORE DELLA “COSTITUZIONE”. Rutilio Sermonti, 93 anni, di Ascoli Piceno viene definito come l’ideologo del gruppo. Già appartenente al disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, scrittore e artista è considerato una delle figure più importanti nel panorama degli intellettuali di destra. A conoscenza, tramite Manni, dell’esistenza dell’associazione e della progettualità della stessa fornisce sostegno ideologico «riconoscendo la legittimità secondo il proprio pensiero dei fini perseguiti, incitandone l’operatività». É autore di un documento denominato “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che, fatto circolare clandestinamente dagli associati ed intercettato dai Carabinieri, rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica, composta da 85 articoli e 10 disposizioni transitorie, nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione ispirato all’epoca fascista. Il documento costituisce per l’associazione, unitamente ad altri saggi e scritti ideologicamente riconosciuti, il manuale al quale fare riferimento. Sermonti si avvale della collaborazione di Mario Mercuri, 80 anni di Petritoli, Ascoli Piceno, anche lui indagato, che organizza incontri con Manni e altri operativi ed è, a sua volta, promotore di una fondazione.

LUCA INFANTINO. Luca Infantino, 33 anni di Legnano (Milano), secondo gli inquirenti sarebbe il co-promotore dell’organizzazione e starebbe allo stesso livello di Manni. «Condivide ogni aspetto strategico dalle condotte volte al proselitismo», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, «le verifiche di nuovi associati, la programmazione di azioni violente, la realizzazione di un disegno politico formale parallelo». Manni ipotizza la creazione di una dimensione politica ufficiale e legittimata da far crescere parallelamente al progetto eversivo, Infantino compie i primi passi per la costituzione di tale contesto ufficiale, fondando il “Centro Studi Progetto Olimpo” e la “Scuola Politica Triskele”. Realtà da ritenersi regolari –sostengono gli stessi investigatori- che servivano per fare proseliti.

MARIA GRAZIA CALLEGARI. Lei, originaria di Varese, è strettissima collaboratrice di Manni. Componente della ristretta cerchia di soggetti che, nell’ambito dell’associazione, ha diritto di espressione in ordine ad ogni tematica, compresa la valutazione delle azioni da compiere e delle modalità esecutive. Manni le ha affidato il compito di verifica dei profili Facebook di simpatizzanti, nonché della verifica di secondo livello incontrando personalmente potenziali nuovi “operativi” da arruolare. «Ha espresso più volte disponibilità all’azione in prima persona», chiariscono i Ros.

KATIA DE RITIS: LA CONSIGLIERA COMUNALE. Katia De Ritis, 55 anni di Lanciano, viene identificata dai carabinieri come un importantissimo punto di riferimento di Manni. Come Infantino, si dedica alla vita politica pubblica ma contemporaneamente «lavora sottotraccia». In tal senso, è presente nei quadri del partito politico “Fascismo e Libertà – Socialismo Nazionale” di cui è vice segretario nazionale; in tale veste, è stata eletta consigliere comunale d’opposizione nelle ultime consultazioni amministrative nel comune di Poggiofiorito (Chieti). Alla dimensione politica pubblica affianca una parallela attività clandestina eversiva, sostengono gli inquirenti, e rappresenta per Manni «un punto di riferimento sia per la promozione di incontri programmatici tra affiliati, che per l’individuazione di strategie e obiettivi». Secondo la procura vanta contatti con militanti dell’organizzazione semiclandestina di estrema destra “Militia” operante a Roma. Nell’ultimo periodo d’indagine secondo la procura si è spesa per «individuare obiettivi fisici da colpire e canali per il reperimenti di armi da fuoco e per i contatti con altri gruppi operativi».

PANDOLFINA DEL VASTO: L’AMICO CON L’ARSENALE. Emanuele Lo Grande Pandolfina del Vasto, 63 anni, originario di Palermo ma residente a Pescara avrebbe invece espresso disponibilità a compiere azioni anche da solo, vista la lentezza alla messa in atto di azioni violente da parte del Manni, considerata persona «troppo riflessiva». Secondo gli inquirenti avrebbe dato dimostrazione della sua determinatezza mettendo in atto le fasi prodromiche alla rapina ai danni un cacciatore, suo amico.

FRANCO LA VALLE E FRANCO MONTANARO. Franco Montanaro, 46 anni di Roccamorice, appartenente a Condeferatio, un’organizzazione autonoma e radicata in tutta Italia, ha ritenuto, dicono gli inquirenti, di dover agganciare Manni e il suo nuovo gruppo per la commissione di azioni violente. La Valle, Montanaro e Manni si conoscono almeno dal novembre 2001, data in cui hanno partecipato a un Forum a Fara Filorum Petri in provincia di Chieti.

LUIGI DI MENNO DI BUCCHIANICO. Luigi Di Menno Di Bucchianico, 47 anni di Lanciano, è in possesso di porto d’armi per uso sportivo. «Nei suoi ideali vede un intervento violento contro personalità dello Stato (sia esse nazionali che locali)», scrivono gli inquirenti, «finalizzato alla dimostrazione di una strategia della tensione e alla dimostrazione della loro esistenza». Secondo la ricostruzione degli inquirenti ha messo a disposizione del gruppo le sue idee e i suoi obiettivi in una riunione tenuta nell’ottobre 2014 presso l’abitazione della De Ritis e avrebbe mostrato insofferenza per la lentezza della messa in azioni da parte di Manni.

FRANCO GRESPI. Franco Grespi , 52 anni di Milano, secondo quanto analizzato dai carabinieri del Ros, si sarebbe invece occupato del reperimento di fondi per l’acquisto di armi, fornendo disponibilità per azioni violente (rapine, omicidi, acquisto di armi tramite canali illegali stranieri). In particolare, il Grespi «si é occupato del reperimento di esplosivi e armi da fuoco, per le quali ha intessuto contatti con fornitori stranieri; ha dato la disponibilità per essere l’esecutore materiale dell’attentato a Marco Affatigato e per rapine presso supermercati e abitazioni private».

ORNELLA GAROLI. Ornella Garoli, 53 anni anche lei di Milano e compagna di Grespi avrebbe invece dato la sua disponibilità alla commissione di azioni violente; «oltre a commentare sulla chat la sua posizione ideologica, ha operato sopralluoghi presso supermercati abruzzesi finalizzati alle rapine e si è prestata a essere una delle persone che dovevano compiere la rapina presso l’abitazione di un cacciatore che deteneva l’arsenale».

NICOLA TRISCIUOGLIO. Trisciuoglio, 53 anni di Napoli, pur non avendo un ruolo verticistico in seno all’associazione, viene considerato dagli investigatori comunque interno al gruppo, «sostenitore sul piano della condivisione ideologica». Ex avvocato napoletano, radiato dall’ordine degli avvocati partenopeo nel 2005, ha svariati precedenti per truffa, estorsione ed altro, nonché pregiudizi per reati di istigazione all’odio razziale ed apologia al fascismo. Ha fondato il “Movimento Uomo Nuovo” e il movimento politico “Identità Nazionale”. Concorda con il Manni l’attuazione di un disegno eversivo stragista.

VALERIO RONCHI. Valerio Ronchi, 48 anni di Mariano Comense si è reso disponibile all’azione violenta. Anch’egli su sia su Facebookche in conversazioni telefoniche ha affermato che l’unica soluzione per le problematiche italiane è l’attuazione di azioni violente atte a destabilizzare lo Stato. Ha partecipato unitamente alla convivente, Giuseppa Caltagirone, al primo incontro della Scuola Politica Triskele organizzato da Luca Infantino con il beneplacito di Stefano Manni, tenutosi a Milano l’8 febbraio 2014. Dall’intercettazione ambientale effettuata dal R.O.S dei Carabinieri, Valerio Ronchi ha ribadito, anche in quell’occasione, la necessità dell’attuazione di azioni violente indirizzate «non solo contro le strutture».

Arrestati i neofascisti del terzo millennio. "Riprenderemo la strada dell'Italicus". Gli arrestati fanno parte di un gruppo di estrema destra che si rifà al movimento Ordine Nuovo. Dai verbali emerge il loro piano eversivo: la loro rivoluzione nera, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Operazione antiterrorismo dei carabinieri del Ros coordinato dalla procura dell'Aquila: 14 gli arresti in varie regioni italiane nei confronti di un gruppo che si richiama agli ideali del disciolto movimento neofascista «Ordine Nuovo» e che progettava azioni violente contro obiettivi istituzionali. Tra gli arrestati Rutilio Sermonti. L'ideologo, reduce Repubblichino, ex Ordinovista, tra i fondatori del Movimento sociale e candidato con Forza nuova alle provinciali di Latina nel 2009. È lui l'intellettuale che aveva il compito di scrivere una Costituzione fascista. «É autore infatti di un documento denominato “ Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che, fatto circolare clandestinamente dagli associati ed intercettato dai Carabinieri, rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica, composta da 85 articoli e 10 disposizioni transitorie, nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione ispirato all’epoca fascista» si legge nell'ordinanza di custodia cautelare. «Tale documento costituisce per l’associazione, unitamente ad altri saggi e scritti ideologicamente riconosciuti, il manuale al quale fare riferimento». Sermonti in contatto con gli arrestati è considerato “il Vate”, il “Mentore”. A casa del repubblichino sono stati organizzati vari summit dell'organizzazione. Uno degli incontri è avvenuto anche a Milano, nello studio dell'archeologo, studioso del nazifascimo, Giancarlo Cavalli. In tutto sono 55 gli indagati, e tutti accusati di essere promotori di un’associazione denominata “Avanguardia Ordinovista”, « tramite la creazione di un CENTRO STUDI “PROGETTO OLIMPO” che richiama gli ideali del disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, alla quale partecipano con il proposito del compimento di atti di violenza (tramite attentati a Equitalia, magistrati e forze dell’ordine) al solo fine di destabilizzare l’ordine pubblico e la tranquillità dello Stato e poi introdursi tramite un’apparente attività lecita di partecipazione alle elezioni con il partito da loro creato, all’interno dell’ordine democratico quale unica soluzione alla destabilizzazione sociale», si legge nel mandato di cattura. «Un piano eversivo “studiato a tavolino”» proseguono gli inquirenti, basato su un doppio binario: «da un lato la previsione di atti destabilizzanti da compiersi su tutto il territorio nazionale e dall’altro un’opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro “nuovo” partito, da loro costituito, che dovrebbe rappresentare per lo Stato l’unica soluzione alla disfatta e alla strategia del terrore». L'organizzazione era strutturata su un doppio livello: simpatizzanti, raccolti principalmente su Facebook e un circolo ristretto di collaboratori. Se sulla pagina del social network si facevano proclami generici di rivoluzione nera, era nel privato che il progetto prendeva forma: «Nel privato cerchio degli affiliati, veniva esplicitata la via violenta da intraprendere per stabilire il nuovo ordine sociale». Un doppio livello messo in piedi anche nella verifica dei soggetti con i quali il gruppo di estremisti entrava in contatto: «Una identificazione dei semplici simpatizzanti, eseguita per lo più con il coinvolgimento dei più stretti collaboratori, e un attento esame degli “operativi” che viene svolto con metodo militare». Per i sospetti infiltrati il piano prevedeva la soluzione finale: l'uccisione. «In almeno un caso, un soggetto sospettato di essere agente sotto copertura è stato oggetto di attente indagini interne ed in seguito se ne è programmata l’eliminazione» continuano gli investigatori. Alla cellula eversiva sono state trovare anche armi e si è scoperto che stava progettando un omicidio contro Marco Affatigato, ex  di Ordine nuovo sospettato di far parte dei servizi segreti. La sua colpa è quella di essere «infame», di aver tradito i camerati. Il piano di morte non verrà però portato a termine. Un quadro pesante. Ipotesi inquietanti. Che fanno ripiombare il Paese negli anni della strategia della tensione. Tra gli arrestati c'è Stefano Manni, ex carabiniere in congedato per infermità. Lui vanta parentele con uno dei leader di Ordine Nuovo, il terrorista Gianni Nardi.«I due potrebbero avere una parentela alla lontana» annotano i militari del Ros. Un elemento che confermerebbe tale vicinanza tra i due è, secondo la procura e i Carabinieri, l'assunzione di Manni, dopo il congedo, «alla “S.E.I. Servizi Elicotteristici Italiani” S.P.A., realtà industriale riconducibile alla famiglia Nardi». La storia dell'ex ordinovista Nardi è quella di un terrorista neofascista che negli anni '70, insieme a Stefano Delle Chiaie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito rappresentava uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. Indiziato, tra l'altro, per l’omicidio del Commissario di Polizia Luigi Calabresi(che stava indagando su di lui in ordine ad un traffico d’armi tra Svizzera e Italia). Nardi morì in un incidente d’auto. «Molti anni dopo la morte, fu accertato che il suo nome era ricompreso nell’elenco degli appartenenti alla formazione paramilitare clandestina Gladio» si legge nell'ordinanza. Tra di loro gli indagati ricordano gli anni delle bombe. Evocano una nuova strategia, «credo sia il caso di riprendere la strada dell'Italicus...ma su ampissima scala...Nicola questo è un popolo che non merita nulla, l'ultima dimostrazione l'abbiamo data, che io sono italiano e quindi l'abbiamo data, con il non funerale di Priebke». E sempre sulla strategia da adottare Manni dice: «L'unico modo legale...è ..è....l'unico modo...non è legale....ma l'unico modo, è destabilizzare fortemente la situazione colpendo obiettivi ma mirati no le stazioni». Il braccio destro di Manni è Luca Infantino che ha una sua idea di organizzazione: deve avere una « struttura organica schematica e militare, con idee precise e obiettivi programmati, facendo presente che l’atto eversivo deve essere fattibile ed è necessario trovare gente disponibile ad effettuarlo. La gente disponibile ad attuare il piano ci sarebbe ed anche le armi starebbero arrivando, ma, fino a quando non si hanno persone di fiducia, le armi, non ha intenzione di farle arrivare» scrivono i detective. Nei suoi dialoghi e scritti Infantino ribadisce più volte la necessità «dell’individuazione degli obiettivi da colpire e nella fattispecie Equitalia, Banche, Poste, Prefetture, Uffici regionali e Statali, precisando che le azioni compiute non devono essere indicative della provenienza politica, pertanto non bisogna colpire la Kienge perché altrimenti verrebbe individuata l’area politica responsabile dell’azione. Quest’ultima deve essere simultanea e potrebbe colpire le città di Roma, Milano e Firenze per creare una punta di terrore, in quanto solo due bombe ad Equitalia non verrebbero commentate sui media». Tra le centinaia di intercettazione, ce ne sono alcune in cui i neofascisti ragionano su come portare avanti le azioni violente. Anche contro gli imprenditori dell'accoglienza: «Vedi Forza Nuova ha identificato, come si dice, identificato, li ha resi pubblici, tutti gli alberghi, le strutture che li stanno ospitando, con loro faremo i conti dopo,tu hai un albergo, hai giocato sulla pelle degli italiani, ospitando i baluba, facendo dare 50 euro al giorno ai baluba io non ti ammazzo, ammazzo i figli tuoi a futura memoria, affinchè tu abbia un ricordo indelebile per tutta la vita, hai tradito il popolo italiano, il popolo italiano ti ripaga scannandoti tuo figlio davanti agli occhi, quando dico scannandoti non intendo una (incomp) tagliare da qui a qui (poco comp) faremo i conti dopo , adesso è fondamentale colpirli dove si aggregano, è fondamentale colpirli dove si aggregano». Colpire per uccidere. È questa secondo la procura l'aspetto più pericoloso dell'organizzazione fascista. «Vedi Lui’….se tu mi dici è mi mandano in servizio senza benzina e poi li scorti, devi morire, sei un poliziotto devi morire, sei un carabiniere devi morire, devi morire perché tu hai tradito il tuo popolo a vantaggio del (...) non c’è una pena alternativa…tu mi dirai che ti metti ad ammazzare tutte le Forze dell’Ordine, si, ma io non credo che siano tutte, perché oggi tu stai pagando 30 mila euro al mese per una Fornero che senza fare nulla va a fare shopping», continua il duce versione 2.0 Stefano Manni. «Noi, si è sempre stati, “puri e duri”, non l'abbiamo promesso, ma appena ci riuniremo torneremo! Siamo rimasti pochi, ma bastiamo!» così un'ex ordinovista sulla pagina facebook del movimento di Manni. «Io personalmente attendo il via, ho sete di vendetta, ma non voglio fare la scheggia impazzita, uccideremo con efferatezza!!! Vendetta!!», scrive un altro. Infine non mancano i riferimenti al gruppo fascista romano Militia fondato da Maurizio Boccacci, ex leader del movimento politico occidentale. Katia De Ritits infatti, una delle indagate, è un importantissimo punto di riferimento di Manni. E come un'altro dei personaggi sotto inchiesta, Infantino, «attua l’esposizione ad una vita politica pubblica parallelamente all’esecuzione di un disegno eversivo e clandestino». È presente infatti nei quadri del partito politico “Fascismo e Libertà – Socialismo Nazionale” di cui è vice segretario nazionale. Con questa formazione è stata eletta consigliere comunale d’opposizione nelle ultime consultazioni amministrative nel comune di Poggiofiorito, provincia di Chieti. Per Manni è il contatto con i militanti dell’organizzazione semiclandestina di estrema destra “Militia”già finita sotto processo per ricostituzione del partito fascista. Altri contatti d'area spuntano in Friuli. Uno degli indagati spiega di aver preso contatti con i Nazionalisti friulani, «e ho allargato un pò di contatti... sono i Nazionalisti Friulani, sono ben predisposti, belli decisi». Insomma, un nucleo nero che puntava a fare davvero la guerra allo Stato.

Manifesto dell'eversione nera. Tra le intercettazioni spunta il sermone neofascista dell'ideologo repubblichino che voleva riscrivere la Costituzione, continua Giovanni Tizian. In una delle riunioni a casa di Rutilio Sermonti, quest'ultimo spiegava ai suoi adepti il senso della loro loro lotta. «In Italia è in atto uno stato-fantoccio, voluto dai nemici della nazione, col favore degli sciagurati antifascisti, traditori per vocazione, oltre al fatto che la stragrande maggioranza degli Italiani non conosce altro che quello». Per questo, scrivono gli inquirenti, diventa, indispensabile attuare l’azione di lotta contro lo Stato e solo «la distruzione dello status-quo, permetterebbe la creazione di un nuovo Stato, definito Repubblica dell’Italia Unita, per il quale l’anziano si è prodigato nel formulare un dettagliato Statuto». Un proclama della rivoluzione neofascista. «Noi che, da legionari nel cuore, al male non opponiamo piagnistei ma il combattimento. E' il momento, io grido, di battere sugli scudi. E' il momento, perchè il popolo è alla disperazione (e se la merita!). E' il momento, perchè il baratro sta per inghiottire il mondo intero, a cominciare dagli stessi criminali. E' il momento, perchè la Terra medesima ci ha intimato lo sfratto. La lotta per distruggere lo stato-fantoccio deve quindi divenire prioritaria e senza quartiere, con tutti i mezzi disponibili e tutti quelli escogitabili, salvo solo quelli incompatibili con la nostra intima natura. […] E non si chiami, quella da noi bandita, guerra civile, perchè per guerra civile s'intende quella tra due parti di una stessa patria, e i nostri nemici, con l'autentica Patria italiana non hanno nulla a che fare, e sono solo la squallida serva della plutocrazia mondiale, assassina e suicida sotto i nostri occhi».

Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare. 

Avanguardia Ordinovista: neofascisti tutti da ridere, scrive Alessandro D’Amato su “Nextquotidiano”. Progettavano attentati e compravano armi per azioni terroristiche. Eppure gli indagati nell'operazione Aquila Nera non sembravano brillare da altri punti di vista: «Quella nemmeno sa dove sta di casa il comune», dice il sindaco di Poggiofiorito parlando di una consigliera arrestata. Volevano 10, 100, 1000 Occorsio. Progettavano attentati ad Equitalia «con i dipendenti dentro». Ma da quello che si legge nelle risultanze di indagine su Aquila Nera, quelli di Avanguardia Ordinavista sembrano più un esercito di rintronati che un gruppo pronto ad azioni terroristiche. Gli arrestati nell’ambito dell’operazione sono: Stefano Manni, 48 anni, di Ascoli Piceno ma residente a Montesilvano (Pescara); Marina Pellati (49), di Varese, residente a Montesilvano; Luca Infantino (33), di Legnano (Milano), Piero Mastrantonio (40) dell’Aquila; Emanuele Pandolfina Del Vasto (63) di Palermo, residente a Pescara; Franco Montanaro (46) di Roccamorice (Pescara); Franco La Valle (51) di Chieti; Maria Grazia Callegari (57) di Venezia, residente in provincia di Torino; Franco Grespi (52) di Milano, residente a Gorizia; Ornella Garoli (53) di Milano, residente a Gorizia; Katia De Ritis (57) di Lanciano (Chieti). Ai domiciliari sono finiti Monica Malandra di 42 anni dell’Aquila, Marco Pavan (30) di Venezia, residente a Padova e infine, Luigi Di Menno di Bucchianico 47enne di Lanciano (Chieti). La base operativa era Montesilvano (Pescara).

AVANGUARDIA ORDINOVISTA: NEOFASCISTI TUTTI DA RIDERE. Gli indagati sono 44 in tutto. I reati contestati sono associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, associazione finalizzata all’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi nonché tentata rapina. I provvedimenti scaturiscono da un’attività investigativa (guidata dal procuratore dell’Aquila Fausto Cardella e dal pubblico ministero Antonietta Picardi) è stata avviata, nel 2013, dal R.O.S. nei confronti di un’associazione clandestina denominata Avanguardia Ordinovista che, “richiamandosi agli ideali del disciolto movimento politico neofascista “Ordine Nuovo” e ponendosi in continuità con l’eversione nera degli anni ’70, progettava azioni violente nei confronti di obiettivi istituzionali, al fine di sovvertire l’ordine democratico dello Stato”. Eppure, se si va a cercare su internet le risorse online degli aspiranti terroristi, si trovano soltanto cose di cui sorridere. L’associazione eversiva smantellata dai Carabinieri del Ros nell’ambito dell’operazione Aquila nera è «connotata da caratteristiche di evidente pericolosità, avente il programma di porre in atto azioni violente e attentati in maniera tale da destare allarme, spaventare la comunità civile e indurre a credere da un lato nella necessità di un cambiamento sociale e politico, dall’altro nella capacità del gruppo di realizzare tale cambiamento», si legge nell’ordinanza di custodia emessa dal Gip dell’Aquila Romano Gargarella, secondo il quale si tratta «della classica ‘strategia della tensione’, avente fine, scopi e modalità di tipo terroristico. Tanto che è risultato dalle loro stesse parole esplicitate in conversazioni private o anche attraverso facebook che gli adepti sono disposti a compiere atti criminali eclatanti pur di realizzare il loro programma». Ma nei fatti quello che riuscivano a fare era pubblicare post contro l’allora ministro Cécile Kyenge e contro Laura Boldrini e aizzare a commettere atti di violenza nei confronti di persone solo perché perché appartenenti ad un diverso gruppo nazionale, etnico o razziale.

L’IDENTIKIT SOCIAL DEGLI ARRESTATI. Stefano Manni, ex carabiniere, è considerato l’ideologo del gruppo. Sul suo profilo Facebook scrive di essere un membro dell’OVRA (la polizia segreta fascista che lavorava alla repressione dell’antifascismo), mentre la sua foto profilo sul social network era quella di un Babbo Natale che faceva il saluto romano, mentre nell’immagine di copertina c’era almeno la Buonanima. L’ordinanza fa anche sapere che Manni era solito utilizzare fake per mettere in rilievo i suoi “pensieri” sui social network. Tra le sue referenze c’era quella di essere parente di Gianni Nardi, terrorista fascista attivo negli anni Settanta. Manni, fa sapere l’ordinanza, aveva realizzato un doppio livello di comunicazione: in uno con un profilo pubblico lanciava messaggi volti ad alimentare tensioni sociali e a suscitare sentimenti di odio razziale in particolare nei confronti di persone di colore in un altro, con un profilo privato limitato ad un circuito ristretto di sodali, discuteva le progettualità eversive del gruppo. Poi c’è Katia De Ritis, considerata uno dei pezzi grossi dell’organizzazione perché è consigliere comunale a Poggiofiorito. Ebbene, sentite come ha reagito oggi Corino Di Girolamo, sindaco della cittadina in provincia di Chieti, quando gli hanno fatto sapere dell’arresto. «Quella neanche sa dove sta di casa il comune. Pensa, eletta nella minoranza, vota tutti i nostri provvedimenti di maggioranza. Con Poggiofiorito non c’entra niente, sono solo dei nazisti», dice parlando del vicesegretario di Fascismo e Libertà. Eletta nello scorso maggio nel consiglio comunale «ma con 149 voti totali», puntualizza il sindaco, la De Ritis «sta là e non dice mai una parola, lei e il suo collega. Si sono infilati nelle elezioni per via del fatto che l’altra opposizione (di centrosinistra ndr) non si è presentata. Ma io lo dicevo ai cittadini: non li votate che sono degli scatenati, dei nazisti. E invece questo è un paese di pazzi… non mi dite niente. E ora li hanno arrestati. Quindi mi sa che al prossimo consiglio comunale del 29 dicembre non si farà vedere, vero?».

SE QUESTO È UN IDEOLOGO. Infine c’è Rutilio Sermonti. Secondo l’accusa, aveva un ruolo di indirizzo ideologico, in particolare di “estensore di una nuova costituzione repubblicana basata su un ordine costituzionale di ispirazione marcatamente fascista”. Residente nella provincia di Ascoli Piceno, ex aderente a Ordine Nuovo, Sermonti sul suo sito si presenta come «coniugato in seconde nozze, con moglie e figlio universitario a carico». E se ci tiene a farlo sapere, ci sarà un perché. Ma questo arzillo 93enne ha lasciato Ordine Nuovo quando è stato dichiarato fuorilegge, in seguito è stato vicino a Pino Rauti e si è occupato di ambiente per il Movimento Sociale Italiano prima di mollare il partito e continuare a seguire Rauti nelle sue scarse fortune elettorali dopo la svolta di Fiuggi e la nascita di Alleanza Nazionale. E’ anche, per soprannumero, un contestatore del darwinismo, giusto per capire con chi abbiamo a che fare. Ideologo? «A grandi linee è come negli anni ’70, solo che con la tecnologia avanzata dobbiamo stare molto più attenti», dicono in uno stralcio di una intercettazione ambientale dei Ros dei Carabinieri, raccolta nell’ambito dell’operazione “Aquila Nera”, due soggetti indagati. L’argomento della conversazione e’ la strategia del gruppo che si ispirava agli ideali del disciolto movimento neofascista Ordine Nuovo. «C’è una struttura e da li non si scappa – dice uno dei due all’interno di un’auto, jeans e giubbotto nero -. Chi c’è sopra dirà tu fai questo… tu fai quello… perché poi comunque c’e’ una strategia». L’organizzazione non trascurava nemmeno la ricerca del consenso: «Gli obiettivi già praticamente ci sono – spiega ancora il soggetto intercettato -, il fatto è che, qualora il popolo ha un problema e quelli la non lo possono risolvere, il popolo non va piu’ belante da loro. Cercherà altri punti, qualcuno li dovrà aiutare». Tutto qui.

«I nuovi ordinovisti? Cantavamo insieme le canzoni delle SS». Rutilio Sermonti, repubblichino 93enne, fratello dell’attore Vittorio, è l’ ideologo dei neofascisti: «Ma quali miei adepti, sono solo chiacchieroni», scrive Fabrizio Caccia, inviato a Colli del Tronto (Ascoli Piceno) su “Il Corriere della Sera”. Lo troviamo intento a disegnare un lupo, «l’animale per eccellenza simbolo di ferocia e violenza, non è così?», ironizza Rutilio Sermonti, 93 anni e la mano ancora ferma, col pennino che tratteggia alla perfezione l’animale digrignante sotto lo sguardo fiero della sua seconda moglie, Krisse, Clarissa, nata in Finlandia e «sposata davanti al sole, con rito solo nostro, in cima al Monte Pellecchia, in Abruzzo, a 2 mila metri d’altezza, molto vicino al nido delle aquile...». La notte del 22 dicembre a casa sua sono arrivati i carabinieri: «Erano le tre, dormivamo - ricorda Sermonti -. Si sono messi a fare luce con le torce contro le nostre finestre. “Aprite!” ci dicevano. E noi due, spaventatissimi: “Neanche per sogno, ora chiamiamo la polizia”. Alla fine ci hanno convinti, sono entrati e si sono messi a perquisire la casa, portando via il computer. Bene, io dico, perché nel mio computer c’è tutta la verità. E quello che penso è scritto nei miei libri». Secondo la Procura dell’Aquila, invece, sarebbe proprio lui - l’ex repubblichino, tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano e poi di Ordine Nuovo - l’ideologo di «Aquila Nera», il grande vecchio che avrebbe ispirato con le sue teorie rivoluzionarie il progetto terroristico della banda di «Avanguardia ordinovista», il gruppo di neo-fascisti che avrebbe voluto sovvertire la Repubblica a colpi di attentati, rapine e omicidi. Ma lui non ci sta: «Avanguardia ordinovista? Mai sentita nominare. La verità è che io sono l’ideologo di tanti che non conosco, che leggono i miei libri e poi chissà cosa gli viene in mente. E chi sarebbero i miei adepti? L’ex carabiniere Stefano Manni e sua moglie Marina? Sì, ora ricordo, son venuti più volte qui a casa mia...». La signora Clarissa rammenta che venivano «quasi in adorazione», il signor Manni, la moglie e altri che i coniugi Sermonti chiamavano «il gruppo di Pescara». «Vennero da noi tre o quattro volte, erano simpatici, amichevoli, poi mettevano su Facebook le mie foto e i miei testi». E passavano le ore a farsi raccontare da Rutilio i tempi della guerra o di quando giurò davanti al Duce allo Stadio dei Marmi il 28 ottobre 1938. E qualche volta cantavano anche, tutti insieme, le canzoni fasciste («Diventiamo tutti eroi con la morte a tu per tu») oppure delle SS («Waffen Waffen Waffen»), ma senza mai accennare a propositi bellicosi, come quello di uccidere i politici e gli extracomunitari e addirittura replicare la strage dell’Italicus e «carbonizzare» il capo dello Stato. «Chi è Stefano Manni? Solo un millantatore - s’indigna Rutilio Sermonti sulla sua sedia a rotelle -. Un chiacchierone che riempiva i discorsi di fregnacce e bla-bla-bla. Uno a cui piaceva sentirsi qualcuno. Ma per essere qualcuno bisogna fare qualcosa e lui non ha mai fatto niente. Manni il deus ex machina dell’organizzazione? Ma scherziamo, al massimo della macchina del caffè...». Il vecchio pittore e scrittore, autore con Pino Rauti di «Una storia del fascismo», confessa di sentirsi preso in giro: «Manni l’ultima volta mi promise mille euro per dare alle stampe il mio ultimo libro “Non omnis moriar”, ma il suo bonifico ancora l’aspetto e due mesi fa gli scrissi al computer un elenco di insulti che i carabinieri potranno riscontrare. Da quel giorno chiusi con lui». Rutilio Sermonti è fratello di Giuseppe lo scienziato e Vittorio l’illustre dantista: «Giuseppe mi ha telefonato appena saputa la notizia dal telegiornale, con Vittorio non ci vediamo da sette anni e mi piacerebbe tanto riabbracciarci, come quando un tempo ci vedevamo a Roma al ristorante di mio nipote Andrea, il figlio di Giuseppe, a Trastevere». Oggi fanno impressione i suoi racconti dal fronte jugoslavo, dopo l’8 settembre, lui arruolato nella Schutzpolizei («Gli ufficiali tedeschi amavano ripetere: con Sermonti non si muore...»). Senza l’ombra di un pentimento, neppure un dubbio sul fatto di essersi schierato coi nazisti. Anzi mostra con orgoglio la croce di ferro della Wehrmacht appesa al muro, vicino a un manifesto di Julius Evola e a una foto in bianco e nero di Pio Filippani-Ronconi («Mio grande amico») con l’uniforme delle Waffen-SS. «È vero, sono un ideologo - conclude Sermonti -. Ma non della violenza! Uccisi della gente, in guerra, con la mitragliatrice: ma appunto solo in guerra uccidere è legittimo, per me! La violenza popolare io l’ho prevista, mai incoraggiata».

Ritratto degli aspiranti terroristi: un ex carabiniere e un gruppetto di chiacchieroni, scrive Ugo Maria Tassinari su “Il Garantista”. Il caso di … è brutto dirlo ma credo sia il caso di riprendere la strada dell’Italicus [...] ma su ampissima scala [...] “Nicò io purtroppo l’ho scritto… l’ho scritto più di una volta… ogni volta che l’ho scritto mi è costato un ban, io la vedo, tanto lo sto dicendo io, non lo sta dicendo Nicola Trisciuoglio, è giunto il momento di colpire, ma non alla cieca, tipo la stazione di Bologna, tra l’altro non attribuibile a noi, quell’opera d’arte, vanno colpiti precisi obiettivi banche, prefetture, questure, uffici di equitalia, uffici delle entrate, con i dipendenti dentro, è brutto dirlo Nicò ma è arrivato il momento di farlo, ma farlo contestualmente non a Pescara e fra otto mesi a Milano, no, una mattina alle 8.20, contemporaneamente 500 persone premono 500 telecomandi”. Questa intercettazione, immediatamente diffusa anche in formato video su youtube dal Ros dei Carabinieri (che hanno un ottimo ufficio stampa, va riconosciuto) è il punto di fuoco dell’intera inchiesta che ha portato ieri all’arresto di 14 militanti neofascisti in un blitz partito dall’Aquila e che vede tra i 44 indagati anche un intellettuale nero del prestigio di Rutilio Sermonti, antico sodale di Pino Rauti (ha 93 anni). A parlare è il capo indiscusso dell’organizzazione, Stefano Manni, un carabiniere congedato per infermità (lui stesso parla di aver subito un ictus da aneurisma, invocandolo come possibile esimente per i suoi reati) con una forte vocazione alla menzogna: tant’è che dopo aver annunciato un programma così impegnativo “buca” un appuntamento a Napoli con Trisciuoglio perché deve andare a vedere la recita natalizia della figlia. Ma con il camerata si giustifica con un fermo a opera dei carabinieri per la sua attività su Internet. È sottile il confine tra il palco virtuale di facebook, dove i due sono bravi a fare proselitismo, e la realtà. E anche se gli enunciati terrificanti sembrano millanterie di due chiacchieroni da bar come fai a non porti il dubbio che il delirio possa produrre effetti di realtà? Siamo ancora sotto choc per l’afroamericano di Baltimora che dopo aver sparato alla fidanzata annuncia su Instagram che vendicherà i fratelli ammazzati dalla polizia razzista. E va a New York dove uccide due cops: un latino e un cinese …Questa è gente – mi segnala in tempo reale uno dei miei tanti informatori – capaci di scatenare un flame su internet contro una camerata di bell’aspetto colpevole di aver espresso compassione per gli immigrati, a colpi di frizzi e lazzi sulla sua passione per la dotazione organica dei “negri”. E le diverse sigle dei gruppi ultrafascisti menzionati nell’ordinanza di custodia non risultano aver prodotto altro che l’elezione di qualche consigliere comunale in paesini di poche centinaia di abitanti o convegni che guadagnano due colonne in cronaca locale solo se c’è il boicottaggio di rito dell’antifascisteria.Il dato di fatto o, se volete, il problema è che il blitz aquilano porta per la prima volta alla ribalta una forma specifica di associazione liquida che non si limita – come a suo tempo Stormfront – a esprimere opinioni atroci ma annuncia l’intenzione di passare agli atti. La prima associazione sovversiva 2.0, quindi. E tra le tante cose curiose c’è un’anomalia notevole. Noi tendiamo ad associare la rete alla gioventù. Be’, i 14 arrestati sono tutti ultratrentenni: tre nati negli anni ’50, 7 nel decennio succes- sivo, due soltanto nei formidabili anni ’70, altrettanti all’inizio dei terribili ’80… Se ci aggiungiamo che il presunto ideologo è nato prima del fascismo…Gli aspetti grotteschi o apertamente ridicoli (come i cimeli della seconda guerra mondiale da utilizzare come armi) sono evidenti eppure anche un ipergarantista come me e sistematico coltivatore del pregiudizio negativo contro le “grandi retate” ha un minimo di difficoltà a liquidare il tutto come una buffonata. Perché in casi del genere il rasoio di Occam non funziona, né le regole della razionalità “economica” che orientano l’agire dei criminali “sani di mente”. Certo fa ridere un capo che dichiara di aver lavorato per l’Ovra (vedi il profilo di Manni su facebook) e poi progetta l’omicidio di Marco Affatigato perché è “uomo dei servizi segreti”. Ma il suo interlocutore nella famosa telefonata delle “stragi in serie” non è uno scemo del villaggio. La sua organizzazione di sostegno ai detenuti ha sviluppato forti legami con la Curia napoletana, tanto da trovare ospitalità per le sue iniziative in un convento della periferia orientale di Napoli. A uno dei convegni di “Uomo nuovo” ho partecipato anch’io come relatore. E al mio fianco sedeva un rispettato detenuto di lungo corso, l’ergastolano Mario Tuti… Non se ne sono accorti i carabinieri che hanno operato contro la nuova “spectre” nera ma un filone dell’indagine abruzzese porta alla variante napoletana del sistema Buzzi, tra San Gennaro e Pulcinella.

Avanguardia Ordinovista: mammamia quanto somigliano ai colonnelli di Monicelli e Tognazzi! Scrive Riccardo Paradisi su “Il Garantista”. Per capire qualcosa di questa eversione nera con epicentro in Ascoli Piceno che pretendeva di rovesciare l’ordine democratico vagheggiando al telefono di attentati a magistrati, banche e sedi d’Equitalia sarebbe utile rivedersi Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli, parodia irresistibile del golpe del principe Valerio Borghese con uno strepitoso Ugo Tognazzi nelle vesti di Beppe Tritoni, ex professore di ginnastica alla Farnesina. Un mitomane che passa giorni e notti a organizzare un colpo di stato che puntualmente fallisce e che finisce nei tavolini dei bar di Roma a vendere piani di golpe agli africani. Di questo Stefano Manni, 48 anni, che si occupava del reclutamento e del reperimento dei fondi dell’organizzazione Avanguardia ordinovista si sa che vantava un legame di parentela con Gianni Nardi, terrorista neofascista che negli anni ’70 insieme a Stefano Delle Chiaie, era uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. Intendiamoci questo Manni, fino a 10 anni fa un sottufficiale dell’Arma, congedato per infermità, non è una personcina a modo. E’ un incitatore d’odio, un potenziale violento, uno che trafficava in armi e cose losche. Da qui a vedervi il regista di un colpo di spalla alla democrazia però ce ne passa. Tanto più che il ruolo di ideologo dell’organizzazione sarebbe stato rivestito da Rutilio Sermonti, un uomo di 93 anni, che vive in povertà, un reduce ormai quasi completamente sordo. Sermonti è indagato per aver scritto uno “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita”, l’accusa che gli viene rivolta è di avere immaginato «una nuova costituzione repubblicana basata su un ordine costituzionale di ispirazione marcatamente fascista». I congiurati di Vogliamo i colonnelli si vedono in una riunione a porte e finestre chiuse sul litorale di Santa Severa in una villetta di proprietà della contessa Lamatrice alla presenza del colonnello greco Andrea Automaticos finanziatore dell’impresa. ”Una riunione che passerà alla storia” dice Beppe Tritoni che fa mettere tutto a verbale compresa la discussione sul nome in codice da dare all’impresa. «Or-po: ordine e potere» è la proposta che si leva dalla riunione. «Sarebbe più esatto Famiglia e Valore» dice un altro. Ma poi gli si fa notare che le iniziali sono ”Fa-va” e non è il caso. Alla fine viene approvata la formula ”Volpe ne- ra” su proposta di Tritoni. Provvedimenti che dovrà prendere il nuovo regime: ripristino della pena di morte, riapertura dei casini, disciplina tra gli studenti con lo slogan: ”parlate solo quando siete interrogati”, rieducazione per gli omosessuali. All’esigenza manifestata di un soggetto in grado di stendere un piano operativo si mette a verbale che «necessita uomo con ampiezza di vedute, scaltrezza, capacità di sintesi tattica- strategica». Un uomo che sappia con le parole giuste lanciare l’appello alla maggioranza silenziosa ”ma non sorda al richiamo della patria”. «Ho un’idea semplicemente geniale – dice il colon- nello Aguzzo – perché non il maresciallo Eliseo Talloni». «Ma è vivo?» Dice il notista del verbale, «Mi par bene sia nato il 25- 4-1887». Risposta di Aguzzo: «Ho avuto l’onore di vederlo a Montecatini nell’ottobre scorso, bevve quattro bicchieri senza battere ciglio, una roccia, lucido, vigile a mio avviso l’uomo giusto». Ecco.

Storia dei sei fratelli Sermonti e dei giudici astuti, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Quella dei fratelli Sermonti è una storia davvero intrigante. Sono sei fratelli, quattro maschi e due femmine. Nati tra l’inizio e la fine degli anni venti. Di alcuni di loro sappiamo poco, ma pare che sia tutta gente ingegnosa e non molto conformista. Sappiamo qualcosa di più dei tre più famosi: uno scienziato, che si chiama Giuseppe ed è uno dei massimi genetisti italiani, ma non è darwinista (neanche creazionista, per fortuna…) e perciò ogni tanto viene contestato nelle università; Giuseppe ha 89 anni. Poi c’è un letterato, che si chiama Vittorio, famoso per le sue letture di Dante, scrittore, giornalista, pensatore, romanziere insegnante e un po’ poeta. Ha 85 anni. E’ stato il professore di italiano, al Tasso di Roma, di ragazzini come Paolo Mieli e Valerio Veltroni. E’ quello che conosco meglio, perché negli anni 80 ho lavorato con lui all’Unità, lo portò Reichlin e lo mandava anche a scrivere pezzi di cronaca nera (grandiosi i suoi reportages da Vermicino, dove stava morendo nel 1981, il piccolo Alfredino Rampi). Simpaticissimo, Vittorio, carismatico, coltissimo, ha sposato una figlia di Suni Agnelli, Samaritana, e ne ha avuto un figlio, Pietro, che è un attore piuttosto famoso. Poi c’è questo Rutilio, che ha 94 anni, è fascista da quando era ragazzino, ha fatto il volontario a Salò, ha partecipato alla fondazione del Msi, ma poi il Msi gli sembrava moderato e allora ha partecipato alla fondazione di Ordine Nuovo. Infine ci sono due signore e unaltro fratello maschio dei quali non so dirvi nulla. Rutilio, il fratello maggiore, è considerato – mentre viaggia verso i cento anni – un terrorista pericoloso. Da chi? Dai magistrati, poveretti. Rischia una condanna a 20 anni di galera. Se dovrà scontarli tutti uscirà a 114 anni, ma se otterrà gli sconti per buona condotta, forse, a 110 sarà fuori. A me pare che questi fratelli Sermonti – comunisti, fascisti, scienziati – siano tutti un po’ scombiccherati. Vittorio – che è un tifoso fradicio della Juventus, era amico di Boniperti, sa a memoria anche la formazione che vinse lo scudetto nel 1960, con Sivori Nicolè e Charles, e a casa sua aveva un campetto di calcetto invece del giardino – racconta che quando erano piccoli – lui aveva sei anni – il padre li riuniva e gli leggeva Dante, con voce roboante. Pure il padre doveva essere un bel tipino. La lettura di Dante quando si è troppo acerbi può avere vari effetti. A qualcuno provoca amore per Dante (e per Vittorio è stato così) qualcun altro lo spinge alla ribellione estrema – perché per un ragazzino Dante può essere molto molto noioso, specie il canto su Pia dei Tolomei – fino alla scelta fascista e ordinovista. Di qui a pensare che un signore di 94 anni sia pericoloso, ce ne passa. E se si legge la sfilza di capi di imputazione decretati dai magistrati, si scopre che sono praticamente tutti reati di opinione, o ”tentativi”. Certo, le opinioni di questi 14 fascisti sono orripilanti. Ma siamo sicuri che in un paese libero, nel 2014, debba esistere ancora il reato di opinione, come esisteva ai tempi del fascismo? No, perché alla fine uno non capisce più chi siano i fascisti…

L’Aquila nera: fascisti su Marte, ma via Facebook, scrive  Nanni Delbecchi su “Il fatto Quotidiano”. Nemmeno i fascisti sono più quelli di una volta. Il che, per un Paese fondamentalmente fascista da sempre, è una bella mazzata, da gettare nel dubbio anche Pasolini. Bei tempi – per le camicie nere – quelli in cui Ordine Nuovo trescava con i Servizi, seminava stragi, progettava golpe e, insomma, le trame erano una cosa seria. “Trama nera, trama nera, sol con te si fa carriera”, cantava fiero il gruppo Gli amici del vento. Caro, vecchio Ordine Nuovo. Ma che dire di questi neoavanguardisti ordinovisti sgamati dall’operazione “Aquila Nera”, capitanati dall’ex carabiniere Stefano Manni, infiltrata di peso nelle istituzioni una consigliera comunale di Poggiofiorito (e ho detto Poggiofiorito), agenti provocatori sparpagliati per tutte le province d’Italia, gemellati con Militia Christi e base operativa a Montesilvano, prova evidente che anche il terrorismo ha scoperto la delocalizzazione? Costoro si richiamavano alla famigerata organizzazione neofascista in continuità con l’eversione degli Anni Settanta, e per questo sono stati incarcerati, ci mancherebbe. Ma certo che, se si vanno a vedere i loro progetti e soprattutto le loro radici, ci si trova di fronte a un declino clamoroso. Farneticazioni omicide di Mein Kampf a parte (non a caso amate anche da Manni e compagnia), il pensiero di destra mescola da sempre orrore e profondità. Un calderone ribollente a base di teoria della razza, culto delle élite, superomismo, cicli cosmici, fiamme, rune e asce bipenni in cui tra tanta paccottiglia ci si può imbattere anche in Nietzsche, Heidegger, Guenon, Céline, Tolkien e, ci vogliamo rovinare, anche in Evola e Malaparte. Ma quelli di “Aquila nera” più che della terra degli Hobbit sembrano frequentatori di Il mio hobby; nel loro caso il ciclo non è cosmico, ma decisamente comico. Sognavano di uccidere Giorgio Napolitano o in subordine almeno Pier Ferdinando Casini. Ma nella pratica quotidiana avevano anche obiettivi più alla mano, come coprire di insulti gli extracomunitari sui social network, un occhio di riguardo per l’ex ministro Cécile Kyenge con virile sprezzo della macumba. E poi, l’hobby prediletto: progettare rapine e attentati proprio come se fossero modellini di aeroplani. Dal sogno nel cassetto, “riprendere la strada dell’Italicus su ampia scala”, a quello più realistico ma anche creativo l’attentato a Equitalia “con i dipendenti dentro” (tutta un’altra cosa, diciamolo, se i dipendenti sono in pausa pranzo). Se tanto mi dà tanto, il cerchio dei riferimenti culturali si restringe parecchio. Addio Nietzsche, Guenon e Céline. Il Pantheon di Manni parte da Calderoli e Borghezio, passa per Ben Hur (“Siamo figli di Roma imperiale. Siamo eredi di un glorioso passato”), il reality I re della griglia (“Voglio sentire odore di carne bruciata”), il capo della Spectre che sogna di distruggere il mondo schiacciando un pulsante, il Corrado Guzzanti di Fascisti su Marte, alla conquista del Pianeta rosso al grido di battaglia di “A mali estremi, estrema destra”, e si conclude trionfalmente con gli ufficiali nostalgici reclutati dall’onorevole Giuseppe Tritoni (alias Ugo Tognazzi) in Vogliamo i colonnelli di Monicelli. Certo che per essere delle aquile nere volavano piuttosto basso. Un momento però; c’era anche l’ideologo di riferimento, il padre nobile del “nuovo ordine nuovo”, seppure non nuovissimo di suo, visti i 94 anni compiuti. L’ex repubblichino Rutilio Sermonti, che si era evoluto dai tempi di Salò al punto da confezionare una Carta costituzionale nei cui articoli venivano messi nero su bianco il divieto ai diritti politici e l’obbligo per le donne di restarsene dentro casa, ai fornelli. Insomma, questi camerati con uso cucina che discutevano i loro progetti eversivi su Facebook (però sui canali riservati agli amici, le precauzioni non sono mai troppe) e sognavano la dittatura per via costituzionale, sono oltre i Fascisti immaginari descritti da Luciano Lanna e Filippo Rossi e anche oltre i Fascisti su Marte. Questi sono fascisti economici, taroccati da qualche fabbrichetta clandestina. Nella Storia, dice Marx, le tragedie ritornano in forma di farsa, ma questi avanguardisti sono peggio nella farsa che nella tragedia. Aridatece i colonnelli.

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

Il 41 bis a Carminati è ferocia e demagogia, scrive Piero Sansonetti su  “Il Garantista”. Il ministro della Giustizia, l’altro giorno, ha detto sì alla richiesta della Procura di Roma e ha affibbiato il 41 bis, cioè il carcere duro, a Massimo Carminati, il presunto capo di “Mafia Capitale”, ex componente prima dei Nar e poi della banda della Magliana. Il 41 bis è un articolo del regolamento carcerario del tutto incostituzionale, perché prevede un trattamento inumano e degradante di alcuni detenuti. È illegale. E tuttavia è piuttosto frequente. Viene deciso dal ministro su richiesta dei Pm. È riservato a chi è sospettato di una dozzina di delitti – elencati nel regolamento – tra i quali, ovviamente, non compare la corruzione politica o la concussione, né il percepimento o l’elargizione di tangenti. C’è invece l’associazione mafiosa. Per la precisione il 41 bis nasce con lo scopo di combattere la mafia. E nasce come misura temporanea e d’emergenza. Dura da 22 anni. Recentemente, sul nostro giornale, un magistrato come Ingroia – che certo non appartiene, diciamo così, alla piccola schiera dei magistrati liberali – ha spiegato che il 41 bis serve a impedire che alcuni boss possano comunicare con l’organizzazione mafiosa e dare ordini e continuare a dirigere l’attività di Cosa Nostra o della ’ndrangheta o della camorra. E sulla base di questo principio Ingroia in persona aveva chiesto che fosse revocato il 41 bis a Provenzano, visto che non è più in grado di dare ordini a nessuno. Per dare il carcere duro a Carminati si sono inventati il reato di associazione mafiosa. È chiarissimo che il gruppetto che organizzava le tangenti a Roma – se sarà riconosciuto colpevole – svolgeva una normalissima azione illegale, senza uccidere, senza compiere attentati, e senza nessunissimo collegamento né con Cosa Nostra né con la ’ndrangheta. Se il 41 bis serve a interrompere il collegamento tra arrestato e mafia organizzata, che c’entra Carminati? Niente. Il 41 bis serve solo a coprire, con un po’ di spettacolo, un po’ di fumo, il flop di una inchiesta che finora non ha prodotto niente di niente, salvo qualche arresto, con pochi indizi e senza prove, e lo spargimento di sospetti un po’ su tutti.

Il manicheismo assoluto dell’inchiesta Mafia Capitale, scrive Francesco Petrelli, segretario dell’Unione Camere Penali Italiane su, “Il Garantista”. I fatti accadono. Non accadono come risultato di un complotto. Ma non accadono neppure a caso. Proviamo a leggerli nelle loro cadenze più evidenti. Con l’indagine “Mafia Capitale”, esplosa a Roma i primi di dicembre 2014 con alcuni arresti per fatti di corruzione e associazione mafiosa che legano criminalità comune e potere politico capitolino, lo sviluppo investigativo impresso dal Capo della Procura romana assume caratteristiche originali. Ciò che emerge con sufficiente chiarezza è la deliberata decifrazione in chiave di mafiosità di tutti i fenomeni criminali, secondo una prassi che porta con sé tutto l’armamentario affinato nell’ambito della pregressa esperienza investigativa mafiosa, siciliana e calabrese, e che trasforma l’art. 416 bis in un indiscriminato strumento di lettura di tutti i fatti delittuosi più o meno ordinari. Così come scriveva Martin Heidegger: “date un martello a un bambino e trasformerà tutto il mondo in un chiodo”: nonostante qualche analogia con Tangentopoli (che si coglie nei proclami reiterati della Procura, nell’enfatizzazione mediatica dell’indagine e dei suoi sviluppi, e in quella telecamera fissa fuori dalla porta carraia di via Varisco …), è questo il tratto distintivo. Là una quasi inaspettata onda di consenso popolare per l’indagine, sulla quale incredule saltano sopra le Procure, cavalcandola sino alle sue estreme conseguenze, qui una scientifica, preventiva e meticolosa articolazione di sofisticati strumenti mediatici messi in mostra senza alcun pudore. L’ingenuo manicheismo che sortiva fuori dall’azione della magistratura milanese come un fenomeno spontaneo e divideva la società civile buona dalla politica corrotta dei partiti, qui diviene il feroce strumento ideologico che giustifica l’affondo sui crimini della capitale, trasformata in una Gotham city in cui domina l’orbo veggente che teorizza di mondi mediani e nella quale loschi passati carcerari incrociano il disinvolto presente dei manager metropolitani. La Procura antimafiosa è il Bene assoluto che ridisegna la storia e riscrive i codici e attraverso la sua azione giudiziaria modella la Verità e la sua virtuosa rappresentazione. Male è la politica che non si piega più ai veti della magistratura e impone norme contrarie ai suoi voleri. Male è il giornalismo che non si piega ai desiderata delle Procure e che offre spazi informativi a chi cerca il senso delle cose al di fuori dell’unico pensiero che tutti i media pontificando avallano (“Mi conferma – chiede al ministro un po’ stizzita la Annunziata, costituzionalmente mal consigliata – che queste nuove norme anticorruzione non si applicheranno ai fatti di Roma?!). Male sono i giudici che assolvono e che prescrivono i reati, da Roma a L’Aquila e fino agli ermellini della Corte Suprema. Male è l’avvocatura. Obliquo ed obsoleto strumento favoreggiatore. Intralcio pericoloso all’accertamento della verità intesa, non come risultato provvisorio e falsificabile, ma come esito del parto gemellare che ha messo al mondo la Verità e l’Indagine al tempo stesso. La storia, come è noto, non si ripete mai uguale a se stessa, e qui le differenze sotto un profilo strutturale appaiono assai qualificanti: Tangentopoli nasceva spontanea e, a guardarla oggi, un po’ naif. Piegava la procedura, ma lo faceva secondo cadenze improvvisate, via via messe a fuoco sulla spinta cinica della necessità. “Mafia Capitale” è invece il manifesto di un Manicheismo assoluto, una macchina ideologicamente spietata, postmoderna, sofisticata, tecnologica, multimediale e perniciosa perché produttiva di irreparabili squilibri. Vediamone alcuni: visto che il legislatore imbelle tentenna ad introdurre norme che consentano di applicare a fenomeni criminali corruttivi le nome antimafia, la Procura romana trasforma con lucida operazione genetica i fenomeni corruttivi in reati di mafia. I giudici lavorano con i fatti e li plasmano sulle norme. Così se le norme non si piegano ai fatti, saranno i fatti a piegarsi alle norme. Le Procure fanno a meno del Legislatore. Le Procure fanno a meno anche della compressione delle garanzie. Scrive il dott. Gratteri su MicroMega, uscendo a ottobre dall’ “ombra del suo ministero”: “con la nostra riforma non arretreremo le garanzie di un millimetro”. Non c’è bisogno infatti. Le garanzie non si abrogano con le leggi ma si elidono nei fatti: la mafiosità postulata impone al processo ritmi e cadenze necessitate dalla gravità del fenomeno: che l’indagato in vincoli venga interrogato a sua garanzia il più presto possibile e subito dopo l’esecuzione della misura e senza che possa leggere granché delle oltre mille pagine dell’ordinanza appena notificatagli. Se poi davvero vi è tanta urgenza di rimescolare le carte di fronte a tanto evidente e corposa fonte di Verità, che l’avvocato insegua l’indagato nelle carceri poste ai confini del regno, dove è stato collocato per ovvi motivi di sicurezza antimafiosa. La politica debole si mette nelle mani della magistratura. Nonostante le denunce del Procuratore di Palermo, la risalente prassi, cresciuta al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, di iniettare magistrati delle procure antimafia direttamente negli assessorati regionali e comunali disastrati, si ripete e si moltiplica, dalla Regione siciliana al Comune di Roma: solo il magistrato antimafia è garanzia di legalità. Anche a Gotham city la politica non si fida più della politica e la Magistratura, che una volta si candidava in libere elezioni per occupare spazi tramite la libera competizione elettorale (come sembrano lontani e ingenui i tempi dei Di Pietro, degli Ingroia e dei De Magistris), ora quegli spazi se li apre di fatto, sull’onda delle sue stesse indagini, per saltum. Con scientifica sapienza postmoderna l’indagine “Mafia Capitale” pone così i nuovi confini del Bene e del Male, impone alle amministrazioni locali i garanti della legalità, impone alla politica le riforme del processo e al tempo stesso dimostra di non aver bisogno di nulla e di nessuno per cambiare il mondo, e di poter fare la Storia da sola, ancora una volta, con un nuovo passo, annunziando la trasformazione con un formidabile trailer nel quale il Male si arrende davanti a tutti alzando le mani…

Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare.

Roma, l’ex pm Sabella in giunta: “Difficile capire chi sono gli onesti”. Dopo il via libera del Csm, il sindaco Marino presenta il nuovo assessore alla legalità. L’attacco dell’Unione camere penali: “Prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia”, scrive Giuseppe Pipitone su “L’OraQuotidiano”. “Quando vivevo a Palermo mi occupavo di ricerca di latitanti, la battuta che mi viene è facile: in quel caso sapevo chi erano i mafiosi ma non sapevo dove stavano, qui probabilmente si sanno dove stanno le persone ma non si sa chi essi siano in realtà”. Con una battuta fulminante, Alfonso Sabella ha esordito come nuovo assessore alla Trasparenza e Legalità del comune di Roma. Nella giornata di ieri il Csm ha infatto dato il via libera all’aspettativa chiesta dal magistrato con quattordici voti a favore, tre  astenuti e otto contrari ( i vertici della Cassazione Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani, più molti membri laici). Stamattina quindi l’ex pm è entrato nella nuova giunta varata dal sindaco Ignazio Marino. “Per me è un grande acquisto per Roma. Un acquisto necessario se si pensa che nei cinque anni precedenti la mafia aveva raggiunto posizioni di vertice. Con la nostra amministrazione non ci è riuscita però aveva tentato in diversi modi. Io credo che la presenza di una personalità come Alfonso Sabella scoraggerà anche i tentativi” ha detto il primo cittadino capitolino, che ha presentato la nuova giunta stamattina in Campidoglio . La nomina dell’ex pm della procura di Palermo arriva dopo il clamore suscitato dall’inchiesta Terra di Mezzo, che ha svelato l’esistenza della Mafia Capitale, l’organizzazione criminale con al vertice l’ex estremista nero Massimo Carminati. L’arrivo nella giunta capitolina di Sabella è stato bacchettato dall’Unione delle camere penali che ha bollato la nomina come “pericolosa per la democrazia“. I penalisti denunciano una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Per l’Unione camere penale “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. Nato a Bivona, piccolo comune in provincia di Agrigento nel 1962, fratello di Marzia, anche lei pm a Palermo, Sabella entra in magistratura nel 1989 e non si iscrive mai ad alcuna corrente delle toghe. All’inizio fa il pm a Termini Imerese, poi nel 1993 viene trasferito a Palermo: sono i mesi successivi alle stragi di Capaci e via d’Amelio e a dirigere la procura del capoluogo è appena arrivato Gian Carlo Caselli. Sabella diventa subito uno dei fedelissimi del magistrato piemontese e inizia a condurre le indagini su decine dei pezzi da novanta di Cosa Nostra, che reggevano l’organizzazione criminale dopo l’arresto di Totò Riina. In breve tempo finiscono in manette a decine:da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca, passando da Pietro Aglieri, Cosimo Lo Nigro e Carlo Greco: l’ala militare dei corleonesi è decimata in pochi mesi. Dopo l’esperienza come dirigente dell’ufficio ispettivo del Dap, Sabella viene trasferito prima a Firenze e poi diventa giudicante a Roma.

Pecoraro e l'incontro con Buzzi: "Mi sento pugnalato alle spalle. A Letta dissi: chi mi hai spedito?". Intervista al prefetto: "L'ho ricevuto in segno di rispetto per l'ex sottosegretario. Gli spiegai che non potevano arrivare altri profughi a Castelnuovo", scrive Mauro Favale su “La Repubblica”. "Quando Salvatore Buzzi andò via, dopo l'incontro con me, telefonai a Gianni Letta e gli dissi: "Gianni, ma chi mi hai mandato?". E lui? "E lui mi risposte: "Non lo farò più". Giuseppe Pecoraro ha festeggiato poche settimane fa il sesto anno da prefetto di Roma. Un anniversario che ha anticipato di poco la bufera su mafia capitale che lo vede primo attore in campo: da un lato sono i suoi uffici che stanno analizzando gli atti del Campidoglio e che dovranno relazionare al Viminale sulle infiltrazioni criminali nel Comune di Roma in vista di un eventuale scioglimento. Dall'altro, proprio in questi giorni, Pecoraro è costretto a difendersi per aver incontrato il 18 marzo scorso, nei suoi uffici, proprio Buzzi, il ras delle cooperative, braccio destro di Massimo Carminati, finito in carcere accusato di associazione mafiosa.

Quello stesso giorno di marzo, prefetto, partì dai suoi uffici una lettera, indirizzata al sindaco di Castelnuovo di Porto e al questore, nella quale si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo. E ora è finito sotto accusa per questa coincidenza temporale.

"Trattare così questa vicenda la giudico una carognata, una pugnalata alle spalle".

L'incontro e la lettera, però, ci sono stati?

"Sì, certo. Ma quella lettera non è l'unica di quel giorno. Sono state inviate a tutti i sindaci e a tutti gli enti con posti disponibili con posti disponibili o del consiglio territoriale per l'immigrazione. E tra queste c'è anche la 29 giugno di Buzzi".

Dalle carte della procura emerge che quel pomeriggio lei ha incontrato il capo della 29 giugno dopo l'interessamento dell'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta.

"A marzo Buzzi non sapevo neanche chi fosse. Io l'ho ricevuto sulla base del rispetto che ho per la persona che me l'ha mandato. E devo ammettere che avevo pure rimosso quell'incontro. Mi sono ricordato di lui e di averlo ricevuto solo quando ho letto l'ordinanza".

Ma è prassi che un prefetto riceva il rappresentante di una cooperativa e non anche gli altri?

"Vedere i presidenti delle associazioni è una cosa normale, soprattutto se si tratta di presidenti di cooperative che collaborano con la prefettura. Non sa quante volte ho incontrato monsignor Feroci della Caritas, così come molti altri".

E cosa disse a Buzzi?

"Gli dissi che per Castelnuovo non c'erano possibilità e non potevo cambiare idea. Il mio è stato un no motivato perché lì esisteva già il Cara, il centro per richiedenti asilo, e quel Comune non era in grado di ricevere nuovi immigrati. Tra l'altro, anche il sindaco di Castelnuovo si era sempre lamentato dell'alto numero delle persone nel centro".

E allora come si spiega che Buzzi esce dal suo incontro e, al telefono, racconta che era andato tutto bene? Millantava?

"Questo non lo posso sapere. Forse avrà pensato che avrebbe potuto provare a fare pressioni sul sindaco di Castelnuovo o credeva di poter nuovamente passare per Letta".

Cosa che fece?

"No, Letta l'ho sentito io, subito dopo quell'incontro".

E cosa gli disse?

""Ma chi mi hai mandato?"".

E lui?

""Non lo farò più", mi rispose. E, in effetti, né lui né nessun altro mi ha mai più parlato di Buzzi".

Disse così a Letta perché Buzzi non le fece una buona impressione?

"Sì, non mi aveva convinto particolarmente".

La commissione antimafia potrebbe doverla risentire.

"Ho parlato con la presidente Rosy Bindi, le ho dato la mia massima disponibilità. In ogni caso, loro hanno già la documentazione che dimostra come a quella lettera non fu poi dato alcun seguito".

La storia, dunque, è chiusa?

"Per me sì. Ovviamente gli articoli di giornale usciti in questi giorni verranno valutati dai miei avvocati".

Chi è Giuseppe Pecoraro, il prefetto in guerra che bisticcia con Marino e fa il commissario di se stesso. Lo schizzo di fango da “mafia capitale”, il lungo e difficile rapporto con il Comune di Roma, gli scazzi sulla monnezza e l’assenza di “avveduta precauzione” sciasciana, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Prefetto lo è, Giuseppe Pecoraro, burocrate di lunga carriera ma di non evidente propensione a vestire i panni del classico prefetto: l’uomo uguale fra tanti uomini uguali, rassicurante funzionario al servizio dello stato, ventriloquo della direttiva superiore che, quando è eroe (nei film), lo è alla maniera del “prefetto di ferro” di Pasquale Squitieri con Giuliano Gemma: un uomo che per non adeguarsi ai poteri grigi viene infine promosso (e di fatto rimosso). Il prefetto Pecoraro non soltanto è, di questi tempi, necessariamente diverso dai suoi simili che lavorano nell’ombra discreta delle stanze prefettizie, ché lo si trova un giorno sì e l’altro pure sui giornali per una divergenza di opinioni con il sindaco di Roma Ignazio Marino (sulle nozze gay come sulla cosiddetta mafia capitale) o per quella visita che Salvatore Buzzi, presunto co-boss al fianco di Massimo Carminati, tributò proprio al prefetto, a proposito di un centro accoglienza in quel di Castelnuovo di Porto. C’è poi che il prefetto Pecoraro, prima di tutto per fisiognomica, poco si adatta all’immagine di prefetto alla Elio Petri (quello che in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” si presenta col fazzoletto bianco nel taschino identico a quello degli altri innumerevoli prefetti in fila con abiti indistinguibili). Si dà il caso, infatti, che Pecoraro abbia sembianze e movenze da sceriffo più che da protagonista meticoloso di riti da vecchia provincia – indimenticabile resta il prefetto che non vuole farsi trasferire nonostante la sequela di scocciature in “L’ultima provincia” di Luisa Adorno, libro Sellerio adorato da Leonardo Sciascia, ritratto di prefetto e prefettessa nell’aria immobile di una Toscana-deserto dei tartari, dove il Natale si trasforma in incubo di notabili in visita e teorie di dame relegate nella stanza “a parte”, quella delle donne, a parlare del più e del meno incrociando le piume dei cappelli. “Avveduta precauzione” dei prefetti, la chiamava Sciascia in “Invenzione di una prefettura”, una piccola storia della prefettura di Ragusa, e chissà se Pecoraro, col senno del poi, vorrebbe averla avuta, quella “avveduta precauzione”. Fatto sta che oggi il prefetto dice che sì, Buzzi l’ha ricevuto per rispetto verso l’ex sottosegretario Gianni Letta che gliel’aveva inviato, ma che dopo averlo ricevuto ha prontamente telefonato a Letta per lamentarsene (“chi mi hai spedito?”) e Letta poi se n’è quasi scusato (“non lo farò più”). E dice il prefetto che, dopo la visita di Buzzi, aveva sì inviato una lettera al sindaco di Castelnuovo di Porto in cui si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo, ma che “trattare così questa vicenda”, com’è stata trattata in questi giorni sui giornali, con tanto di titoli su di lui, il prefetto, “è una carognata e una pugnalata alle spalle”, perché quella lettera era stata inviata in automatico e ce n’erano altre dello stesso tenore inviate a Guidonia, a Ciampino, a Rocca Priora, ad Anguillara “e, in copia, alla Questura”. Lungi dal risparmiare dalle luci della ribalta il prefetto, figura tradizionalmente destinata alle pur gloriose penombre della burocrazia, ieri il Corriere della Sera, a firma Fiorenza Sarzanini, raccontava della “gara europea bandita dalla prefettura di Roma” nel 2013 e vinta da una delle coop di Buzzi (la Eriches 29) per gestire il centro accoglienza della discordia (quello di Castelnuovo di Porto) e dell’“esposto del prefetto”, così si leggeva sul Corriere, “contro il giudice Tar ‘nemico’ della coop” di Buzzi. Tuttavia non era cosa inconsueta, per Pecoraro, il ritrovarsi alla ribalta. E’ capitato infatti, pochi giorni fa, che Pecoraro comparisse sul Messaggero, intervistato come parte in causa nella infinita querelle con il sindaco Marino (“se non sapeva il prefetto, che ricevette il capo delle coop, come potevo sapere io”?, aveva detto Marino, e Pecoraro avevo risposto senza salamelecchi prefettizi: “Buzzi era estraneo ai miei uffici; nell’amministrazione Marino, invece, ci sono tre indagati”). E non basta: qualche giorno dopo il prefetto, al giornale RadioRai, aveva parlato della commissione d’accesso agli atti del Comune. Scherzo della sorte vuole, infatti, che Pecoraro sia al tempo stesso l’uomo dell’incontro in prefettura con Buzzi ma anche e soprattutto l’uomo che controlla chi con Buzzi avesse a che fare: dalla prefettura provengono i commissari che devono leggere gli atti del Campidoglio in vista della relazione sul tema “infiltrazioni criminali” al Comune di Roma (in teoria anche a rischio scioglimento). E alla radio il prefetto se ne usciva con la profezia che molto faceva indispettire il sindaco: “… Può venire fuori che ci sia la necessità di uno scioglimento…”, diceva Pecoraro; “immagino che il prefetto sappia molte cose e non le possa dire proprio perché fa il prefetto… ”, diceva Marino. E Matteo Orfini, commissario per il Pd romano, su Twitter scriveva che il prefetto gli pareva intento, ultimamente, a “fare più dichiarazioni e interviste di Matteo Salvini”. “Il ministro Alfano venga in Aula a riferire e valuti l’opportunità di avvicendare il prefetto Pecoraro dopo otto anni di permanenza nella capitale”, dicono intanto, da Sel, i deputati Arturo Scotto e Filiberto Zaratti, mentre il consigliere radicale Riccardo Magi fa notare che “alcuni dei fatti più gravi su cui si indaga”, per esempio per quanto riguarda affidamenti e campi rom, “sono avvenuti in regime commissariale per l’emergenza rom. Non è che il commissariamento mette al riparo dall’illegalità”. Nemmeno nei momenti di massima insofferenza per le processioni locali in cui si dovevano fare passettini accanto a preti e autorità “all’andatura del santo”, e lasciare che la banda “rintronasse il cervello”, il prefetto defilato de “L’ultima provincia” avrebbe potuto immaginare di assurgere al livello di visibilità cui è assurto Pecoraro (e non da oggi). Il prefetto, infatti, è già stato, in tempi di governo Berlusconi (ministro dell’Interno Roberto Maroni), “commissario delegato per il superamento dell’emergenza rom” per la regione Lazio e la città di Roma, e commissario all’emergenza rifiuti in tempi di Comune guidato da Gianni Alemanno e di Regione guidata da Renata Polverini. “Prefetto in guerra”, lo chiama Massimiliano Iervolino nel libro “Roma, la guerra dei rifiuti”, in cui si narra la vicenda della tentata “sostituzione” della discarica di Malagrotta e della ricerca di un sito alternativo (molti vip contestarono il prefetto per via dell’ipotesi Corcolle, nei pressi di Villa Adriana. Si mobilitarono Giorgio Albertazzi, Franca Valeri e Urbano Barberini, quest’ultimo al grido di “è come mettere i rifiuti a Luxor o alle Piramidi”). Alla fine il prefetto si dimise da commissario per l’emergenza rifiuti, senza rinunciare a essere prefetto a modo suo. (Intanto dovrà pronunciarsi, dopo aver ricevuto le “memorie” delle aziende coinvolte, sui primi due commissariamenti di appalti decisi da Raffaele Cantone, presidente dell’Authority anti-corruzione).

Manca un progetto. E Totti è l’alibi della grande schifezza, scrive Sandro Medici su “Il Manifesto”. Marino e la nuova giunta di Roma. Non bastano gli assessori-commissari. E il pm Sabella arriva. Il sindaco Ignazio Marino prova a ripartire. Rinnova la sua giunta e tratteggia quel che d’ora in poi dovrebbe connotare la sua amministrazione: impegno a perdifiato e legalità assoluta. Un nuovo inizio. Con cui si tenterà di riprendere quel faticoso cammino che finora non è apparso particolarmente smagliante, e con cui si proverà a bonificare quel grumo politicomafioso che ha insidiato e a tratti aggredito il Campidoglio. I tre nuovi assessori, più gli altri tre subentrati nei mesi scorsi, hanno ridisegnato sensibilmente l’assetto iniziale: e non sfugge che siano l’esito dei tanti tormenti che hanno attraversato la politica comunale. Al di là delle singole soggettività, tutto questo rimescolamento è la rappresentazione di quanto sia ancora precaria e incerta la prospettiva su cui la città dovrebbe ritrovare fiducia e convinzione. Tra annunci e rassicurazioni, sorrisi e pochi applausi, Roma continua a non avere una strategia di sviluppo, un progetto di rilancio, una visione generale sul suo futuro. È doveroso insistere sulla necessità di superare il trauma politico-criminale che ha investito la politica amministrativa. Anzi, è obbligatorio: c’è da recuperare una credibilità infranta e smarrita. Ma è davvero inevitabile affidarsi a una pletora di commissari, tutori, garanti e supervisori? Forse la politica (almeno a Roma) non è più nelle condizioni di reagire e di responsabilizzarsi. Ma allora, viene da chiedersi, cos’è diventata la politica (almeno a Roma)? L’impressione è che, già esile in partenza, l’amministrazione Marino si sia ulteriormente indebolita: sfiorata dalle pratiche corruttive ereditate dal passato, ma anche per limiti propri. Ed è difficile che l’ingresso di un magistrato in giunta possa migliorare l’impronta politica del Campidoglio. Anzi. Non foss’altro perché il neo-assessore alla legalità, oltre a vantare riconosciuti meriti antimafia, viene ricordato anche per la sua “negligenza” in occasione della terrificante repressione nel 2001, durante il G8 a Genova. L’Associazione Giuristi democratici ricorda che Alfonso Sabella era allora il coordinatore delle attività penitenziarie, comprese quelle nel carcere di Bolzaneto, dove ai molti fermati fu riservato un trattamento ai limiti della tortura. Tanto che in un’ordinanza del Tribunale di Genova viene definito «negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo», poiché «non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». Storie vecchie, certo. Ma comunque dolorose. Soprattutto perché rimandano alla contraddittorietà del profilo politico con cui il sindaco Marino connota la sua amministrazione, non senza imbarazzi nei ranghi della sua maggioranza, che tuttavia non provocano particolari sussulti. Una maggioranza che appare sostanzialmente obbligata a sostenere il suo sindaco: per le note vicende giudiziarie, ma anche perché paventa il pericolo che diversamente possa andar peggio. E così, senza dissensi né contrasti, si approvano politiche economiche antipopolari, si persiste nei processi di privatizzazione, si spengono le esperienze culturali indipendenti e diventa anche possibile approvare delibere inguardabili, come quella che l’altro ieri ha sancito l’utilità pubblica dello stadio della Roma. Per quanto si possa “amare” la squadra giallorossa, autorizzare l’edificazione di un milione di metricubi tra funzioni direzionali, commerciali e d’intrattenimento, sol perché neces­ari a realiz­are un impianto sportivo privato, non è precisamente catalogabile come vantaggio sociale o utilità pubblica. Eppure così è andata. Totti è un alibi perfetto per promuovere questa grande schifezza.

L’ombra di Bolzaneto sul nuovo assessore di Roma, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Gli spettri delle torture subite dai manifestanti contro il G8 a Genova si affacciano sul Campidoglio. E’ arrivato ieri sera l’ok del Csm per l’aspettativa che Alfonso Sabella, giudice presso il tribunale romano, attendeva per poter rispondere positivamente all’offerta di Ignazio Marino, il sindaco di Roma che lo ha voluto come assessore alla Legalità e alla Trasparenza dopo i fatti di Mafia Capitale. La nomina di Sabella viene oggi pesantemente criticata dall’associazione Giuristi Democratici di Roma che rievoca – tramite un comunicato – il ruolo avuto da Sabella durante il G8 di Genova. Il magistrato che a questo punto entrerà nel governo della Capitale della città – si legge nel comunicato dove i giuristi democratici esprimono perplessità riguardo l’idea di nominare Sabella assessore alla legalità- durante i fatti di Bolzaneto era il coordinatore “dell’organizzazione e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria”, e dunque era anche deputato a sovrintendere su ciò che accadeva alla caserma Bixio. Per i fatti del G8 Sabella finì a processo e la sua posizione fu archiviata. Tuttavia, scriveva il Tribunale nell’archiviarlo, «il comportamento del dott. Sabella non fu adeguato alle necessità del momento. Egli fu infatti negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo, imprudente nell’organizzare il servizio (…) imperito nel porre rimedio alle difficoltà manifestatesi»: così i giudici del Tribunale di Genova nella sua ordinanza del 24 gennaio 2007; e ancora: «Alfonso Sabella non adempì con la dovuta scrupolosa diligenza al proprio dovere di controllo e che, pur trovandosi nella speciale posizione di “garante” (…), non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». La posizione di Sabella fu stralciata da quella degli altri imputati e per lui venne chiesto il non luogo a procedere. «A Bolzaneto vide che i detenuti erano tenuti in piedi con la faccia contro il muro, ma non fu testimone diretto delle violenze più gravi, né della loro sistematicità, quindi non avrebbe potuto impedirle», scrivevano i Pubblici Ministeri nel richiedere al Gip l’archiviazione per Sabella. Il giudice, dopo l’ordine di un supplemento di indagini a carico del magistrato, e nonostante l’avvocato di Sabella stesso avesse chiesto il processo, dispose l’archiviazione scrivendo nell’ordinanza le parole sopracitate. Ma la dichiarazione di Sabella che fece indignare all’epoca – e che oggi vengono ricordate dai Giuristi Democratici per sollecitare Ignazio Marino affinchè torni sui suoi passi – fu la sua opinione in merito all’operato degli agenti penitenziari durante le giornate terribili del G8 di Genova: secondo il magistrato Sabella il loro comportamento è stato «esemplare». I Giuristi Democratici di Roma infatti scrivono nel comunicato: «Sebbene l’operato del Dr. Sabella non sia stato ritenuto illecito, lo stesso non è stato ritenuto in grado di svolgere i ruoli organizzativi e di controllo sulla commissione di reati affidatigli, avendo per di più creduto alle giustificazioni di chi fu poi condannato per quei fatti gravissimi». E viene anche ricordata la frase di Sabella, pronunciata nel 2001: «Non ho alcuna intenzione di dimettermi. A Genova l’operato degli agenti penitenziari è stato esemplare»; secondo il magistrato, infatti, non sarebbero stati gli agenti penitenziari a picchiare i manifestanti durante il vertice genovese: «Qualcuno è stato. Ma i fermati sono arrivati alla caserma di Bolzaneto già ricoperti di ecchimosi», aggiungeva Sabella, allora, nell’intervista.

Mafia Capitale, penalisti contro assessore-pm Sabella: “Prassi pericolosa”, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al 'prestito' in Campidoglio. Ad avviso dell’Unione delle camere penali "la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa". Da magistrato ha fatto scattare le manette ai polsi di pezzi da novanta di Cosa Nostra: da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca eppure la nomina di Alfonso Sabella all’assessorato alla Legalità di Roma viene considerata pericolosa dai penalisti. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al ‘prestito’ in Campidoglio. Secondo l’Unione delle camere penali è una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Ad avviso dell’Unione delle camere penali, “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. L’ex sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo, guidato da Gian Carlo Caselli, sarà quindi il nuovo assessore alla Legalità della giunta di Ignazio Marino. Una figura di garanzia fortemente voluta dal primo cittadino dopo lo scandalo di Mafia Capitale. Sabella fu pm nel 1993, nel day after delle stragi mafiose che spazzano via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, senza mai iscriversi ad alcuna corrente della magistratura. Sabella è stato anche al vertice del Dap, dove aveva imposto una regolamentazione feroce delle spese. Il suo incarico dura appena due anni: nel 2001 a dirigere l’amministrazione penitenziaria arriva Giovanni Tinebra, e i due magistrati entrano subito in contrasto. Il risultato è che dopo pochi mesi Sabella viene allontanato su ordine diretto dell’allora Guardasigilli Roberto Castelli. Oggi il plenum del Csm ha dato l’ok a maggioranza al collocamento fuori ruolo con quattordici  voti a favore, otto contrari e 3 gli astenuti. In particolare hanno votato contro molti consiglieri laici e i vertici della Cassazione, il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani; si sono invece astenuti i togati Ercole Aprile e Maria Rosaria San Giorgio, oltre al consigliere laico Renato Balduzzi. “Ovviamente per me è una notizia molto positiva. Sabella credo abbia una competenza in materia anche amministrativa di appalti e contratti tale da poterci garantire che, ancora più di prima, con la nostra giunta tutto avverrà nella piena legalità e nella trasparenza” ha commentato il sindaco di Roma Ignazio Marino. “Si tratta di un magistrato con una reputazione straordinaria – aggiunge – e che ha lavorato al fianco di Gian Carlo Caselli per molti anni. Ha condotto alcune delle operazioni di contrasto alla mafia più importanti come l’arresto di Brusca”.

Comunque se i politici onesti son questi?

«Pd, rimborsi fasulli per 2,6 milioni» Sotto inchiesta 6 parlamentari laziali. Dopo il clamoroso caso Fiorito (Pdl), anche il centrosinistra colpito dalle indagini sui brogli nel bilanci del Lazio. La Procura di Rieti: ostriche, vecchie multe e olio con i fondi regionali 2010-2012; rimborsi maggiorati su taxi, biglietti ferroviari e aerei, scrivono Alessandro Capponi e Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. Olio extravergine d’oliva soprattutto. Che, nel reatino, non sarà come in Liguria, ma è pur sempre d’origine controllata. Ma anche rimborsi per vecchie multe, cesti natalizi e le immancabili cene che (elettorali e no, anche a base di ostriche) sempre figurano in nota spese. Come ricostruito dai finanzieri del Tributario per la procura di Rieti, le «spese pazze» dei consiglieri regionali del Pd, fra il 2010 e il 2012, varrebbero 2 milioni e 600 mila euro. E se per i consiglieri pidiellini della giunta di Renata Polverini - Franco «Batman» Fiorito, il più rappresentativo - sono già scattate le prime condanne (o assoluzioni), ora potrebbe aprirsi il capitolo processuale che riguarda l’allora opposizione del Partito democratico. Perché gli investigatori coordinati dal procuratore Giuseppe Saieva sono prossimi alla notifica delle conclusione delle indagini a diverse persone. Sotto accusa l’intero gruppo Pd in Regione durante la consiliatura Polverini con accuse che vanno dal peculato, alla truffa aggravata, dal finanziamento illecito al falso. Una volta caduta la giunta Polverini, l’allora candidato del centrosinistra Nicola Zingaretti condusse una battaglia col partito per non far ripresentare in Regione neanche uno dei consiglieri uscenti. Così molti di loro, oggi sotto accusa, sono stati candidati direttamente in Parlamento. Fra gli indagati, infatti, ci sono gli attuali senatori Claudio Moscardelli, Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Francesco Scalia e Daniela Valentini. Sotto inchiesta anche il sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, il cui nome era affiorato all’avvio delle indagini, così come quelli di Enzo Foschi - già nella segreteria del sindaco di Roma, Ignazio Marino - e del tesoriere Mario Perilli. Indagato anche il deputato Marco Di Stefano, già coinvolto in un’altra vicenda giudiziaria: è accusato di corruzione per fatti che risalgono alla giunta Marrazzo, quando da assessore al Demanio avrebbe intascato una tangente milionaria per alloggiare la società «Lazio Service» nei locali dei costruttori romani Pulcini. Un’inchiesta che ha intersecato anche il giallo della scomparsa del suo ex collaboratore Alfredo Guagnelli. Di Stefano e gli altri saranno ascoltati in Procura per rispondere a una serie di contestazioni. Secondo gli investigatori avrebbero chiesto al partito rimborsi maggiorati su spese ordinarie, da quella per il taxi ai biglietti ferroviari e aerei. In nota al partito anche spese ordinarie, pranzi e cene in ristoranti dal menu a base di pesce. Perfettamente bipartisan le ostriche: contestate ai consiglieri Pdl e ora in conto ai rappresentanti del Pd che le avrebbero mangiate vicino al Pantheon. In qualche caso si mascheravano singole elargizioni attraverso la formula delle collaborazioni occasionali che di fatto, per i pm, non sarebbero mai avvenute. Nel mirino degli investigatori anche rimborsi per murales nel quartiere popolare del Quadraro. Sul conto del partito in Regione sarebbero finiti pure il finanziamento di una serie di sagre paesane, di tornei di calcio e, per l’accusa, di attività non riconducibili alla politica.

Ostriche e fagiani, ecco gli sprechi del Pd. Chiusa l’inchiesta dei pm di Rieti sui rimborsi utilizzati per scopi privati Quarantuno gli indagati. Coinvolti 15 ex consiglieri della Regione Lazio, scrivono Augusto Parboni e Martino Villosio su “Il Tempo”. Pesce crudo e ostriche al Pantheon, tanto per andare sul classico. Ma anche guizzi più fantasiosi, come le battute di caccia e i fagiani gustati al ristorante, le sagre di provincia finanziate con i soldi dei rimborsi, lo sfizio di pubblicare la propria autobiografia messo in conto al Gruppo. Il campionario delle prodezze compiute con i soldi pubblici dai consiglieri regionali si aggiorna e impreziosisce di nuovi spunti, e stavolta il «merito» - in base alle accuse della procura di Rieti - è tutto del Gruppo Pd protagonista al consiglio regionale del Lazio nel triennio 2010-2012. Fiorito impazzava, la procura di Roma setacciava gli scontrini del gruppo Pdl alla Pisana, l’opposizione Pd guidata da Esterino Montino fremeva d’indignazione e chiedeva le dimissioni della giunta Polverini. Adesso però i magistrati di Rieti, partiti un anno e mezzo fa dalla denuncia di un blogger locale, hanno chiuso un’indagine corposissima, di cui nei mesi scorsi aveva parlato Il Tempo . E nelle loro carte, c’è l’epicentro di un nuovo devastante terremoto per l’immagine del Partito Democratico non solo a livello locale. L’elenco delle spese contestate ai 15 ex consiglieri regionali Pd indagati, cinque dei quali nel frattempo diventati senatori e due nel frattempo deceduti, è sterminato e imbarazzante. Ci sono i pranzi e le cene offerti ad amici e simpatizzanti, a colpi di otto, dieci e ventimila euro, certo. Ma anche, incredibile eppure vero, le battute di caccia a Fiumicino, dove c’è chi si fa fa mettere in conto perfino i 25 fagiani centrati dalle proprie doppiette e poi serviti in tavola, totale 50 coperti. Il direttore del circolo che ospitò il banchetto racconta alla Guardia di Finanza quella fondamentale riunione di partito: a un certo punto qualcuno si sarebbe alzato, avrebbe fatto un discorsetto elogiativo sul Pd, per poi rimettersi serenamente a mangiare. Col denaro altrui vengono pagate le multe della macchina, i biglietti per i viaggi personali in treno e in aereo, gli omaggi enogastronomici per le festività, gli addobbi per l’albero di Natale, l’olio extrovergine per cucinare a casa, financo la bottiglietta d’acqua da 0,45 centesimi. Vengono retribuiti soggetti incaricati di gestire i profili dei consiglieri sui social nerwork, si assumono familiari e conoscenti come portaborse violando ogni normativa vigente e pagando alcuni di loro senza che abbiano lavorato un solo giorno. C’è chi invece avrebbe sovvenzionato una sagra del tartufo con 5000 euro scrivendo sulla fattura «convegno». Chi è accusato di aver dato 8.000 euro per finanziare i graffiti del museo del Quadraro, a Roma. Una suora di Fara in Sabina chiede un contributo per gli immigrati e lo riceve segnando su un pezzo di carta «prestazione occasionale». Il tentativo di rinascita di Paese Sera, nel 2011, è finanziato con 26 mila euro senza uno straccio di contratto. Alcuni imprenditori emettono inoltre fatture per operazioni inesistenti o fatture gonfiatissime, per poi dividere con il consigliere amico. Mentre il sindaco di Rieti Simone Petrangeli, anche lui indagato, si sarebbe fatto regalare video e manifesti per la campagna elettorale. I 15 ex consiglieri avrebbero distratto con «spese non inerenti i fini istituzionali» 2 milioni e 600 mila euro, la metà dei fondi che la Regione ha versato al gruppo per quei 3 anni. Dopo 200 controlli incrociati e 300 testimoni ascoltati, i 13 rischiano il processo. Cinque sono oggi senatori: Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela Valentini. Spicca poi nel lungo elenco di questa chiusura indagini il nome di Marco Di Stefano, oggi deputato Pd già sulla graticola perché accusato di corruzione e altro dalla procura di Roma nell’inchiesta su Enpam. Avrebbe speso 36 mila euro per pubblicare 25 mila copie della sua autobiografia. L’ex tesoriere del gruppo, il reatino Mario Perilli (fulcro dell’inchiesta) avrebbe invece sovvenzionato la «famosa» sagra del tartufo con 5000 euro. L’ex capo segreteria del sindaco di Roma Marino, Enzo Foschi, i graffiti del Quadraro. Non manca il nome di Esterino Montino, grande fustigatore all’epoca dello scandalo Fiorito dai banchi del gruppo Pd alla Pisana, oggi sindaco di Fiumicino. Più o meno le accuse sono le stesse accuse per tutti, peculato, truffa aggravata, fatture false, illecito finanziamento. Gli indagati in totale sono 41, tra cui 23 collaboratori dei consiglieri Pd, mentre 16 persone sono state segnalate alla procura. Ci sono anche accertamenti in corso su 27 presunti evasori totali. Nell’inchiesta ci sono anche altri esponenti del Pd del Lazio, imprenditori, professionisti, fornitori, collaboratori. E non finisce qui, gli occhi della procura e della Guardia di Finanza di Rieti sono già puntati sulle spese di altri gruppi protagonisti della precedente consiliatura.

FASCISMO, COMUNISMO, COOP ROSSE E MAFIA CAPITALE.

L’inchiesta sulla corruzione a Roma «sta a ricordare che, virtualmente, non c’è angolo dell’Italia che sia immune dall’infiltrazione criminale»: è il commento pubblicato nell’edizione internazionale del New York Times in una corrispondenza da Roma di Elisabetta Povoledo apparsa in prima pagina. Analizzando quanto accaduto nella Capitale negli ultimi dieci giorni, da quando il 2 dicembre 2014 sono scattati i 37 arresti per l’inchiesta che vede indagati un centinaio tra malavitosi, manager delle aziende municipalizzate e politici romani, il quotidiano statunitense spiega che l’inchiesta rivela uno scandalo nazionale e sottolinea come «virtually no corner of Italy is immune to criminal penetration».

Quando uno è buono è buono. O no? Scrive Marco Ventura su “Panorama”. Come Salvatore Buzzi, che da giovane (24 anni) ha ucciso un ex socio con 34 coltellate ma poi si è inventato una seconda vita da rendento-redentore. Una spolverata di cultura, una spennellata di rosso, un istinto sicuro per il politicamente corretto: ingredienti perfetti perché un omicida riesca a ottenere la grazia dopo 11 anni su 24 (dal presidente Oscar Luigi Scalfaro, magistrato d’acciaio, tuttavia sensibile a certe mozioni dei sentimenti), uscendo dal carcere aureolato e con il crisma del campione di bontà. Le icone della sinistra buonista ci sono tutte nella sede della cooperativa "29 Giugno", a cominciare dal Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. È bastato a Buzzi mettersi dalla parte dei fragili e disadattati, esercitare un "impegno" sociale in nome di un ideale di rivalsa e riscatto, ed essere lui stesso l’incarnazione del "compagno che sbaglia", foss’anche per aver commesso un crimine comune, per entrare nel giro del welfare locale. Avete notato che anche adesso, anche dopo l’esplosione dello scandalo e magari dopo che sono usciti gli sms in cui l’ex patron della "29 giugno" augurava un anno di più "sfollati, rifiuti e bufere", Buzzi e la sua coop rossa vengono elogiate, portate in palmo di mano, dipinte come il top del top della solidarietà. Potevamo mai immaginare che…? A me pare che l’ipocrisia regni sovrana, tra le pieghe di un’inchiesta che deve ancora sviluppare tutte le sue potenzialità (e colpire tutti i bersagli). Con un’accusa così pesante come quella per mafia (416 bis), non saranno in molti a resistere agli interrogatori e parecchi, invece, a essere indotti alle soffiate, alle chiacchiere, alle accuse. A dire tutta la verità e forse anche di più. Ma l’ipocrisia, ecco, è almeno uno spettacolo che avremmo sperato ci fosse risparmiato. L’ipocrisia di media e politici che tratteggiano questa vicenda come qualcosa che è nata solo con Alemanno, che risale solo a persone legate al terrorismo nero (uno dei protagonisti coi suoi bravacci è Massimo Carminati, ex Nar) e nulla ha davvero a che vedere con la sinistra buona. L’ipocrisia di ritenere che Buzzi abbia di nuovo attraversato il confine tra male e bene (dopo aver varcato da giovane quello tra bene e male) solo perché traviato, lui rosso, dal nero Carminati. La realtà, azzardo, è un’altra. Non c’è una maschera buona di Buzzi. C’è Buzzi con la sua storia, non tutta emersa. Buzzi che lavora dagli anni ’80 con il Comune di Roma, che cresce e si espande con le amministrazioni di sinistra da Rutelli a Veltroni, che deve accreditarsi con Alemanno quando i romani decidono di elevare al Campidoglio un post-fascista. Altra ipocrisia è quella dei grillini che respirano nuovo ossigeno grazie a Mafia Capitale, che si presentano come gli illibati, intonsi candidati “uno uguale uno”, pascendosi delle spoglie di un duplice smascheramento: la destra e la sinistra egualmente implicate in ruberie pelose, come pelosa è la bontà dei buonisti. Non tacciono, anzi parlano, anzi alzano la voce, tutti quelli che hanno dato credito a Buzzi & Company in questi anni. Buzzi che nella sua relazione di bilancio tesseva l’elogio della sinistra che non deve rinchiudersi in piccoli orizzonti e piccole dimensioni, ma estendere, ampliare la sua bontà. Buzzi che denuncia, lui indagato per mafia, d’esser stato minacciato dalla “mafia dei cimiteri”, dopo aver ottenuto l’appalto per i fiori e giardini del Verano. Buzzi che si fa ritrarre coi gran capi delle cooperative a partire dall’attuale ministro Poletti che delle coop era, appunto, il mega-presidente. Buzzi che dimenticando le sue origini comuniste va a braccetto con la destra quando sul Campidoglio sventola la bandiera nera. È l’Italia, bellezza. L’Italia che adesso può perdere altro tempo, incantata dalle storie che s’intrecciano di questo nuovo capitolo del romanzo che è la storia “patria” del Dopoguerra, senza che vengano affrontati i problemi veri: le riforme da fare e non da annunciare, la produzione da rilanciare e non da deprimere. Roma ladrona ha riconquistato la scena. Il romanzo prosegue, l’ipocrisia anche. E tutto sarà come prima.

Perchè purtroppo il monopolio dell'antimafia è roba loro.

Sono stato interrogato dall’Antimafia Sembrava una corte fascista, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Sono stato convocato nei giorni scorsi dalla Commissione parlamentare antimafia per una audizione. Almeno, così avevo capito. In realtà sono stato sottoposto ad un interrogatorio, che è stato condotto dal vicepresidente della Commissione, Claudio Fava, è durato circa un’ora e mezza ed è stato costruito su domande tutte improntate alla stessa idea (o insinuazione): quella che i giornali che ho diretto in Calabria, e in particolare “Calabria Ora”, fossero subalterni al potere mafioso e che io stesso lo fossi. Mi è stato detto, in modo esplicito e anche un po’ sfrontato, che il mio modo di fare giornalismo senza censure, e senza neppure un po’ di subalternità alla Procura di Reggio, e senza limiti “etici” nello svolgere le polemiche, è un modo di fare giornalismo che fa il gioco della ‘ndrangheta, mentre buonsenso vorrebbe che chi fa giornalismo in Calabria si occupi un po’ meno delle notizie e un po’ di più a spalleggiare la lotta alle ’ndrine. Perché la Calabria non è il Piemonte, non è l’Emilia, e l’ossessione per lo stato di diritto può essere devastante per lo Stato. Non ho preso appunti durante l’interrogatorio. Perché sono stato colto di sorpresa. Io ero convinto che la Commissione volesse delle informazioni e delle valutazioni. Invece la Commissione le informazioni le aveva già tutte – anche se alcune erano false – delle valutazioni se ne infischiava, e voleva solo che io rispondessi della temerarietà e pericolosità – rispetto alla ragion di Stato – delle mie opinioni. Anche senza appunti però mi sono rimaste nella mente molte cose, che vorrei raccontare, perché voi lettori le giudichiate, e magari – se ne avranno tempo e voglia – le valutino anche le autorità. Mi è stato contestato, per iniziare, il fatto che nel momento in cui ho assunto la direzione di “Calabria Ora” il mio editore, che gestisce delle cliniche, avrebbe avuto immediatamente nove nuove convenzioni concesse dalla Regione. In cambio, mi è stato detto esplicitamente, della sospensione, da parte mia, di una campagna di stampa che il mio giornale stava facendo contro il Presidente della Regione. La notizia mi ha sorpreso: non la conoscevo. Poi ho accertato che era assolutamente falsa. L’editore non aveva avuto nessuna nuova concessione. Non andrà molto lontano – penso, ma forse mi sbaglio – una Commissione antimafia che non accerta neppure le notizie che riceve da qualche consulente un po’ superficiale. Persino noi giornalisti, che abbiamo un po’ meno mezzi e po’ meno denari a disposizione di una commissione antimafia, siamo tenuti a verificare le notizie…Dopodiché è iniziata prima la fila di contestazioni su articoli, titoli, e scelte editoriali, e poi persino sui toni dei miei commenti e delle polemiche. Perché – mi è stato chiesto – hai avuto vari incontri, persino nel suo studio, con l’avvocato Titta Madia che assisteva Giuseppina Pesce (collaboratrice di giustizia che aveva accusato suo marito e i suoi parenti) il quale avvocato Madia vi fornì una dichiarazione della signora Pesce nella quale lei ritrattava le accuse e sosteneva che le erano state suggerite dai Pm in cambio di un suo trasferimento in un carcere più vicino alla Calabria e della possibilità di rivedere i suoi figli? Sono rimasto senza parole: che in una sala del Parlamento italiano qualcuno non capisca che i giornalisti hanno l’obbligo di ascoltare gli avvocati, e soprattutto l’obbligo di riferire notizie come quella della quale sto scrivendo, vuol dire evidentemente che in queste sale del Parlamento almeno qualcuno dei parlamentari non ha mai gettato uno sguardo distratto sulla Costituzione, e non ha la minima idea di cosa sia il giornalismo in uno Stato liberale. E il fatto che successivamente la signora Pesce abbia ritrattato la sua ritrattazione – naturalmente non sta a me stabilire quale delle diverse versioni fornite dalla signora Pesce sia quella vera – non cambia affatto le cose. Oltretutto noi avevamo pubblicato non solo la lettera della Pesce, ma anche il verbale del suo interrogatorio, che era un verbale piuttosto inquietante. Ciliegina: anche qui le informazioni della commissione erano del tutto inesatte, perché io non ho mai incontrato l’avvocato Madia, né a casa sua, né al suo studio, né altrove. Ma possibile che questa Commissione non ne prenda una giusta? Non posso riferirvi tutte le contestazioni che mi hanno fatto (per la precisione le ha fatte tutte il vicepresidente Claudio Fava). Qualcuna però voglio raccontarla. Perché – mi è stato chiesto – su “Calabria Ora” avete pubblicato la lettera del figlio di un boss mafioso che protestava perché a suo padre era stato negato il funerale in Chiesa? Beh, son caduto dalle nuvole, non capivo la domanda. Mi hanno spiegato che il figlio di un mafioso non è un cittadino normale, che anche se è incensurato è sempre il componente di una famiglia di mafia, e poi c’è tanta gente che non è stata condannata per mafia, ma insomma, si sa che è mafiosa, e quindi, insomma, la lettera del figlio di un mafioso non si pubblica…Anche perché – mi ha spiegato Claudio Fava – pubblicando quella lettera si mette a repentaglio la sicurezza personale del sacerdote che ha rifiutato il funerale, e dei rappresentanti di “Libera” che hanno chiesto di non celebrare il funerale. Ho cercato in tutti i modi di spiegare che un cittadino è un cittadino (Gertrude Stein…), e che la legge italiana, la dichiarazione dei diritti dell’Uomo, la Costituzione repubblicana, eccetera eccetera eccetera, non permettono di considerare un cittadino colpevole dei reati del padre. Non c’è stato niente da fare: per gli onorevoli, il figliolo di un boss è, comunque, almeno un po’, colpevole, e in ogni caso non ha il diritto di scrivere qualcosa a difesa di suo padre. Ho chiesto agli onorevoli se loro avrebbero mai pubblicato una lettera di Peppino Impastato (il ragazzo reso famoso dal film I cento passi, figlio di un mafioso e morto combattendo la mafia, ucciso dalla mafia) ma loro mi hanno detto che Impastato poteva parlare perché combatteva la mafia, mentre questo ragazzo (si chiama Alvaro) che ha scritto su “Calabria Ora” non ha le carte in regola per parlare. Capito bene: l’antimafia (in questo caso, parlando di parlamentari stipendiati, possiamo ben dire: i professionisti dell’antimafia, e mandare un pensiero disperato alla memoria di Leonardo Sciascia…) decide a chi assegnare e a chi no il diritto di parola. Come faceva una volta il Fascio. Infine il vicepresidente mi ha fatto notare che la lettera del figlio del boss finiva così: «Per fortuna giustizia terrena e giustizia divina non sono la stessa cosa». E questa frase, che chiunque interpreterebbe come una frase di pietà e di speranza sul destino ultraterreno del padre (è diritto di tutti quello di credere nell’aldilà) era in realtà una minaccia mafiosa. Non ha capito bene a quale ’ndrina si sospettasse l’affiliazione di Dio, ma ho lasciato perdere…Non posso tediarvi troppo. Però voglio dirvi che mi è stato contestato un editoriale intitolato “La mafia si combatte con lo Stato di diritto e non con le forche” (o qualcosa del genere) e mi è stato spiegato che la mia teoria sul garantismo da applicare anche in Calabria, e addirittura i miei dubbi sull’uso che talvolta i magistrati fanno dei pentiti, sono teorie e dubbi inaccettabili e che denotano una indubbia corrività con la mafia. Credo che la domanda finale sia stata la più clamorosa. Insistentemente il vicepresidente ha chiesto di sapere se mi ero pentito di aver dato le notizie sulla Pesce, sulla Cacciola eccetera. Questa del pentimento deve essere una mania. Gli ho dovuto spiegare – ma senza successo – che i giornalisti, di solito, non si pentono di aver dato le notizie. Casomai si pentono di avere fatto o subito la censura. Mi si è fatto capire che io dovrei provare rimorso per il suicidio (o forse omicidio) della signora Maria Concetta Cacciola (anche lei collaboratrice di giustizia che ha accusato la famiglia, poi ha ritrattato e poi è tornata ad accusare, infine è misteriosamente morta). Gli ho fatto notare che “Calabria Ora” aveva aperto una polemica (che non è stata fornita alla Commissione insieme al pacco di articoli che mi hanno contestato) perché la Cacciola – che si sapeva a rischio – non aveva goduto del programma di protezione. Circostanza sulla quale, finora, nessuno ha risposto. E infine mi si è chiesto di spiegare perché avevo dedicato cinque pagine al caso Cacciola, mi è stato detto che cinque pagine sono troppe. Ho risposto che, in genere, su come faccio il giornale io rispondo in riunione di redazione, e non in antimafia, né al Parlamento, né al governo, né al prefetto, né alla Procura della repubblica. Il vicepresidente si è mostrato stupito. Gli ho detto che nella Ddr (la Germania dell’Est prima che cadesse il muro) i giornalisti rispondono al potere politico sul modo nel quale fanno i giornali, ma qui in Europa non è così. Gli ho detto che il Minculpop (che svolgeva durante il fascismo funzioni simili a quelle che ora svolge l’antimafia: cioè il controllo su giornali e giornalisti) è stato chiuso nel 1945. Fava ha continuato a chiedermi il perché di quelle cinque pagine. Mi sono rifiutato di rispondere e sono andato via.

P.S. Non avevo mai assistito ai lavori di questa Commissione. Il modo nel quale si sono svolti in mia presenza è in violazione piena della Costituzione e dimostra una scarsissima conoscenza dei principi democratici. Di più: è stata una vera e propria intimidazione di un giornalista, e un invito esplicito a mettersi agli ordini delle Procure. Si tratta di un comportamento eversivo e illegale. Mi chiedo se il Presidente della Camera e il Presidente del Senato vorranno intervenire, e se vorrà intervenire l’ordine dei giornalisti, o il sindacato. Temo che sia una domanda retorica: so che non vorranno intervenire. Spero di sbagliarmi.

Vorrei andare dal detenuto Giulio. Sono mafioso?, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Da qualche mese ho un rapporto telefonico coi parenti di un signore, di nome Giulio, accusato di mafia, imprigionato, in attesa di sentenza definitiva e che con tutte le sue forze si dichiara innocente. I parenti di Giulio, che è un calabrese e che di mestiere fa l’imprenditore, mi chiedono di incontrare il detenuto (detenuto da diversi anni, e che recentemente è stato ricoverato in una clinica per ragioni molto gravi di salute) ma io finora non lo ho fatto. È stata colpa mia se non ho ancora incontrato Giulio, sono stato pigro, non ho preparato i documenti che servivano, ho perso tempo, sono stato assorbito dai miei impegni di giornalista e di direttore di un quotidiano. Però non è una giustificazione, visto che io penso che tra gli impegni – doverosi – di un giornalista, ci sia anche quello di incontrare le persone che stanno in carcere. Persone che vogliono vederti, parlarti, fornire dei documenti che aiutino a credere alla loro innocenza. Il diritto, per tutti, di parlare, di esprimersi, di difendersi, di farsi ascoltare, specialmente se si è convinti di avere ricevuto una grave ingiustizia, e ancor più specialmente se questa ingiustizia ha avuto origine da una azione dello Stato, beh penso che dovrebbe essere il primo di tutti i diritti, in un paese libero, in democrazia. Spessissimo non è così. Per i detenuti quasi mai è così. Proprio per questo credo che i giornalisti dovrebbero avere una sensibilità particolare, ancor più forte se questi giornalisti, come me, lavorano per un giornale che ha avuto la faccia tosta di chiamarsi Il Garantista. Proprio l’altro giorno mi è arrivata un plico, inviatomi dai parenti di Giulio, che contiene carte su carte, le quali, mi pare, depongono tutte e favore dell’imputato e della sua innocenza. E così, avendo anche ricevuto delle telefonate dai parenti di Giulio – alle quali, come spesso mi capita – non ho risposto, avevo deciso di rompere gli indugi, chiamare io i parenti di Giulio e chiedere di avere il colloquio. Poi, come ho raccontato ieri sul giornale, sono stato convocato dalla commissione parlamentare antimafia e interrogato a lungo, e “sospettato” di comportamento giornalistico non consono alla direttiva ufficiale, che è quella di mettersi al servizio delle procure e di militare nel loro esercito, che è stato mandato da Dio e ha il compito supremo di combattere e radere al suolo il male. Vi ho già detto che mi sembrava di essere interrogato da una corte fascista più che da una commissione parlamentare di un paese repubblicano e democratico. Il senso di questa convocazione e di questo interrogatorio in antimafia a me è sembrato chiarissimo: una intimidazione, secca brutale, con l’obiettivo di limitare le mie iniziative e la mia libertà professionale. Tanto più che “avvisi” simili, o anche più gravi (dei quali torneò a parlare nei prossimi giorni ) già mi sono arrivati nei mesi scorsi da alcuni settori della Procura di Reggio Calabria. E infatti ieri ho pensato: se ora io chiedo di incontrare Giulio, e poi lo incontro, e stabilisco rapporti con lui e la sua famiglia, è molto probabile che ne riceverò nuovi guai, nuovi sospetti e nuove accuse da parte dell’antimafia militante, politica o giudiziaria. E ho deciso di rinunciare, di non chiamare i parenti di Giulio. Di aspettare tempi più sereni. Vi pare una cosa bella? Edificante? Chiaro che non lo è. E perciò prima di scrivere queste righe ci ho ripensato di nuovo: me ne infischio della commissione antimafia e delle Procure, domani telefonerò ai parenti di Giulio e se mi sarà possibile lo andrò a trovare. E se i parenti di Giulio mi autorizzeranno vi dirò anche il cognome di questo detenuto.

A conferma di come funzionano le cose nell'antimafia mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano  i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali  con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis  ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova  per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati  della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

Giornalismo è giustizia, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale che si concluderà questa mattina. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Chi ha paura di chiamarla mafia, scrive Francesco Merlo su “la Repubblica”. Il famoso "la mafia non esiste" si è trasformato in "la vera mafia sta altrove", ma negare la mafia rimane tipico della mafia, la prima prova a carico per applicare il 416 bis. Intanto perché i boss babbìano sempre. Dagli antenati don Calò e Genco Russo  -  "noi la chiamiamo amicizia"  - sino ai nipotini Carminati e Diotallevi: "Eravamo degli straccioni, solo un gruppo di cani sciolti". E poco importa se il loro babbìo negazionista non si conclude con "baciamo le mani" ma con "li mortacci tua". Nell'idea che "questa non è mafia " c'è anche, e forse soprattutto, l'autodifesa di un mondo (di mezzo?) che non vuole scoprirsi e accettarsi come complice. "La mafia è diventata policentrica", disse il generale Dalla Chiesa a Giorgio Bocca e stava parlando di Catania, che a quell'epoca reagiva negando, formando comitati di difesa e contrapponendo l'antropologia levantina a quella araba, i carusi chiacchieroni e senza mistero "che uccidono con la risata" ai picciotti di panza e sottopanza con i piedi incretati, l'innocenza della truffa d'Oriente alla precisione della lupara d'Occidente. E poi Siracusa e Messina non potevano essere mafiose perché erano provincia babba. E a Reggio Calabria erano invece troppo anarchici, troppo Ciccio Franco, troppo umore di terremoto che non sopporta disciplina: feroci sì, ma di natura sregolati e strafottenti. E così via distinguendo sino a Roma appunto dove è subito arrivata, con la mafia, la disputa linguistica e storica sulla parola mafia perché, come insegna la teologia, la suprema astuzia del diavolo è far credere che non esiste. È vero che c'è una profondità di differenza, anche in termini di fuoco e di simboli, perché all'Atac non sono trovate teste di capretto mozzate né è stato usato il tritolo nella sede dell'Ama. Ma anche le diversità fanno mafia alimentando e non impoverendo la ricchezza del fenomeno criminale e dunque dei futuri studi comparati. Infatti sono già all'opera gli esperti che, a partire dall'oziosa ovvietà che Roma non è Palermo, stanno mettendo a confronto codici e grammatiche. E forse la prima grande novità è che Mafia Capitale non è la sciasciana linea della palma che sale verso Nord, ma è la geografia che scende. È Roma che, smottando verso Sud, è ormai diventata Mezzogiorno di suk e di illegalità. L'abusivismo di piazza Navona, la sporcizia per le strade, le buche, il centro storico assediato, le "croste" dei parcheggi in terza fila, la metropolitana senza decoro, i lavori pubblici eternamente incompiuti, la cultura come enorme baraccone di incompetenze, le esecuzioni per strada ... ... sono già identità meridionale e scenografia di mafia anche se l'Opera di Roma è al tempo stesso uguale e distinta dal Massimo di Palermo, e il Corviale è diversamente Zen, e Tor Sapienza (non) è Librino così come Carminati (non) è Matteo Messina Denaro ... Insomma la geografia non è filosofia e non si accontenta di surrogati, ma propone scenari nuovi. Il potere a Roma è relazione gnam gnam, e a Palermo è oppressione bum bum. A Roma l'affare si imbroglia e a Palermo si sbroglia. I circoli sul Tevere non sono cupi come le concessionarie d'auto di Santapaola ma anche a Catania, come adesso a Roma, i distributori di benzina (ricordate Calderone?) sono stati le scuole-quadri della mafia. A Roma i covi sono i bar, e la buvette del Campidoglio ha il ruolo che a Trapani ebbero le cliniche private di Aiello e Cuffaro. Certo, l'innocente e brava Serena Dandini, sponsorizzata dalla cooperativa di Buzzi, non ha lo stesso ruolo che i neomelodici hanno a Napoli, ma nella Roma delle relazioni la Melandri ha lavorato per 15 anni con l'amico commercialista Stefano Bravo che riciclava i soldi di Buzzi e Carminati. E Odevaine, prima ancora di diventare capo di gabinetto di Veltroni, era con lei in Legambiente. Ed è vero che il sindaco Marino non poteva sapere che la cooperativa di Buzzi era criminale. Ma perché ha accettato finanziamenti da un'azienda che faceva affari con il comune di Roma e a cui il Comune, dopo l'elezione, concesse a prezzi d'affitto stracciati i locali di Via Pomona? A Roma sono tutti "amici", ma non nel senso dell'omertà palermitana. Fra sacrestie e conferenze, Andreotti andava a trovare a Rebibbia il suo amico comunista Adriano Ossicini e gli portava le torte di mamma Rosa. E intanto frequentava la segreteria di Stato di Pio XII. Nella Roma dei ponti, "il ponte Andreotti" congiungeva il Vaticano e Botteghe Oscure. C'era di tutto in quel pezzo di storia contemporanea ma non c'era la mafia. C'era l'assassinio di Pecorelli, di cui furono accusati e poi assolti  -  guarda caso  -  Andreotti e Carminati. Ma non era ancora mafia. Tutto questo solo ora è diventato quel pasticcio meridionale che anima la terribile degradazione della politica, la sua resa alla mafia. Quel Pd criminale che ieri su Repubblica ci ha raccontato Giovanna Vitale è l'erede del partito comunista di Maurizio Ferrara, di Antonello Trombadori, di Giancarlo Pajetta, sino agli eroi della Resistenza e delle Fosse Ardeatine. Come può rassegnarsi alla mafia chi li ha conosciuti, chi ci credeva? Anche io, se fossi per famiglia, per amicizie o per storia, il custode di quel mondo negherei con sarcasmo che quell'apostolato civile possa essere diventato mafia. Buzzi, nell'intervista a Report del 2007, aveva il Quarto Stato dietro la scrivania perché la sua cooperativa, dove si incontravano i redenti e i dannati, è la degenerazione del cattocomunismo romano, della carità coniugata con la solidarietà di classe, della pietà e della mano tesa alla schiuma della terra. Come è possibile che il vecchio segretario di sezione di quel partito sia stato sostituito dal monatto manzoniano? Com'è possibile che il funzionario del sol dell'avvenire sia diventato il Caron Dimonio che traghetta e deruba le anime in pena verso la speranza? Credevano, quegli uomini, che i banditi fossero i ribelli primitivi da trasformare in rivoluzionari o in santi grazie al catechismo di Marx o al Vangelo di Gesù. Come si può accettare che, nel loro nome, i naufraghi siano oggi il pretesto per i più sordidi affaracci mafiosi? E sono paradigmi depistati persino quelli tolkieniani e dei Nar che, sebbene malviventi e fascisti, avevano comunque in testa un progetto di società, un brandello di idealismo, una distopia più che un'utopia. Quella spada giapponese di Carminati, per esempio, è tutto quel che gli resta dello squinternato armamentario culturale, da Evola a Guénon all'antimodernità del Samurai di Mishima con l'arma bianca, feticci anche per Alemanno che fu l'orsuto attor giovane del rautismo. Quel confuso ragazzo pugliese con il mito della romanità, che posava a ideologo, è il primo responsabile politico della Mafia Capitale, una sorta di Ciancimino de Roma, non si sa quanto consapevole. Come reagirebbe Almirante e cosa direbbe il pittoresco Teodoro Buontempo che dormiva in una Cinquecento? La destra degenerata in mafia è una triste novità romana che a Palermo non si era mai vista e che seppellisce tutto il mondo degli ex camerati e fa deragliare anche il sogno di Giorgia Meloni, la reginetta di Coattonia, candidata sindaco dalla nuova Lega di Salvini. A Roma i fascisti a non sono più fascisti, sono mafiosi. Come si vede, a Roma anche la resistenza alla parola mafia è trasversale, è una larga intesa. A New York, prima di battezzare "mafia" la mafia la chiamavano "la mano nera". La mafia infatti non è mai un trapianto, non è un'emigrazione. E adesso è "romana de Roma", cioè una gran confusione circondata dalla storia come dal mare, uno stridio di uomini e un definitivo pervertimento di ideali apparentemente inconciliabili, un pascolo immenso sul quale non si ancora chi davvero ha regnato e chi regnerà. Ed è un melting pot che si preannuncia longevo e solido perché è vero che "natura non facit saltus", ma Roma lo ha fatto. La sua umanità bonaria e cinica ha preso la durezza e la violenza della mafia, ma in un'eternità di foresta.

Così Mafia Capitale voleva conquistare l'Italia. Tra tangenti, appalti e grazie a politici amici. Il clan di Massimo Carminati aveva il progetto di allargare i suoi interessi criminali all’intera Penisola, senza fermarsi alla città di Roma. Ecco attraverso quali personaggi e con quali alleanze puntava a "scalare" il Paese, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Sognavano di costruire un impero. Tra tangenti, ricatti e minacce, la “mafia Capitale” si sentiva in grado di arrivare ovunque. Continuava a impadronirsi di imprese, puntava agli appalti miliardari nel Lazio e in tutta Italia, mettendo a libro paga altri politici, altri burocrati, altri professionisti, altri dirigenti pubblici. Fino a tentare persino la scalata al Viminale. Ogni emergenza per loro si trasformava in denaro sonante. Emergenza neve, emergenza abitativa e soprattutto emergenza immigrati erano parole magiche, capaci di farli “spiottare”, ossia incassare subito milioni. Ma soprattutto di costruire altre alleanze oscure: nuovi ponti tra il “Mondo di Mezzo” e i piani alti del potere. Massimo Carminati è solo il vertice di questa piramide criminale, una vera associazione mafiosa nata e cresciuta nel cuore di Roma. Nell’ultimo decennio il “Nero” è riuscito a tra sformare una banda di eversori e rapinatori in una potente organizzazione che mostra sul territorio la capacità effettiva di incutere timore e soggezione attorno a sé, e in molti casi ha usato la forza dell’intimidazione per piegare uomini dei partiti, dello Stato e delle imprese. Ma l’arresto dell’estremista di destra e di altre 36 persone è solo la prima scossa di un terremoto che avrà ripercussioni per molti mesi. I magistrati guidati dal procuratore Giuseppe Pignatone e dall’aggiunto Michele Prestipino hanno iscritto su l registro degli indagati un centinaio di persone per reati collegati alla mafia, fra loro anche l’ex sindaco Gianni Alemanno. La trascrizione di un anno e mezzo di intercettazioni mostra uno spaccato del malaffare romano che va oltre, mostrando rapporti incredibili tra grandi imprenditori e boss della strada, tra politici e pregiudicati. È Roma Capoccia, che non ammette presenze meridionali: nessun emissario di ’ndrangheta, camorra o Cosa nostra era ammesso. Per entrare nel loro territorio i padrini dovevano venire a patti, con accordi che saranno oggetto delle prossime fasi dell’inchiesta. Il lavoro dei pm Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli è solo all’inizio. Ci sono ancora altri complici imprenditoriali e criminali nella rete di Carminati su cui si indaga. E c’è un tesoro da recuperare in giro per i continenti. Il boss si vantava di mettere da parte un milione l’anno (ma gli investigatori pensano che siano decine all’anno), denaro investito soprattutto all’estero per non creare sospetti: è l’oro di Roma sulle cui tracce si sono messi gli uomini del Ros dei Carabinieri e della Guardia di finanza. In questa storia di mafia non ci sono coppole e lupare, ma una schiera di persone perbene che consapevolmente si mettono al servizio della rete di Carminati. La figura forse più inquietante è quella di Luca Odevaine, 58 anni: dal 2001 vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, poi nominato da Nicola Zingaretti direttore di polizia e protezione civile della provincia di Roma. Siede nei comitati nazionali che devono trovare una sistemazione per i profughi che attraversano il Mediterraneo. L’affare più ricco, perché come dice Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa “29 giugno” e braccio destro di Carminati, «con gli immigrati si guadagna più del traffico di droga». Odevaine viene chiamato «il Padrone» per la sua capacità di influire sullo smistamento dei profughi e sull’accreditamento dei centri di accoglienza. Più ne sbarcano, più strutture servono e ogni persona vale 35 euro al giorno. Con l’operazione Mare Nostrum il ritmo diventa frenetico: i centri vengono riempiti nel giro di pochi giorni. È una miniera d’oro: 150 milioni di euro da incassare, praticamente senza controlli. Odevaine sostiene di avere convinto il prefetto Morcone - con cui dice di avere preso appuntamento tramite Veltroni - a concentrare i flussi sulle regioni centro-meridionali «tanto al Nord non li vogliono». E spinge Buzzi ad aprire altre strutture di accoglienza in Sicilia, Lazio, Campania. Al telefono se ne citano almeno sette gestite dagli accoliti di Mafia Capitale. Creano un accordo con la più potente arciconfraternita religiosa impegnata nell’assistenza, spartendosi alcuni contratti e ipotizzando interventi del Vicariato di Roma su Alfano per smuovere altre commesse. Odevaine invece grazie al suo ruolo parla con tutti i responsabili del Viminale. È esperto, si mostra efficiente: offre soluzioni ai dirigenti del ministero, ai sindaci e alle imprese. E intasca soldi nella sede della sua fondazione personale. Nelle indagini è stata filmata anche la consegna di una misteriosa busta da parte di un alto dirigente de La Cascina, azienda legata alla Compagnia delle Opere ciellina. Una relazione preziosa, che sembra aprire le porte per altri business. Come i subappalti dell’Expo milanese. E soprattutto gli appalti negli ospedali della Regione Lazio: un contratto colossale, quasi 200 milioni. Si discute di entrare nella partita grazie all’accordo tra Compagnia delle Opere e coop rosse, cavalcando il feeling politico tra Pd e Ncd che ispira il governo nazionale, dove il consorzio ciellino poteva contare sulla benevolenza dei ministri Alfano e Lupi. I soci di Carminati dovevano garantire l’operatività su Roma. E il boss parla del modo di arrivare a Nicola Zingaretti e al suo staff per accaparrarsi l’affare. Puntano pure sul premier Renzi, senza riuscire ad avvicinarlo. Ma Buzzi comunque contribuisce alla cena di finanziamento capitolina del presidente del Consiglio: un evento tenuto all’Eur, poco lontano da quel fungo di cemento dove trent’anni fa nacque il gruppo neofascista che ancora domina la capitale. Odevaine fa le cose in grande. Ed è lui a spiegare che per il salto di qualità la rete romana deve trovare alleati imprenditoriali. Discute di contratti enormi, che finora non sono stati oggetto di indagine, come quello per il centro immigrati di Mineo, il più grande di tutti. «I Pizzarotti sono impresa importante di Parma, molto amici di Gianni Letta, di Berlusconi. Da quello che ho capito hanno fatto un accordo perché Lupi, il ministro Lupi gli ha sbloccato due o tre appalti grossi…». Valuta in parecchi milioni il vantaggio ottenuto dall’azienda parmense. Poi su un’altra gara per i rifugiati Odevaine assicura: «Il presidente della Commissione lo faccio io… è una gara finta». Mafia Capitale, come in precedenza la banda della Magliana, ha continuato ad avere rapporti con Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra. Gli investigatori del Ros lo scrivono nelle loro informative ai pm: «le altre organizzazioni criminali presenti nel territorio riconoscevano la forza del sodalizio diretto da Carminati». Chiunque volesse fare affari all’interno del grande raccordo anulare, doveva chiedere il permesso al “Cecato”. Perché qui è lui che comanda. E si scopre che il referente di Cosa nostra a Roma è il vecchio Ernesto Diotallevi, che si definisce in una intercettazione il «capo dei capi». Lui è legato a Riina e ai mafiosi siciliani fin dai tempi di Pippo Calò. Anche lui pare in grado di arrivare a chiunque. Mario Diotallevi, figlio del boss, intercettato lo scorso anno mentre parla con il padre, gli riferisce che avrebbe avuto un appuntamento con Aurelio De Laurentiis «al quale avrebbe proposto di acquistare la villa di Cavallo da destinare ad un giocatore del Napoli calcio».Cosa nostra è ben rappresentata da boss palermitani che hanno lasciato l’isola e si sono trasferiti all’ombra del Colosseo. I siciliani avrebbero fornito a Carminati sicari per commettere omicidi, ma anche appoggio “logistico”: se servivano armi i picciotti sapevano a quale porta bussare. Racconta un collaboratore di giustizia che il gruppo del siciliano Benedetto Spataro aveva anche effettuato “lavori” per conto di Carminati che, in una circostanza, aveva anche venduto ai catanesi delle armi. «Benedetto le ha prese da Carminati qui a Roma e le ha portate in Sicilia», ha dichiarato il pentito Sebastiano Cassia. I legami dell’ex Nar arrivano anche in Campania. A Michele Senese e a tutta la galassia a lui riconducibile. Ci sono legami con i fratelli Esposito, Salvatore e Genny, e con il figlio di quest’ultimo, Luigi, alias “Gigino a’ Nacchella”. Tutti e tre esponenti di spicco del clan camorristico facente capo alla famiglia Licciardi, già parte della “alleanza di Secondigliano”, e legatissima a Senese. Con loro la banda di Carminati faceva affari di piccolo calibro, ma vigeva un rapporto di mutuo soccorso. Non si pestavano i piedi, anzi, spesso si trovavano a condividere le stesse zone di influenza e a darsi una mano. Il 23 gennaio scorso i carabinieri del Ros registrano una conversazione nell’ufficio di una coop di Buzzi. Quest’ultimo racconta a Carminati un episodio che collega i romani con i calabresi e la ’ndrangheta. Buzzi, riferendosi ad un uomo della sua cooperativa, con orgoglio dice al “Cecato”: «... è tremendo.. gli ho visto fare una volta una trattativa con la ’ndrangheta... ce fai sparà gl’ ho detto.. a trattà su 5 lire … gl’ho detto scusa “e questo rompeva il cazzo” ce sparano sto giro... in piena Calabria!». Investigatori e magistrati evidenziano come in passato Carminati ha goduto della protezione «derivante da legami occulti con apparati istituzionali». I camerati di un tempo adesso hanno fatto carriera e sono diventati «rappresentanti politici o manager di enti pubblici economici». Lo spiega lo stesso boss in un’intercettazione: «Io a loro li conosco... c’ho fatto politica... ma poi ognuno ha preso la sua strada. Chi è diventato un bandito da strada, chi si è laureato... A quei tempi ci stava gente che adesso sta nell’ufficio studi della Banca d’Italia, ci sta Fabio Panetta che è il numero tre della Bce. L’unico della Banca d’Italia che si è portato Draghi. Io ci ho fatto le vacanze insieme per tutta la vita è uno dei miei migliori amici, ogni tanto mi chiama... mi ha chiamato proprio dopo l’articolo (de “l’Espresso” ndr), mi ha detto “a Ma’ sei sempre rimasto il solito bandito da strada”, mi ha detto. Gli ho detto “sì, tu sei sempre rimasto il solito stronzo che stai lì a leccare il culo alla Bce”». Panetta ha smentito rapporti recenti con “il Nero”. Ma le parole sono indicative delle relazioni che Carminati può vantare. «Ma lo sai perché Massimo è intoccabile?» dice in una telefonata alla compagna Salvatore Buzzi, «perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica! Bustoni di soldi! A tutti li ha portati Massimo!». Alla sua compagna Alessandra Garrone, che come lui è stata arrestata, Buzzi racconta: «Massimo non mi dice i nomi perché non me li dice… Tutti! Finmeccanica! Ecco perché ogni tanto adesso… Quattro milioni dentro le buste! Alla fine mi ha detto Massimo “è sicuro che l’ho portati a tutti!’ tutti!”». La Garrone lo interrompe: «A tutto il Parlamento!». E lui precisa: «Pure a Rifondazione». Carminati si interessa molto alle vicende del gruppo statale. Disprezza Lorenzo Cola, il faccendiere legato ai vertici di Finmeccanica, per la collaborazione con i magistrati che ha fatto finire in cella il commercialista Iannilli, nella cui villa ha abitato fino all’ultimo. In occasione dell’arresto, è preoccupato che la moglie di Iannilli possa parlare con gli investigatori. E in effetti una relazione dei carabinieri riporta le confidenze fatte dalla donna. Al militare parla di come Lorenzo Cola avrebbe fatto consegnare somme di denaro all’amministratore delegato di Alenia. La moglie del commercialista svela che esiste una organizzazione che ha forma piramidale «a tre livelli: al vertice ci sarebbe Lorenzo Cola, al secondo livello ci sarebbero i “controllori”, non meglio identificati, al terzo livello ci sarebbe “l’esercito”, ovvero le persone come Iannilli. Cola, che avrebbe sempre utilizzato Iannilli come un bancomat, sarebbe arrivato ad estorcergli troppo denaro». E suo marito «nel corso degli anni è stato molto “generoso”, tanto che non avrebbe potuto più far fronte alle pretese di Cola e quindi si sarebbe rivolto a Massimo Carminati per ricevere protezione. Quest’ultimo si sarebbe presentato a Cola intimandogli di desistere dalle sue intenzioni». La donna ha dipinto Carminati «come un uomo che ha aiutato lei e la sua famiglia in un momento di grande difficoltà, affermando che non è un “bandito di strada”, è “omologo” di La Russa ed Alemanno, avendo scelto “la strada anziché il Parlamento, ma che “... è uno di loro...”». Ecco, il Mondo di Mezzo, appunto.

Mafia Capitale, Carminati e i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive Sabino Labia su “Panorama”. In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo, vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’ sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile il ruolo di Carminati a Roma.

Il furton al caveau della Banca di Roma del Tribunale. E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20 gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e, alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174 cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati; rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi, cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco, ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato, e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.

Il Guercio nella terra dei ciechi e tutte le storie di Mafia Capitale, scrive Mariagrazia Gerina su “Internazionale”. Roma sotto inchiesta per mafia. Non più capitale ma “mondo di mezzo”, dove tutto si rimescola: affari, criminalità e politica. La procura di Roma che un tempo era definita il “porto delle nebbie” ha deciso di riscrivere la storia della città. Cento indagati, i palazzi della politica perquisiti, mille e centoventitré pagine fitte di intercettazioni, di nomi, di mazzette. Da cinque giorni, tutti le compulsano ossessivamente. Sono pagine che fanno a pezzi la politica romana, rischiano di distruggerne la credibilità. Hanno provocato finora reazioni scomposte, dichiarazioni d’innocenza anche da parte di chi non era indagato, dimissioni. La confusione regna. Il Partito democratico (Pd) di Roma è stato commissariato, la regione Lazio ha bloccato tutte le gare d’appalto, in Campidoglio si pensa a una giunta d’emergenza “capitale” con dentro il Movimento 5 stelle per allontanare il rischio di scioglimento del comune. Il presidente del consiglio, Matteo Renzi, invoca: processi subito. Già perché in quel migliaio e passa di pagine c’è di tutto, ma non ci sono ancora condanne o assoluzioni. Eppure da lì bisogna ripartire per diradare le nebbie del mondo di mezzo. Dai nomi, dai soldi, dalle intercettazioni. E da quello che di questa inchiesta, fin qui, è stato scritto. Nel film Johnny Stecchino (1991), il comico toscano Roberto Benigni raccontava la mafia con una battuta: “La piaga di Palermo è il traffico”. Adesso finalmente è chiaro che anche a Roma il problema non sono i varchi elettronici e le multe. C’è voluta una corposissima ordinanza con i suoi 100 indagati e 37 arresti, perché tutti si svegliassero una mattina, il 2 dicembre, per leggere nero su bianco: a Roma c’è la mafia. Ed è arrivata fino al Campidoglio.  Qualche anno fa, sembrava quasi sconveniente nominarla. Si cominciò a parlare di “Quinta mafia” a metà degli anni duemila per il basso Lazio. Mentre a Roma si era già diffuso il contagio. Adesso bisogna fare i conti con la “Mafia Capitale”. Una mafia “originale” e “originaria”, perché nasce a Roma ed è diversa da tutte le altre. Ha dalla sua la fluidità della criminalità romana: armata e per questo temibile. Così la descrive Flavia Costantini, il giudice per le indagini preliminari, che ha dato questo nome alla nuova organizzazione. In cima, Massimo Carminati, il primo nella lista degli arresti, er Cecato o anche il Pirata (per la ferita all’occhio), l’ex militante dei Nuclei armati rivoluzionari, che aggiorna antichi rapporti per tenere in pugno il Campidoglio. Negli anni settanta si muoveva con scaltrezza tra l’estrema destra armata e la banda della Magliana, negli anni duemila è il “Re di Roma”, come lo definisce il giornalista dell’Espresso Lirio Abbate, capace di mettere d’accordo i clan, ma anche di ottenere informazioni da poliziotti infedeli. È lui, secondo Flavia Costantini, il “capo indiscusso di Mafia Capitale”. Carminati può disporre direttamente anche di alcuni dei più stretti collaboratori del sindaco Alemanno, controlla politici e imprenditori, estorsioni e appalti comunali. La storia della nuova consorteria tracciata dal giudice Flavia Costantini coincide con la sua biografia criminale, mutua le sue principali caratteristiche organizzative dalla banda della Magliana, ma “ha avuto la capacità di adattarsi alla particolarità delle condizioni storiche, politiche e istituzionali della città di Roma”. Dietro, c’è perfino una filosofia criminale. Quella ormai nota del “Mondo di mezzo”, da cui prende nome l’inchiesta condotta da Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, coordinata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dallo stesso procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Copyright di Massimo Carminati: “È la teoria del mondo di mezzo compà”, spiega l’ex terrorista in un monologo interrotto appena dagli “embè” e i “certo” dei suoi collaboratori: Ci stanno… come si dice… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello… come è possibile che ne so che un domani io posso stare a cena con Berlusconi… cazzo è impossibile… capito come idea? … è quella che il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra… si incontrano tutti là… allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno… e tutto si mischia… Quando la procura di Roma la intercetta, Mafia Capitale è già approdata alla “fase matura” e ha rimestato parecchio nel mondo di mezzo. A Roma, dal 2008, governa Gianni Alemanno, il primo sindaco della capitale che viene dall’estrema destra. Indagato, assicura di non aver mai conosciuto Carminati. Le intercettazioni raccontano invece i rapporti diretti del Pirata con alcuni dei suoi uomini di fiducia. Con il capo della sua segreteria, Antonio Lucarelli, ex Forza nuova. Con Luca Gramazio, allora capogruppo del Popolo della libertà. Lui e suo padre, Domenico Gramazio, vengono avvistati insieme a Carminati a piazza Tuscolo, alla fine del 2012. Discutono del bilancio comunale, ipotizzano gli inquirenti. Nel luglio del 2013 di nuovo tutti e tre sono a cena dar Bruttone. Un’altra volta è Luca Gramazio da solo a incontrare Carminati, che gli passa della documentazione. Sul campo rom di Castel Romano, ipotizzano i magistrati. Il rapporto più stretto der Cecato è con Riccardo Mancini, un passato di militanza nell’estrema destra, fino al 2012 amministratore delegato dell’azienda che gestisce i beni immobiliari dell’Eur, plenipotenziario del sindaco per i rapporti con gli imprenditori e della sua campagna elettorale nel 2008. “È lui che ce sta a passà i lavori buoni perché funzioni questa cosa”, confida Carminati a un uomo di fiducia. Il “grassottello”, lo apostrofa Carminati. Qualche volta non si comporta bene agli occhi dell’associazione: “Lo so, ma poi… io… gli ho menato, eh?”, rivendica con toni da boss. E se rinvia i pagamenti: “Mo’ ‘o famo strillà come un’aquila sgozzata”. Quando sa che sta per essere arrestato per la presunta tangente su un appalto del trasporto pubblico da 600mila euro, Carminati fa in modo di assicurarsi che non parli: “Se deve tenè er cecio ar culo”. Nel mondo di mezzo tra affari, criminalità e politica non c’è alcuna differenza di stato. Ed è da questa incredibile terza dimensione che spunta l’altro protagonista di Mafia Capitale, Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative rosse romane che diventa sodale del Pirata. Una parabola quasi più sorprendente di quella di Carminati. La sua storia e quella della cooperativa di ex detenuti da lui fondata tocca il cuore della sinistra romana, prima ancora di arrivare a riempire il portafoglio di alcuni esponenti dell’attuale Partito democratico. La cooperativa 29 giugno, oggi una rete di cooperative che conta più di mille dipendenti, prende nome da un convegno sulle misure alternative al carcere che si tenne a Rebibbia nel 1984. Condannato per omicidio all’inizio degli anni ottanta, a Rebibbia Buzzi mette in scena con altri detenuti uno spettacolo, Antigone (“le leggi degli dèi sono più importanti delle leggi degli uomini…”), si lancia in una piccola impresa di imballaggio di pomodori, insomma, si comporta da “detenuto modello”, sotto gli auspici di Miriam Mafai, Laura Lombardo Radice e Pietro Ingrao, che ai pomodori di Rebibbia dedica addirittura un articolo sull’Unità. Uscito dal carcere, fonda la 29 giugno e grazie ad Angiolo Marroni – ala migliorista del partito romano e assessore al bilancio della provincia, suo vero mentore fin dal periodo del carcere – ottiene il primo appalto assegnato con grande urgenza per il taglio dell’erba sulla via Tiberina. Quasi trent’anni dopo, lo ritroviamo mattatore della scena. A capo di una “holding” che dà lavoro a 1.200 persone e fattura 59 milioni di euro. In queste ore spunta anche la sua presenza, poche settimane fa, alla cena romana di finanziamento del Partito democratico, con il segretario Matteo Renzi. Ma nell’inchiesta c’è la foto di un’altra cena, organizzata da Buzzi nel 2010: al suo tavolo siedono il presidente della Legacoop e futuro ministro Giuliano Poletti; il sindaco di Roma Gianni Alemanno; Franco Panzironi, al vertice della municipalizzata dei rifiuti; Luciano Casamonica; il futuro assessore alla casa della giunta guidata da Ignazio Marino, Daniele Ozzimo; e c’è, immancabile, Angiolo Marroni, diventato nel frattempo garante dei detenuti del Lazio, insieme al figlio Umberto, oggi deputato, all’epoca capogruppo dei democratici in Campidoglio. Buzzi ne ha fatta di strada. E ha un nuovo sodale che sa aprirgli, nella Roma governata da Alemanno, anche le porte per lui ancora chiuse. Si chiama Massimo Carminati, il “Re di Roma”. Per Buzzi: l’uomo che portava “i bustoni di soldi a Finmeccanica”. Buzzi ha difficoltà a parlare con il capo segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, per farsi sbloccare un pagamento? “Allora chiamiamo Massimo”, racconta lo stesso Buzzi, “e faccio: ‘Guarda che qui c’ho difficoltà a farmi fa’… i trecentomila euro’”. A quel punto – prosegue il racconto, con tanto di dialoghi mimati – Carminati gli dice: “Va in Campidoglio, alle tre, che scende Lucarelli e viene parlare con te”. “Aò”, chiosa Buzzi, “alle tre meno cinque scende, dice ‘con Massimo, tutto a posto domani vai…’”. “Io c’ho i soldi suoi”, confida in un’altra intercettazione. “I soldi suoi, lui sai, m’ha detto quando… c’aveva paura che l’arrestavano perché se l’arrestava… se parlava quello il prossimo era lui poi…”. E ancora racconta che Carminati gli avrebbe detto: “Guarda qualunque cosa succede ce l’hai te, li tieni te e li gestisci te, non li devi dà a nessuno, a chiunque venisse qui da te… nemmeno mia moglie”. E aggiunge: “Non so’ soddisfazioni?”. Il ruolo che gli inquirenti assegnano a Buzzi nell’associazione guidata da Carminati è quello di organizzatore: “Gestisce, per il tramite di una rete di cooperative, le attività economiche della associazione nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico e negli altri settori oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con metodo corruttivo, si occupa della gestione della contabilità occulta della associazione e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti”. Le cooperative nate all’ombra del Partito comunista al servizio della Mafia Capitale. Ma la scoperta più inquietante dell’inchiesta è quella del “libro mastro” ritrovato in casa della segretaria personale di Buzzi, Nadia Cerrito, che, arrestata, ha già cominciato a parlare. Un libro nero dove Buzzi tiene con precisione la contabilità occulta delle somme pagate e delle persone a cui sono destinate. Argomento da cui il fondatore della 29 giugno sembra ossessionato. Le intercettazioni sono piene di nomi accompagnati da cifre. Pesci grandi e piccoli della politica romana, ma anche funzionari e dirigenti comunali (in casa di un funzionario dell’ufficio giardini sono stati trovati 572mila euro). È in questa contabilità orale che tutto davvero si rimescola. E che Buzzi millanta rapporti anche con molti nomi del Partito democratico. Quello del presidente del consiglio comunale Mirko Coratti, che, indagato, si è dimesso il giorno degli arresti. “Me so’ comprato Coratti”, annuncia Buzzi all’inizio del 2014, che parla di 150mila euro promessi per sbloccare un pagamento relativo al “sociale”. Per incontrarlo si serve del suo capo segreteria, Franco Figurelli: “Gli diamo mille euro al mese”. Altro nome del Partito democratico è quello del consigliere regionale Eugenio Patanè. “Voleva 120mila a lordo”, sostiene Buzzi (siamo a maggio di quest’anno), richiesta che spiega di aver ricevuto per conto suo da un intermediario. “Gli abbiamo dato diecimila per… per carinerie, e finisce lì, non gli diamo più una lira”, chiosa in una successiva conversazione. È seccato Buzzi quando i conti non gli tornano: “A Panzironi che comandava gli avemo dato il 2 virgola 5 per cento, 120 mila euro su 5 milioni… mo’ damo tutti ’sti soldi a questo?”. Parlano di un appalto per la raccolta dei rifiuti. Franco Panzironi, a cui Buzzi paga 15mila euro ogni mese (“l’ho messo a 15 al mese”), è l’ex amministratore delegato dell’azienda per i rifiuti. Altro fedelissimo di Alemanno, finito agli arresti. Socio fondatore della sua fondazione, la Nuova Italia. Sulla fondazione del sindaco Alemanno piovono bonifici. Nel novembre del 2012, in particolare, arrivano 30mila euro dalle cooperative di Buzzi, proprio nel momento in cui il comune approva i provvedimenti di bilancio. In ballo ci sono i soldi per le aree verdi, per i campi rom e per i minori dell’emergenza in Nordafrica. Smista soldi Salvatore Buzzi. E smista anche i voti. L’11 maggio 2013, a pochi giorni dalle elezioni amministrative per il rinnovo del consiglio comunale, Buzzi parla con Gianni Alemanno al telefono. “Allora? Ma è vera ’sta storia del disgiunto?”, s’informa il sindaco uscente. “Facciamo il disgiunto, facciamo. Ozzimo e Alemanno”, conferma Buzzi e ride. “Eh, questo… questo mi onora molto”, replica il sindaco. E Buzzi, ridendo: “Non lo possiamo dire, però. Mi raccomando, eh!”. Daniele Ozzimo, eletto con 5.317 preferenze, diventa l’assessore alla casa nella giunta guidata da Ignazio Marino. Si è dimesso anche lui, come Coratti. Nelle intercettazioni, un sms della sua ex moglie, Micaela Campana, responsabile welfare nella segreteria di Matteo Renzi, al presidente della 29 giugno: “Bacio, grande Capo”. In realtà Buzzi, qualche mese prima, sembrerebbe essersi entusiasmato a un altro scenario: “Noi oggi alle cinque lanciamo Marroni alle primarie per sindaco, eh!”. Poi la storia va diversamente e Umberto Marroni si candida alla camera. Ma il fondatore della 29 giugno è uomo dalle strategie larghe: “Mo’ c’ho quattro… quattro cavalli che corrono… col Pd, poi con la Pdl ce ne ho tre e con Marchini c’è…”. Qualche differenza c’è: “I nostri sono molto meno ladri di quelli della Pdl”, confida. Comunque rassicura: “Io pago tutti… finanzio giornali, faccio pubblicità, finanzio eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti”. Specie quando c’è la campagna elettorale per le comunali: “Questo è il momento che pago di più…”. Quando Alemanno viene battuto da Ignazio Marino (sui giornali è spuntato un finanziamento anche alla sua campagna elettorale), non si arrende: di amici in giunta ne conta sei su nove, ma non fa i nomi. “Dacce ’na mano perché siamo messi veramente male con la Cutini”, si lamenta dell’assessore alle politiche sociali (quota Sant’Egidio) con il vicesindaco Luigi Nieri, di Sinistra ecologia libertà, con cui invece mostra un buon rapporto. Mentre l’ex segretario del Partito democratico romano, ora commissariato da Matteo Orfini, Lionello Cosentino lo considera “proprio un amico nostro”. In Campidoglio Buzzi cerca incontri, sponsorizza nomine (come quella di Walter Politano, che Marino ha subito rimosso da responsabile della trasparenza). E s’interroga anche su come “legare a sé” il giovane di punta nel gabinetto del sindaco, Mattia Stella (che non è indagato), già segretario del presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro. Sono giorni frenetici, in cui tentare di tessere una nuova tela: “Bisogna vendersi come le puttane”, gli suggerisce Massimo Carminati, il mondo di mezzo. Buzzi da una parte, Carminati dall’altra. In mezzo i politici che si mettono al loro servizio. A leggersi le pagine dell’ordinanza, sembra proprio che Mafia Capitale voglia prendersi tutto: la gara d’appalto per la raccolta differenziata, quella per la manutenzione delle piste ciclabili, la nevicata del 2012, che mise in ginocchio la città governata da Alemanno, e la raccolta delle foglie. Ma anche cemento, affari nell’edilizia. A Roma, in questa città dove niente funziona, dopo la lettura di “Mondo di mezzo”, niente è più come prima. Neppure le foglie che ostruiscono i tombini. Certo, sotto tutta un’altra luce rispetto alle manifestazioni delle scorse settimane, si legge la vicenda dell’accoglienza dei migranti e dei campi rom nella capitale. Due settori su cui l’associazione punta molto. Nelle intercettazioni si parla in particolare del campo rom di Castel Romano, che è stato già costruito, in un mese e mezzo. “A me ’na grande mano per quel campo nomadi me l’ha data Massimo perché un milione e due, seicento per uno, chi cazzo ce l’ha”, rivela Buzzi. Che poi briga perché i fondi siano previsti nell’assestamento di bilancio. Ma è sulla vicenda dei migranti che Buzzi punta ancora di più. Detto con le parole del presidente della 29 giugno: “Tu c’hai un’idea di quanto ce guadagno con gli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. E il suo “socio”, Sandro Coltellacci, presidente della cooperativa Formula sociale: “Qui stiamo a parlà della cooperazione sociale a Roma”. Ed è a proposito di immigrati che spunta la figura di Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto quando il sindaco era Walter Veltroni. Odevaine è uno dei nomi più sorprendenti dell’inchiesta Mondo di mezzo. L’uomo a cui Veltroni aveva affidato tutta l’area della sicurezza, dalle occupazioni delle case ai campi rom, chiamato poi da Nicola Zingaretti a coordinare la polizia e la protezione civile della provincia. Anni dopo lo ritroviamo al fianco di Salvatore Buzzi, che lo vorrebbe capo di gabinetto del sindaco Marino: “Lo sai a Luca quanto gli do? Cinquemila euro al mese… ogni mese…”. L’interesse di Buzzi è legato all’incarico che Odevaine, consulente anche del consorzio che gestisce il Cara di Mineo, ricopre presso il Tavolo di coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale, come rappresentante dell’Unione delle province italiane. Gli inquirenti parlano addirittura di un “sistema Odevaine”. “Cioè chiaramente stando a questo tavolo nazionale… e avendo questa relazione continua con il ministero… sono in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… da Mineo… vengono smistati in giro per l’Italia…”, spiega Odevaine al telefono. “Se loro c’hanno strutture che possono essere adibite a tavoli per l’accoglienza… da attivare subito in emergenza… senza gara… le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro”. Ora le gare e gli appalti si fermano. In Campidoglio, come in regione (anche lì, Buzzi millanta contatti e un uomo a busta paga per tenere i rapporti con il presidente Nicola Zingaretti). Il mondo di sopra è congelato. Il mondo di sotto, in carcere. Quello delle cooperative pulite è sconvolto. Nella politica romana, sono in tanti a tremare. Alle volte Carminati sembra proprio il Guercio in una terra di ciechi.

Mariagrazia Gerina è una giornalista freelance. Scrive per l’Espresso e per il Fatto Quotidiano. Ha lavorato per molti anni all’Unità, occupandosi soprattutto di Roma e di Campidoglio. Con Marco Damilano e Fabio Martini ha scritto Walter Veltroni. Il piccolo principe (Sperling & Kupfer 2007).

Mafia Capitale. La lunga scia di sangue e affari sporchi che avvolge Roma da 60 anni, scrive Gianni Rossi su “Articolo 21”. La Casta politica italiana non vuole proprio fare i conti con la storia patria. Dall’analisi del substrato capitolino, a partire dal Dopoguerra ad oggi, si possono capire le origini di “Mafia capitale” e il perché  dell’improntitudine e dell’incapacità della classe politica di qualsiasi colore di sottrarsi all’abbraccio tentacolare della Piovra.

Roma “Capitale corrotta = Italia nazione infetta”. A 60 anni di distanza dalla prima grande inchiesta giornalistica sulla speculazione edilizia a Roma e gli intrecci con la finanza vaticana e il “generone capitolino” (pubblicata sull’Espresso l’11 dicembre 1955, a firma di Manlio Cancogni), siamo ancora ad interrogarci sulle cause e la diffusione di quel virus che ha nel suo DNA un intreccio perverso tra malaffare, politica e “poteri forti” dello stato. Quel “generume”, come lo ribattezzò il grande Giorgio Bocca, che viveva e vive all’ombra del Cupolone, che si ritrova in circoli esclusivi, che frequenta salotti di anziane “signore” vedove di esponenti della destra romana, che si genuflette nelle ovattate stanze vaticane, che sfoggia abbigliamenti d’altri tempi per omaggiare gli ospiti illustri nei cortili vaticani come “maggiordomi d’ancien regime”, che si divide solo allo stadio Olimpico  tra le due opposte tifoserie, che sopravvive alle intemperie economico-politiche e ai rivolgimenti delle amministrazioni capitoline, continuando a mungere  affari e stringere alleanze. Quel generone  comprendeva un tempo i rampolli della nobiltà decaduta, “papalina e nera”, esponenti di primo piano del mondo politico e governativo, specie democristiano, massoni più o meno “coperti”, ecclesiasti di peso nella Curia, alti ufficiali, dirigenti dei servizi segreti, palazzinari, vertici di alcuni quotidiani. Erano gli anni del “Sacco di Roma”, quando i politici del centrosinistra di allora e gli affaristi in corsa per cementificare ovunque, in barba alle leggi urbanistiche, dovevano comunque passare per le stanze cardinalizie della Società Generale Immobiliare, il nucleo dorato della finanza vaticana, che negli anni Settanta passò nelle grinfie di Michele Sindona. A quel generone, dalla fine degli anni Settanta si è aggiunta una “Cupola” criminale, dalle fattezze mafiose, ma che ha tratto spunto nei modi di operare dai primi e vi ha aggiunto una spregiudicatezza e una efferatezza sconosciuta. Una Cupola che ha di fatto soppiantato i modi felpati di un tempo con l’arroganza e la violenza da “Romanzo criminale”. Ma a bloccare ogni indagine giornalistica e a stroncare qualsiasi denuncia c’era allora la Casta giudiziaria raccolta nel “Porto delle nebbie” del Palazzaccio, che veniva in soccorso alla classe politica e affaristica del momento, “sopendo e troncando”, fino alle avocazioni e ai trasferimenti in procure minori.

1978 – 1979: gli anni della “svolta”. Un giorno forse si scopriranno i fili che tennero insieme nel ‘78 personaggi delle Brigate Rosse, esponenti della Banda della Magliana, apparati deviati dei servizi e massoni “piduisti” durante e dopo il rapimento e l’uccisione del presidente della DC, Aldo Moro, l’uomo dell’apertura governativa al PCI. Una brutta fine la fece anche il giornalista Mino Pecorelli, perché si vantava si saperne molto e di rivelare nomi e cifre, che avrebbero squarciato il velo dell’ipocrisia che coprivano gli intrecci perversi. Moro e Pecorelli furono dunque le vittime ancestrali che segnano il confine della “Terra di mezzo”: il punto di convergenza e di non ritorno tra malavita organizzata, ambienti dell’estrema destra terroristica e del brigatismo rosso, settori dei servizi deviati, massoneria coperta, mondo degli affari e della politica che conta. Qualcuno che ne sapeva più degli altri è purtroppo morto, portando con sé i segreti inconfessabili di quel “delitto di stato”. Si era battuto per liberazione di Moro, aveva perso e si era dimesso dal governo. Più tardi salì al Colle, con un accordo bipartisan e un’unanimità mai più ripetuta. Le sue carte e le sue registrazioni non sono mai state ancora lette né decifrate. E forse non sarà sufficiente neppure aprire gli “armadi della vergogna” di Forte Braschi per decrittarne i segreti tra gli impolverati faldoni. Ma una concomitanza salta agli occhi: da quel periodo, i reduci della Banda della Magliana estendono i loro tentacoli mafiosi e, nonostante sanguinarie vendette personali ed alcune coraggiose indagini, il sistema di quei balordi si è andato affermandosi e incuneandosi negli sulla vita politica e affaristica della Capitale. Durante il periodo epico e di rottura col passato della seconda metà degli anni Settanta, grazie alla Rinascita democratica, sociale e culturale avviata dalle “amministrazioni rosse” con i sindaci comunisti (Argan, Petroselli e Vetere), Roma sembrava aver chiuso per sempre con l’epoca dei palazzinari, con le periferie “accattone” (850 mila abitanti reclusi in quartieri fuorilegge per il Piano Regolatore, senza servizi primari e trasporti), con la malavita rozza e “pastasciuttara”. La città fu restituita ai suoi abitanti, le periferie divennero parte integrante del sistema urbanistico, l’integrazione generò un circuito virtuoso di convivenza e di drastica diminuzione dell’allarme sociale e criminale. Ma sotto, sotto, covavano i prodromi degli epigoni del “Signore degli anelli”.  In realtà i “Signori delle tenebre”  cominciavano ad uscire dal mondo dei morti per conquistare la “Terra di mezzo” e volare verso le vette rarefatte di Valinor, utilizzando i mostri della “Terra di sotto” per stroncare qualsiasi opposizione. Una mitologia, creata dallo scrittore inglese Tolkien, cara ai giovani della destra più nostalgica e violenta che, abbandonati i pestaggi  e gli assalti ai “rossi”, negli anni Ottanta s’infilano i golfini di cachemire, indossano cappotti loden e si introducono negli ambienti del generone romano.

Dalla “corruzione partitica a quella parcellizzata”.Con gli anni Ottanta, la rottura della non-belligeranza tra il PSI e il PCI, l’ascesa di Craxi e l’arrivo sulla scena affaristico-politica dei nuovi “cavalieri bianchi”, si apre la voragine di Tangentopoli, che poi passerà dai finanziamenti occulti ai partiti, a quelli ben più disseminati dei singoli esponenti. E qui trovano spazio anche le “larghe intese” tra destra e sinistra: tutti cercano di guadagnarci qualcosa, perché “tengono famiglia” e perché hanno come mito di riferimento il mondo virtuale creato dai media berlusconiani e dall’affermarsi di valori consumistici decadenti. I partiti tradizionali “ di massa”, con la cosiddetta crisi delle ideologie (in realtà con l’affermarsi dell’unica ideologia dominante, questa capitalista- liberista) si riducono in partiti elettoralistici, buoni per condurre le campagne di propaganda al servizio di leader “padri padroni”. Scompare la selezione dei quadri intermedi, la lunga trafila interna, per immettere personale politico adeguato ai ruoli e agli incarichi istituzionali, locali e nazionali. L’importante è conquistare gruppi di voti nei settori più “sensibili”, grazie alle amicizie inconfessabili, ai finanziamenti sottotraccia, alle tessere gonfiate. Non importa con chi e in che modo allearsi in questo pantano melmoso, basta far eleggere uomini e donne “capaci a disobbligarsi” con i veri padroni della città. Si privilegiano i legami familiari, i circoli e i salotti che contano, alcune categorie lavorative e imprenditoriali, si ricorre al voto di scambio/posti di lavoro nei servizi pubblici, alle promesse di nuovi appalti sempre più gonfiati. Le Primarie e le Parlamentarie del PD sono state le occasioni per imporsi da parte di questo sistema melmoso negli ultimi anni: personaggi politici quasi sconosciuti agli elettori ai vari circoli, che venivano “bloccati” e posizionati ai primi posti, a danno di esponenti noti da tempo e dal passato trasparente; carriere politiche inventate all’ultimo minuto, per arricchire curricula inconsistenti; trascorsi inconfessabili cancellati, di chi nel volgere di pochi anni era passato dalla destra finiana, a quella berlusconiana, per poi entrare nel PD. Alle forti ascendenze di Walter Veltroni e Goffredo Bettini, da una parte, e Massimo D’Alema, dall’altra, che per decenni hanno scelto e imposto i loro candidati sia dentro il partito che nelle amministrazioni locali, si sono affiancati i “nuovi padroni” di Roma, che hanno generato i “mostri” della sinistra che potevano gemellarsi con i “mostri” della destra. Nel frattempo però, qualcosa di importante era cambiato a Roma: il vecchio “Porto delle Nebbie”, il fortilizio di Piazzale Clodio si era come aperto alla luce del sole. Aria nuova stava entrando tra gli uffici tetri del Palazzaccio, proprio sotto la “collina del disonore”, quella di Monte Mario, simbolo negli anni Cinquanta/Sessanta della prima inchiesta giornalistica scandalistica dell’Espresso sulle speculazioni edilizie. E’ come se il cerchio si chiudesse attorno al “Mondo di Mezzo”, grazie ad un pool di giudici, guidati da un binomio esperto nella lotta alla mafia e alla ‘ndrangheta, impersonato dal Procuratore Capo Giuseppe Pignatone e dal suo Aggiunto Michele Prestipino. Se l’opinione pubblica, i media e i corpi intermedi della società sapranno creare attorno a loro una rete di protezione, forse allora per la prima volta, anche la Casta dovrà operare per “purificarsi”. Ma se ai primi segnali di qualche errore giudiziario, più o meno formale, ci si trovasse di fronte al solito coro mediatico del “garantismo” ad oltranza, che già fece arenare l’inchiesta di Mani Pulite, allora i “Pupari” della Terra di Mezzo e gran parte della Casta potranno cantare vittoria: autoassolversi. E l’Italia sprofonderà ancora di più non solo nelle classifiche di Transparency International (oggi al 69° posto su 177 con 43 punti su 100), ultima tra i 28 paesi dell’UE con la Romania, e tra gli ultimi paesi del club esclusivo del G20. Ma soprattutto saranno i mercati finanziari internazionali e le maggiori cancellerie del mondo a condannarci alla decadenza, a causa proprio della corruzione politica, del finanziamento occulto dei partiti, il controllo sui grandi appalti pubblici e il carsico fenomeno dell’evasione fiscale.

Mafia Capitale, Ancora una volta la magistratura commissaria la politica italiana, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Se restiamo inchiodati a discutere di 416 bis, a proposito dell’ordinanza “Mafia Capitale” che ha letteralmente sconquassato la vita politica e amministrativa di Roma e del Lazio, cioè se la fattispecie dell’associazione di tipo mafioso contestata dalla procura di Roma sia corrispondente o no al vasto fenomeno di corruzione che ha provocato arresti, indagini e dimissioni a catena, non ne usciamo vivi, schierati in trincea di opinione da una parte o dall’altra. Certo, è una battaglia di garanzia e di diritti, ma questo non è tutto. Non ci vuole la zingara per immaginare – come ha già scritto il direttore di questo giornale – che i pubblici ministeri e il procuratore capo Pignatone sapessero benissimo quale valanga stessero provocando. Quale valanga politica. Non solo l’evidente questione se il Comune di Roma vada sciolto e commissariato, dato che è “quasi giurisprudenza” – quanto meno è la teoria di Gratteri, procuratore di Reggio Calabria, non proprio l’ultimo in merito – che basti anche solo la “infiltrazione mafiosa” di un assessore perché tutto il consiglio vada sciolto. E dato che questa teoria è stata largamente applicata, al Sud almeno, non si capisce perché Roma dovrebbe godere di uno statuto privilegiato. E l’altro versante, quello che lambisce il ministro Poletti, in quanto già capo della Lega delle coop, anche se non c’è alcuna sussistenza di reato né tanto meno alcuna indagine in merito, non è un effetto collaterale da meno. Sarà un effetto mediatico, ma di questo campa la politica. D’altronde, ci si obietterà, non ci più sono “santuari” inaccessibili e il tribunale di Roma, come altri, non è più un “porto delle nebbie” dove tutto si insabbia, e è meglio così. Il punto perciò è che l’indagine “Mafia Capitale”, al di là degli aspetti folckloristici sul “Pirata o “er Cecato” Carminati e su tutta la mole di intercettazioni che lasciano trapelare avidità e pochezza nel mondo dell’amministrazione della cosa pubblica, è soprattutto una “cosa politica”. L’indagine “Mafia Capitale” è una questione squisitamente politica. Era il 17 febbraio 1992 quando arrestarono Mario Chiesa, socialista, che ricopriva la carica di presidente del Pio Albergo Trivulzio a Milano, e che venne colto in flagrante mentre accettava una tangente di sette milioni di lire. Era l’inizio di Tangentopoli. Il “mariuolo” – come lo definì Bettino Craxi – Mario Chiesa sarà il primo tassello di un domino che getterà giù l’impianto politico della Prima repubblica. È una storia che tutti sanno. Si ricordano meno alcuni caratteri della vita politica di allora, in senso sociale, ampio, di partecipazione. Alle elezioni politiche del 5 aprile 1992 – poco dopo l’arresto di Chiesa, perciò – votarono per la Camera in 41 milioni 479.764, cioè l’87,35 per cento degli italiani; e per il Senato, in 35 milioni 633.367, cioè l’86,80 per cento. Alle elezioni politiche del 1994, quando ormai Tangentopoli era un diluvio, un giudizio universale, e Berlusconi era sceso in campo votarono per la Camera in 41 milioni 546.290, cioè l’85,83 per cento; e per il Senato, votarono in 35 milioni 873.375, cioè l’85,83 per cento. Sono dati dell’archivio del ministero dell’Interno, e sono numeri incommensurabili rispetto la partecipazione attuale al voto. Il sindaco Marino, per dire, che di questo stiamo parlando, è stato eletto con il 45,05 per cento degli aventi diritto di voto. Meno di uno su due romani andò a votare. Lo sconquasso politico di Tangentopoli non provocò il vuoto, o quanto meno il vuoto della po-itica che non esiste in natura fu colmato da Berlusconi e dalla Lega, mentre i grandi partiti di massa ancora tenevano. Aggiungo un paio di dati: nel 1991 gli iscritti al Pci/Pds sono 989.708, quasi un milione; l’anno prima ne aveva un milione 264.790 e nel 1987 un milione e mezzo. Insomma, siamo dopo la caduta del muro di Berlino e c’è sconcerto, ma il “partito comunista più forte dell’occidente” tiene ancora botta. Se li confrontiamo, questi numeri – tratti dalle ricerche dell’istituto Cattaneo – con la sconfortantissima polemica tutta intestina sugli iscritti attuali del Pd, che non arrivano nemmeno ai trecentomila, si capisce di costa sto parlando. E gli iscritti alla Democrazia cristiana, sempre nel 1991, erano un milione 390.918, mentre l’anno prima ne aveva sopra i due milioni. Ora, la differenza evidente tra l’indagine “Mafia Capitale” con altri episodi di corruzione della cosa pubblica, tanto per dire il “caso Fiorito” che pure portò alle dimissioni della giunta Polverini, con il suo contorno di feste da Trimalcione e sprechi privati giustificati da pizzini volanti, sta nel carattere di “sistema”: mentre il caso Fiorito, che pure riguardava una pletora di consiglieri che allegramente spendevano i lauti soldi dei loro stipendi ha aspetti erratici e casuali – e peraltro molti si appellavano alle larghe maglie di discrezionalità che la legge offriva loro –, quello che risulta e risalta dall’indagine della procura di Roma è un “sistema” di gestione di flussi finanziari, con la triangolazione tra soggetti pubblici, soggetti privati, cooperative sociali. È qualcosa, insomma, che somiglia molto più a una Tangentopoli che a una Parentopoli. L’anomalia, insomma, è quel signore che teneva in casa centinaia di migliaia di euro “bloccati”: gli altri spendevano, compravano case, automobili, affittavano ville, insomma alimentavano e drogavano il Pil della città, con l’economia criminale. Certo, Tangentopoli era il “sistema Italia” e qui parliamo di un “sistema Roma”. Però, la valenza politica di Roma Capitale è sempre stata tale da avere un risvolto nazionale. Che sia implicato o meno un ministro. La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali di qualche giorno fa, e si capisce di cosa stia parlando. Il professor De Rita è intervenuto più volte recentemente a proposito del declino dei “corpi intermedi” – della politica, delle istituzioni – e della fragilità complessiva che questo comporterebbe nel sistema Paese, un vuoto non sostituibile con il verticismo e l’avocazione verso il centro che il presidente del Consiglio sembra privilegiare. Il fatto è che il renzismo non sembra coprire il vuoto della partecipazione politica, anzi all’opposto sembra incassarne gli effetti. Non è solo una caduta di stile la battuta arrogante di indifferenza rispetto la scarsa affluenza alle urne. Forse è vero che la magistratura vuole mostrare di poter tenere sempre sotto schiaffo la politica, qualsiasi. O forse, in un certo senso l’indagine della procura di Roma di Pignatone sembra dare una mano al renzismo. È un’indagine rottamatoria. E di lunga durata. E in quanto tale ne prolunga la vita, lo rende ineluttabile. Proprio l’opposto di Tangentopoli. E la risposta politica è: si commissaria il partito, si avocano a sé le decisioni. Se sarà il caso, si procede anche sfidando le urne a livello locale: si può vincere anche con il trenta per cento di voti, o pure meno. Forse, non è di questo che ha bisogno Roma. E neppure il Paese…

Bentornati nel “porto delle nebbie”, scriveva già Ferruccio Sansa su Il Fatto Quotidiano del 13 agosto 2011. Il “porto delle nebbie”. Il Tribunale di Roma si porta addosso il titolo conquistato tra gli anni ’70 e ‘90. Sospetti, indagini contese con altri tribunali, dalle schedature Fiat allo scandalo dei petroli, passando per i fondi neri Iri e la Loggia P2. Un elenco che tocca anche Tangentopoli, con le inchieste romane che, per usare un eufemismo, non produssero gli effetti di quelle milanesi. I magistrati romani oggi ripetono: “Non siamo più il porto delle nebbie”. E, però, ecco il procuratore aggiunto Achille Toro (ormai ex), che patteggia una condanna a 8 mesi per rivelazione di segreto d’ufficio per l’inchiesta G8. Ecco il procuratore Giancarlo Capaldo sotto inchiesta del Csm per la cena con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e il suo braccio destro Marco Milanese, all’epoca indagato a Napoli. Così a qualcuno tornano in mente inchieste approdate a Roma per finire archiviate o apparentemente dimenticate. Pare finita nel nulla l’inchiesta arrivata nella Capitale su Alfonso Pecoraro Scanio, ministro delle Politiche agricole nel governo Amato e dell’Ambiente nell’ultimo Prodi. La Camera ha negato al tribunale dei ministri l’utilizzo delle intercettazioni del pm Henry John Woodcock. Eppure nella richiesta del Tribunale dei ministri si legge: “Dalle intercettazioni emerge che l’imprenditore Mattia Fella si è interessato al reperimento di una sede per una fondazione che sarebbe stata intitolata al ministro nonché all’acquisto per conto del ministro, di un terreno nei pressi di Bolsena dove quest’ultimo avrebbe dovuto realizzare un complesso agrituristico dotato di piscina ed eliporto. Infine, dalle telefonate risulta che il ministro ha sempre manifestato disponibilità a esaudire le richieste del Fella”. Fella ambiva a stipulare convenzioni con il ministero e con l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e alla nomina del fratello Stanislao in una commissione ministeriale, il ministro in cambio avrebbe ottenuto “numerosi spostamenti con un elicottero pagato da Fella per 120 mila euro; numerosi viaggi-soggiorno in Italia e all’estero per decine di migliaia di euro; l’acquisto di un terreno – pagato 265 mila euro da Fella – per l’edificazione di un agriturismo biologico e di una villa con piscina ed eliporto, destinato al ministro”. Pecoraro Scanio ha sempre negato ogni addebito. Archiviato anche il fascicolo sugli appalti per i centri di accoglienza che vedeva tra gli indagati Gianni Letta, accusato di abuso d’ufficio, turbativa d’asta e truffa aggravata per aver favorito, questa la tesi dei pm, imprese legate al gruppo “La Cascina” vicino a Cl, a Giulio Andreotti e al segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone. L’indagine parte da Potenza: Woodcock lavora su una presunta organizzazione specializzata nell’aggiudicarsi commesse pubbliche truccando le gare. Il 6 agosto 2008 Angelo Chiorazzo (dirigente Cascina) è a Palazzo Chigi. Letta chiama il capo dell’immigrazione al ministero, il prefetto Morcone. Due giorni dopo Chiorazzo torna alla carica. Dopo il secondo incontro, Letta richiama Chiorazzo: “Il prefetto di Crotone mi dice che vuole che lei vada o lunedì o martedì… perché poi lui va a Cosenza dove è stato trasferito e dice: "E’ meglio che lascio le cose fatte". Allora, la aspetta in Prefettura… eh… a nome mio”. Ma l’inchiesta si concentra anche su altri appalti, come quello da un milione e 170mila euro per il Cara di Policoro (Matera), aperto a tempo di record e affidato a società legate ai Chiorazzo. Secondo la Procura di Roma, però, in questa vicenda non ci sarebbe nulla di penalmente rilevante. Il pm Sergio Colaiocco nell’aprile 2009 ha fatto archiviare l’accusa di associazione per delinquere contro Letta e Morcone. A suo avviso, lo stato d’emergenza legittimava tutto, quindi anche le altre accuse dovevano cadere. Secondo Woodcock, invece, l’emergenza non farebbe venir meno l’obbligo di chiedere 5 preventivi prima di assegnare un appalto milionario con un paio di telefonate. Ma alla fine anche il pm di Lagonegro, cui l’inchiesta era stata affidata per competenza, archivia. Nel dimenticatoio pare finita anche la vicenda in cui era indagata Daniela Di Sotto, all’epoca signora Fini. Cioè moglie del vice-premier Gianfranco. È il 19 aprile 2005 quando gli investigatori della Procura di Potenza registrano una telefonata imbarazzante: “Io sono andata a sbattermi il culo con Storace”, allora presidente della Regione Lazio. A parlare era appunto Daniela Fini. Il suo interlocutore era l’allora segretario di suo marito Francesco Proietti, poi divenuto deputato. Lo “sbattimento” di Daniela con Storace secondo l’accusa avrebbe prodotto risultati. Scrive Woodcock: “Proietti e Di Sotto fanno esplicitamente cenno all’interessamento profuso dalla donna presso Storace affinché la clinica Panigea – di cui Di Sotto era socia – operasse in regime di convenzione l’esecuzione di esami costosi”. La richiesta della Panigea è dell’11 febbraio, il parere favorevole Asl è del 14, la delibera della giunta è del 18. Basta una settimana. Ma a beneficiare della convenzione non saranno Di Sotto e Proietti, bensì la loro socia Patrizia Pescatori. Cognata di Gianfranco Fini. Il pm Sergio Colaiocco ha anche archiviato un’inchiesta (partita da De Magistris, prima di approdare a Roma) sull’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella. Al centro dell’indagine i rapporti tra l’esponente politico e l’imprenditore Antonio Saladino. Ma la Procura di Roma non condivide le accuse: Mastella non avrebbe compiuto i reati contestati nell’inchiesta Why Not almeno nel periodo in cui era ministro. Non emergono, secondo il pm, “elementi diversi dall’asserita esistenza di rapporti di amicizia tra Saladino e Mastella” e quindi si esclude che vi siano “fonti di prova che depongano per la sussistenza di reati commessi a Roma”.

Procura romana porto delle nebbie. Mele: "parlarne male è una moda", scriveva Nese Marco su Il Corriere della Sera (25 settembre 1992). Dicono che nel "manuale Cencelli" (la guida pratica per la spartizione dei posti di potere) l'incarico di capo della Procura di Roma equivalga a due ministeri. E si può ben capire. Il più importante ufficio italiano della pubblica accusa ha gli occhi direttamente puntati sul "Palazzo". Dicono che talvolta i suoi sguardi verso i potenti siano troppo benevoli. I maligni insinuano che proprio adesso ne abbiamo una prova sotto gli occhi. I giudici milanesi hanno fatto arrestare sette alti papaveri romani. Dovevano muoversi quelli di Milano? A Roma non si erano accorti di nulla? Domande più che legittime. Però, almeno stavolta, non si può dare la croce addosso ai magistrati della capitale. La loro parte contro i pubblici amministratori corrotti la stanno facendo. Hanno messo dentro assessori, industriali, personaggi di grosso calibro. La "Tangentopoli" romana coinvolge finora almeno ottanta inquisiti. "Facciamo meno chiasso dei milanesi, ironizza un sostituto procuratore, per questo le nostre inchieste passano inosservate". C'è anche chi polemizza per i sette arresti ordinati da Milano. "Vedremo, dicono alla Procura, se gli episodi contestati si sono svolti al Nord o nella capitale. Se la corruzione e il versamento delle mazzette sono avvenute a Roma, i milanesi dovevano semplicemente passarci le carte per una questione di competenza". Accetta di parlare anche il capo della Procura, Vittorio Mele, che si è insediato da quasi tre mesi. "Non abbiamo riguardi per nessuno. Bisogna considerare, però, che in materia di pubblica amministrazione le indagini non sono semplici. Ci vuole un episodio. Come è capitato a Di Pietro con Mario Chiesa. Quando mi sento dire: voi che fate, non vi muovete?, mi viene da considerare che gli episodi su cui indagano i colleghi milanesi si riferiscono agli anni Ottanta. Allora potrei dire: cosa facevano loro mentre la corruzione si diffondeva, e cosa facevano gli imprenditori? Non lo dico in tono polemico, ma solo per spiegare che non è facile smascherare i corrotti. Soprattutto se non si ha la fortuna di trovare persone disposte a parlare". A Milano questa fortuna l'hanno avuta. "Ne sono felice per loro, dice Mele, ma anche noi stiamo facendo la nostra parte. Io sono arrivato qui da poco, ma in passato, ricordo che un'inchiesta della Procura romana ha fatto cadere la giunta del sindaco Signorello. E oggi, per citare solo alcuni casi, abbiamo in piedi inchieste sugli assessori Lamberto Mancini, Arnaldo Lucari, Carlo Pelonzi. Ma io voglio perfezionare le indagini. Sto pensando a un pool di sostituti solo per le inchieste sulla pubblica amministrazione". Il nuovo Procuratore vuole cancellare anche la brutta nomea di Roma affossatrice di scandali. Alla richiesta di strappare l'inchiesta sugli ex ministri Bernini e De Michelis ai magistrati veneziani ha risposto no. Ha rinunciato a sollevare conflitto di competenza. "Non volevo che domani mi potessero accusare, dice Mele, di essermi intromesso allo scopo di insabbiare. Eppure, a ogni occasione rispunta la storia della Procura romana che è un porto delle nebbie. La verità è che parlare male di questo ufficio è una moda". Adesso, forse, le cose sono cambiate. Ma in passato le accuse alla Procura romana non erano fantasie. E' successo di tutto in quei piccoli uffici male illuminati. All'inizio degli anni Settanta erano state registrate le conversazioni telefoniche tra il boss mafioso Frank Coppola e Natale Rimi, figlio di un capomafia, che si era inserito alla Regione Lazio. Quando gli inquirenti andarono ad ascoltare i nastri, scoprirono che erano stati manomessi, tagliati e ricuciti. Poi cominciò l'epoca dei processi strappati ad altre città. Il primo fu quello per la strage di piazza Fontana, fatto spostare a Roma perchè nello stesso giorno erano esplose bombe anche nella capitale e questo doveva considerarsi il segno di un unico disegno eversivo. Stessa sorte subì l'inchiesta sui petroli. Quella avviata a Genova. La conducevano tre giovani pretori che vennero definiti "d'assalto" perchè avevano osato mettere sotto torchio alcuni personaggi importanti. Anche nelle inchieste sul terrorismo Roma fece la parte dell'arraffatutto. A Milano avevano ordinato l'arresto di Franco Piperno. A Roma fecero altrettanto, contestando però un reato più grave, il delitto Moro. Fra mille polemiche, l'inchiesta passò a Roma, ma le accuse vennero subito smontate. Ci fu un tempo in cui i Procuratori della capitale lasciavano il loro ufficio con un marchio indelebile. A Giovanni De Matteo è rimasta la brutta fama di aver favorito i fratelli Caltagirone, palazzinari legati ad Andreotti. Il suo successore, Achille Gallucci, è passato alla storia per il caso dei cappuccini. A suo avviso, ne bevevano troppi al Consiglio superiore della magistratura, un segno di spreco, che Gallucci bollò come peculato. I maligni dissero che lo scopo di Gallucci era solo quello di far cadere il Csm. E tutte le forze politiche ammisero che si trattava di uno scontro a carattere istituzionale. Un'operazione oscura, mentre divampava lo scandalo P2. Gallucci è stato forse il più chiacchierato Procuratore. Non c'è caso scottante, non c'è scandalo politico-finanziario che non sia passato per le mani di Gallucci, dai fondi neri Montedison, all'Italcasse, alla Sir, alla Rosa dei Venti, alle banche, al caso Calvi. Tutti gli episodi più infelici e sinistri della nostra storia recente.

Mafia Capitale, parlano 2 sbirri: “Nel 2003 avevamo scoperto tutto ma siamo stati bloccati.” Da chi? Si chiede Infiltrato.it. Ieri sera, 4 dicembre 2014, ad Anno Uno, è andato in onda una clamorosa video-denuncia, in cui 2 ex poliziotti della Mobile di Roma ha raccontato la loro assurda vicenda: “Nel 2003 avevamo già scoperto e denunciato Mafia Capitale. Ma siamo stati bloccati.” Da chi?, chiede il cronista. Ecco la risposta, che lascia a bocca aperta. Stefano Bianchi ha incontrato ad Ostia Gaetano Pascale e Piero Fierro, ex poliziotti della squadra mobile di Roma. I due agenti già lo scorso anno avevano rivelato al cronista de ilfattoquotidiano.it Luca Teolato gli insabbiamenti delle inchieste da loro condotte. Nel 2003 Pascale aveva messo le mani sulla mafia di Ostia, prima che lo facesse l’inchiesta “Nuova Alba”. Ma è stato fermato da qualcuno. “Questa cosa ha favorito i narcotrafficanti” – dichiara Fierro – “La prendo con ironia ma bisognerebbe scappare da ‘sto Paese. Ho fatto un giuramento: essere fedele alla patria. e da allora ho preso solo calci in faccia”. E rivela: “Nel 2003 eravamo arrivati alle stesse conclusioni del 2013. C’è stato un solo problema: c’hanno fermato. La mafia e la politica dividono lo stesso territorio: o si mettono d’accordo o si sparano. Voi avete mai visto un politico sparato a Roma?”. E aggiunge: “A Roma c’era Pippo Calò. Secondo voi una volta morto lui hanno tirato giù la saracinesca e scritto ‘chiuso per ferie’. Ho cercato solo di fare il mio dovere: lo sbirro. Ero pagato per questo. poco, ma per questo”. Come raccontava anche Repubblica, “la parola fine alla mafia di Ostia-Roma poteva essere scritta 10 anni fa. Perché quei nomi e cognomi eccellenti della malavita, quei traffici di droga e quei giri di armi, quell'impero economico su cui stavano mettendo le mani i clan (e che fanno parte anche dell’inchiesta Mondo di Mezzo, ndr), erano sotto la lente di un pool di investigatori a cui qualcuno recise le ali. Piero Fierro, agente pluridecorato della polizia di frontiera e Gaetano Pascale, eccellente investigatore della Narcotici alla Mobile, insieme ad altri cinque colleghi erano a un passo dalla verità. Ma qualcuno decise di stroncare la loro carriera, di metterli fuori dai giochi. E oggi i sette poliziotti sono in pensione, con cause per mobbing ancora aperte (seguite dall'avvocato Floriana De Donno) e procedimenti penali che li hanno trascinati da un giorno all'altro nella bufera, archiviati.” Lo Stato ha fermato, deliberatamente, alcuni dei suoi agenti migliori per proteggere i mafiosi. E allora le domande che ci poniamo sono: chi li ha fermati? Chi si voleva proteggere?

Gen. Antonio Pappalardo su “Agora Magazine”: «La mafia a Roma e nello Stato». Nel 1991 ero Comandante del Gruppo Carabinieri Roma 3, con sede in Frascati. Avevo alle dipendenze circa 1.500 uomini, che dovevano soprattutto vigilare affinché la camorra napoletana non si infiltrasse dal sud nella capitale. Un giorno, bello per la giustizia, ma brutto per i politici corrotti, il Capitano della Compagnia Carabinieri di Ostia mi comunicò, estremamente preoccupato, che aveva scoperto un vasto giro di corruzione politica, che investiva i massimi palazzi del potere di Roma. Lo rassicurai: poteva tranquillamente svolgere le sue indagini, colpendo qualsiasi palazzo del potere. Ci sarei stato io dietro le sue spalle. Ed il bravo capitano mollò ceffoni a tutti, senza guardare in faccia a nessuno. La magistratura di Roma, venuta a conoscenza dei fatti, insabbiò tutto, così meritandosi l’appellativo di porto delle nebbie. Qualche mese dopo scoppiò Tangentopoli a Milano e quella magistratura – si è scoperto dopo, per un fine politico, quello di annientare il PSI, che si poneva come ostacolo alla fusione DC-PCI - avviò un’indagine a tappeto, mandando tutto il sistema politico della Prima Repubblica all’aria. Si buttarono nel fango l’acqua sporca e il bambino, favorendo la nascita di nuovi movimenti politici che continuarono, stavolta indisturbati, a rubare. Ancora di più! Mentre dal 2003 al 2006 ero Capo di Stato Maggiore della Divisione Unità Specializzate, un ufficiale dei carabinieri, che non può non essere considerato un fellone, si sfogò dicendo che il ROS Carabinieri, nato per combattere la mafia e il terrorismo, si stava occupando troppo della corruzione politica, dando fastidio a parecchi potenti della Repubblica. Quei potenti, se il ROS non fosse stato frenato, si sarebbero ricordati al momento opportuno di noi, giungendo persino a proporre  l’eliminazione della stessa Arma dei Carabinieri. Questi cialtroni ci hanno provato e le voci sull’eliminazione dell’Arma, con l’attribuzione di tutti i poteri alla Polizia di Stato, con l’assorbimento da parte di essa delle stazioni carabinieri, si sono moltiplicate. Ma noi nel 2004 mandammo a farsi benedire il suggeritore malefico mandato dai politici. Oggi, dopo tanti anni di silenzio, dovuti a diversi fattori, non ultimo quello di aver mantenuto al comando del ROS un uomo ricattabile, il nostro reparto speciale è esploso mettendo in luce la grave corruzione politica e mafiosa che pervade Roma e i palazzi del potere. Dopo tanti anni si è capito che il cancro non è a Milano (là c’era una metastasi), ma a Roma dove tutti gli intrallazzi nascono e crescono. Bravi i nostri solerti e incorruttibili investigatori del ROS! Certo, se si fossero mossi subito a seguito delle indagini della Compagnia di Ostia, questo cancro si sarebbe scoperto in quegli anni e molti mascalzoni, che sono stati eletti in Parlamento, oggi sarebbero da anni in galera. Comunque, la colpa non è di loro, ma di qualcuno, che volendo rimanere attaccato alla poltrona ed occuparne delle altre, maggiormente prestigiose, gioca come il gatto con il topo, che viene lasciato libero, ma subito dopo riacciuffato. Il COCER, che dovrebbe vigilare affinché non si facciano brutti giochi o scherzi all’Arma, non guarda nella giusta direzione e si occupa di aspetti secondari. Si limita a guardare la pagliuzza negli occhi di qualche comandante, di mentalità ristretta e ottusa, e non guarda, invece, nell’occhio di qualcuno, che ha la trave. I Delegati non sanno che di talune gravi mancanze, da loro non rilevate, saranno un giorno giudicati, perché solo Dio è eterno. Tutti gli altri, prima o poi, sebbene protetti dai soliti potenti e prepotenti, passano! Palermo, 3 dicembre 2014. Gen. Antonio Pappalardo.

La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: "Un fenomeno odioso", scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi.    Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

Così le coop hanno riempito Roma di profughi e campi rom. "Gli immigrati rendono più della droga". Ecco perché, nonostante il tetto di 250 profughi, a Roma ce ne sono più di 2.500, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. "Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno". Massimo Carminati aveva un braccio destro proveniente dall'estrema sinistra. Ma Salvatore Buzzi, 59 anni, arrestato con il presunto capo della "Mafia Capitale", intercettato dai carabinieri diceva candidamente che "la politica è una cosa, gli affari sò affari". E lui, condannato in passato per omicidio, si era inventato prima una cooperativa sociale con ex detenuti, poi aveva creato un piccolo impero nel settore. Capace di mettere al tavolo - in senso letterale - esponenti di destra e di sinistra, a lui Carminati aveva chiesto di "mettersi la minigonna e battere" per ingraziarsi la nuova giunta Marino. Perché, grazie alla sua cooperativa e al sodalizio con l'ex vicecapo di gabinetto di Walter Veltroni, Luca Odevaine, facevano tutti una "paccata" di soldi coi fondi per l'accoglienza degli immigrati e per la gestione dei campi nomadi. "Quando la Lega denunciava che c’è gente che si arricchisce grazie alla presenza di Rom e immigrati eravamo razzisti: adesso che a Roma è venuto fuori, forse abbiamo ragione noi?". La denuncia di Matteo Salvini corre su Facebook. E incarna un mal di pancia tutto romano nei confronti del Campidoglio. Il bubbone capitolino esplode a pochi giorni dalle proteste e dagli scontri di Tor Sapienza. Altro che accoglienza, dietro al traffico di immigrati e profughi ci sarebbe un vero e proprio giro d'affari. Che guarda alle cooperative rosse. Il link col welfare è proprio Buzzi, il "braccio destro imprenditoriale" del Nero. Il gip Flavia Costantini nell'ordinanza d’arresto descrive "il suo ruolo apicale indiscusso, la sua posizione di primazia nel settore dell’organizzazione volto alla sfera pubblica, la sua presenza operativa in tutti i numerosissimi reati commessi nel settore". Lui, signore delle coop, lo dice chiaramente in un’intercettazione allegata all’ordinanza di circa 1200 pagine: "Il traffico di droga rende meno". L’affare dei centri di accoglienza per rifugiati e immigrati è, secondo la procura di Roma, garantito da Odevaine, descritto nell’ordinanza come "un signore che attraversa, in senso verticale e orizzontale, tutte le amministrazioni pubbliche più significative nel settore dell’emergenza immigrati". I fondi per i centri d’accoglienza sono un piatto ricco. Gli inquirenti lo chiamano, appunto, "sistema Odevaine". "La gestione dell’emergenza immigrati è stato ulteriore terreno, istituzionale ed economico, nel quale il gruppo si è insinuato con metodo eminentemente corruttivo – si legge nell'ordinanza del gip Costantini – alterando per un verso i processi decisionali dei decisori pubblici, per altro verso i meccanismi fisiologici dell’allocazione delle risorse economiche gestite dalla pubblica amministrazione". Un sistema studiato per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici che "si dividono il mercato". La "qualità pubblicistica" di Odevaine sta tutta nella possibilità di sedere al Tavolo di coordinamento nazionale insediato al ministero dell’Interno e, al tempo stesso, di essere uno degli esperti del presidente del Cda per il Consorzio "Calatino Terra d’Accoglienza", l'ente che soprintende alla gestione del Cara di Mineo. In una intercettazione è lo stesso Odevaine a spiegare al commercialista che, "avendo questa relazione continua" con il Viminale, è "in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… vengono smistati in giro per l’Italia… se loro c’hanno strutture che possono essere adibite a centri per l’accoglienza da attivare subito in emergenza… senza gara… le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro…". Siriani, libici, tunisini e iracheni. Tutti smistati a Roma, tra Caracolle e Tor Sapienza. I residenti delle banlieue capitoline lo dicevano che, forse forse, erano un filino troppi. È lo stesso Odevaine a spiegare il perché: "I posti Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr) che si destinano ai comuni in giro per l'Italia fanno riferimento a una tabella tanti abitanti tanti posti Sprar... per quella  norma a Roma toccherebbero 250 posti... che è un assurdo... pochissimo per Roma, no?... allora... una mia... un mio intervento al ministero ha fatto in modo che... lo Sprar a Roma... fosse portato a 2.500 per cui si sono presentati per 2.500 posti... di cui loro... secondo me ce n'hanno almeno un migliaio". Insomma, a Roma erano destinati 250, ma grazie allo zampino di Odevaine i posti sono lievitati a dieci volte tanto, in modo che almeno mille venissero "ospitati" nelle case accoglienza di Buzzi. Per questo "servizio" l'ex vicecapo gabinetto di Veltroni riceveva un regolare stipendio da 5mila euro. La cupola di Mafia Capitale specula (e fa affari) con qualsiasi emergenza della Capitale. Dal maltempo ai protocolli per la prevenzione del rischio, dal servizio giardini del comune alla raccolta differenziata. Ma, soprattutto, con i fondi per la costruzione e la gestione dei campi nomadi. Gli inquirenti hanno, infatti, messo a nudo la capacità di interferire nelle decisioni dell’Assemblea Capitolina in occasione della programmazione dei bilanci pluriennale in modo da "ottenere l’assegnazione di fondi pubblici" per rifinanziare i campi nomadi, la pulizia delle aree verdi e il progetto "Minori per l’emergenza Nord Africa". Tutti settori in cui operano le società cooperative di Buzzi. "Noi quest'anno abbiamo chiuso... con quaranta milioni di fatturato - spiega lo stesso Buzzi - ma tutti i soldi... gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull'emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero".

Inchieste e scandali, quante ombre sulle cooperative rosse, scrive Alessandro Genovesi su “Ibsnews”. Dentro gli scandali degli ultimi tempi, su tutti l'EXPO, un ruolo nient'affatto marginale è stato giocato dalle cosiddette cooperative rosse. Si guardi, tanto per non fare nomi, al gigante Manutencoop Facility Management e al suo presidente Claudio Levorato, iscritto nel registro degli indagati per concorso in turbativa d'asta e utilizzazione di segreti d'ufficio. Per il manager di Manutencoop i PM della procura della Repubblica di Milano avevano addirittura chiesto anche l'applicazione di misure cautelari. Tuttavia il giudice per le indagini preliminari ha rigettato la richiesta, ritenendo che nei confronti di Levorato non sussistessero le esigenze cautelari richieste dal codice di procedura penale. Un'ombra piuttosto imbarazzante per il mondo delle coop, da sempre legato a doppio filo alla sinistra, in tutte le sue diverse declinazioni (PCI-PDS-PD). Vedasi, ad esempio, il caso di Giuliano Poletti, ministro del Lavoro del governo Renzi dopo essere stato per anni Presidente di Legacoop. Ma gli intrecci delle cooperative vanno al di là della politica. Sentite, a tal proposito, cosa ha detto la segretaria CGIL, Susanna Camusso, in occasione del congresso di Rimini del mese scorso: "Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene". Parole dure e inconsuete, se si pensa al triangolo PCI-COOP-CGIL che per decenni ha costituito un inscalfibile centro di potere e di interesse. Parole, ci permettiamo di osservare, anche tardive: da molti anni oramai le cooperative si comportano alla stessa maniera delle aziende di tipo "capitalista", vale a dire mettendo, nella scala delle priorità, molto avanti i profitti e molto indietro i diritti dei lavoratori-soci. Quando va bene. Perché quando va male, ad essere aggirate sono le norme del codice penale. Oltre al caso Manutencoop, ancora tutto da dimostrare, sono in corse altre indagini che coinvolgono altri colossi del mondo cooperativo. Si pensi alla CMC, società con sede a Ravenna che si occupa di costruzioni, finita agli onori della cronaca per il caso del "porto fantasma" di Molfetta, cantiere aperto - secondo l'ipotesi accusatoria della procura di Trani - per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. La CMC, per non farsi mancare nulla, è implicata anche nell'inchiesta sulla bonifica dell'area Rho-Pero, che fa parte dell'operazione Expo, con l'accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il lavoro della cooperativa. Anche altri due giganti del mattone come Coopsette e Unieco sono finiti nell'occhio del ciclone l'anno scorso quando, in occasione dell'arresto del Presidente della regione Umbria Maria Rita Lorenzetti, i magistrati hanno ipotizzato l'esistenza di un'associazione a delinquere finalizzata proprio a finanziare indirettamente le due cooperative, entrambe in odore di fallimento. Insomma, altro che solidarietà e tutela del lavoro. Le COOP sono ormai perfettamente integrate nel capitalismo all'italiana, dove la spintarella, l'aiutino e la mazzetta la fanno da padrone, alla faccia dei "sacri" valori del libero mercato.

Coop rosse di vergogna tra inchieste e lotte sindacali. Ora nel mirino della Cgil, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano di mercoledì 14 maggio 2014. L'indagine sulle tangenti per l'Expo milanese fotografa un mondo allo sbando. Orfano della politica, ostaggio di padri-padroni inamovibili. Il coinvolgimento nell'inchiesta del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato non sorprende. La settimana scorsa un duro attacco era arrivato dal segretario generale Susanna Camusso: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione". Altro che magistrati. L’attacco più duro alle coop cosiddette rosse è venuto dal capo della Cgil, Susanna Camusso. La settimana scorsa, chiudendo il congresso di Rimini, il segretario generale del primo sindacato italiano ha riservato alle cooperative parole al vetriolo: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene”. I fendenti di Camusso sono in parte strumentali, giusto per castigare un po’ il ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ha appena lasciato la presidenza di Legacoop per farsi interprete del verbo renziano sul mercato del lavoro. Ma non nuovi. Negli anni 90 il suo predecessore Sergio Cofferati già parlava di cooperative “che considerano il lavoro come occasione di profitto sulla pelle dei giovani”. Insomma, è da almeno vent’anni che le coop hanno scoperto il mercatismo e sciolto ogni legame con i valori laburisti e solidaristi. Rivendicano di essere aziende come le altre, e si comportano di conseguenza. Non solo calpestando quando serve i diritti dei loro dipendenti – che molto spesso non sono nemmeno soci, cosicché la cooperative che li assume più che di lavoratori si potrebbe definire di datori di lavoro. Ma anche infischiandosene del codice penale nella stessa misura delle normali imprese private, sebbene pretendano di vedersi ancora riconosciuta una superiorità morale. Il coinvolgimento del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato nell’inchiesta sulle tangenti per l’Expo milanese non sorprende. La presunzione d’innocenza è fuori discussione, naturalmente, ma l’interessato deve invocarla anche per lo scandalo degli appalti della Asl di Brindisi, per il quale proprio la settimana scorsa sono state chiuse le indagini, e Levorato è uno dei 51 indagati. Il referente locale di Manutencoop, Mauro De Feudis è finito ai domiciliari e, secondo la procura di Brindisi, citata dalla Gazzetta del Mezzogiorno “candidamente afferma di aver richiesto l’intervento del legale rappresentante della Manutencoop Facility Management spa per risolvere la problematica relativa alla mancata assunzione di soggetti segnalati dal consigliere regionale De Leonardis che nel frattempo garantiva loro l’aggiudicazione illecita di appalti in tutto il territorio pugliese”. Il gigante delle costruzioni Cmc di Ravenna, che oggi deve la sua fama all’appalto per il tunnel di servizio dell’alta velocità in Val di Susa, è all’onore delle cronache per il caso del “porto fantasma” di Molfetta, cantiere aperto – secondo l’ipotesi accusatoria della procura di Trani – per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. Il costruttore Enrico Maltauro e il faccendiere Sergio Cattozzo, intercettati prima di essere arrestati dai magistrati milanesi per l’Expo, mostrano di conoscere bene la vicenda. Dice Maltauro: “Il casino di Molfetta, non è solo un fatto di corruzione, ma c’è un fatto di truffa ai danni dello Stato”. Specifica Cattozzo: “Per cui i soldi per fare il porto li hanno utilizzati per altre cose”. A fine 2013 la Cmc è stata coinvolta nell’inchiesta sulla bonifica dell’area Rho-Pero, che fa parte dell’operazione Expo, con l’accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il sereno dispiegarsi del lavoro della cooperativa. C’erano di mezzo questioni di rispetto dell’ambiente anche nell’inchiesta sul tunnel dell’alta velocità di Firenze, per la quale l’anno scorso fu arrestata la presidente di Italferr (gruppo Fs) Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria. In quel caso i magistrati hanno ipotizzato un’associazione a delinquere il cui scopo principale era soccorrere una coop con i conti in difficoltà: “Pianificavano una serie di interventi a vasto raggio per influire e determinare le varie amministrazioni coinvolte, in maniera da superare ogni possibile ostacolo e intralcio agli obiettivi dell’associazione: ovverosia favorire al massimo in termini economici Nodavia e tramite essa Coopsette (di cui si teme la prossima insolvenza) a scapito dei costi dell’appalto e a danno delle casse dello Stato”. In effetti la Coopsette e la Unieco, due giganti del mattone cooperativo emiliano, hanno attraversato l’inferno del concordato preventivo e adesso si preparano a fondersi nella nuova Unisette per salvarsi. Evidentemente il ricorso al doping della corruzione, abbastanza tipico per le imprese italiane, è un vizietto che non risparmia le coop, soprattutto adesso che gli affari non vanno per niente bene. Storia antica anche qui. L’idea che esista un blocco compatto chiamato “coop rosse” e unito ai partiti della sinistra è superata nei fatti da un ventennio. Dopo la svolta della Bolognina è scomparso dalla scena il Pci che garantiva alle coop le loro quote di mercato al tavolo della spartizione degli appalti pubblici. I boiardi rossi hanno allora imparato ad arrangiarsi da soli, al grido di “ognuno per sé e tangenti per tutti”. Già il pool Mani pulite, indagando su Tangentopoli, scoprì con una certa sorpresa che era in corso una guerra feroce tra le coop emiliane e quelle lombarde per l’accesso al mercato della Lombardia, che le seconde impedivano alle prime. In uno scenario del genere la Legacoop si è trasformata da holding di fatto, quale era ai tempi del Pci a una pressoché inutile Confindustria delle coop. Poletti, per esempio, è stato tenuto rigorosamente all’oscuro dei traffici in corso tra le grandi coop del consumo per organizzare la scalata alla Fonsai da parte dell’Unipol di cui sono azioniste. E Poletti, come il suo successore Mauro Lusetti, si limitano a minimizzare come “casi isolati” gli scandali che coinvolgono grandi e piccole imprese cooperative. Non sorprende quindi che il risultato della “balcanizzazione” sia stato il consolidamento dei padri-padroni delle singole coop. Personaggi che già vent’anni fa l’allora presidente di Legacoop Lanfranco Turci, poco prima di essere fatto fuori, accusò di “spinte cesaristiche”. Gente come Levorato, presidente di Manutencoop da trent’anni, o come Turiddo Campaini, alla testa di Unicoop Firenze dal 1973, due anni prima della nascita di Matteo Renzi, o come Pier Luigi Stefanini, presidente di Unipol da otto anni dopo una vita alla Coop Adriatica. Logica conseguenza di questa parabola e di queste logiche spietate è ciò che rileva Camusso. Le coop si stanno sempre più spesso qualificando come datori di lavoro efferati. Sul Fatto del 16 marzo scorso Marco Palombi ha raccolto un florilegio di casi incredibili: “Sulla scheda di valutazione di un dipendente abbiamo letto che l’interessato non può essere promosso. Motivo? Fa il sindacalista. Non manca nemmeno l’ordinario marchionnismo: dal delegato Rsu trasferito o demansionato fino alla schedatura fotografica degli scioperanti”.

Fascismo e comunismo: i figli (degeneri) della guerra. Il Primo conflitto mondiale con i suoi lutti diede vita a due movimenti opposti. Uno voleva il paradiso in terra e scimmiottava le religioni, l'altro militarizzò la società per volontà di potenza, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. La prima guerra mondiale ebbe due figli, uno rosso come il sangue che versò la rivoluzione, l'altro nero come i lutti che causò la guerra: il comunismo e il fascismo. Il primo preesisteva come idea e come movimento. Il secondo aveva fra i precursori il nazionalismo e l'interventismo. Ambedue venivano dal socialismo ma divennero realtà, partito unico e regime sotto i colpi della guerra. Al di là di quel che oggi si dice, a Mussolini gli italiani credettero davvero e non smisero di credere nemmeno nel pieno della seconda guerra mondiale, come documentano Mario Avagliano e Marco Palmieri in Vincere e vinceremo! (Il Mulino, pagg. 376, euro 25). Come testimoniano le lettere dal fronte pubblicate dai due storici, il consenso popolare all'entrata in guerra e anche oltre, fu sincero, «vasto e diffuso» e la partecipazione al regime e all'impresa bellica fu «attiva ed entusiasta». E ben superiore rispetto alla prima guerra mondiale. Per la verità anche Stalin ebbe consenso popolare nel mondo, che in Russia si cementò in chiave patriottica nella seconda guerra mondiale; ma i russi, a differenza degli italiani sotto il fascismo, vivevano sotto il terrore e le sue vittime furono milioni. Ma proviamo a leggere sotto un'altra luce la parabola del comunismo e del fascismo. Una lettura transpolitica, oltre la storia e il Novecento. Il comunismo fu il tentativo fallito di estendere l'ordine religioso alla società e il fascismo fu il tentativo tragico di estendere l'ordine militare alla nazione. Il primo infatti s'imperniò sulla rinuncia all'individualità, sulla comunanza di ogni bene, sulla comune catechesi ideologica e sull'attesa del paradiso, nonché sulla legge egualitaria, degna di un convento, «ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Ma passando da una comunità eletta di frati - che scelgono quel tipo di vita e rinunciano ai beni terreni - all'intera società costretta a osservare quelle norme, il paradiso trasloca in terra e diventa inferno. Gli angeli e i diavoli vengono storicizzati e identificati rispettivamente nella classe operaia e nei padroni, coi loro servi; l'eterno si risolve nel futuro, e dal processo spirituale al processo economico-materiale la scelta totale si fa servitù totalitaria, il convento si fa soviet e poi lager, la comunità si fa Partito e poi Stato, soffocando nel sangue chi si oppone o solo dissente. È nel passaggio dalla comunità al comunismo che la libera rinuncia ai beni terreni e individuali di un ordine conventuale si fa costrizione, tirannia ed espropriazione. La comunione dei beni su base volontaria è una grande conquista, il comunismo egualitario per obbligo di Stato è una terribile condanna. Nel fascismo avviene un processo analogo: i codici, i linguaggi, le divise, i valori eroici attinenti a un ordine militare vengono estesi all'intera nazione, la milizia si trasforma in mobilitazione di massa. La società viene organizzata come un immenso esercito, in ogni ordine e grado, e relativa gerarchia, e viene resa coesa dall'amor patrio e dalla percezione del nemico. I valori di un ordine militare, come credere obbedire e combattere, vengono estesi all'intera nazione. L'impianto del fascismo è tendenzialmente autoritario, perché attiene all'agire e alla milizia, quello del comunismo è tendenzialmente totalitario perché pervade ogni sfera, incluso il credere e il pensare. La guerra come proiezione verso l'esterno e la militarizzazione come orizzonte interno rende il fascismo un regime in assetto di guerra, animato da volontà di potenza e da una fede assoluta nei confini, trasferita anche nei rapporti umani. L'ordine militare come scelta volontaria attiene a un'aristocrazia, ma nel fascismo viene nazionalizzato, si fa Stato-Popolo, coscrizione obbligatoria di massa, inclusi donne e bambini. Il comunismo è la degradazione di un ordine religioso imposto a un'intera società e il fascismo è l'imposizione di un ordine militare a un'intera nazione. Entrambi sono risposte sacrali, idealiste e comunitarie alla società secolarizzata, utilitaristica e individualista: il carattere sacrale del comunismo è sostitutivo della religione, condannata dall'ateismo di Stato; il carattere sacrale del fascismo è integrativo della religione, come una religione epica e pagana della patria in cui sono ammessi più déi e ciascuno domina nel suo regno, storico o celeste. L'archetipo del comunismo è di tipo escatologico, l'archetipo del fascismo è di tipo eroico. La redenzione promessa dal comunismo avviene tramite la rivoluzione dei rapporti di classe. La vittoria promessa dal fascismo avviene tramite le armi. Infatti il fascismo, nato da una guerra, muore in guerra, sconfitto sul campo di battaglia. Invece il comunismo, nato da una rivoluzione, fallisce proprio sul terreno economico, sconfitto sul piano del progresso e dell'emancipazione. Mussolini sta al socialismo come Napoleone sta alla Rivoluzione francese: è il loro antefatto. Se il prototipo ideale del comunismo è la rivoluzione francese, il modello storico del fascismo è il bonapartismo, che su un'impresa militare fonda un nuovo ordine civile. Napoleone da giacobino diventa generale e poi imperatore; il Duce, ex-socialista, segue una parabola affine. Fascismo e comunismo sovietico nascono ambedue dal collasso dell'Ordine preesistente, imperniato sugli Imperi Centrali. La caduta dell'Impero zarista per la rivoluzione russa, la guerra irredentista contro l'impero austroungarico per la rivoluzione fascista. La Madre di ambedue è la Grande Guerra, col suo corredo di sangue e trincea, la leva obbligatoria e lo sgretolarsi del Mondo di ieri sorretto da quell'Ordine. A complicare le cose venne poi il terzo incomodo, nato anch'egli dalla Guerra ma a scoppio ritardato: il Nazionalsocialismo tedesco, da cui scaturì la Seconda Guerra Mondiale, fatale per l'Europa, letale per il fascismo. La storia avrebbe preso un'altra piega se il patto Molotov-Ribbentrop tra Hitler e Stalin avesse retto alla prova del conflitto e all'indole dei due dittatori. In quel caso, probabilmente, la Seconda Guerra Mondiale avrebbe vendicato la Prima e ne avrebbe rovesciato l'esito, seppure con soggetti mutati: l'Urss al posto della Russia, il Terzo Reich al posto della Prussia e dell'Austria asburgica. Salvo una finale resa dei conti tra il comunismo asiatico e il nazismo indoeuropeo. Resta il paradosso della Prima Guerra Mondiale: fu la Grande Guerra a far nascere il fascismo e il comunismo e a galvanizzarli, ma fu la stessa Guerra a decretare la vittoria sul campo delle democrazie liberali e poi l'americanizzazione del mondo. L'ambigua follia della guerra.

E con la pace, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Guerra civile? Siamo ad un passo, come nel primo dopoguerra..., scrive Aldo Grandi su “La Gazzetta di Lucca”. Ha ragione Giampaolo Pansa, grande scrittore, grande giornalista, amato a sinistra fino a quando scriveva ciò che faceva loro piacere, odiato e ritenuto rincoglionito quando ha cominciato ad aprire gli armadi di un partito, quello comunista, che, al di là di indubbi meriti, ha avuto anche la colpa di nascondere volutamente tante di quelle nefandezze che Dio solo lo sa e, forse, neppure lui. La situazione politica attuale ricorda molto da vicino il primo dopoguerra, poco prima dell'avvento del cosiddetto biennio rosso e della reazione di agrari e industriali che determinò l'avvento del fascismo. Da un lato la piccola borghesia, unitamente alla media e alla grande - ammesso che esistano ancora da qualche parte - assediati e timorosi di perdere tutto ciò che avevano foss'anche quel poco che era loro rimasto. Dall'altro le classi subalterne, operaia in testa, ritornati dalla guerra con un pugno di mosche in mano, abbandonati nelle loro illusioni e delusi dalle promesse mancate. Ebbene, tutti sanno come andò a finire. Oggi, a distanza di un secolo, la situazione non è cambiata di molto. E' vero, non c'è stata una guerra e questa, probabilmente, è una fortuna altrimenti chissà quanti avrebbero già imbracciato il fucile. Tuttavia c'è una classe che potremmo definire eterogenea, ma composta di elementi produttivi che vanno dall'operaio - inconsapevole e strumentalizzato dai sindacati - dell'industria privata al commerciante, dal libero professionista all'imprenditore, dall'artigiano al coltivatore diretto. Tutti questi soggetti contribuiscono al mantenimento dell'altra parte, quella composta dal pubblico impiego, che produce poco o nulla e rappresenta la zavorra che appesantisce lo Stato. Dispiace doverlo rimarcare, ma la realtà, al di là delle distinzioni necessarie, è questa. Il pubblico impiego, nella stragrande maggioranza, è parassita ossia vive a spese dell'organismo produttivo di ricchezza. Se, poi, qualcuno aggiunge che - vedi scandali romani - il privato corrompe il pubblico che a sua volta ricompensa il privato, ha ragione da vendere, ma questa, purtroppo, è la cruda verità alla quale dobbiamo guardare senza indulgenza e senza indugio. Da un lato, quindi, chi paga tasse e imposte guadagnandosi il reddito senza avere alcuna garanzia di averlo ogni 27 del mese, dall'altro chi, tranquillo e rilassato, il 27 del mese si infila in tasca, venga giù anche il diluvio universale, il suo bello stipendio. Operai che vengono licenziati dall'industria privata costretti a farsi difendere da sindacati che appoggiano anche le pretese del pubblico impiego il cui deficit e il cui buco enorme sono all'origine del licenziamento e del fallimento dell'economia italiana rispetto a quella degli altri paesi. Una tassazione al 56 per cento, imposte anche su quante volte uno va sulla tazza del cesso, un assessore, a Lucca, tale Raspini, figlio di un notaio e, probabilmente e presumibilmente senza problemi di natura economica, ex dipendente del ministero dell'Interno, pare in aspettativa per fare l'assessore - il sindaco Tambellini, dicono le malelingue, deve aver ringraziato il papà notaio che gli mise, in campagna elettorale e pare senza spendere alcunché, i locali per la sede del comitato elettorale - il quale sostiene che le tasse vanno pagate e che si tratta di un dovere. E chi lo ha mai messo in dubbio? Ma quali sarebbero i servizi che la sua giunta di bradipi, né più né meno di quelle che l'hanno preceduta, danno in cambio? Che servizio è quello che a S. Alessio, terra natìa dell'agricoltore Tambellini, impedisce a chiunque voglia usare il telefono cellulare, di poterlo fare solo perché il primo cittadino predilige e preferisce, per mandare messaggi e fare opera di comunicazione, il piccione viaggiatore? Troppo semplice, caro Raspini, installare un'antenna? La gente protesta perché ha i villoni e non vuole fastidi? Allora venite a metterla dentro casa del sottoscritto l'antenna, nel suo giardinetto, ma almeno tutti potranno usufruire di un servizio che, in altre città, è una ovvietà. Ma il Raspini, che quando incontra il sottoscritto fa finta di non vederlo per non doverlo salutare - e fa bene - sa cosa vuol dire alzarsi la mattina e non sapere se, a fine mese, hai i soldi non solo per mangiare, ma per mantenere questa classe di parassiti che frequenta il pubblico impiego? Ha soltanto lontanamente idea di cosa significhi giocare tutto su se stessi senza avere lo stipendio garantito? Sa quale senso di frustrazione colpisce ciascuno di noi quando, incassando 100, sa che almeno 60 finisce nelle casse di uno Stato non solo vorace, ma rapace? E noi dovremmo avere il senso dello Stato? Ma di quale Stato? Quello di Andreotti, di Craxi, di Forlani, del Caf di una volta o del Pci e di Berlusconi che anche loro tutto hanno preteso e molto hanno mangiato? Quello di San Matteo che lascia entrare 150 mila clandestini una piccola parte dei quali gira per le strade di Lucca chiedendo l'elemosina? E' questo il vostro esempio di solidarietà e progresso? E avete il coraggio di sparare merda su Grillo: l'unico che, almeno, quando parla e fa un comizio vale il prezzo del biglietto. Chi scrive, caro Raspini, si augura che, finalmente, prima o poi, presto o tardi, il sistema esploda anzi, imploda su se stesso e che saltino tutte le contrattazioni sindacali, saltino i diritti acquisiti che di acquisito non hanno un cazzo per il semplice motivo che la vita non è una condizione di staticità, ma di movimento permanente, che i mediocri e i parassiti vengano assegnati ai ruoli che competono loro, che il lavoro sia, veramente, fonte di soddisfazione, ma anche prodotto di meriti e non soltanto una pretesa. Défault? Magari. Bancarotta? Speriamo. Rimettiamoci tutti in gioco, salvo chi, veramente, è più debole, ma tutti gli altri, i falsi, gli ipocriti, i ladri, i truffatori, i millantatori, mettiamoli, metaforicamente, al muro e, poi, lasciamoceli per un bel po'. Vedrete che anche loro, quando si accorgeranno di essere rimasti indietro, inizieranno a correre.

Poi arriviamo a Mafia Capitale. Questa è una città in cui il capo della Banda della Magliana era sepolto in una basilica del centro. Dopo quello tutto è possibile.

Mafia Capitale, così i boss eleggevano i deputati del Pd, scrive “Libero Quotidiano”. L'ombra dello scandalo Mafia Capitale si allunga sui deputati del Partito democratico. La manina di Buzzi e dei suoi scagnozzi avrebbe agito sulle parlamentarie Pd del 2012. Un sospetto forte, quello che la cupola abbia orientato il voto "tutto in famiglia" che di fatto garantiva il via libera per Montecitorio. Un voto orientato, magari - come scrisse Libero in tempi non sospetti - spedendo ai seggi rom e nomadi "stimolati" con piccole somme di denaro. Alla luce di questo sospetto, vanno rilette le parole di Marianna Madia del giugno 2013, quando affermò: "A livello nazionale nel Pd ho visto piccole e mediocri filiere di potere. A livello locale, e parlo di Roma, facendo le primarie parlamentari ho visto delle vere e proprie associazioni a delinquere sul territorio". Una frase che al tempo passò quasi inosservata, e che oggi, invece, potrebbe essere letta sotto una nuova luce. Tra gli eletti alle parlamentarie ci fu anche Marco Di Stefano, l'esponente del Pd indagato per la maxi-tangente da 1,8 milioni che avrebbe incassato da assessore della Regione Lazio. Di Stefano, al tempo, arrivò sedicesimo ed entrò a Montecitorio in seguito alla particolare rinuncia di Marta Leonori. Tra le carte dell'inchiesta, inoltre, spuntano Micaela Campana e Umberto Marroni, altri due "selezionati" alle parlamentarie del Pd. Per inciso, la Campana domenica ha gridato al linciaggio mediatico. Lei non è indagata, ma di sicuro cfu contattata da Buzzi, che le chiedeva un'interrogazione parlamentare in favore della sua cooperativa. Lo stesso Buzzi trattava da referente affidabile Marroni, che da onorevole, stando all'informativa dei Ros, avrebbe subito pressioni da Buzzi per presentare la medesima interrogazione.

Di seguito, i risultati delle parlamentarie nella circoscrizione di Roma città, dal primo classificato all'ultimo.

- Stefano Fassina, voti 11.770

- Ileana Argentin, 6.898

- Micaela Campana, 6.803

- Umberto Marroni, 5.476

- Matteo Orfini, 4.993

- Marianna Madia, 5.967

- Roberto Morassut, 4.537

- Monica Cirinnà, 4.464

- Roberto Giachetti, 4.243

- Marco Miccoli, 4.019

- Maria Coscia, 3.987

- Lorenza Bonaccorsi, 3.711

- Walter Tocci, 3.568

- Giuseppina Maturani, 3.518

- Daniela Valentini, 2.655

- Marco Di Stefano, 2.573

- Ivana Della Portella, 2.524

- Luisa Laurelli, 2.177

- Paolo Quinto, 1.261

- Vincenzo Vita, 1.243

- Roberto Di Giovan Paolo, 1.065

Invece L’ Espresso che titolo ti fa?

Mafia Capitale: tra fascisti e ladroni. Dopo gli arresti di ex terroristi neri e affaristi che tenevano in pugno la Roma di Alemanno, è caccia al tesoro della banda. Ecco la storia di tre inchieste profetiche condotte da "L'Espresso", scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Quella scattata martedì 2 dicembre è solo la prima ondata di uno tsunami giudiziario che ribalterà il ventre di Roma. Una metropoli finita nelle mani della “ Mafia Capitale ”, l’organizzazione guidata da Massimo Carminati, “er Cecato”: una leggenda nera costruita in quarant’anni di crimini dal terrorismo di destra all’epopea della Magliana, rimasti quasi sempre senza conseguenze giudiziarie. «Un bandito ricco», talmente ricco da faticare per nascondere i soldi che ha accumulato con i suoi traffici. Un manager che ha costruito il suo potere dominando quello che chiamava «il mondo di mezzo»: la sterminata zona grigia che unisce il Palazzo alla strada, quella dove - si vantava - comandava lui. L'azione in cui è stato fermato sulla sua Smart in via Monte Cappelletto, una stradina di campagna a Sacrofano, poco lontano dalla sua abitazione, l'ex terrorista dei Nar al centro dell'inchiesta Mafia Capitale. Il boss era pronto a darsi alla fuga e per la cattura i carabinieri del Ros hanno chiesto la collaborazione del nucleo "cacciatori" dell'Arma di Roma. Carminati si compiaceva del suo ruolo. Anche quando l’inchiesta de “l’Espresso” nel dicembre 2012 svela per la prima volta la sua rete criminale, si mostra spavaldo, convinto di sapere sfruttare la fama criminale per moltiplicare gli affari senza bisogno di minacce. Ma sono proprio quelle parole registrate dalle microspie a fornire l’ossatura giuridica per l’inchiesta che adesso lo ha travolto. Nonostante contromisure ad alta tecnologia, come i jammer per disturbare gli apparati d’ascolto, i carabinieri del Ros del generale Mario Parente sono riusciti a intercettarlo mentre istruiva i suoi “soldati” e illustrava la sua strategia mafiosa, indicando i politici collusi, e i pubblici ufficiali corrotti, e il canale migliore per investire all’estero. Quelle lunghe conversazioni, spesso captate nella stazione di servizio di Corso Francia che aveva trasformato in ufficio a cielo aperto, offrono l’affresco cupissimo della devastazione morale di una capitale: un sacco proseguito per anni che ricorda quello storico dei Lanzichenecchi. Come tutte le mafie anche questa ha la sua trasversalità politica. Il nucleo sono i vecchi camerati, che adesso hanno messo giacca e cravatta come l’ex sindaco Gianni Alemanno , indagato. Ma la rete poi si è estesa a tutti i partiti, mettendo letteralmente a libro paga esponenti di destra, sinistra e centro. «Se Carminati, il capo dell’organizzazione viene dall’eversione dell’estrema destra romana, il suo braccio destro Salvatore Buzzi, ha un passato nell’estrema sinistra già condannato in maniera definitiva per un omicidio del 1980. Buzzi è oggi al comando di una serie di cooperative composte da ex detenuti che operano nel sociale e gestiva per l’organizzazione criminale appalti nelle aziende municipalizzate e del Comune di Roma», spiega il procuratore Giuseppe Pignatone. Ma come dice Buzzi in una intercettazione «la politica è una cosa, gli affari sò affari». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro 'imprenditoriale' di Massimo Carminati. E che affari. Gli investigatori hanno sequestrato beni e depositi per un valore di duecentodieci milioni di euro. Ma sanno che c’è molto di più e puntano sul cuore del tesoro. Vogliono trovare le cassaforti e gli investimenti in cui i fascioladroni facevano fruttare i proventi del loro impero. Tutte le tracce portano a Londra, dove sono “rifugiati” molti ex dell’eversione nera e dove Carminati ha molti amici, che nell’ultimo anno si sono presi cura anche del figlio de “er Cecato” spedito lì in fretta e furia. Dopo aver trafficato in pietre preziose e in oro dall’Africa, il boss del “mondo di mezzo” potrebbe aver nascosto in Inghilterra il suo forziere. Nella City ha fatto tanti investimenti immobiliari, a partire da Notthing Hill dove ha acquistato di recente appartamenti. Operazioni confessate, sempre a sua insaputa, davanti alle microspie. Lui che ammette di essere ricco sfondato, di avere tanti milioni ma deve nascondere bene il patrimonio: ufficialmente è nullatenente, non può giustificare un tesoro così grande. Per questo ha scelto la strada di Londra, dove vorrebbe far trasferire definitivamente il figlio. «Ho pensato, apro una o due attività. Andrea sta lì. Anche se fa un altro lavoro però controlla. A questo punto ha un reddito», dice “er Cecato” che accenna a tante conoscenze nella City. «Avrebbe il mondo lì...», facendo comprendere che pure in Gran Bretagna ci sono molte persone a sua disposizione. "Il dieci mattina mi paghi te...nun sgarrà che vengo a casa..non capisci bene...io te taglio la gola il dieci matina...portami i soldi sennò t’ammazzo a te e tutti i tuoi figli", così un indagato in una delle intercettazioni telefoniche dei Ros. Per gli investigatori i contatti londinesi gli sono stati garantiti dal latitante Vittorio Spadavecchia, un veterano della comunità neofascista di Londra. Spadavecchia ha un passato nei Nuclei armati rivoluzionari, è arrivato in Inghilterra nel 1982, costretto alla latitanza dalle condanne per gli omicidi del commissario della Digos romana, Franco Straullu, e di altri poliziotti. È stato condannato pure per numerose rapine messe a segno per finanziare il terrorismo nero. Secondo le indagini, è con lui che uno dei complici di Carminati, Fabrizio Testa, pianifica assieme al rampollo del capo investimenti economici «di varia natura», come l’acquisto a Londra di un immobile e l’apertura di un ristorante: il primo passo per creare una catena di locali. Una holding che potrebbe venire decifrata mettendo le mani sul “libro nero”, il registro occulto custodito dalla “cassiera” del clan, Nadia Cerrito «che contiene una vera partita doppia del dare e avere illecito, dei destinatari delle tangenti - uno dei costi illegali sostenuti dall’organizzazione per il raggiungimento del suo scopo nel settore economico-istituzionale; che contiene l’indicazione dei soggetti cui vengono veicolati i profitti, come Carminati, shareolder ed esponente apicale dell’organizzazione illecita o come Testa, testa di ponte di mafia capitale verso la politica e la pubblica amministrazione; che contiene una rappresentazione del conto economico illecito dell’organizzazione, con una specifica rappresentazione delle relative disponibilità extracontabili». Non bastano i soldi però per impadronirsi di una metropoli. Perché un uomo al di sotto di ogni sospetto come Carminati riesca ad assemblare una simile macchina di potere e farla marciare indisturbata per anni servono coperture che vanno più in alto. Nell’atto d’accusa dei magistrati si fa riferimento a questo “terzo livello”, citando rapporti con istituzioni statali, forze dell’ordine e servizi segreti. L’altro fronte dell’inchiesta, che deve decifrare quanto il sistema criminale fosse affondato nel cuore dello Stato. Ma c’è pure una dimensione orizzontale della collusione, un magma di complicità minute, dai medici ai commercialisti, dai palazzinari ai burocrati, che hanno garantito la prosperità della rete. Il rapporto che Carminati aveva creato con gli imprenditori viene spiegato dal procuratore aggiunto Michele Prestipino: «Le indagini hanno consegnato una fotografia preoccupante, perché sovrapponibile al modus operandi delle mafie tradizionali nel rapporto con gli imprenditori, che si rivolgono all’organizzazione per avere protezione dall’aggressione della malavita predatoria. Di fronte a questa richiesta scatta la tutela dell’organizzazione mafiosa e, a fronte della protezione accordata, l’organizzazione non chiede soldi, ma di entrare in affari con l’impresa. E ci riesce ottenendo un punto di riferimento imprenditoriale, facce pulite attraverso cui realizzare i propri interessi criminali». E poi aggiunge: «Carminati spiega così il suo approccio con gli imprenditori: “l’obiettivo è entrare in affari, instaurare un rapporto di tipo paritario che garantisce vantaggi reciproci. Mi puoi anche dire che mi dai un milione per guardarti le spalle, ma dall’amicizia nasce un discorso che facciamo affari insieme. Io ho fatto questo discorso a tutti, devono essere nostri esecutori, devono lavorare per noi. Gli faccio guadagnare un sacco di soldi”. L’obiettivo è dunque acquisire attività economiche che significa avere appalti e servizi, soprattutto verso le pubbliche amministrazioni». Quelle romane erano cosa loro. Al Comune negli anni di Alemanno avevano trovato sempre le porte aperte, inserendo uomini di provata fedeltà in strutture chiave come l’Ama, la municipalizzata dei rifiuti, o l’Ente Eur, di cui era amministratore delegato Riccardo Mancini (arrestato). Ma anche il cambio di giunta e l’arrivo della sinistra del sindaco Ignazio Marino non intacca i loro business. Buzzi si vanta di potere contare su sei dei nove assessori designati. Ora l’assessore Daniele Ozzimo e il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, entrambi del Pd, sono finiti sotto inchiesta e si sono dimessi. Il partner di Carminati sostiene di non avere problemi neppure con la Regione Lazio, dove ha chi gli tiene i rapporti con il governo di Nicola Zingaretti. E poi c’è Luca Odevaine, un tempo braccio destro di Walter Veltroni al Campidoglio e ora fondamentale per fare affluire nelle cooperative dei fascio-ladroni quei profughi che «valgono più della droga». Ma oltre ai politici stipendiati con un mensile fisso ci sono quelli pagati a prestazione: una percentuale per ogni appalto. Nomi e cifre censite proprio nel «libro nero» che adesso tutti vogliono recuperare.

E "l'Espresso" in copertina si dimentica del Pd. Il precedente degli anni '50: "Capitale corrotta, nazione infetta". Alemanni e Lanzichenecchi, titola l'Espresso in edicola parlando dell'inchiesta su Mafia capitale. Come se il vorticoso giro di mazzette riguardasse soltanto l'ex sindaco di Roma e l'ambiente della destra eversiva, accusato dal direttore Luigi Vicinanza di aver «spalancato il Campidoglio a un'orda di famelici faccendieri, neofascisti, ex Nar e colletti neri». Il magazine del gruppo Repubblica si è scordato dei guai che hanno affossato il Pd romano, il ministro Giuliano Poletti e le coop rosse, limitandosi a una laconica frase sulla «complicità» della sinistra romana». Forse era meglio copiare il titolo anti Dc che fece storia negli Anni Cinquanta: Capitale corrotta, Nazione infetta.

Malaffare da destra sinistra, scrive Fabrizio Cicchitto  su “Il Garantista. Certamente nel Lazio ci sono già state molteplici forme di innesto della criminalità organizzata nella realtà sociale. Lungo il litorale della provincia di Latina, c’è stata una sorta di espansione a macchia d’olio della camorra. A Roma molti locali, specie ristoranti, sono risultati essere delle proiezioni, soprattutto per il riciclaggio del denaro, della mafia e della ‘ndrangheta. Adesso ci troviamo di fronte ad un salto di qualità con l’accusa di associazione di stampo mafioso e con la conseguente contestazione del 416- bis. Rispetto al caso esploso adesso a Roma, non avendo ancora letto le millecinquecento pagine dell’ordinanza della Procura riteniamo comunque probabile che il termine “mafia” sia usato nel senso tecnico e giuridico e non in quello rappresentato dalla proiezione concreta della criminalità organizzata quale si è espressa storicamente in Sicilia. Infatti in questo secondo caso il collegamento organico sarebbe difficilmente sostenibile. Anche nel primo caso bisognerà vedere se questa definizione reggerà al dibattimento, ma non perché riteniamo che ciò che viene denunciato non sia vero, ma perché il suo livello complessivo ci sembra assai basso, per molti aspetti degradato e come tale ancor più degradante proprio per quella politica che si è lasciata da esso così profondamente inquinare. Comunque di primo acchitto, lo dico con franchezza, l’ipotesi di Gianni Alemanno collegato organicamente e consapevolmente a meccanismi mafiosi mi sembra incredibile fino a prova contraria, ma a “prova provata” non a dicerie e a vanterie di terzi. La trascrizione assai pittoresca di alcune registrazioni telefoniche e la descrizione di molti addebiti giudiziari ci portano infatti ad una ricostruzione politica abbastanza diversa dalla rappresentazione mediatica finora fatta. A nostro avviso a Roma è avvenuto qualcosa di assolutamente paradossale e del tutto al di fuori di ogni schema tradizionale con due conseguenze entrambe drammatiche: il superamento di ogni discriminante fra destra e sinistra e il rischio conseguente della fine della politica. Infatti a nostro avviso è avvenuta a Roma da un lato la riconversione di uomini e gruppi di terrorismo nero tradizionalmente collocati fuori dal Msi, in una dislocazione spesso all’interno della corrente di Alemanno. Nel momento in cui tutta la destra politica è arrivata al potere o vicino ad esso alcuni di questi personaggi hanno riconvertito e aggiornato il loro terrorismo originario in “affarismo” a tempo pieno e si sono incontrati, sul terreno di una gestione assolutamente spregiudicata del potere, con alcuni degli uomini delle cooperative rosse, anch’essi caratterizzati da altrettanta spregiudicatezza e anch’essi impegnati a ricercare nell’amministrazione comunale e regionale i singoli uomini politici che potevano diventare altrettanti punti di riferimento senza alcuna discriminante politica. Casomai è sul terreno delle cooperative rosse e sulla loro “specializzazione” (gestione degli immigrati, dei campi rom) che può essere avvenuta in Sicilia una contaminazione con ambienti e strutture organizzate di stampo mafioso. D’altra parte, come ha ricordato in un libro che ha avuto una sola recensione, quella del sottoscritto sul Giornale, e cioè Ivan Cicconi La storia del futuro di Tangentopoli, nel passato molti esponenti significativi delle cooperative rosse hanno avuto guai giudiziari assai seri (ma senza grandi echi mediatici) per i rapporti stabiliti con i grandi costruttori edili siciliani, a partire da quelli di Catania.Questa connessione fra ex terroristi neri diventati affaristi a tempo pieno e alcuni esponenti delle cooperative rosse si è realizzata in un contesto assai diverso da quello di Tangentopoli. Tangentopoli era un sistema organico nel quale si incontravano le correnti di partiti (quelle della Dc e del Psi), un partito (il Pci, che però anche su quel terreno aveva una distinzione fra miglioristi e berlingueriani), e tutti i principali gruppi industriali pubblici e privati senza eccezione alcuna. Dopo di allora molta acqua è passata sotto i ponti e c’è stata la fine dei partiti e delle loro correnti per cui è avvenuta anche una parcellizzazione della corruzione: la danza è guidata da singoli imprenditori (a nome di una società civile pura e incontaminata), da singoli alti burocrati, da singoli uomini politici con la formazione di cordate trasversali nelle quali la discriminante politica non ha più alcuna ragione di essere. Tutto ciò, evidentemente, ha conseguenze quasi catastrofiche nel senso che da un lato mette in evidenza che la dialettica reale è molto lontana da quella apparente e che dall’altra, messe le cose in questo modo, la politica rischia di finire in un burrone. E’ elevatissimo il rischio che la gestione degli enti locali sia approdata a una serie infinita di decisioni arbitrarie motivata solo dall’arricchimento personale e di gruppo. Ciò detto poi non possiamo però fare a meno di avanzare alcuni rilievi. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una spettacolarizzazione inaccettabile: che sotto casa di Alemanno già fossero i cameramen in attesa che arrivassero i carabinieri per la perquisizione è un segno assai inquietante. Inoltre la lettura delle intercettazioni riportate sui giornali comporta anche forti interrogativi sull’esistenza di molte possibili “vanterie” sul terreno stesso della conoscenza, e ancor di più del “controllo”, del “pagamento” di cifre a singoli uomini politici. Infatti, a questo proposito, nel quadro del totale discredito della classe politica, si sta affermando un altro “andazzo” e cioè il fatto che ciò che affermano noti criminali diventa “oro colato” se essi chiamano in causa uomini politici e anche poliziotti e carabinieri che hanno svolto attività inquirente. Il fatto che i media e alcuni magistrati inquirenti stiano dando un incredibile credito ad alcuni soggetti (il caso più eclatante è quello di Vito Ciancimino) rischia di avere conseguenze assolutamente devastanti. Comunque è evidente che siamo al primo di una tragedia in cinque atti, per cui avremo molte altre sorprese.

Giudici scrittori e intercettazioni incomprensibili, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. «A voler innestare metafora su metafora, mafia capitale è una sorta di fiume carsico, che origina nella terra di mezzo, luogo nel quale costruisce la sua ragion d’essere e dal quale trae la sua forza, che emerge in larghi tratti del mondo di sopra, inquinandolo, per poi reimmergersi». La prosa è sciolta e intrigante, e viene dritta dall’ordinanza della procura di Roma sul “Mondo di mezzo”, ormai urbi et orbi nota come “Mafia Capitale”, quella degli arresti e degli avvisi di garanzia che ha sconquassato il mondo della politica. Utilizza quello che è stato definito il “manifesto programmatico” di Carminati e soci (ormai lo sanno pure i sassi: «c’è un mondo di sopra e un mondo di sotto…») per raccontarne lo spirito. La narrazione di fatti criminosi ha sempre un oscuro fascino che agisce sui nostri lati nascosti. E in genere, invece, la narrazione giudiziaria – quella che riporta i fatti, le azioni, i reati, le fattispecie, la giurisprudenza in merito – ha una sua prosa verbosa e tecnica, per addetti ai lavori (altri giudici, i giornalisti di giudiziaria). Stavolta, invece, ci troviamo di fronte a una narrazione giudiziaria “immaginifica”, diciamo così. Suggestiva. Qualcuno – l’ex magistrato Giancarlo De Cataldo, che ha costruito le sue fortune con Romanzo criminale? Oppure, il magistrato “in sonno”, già sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia a Bari, ora senatore Pd, Gianrico Carofiglio? – potrebbe svolgerla già come un romanzo, qualcuno potrebbe già opzionarne i diritti per un film, e uno spin off di sceneggiato televisivo. C’è insomma un travaso, un mondo di mezzo, tra narrazione romanzesca che nasce dai fatti e narrazione giudiziaria che ricostruisce i fatti. «Prendiamo le intercettazioni, che sono un aspetto sostanziale dell’ordinanza. Ne faccio un esempio (pagina 892 e segg.).

Riccardo: sì ma però, lui a me mi pare de avè capito… che questo già solo che…no

Massimo: acchiappalla, ammazza bona sta …inc..   

Riccardo: bel bucio de culo.. [riprendono il discorso]

Riccardo: che gli dico Ma’ ? vede che jè dico..  

Massimo: “senti ma ho saputo” 

Riccardo: jè faccio la battuta gua..».

Ci capite qualcosa voi tra cambio del discorso e ripresa del discorso, virgolettato messo nelle trascrizioni, inc. che sta per “incomprensibile”? Vi faccio un altro esempio?

«Massimo: ”allora mettiamoci a … inc…. fermare il gioco… perché dopo ci mettiamo d’accordo con quelli che ti rompono … inc”… Perché qui a noi ci chiamano sempre… dopo, compa’! … io me so’ imparato… inc… capito?

Riccardo: ma dimmi un po’? tipo?

Massimo: je devi dì… “senti, che stai facendo? … che stai facendo qualcosa? no perché io ho sentito voci… che qualcuno te vo’ vonno ruba’ tu daglieli 4 sordi… inc.”

Riccardo: bella, gliela faccio così…

Massimo: “ho sentito cose che… c’è gente… inc… perché”.

Riccardo: …inc… sta facendo adesso… perché gli hanno dato una cosa per fa novanta, me pare, appartamenti a Monteverde

Massimo: a Monteverde è buono…

Riccardo: e non hai capito, oh!

Massimo: però… però adesso compa’… le costruzioni..

Riccardo: lascia… perde’… però magari a Mà… pero’ gli facc…».

Sono brani di conversazione tra il “capo dei capi” Massimo Carminati e il suo “braccio destro” Riccardo Brugia. E, anche qui, tra perdita di segnale per frazioni di secondo (?) e inc (incomprensibile) e parole smozzicate e puntini sospensivi, si capisce niente. Il lavoro degli inquirenti è stato davvero improbo, perciò. Hanno dovuto “ricostruire” tutto quello che mancava nelle intercettazioni tra perdite di segnali e incomprensibilità e gergalità e chiacchiericcio del parlarsi addosso come al cortile dell’aria o al baretto di quartiere. Certo, non tutte le trascrizioni sono così. Però, questa aleatorietà della parola, questa vaghezza e vacuità della chiacchiera non è secondaria nella costruzione della cornice della fattispecie di reato dell’associazione di tipo mafioso. Vediamo cosa si dice nell’ordinanza a proposito della finalità propria dell’associazione criminale, cioè acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici. «Si ribadisce che non è necessario, ai fini dell’integrazione del tipo legale, che tale finalità sia perseguita attraverso la commissione di specifici reati, essendo sufficiente l’utilizzazione di ciò che si è definito metodo mafioso» (pag. 64). Forse vale la pena ripeterlo: l’ordinanza dice che non è necessario che ci siano specifici reati. Magari succede che non siano capaci di ritrovarli, sti specifici reati, tra inc e perdita del discorso per frazioni di secondo. Basterebbe il “metodo mafioso”. La vaghezza della chiacchiera diventa la “minaccia incombente”. Scrive l’ordinanza (pag. 34 e segg.): «Intercettazione ambientale, avente come protagonista Carminati, capo indiscusso di Mafia Capitale, a seguito della pubblicazione di un articolo sul settimanale L’Espresso, dal titolo “I quattro Re di Roma”… Conversazione nella quale Carminati si mostra per un verso gratificato da tale riconoscimento mentre per altro verso ne coglie le opportunità criminali, rappresentando ai suoi interlocutori la non necessità, per il conseguente effetto mediatico, dell’uso di forme di violenza diretta.

Riccardo: l’ha letto l’Espresso, Maurizio?

Massimo: inc.. ma questo.. sul lavoro … sul lavoro nostro… sono pure… cose buone».

Carminati, cioè, utilizzava la narrazione del settimanale L’Espresso per riempire di qualcosa la vaghezza. E questo avrebbe rafforzato l’esercizio del “metodo mafioso”. Ora, il metodo che usano i mafiosi – oltre a ammazzare propriamente, scioglierti nell’acido o farti saltare in aria – è alludere all’esercizio di una violenza terribile perché storicamente nei territori controllati dalle organizzazioni criminali una violenza terribile è stata applicata contro chiunque si sia opposto. La loro stessa presenza, o l’invio di un loro emissario fa capire a chi ci incappa che può accadergli di tutto, a lui e alla sua famiglia fino alla settima generazione. Perché la mafia è stata, è e sarà. Ovunque. Non hai riparo. Ora, con tutto il rispetto, qualcuno può accostare questo “Mondo di mezzo” romano – dove accade che gli imprenditori contattati si trasformino in solerti collaboratori perché c’è da magnà pe’ tutti, e i politici e gli amministratori fanno a rubamazzette con i “criminali” – con l’orribile violenza che ha insanguinato e continua a insanguinare il nostro paese? Ma di che inc. stiamo parlando?

Mafia capitale e le chiacchiere degli smaliziati. L’inchiesta su Roma, scrive Ernesto Galli della Loggia su “Il Corriere della Sera”. Non è più Tangentopoli, ormai. È Mahagonny, la città immaginata dalla fantasia di Brecht e Weill dove è legge l’assenza di legge (Mahagonny: e dunque chi se ne importa se il termine «mafia» non è proprio quello filologicamente più appropriato). Non è più, insomma, la collusione dell’epoca di Mani pulite tra industriali senza scrupoli e politici pronti a vendere e a vendersi. Ormai è l’intreccio sempre più organico tra politica, amministrazione e malavita. È - si direbbe - la fase immediatamente precedente la conquista del potere direttamente da parte del crimine. Chiamiamo le cose con il loro nome: almeno fino alla settimana scorsa a Roma, nella capitale d’Italia, non era proprio questo all’ordine del giorno? Non è vero che la politica, perlomeno quella nazionale - come ci viene detto - è sbalordita, è sconvolta, è pronta a correre ai ripari. Non ha forse il ministro dell’Interno Angelino Alfano detto l’altro ieri che «Roma non è una città marcia, Roma non è una città sporca, è una citta sana»? E come no, deve essere senz’altro così, visto che nessuno dei tanti personaggi importanti che si sono mossi per anni su quella scena - da Veltroni a Zingaretti, dalla Meloni a Tajani, da Gasparri a Sassoli - ha mai fatto una piega, si è mai accorto di nulla, ha mai detto qualcosa. E visto che in tutto questo periodo neppure ad uno dei tanti egregi procuratori della Repubblica succedutisi a Roma prima di quello attuale è mai capitato d’interessarsi di quanto sta venendo fuori oggi. Così come del resto a nessuno, a Roma o fuori Roma, sembra che abbia mai interessato il fatto che da anni, ogni volta che c’è un caso di corruzione politico-affaristica (dall’Expo al Mose, a Roma, appunto), ogni volta spunta immancabile lo zampino di qualche società affiliata alla Lega delle cooperative. Chissà come mai. In Italia funziona così. Porre questioni scomode o guardare in fondo alle cose non usa, in politica meno che altrove. Ovvio dunque che di fronte all’arrembaggio capitolino di galantuomini come «er cecato» e «er maialotto», si pensi che la risposta adeguata sia una manciata di autosospensioni e dimissioni o lo scioglimento di una federazione di partito (quella del Pd romano: peraltro già ridotta da tempo a un Ok Corral per politicanti affamati di quart’ordine): misure già tutte viste e riviste mille altre volte in mille occasioni analoghe. E di cui tutti, quindi, sono in grado di apprezzare l’efficacia. L a verità è che finché al centro della scena c’era Berlusconi, ogni caso di pubblica corruzione suscitava, per ragioni ben note, un dibattito accesissimo tra presunti «garantisti» e presunti «giustizialisti», e rispettive vaste tifoserie, divenendo immediatamente un terreno di scontro politico. Oggi invece, tramontata la presenza dell’ex Cavaliere, e spappolatosi il centrodestra, di fronte a fatti come quelli di Roma non sembra esserci più posto, nel campo della politica, che per una maggioritaria tendenza alla sordità, a «ridimensionare», e per quanto riguarda il modo di reagire, ad attenersi, come si dice, al «minimo sindacale». Prevale ormai tra gli addetti ai lavori il partito trasversale degli «smaliziati». Quelli che per l’appunto, di fronte a mezzo Comune di Roma al servizio del malaffare, irridono alla «Corleone dei cravattari», fanno un sorriso di sufficienza ogni volta che sentono risuonare dopo un sostantivo l’aggettivo «morale», e giudicano dall’alto in basso gli sprovveduti che di politica capendoci poco, sono solo capaci di augurarsi, molto banalmente, che ci sia in giro un minimo di decenza. Gli «smaliziati» di professione, i quali - mischiando l’ottimismo craxiano-berlusconiano di un tempo con l’antigufismo renziano attuale - non sopportano giustamente che si parli di declino dell’Italia, di crisi storica del Paese, facendosi beffa di qualunque ragionamento critico cerchi di guardare oltre l’oggi, di chiunque evochi i problemi antichi della Penisola. Perché conta solo la politica. Naturalmente la politica che c’è: cioè la politichetta de’ noantri , quella della chiacchiera non stop giornalistico-televisiva-romana, 24 ore su 24. Quella politica che si ostina a non capire che il Paese ha certo bisogno delle riforme istituzionali e della ripresa economica, del Jobs act, di un altro Parlamento, degli 80 euro e via di seguito. Ma che nulla di tutto ciò servirà minimamente, si può essere certissimi, se non ci sarà qualcosa d’altro. Chiamiamola come vogliamo - uno scatto morale, un nuovo sentimento nazionale, una voglia collettiva di riscatto - ma insomma qualcosa a cui la politica deve essere capace una buona volta di dare voce, un segnale da trasmettere alle menti e ai cuori di quei milioni di «sprovveduti» che pur con tutti i limiti e le contraddizioni che conosciamo costituiscono la maggioranza degli italiani. Un segnale forte di serietà, di decisione, e una buona volta di capacità di colpire per primi. Siamo stufi di vedere all’attacco sempre gli «altri» e «noi» colpire sempre di rimessa.

Ehi, garantisti, dove siete scappati? Scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Come iniziò ”Mani Pulite”? Con l’arresto di un certo Mario Chiesa, preso con le mani nel sacco (una tangente di 7 milioni di lire nascosta nelle mutande). E finì radendo al suolo la Prima Repubblica, dopo una stagione tremenda di arresti e intimidazioni. Parecchi ci lasciarono la vita: Cagliari, Gardini, Moroni, Craxi. ”Mafia Capitale” invece non ha intercettato nessun fatto concreto, nessuna tangente, solo alcune telefonate nelle quali gli imputati si vantavano di avere mezzo mondo ai propri ordini. E siccome in questa inchiesta non c’è niente di concreto, gli inquirenti anziché contestare il reato di corruzione hanno contestato il reato di mafia. Questa inchiesta è una bufala. Ma i pochi garantisti che ancora circolavano nel dibattito pubblico sembrano spariti. Aiuto! Il 17 febbraio 1992, quando ricopriva la carica di presidente del Pio Albergo Trivulzio, a Milano, Mario Chiesa, dirigente del partito socialista, venne colto in flagrante mentre accettava una tangente di sette milioni di lire (3.500 euro, circa) dall’imprenditore Luca Magni, che gestiva una piccola società di pulizie e voleva assicurarsi un appalto. Da lì nacque ”Mani Pulite” che pose fine alla prima Repubblica e al periodo migliore della democrazia italiana. Stavolta – a differenza da allora – nessuno è stato colto con le mani nel sacco. La retata è nata da una attività vastissima di intercettazioni e da un numero incredibile di sciocchezze dette al telefono da tre o quattro persone fra le quali questi due strani personaggi che sono Carminati e Buzzi. A differenza dal ’92, pare, nessuno è stato preso mentre intascava una tangente, o mentre la chiedeva, o mentre minacciava qualcuno per averla. Allora il pool di Milano inquisì molte migliaia di persone per concussione o corruzione (non per mafia…). Ci furono 4.500 arresti, 25 mila avvisi di garanzia, una decina di suicidi e dopo alcuni anni 1300 tra condanne e patteggiamenti. La maggioranza delle persone passate per la prigione non fu condannata. Ci ha insegnato qualcosa ”Mani Pulite”? No. L’inchiesta su ”Mafia Capitale”, che sembra molto meno solida di ”Mani Pulite”, ha suscitato entusiasmo generale. Nei giornali, tra la gente, anche nella politica. La discussione politica che si è aperta non ha ri- guardato il merito dell’indagine, non ha messo in discussione i suoi eccessi di spettacolarità, neppure la fragilità dell’accusa di associazione mafiosa, non ha sfiorato l’eccesso di protagonismo dei magistrati, non ha avanzato nessun dubbio sulla strabordante utilizzazione delle intercettazioni, sulla discrezionalità della loro interpretazione, sull’illegittima e interessata distribuzione ai giornali, e sul loro uso assai discutibile. Niente di tutto questo. La discussione che è in corso verte esclusivamente su come la politica deve punire i suoi esponenti prima ancora che qualunque responsabilità sia accertata. E questa posizione ha unificato stavolta, senza esclusione, non solo i rappresentati del fronte molto esteso e molto potente, dei giustizialisti, ma ha finito per aggregare anche un gran numero di leader che negli anni passati avevano tentato di navigare sulla barca garantista, e che improvvisamente ne sono scesi. Chiedere lo scioglimento del Consiglio comunale di Roma è una follia. Il consiglio comunale è stato eletto, il sindaco Marino ha vinto le elezioni democratiche, ed assegnare ai giudici il potere di spedirlo a casa – neppure con un avviso di garanzia a lui, ma addirittura con un avviso di garanzia a un suo assessore – è la resa definitiva e totale, senza condizioni, della politica alla magistratura. E’ la sconfitta, la morte di una politica che si genuflette all’arroganza di un giornalismo ”linciatorio” , privo di struttura, asservito alla potenza del potere giudiziario. Immagino che voi come me avrete letto le intercettazioni distribuite dai magistrati ad alcuni grandi giornali (come premio per la loro fedeltà). In nessuna di queste intercettazioni c’è niente di concreto. Si riferiscono tutte a discorsi di un gruppetto di esaltati che sostiene di avere il mondo in mano e di tenere ai propri ordini leader politici, amministratori, e varia gente potente. Non c’è mai un leader politico che prende un ordine da loro. Che dice signorsì o ringrazia per una tangente. Non c’è nessun riscontro. Sono frasi sconnesse che sicuramente alludono a pratiche di corruzione e di degrado politico, che certamente esistono e delle quali è giusto indignarsi. Ma che in nessun modo costituiscono prove di reati concreti. Dire per telefono a un amico ”Io a quello lo faccio strillare come un’aquila spennata” è una cosa che a me non vorrebbe in mente. Però, ad esempio, ”io a quello lo gonfio…” credo che sia una frase che io talvolta ho pronunciato al telefono, eppure vi assicuro che non ho mai gonfiato nessuno e nemmeno ho pensato di farlo, e che non esercito usura e non distribuisco tangenti…Questa inchiesta a me sembra che sia una bufala. Non perché a Roma non esista la corruzione ma perché il sospetto che esista è l’unica cosa concreta che emerge da questa carte e dalla retata. Fa paura la scomparsa dei garantisti. A partire da Berlusconi, da Forza Italia, che invece chiede che sia mandata a casa la giunta Marino. E da Renzi, che in passato aveva fatto vedere una certa avversione al forcaiolismo, e che invece ora sembra solo cercare un po’ di consenso nei giornali e nel popolo che lincia.

Tanto tutta l’Italia è paese.

Bassolino: «Perché dobbiamo sapere tutto su Napoli e non su Roma e Milano?» Intervista di Katia Ippaso su  “Il Garantista”. I ragazzi della scuola media Marechiaro di Napoli scrivono una lettera seria, serissima, che dentro la sua compostezza formale trattiene una stanchezza che diremmo antropologica: siamo stufi di essere messi in scena sempre nello stesso modo. In più, non è divertente. Perché non fate dello spirito sul Nord? E’ questa l’opinione degli studenti. Si potrebbe tralasciare e prendere la cosa come una lamentela. E invece. Decidiamo non solo di pubblicare la lettera (ndr.nella stessa pagina in basso), ma di prenderla come spunto per una riflessione più ampia con un interlocutore come Antonio Bassolino, attuale presidente della Fondazione Sudd, ex presidente della Regione Campania e sindaco di Napoli, con cui il discorso prende una piega anche biografica. Bassolino ora di professione fa (anche) il maratoneta. Per davvero. Cinque ore e zero cinque minuti per fare quarantadue chilometri e centonovantaquattro metri. Per questo gli viene meglio, per commentare il lavoro dei politici italiani, usare metafore sportive: «Renzi? E’ un velocista, ora deve trovare il passo lento». Ma gli sta soprattutto a cuore la questione culturale. Anna Maria Oreste e il suo Mare non bagna Napoli è di nuovo sul suo comodino. Ammette di averlo letto una cosa come venti volte. La scuola è un altro suo chiodo fisso.

Bassolino, come risponde agli studenti della scuola Marechiaro? Pensa che abbiamo esagerato? Gli autori del film hanno detto che loro, in fondo, hanno fatto una commedia.

«Se vogliamo parlare del film, La scuola più bella del mondo, posso dire che gli stessi autori prima avevano fatto un film molto carino, che era Benvenuti al Sud. Grande successo di pubblico. Come in questo caso, sia chiaro. Ma in quel c so c’era una ironia leggera che produceva simpatia, ed era una ironia sia su Napoli, sul Sud, ma anche sul Nord, perché Bisio finiva al Sud e scopriva Castellabate e si faceva ironia anche su di lui, sul suo modo di vivere e di pensare. In questo caso invece – ed è quello che dicono i ragazzi e non solo loro (ci sono state tante polemiche su questo film) – l’ironia è unilaterale. Questa lettera della terza D di Marcehiaro – scuola dove io passo abbastanza spesso, durante le mie corsette – va presa per il verso giusto. Cioè va tenuta in considerazione proprio perché una lettera che viene da una scuola».

In questo momento del tempo, tutto ciò che attiene al mondo della scuola è oggetto di scontro politico ma anche materiale cronachistico.

«Di scuola si discute molto proprio in questi giorni a Napoli. Qualche giorno fa il Galiani, istituto tecnico, è stato derubato e vandalizzato. In modo inaudito. In piena notte».

Si è stabilito che cosa era successo?

«Non ancora, ci sono indagini in corso. Quello che si sa è che è stato vandalizzato. E giustamente la preside di quell’istituto, Armida Filippelli, ha scritto che la scuola è un luogo sacro della repubblica. Altri episodi simili sono avvenuti a Napoli negli ultimi mesi. Per questo la scuola è un osservatorio fondamentale. Nel bene e nel male. Nel male quando viene attaccata e sfregiata. E nel bene quando viene interpretata e rispettata per quello che è: simbolo di emancipazione sociale e civile. Per la sua importanza strategica, anche una lettera come questa va presa come un impegno civile. Naturalmente qui non si fa un processo a un film, considerando anche che si tratta di una commedia. Rimane la questione della ”rappresentazione” che, nel caso di una città come Napoli, passa spesso per fenomeni eclatanti e ancora controversi. Gomorra è solo l’ultimo esempio. Non è un caso comunque che Gomorra la serie tv sia stata venduta da Sky Italia in tutto il mondo. Cosa che piace (agli artisti coinvoliti e ai fan) e non piace (a chi è stufo di subire l’abbinamento: Napoli uguale camorra). Ma la questione è antica. Ricordiamo l’andreottiano e censoreo «I panni sporchi si lavano in famiglia»…Qui ci muoviamo su un sentiero molto difficile. L’immagine della città è un tema antico e spigoloso. Io credo che sia sbagliato fare la parte degli offesi. Quante discussioni sono sorte su La pelle di Curzio Malaparte? Quante discussioni su quel romanzo meraviglioso che ogni tanto rimetto sul comodino (proprio nei giorni scorsi l’ho rimesso lì per rileggerlo) e cioè Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese? Quanti intellettuali si sono sentiti offesi! Non è questo però il caso della lettera dei ragazzi di Marechiaro, che fanno una oservazione precisa. Non è un rifiuto dell’ironia, non è il sentirsi vittima di un attacco. Il problema vero è che ci sono tante rappresentazioni della città perché ci sono tante città diverse e tutte sono reali. Facciamo un esempio concreto: Scampia. La rappresentazione cruda di tanti aspetti della vita della vita di Scampia legati a camorra e a criminalità organizza è vera. E sarebbe molto grave fingere di non vedere, pensare che non esista… Io ero giovane dirigente del Pci. E quando andavo a Catania sentivo dire che la mafia a Catania non esisteva! Questo per dire che è sbagliata la questione dei panni sporchi si lavano in famiglia. I panni sporchi devono uscire fuori alla luce del sole».

A proposito di partito, lei ce l’ha ancora la tessera del Pd?

«Sì, l’ultima tessera ce l’ho ancora».

Qualche giorno fa ha presentato un libro che si intitola ”L’oro di Scampia” che non parla di segreti criminali ma di una palestra futuristica nata sul territorio. Che cosa ci legge in una impresa che può sembrare ordinaria, molto poco epica?

«Anche quella è Scampia. Scampia è camorra e Gomorra, e Scampia è Maddaloni e la sua palestra. Gianni Maddaloni, l’autore, è un maestro di judo e ha tanti ragazzi che vanno da lui a prepararsi. Sono giovani spesso salvati da una possibile affiliazione alla camorra. Lo sport può essere un motivo di riscatto».

Lei ne sa qualcosa. Si arrampica ancora?

«Sì, faccio trekking. E maratone. Nel mio caso lo sport è stata una specie di reazione al dopo fumo».

Quanto fumava?

«Cinque pacchetti al giorno».

E che cazzo questo vetusto dualismo fascismo e comunismo! Meno male che c’è il Censis che ci apre gli occhi.

Rapporto Censis 2014, politica bocciata: Gira a vuoto, riforme fallite e incoerenti, scrive Luigi Franco su “Il Fatto Quotidiano”. L'utilizzo record da parte degli ultimi tre governi dei dl accompagnati dal voto fiducia ha esposto la società italiana a una sensazione di incertezza ed emergenza continuata. E così le imprese non investono e le famiglie non spendono, temendo possibili imprevisti, come la perdita del lavoro o la malattia. E la povertà viene vista come un "virus che può contagiare chiunque". Per i giovani, poi, le spese impreviste diventano un incubo. Una politica che “gira a vuoto”. Senza ottenere risultati in grado di incidere in modo positivo sull’economia del Paese e sulla società. E’ la valutazione che l’annuale rapporto del Censis dà dell’azione dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Responsabili, insomma, di una politica che “resta confinata al gioco della stessa politica”. Il dossier sottolinea infatti “il progressivo fallimento di molte riforme”, spesso “distaccate da un quadro coerente e inadatte a formare una visione unitaria di ciò che potrà o dovrà essere il Paese nei prossimi decenni”. Un esempio su tutti? Le riforme del mercato del lavoro, che “nel perseguire la flessibilità hanno generato precarietà”. E mentre nelle periferie esplode la questione casa, il Censis evoca addirittura il rischio banlieue: l’Italia “ha fatto della coesione sociale un valore e si è spesso ritenuto indenne dai rischi delle banlieue parigine”, ma le problematicità ormai incancrenite di alcune zone urbane “non possono essere ridotte ad una semplice eccezione”.

Troppi decreti legge, come 11 Divine Commedie – Sul banco degli imputati finisce soprattutto l’utilizzo dei decreti legge approvati spesso con voto di fiducia. L’istituto di ricerca fa i conti: dall’avvio della stagione di riforme nell’autunno del 2011 i governi Monti, Letta e Renzi hanno portato in Parlamento ben 86 decreti che, con le successive modifiche e conversioni in legge, raggiungono un totale di 1,2 milioni di parole: l’equivalente di oltre undici Divine Commedie fatte di norme e codici, che non hanno portato ad alcun decollo dello sviluppo e dell’occupazione. Ma che secondo il Censis hanno avuto una conseguenza negativa certa: “L’aver perso per strada il principio costituzionale di straordinarietà dei provvedimenti introdotti con decreto legge ha esposto la società italiana a una sensazione di emergenza continuata”.

Pochi investimenti da famiglie e imprese - La sensazione di emergenza si accompagna nella vita di tutti i giorni alle conseguenze della crisi, che si traducono in una costante incertezza. E così l’approccio prevalente delle famiglie diventa quello dell’attesa. La gestione dei soldi, per esempio, è fatta sulla base di logiche di “breve e brevissimo periodo”. Tra il 2007 e il 2013 – rileva il Censis – tutte le voci delle attività finanziarie dei nuclei familiari sono diminuite, tranne i contanti e i depositi bancari, aumentati in termini reali del 4,9%, arrivando a costituire il 30,9% del totale (erano il 27,3% nel 2007). “Prevale un cash di tutela – si legge nel rapporto – con il 45% delle famiglie che destina il proprio risparmio alla copertura da possibili imprevisti, come la perdita del lavoro o la malattia, e il 36% che lo finalizza alla voglia di sentirsi con le spalle coperte. La parola d’ordine è: tenere i soldi vicini per ogni evenienza, ‘pronto cassa’”. Da un lato i contanti funzionano da carburante per il nero e il sommerso. Dall’altro i soldi fermi sui conti correnti sono la contromisura al rischio povertà, percepita come “un virus che può contagiare chiunque”, e vengono così sottratti dagli investimenti. E allora la società italiana diventa per il Censis la società “dal capitale inagito”, ovvero delle risorse inutilizzate e sprecate. Una società dove anche le imprese non rischiano più: dal 2008 si è registrata una flessione degli investimenti di circa un quarto. E ancora: “L’incidenza degli investimenti fissi lordi sul Pil si è ridotta al 17,8%, il minimo dal dopoguerra”.

In otto milioni non lavorano, lo spreco di capitale umano - Capitali finanziari inutilizzati. Ma anche capitale umano che non si trasforma in energia lavorativa: “Agli oltre 3 milioni di disoccupati – ricorda il Censis – si sommano quasi 1,8 milioni di inattivi perché scoraggiati. E ci sono 3 milioni di persone che, pur non cercando attivamente un impiego, sarebbero disponibili a lavorare. È un capitale umano non utilizzato di quasi 8 milioni di individui”. Più penalizzati sono i giovani, visto che i 15-34enni costituiscono il 50,9% dei disoccupati totali. E sono in continua crescita i Neet, ovvero gli under 30 che non sono impegnati in percorsi di istruzione o formazione, né cercano lavoro: sono passati da 1.832.000 nel 2007 a 2.435.000 nel 2013.

Patrimonio artistico sottoutilizzato – Anche le risorse artistiche e culturali non vengono sfruttate. “Siamo un Paese dal capitale inagito anche perché l’Italia riesce solo in minima parte a mettere a valore il ricco patrimonio culturale di cui dispone”. In Italia il numero di lavoratori nel settore della cultura è di 304.000, l’1,3% degli occupati totali: meno della metà di quello di Regno Unito (755.000) e Germania (670.000), e di gran lunga inferiore rispetto a Francia (556.000) e Spagna (409.000). Nel 2013 il settore ha prodotto un valore aggiunto di 15,5 miliardi di euro (solo l’1,1% del totale del Paese), contro i 35 miliardi della Germania e i 27 della Francia.

La politica parla su twitter, mentre la pubblica amministrazione si svuota di competenze - In questa situazione che incide negativamente sulle aspettative dei cittadini, la politica è tutt’altro che incisiva. L’abuso dello strumento del decreto legge porta all’aggiramento delle istituzioni intermedie e si accompagna, sul piano della comunicazione, alla necessità degli organi di governo di parlare direttamente agli elettori attraverso i social network. Il che causa, secondo il Censis, “un sostanziale appiattimento delle differenze: nero o bianco, dentro o fuori, a favore o contro”. La politica non riesce poi a porre rimedio alle inefficienze della pubblica amministrazione: “Abbiamo grandi strutture ormai letteralmente vuote di competenze e di personale – si legge nel report – abbiamo grandi ministeri e grandi enti pubblici il cui funzionamento è appaltato a società esterne di consulenza o di informatica, abbiamo strutture pubbliche che sono ambigue proprietà di principati personali (…) abbiamo un aumento degli scandali direttamente proporzionale all’enfatizzazione di una mitica trasparenza”. Per recuperare credibilità di fronte a tale situazione, in un clima di continua denuncia della casta, “non basta l’enfasi che il mondo delle istituzioni ha dato a due concetti fondamentali, legalità e trasparenza”.

La palude dei lavori pubblici: speso solo il 20% dei fondi europei – A tutto questo si aggiungono “le difficoltà ad avviare e portare a compimento lavori pubblici importanti”. Lo si è visto in relazione alle emergenze, come le recenti alluvioni, e in relazione al prolungarsi indefinito di operazioni complesse, come la ricostruzione dell’Aquila. E anche quando le risorse ci sono, queste vengono utilizzate male. È il caso, secondo l’istituto di ricerca, dei fondi europei. Dai dati sugli 807mila progetti monitorati nell’ambito delle politiche europee di coesione 2007-2013 si scopre infatti che la spesa certificata a luglio 2014 è pari a 32,3 miliardi, ovvero appena il 40,3% degli 80 miliardi corrispondenti al totale delle risorse programmate. Tale percentuale è ancora più bassa nel caso degli interventi infrastrutturali: “A un anno dalla chiusura del periodo di programmazione europea si è speso appena un quinto delle risorse (20,4%)”. Tanto che il Censis parla di “palude dei lavori pubblici”.

Sanità pubblica e welfare sempre meno accessibili. Soprattutto per i giovani – Gli italiani si sentono sempre meno garantiti dal sistema della sanità pubblica e del welfare. La politiche di spending review hanno fatto sì che il 50,2% della popolazione pensi che le disuguaglianze in ambito sanitario sono aumentate. La spesa privata per le cure, inoltre, è cresciuta dai 29.578 milioni di euro del 2007 ai 31.408 milioni del 2013. “Nel nuovo contesto si registra non solo un approfondimento di disuguaglianze antiche – scrive il Censis – ma anche l’insorgenza di disuguaglianze inedite legate alla nuova geografia dei confini pubblico-privato in sanità, e all’espansione della sanità a pagamento o, per chi non ce la fa, la rinuncia a curarsi e a fare prevenzione”. Per quanto riguarda il welfare in generale, i giovani vivono ormai una sorta di “estraneità alla protezione sociale”. Il 40,2% di loro dichiara infatti che negli ultimi dodici mesi le prestazioni sanitarie, per istruzione e di altro tipo, non sono più gratuite come prima ma gravate da qualche forma di contribuzione. Tale effetto si aggiunge alle spese impreviste che i giovani considerano un vero “incubo”: affitto, spese condominiali, spese per le bollette di luce, gas e telefono. La conseguenza? Dei circa 4,7 milioni di giovani che vivono per conto proprio, oltre un milione non riesce ad arrivare a fine mese e si stimano in 2,4 milioni coloro che ricevono regolarmente o di tanto in tanto un aiuto economico dai propri genitori. “Non avere le spalle coperte e dipendere strutturalmente dai genitori genera un inevitabile deficit di progettazione nella vita”.

Turismo, design e cibo: ecco le good news - Per trovare qualche buona notizia bisogna andare a parare nei settori dove da sempre siamo apprezzati all’estero. L’Italia è la quinta destinazione turistica al mondo, con 186,1 milioni di presenze turistiche straniere nel 2013 e 20,7 miliardi di euro spesi (+6,8% rispetto al 2012). Siamo ancora forti nell’export delle 4 A del made in Italy (alimentari, abbigliamento, arredo-casa e automazione), che è aumentato del 30,1% in termini nominali tra il 2009 e il 2013. L’Italian style non perde il suo fascino, insomma. Il settore agroalimentare, per esempio, è una delle componenti più dinamiche dell’export: 27,4 miliardi di euro nel 2013, con un aumento del 26,9% rispetto al 2007. L’Italia è il Paese con il più alto numero di alimenti a denominazione o indicazione di origine (266), seguito a distanza da Francia (219) e Spagna (179).

Rapporto Censis, giovani umiliati. E il presidente sceglie il successore: il figlio, scrive Eleonora Bianchini su “Il Fatto Quotidiano”. Al vertice dell'istituto dal 1974, ha annunciato la nomina del secondogenito Giorgio. Eppure il Centro studi, nel corso degli anni, ha spesso parlato di raccomandazioni in chiave negativa. Non vale però per il presidente senior: "Mio figlio? Ha il curriculum adeguato". Censis, anno 2007. Il rapporto annuale dell’istituto segnala l’insoddisfazione nei confronti delle istituzioni. Rapporto causa-effetto: si crea una sorta di legittimazione della scorrettezza che è percepita come una risposta sana e fisiologica. Quindi? Si evade il fisco, si chiedono raccomandazioni, e così via. “Raccomandazioni”, termine famigliare per gli italiani, tanto nel 2007 come nel 2014, per cercare lavoro e opportunità. Dalla teoria alla pratica: Giuseppe De Rita, attuale presidente del Censis, ha appena annunciato la nomina di suo figlio Giorgio a “segretario generale per il triennio 2015-2017 nonché facente funzione nello stesso periodo di Direttore Generale“. Lo stesso Giuseppe che ha appena presentato il rapporto Censis 2014, analisi severa sulla politica italiana, la società in declino e le imprese che, soffocate dalla crisi, non investono. Contingenze economiche che si abbattono sulle famiglie e sui loro figli, travolti da un mercato del lavoro precario e flessibile. Ma soprattutto incerto. Non è così per Giorgio, fresco di successione alla guida del Centro Studi Investimenti Sociali, “istituto di ricerca socio-economica fondato nel 1964″, divenuta fondazione composta da enti pubblici e privati dal 1973 che tra i suoi clienti ha tanti enti pubblici. Detto in altre parole, si legge sul sito dell’istituto, “il lavoro di ricerca viene svolto prevalentemente attraverso incarichi da parte di ministeri, amministrazioni regionali, provinciali, comunali, camere di commercio, associazioni imprenditoriali e professionali, istituti di credito, aziende private, gestori di reti, organismi internazionali, nonché nell’ambito dei programmi dell’Unione europea”. Giorgio, secondogenito, ha appena 12 anni quando il papà Giuseppe – che ha altri sette figli avuti dalla moglie Maria Luisa Bari – diventa presidente della Fondazione. Nessun ricambio al suo vertice, perché De Rita senior, insediato nel 1974, è rimasto al suo posto fino a oggi. Trent’anni precisi, fino al cambio di testimone, sempre in famiglia. Le domande de ilfattoquotidiano.it in merito alla raccomandazione sul successore per il presidente senior sono “gossip” e “cazzate” perché lui non vede proprio “nessun conflitto d’interesse”. Anzi, a dirla tutta, visto che siamo alla presentazione del rapporto, si tratta di “domande che non c’entrano niente”. “Si chiama De Rita? Eh, ciccio, questo è un modo per cercare il capello a oltranza”, dice infastidito il presidente da tre decadi, perché l’ascesa di Giorgio per lui ha proprio tutte le carte in regola. “Mio figlio ha il curriculum adeguato”, insiste. Vanta un passato da “amministratore delegato di Nomisma che è una grande società di ricerca, è stato direttore generale della società che si occupa di digitalizzazione dello Stato (direttore generale dal 2012 con un incarico da 158mila euro l’anno, ndr) ed è una persona per bene. A nominarlo è stato il cda, formato da quindici grandi aziende come Telecom e Banca Intesa. Quindi non è una nomina fatta in famiglia”. Insomma, dice papà De Rita, “dove trovavo un altro con il suo curriculum”, visto che ritiene il suo “di ottima levatura”?. E se si fosse affidato ai cacciatori di teste? Ipotesi da scartare, se è per “farmi portare uno che non ha quel tipo di esperienza”. Nulla da fare, i figli so’ pezzi ‘e core. I più bravi, i più preparati, i migliori.   Lo penseranno anche le famiglie di cui parla il rapporto Censis 2014 per le quali, però, in futuro è fatto di salite perché riserva “incertezza, inquietudine, ansia”. E il sentiment per gli anni a venire non anticipa prospettive di maggiore serenità: il 43,2% dei millennials (in età compresa tra 18-34 anni) si sente inquieto perché ha un retroterra fragile e il 26,6% in ansia perché privo di una rete di copertura. In sostanza, un sentiment senza diritto di successione garantito.

Censis, De Rita ci fa la morale poi assume suo figlio, scrive Elisabetta Ambrosi su “Il Fatto Quotidiano”. Sono anni che leggo i puntuali rapporti Censis con un misto di interesse e fastidio. Interesse: perché in questi anni i rapporti sulla realtà della società italiana sono gli unici a raccontarci come stanno veramente le cose, al di là degli slogan della politica. Ma anche profondo fastidio: perché le analisi della società italiana fatte dal Censis, e dal suo presidente Giuseppe De Rita, vengono servite sempre insieme a una interpretazione morale e spesso anche moralistica che poco dovrebbe entrare con qualsiasi ricerca scientifica, come uno dei fondatori della sociologia moderna, Max Weber, spiegava nel suo Il significato della avalutatività delle scienze sociologiche ed economiche. In questi anni ci siamo sorbiti, invece, ammonimenti sul soggettivismo dilagante, sulla mucillagine sociale, sull’individualismo che ha pervaso la società italiana, oltre che lezioni sul lavoro condite da esaltazioni della flessibilità, che Giuseppe De Rita spesso e volentieri impartiva – anche tramite le decine e decine di interviste a giornali – proprio facendo riferimento alla sua numerosa famiglia e ai suoi figli “precari” eppure allegri e fecondi come non mai. Sarebbe interessante sapere se la precarietà della sua numerosa prole coincida con quella di milioni di giovani italiani: e cioè non contratti a tempo determinato però con stipendi alti proprio dovuti al carattere transitorio del contratto – così dovrebbe essere,in un paese normale – ma co.co.co a poche migliaia di euro l’anno per i più fortunati, oppure lavori a partita Iva senza tutele di nessun tipo e con entrate talmente basse che spesso costringono chi la partita Iva l’ha aperta a chiuderla. Insomma la precarietà nera, quella che non ti consente di alzare la testa dalla bruta necessità, quella che, se non hai una famiglia alle spalle, ti fa diventare veramente povero e disperato. E soprattutto impossibilitato a farli, i figli. Ciò che sappiamo per certo, invece, è che mentre venivano snocciolati i dati dell’ultimo rapporto Censis, sulla società italiana in crisi, sulle imprese soffocate dalla crisi, sull’incertezza e le paure dilaganti, il figlio di Giuseppe De Rita succedeva al padre, divenendo direttore generale della Fondazione. Un fatto che in qualunque paese del mondo sarebbe apparso anomalo, così come il fatto che lo stesso De Rita padre sia stato presidente per trent’anni. Il Censis come una monarchia. Ma ciò che è ancora più strabiliante è la risposta data a il Fatto che gli ha chiesto se non vedesse un eclatante conflitto di interesse in questa successione dinastica. Anzitutto, il tono – irato e arrogante – e il linguaggio, persino volgare, insieme alla richiesta alla giornalista di fare domande pertinenti, come se la domanda non lo fosse. Ma soprattutto le argomentazioni: non ci sarebbe conflitto di interesse perché suo figlio è il migliore. Ma il migliore tra chi? C’è stato un concorso, un qualche tipo di gara? No, è il migliore perché lo dice suo padre quale, dopo aver detto che suo figlio è stato eletto dal Cda (che difficilmente poteva eleggere un candidato contro il presidente), si contraddice quando afferma: “Giorgio ha fatto un’ottima carriera, dove trovavo un altro con il suo curriculum? Dovevo chiamare una società di cacciatori di teste per farmi portare uno che non ha quel tipo di esperienza?”. Confermando così di essere stato lui a decidere. Il Censis è una “Fondazione riconosciuta con Dpr n. 712 dell’11 ottobre 1973, anche grazie alla partecipazione di grandi organismi pubblici e privati”, come si legge sul sito. Ci si chiede come mai non ci sia un codice etico, così come norme che vietano incarichi a vita e successioni tra padri e figli. Ma la domanda fondamentale resta un’altra: cosa dovrebbe pensare un comune cittadino italiano quando chi fa indagini sul presunto individualismo amorale degli italiani si comporta in questa maniera, assolutamente inopportuna e manifesto esempio di familismo, e non certo morale?  Sgomenta poi che per ogni padre pronto a piazzare suo figlio, ci sia un figlio pronto ad essere piazzato. Magari, tra trent’anni, farà succedere a se stesso suo figlio. Chi può dire che non sia il migliore? E se la logica è questa, si potrebbe continuare con l’intera stirpe dei De Rita, perché no? Già, perché no?

MAFIA CAPITALE.

"Mafia Capitale". "A Roma non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città. Ci sono diverse organizzazioni mafiose. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato Mafia Capitale, romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso", ha anche detto Pignatone in conferenza stampa il 2 dicembre 2014. "Ci sono approfondimenti in corso sul personale di forze dell'ordine ma l'operazione non si chiude oggi: la posizione di alcuni è al vaglio per favoreggiamento".

Non è più vero che il crimine non paga; rende, eccome. Perfino ai magistrati. Dopo le mazzette a giudici romani.

A volte ritornano anche i titoli dei giornali. Quello, celebre, dell’Espresso suonava così: “Capitale corrotta=nazione infetta”. Era il 1956, ma sembra ieri, nel senso proprio di ieri, se si guarda all’inchiesta esplosiva che a Roma ha appena portato in carcere 37 persone, indagandone altre cento per una serie di reati gravissimi, a partire dall’associazione mafiosa. Un intreccio tra affari, politica e delinquenza che sembra evocare anche un altro e più recente titolo di film e di puntate televisive tratte dal libro “Romanzo criminale”. Cinquantotto anni fa l’inchiesta a puntate dell’Espresso a firma Manlio Cancogni, denunciò con questo titolo, diventato famoso, la corruzione e la speculazione edilizia che strangolavano Roma. Oggi la situazione è molto peggiorata e Roma continua ad essere la vetrina di un’Italia ormai preda delle mafie, della corruzione politica e dello sfacelo ambientale. “Capitale corrotta, Nazione infetta” è il titolo della celebre inchiesta de L’Espresso del 1955, a firma di Mario Cancogni, sulla speculazione edilizia di Roma; un titolo riproposto diverse volte in occasione di scandali con conseguente indignazione popolare, come fu per Tangentopoli e come è stato negli ultimi mesi in occasione delle inchieste sugli appalti o sul finanziamento pubblico dei partiti. E’ un titolo che ci ricorda come in sessant’anni di vita democratica del nostro Paese alcuni vizi del potere non siano mai tramontati, seppur con declinazioni diverse a seconda delle circostanze e dei periodi storici.

"A Roma mi sento come nella mia Palermo" dice Maurizio Crozza truccato da Padrino nella copertina di "diMartedì" del 2 dicembre 2014 su La7. "I carabinieri hanno voluto fare un omaggio a Michelangelo: rinvio a giudizio universale, dall'affresco a tutti al fresco".

"Ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo. C'è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico...", così Massimo Carminati nell'intercettazione di una conversazione tra lui e il suo braccio destro Brugia. "Carminati ha creato sinergie illecite con mondi diversissimi tra di loro - spiega il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone nel corso della conferenza stampa - La teoria del mondo di mezzo è un mondo in cui tutti si incontrano indipendentemente dal proprio ceto. Un mondo in cui tutto si mischia. Carminati parla con il mondo di sopra (ossia la politica e gli imprenditori) e con quello di sotto, ossia quello criminale. E' al servizio del primo avvalendosi del secondo soprattutto per il suo vantaggio".

"Il dieci mattina mi paghi te...nun sgarrà che vengo a casa..non capisci bene...io te taglio la gola il dieci matina...portami i soldi sennò t’ammazzo a te e tutti i tuoi figli", così un indagato in una delle intercettazioni telefoniche dei Ros.

Un approfondimento a 360 affinchè si superi quel vizio italiano per il quale, per partito preso, si considera criminale solo la parte avversa.

Mafia e politica a Roma, Buzzi: "C'ho quattro cavalli che corrono col Pd e tre col Pdl", scrive di Rita Cavallaro su “Libero Quotidiano”. Mafia Capitale, alla fine, è venuta alla luce. Ci sono voluti due anni d’indagini dei carabinieri del Ros, che hanno effettuato pedinamenti e intercettazioni. Giorno dopo giorno le «gesta» del gruppo dell’ex Nar Massimo Carminati sono finite sulle 1.249 pagine di ordinanza che hanno fatto scattare i 37 arresti di ieri e un centinaio di avvisi di garanzia. Nel faldone c’è di tutto: l’estrema destra eversiva che ha terrorizzato Roma negli anni ’70, ma anche insospettabili manager e politici locali. Che parlano, al telefono e in strada. Sicuri di non essere ascoltati e di poter controllare affari e appalti in barba alle regole della gestione pubblica. Le intercettazioni descrivono la cupola nera. E danno addirittura il nome all’operazione dei carabinieri. «Mondo di mezzo» nasce infatti dalle parole di Carminati, che in gergo spiega l’intreccio tra Mafia Capitale e amministratori. È l’11 gennaio 2013 e l’ultimo Re di Roma descrive con una metafora al suo braccio destro, Riccardo Brugia, i rapporti con i politici. «È la teoria del mondo di mezzo compà...ci stanno...come si dice...i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. Ci sta un mondo...un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello...il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra...cioè...hai capito?...si incontrano tutti là...ma non per una questione di ceto...per una questione di merito, no?...allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno». Carminati si sente il padrone della città: «È il re di Roma che viene qua, io entro dalla porta principale». Lo dice chiaramente a un interlocutore davanti a un bar a Vigna Stelluti: «Nella strada tanto comandiamo sempre noi, nella strada tu c’avrai sempre bisogno». Non solo nella strada, anche nei palazzi, tanto che il «cecato» si prende la libertà di lamentarsi dell’ad di Eur Spa, Riccardo Mancini, chiamato «il sottoposto». «Vede io che gli combino...a me non mi rompesse il cazzo...a me me chiudesse subito la pratica là», dice a un sodale. In un’altra intercettazione diceva «passo le ’stecche» (la sua parte, a Mancini, ndr) per i lavori che fa, però l’altro giorno gli ho menato». Nelle carte ci sono pure le preoccupazioni dell’organizzazione criminale sulla probabile vittoria di Ignazio Marino al Campidoglio. Secondo gli inquirenti Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Carminati, «pone in essere l’avvicinamento dei decisori pubblici, sia con la vecchia che con la nuova amministrazione, in funzione degli interessi del sodalizio». E infatti, con l’avvento della nuova giunta, Buzzi entra in azione. «Eloquente esempio», per i magistrati, è l’attività di Buzzi che, «secondo l’indicazione strategica di Carminati di “mettere la minigonna e andare a battere con la nuova amministrazione”, nell'immediatezza del cambio di maggioranza politica al comune di Roma» cerca «con Coratti, presidente dell’assemblea Comunale di Roma Capitale» di intessere rapporti. A tal proposito a pagina 138 si citano Mirko Coratti e Franco Figurelli, suo capo segreteria, i quali, venivano interessati da Salvatore Buzzi affinché si occupassero di aggiudicarsi una gara d’appalto all’Ama, l’azienda dei rifiuti, di sbloccare i pagamenti sui servizi sociali forniti al Comune di Roma e di pilotare la nomina di un nuovo direttore del V Dipartimento. «Oh, me so’ comprato Coratti», dice Buzzi, che racconta anche come Figurelli veniva retribuito con 1.000 euro mensili, oltre a 10.000 euro pagati per poter incontrare il Presidente Coratti, mentre a quest’ultimo venivano promessi 150.000 euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale. Sempre Buzzi parla con un’amica degli affari fatti con la gestione delle cooperative di immigrati. Dice la donna: «Perchè su Tivoli non è che un cantiere che ti guadagna miliardi». Lui: «Apposta tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Eh. Il traffico di droga rende di meno». Con un imprenditore, infine, Buzzi, spiega come funziona il sistema: «Tu li voti, vedi, i nostri sono molto meno ladri di...di quelli della Pdl». E poi aggiunge più avanti nella conversazione: «Ma lo sai agli altri soldi che gli do’ Giova’? Ma tu lo sai perché io c’ho lo stipendio, non c’hai idea di quante ce n’ho... non ce li hanno… pago tutti pago...Anche due cene con il sindaco settantacinquemilaeuro ti sembrano pochi? Oh so centocinquanta milioni eh. I miei ti posso assicura’ che non li pago». «Mo’ c’ho 4 cavalli che corrono col Pd e 3 col Pdl».

Roma tra mafia, sangue e giochi di potere nel libro "Grande raccordo criminale". Nell'inchiesta di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti (Imprimatur), le connivenze e la violenza che stringono da tempo la Capitale e che oggi sono culminati con gli arresti di Massimo Carminati e altre cento persone. Eccone alcuni stralci, scrive “L’Espresso”. «E’ la terra di mezzo, i vivi sopra e i morti sotto, noi siamo nel mezzo, un mondo in cui tutti si incontrano, perché anche il sovramondo ha interesse che qualcuno del mondo di sotto faccia qualcosa nel suo interesse». Massimo Carminati, arrestato oggi con l’accusa di essere a capo della mafia Capitale, descrive così la terra di mezzo, quella in cui la criminalità e il potere si incontrano per fare affari. Quella in cui la corruzione lascia il posto alla violenza solo quando è necessario ribadire chi comanda. E’ Carminati per gli inquirenti a scegliere i dirigenti dell’Ama, l’azienda dei rifiuti di Roma, e persino il presidente della Commissione Trasparenza in Campidoglio ai tempi del sindaco Gianni Alemanno, oggi indagato per il reato di 416 bis, ossia l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Ed è sempre lui a tenere legami con l’ex vice capo di gabinetto della giunta Veltroni, Luca Odevaine, accusato di aver orientato le scelte sui flussi di migranti verso le strutture cooperative in mano a Carminati. Quella di Carminati è una figura di primo piano nella malavita romana. Il suo arresto mina alle fondamenta il crimine della Capitale. Grande raccordo criminale di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti, edito da Imprimatur, è un'inchiesta che svela le connivenze, il sangue e la violenza che stringono da tempo la Capitale, ricostruendone i rapporti mafiosi e gli intrecci di potere che oggi sono emersi con l’operazione ‘Mondo di mezzo’. Ne riportiamo alcuni stralci. “«Non ama farsi vedere, tanto meno parlare. Si spiega più con i gesti. Ogni passo è una frustata, ogni movimento una scarica elettrica. Una forza gelida e oscura che ti inchioda a terra e non ti fa alzare lo sguardo». Una vita all’apparenza ordinaria: nessun lusso, nessuna ostentazione, nessuna retorica. «Niente inflessioni dialettali, niente eccessi. Sempre misurato e cortese». Si muove come un’ombra, raccontano. Massimo Carminati, un’ombra che fa tremare. A lui la Roma criminale si rivolgerebbe per le primizie, per avere un’intercessione negli affari che contano. Il suo nome si sussurra. Ed è già troppo farlo. In tanti gli tributano deferenza e rispetto. Tutti ne hanno paura. Non eserciterebbe il potere direttamente, preferirebbe valutare, mediare, e solo dopo decidere. Ma se qualcuno dei suoi è toccato, saprebbe come agire. Non ha amici, solo camerati. La fratellanza politica per lui sarebbe il valore più importante. E quei camerati, come li difendeva allora fisicamente, sembra sia pronto a difenderli anche ora. Sono pochi però, quelli fidati. In nome di quel senso di appartenenza a un gruppo ristretto e a un ideale che dalla gioventù ha portato con sé nell’età adulta. Appartenenza e coraggio. Pochi valori, infrangibili, che non si discutono mai. Carminati, il nero. È stato un terrorista dei Nar e accusato di essere killer al servizio della banda della Magliana. Anello di congiunzione tra la criminalità romana ed i gruppi eversivi di estrema destra. Al centro dei misteri più controversi della Repubblica Italiana, processato per rapine e omicidi, ne è uscito quasi sempre indenne. «Uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura». Valerio Fioravanti l’ha descritto così. La violenza, un signum distinctionis.” “Potere che pare esplodere quando Gianni Alemanno varca la soglia del Campidoglio. Chi trent’anni fa ha condiviso la militanza nell’estremismo di destra sembra sappia di non potergli dire di no. Una famiglia con un legame più forte della parentela. Il vincolo della militanza politica, degli ideali, delle battaglie condivise, e anche dei segreti da custodire.” Gianni Alemanno oggi indagato per 416 bis. ( …) “Una corte di fedelissimi, tra cui molti ex di quella stagione di piombo, stretti ad Alemanno. Una corte di cui Carminati pare conosca ogni segreto. Le sue frequentazioni di Carminati del resto possono arrivare ovunque, lui vanterebbe sempre ottima accoglienza, da Gennaro Mokbel, prodotto glocal di una Roma oscura, a Lorenzo Cola, superconsulente di Finmeccanica, negoziatore di accordi da miliardi di euro, in rapporto con agenti segreti di tutti i continenti.”

Roma, le mani della mafia nera sulla città. L'operazione "Terra di mezzo" svela l'alleanza fra la politica, l'eversione neofascista e la criminalità comune per gestire gli affari sporchi, scrive “Panorama”. Un'alleanza di ferro fra mafia, politica, frammenti dell'estrema destra eversiva e la criminalità comune. L'ha rivelata l'operazione "Terra di mezzo", condotta ieri dai Ros e guidata dalla Procura di Roma, che ha portato all'arresto di 37 persone e ha coinvolto fra gli indagati anche l'ex sindaco Gianni Alemanno, che dice: sono estraneo alla faccenda e lo dimostrerò. Obiettivo dell'offensiva la una cupola nera che ha gestito gli affari romani per anni pilotando appalti, riciclando denaro che scotta, alleandosi con i clan emergenti del litorale capitolino, con boss in odore di camorra come Michele Senese e con politici e burocrati spregiudicati e corrotti. Un'inchiesta  che è solo all'inizio ed è destinata a segnare la storia della capitale. Roma appare così come una Capitale della Mafia dove ogni affare veniva gestito dal malaffare. Dove quei personaggi finiti nei libri e nei film, come il "Nero" Massimo Carminati, ex Nar accusato di legami con la Banda della Magliana, in realtà erano attivissimi e contemporanei. L'organizzazione, dicono gli inquirenti, aveva modus operandi e radicamento propri della mafia. Col valore aggiunto criminale di un filo nerissimo che lega molti dei personaggi principali, con trascorsi nell'eversione di destra. Massimo Carminati è dunque il protagonista, guida l'organizzazione, usando minacce e violenza, e manovra il potente di turno, l'imprenditore, il professionista e il manager di Stato. Carminati di fatto gestiva un ecosistema versatile: dagli appalti all'estorsione, dall'usura al recupero crediti. Aveva contatti con manager, politici e col crimine di ogni specie: da Michele Senese, boss in odore di Camorra, alla "batteria" di Ponte Milvio che controlla i locali della movida romana, dalla potente famiglia nomade romana dei Casamonica alla spiccia criminalità di strada. L'organizzazione, secondo l'accusa, ha potuto contare anche su figure di vertice dell'amministrazione capitolina dal 2008 al 2013. Per i magistrati guidati da Giuseppe Pignatone il clan era arrivato anche all'ex sindaco Gianni Alemanno, indagato per associazione a delinquere, e ai suoi uomini. In manette, nell'operazione congiunta di Ros e Guardia di Finanza, sono finiti infatti l'ex amministratore dell'Ente Eur, Riccardo Mancini (da sempre braccio destro di Alemanno) e quello dell'Ama, Franco Panzironi. I due erano "pubblici ufficiali a libro paga" che fornivano "all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti". I due manager si sono adoperati anche per "lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all'associazione e come garanti dei rapporti dell'associazione con l'amministrazione comunale". Di fatto quello presieduto da Carminati è a tutti gli effetti un comitato d'affari che copriva tutti i settori produttivi della Capitale compreso il business dell'accoglienza degli immigrati e quello dei campi nomadi. Tra gli arrestati c'e' anche Luca Odevaine, già capo di gabinetto nel 2006 dell'allora sindaco di Valter Veltroni, che nella sua qualità di appartenente al Tavolo di Coordinamento Nazionale sull'accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale ha orientato, in cambio di uno "stipendio" mensile di 5 mila euro garantito dal clan, le scelte del tavolo per l'assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite da uomini dell'organizzazione. Tra gli indagati anche tre esponenti di punta dell'attuale amministrazione capitolina: l'assessore alla casa Daniele Ozzimo e il presidente dell'assemblea capitolina Mirco Coratti, entrambi del Pd, che si sono gia' dimessi pur dichiarandosi "estranei". Indagato anche il responsabile della Direzione Trasparenza del Campidoglio, Italo Walter Politano, che domani sarà rimosso dal suo incarico. Oltre a Massimo Carminati,  tra le carte si incontrano altre conoscenze tra eversione nera e crimine. Gennaro Mokbel, ex militante nella gioventù nera romana e Marco Iannilli, commercialista, già coinvolti nella maxi truffa di 2,2 milioni di euro Fastweb-Telecom Italia Sparkle. Il fedele del sindaco Alemanno, anche lui indagato per associazione di stampo mafioso, Riccardo Mancini, ex ad di Ente Eur, già coinvolto nell'inchiesta su una presunta tangente per la fornitura di bus per il corridoio Laurentina a Roma. E poi Franco Panzironi, ex ad di Ama, coinvolto nell'ormai famosa Parentopoli della municipalizzata romana. E nell'ordinanza spunta pure il nome di Lorenzo Alibrandi, fratello dell'ex Nar Alessandro, morto nel 1981 in un conflitto a fuoco. Prima di approdare nella maxi inchiesta, gli intrecci pericolosi tra clan emergenti, politica e affari tutti romani erano emersi di recente soprattutto dalle indagini su un delitto "per caso", ovvero l'omicidio di Silvio Fanella, custode di un vero e proprio tesoro per conto della galassia nera romana. Fanella era il cassiere di Mokbel: un commando nel luglio scorso lo voleva prelevare dalla sua abitazione romana ma qualcosa andò storto e il tentativo di sequestro finì con la morte di Fanella. A capo del commando c'era un ex componente dei Nar, Egidio Giuliani. Un nome non indifferente tra gli addetti ai lavori. Ex compagno di cella del killer Pierluigi Concutelli, (condannato all'ergastolo per l'omicidio del giudice Vittorio Occorsio) e accusato di voler ricostruire gruppi eversivi di destra negli anni '90, Giuliani avrebbe avuto in passato collegamenti anche con la banda della Magliana. E nel gruppo di fuoco anche un ex di Casapound, Giovanni Battista Ceniti. Dopo l'omicidio Fanella fu ritrovato anche il tesoro: 34 sacchetti con diamanti purissimi che si sono lasciati alle spalle anche una scia di sangue fatta di omicidi e ferimenti. I diamanti, uno dei beni di lusso favoriti dal gruppo "nero" di Mokbel - secondo i magistrati - per riciclare i fiumi di denaro frutto di truffe e malaffare.

Mafia, arrestato il re di Roma Massimo Carminati. Indagato Gianni Alemanno. Una holding criminale che spaziava dalla corruzione all'estorsione, dall'usura al riciclaggio, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale. E' ciò che emerge dall'inchiesta della procura di Roma che ha portato all'arresto di 28 persone. Indagini sull'ex sindaco e altri politici capitolini, scrive Lirio Abbate su  “L’Espresso”. L'arresto di Carminati Il “re di Roma” Massimo Carminati è stato arrestato nell'ambito di una grande operazione per associazione mafiosa ordinata dai pm della Procura di Roma ed eseguita dai carabinieri del Ros. Una holding criminale che spaziava dalla corruzione, per aggiudicarsi appalti, all'estorsione, all'usura e al riciclaggio, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale. Un'organizzazione radicata a Roma con a capo Massimo Carminati. Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici. In cella sono finite 28 persone, ma in totale nell'inchiesta coordinata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, dall'aggiunto Michele Prestipino e dai sostituti Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, sono indagate 37 persone, fra queste anche l'ex sindaco Gianni Alemanno, accusato di reati collegati alla mafia. Indagati politici di destra e sinistra. E beni per un valore complessivo di 200 milioni di euro sono stati sequestrati agli indagati, in particolare a Carminati, che è risultato di fatto proprietario di immobili e attività commerciali intestati a prestanome. Il momento dell'arresto dell'ex terrorista dei Nar nella maxi operazione a Roma per associazione di stampo mafioso. Tra i 37 finiti in manette anche l'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini, l'ex presidente di Ama, Franco Panzironi e Luca Odevaine, a capo della polizia provinciale. I magistrati hanno disposto decine di perquisizioni, in particolare negli uffici della Regione Lazio e del Campidoglio. I carabinieri del Ros stanno acquisendo documenti presso gli uffici della Presidenza dell'Assemblea Capitolina e presso alcune commissioni della Regione Lazio. Perquisizioni negli uffici del consigliere regionale Pd Eugenio Patanè e di quello Pdl Luca Gramazio, e in Comune negli uffici del presidente dell'Assemblea capitolina Mirko Coratti, il quale in serata si è dimesso dall'incarico, dichiarandosi, tuttavia, «totalmente estraneo a quanto emerge in queste ore dalle indagini». È un'indagine che non ha precedenti nella storia giudiziaria della Capitale, da cui emerge che Roma non è una città, ma un intreccio di traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su cui si è imposta una cupola nera. Invisibile ma potentissima, ha preso il controllo di Roma. Trasformando la metropoli nel laboratorio di una nuova forma di mafia, comandata da estremisti di destra di due generazioni, con la complicità di uomini della sinistra. Al vertice ci sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Ai loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager nostalgici e giovani neofascisti. L’ideologia garantisce compattezza, il credo nell’azione e nella sfida. I soldi, tanti e subito, premiano la fedeltà. E la componente borghese, dai maturi colletti bianchi ai ragazzi in camicia nera, gli permette di arrivare ovunque. Con le buone o con le cattive. Per comprendere bene cosa accade oggi nella Capitale, in questo grande spazio circoscritto dal Grande raccordo anulare, occorre mettere da parte quello che accade a Napoli, a Palermo o a Reggio Calabria. È nella Capitale che ha messo radici un sistema criminale senza precedenti, con fiumi di cocaina e cascate di diamanti, ma anche tanto piombo. Per il procuratore Giuseppe Pignatone «a Roma non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città. Ci sono diverse organizzazioni mafiose. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato “mafia Capitale”, romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso». L'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini, e l'ex amministratore di Ama, Franco Panzironi, arrestati entrambi, rappresentano per i pm «pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti». I due manager si adoperavano anche per «lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all'associazione e tra il 2008 e il 2013 come garanti dei rapporti dell'associazione con l'amministrazione comunale». Per quanto riguarda un altro manager, Fabrizio Franco Testa, invece, per i magistrati è «una testa di ponte dell'organizzazione nel settore politico e istituzionale, coordinando le attività corruttive dell'associazione e occupandosi della nomina di persone gradite al sodalizio in posti chiavi della pubblica amministrazione». Fra i cento indagati c'è anche il nome dell'uomo d'affari Gennaro Mokbel, accusato di tentata estorsione, avrebbe preteso dal commercialista Marco Iannilli la restituzione di circa 7-8 milioni di euro che gli aveva messo a disposizione perchè fosse investita nell'operazione Digint. Secondo i pm Mokbel già condannato a 15 anni di carcere per la truffa ai danni delle compagnie telefoniche Tis e Fastweb, ha desistito dopo l'intervento di Massimo Carminati che ha operato in difesa di Iannilli. «Nel marzo 2013 nel Cda dell'Ama viene nominato con provvedimento del sindaco Alemanno un legale scelto da Carminati stesso. Lo stesso per il direttore generale di Ama e un altro dirigente operativo». Lo ha detto il procuratore aggiunto di Michele Prestipino descrivendo «l'incessante attività di lobbying» dell'organizzazione criminale individuata «per collocare con successo manager asserviti ai loro interessi». Prestipino ha citato anche la nomina del presidente della Commissione Trasparenza del Comune di Roma e la candidatura a sindaco di Sacrofano - dove risiede Massimo Carminati - di un uomo fidato poi eletto. Uomini delle forze dell'ordine sono iscritti nel registro degli indagati per favoreggiamento al clan di Carminati. I pm stanno vagliando la loro posizione per comprendere il ruolo che hanno avuto nell'organizzazione di “mafia Capitale”. Appalti per decine di milioni di euro a società collegate a Massimo Carminati, considerato il capo dell'organizzazione mafiosa, in cambio di tangenti per centinaia di migliaia di euro. È il “patto corruttivo-collusivo” descritto dal procuratore aggiunto Michele Prestipino. «In cambio di appalti a imprese amiche venivano pagate tangenti fino a 15 mila euro al mese per anni. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo». Tra gli appalti pubblici Prestipino ha citato quello del 2011 per la raccolta differenziata dei rifiuti del Comune di Roma e quello per la raccolta delle foglie. Su altri appalti dell'Ama, municipalizzata romana dei rifiuti, per altri cinque milioni di euro sono in corso approfondimenti d'indagine. «L'organizzazione scoperta a Roma affonda le sue radici nella criminalità organizzata degli anni Ottanta, ma ha saputo riciclarsi con una duttilità sorprendente». Lo ha spiegato il comandante dei carabinieri del Ros, generale Mario Parente. «Un'evoluzione del sodalizio che però rimane sempre ancorato alle sue radici, ovvero quelle criminali».

Mafia a Roma, 37 arresti per appalti del Comune. Indagato Alemanno. Pignatone: "Gli uomini dell'ex sindaco nell'organizzazione". In carcere l'ex Nar Carminati e l'ex ad dell'Ente Eur Mancini. L'ex primo cittadino: "Ne uscirò a testa alta". Un centinaio gli indagati, tra cui l'assessore alla Casa, Daniele Ozzimo e Mirko Coratti, presidente dell'Assemblea capitolina, entrambi si sono dichiarati "estranei ai fatti" e si sono dimessi. Coinvolto anche Politano, responsabile della direzione Trasparenza e Anticorruzione del Comune di Roma. Perquisizioni alla Pisana e in altre amministrazioni della Capitale. Sequestri per 200 milioni della Guardia di finanza. L'indagine ribattezzata "Mondo di mezzo". Affari nella gestione dei rifiuti, manutenzione del verde e campi nomadi, scrivono Federica Angeli, Valeria Forgnone e Viola Giannoli su La Repubblica”. Massimo Carminati Maxi operazione a Roma per "associazione di stampo mafioso" con 37 arresti, di cui 8 ai domiciliari, e sequestri di beni per 200 milioni. Un "ramificato sistema corruttivo" in vista dell'assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate con interessi, in particolare, anche nella gestione dei rifiuti, dei centri di accoglienza per gli stranieri e campi nomadi e nella manutenzione del verde pubblico: è quanto emerso dalle indagini del Ros che hanno portato alle misure restrittive e ai sequestri da parte del Gico della Finanza. Le accuse vanno dall'associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e altri reati. "Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda se la mafia è a Roma - ha spiegato il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, nel corso della conferenza stampa dopo la maxi-operazione - Nella capitale non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città ma ce ne sono diverse. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato 'Mafia Capitale', romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso". Nello specifico, ha riferito Pignatone, "alcuni uomini vicini all'ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell'organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione. Con la nuova amministrazione il rapporto è cambiato ma Massimo Carminati e Salvatore Buzzi (presidente della cooperativa 29 giugno arrestato oggi) erano tranquilli chiunque vincesse le elezioni". Gli arresti. A capo dell'organizzazione mafiosa l'ex terrorista dei Nar, Massimo Carminati che, secondo gli investigatori, ''impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti''. L'organizzazione di Carminati è trasversale. Ne è convinto il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone che sull'argomento ha precisato: "Con la nuova consiliatura qualcosa è cambiato, in una conversazione Buzzi e Carminati prima delle elezioni dicevano di essere tranquilli". Carminati diceva a Buzzi, ha spiegato Pignatone: "Noi dobbiamo vendere il prodotto, amico mio, bisogna vendersi come le puttane" e di fronte alle difficoltà presentate da Buzzi, Carminati aggiungeva: "Allora mettiti la minigonna e vai a battere con questi".

Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma dal 2008 al 2013. Ancora da verificare il ruolo che ha avuto nell'ingresso dell'associazione criminale e delle sue aziende di riferimento all'interno degli appalti più importanti assegnati dal Campidoglio.In mattinata è stata perquisita la sua casa nel quartiere Camilluccia a Roma.

Massimo Carminati, da molti considerato il vero capo della criminalità romana. Conosciuto da molti come il "Nero" del libro "Romanzo Criminale", è finito nelle pagine più oscure della storia italiana, dalla strage alla stazione di Bologna fino all'omicidio Pecorelli, processi da cui è uscito assolto.

Franco Panzironi, già indagato per la Parentopoli Ama, ora  sarebbe un altro dei personaggi chiave dell'associazione criminale. Il suo ruolo sarebbe stato quello di ponte con l'Ama e con tutti gli appalti assegnati dall'azienda romana dei rifiuti. Panzironi ha legato la sua storia recente a Gianni Alemanno. E' accusato di associazione di tipo mafioso, corruzione aggravata e turbativa d'asta.

Riccardo Mancini è un altro nome chiave della vicenda. Da sempre legato all'estrema destra romana e in particolare a quella dell'Eur. Ha guidato l'Ente Eur ed è già sotto inchiesta per la tangente pagata da una società legata al Gruppo Finmeccanica per i filobus della Laurentina. E' accusato di associazione di tipo mafioso.

In carcere è finito anche Luca Odevaine, ex capo di gabinetto della giunta Veltroni e ora direttore extradipartimentale di polizia e Protezione civile della Provincia di Roma. L'accusa parla di corruzione aggravata.

Giovanni Fiscon, attuale direttore generale dell'Ama: è stato arrestato per corruzione aggravata e turbativa d'asta.

Daniele Ozzimo, assessore capitolino alla Casa: è indagato a piede libero per corruzione aggravata. Si è dimesso dall'incarico: "Pur essendo totalmente estraneo allo spaccato inquietante che emerge dagli arresti, rimetto il mio mandato per senso di responsabilità e serietà. Una scelta sofferta perchè sono orgoglioso del lavoro portato avanti in questi mesi".

Mirko Coratti, presidente dell'assemblea capitolina: è indagato a piede libero per corruzione aggravata e illecito finanziamento. Si è immediatamente dimesso dall'ìncarico: "Sono estraneo, ho piena fiducia nel lavoro della magistratura ma mi dimetto per correttezza verso la città e l'amministrazione".

Eugenio Patanè, consigliere regionale del Pd: è indagato a piede libero per turbativa d'asta e illecito finanziamento.

Antonio Lucarelli, capo segreteria di Alemanno durante il suo mandato di sindaco: è accusato di associazione di tipo mafioso.

Luca Gramazio, consigliere regionale Pdl: è indagato a piede libero per associazione di tipo mafioso, corruzione aggravata e finanziamento illecito.

Tra gli arrestati anche altri nomi di spicco come l'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini e l'ex presidente di Ama, Franco Panzironi: per i pm romani "pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti". E Luca Odevaine, ex capo di gabinetto della giunta Veltroni e ora direttore extradipartimentale di polizia e Protezione civile della Provincia di Roma. Gli indagati. Fra gli indagati figura l'ex sindaco della città Gianni Alemanno, la sua abitazione è stata perquisita. "Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza - ha commentato a caldo l'ex primo cittadino - Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta. Sono sicuro che il lavoro della magistratura, dopo queste fasi iniziali, si concluderà con un pieno proscioglimento nei miei confronti". "L'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è indagato per il reato di 416 bis, ossia l'associazione a delinquere di stampo mafioso, ma la sua posizione è ancora da vagliare - ha detto il procuratore capo Pignatone - Sugli indagati preferiamo non fare alcuna precisazione''. Pignatone ha inoltre aggiunto che l'inchiesta ''non si chiude oggi'' e che tra gli indagati ci sono anche alcuni esponenti delle forze dell'ordine che hanno agevolato l'organizzazione guidata da Massimo Carminati. Non solo. "Nel marzo 2013 nel Cda dell'Ama viene nominato con provvedimento del sindaco Alemanno un legale scelto da Carminati stesso. Lo stesso per il direttore generale di Ama e un altro dirigente operativo - ha spiegato il pm di Roma Michele Prestipino parlando dell''incessante attività di lobbying' dell'organizzazione criminale individuata "per collocare con successo manager asserviti ai loro interessi". Prestipino ha citato anche la nomina del presidente della Commissione Trasparenza del Comune di Roma e la candidatura a sindaco di Sacrofano - dove risiede Massimo Carminati, considerato capo di Mafia Capitale - di un uomo fidato poi eletto. Indagato anche l'ex capo della segreteria di Gianni Alemanno, Antonio Lucarelli. Il procuratore Giuseppe Pignatone ha riferito di un incontro tra uno dei bracci destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e Lucarelli. "Buzzi voleva far sbloccare un finanziamento e Lucarelli non lo riceveva - ha detto - dopo la telefonata di Carminati si precita sulla scalinata del Campidoglio da Buzzi che gli dice che è tutto a posto, che ha già parlato con Massimo. Buzzi commentando questo incontro dice 'c'hanno paura di lui'". Coinvolti come indagati anche l'assessore capitolino alla Casa, Daniele Ozzimo, che ha deciso di dimettersi dalla carica pur dichiarandosi "totalmente estraneo allo spaccato inquietante emerso". Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha accettato le sue dimissioni e aggiunto: "Siamo fiduciosi nel lavoro della magistratura. Ci auguriamo sia fatta piena luce su una vicenda inquietante e che sta facendo emergere l'esistenza di un sistema diffuso di illegalità ai danni della città. Questa amministrazione ha improntato il suo lavoro sulla trasparenza. Per questo apprezzo la decisione personale e il coraggio di Daniele Ozzimo che rassegnando le dimissioni, ha agito prima di tutto nell'interesse della città mettendo in secondo piano se stesso", ha detto Marino. Indagati anche il consigliere regionale Pd Eugenio Patanè, quello Pdl Luca Gramazio, e il presidente dell'Assemblea capitolina Mirko Coratti. Che si è dimesso anche lui, dopo qualche ora: "Con sconcerto ho appreso che nei miei confronti è stata aperta un'indagine giudiziaria nell'ambito di una maxi-inchiesta dai risvolti inquietanti. Nel dichiararmi totalmente estraneo a quanto emerge in queste ore dalle indagini, per correttezza verso la città e verso l'amministrazione comunale ho deciso di dimettermi dall'incarico che mi onoro di servire, rimetto pertanto da subito a disposizione dell'Assemblea capitolina che mi ha eletto la mia carica. Nell'esprimere piena fiducia nel lavoro della magistratura sono certo che dalle inchieste in corso emergerà con chiarezza la mia totale estraneità ai fatti contestati". Nei loro uffici alla Regione Lazio e in Campidoglio sono scattate le perquisizioni dei militari. Nella lista degli indagati c'è anche il responsabile della Direzione Trasparenza del Campidoglio, Italo Walter Politano: è accusato di associazione di stampo mafioso. Nominato dal sindaco Ignazio Marino il 15 novembre 2013, Politano è di fatto referente al Comune di Roma del Commissario nazionale anticorruzione Raffaele Cantone. Domani dovrebbe essere rimosso dall'incarico. Ma ci sarebbero un centinaio di nomi negli atti della Procura di Roma. Tra cui quello di Gennaro Mokbel, già condannato in primo grado per l'inchiesta Telecom Sparkle-Fastweb, e tre avvocati penalisti, ai quali i pm contestano il reato di concorso esterno in associazione mafiosa: avrebbero concordato con gli associati "la linea difensiva da adottare" in un procedimento in cui era coinvolto Riccardo Mancini, ex amministratore delegato dell'Ente Eur, arrestato in passato per un giro di presunte mazzette legate all'appalto per la fornitura di filobus al Comune di Roma. Tra gli indagati c'è anche Lorenzo Alibrandi, il fratello più piccolo di Alessandro Alibrandi, il terrorista dei Nar, figlio dell'ex giudice istruttore del tribunale di Roma, Antonio Alibrandi. Ci sono anche una ventina di quadri di valore tra gli oggetti sequestrati durante le perquisizioni, come ha riferito il capo dei carabinieri del Ros, il generale Mario Parente. Si tratta di quadri trovati nell'abitazione di uno degli indagati e di proprietà dello stesso Carminati che vanno da opere di Andy Warhol a Jackson Pollock. Le opere verranno ora analizzate dagli esperti. A casa di un altro indagato sono invece stati trovati 570mila euro in contanti. Appalti per decine di milioni di euro a società collegate a Massimo Carminati, considerato il capo dell'organizzazione mafiosa, in cambio di tangenti per centinaia di migliaia di euro. E' il "patto corruttivo-collusivo", secondo il pm della Direzione antimafia (Dda) di Roma Michele Prestipino, individuato dall'indagine Mondo di Mezzo. "In cambio di appalti a imprese amiche - ha detto il magistrato - venivano pagate tangenti fino a 15 mila euro al mese per anni. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo, fino a versamenti di denaro a enti e fondazioni legate alla politica romana". E tra queste "anche la fondazione creata da Alemanno". Tra gli appalti pubblici Prestipino ha citato quello del 2011 per la raccolta differenziata dei rifiuti del Comune di Roma e quello per la raccolta delle foglie. Su altri appalti dell'Ama - municipalizzata romana dei rifiuti - per altri 5 milioni di euro sono in corso approfondimenti d'indagine. E' infatti un'azione senza precedenti quella che ha messo a soqquadro Roma e il suo hinterland. Coordinata da tre pubblici ministeri  -  Luca Tescaroli, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini  -  sotto la supervisione del procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone ha infatti smantellato un'organizzazione che racchiude almeno dieci anni di malavita. Personaggi che hanno solcato la scena della mala capitolina, come il nero Carminati ex della Banda della Magliana, ma anche politici e amministratori che hanno favorito e consentito a questo malaffare di radicarsi, di mettere le radici, di infilarsi coi suoi tentacoli ovunque. Ribaltando di netto le regole del gioco. Ricostruire la trama e gli intrecci che hanno reso possibile tutto questo malaffare è stata un'impresa titanica. C'è un'intercettazione che spiega il senso dell'organizzazione mafiosa messa su da Massimo Carminati e ha dato il nome all'indagine. "L'intercettazione per noi più significativa è questa - ha spiegato Giuseppe Pignatone - quando Carminati parlando con il suo braccio destro militare, Riccardo Brugia, gli dice 'E' la teoria del mondo di mezzo, ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo. C'è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico...'. Carminati parla col mondo di sopra, quello della politica e col mondo di sotto, quello criminale, e si mette al servizio del primo avvalendosi del secondo al servizio del primo. La caratteristica principale di questa organizzazione sta nei suoi rapporti con la politica e nel fatto che alterna la corruzione alla violenza, preferendo la prima perché fa meno clamore". Le perquisizioni scattate all'alba hanno riguardato boss della malavita, come esponenti di noti clan di Ostia, e politici di elevato spessore a Roma. Il reato ipotizzato nei confronti degli arrestati è il 416 bis, l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Reato per cui sono già indagate 51 persone dei clan Fasciani e Triassi di Ostia, e che a dicembre si concluderà con la sentenza di primo grado. Reato per cui a Roma, nessuno mai è stato condannato. Perché, come in un refrain, per anni si è continuato a dire che la mafia a Roma non esiste. Almeno fino a oggi. "Quello che sta emergendo è un quadro inquietante - ha commentato il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti - E' un bene che la magistratura sia impegnata a fare piena luce. Con sempre più forza bisogna proseguire, ognuno nei propri ambiti, sulla via della legalità senza se e senza ma". "E' un'inchiesta che certifica il profondo inquinamento delle istituzioni, al di là delle vicende dei singoli, e che conferma sempre di più la presenza di una cupola criminale con le mani sulla città. Il sistema mafioso corruttivo svelato oggi impegna subito chi ha responsabilità amministrative e politiche ad assumere urgenti misure nella lotta alla criminalità e alla corruzione - si legge in una nota dell'Ufficio di Presidenza di Libera - Siamo convinti che accanto alla repressione e gli strumenti giudiziari, è necessario il risveglio delle coscienze, l'orgoglio di una comunità che antepone il bene comune alle speculazioni e ai privilegi, contrastando in tutte le sedi la criminalità organizzata e i suoi complici". "Cade il velo di ipocrisia sulla città e Roma diventa Capitale delle mafie", ha commentato l'Associazione dasud che "denuncia dal 2011 gli  affari criminali a Roma con dossier e inchieste, da "Roma città di mafie" all'ebook "Mammamafia". Il welfare lo pagano le mafie". L'indagine di oggi, finalmente racconta di un patto trasversale inquietante che tiene insieme boss, imprenditori, manager, funzionari, amministratori pubblici e politici di destra e sinistra, rappresentanti del mondo dell'associazionismo e del terzo settore e descrive come ha funzionato fino a ieri il sistema degli affari a Roma, quale ruolo le mafie abbiano svolto sul degrado delle periferie,? quanta speculazione sia stata fatta sui migranti e i rom della città,? quale sistema di corruzione abbia regolato i rapporti tra imprese e pubblica amministrazione, quali relazioni pericolose regolino i rapporti tra politica e pezzi significativi della storica eversione nera e l'estrema destra di oggi. Il sodalizio con a capo Carmati come ha detto il procuratore Pignatone è solo uno dei tanti che opera  su Roma. Il negazionismo e l inerzia della politica e delle classi dirigenti sono serviti solo a farli agire indisturbati. Non è più il tempo dell antimafia di facciata, serve subito un impegno trasversale".

Ecco la "mafia Capitale": 37 arresti per appalti del Comune. Indagato anche Alemanno. Carminati, l'intercettazione che spiega la teoria del "mondo di mezzo". Un centinaio le persone coinvolte nell'operazione "Mondo di mezzo". Affari nella gestione dei rifiuti, manutenzione del verde e campi nomadi. In carcere l'ex Nar Carminati e l'ex ad dell'Ente Eur Mancini. L'ex primo cittadino: "Ne uscirò a testa alta". Tra gli inquisiti anche Politano, capo dell'anticorruzione in Campidoglio, scrive “La Repubblica”. La mafia a Roma c'è ed è autoctona. Sono le conclusioni del procuratore capo Giuseppe Pignatone che, nell'illustrare la maxi operazione "'Mondo di mezzo" che ha portato all'arresto di 37 persone per associazione mafiosa, ha parlato dell'esistenza di una "mafia capitale, tutta romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso e con cui si confronta alla pari". Una mafia che "non ha una struttura precisa ma ha la capacità essenziale di creare equilibri tra mondi diversissimi tra loro". A Roma dunque in questi ultimi anni ha agito un'associazione di stampo mafioso che ha fatto affari con imprenditori collusi, con dirigenti di municipalizzate ed esponenti politici, per il controllo delle attività economiche in città e per la conquista degli appalti pubblici. Ne sono convinti i magistrati della Dda della procura e i carabinieri del Ros che hanno chiesto e ottenuto dal gip Flavia Costantini l'arresto di 37 persone (29 in carcere e otto ai domiciliari) per una molteplicità di reati: estorsione, corruzione, usura, riciclaggio, turbativa d'asta e trasferimento fraudolento di valori. A guidare questa organizzazione è un volto noto alla giustizia, l'ex terrorista dei Nar Massimo Carminati, ritenuto colui che "impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti". A disposizione dell'organizzazione, secondo gli investigatori, ci sono, tra gli altri, l'ex capo di Ama Franco Panzironi e l'ex amministratore delegato di Ente Eur Riccardo Mancini, soggetti che per i pm hanno fatto dal 2008 al 2013 da garante o da tramite "dei rapporti del sodalizio con l'amministrazione comunale". La lista, poi, comprende anche il manager Fabrizio Franco Testa accusato di "coordinare le attività corruttive dell'associazione" e di "occuparsi della nomina di persone gradite all'organizzazione in posti chiave della pubblica amministrazione". Tra gli indagati a piede libero (almeno 100), coinvolti negli accertamenti che porteranno sicuramente a sviluppi importanti nei prossimi mesi, ci sono anche l'ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il commercialista Marco Iannilli, l'uomo d'affari Gennaro Mokbel e il consigliere regionale del Pdl Luca Gramazio. "Dimostrerò la mia totale estraneità a ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta", ha replicato Alemanno. "Chi mi conosce - ha aggiunto l'ex sindaco - sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza". Pignatone ha detto che quella di Alemanno "è una posizione ancora da vagliare".

"Soldi per le elezioni in cambio di appalti. Così Alemanno favoriva il clan dei camerati". Sindaco della capitale dal 2008 al 2013, "aveva contatti diretti e aiutava il sodalizio mafioso". Tra finanziamenti, accordi politici e nomine ai vertici delle municipalizzate, scrivono Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi su “La Repubblica”. L'uomo che governava Roma era nelle mani dell'uomo che la derubava. Gianni Alemanno, sindaco dal 2008 al 2013, con la "mafia capitale" di Massimo Carminati aveva "contatti diretti e ne favoriva il sodalizio". Nominando i vertici delle partecipate che la banda decideva. Riservando, a sfregio del già disastrato bilancio del Comune, denaro per alimentare l'appetito di Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative. "Senti, noi qui abbiamo rimediato quindici milioni eh", comunicava personalmente l'allora sindaco al suo capo Dipartimento servizi sociali il 23 novembre del 2012, risolvendo così il problema di finanziare l'ampliamento del campo nomadi di Castel Romano, che tanto interessava al "guercio", l'ex Nar che si è preso Roma. In cambio, ricavandone da Buzzi 75.000 euro in cene elettorali e sostegno economico alla sua fondazione Nuova Italia. Pure una claque elettorale di 50 persone, alla bisogna. Perché tutti al Comune sapevano di che pasta erano fatte le amicizie di Alemanno, ora indagato per associazione per delinquere di stampo mafioso. Carminati aveva un filo diretto con il suo più stretto collaboratore, Antonio Lucarelli, capo della segre- teria. Lo chiama al telefono, ci va a pranzo, si frequentano. Quando Buzzi, in ansia per uno sblocco di 300.000 euro, cerca un contatto, deve passare attraverso Carminati. "Mi dice  -  spiega il manager delle coop in un'intercettazione del 20 aprile 2013  -  "va in Campidoglio, alle tre, che scende Lucarelli e viene a parlare con te"... Aò alle tre meno cinque scende, dice "ho parlato con Massimo (Carminati, ndr), tutto a posto"... aò tutto a posto veramente! C'hanno paura delui ". "Ero il sindaco di Roma  -  commenta ora Alemanno con i suoi fedelissimi  -  è facile tirarmi in ballo. C'è molto millantato credito, è in atto un tentativo di attacco politico nei miei confronti". Stando all'ordinanza del gip Flavia Costantini, Alemanno non ha rapporti diretti con Carminati. Ci fa parlare i suoi, Luca Gramazio (ex capogruppo comunale del Pdl, ora alla Regione) e Fabrizio Franco Testa, manager e "testa di ponte" tra l'organizzazione mafiosa e la politica. Sono loro a decidere, insieme a Buzzi e Carminati, chi mettere nel cda dell'Ama, la municipalizzata dei rifiuti che assegnerà infatti alle società di Buzzi tre appalti milionari finiti nell'inchiesta, relativi alla raccolta differenziata, alla raccolta delle foglie e altri lavori per 5 milioni di euro. Così Alemanno nomina Giuseppe Berti nel consiglio di amministrazione e Giovanni Fiscon alla direzione generale, "espressione diretta degli interessi del gruppo" Gente di cui il "guercio" e compagnia si possono fidare. Il 20 aprile del 2013 le microspie dei carabinieri del Ros captano la conversazione in automobile tra Salvatore Buzzi e il suo collaboratore Giovanni Campennì. I due parlano delle imminenti elezioni amministrative di Roma. "Oh l'avevamo comprati tutti ho...  -  dice Buzzi  -  se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, c'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine (Giordano, ndr) doveva stà assessore ai Servizi Sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno... che cazzo voi di più...". Campennì chiede se pagasse anche l'altra parte politica, il centro sinistra da cui proviene. "No, no questo te lo posso assicurà io che pago tutti, i miei non li pago. Ma lo sai agli altri i soldi che gli do già? Anche due cene con il sindaco, 75mila euro ti sembrano pochi? ". Alemanno ha mai preso soldi dal gruppo di Carminati? Direttamente non risulta. Buzzi racconta dei 75mila euro in cene elettorali che ha sborsato. Ma ci sono anche i bonifici alla fondazione politica di Alemanno, "Nuova Italia". Il 6 dicembre 2012, "a poche settimane dall'approvazione del bilancio che avrebbe stanziato ulteriori fondi in favore del campo nomadi di Castel Fusano  -  annota il gip  -  e in concomitanza con la cena elettorale e l'aggiudicazione della gara Ama", dalle società di Buzzi partivano bonifici a Nuova Italia per 30mila euro divisi in tre assegni. Altri 5mila euro dal Consorzio "Enriches 29" il 28 novembre 2011. E ancora, il 17 aprile 2013, 15mila euro dalla cooperativa "Formula Sociale", riconducibile a Buzzi, in favore del mandatario elettorale di Alemanno, più altri 5mila nel novembre dello stesso anno. A cui si aggiungono i soldi che arrivavano attraverso Franco Panzironi, ex ad di Ama "a libro paga". Oltre al mensile di 15mila euro, lo foraggiavano con finanziamenti "non inferiori a 40mila euro" alla fondazione. Ma Buzzi, per Alemanno, non è soltanto un bancomat. Gli serve anche per mettere in scena entusiasmo elettorale. Il 9 novembre 2013 Panzironi chiama Buzzi e gli chiede di reperire "un po' di gente per fare volume" alla manifestazione organizzata dall'ex sindaco all'Adriano per il suo rientro in politica. E per sostenere la candidatura alle europee, Buzzi ha delle risorse insospettabili. "Devo fare delle telefonate? ", gli chiede Alemanno al telefono. "No, no, tranquillo, manderemo a Milardi (Claudio, fa parte dello staff dell'ex sindaco, ndr ) l'elenco di persone, nostri amici del sud, che ti possono dare una mano cò parecchi voti". Qualche giorno dopo, Buzzi spiega a sua moglie di chi parlava: "Sono 7-8 mafiosi che c'avemo in cooperativa".

Appalti e criminalità a Roma: nei verbali la mappa di Mafia Capitale. Una rete di contatti, una piovra che controlla la città: appalti, usura, estorsioni, corruzione. Tutto gira intorno a Massimo Carminati, ma tra i 37 arrestati e i centinaia di indagati ci sono nomi eccellenti della politica e para-politica, scrive Fabio Tonacci suLa Repubblica. La banda, la nuova banda di Roma. "La Mafia capitale", per dirla con le parole dei magistrati. Strutturata come una piovra che asfissia la città. Ogni uomo ha un compito, ogni compito ha un prezzo. Appalti, usura, estorsioni, corruzione. Dentro il Comune di Roma, nelle istituzioni, nelle cooperative. Amministratori "a libro paga" come Franco Panzironi, ex presidente Ama, e Carlo Pucci dirigente di Eur spa. Pubblici ufficiali "a disposizione", come Riccardo Mancini, ex presidente di Eur spa, che ha fatto da garante con l'amministrazione di Alemanno dal 2008 al 2013. La collusione con forze di polizia e servizi segreti. Un luogo: il distributore di benzina di Corso Francia, gestito da Roberto Lacopo, "base logistica del sodalizio". E tutto quest'universo criminale che ruota attorno a Massimo Carminati, l'ex nar, 56 anni. Capo, organizzatore, fornitore ai suoi sodali di schede telefoniche dedicate, reclutatore di imprenditori collusi "ai quali fornisce protezione", l'uomo che "mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operante su Roma, nonché esponenti del mondo politico istitutzionale, con esponenti delle forze dell'ordine e dei servizi". La sua villa di Sacrofano, Carminati la intesta fittiziamente a Alessia Marini, acquistandola per 500mila euro, di cui 120 mila in contanti. Accanto a lui c'è sempre Riccardo Brugia, col quale condivide il passato di estremista di destra. Nell'organizzazione di Carminati, armata e di stampo mafioso secondo i pm di Roma, Brugia ha il compito di gestire le estorsioni, "di coordinare le attività nei settori del recupero crediti e dell'estorsione, di custodire le armi in dotazione del sodalizio", scrive il gip Flavia Costantini nelle 1249 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare. Brugia e Carminati, tra le altre cose, sono accusati di estorsione ai danni di Luigi Seccaroni per farsi vendere il terreno in via Cassia. Ogni uomo ha un compito, dunque. Ad esempio Fabrizio Franco Testa, manager, e presidente di Tecnosky (Enav) e uomo di Alemanno ad Ostia. "Lui è la testa di ponte dell'organizzazione nel settore politico e istituzionale, coordina le attività corruttive dell'associazione, si occupa della nomina di persone gradite all'organizzazione in posti chiave della pubblica amministrazione". Oppure Salvatore Buzzi, l'uomo della rete di cooperative. Amministratore delle coop riconducibili al gruppo Eriches-29 giugno, affidatarie di appalti da parte di Eur Spa, gestisce per conto della banda Carminati le attività criminali nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico, settori "oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con metodo corruttivo". Si occupa anche - secondo i pm - della contabilità occulta dell'associazione. Sullo sfondo una pletora di imprenditori collusi, in primo piano, invece Franco Panzironi. Nel suo ruolo di componente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato di Ama spa dal 2008 al 2011, ha del tutto "asservito la sua qualità funzionale". Nelle carte ci sono tutti gli addebiti a suo carico: violando il segreto d'ufficio, violando il dovere di imparzialità nell'affidamento dei lavori, ha preso accordi con Buzzi "per il contenuto dei provvedimenti di assegnazione delle gare prima della loro aggiudicazione". Panzironi è accusato anche di averla turbata, quella gara. L'appalto è quello della raccolta delle foglie per il comune di Roma, 5 milioni di euro. Per la sua attività di "agevolazione dell'associazione mafiosa di Carminati" nel tempo ha ricevuto, per sé e per la sua fondazione Nuova Italia, 15.000 euro al mese dal 2008 al 2013, 120.000 euro in una tranche (il 2,5 per cento dell'appalto assegnato da Ama), la rasatura gratuita del prato di casa, e finaziamenti non inferiori a 40.000 euro per la sua fondazione. Per dire come funzionavano le cose al Campidoglio, basta leggere le accuse che vengono fatte a Claudio Turella, funzionario del Comune di Roma e responsabile della programmazione e gestione del Verde Pubblico: per compiere atti contrari ai suoi doveri di ufficio nella assegnazione dei lavori per l'emergenza maltempo, la manutenzione delle piste ciclabili e delle ville storiche, "riceveva da Buzzi, il quale agiva previo concerto con Carminati e in accordo con i suoi collaboratori, 25.000 euro per l'emergenza maltempo, la promessa di 30.000 euro per le piste ciclabili, più la promessa di altre somme di denaro". Nel calderone degli arresti c'è anche Luca Odevaine, ex vice capo di gabinetto di Veltroni. Nella sua qualità di appartenente al Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza dei rifugiati, dunque pubblico ufficiale, "orientava le scelte del Tavolo al fine di creare le condizioni per l'assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite da soggetti economici riconducibilia Buzzi e Coltellacci", "effettuava pressioni finalizzate all'apertura di centri in luoghi graditi al gruppo Buzzi". E per questo "riceveva 5.000 euro mensili in forma diretta e indiretta da Coltellacci e Buzzi". Con l'aggravante di aver agevolato la banda di Carminati. Infine Gennaro Mokbel, che finisce in questa inchiesta con l'accusa di estorsione, perché "mediante violenza e minacce" voleva costringere Marco Iannilli a restituire 8 milioni di euro "comprensiva dell'attesa remunerazione, consegnatagli un anno prima per investirla nell'"operazione Digint"". E qui è intervenuto Carminati il quale, su richiesta della vittima, "la proteggeva da Mokbel". Faceva anche questo, Carminati. Il protettore.

Mafia e politica: perquisizioni, arresti indagato anche ex sindaco Alemanno. In corso perquisizioni tra uffici di consiglieri della Regione Lazio, uffici del Campidoglio e abitazione dell’ex primo cittadino. Notificati 37 ordini di custodia cautelare, scrivono la Redazione Online, Lavinia Di Gianvito e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Pedinamenti, intercettazioni e verifiche sui flussi di denaro. Si sono mosse su un doppio binario le indagini del Ros dei carabinieri e del Nucleo tributario della Finanza sfociate, mercoledì mattina, in 37 arresti, decine di perquisizioni - comprese la Regione, il Campidoglio e 24 aziende - e la notifica di 39 avvisi di garanzia. È l’inchiesta «Mondo di mezzo», che nel legare gli affari di politici, malavitosi e manager ipotizza l’associazione a delinquere di stampo mafioso, a cui sono da aggiungere altri reati come la corruzione, l’estorsione e il riciclaggio. Sono stati circa 500 i carabinieri del Comando provinciale di Roma impiegati nelle perquisizioni, più i militari del gruppo cacciatori di Calabria, elicotteri e unità cinofile. Le Fiamme gialle, al comando del colonnello Cosimo Di Gesù, hanno controllato 350 posizioni tra persone fisiche e società e hanno bloccato 205 milioni frutto del reimpiego di capitali illeciti, senza calcolare i conti correnti e il contenuto delle cassette di sicurezza. In due abitazioni dell’ex Nar Massimo Carminati, finito in carcere, sono stati sequestrati 50 quadri di enorme valore: fra gli autori Andy Warhol e Jackson Pollock. L’imprevista scoperta potrebbe aprire un nuovo filone d’inchiesta poiché, spiega il comandante del Ros, il colonnello Mario Parente, «possono essere riconducibili a un traffico di opere d’arte». Nella lista dei 37 arrestati compaiono il direttore generale dell’Ama Giovanni Fiscon, gli ex amministratori delegati dell’ Ama Franco Panzironi (coinvolto anche nello lo scandalo Parentopoli) e di Eur spa Riccardo Mancini (già rinviato a giudizio per le tangenti sui filobus), l’ex capo della polizia provinciale Luca Odevaine, che è stato anche a vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni.Tra gli indagati ci sono l’assessore alla Casa Daniele Ozzimo, il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti (entrambi dimissionari), il responsabile della direzione Trasparenza del Campidoglio Italo Walter Politano (che domani sarà rimosso dal suo incarico), i consiglieri regionali Eugenio Patanè e Luca Gramazio, l’ex sindaco Gianni Alemanno («foraggiata», secondo gli inquirenti, anche la sua fondazione Nuovaitalia) e i suoi fedelissimi Antonio Lucarelli e Stefano Andrini. E poi tre avvocati, fra cui Pierpaolo Dell’Anno, alcuni appartenenti alle forze dell’ordine accusati di favoreggiamento e il faccendiere Gennaro Mokbel, già condannato in primo grado per la truffa a Fastweb e Telecom Sparkle . «Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda se la mafia è a Roma. La risposta è che Roma la mafia c’è e dimostra originalità e originarietà», sottolinea il procuratore Giuseppe Pignatone. Lo scorso sabato 30 novembre, all’assemblea dei democratici, Pignatone aveva ammonito: «Corrotti e mafia, patto che fa paura» riferendosi al mondo politico romano. Quel giorno nessuno aveva compreso che gli inquirenti stavano tirando le fila di un’inchiesta durata oltre due anni, che disegna una holding criminale capace di aggiudicarsi gli appalti per i rifiuti, le piste ciclabili, i punti verdi qualità, la raccolta delle foglie, la realizzazione dei villaggi nei campi nomadi, l’assegnazione dei flussi di immigrati. Al vertice dell’organizzazione, secondo la Direzione distrettuale antimafia, c’era Carminati, che con le sue società avrebbe incamerato commesse per decine di milioni. «In cambio - spiega il capo della Dda, Michele Prestipino - sono state pagate per anni tangenti fino a 15 mila euro al mese. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo». Odevaine, per esempio, avrebbe avuto uno «stipendio» mensile di cinquemila euro. Carminati, sostengono gli inquirenti, «manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti». Il procuratore ricorda una conversazione tra Carminati e il suo braccio destro, Salvatore Buzzi: «Dobbiamo vendere il prodotto amico mio. Bisogna vendersi come le puttane adesso. Mettiti la minigonna e vai a battere con questi amico mio». Dopo le ultime elezioni comunali «qualcosa è cambiato», precisa Pignatone, tuttavia in un’intercettazione «Carminati con i suoi collaboratori dicono: “Siamo tranquilli abbiamo amici”». Nell’ordinanza firmata dal giudice Flavia Costantini si legge: «Allo stato dell’indagine può essere affermato con certezza che vi erano dinamiche relazionali precise, che si intensificavano progressivamente, tra Alemanno e il suo entourage politico e amministrativo da un lato e il gruppo criminale che ruotava intorno a Buzzi e Carminati dall’altro. Dinamiche relazionali che avevano a oggetto specifici aspetti di gestione della cosa pubblica e che certamente non possono inquadrarsi nella fisiologia di rapporti tra amministrazione comunale e stakeholders». Quanto a Mancini e Panzironi, stando all’accusa, rappresentano «i pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all’organizzazione uno stabile contributo per l’aggiudicazione degli appalti». I due manager si sarebbero dati da fare anche per «lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all’associazione» e tra il 2008 e il 2013 come «garanti» dei rapporti dell’organizzazione con il Campidoglio. Il manager Fabrizio Franco Testa, invece, per i magistrati è «una testa di ponte» del gruppo «nel settore politico e istituzionale, coordinando le attività corruttive dell’associazione e occupandosi della nomina di persone gradite al sodalizio in posti chiave della pubblica amministrazione». L’ex sindaco di Roma, nel dichiararsi fiducioso nel lavoro della magistratura, precisa in una nota: «Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza. Dimostrerò la mia totale estraneità». E annuncia: «Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta». Per il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, «quello che sta emergendo è un quadro inquietante». Dopo lo scandalo di Marco Di Stefano (deputato Pd a lungo in Regione Lazio, dove fu anche assessore al Patrimonio) travolto a fine ottobre dall’inchiesta per le tangenti da due milioni di euro nel caso degli affitti pilotati alla Pisana, una nuova «puntata» giudiziaria sembra travolgere le istituzioni della Capitale. Proprio mentre scattavano le perquisizioni, martedì Di Stefano è arrivato a Piazzale Clodio per essere interrogato nell’ambito dell’inchiesta su una presunta tangente da 1,8 milioni di euro che avrebbe ricevuto, quando era assessore alla Regione Lazio nella giunta Marazzo, dai costruttori Antonio e Daniele Pulcini. Di Stefano è indagato per corruzione e falso: per l’accusa la tangente servì per favorire la locazione di due immobili dei Pulcini alla società «Lazio service». Di Stefano sarà sentito anche come testimone sulla scomparsa del suo braccio destro Alfredo Guagnelli.

«Mafia capitale», la strana piovra che avvolge la politica debole di Roma. Lo choc di una città che si ritrova in mano a un ex estremista nero e a un ex detenuto, scrive  iovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Nel quadro dipinto dalla Procura antimafia di Roma e dai carabinieri del Ros, l’immagine che traspare è quella di una piovra che ha avvolto la Capitale attraverso i suoi tentacoli, arrivando fino al Campidoglio. Con i politici – l’ex amministrazione di centro-destra, e qualche propaggine che sostiene la nuova – al servizio di un gruppo in grado piegare la politica e l’imprenditoria ai propri interessi. Un gruppo criminale chiamato “Mafia capitale”, perché si avvale del metodo mafioso nell’intimidazione e nel condizionamento dei pubblici poteri. In maniera diversa da come si muovono le cosche dei Cosa nostra in Sicilia o quella della ‘ndrangheta in Calabria e in Lombardia, ma ugualmente pervasiva. Un sistema messo in piedi da un ex militante della destra sovversiva degli anni Settanta, Massimo Carminati, poi passato ai rapporti con la malavita comune, che può contare – secondo l’accusa - anche sul “carisma criminale” guadagnato in decenni di cronache giudiziarie e processi andati per lo più a buon fine (per lui), e da un imprenditore legato al mondo delle cooperative: Salvatore Buzzi, anche lui ex detenuto che proprio in carcere, trent’anni fa, ha cominciato a intessere relazioni con l’esterno grazie alle occasioni di reinserimento offerte ai condannati; e oggi gestisce, stando alle carte degli inquirenti - «le attività economiche» di mafia capitale, occupandosi «della contabilità occulta e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti». Una città in mano a un ex estremista nero e a un ex detenuto, insomma. Almeno nel disegno dei pubblici ministeri e del giudice che ha concesso gli arresti. Accuse da provare, ovviamente, ma dalle quali emerge già, con nettezza, la debolezza della politica cittadina e amministrativa che si lascia quantomeno tentare e influenzare, nelle sue scelte, da metodi e interessi poco commendevoli. Nella capitale d’Italia.

«L’ho comprato, gioca per me». La rete che arruolava i politici. I boss cambiavano perfino il bilancio. «Cosentino (Pd) è amico nostro», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. In ogni posto chiave avevano sistemato una persona fidata. Aziende municipalizzate, assessorati, persino il bilancio del Campidoglio erano in grado di modificare. Per riuscire a controllare le commissioni Trasparenza e Anticorruzione hanno fatto carte false, forse convinti che questo li avrebbe salvati. È una rete di potere autentico quella creata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, «inserendo nei ruoli decisionali della pubblica amministrazione uomini che, per ragioni diverse di affiliazione o di subordinazione, rispondono direttamente al sodalizio, non sempre con una piena consapevolezza delle sue caratteristiche». Quando Gianni Alemanno cede la guida di Roma a Ignazio Marino, si concentrano sugli esponenti del Pd che potevano mettersi a disposizione in cambio di favori e tangenti. E riescono ad agganciarli. Nelle intercettazioni che fanno da filo conduttore alle indagini dei carabinieri del Ros guidati dal generale Mario Parente, si parla di appuntamenti chiesti al vicesindaco Luigi Nieri, di incontri con il capo di gabinetto Mattia Stella. Mentre Eugenio Patanè avrebbe preso soldi per «pilotare» appalti alla Regione, del senatore del Pd Lionello Cosentino, segretario della federazione Pd romana, dicono: «È proprio amico nostro». Ad Alemanno, dipinto dalle carte dell’accusa quasi come un burattino nelle loro mani, pagano le cene elettorali oltre ai contanti versati alla sua Fondazione «Nuova Italia» e portano «comparse» per la claque ai comizi. A far da «cerniera» ci pensa spesso l’assessore Luca Gramazio. Ma alla vigilia delle amministrative di giugno 2013, quando lui tentenna sulla concessione di una proroga alle cooperative, il ricatto di Buzzi è esplicito: «Me la proroghi a sei mesi, arrivi a dopo le elezioni... se li famo tutti in santa pace, qui c’hai pure gente che ti vota... così ci costringi a fare le manifestazioni». Riccardo Mancini, amministratore delegato di Eur spa è sempre stato uno dei personaggi di riferimento, «espressione dell’amministrazione comunale avendo gestito le campagne elettorali di Alemanno ed essendo considerato una sorta di plenipotenziario nella gestione dei rapporti con gli imprenditori, soprattutto nel settore trasporti». È quello che «deve passa’ i lavori buoni». Quando finisce sotto inchiesta Buzzi racconta: «Lo semo annati a pija’, gli amo detto cioè “o stai zitto e sei riverito o se parli poi non c’è posto in cui te poi anda’ a nasconde’‘». Regolarmente stipendiato con 15 mila euro mensili è Franco Panzironi, ex amministratore delegato di Ama spa, «indicato quale reale dominus della stessa municipalizzata, nonostante non rivestisse più nessun incarico formale». Buzzi è categorico: «M’ha prosciugato tutti i soldi Panzironi... dovevo daje un sacco de soldi, 15 mila euro, gli ultimi glieli do oggi e poi ho finito». Con la giunta Alemanno il controllo dell’Ama è totale. Quando arriva Marino, l’organizzazione si attrezza. E in vista della gara per la raccolta del Multimateriale Buzzi appare sicuro: «I nostri assi nella manica per farci vince la gara dovrebbero essere la Cesaretti per conto di Sel, Coratti che venerdì ce vado a prende un bel caffè e metto in campo anche Cosentino». Parlando del presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, Buzzi dice «me lo so’ comprato, ormai gioca con me», e il 23 gennaio 2014 racconta di avergli «promesso 150 mila euro se fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale». L’8 aprile invia un sms a Mattia Stella: «Sono da Coratti». Lui lo chiama immediatamente: «Oh Salvato’ io sto giù da me». Buzzi è pronto: «Appena finisco da Coratti, scendo giù da te». Del resto con i collaboratori più stretti era stato esplicito: «Sto’ Mattia lo dobbiamo valorizzare, lo dobbiamo lega’ di più a noi». Luca Odevaine, vicecapo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, viene ritenuto un esponente dell’organizzazione e infatti Buzzi conta sulla possibilità che diventi capo di gabinetto di Marino «così ci si infilano tutte le caselle... qualche assessore giusto... ci divertiremo parecchio». L’interesse dell’organizzazione a orientare la politica è palese sin dalla scelta del candidato sindaco. A ottobre 2012 Carminati si informa con Buzzi: «Come siete messi per le primarie?» e lui risponde: «Stiamo a sostene’ tutti e due... avemo dato 140 voti a Giuntella e 80 a Cosentino che è proprio amico nostro». In realtà a novembre Buzzi annuncia: «Noi oggi alle cinque lanciamo Marroni alle primarie per sindaco eh!». Il possibile cambio in giunta era per loro un’ossessione e il 22 gennaio 2013, analizzando ogni possibilità dice: «È vero, se vince il centrosinistra siamo rovinati, solo se vince Marroni andiamo bene». Marroni diventa deputato del Pd mentre l’altro «amico» Daniele Ozzimo è nominato assessore alla Casa. Tutti restano comunque inseriti nella «rete» che ha continuato a garantire affari e potere.

Carminati, il "Nero" interpretato da Scamarcio, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Gioventù bruciata, vecchiaia maledetta. C'è da chiedersi che cosa attragga di più della trasgressione senza rimedio, che cosa porti a decidere un giorno di buttare al macero la tua vita in un bar dell'Eur chiamato il «Fungo». Era lì che Massimo Carminati, il «Nero» di Romanzo criminale interpretato da Riccardo Scamarcio, milanese piombato nella Capitale negli anni Settanta con la famiglia, incontrò il suo destino. Assieme a nomi al pari suo passati alla storia del terrorismo nero, prima Avanguardia nazionale poi Nar, amici di sangue come Valerio Giusva Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi. Lì, in quel fasullo mondo di pulizia medio-altoborghese, e poi al bar Fermi e in quello di via Avicenna, Massimo frequenta gli esponenti più in vista della banda della Magliana, e vi si lega a filo doppio. In quei giardinetti verdi nasce una strategia del terrore che si trasforma via via in malavita ordinaria e quotidiana, scelta che costa a Carminati un occhio, l'uso di una gamba, quella sinistra, il soprannome di «Cecato», quando la mattina del 20 aprile dell'81 sta cercando di fuggire in Svizzera, e di lì in Spagna. Di quella metamorfosi inesorabile che i neofascisti cresciuti nel quartiere di Monteverde subiscono, diventando delinquenti, Carminati diventa snodo centrale e rispettato, anche in virtù dei suoi stretti rapporti con i boss Giuseppucci e Abbruciati. Rapine, omicidi, attentati ai treni, la morte di Pecorelli: negli anni bui d'Italia il nome del Guercio è una certezza: finisce alla sbarra, spesso senza un adeguato impianto accusatorio, ne esce sempre assolto. La condanna a dieci anni arriverà invece solo nel '98 nel processo che vedrà alla sbarra l'intera banda della Magliana. Per il Nero comincia un altro dei suoi tunnel maledetti.

Carminati, dai neri alla Magliana: «Sono il Re, vedi che gli combino». Un imprenditore legato al gruppo dell’ex terrorista: «Io qui sono diventato intoccabile», scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Quando lo arrestarono la prima volta mentre tentava di attraversare il confine tra Italia e Svizzera, nel 1981, dopo che un poliziotto gli sparò un colpo di pistola che gli fece perdere un occhio, faticarono a identificarlo. Perché aveva addosso un documento falso, e perché il suo vero nome era uno dei tanti estremisti di destra ricercati, niente più. Oggi, trentatré anni e qualche vita dopo, quello stesso nome è sufficiente a fare paura come l’identità di un boss, utile a incutere timore e rispetto insieme. Al pari dei soprannomi derivati dalla pallottola conficcata nell’occhio: «Il Cecato» o «Il Pirata». È quel che sostengono gli inquirenti a proposito di Massimo Carminati, 56 anni compiuti a maggio, l’ex militante dei Nuclei armati rivoluzionari poi transitato armi e bagagli dalle parti della banda della Magliana, rimanendo coinvolto - e riuscendo a uscirne pulito, il più delle volte, o con pochi danni - nelle vicende criminali più clamorose: dall’omicidio del giornalista Mino Pecorelli (assolto in tutti i gradi di giudizio) al furto consumato nel caveau del tribunale di Roma nel 1999 (condanna ridotta a quattro anni), passando per altre vicende più o meno misteriose. Un altro ex sovversivo «nero» degli anni Settanta arrestato nell’operazione di ieri (ce ne sono diversi, anche se ormai l’ideologia e la politica c’entrano poco e niente; sembra più una questione di soldi, e di metodi per accaparrarne) racconta in un colloquio intercettato che quando lo arrestarono per una rapina nel 1994, nella quale era rimasto ferito, appena arrivato a Regina Coeli tutti gli offrirono assistenza e solidarietà in virtù della sua amicizia con Carminati; «anche persone che, non conoscendo, però sapevano». Perfino l’averla quasi sempre scampata nei tribunali, o comunque essersela cavata con pene leggere, secondo gli inquirenti contribuisce ad accrescere il mito dell’impunità e quindi del potere sotterraneo che riesce a esercitare. Il resto l’hanno fatto alcuni articoli di rotocalco dove veniva definito (insieme ad altri) il «Re di Roma», e lui stesso commentava: «Sul nostro lavoro... sono pure cose buone... Se sentono tranquilli», riferito alle persone con cui aveva rapporti. Oppure, quando c’era da sfruttare l’aura di duro con chi doveva adeguarsi alle sue indicazioni: «Sennò viene qua il Re di Roma... tu sei un sottoposto... è il Re di Roma che viene qua... entro dalla porta principale... vede io che gli combino». Sia quando militava nelle file della destra sovversiva, sia nei rapporti con i banditi della Magliana (in particolare Franco Giuseppucci, boss con simpatie neofasciste), Carminati si è mostrato attento a mantenere un ruolo autonomo, amico che non tradisce gli amici e fa valere più il vincolo personale che quello politico o di «batteria». Pronto a usare metodi maneschi e «convincenti», abituato a parlare poco e apprezzare chi parla poco, rispetto a quelli che vantano rapporti altolocati. Consapevole del proprio ruolo e della propria capacità intimidatoria ma anche imprenditoriale, attento agli affari e a nuove forme d’investimento attraverso persone fidate. Come Salvatore Buzzi, l’imprenditore delle cooperative che - nella ricostruzione dell’accusa - gli gestiva buona parte dei soldi ed è divenuto il suo principale socio occulto. «È uno di quelli cattivi -, dice a proposito di Carminati uno degli imprenditori collusi con la presunta associazione mafiosa -. Questi c’hanno i soldi pe’ fà una guerra, ai tempi d’oro hanno fatto quello che hanno fatto... Quando te serve una cosa vai da lui, non è lui che viene da te». E chi poteva godere della sua protezione si sentiva come un altro imprenditore legato al gruppo di Carminati: «Non me può toccare manco Gesù Cristo... cioè qui... io qui a Roma sono diventato intoccabile».

"Li compriamo tutti. Se vinceva Alemanno saremmo stati a posto. Proviamoci con Marino". Salvatore Buzzi come punto di raccordo tra gli interessi di Carminati e la politica. Il suo ruolo chiave emerge dalle intercettazioni a ridosso delle elezioni 2013. L'uomo delle coop autocollocato "a sinistra" si vantava del suo potere di persuasione. Una "vocazione corruttiva" che secondo i magistrati non aveva distinzioni di colore, scrivono Mauro Favale e Giovanna Vitale su “La Repubblica”. "Me li sto a comprà tutti", si vantava al telefono Salvatore Buzzi, uomo chiave dell'inchiesta, figura centrale e di raccordo tra gli interessi di Massimo Carminati e la politica. Era lui, da uomo delle cooperative che si auto-collocava "a sinistra", a gestire le attività economiche della associazione nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi, della manutenzione del verde pubblico. Nella sua rete, secondo le indagini, finiscono politici di centrodestra e di centrosinistra, senza particolari distinzioni di colore. Durante la campagna elettorale per le elezioni del 2013, quando le quotazioni di Gianni Alemanno vengono date in discesa, si esprime così al telefono con Emilio Gammuto, figura "tra le più attive  -  scrive la gip Flavia Costantini  -  sul versante della corruzione".

Buzzi: "Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, partivamo fiuuuu (fonetico intendendo partiamo a razzo, ndr.). C'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine doveva stà assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde. Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno... Che cazzo voi di più?".

Ma quella che i magistrati definiscono "vocazione corruttiva", per Buzzi non ha barriere politiche. A suo dire è in "trattative corruttive" anche con l'amministrazione Marino. Dall'altra parte del telefono c'è sempre Gammuto.

Buzzi: "E mo vedemo Marino, poi ce pigliamo 'e misure con Marino".

Gammuto: "Va bè mò, Marino tramite Luigi Nieri".

Buzzi: "Ma Nieri, è entrato Nieri?".

Gammuto: "Non lo so".

Buzzi: "Cazzo ne sai? Noi c'avemo Ozzimo, quattro: Ozzimo, Duranti, Pastore e Nigro".

L'ex assessore alla Casa della giunta Marino, indagato per corruzione, si è dimesso ieri, dichiarandosi "estraneo ai fatti". Nelle chiacchiere tra gli arrestati contenuti nell'ordinanza del gip viene a più riprese definito "un amico", tanto che Buzzi confessa ad Alemanno di aver dato indicazioni di un voto disgiunto alle elezioni "Ozzimo-Alemanno".

Alemanno: "Pronto?".

Buzzi: "Gianni come stai?".

Alemanno: "Allora? Ma è vera 'sta storia del disgiunto?".

Buzzi: "Facciamo il disgiunto, facciamo. Ozzimo ed Alemanno". (ride)

Alemanno: "Eh, questo mi onora molto".

Buzzi: "No, ma non se fa più".

Alemanno: "Mi onora molto".

Buzzi: "Non lo possiamo dire, però. Mi raccomando, eh". (ride).

Alemanno: "Come?"

Buzzi: "Non lo possiamo dire".

Alemanno: "No, no. Vabbè, vabbè. Poi, ma poi si nota. Per cui, vediamo dopo. Però mi raccomando eh! Fate i bravi ragazzi".

Buzzi: "Per me vinci. Per me gliela fai, gliela fai".

Alemanno: "Sì, sì. Penso, penso di sì e siamo in recupero. Poi, ovviamente bisogna vedere, non bisogna mai sottovalutare l'avversario. Va bene".

Sempre per quanto riguarda i legami con l'amministrazione Alemanno, risulta che attraverso alcune sue società, Buzzi avrebbe pagato due cene elettorali all'ex sindaco attraverso la Fondazione Nuova Italia. Non solo: su richiesta di Franco Panzironi, ex ad di Ama, Buzzi recupera 50 uomini per formare una claque elettorale nel corso della campagna elettorale di dell'ex sindaco. L'uomo delle cooperative, inoltre, è in ottimi rapporti anche con Luca Gramazio, attuale capogruppo di Fi in Regione e, all'epoca, presidente dei consigliere comunali del Pdl. Secondo il gip "le indagini hanno delineato un quadro indiziario tale da indurre ad ipotizzare che Gramazio possa essere un collegamento dell'organizzazione con il mondo della politica e degli appalti". Gramazio, oltre ad avere una costante frequentazione direttamente con Massimo Carminati, il leader del gruppo, è anche la figura incaricata di collocare all'interno dell'amministrazione "soggetti che esprimevano gli interessi dell'associazione, quali Berti, Fiscon e Quarzo". Si interessa alle vicende relative agli appalti per il campo nomadi di Castel Romano e, soprattutto, per recuperare le risorse necessarie nonostante l'assenza di fondi nel bilancio comunale 2013. "Una trama di rapporti che, secondo le conversazioni che sono state indicate a proposito della corruzione di Turella, relativa allo stanziamento per le piste ciclabili, lo avrebbe visto remunerato con la somma di almeno 50.000 euro", scrive la gip. Quando l'amministrazione cambia colore, l'organizzazione criminale non si scoraggia e riesce a "reclutare" anche rappresentanti del centrosinistra. In particolar modo l'abboccamento funziona con Mirko Coratti, Pd, presidente dell'Aula Giulio Cesare, anch'egli ieri dimessosi dopo l'avviso di garanzia, accusato di aver intascato una tangente da 150.000 euro. L'intercettazione tra Buzzi e Claudio Caldarelli (suo collaboratore) è esplicativa.

Caldarelli: "Vabbè, ricordate sta cosa: so un milione e 8, è importante. Perché è politica la scelta al di là...".

Buzzi: (a bassa voce:) "Oh, me sò comprato Coratti".

Caldarelli: "Eh, ricordate da diglielo".

Buzzi: "Lui sta con me. Gioca con me ormai".

Caldarelli: "Eh, ricordateglie de questo perché... ".

Buzzi: "Oh ma che sei peggio de lui, ce vado venerdì a pranzo ma che sei rincoglionito. Ma che cazzo, non cambi mai, sempre la stessa cosa".

Caldarelli ride.

Buzzi: "E che cazzo, che me so rincoglionito, poi non tutte riescono però uno ce prova, eh (ride). Gliel'ho detto: "Guarda, lo stesso rapporto che c'abbiamo con Giordano lo possiamo aver con te. M'ha capito subito. Poi però il problema è che lui non so quanto a quanta gente c'ha... mentre con Giordano semo... Quando io gl'ho detto tutto lui non m'ha detto no. M'ha detto ci vediamo a pranzo venerdì. Più de questo, che me deve di'? Al capo segreteria suo noi gli diamo 1000 euro al mese. Sò tutti a stipendio Cla'. Io solo per metteme a sede a parlà con Coratti 10 mila gli ho portato". L'arruolamento di Coratti e del suo capo segreteria, secondo gli inquirenti, ha tre obiettivi: "L'aggiudicazione del bando di gara AMA n. 30/2013 riguardante la raccolta del multimateriale; lo sblocco dei pagamenti sui servizi sociali forniti al Comune di Roma; la nomina di un nuovo direttore del V Dipartimento, in sostituzione della neo incaricata Gabriella Acerbi, ritenuta persona poco disponibile". Per provare a condizionare la giunta Marino, Buzzi stringe i legami anche con Mattia Stella, capo segreteria di Marino, che non risulta indagato ma che gli arrestati provano a blandire. "Eloquente nel senso della costruzione di un rapporto privilegiato con Stella  -  scrive la gip  -  è la conversazione nella quale Buzzi chiamava Carlo Guarany, lo informava che prima sarebbe andato in Ama e successivamente presso il "Gabinetto per incontrare Mattia". In questa conversazione si sottolinea la necessità di "valorizzare Mattia e legarlo di più a noi". Gli interessi di "mafia capitale" si rivolgono anche alla Regione. E lì, col cambio di giunta agganciano Eugenio Patanè, consigliere Pd. Anche lui sarebbe coinvolto, secondo la procura, nell'appalto Ama del 2013 per il quale sarebbe stato pagato con una tangente più bassa rispetto alle richieste. Lo spiega Buzzi intercettato al telefono con la sua compagna Alessandra Garrone.

Buzzi: "Noi dovremmo dare a Patanè per la gara che abbiamo vinto...".

Garrone: "122 euro".

Buzzi: "122 euro e non esiste proprio. Non esiste che quelli hanno chiesto i soldi a Patanè. 120.000 euro, 120 noi e 120... hai capito come funziona?"

Garrone: "Ho capito".

In un'altra intercettazione, questa volta ambientale, Buzzi spiega meglio il sistema ai suoi interlocutori.

Buzzi: "Noi a Panzironi che comandava gli avemo dato 2,5%, 120 mila euro su 5 milioni. Mo damo tutti 'sti soldi a questo?".

A insistere per i soldi a Patanè è Franco Cancelli, della cooperativa Edera, finito ai domiciliari.

Buzzi: "Lui mi dice "ah però bisogna da'" e alla fine dice, "la differenza sarebbero 10 mila euro" perché ne vorrebbe subito 60 e gliene toccherebbero 50, dice. Ho fatto "oh, guarda che il problema però è la tua aggressività. Perché se Patanè garantisce, non c'avemo problemi".

I quattro re di Roma. Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici, scrive Lirio Abbate “L’Espresso”. Non ama guidare e preferisce spostarsi a piedi o cavalcando uno scooter. Nessun lusso negli abiti, modi controllati e cortesi: in una città dove tutti parlano troppo, lui pesa le parole ed evita i telefonini. Sembra un piccolo borghese, perso tra la folla della metropoli, ma ogni volta che qualcuno lo incontra si capisce subito dalla deferenza e dal rispetto che gli tributano che è una persona di riguardo. Riconoscerlo è facile: l'occhio sinistro riporta i segni di un'antica ferita. Il colpo di pistola esploso a distanza ravvicinata da un carabiniere nel 1981: è sopravvissuto anche alla pallottola alla testa, conquistando la fama di immortale. Anche per questo tutti hanno paura di lui. Ed è grazie a questo terrore che oggi Massimo Carminati è considerato l'ultimo re di Roma. La sua biografia è leggendaria, tanto da aver ispirato "Il Nero", uno dei protagonisti di "Romanzo criminale" interpretato sullo schermo da Riccardo Scamarcio. È stato un terrorista dei Nar, un killer al servizio della Banda della Magliana, l'hanno accusato per il delitto Pecorelli e per le trame degli 007 deviati, l'hanno arrestato per decine di rapine e omicidi. Come disse Valerio Fioravanti, «è uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura». Sempre a un passo dall'ergastolo, invece è quasi sempre uscito dalle inchieste con l'assoluzione o con pene minori: adesso a 54 anni non ha conti in sospeso con la giustizia. Ma il suo potere è ancora più forte che in passato. Il nome del "Cecato" viene sussurrato con paura in tutta l'area all'interno del grande raccordo anulare, dove lui continua a essere ritenuto arbitro di vita e morte, di traffici sulla strada e accordi negli attici dei Parioli. L'unica autorità in grado di guardare dall'alto quello che accade nella capitale. "L'Espresso" è riuscito a ricostruire la nuova mappa criminale di Roma tenuta in pugno da quattro figure, con un ruolo dominante di Carminati. Lo ha fatto grazie alle rivelazioni di fonti che hanno conoscenza diretta dei traffici che avvengono all'interno della metropoli e a cui è stato garantito l'anonimato. Queste informazioni sono state riscontrate e hanno permesso di ricostruire un quadro agghiacciante della situazione. Il business principale è la cocaina: viene spacciata in quantità tripla rispetto a Milano, un affare da decine di milioni di euro al mese, un'invasione di droga che circola in periferia, nei condomini della Roma bene e nei palazzi del potere, garantendo ricchezza e ricatti. I quattro capi non si sporcano le mani con il traffico, si limitano a regolamentarlo e autorizzare la vendita nei loro territori, ottenendo una percentuale dei proventi. Cifre colossali, perché ogni carico che entra sulla piazza romana rende fino a quattrocento volte il prezzo pagato dagli importatori che lo fanno arrivare dalla Colombia, dal Venezuela o dai Balcani: il fatturato è di centinaia di milioni di euro. Carminati viene descritto come il dominus della zona più redditizia, il centro e i quartieri bene della Roma Nord. Dicono che la sua forza starebbe soprattutto nella capacità di risolvere problemi: si rivolgono a lui imprenditori e commercianti in cerca di protezione, che devono recuperare crediti o che hanno bisogno di trovare denaro cash. Non ha amici, solo camerati. E chi trent'anni fa ha condiviso la militanza nell'estremismo neofascista sa di non potergli dire di no. Per questo la sua influenza si è moltiplicata dopo l'arrivo al Campidoglio di Gianni Alemanno, che ha insediato nelle municipalizzate come manager o consulenti molti ex di quella stagione di piombo. Le sue relazioni possono arrivare ovunque. A Gennaro Mokbel, che gestiva i fondi neri per colossi come Telecom e Fastweb. E a Lorenzo Cola, il superconsulente di Finmeccanica che ha trattato accordi da miliardi di euro ed era in contatto con agenti segreti di tutti i continenti: un'altra figura che - come dimostrano le foto esclusive de "l'Espresso" - continua a muoversi liberamente tra Milano e la capitale nonostante sentenze e arresti. Come Carminati, anche gli altri re di Roma sono soliti sospetti. Personaggi catturati, spesso condannati, ma sempre riusciti a tornare su piazza. Michele Senese domina i quartieri orientali e la fascia a Sud-Est della città, fitta di palazzi residenziali e sedi di multinazionali. La sua carriera comincia nella camorra napoletana: diversi pentiti lo hanno indicato come un sicario attivo nelle guerre tra cutoliani e Nuova Famiglia. Poi si è trasferito nella Capitale ed è diventato un boss autonomo, chiamato "o Pazzo" perché le perizie psichiatriche gli hanno permesso più volte di uscire dalla cella: i medici - che lo hanno definito capace di intendere e volere - lo hanno però indicato come incompatibile con il carcere. Fino allo scorso febbraio era detenuto in una clinica privata, dove però avrebbe continuato a ricevere sodali e gestire affari e ordini nonostante una sentenza a 17 anni ridotta a 8 in appello. Poi è finito a Rebibbia, ma per poco: da sei mesi ha ottenuto gli arresti domiciliari, sempre per l'incompatibilità con la prigione, confermata anche dalla Cassazione, e a fine anno tornerà libero. All'interno del territorio di Senese c'è un'enclave in mano ai Casamonica, altra presenza fissa nelle cronache nere romane. Sono sinti, etnia nomade ormai stanziale in Italia da decenni, che spadroneggiano nella zona tra Anagnina e Tuscolano e fanno affari di droga con la zona dei Castelli. Ricchi, con ville arredate in modo sfarzoso e auto di lusso, si muovono tra usura e cocaina, senza che le retate abbiano intaccato i loro traffici: rifornivano anche il vigile urbano che faceva da autista a Samuele Piccolo, il vicepresidente del consiglio comunale arrestato lo scorso luglio. Ormai sono più di trent'anni che si parla di loro, ma soltanto nel gennaio di quest'anno gli è stata contestata l'associazione per delinquere: secondo la Squadra Mobile possono contare su un migliaio di affiliati, pronti a offrire i loro servizi criminali alla famiglia. Dopo l'arresto del leader di un anno fa, Peppe Casamonica, adesso alla guida del clan c'è la moglie del boss. I processi hanno avuto scarsa incidenza anche sulle attività di "don" Carmine e Giuseppe "Floro" Fasciani, i fratelli avrebbero la supervisione sulla fascia Sud-Occidentale, che comincia da San Paolo e comprende i quartieri a ridosso della Cristoforo Colombo fino al litorale di Ostia. Don Carmine è un'altra vecchia conoscenza, che compare nei dossier delle forze dell'ordine dai tempi della Magliana. Come uno dei figli di Enrico Nicoletti, lo storico cassiere della Banda, adesso segnalato tra le figure emergenti nonostante un arresto e una condanna non definitiva. Carmine Fasciani invece è finito in cella nel 2010, quando gli venne sequestrato uno dei locali più trendy dell'estate romana con discoteca sulla spiaggia: lo aveva comprato per 780 mila euro nonostante ne dichiarasse al fisco solo 14 mila. Meno di due anni dopo è stato assolto in primo grado, con restituzione dei beni. Pochi mesi più tardi è tornato dentro e in più operazioni i carabinieri hanno messo i sigilli ad altre proprietà per un valore di oltre dieci milioni di euro. Anche Fasciani aveva amicizie nei reduci dei Nar. E con lui al telefono il solito Mokbel millantava di avere pagato per fare assolvere Valerio Fioravanti e Francesca Mambro: il segno di come tutte le storie criminali a Roma finiscano per intrecciarsi intorno allo stesso filo nero. E anche Fasciani ha tenuto rapporti con camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra. Per le grandi mafie Roma resta una città aperta. Possono investire liberamente in ristoranti, negozi e immobili a patto di non pestare i piedi ai quattro re. E possono tranquillamente prendere domicilio. Da Palermo si sono trasferiti nel quartiere africano Nunzia e Benedetto Graviano, fratelli dei boss di Brancaccio, gli stragisti di Cosa nostra. E poi l'ex capomafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro, che dal suo salotto di casa dava direttive a politici e giornalisti e ordinava omicidi e attentati: è tornato libero dopo uno sconto per buona condotta mettendo su casa a Roma. Operano a Nord, in zona Flaminia, nel territorio di Carminati, anche alcuni componenti della 'ndrangheta di Africo, in particolare i Morabito. Non è forse un caso che il capobastone Giuseppe Morabito, detto Peppe Tiradritto, è il nonno di Giuseppe Sculli, ex giocatore della Lazio, coinvolto nell'indagine su alcune combine di partire di serie A: Sculli, secondo gli investigatori, avrebbe avuto contatti proprio con "il Nero". In tutto il Lazio ormai i clan campani e calabresi hanno insediato feudi stabili, ma a Roma è un'altra storia. Non comandano loro: nella Capitale per qualunque operazione illecita devono chiedere l'autorizzazione dei sovrani capitolini e riconoscergli la percentuale. Perché la situazione che si è creata all'ombra dei sette colli non ha precedenti: è come il laboratorio di una nuova formula criminale, flessibile ed efficiente, che permette il controllo del territorio limitando l'uso della violenza. Sotto certi aspetti, ricorda Palermo degli anni Settanta, prima dell'avvento dei corleonesi, quando le vecchie famiglie dominate da Stefano Bontate pensavano ad arricchirsi con droga ed edilizia evitando gesti clamorosi. Roma è lontanissima dal capoluogo siciliano: non ci sono clan che impongono il pizzo sistematicamente a tutti i commercianti. Anzi, spesso sono esercenti e imprenditori a rivolgersi ai boss cercando protezione, prestiti o offrendo capitali da investire nell'acquisto di partite di coca. Le indagini hanno evidenziato il ruolo di costruttori e negozianti impegnati come finanziatori nell'importazione di neve dal Sudamerica, quasi sempre dei quartieri nord, quelli che fanno capo a Carminati. I quattro re e le grandi cosche, secondo quanto appreso da "l'Espresso", hanno raggiunto un accordo dieci mesi fa: niente più omicidi di mafia nella Capitale. In questo modo le forze dell'ordine non si dovranno muovere in nuove indagini e il business illegale non avrà ripercussioni. Il patto è stato siglato dopo che i boss hanno appreso dell'arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone. Gli undici delitti che lo scorso anno hanno fatto nascere l'allarme su Roma in realtà non sarebbero semplici regolamenti di conti, ma tanti episodi di una strategia finalizzata a imporre questo nuovo modello criminale: venivano punite le persone che violavano i patti, mettendo in crisi il sistema di potere. Per spiegare i meccanismi di questo sistema, "l'Espresso" ha raccolto il retroscena del delitto più clamoroso avvenuto lo scorso anno: l'uccisione di Flavio Simmi, a poca distanza da piazza Mazzini e dal palazzo di giustizia. Figlio di un gioielliere e ristoratore coinvolto nelle inchieste sulla Banda della Magliana e poi assolto, Flavio gestiva un Compro oro e pochi mesi prima era stato ferito: un solo colpo di pistola ai testicoli. Un avvertimento che sarebbe stato deciso da un calabrese legato alla 'ndrangheta, arrestato all'inizio del 2011. L'uomo dal carcere avrebbe chiesto alla sua convivente di andare da Simmi e ritirare una grossa somma di denaro, forse provento di attività comuni. Ma il debitore le manca di rispetto e così il detenuto decide di ucciderlo. Prima però chiede il permesso a chi controlla il territorio. A questo punto interviene il padre, che per salvare il figlio probabilmente contatta vecchi amici della banda ancora importanti, ottenendo che la sentenza di morte sia trasformata in un avvertimento: la pistolettata sui genitali e l'ordine di andare via da Roma. Il giovane però rimane in città e allora viene decisa l'esecuzione, senza che scattino vendette. Le istituzioni per anni non sono riuscite a scardinare questo sistema. Ha pesato anche un deficit culturale: l'incapacità di riconoscere la manifestazione di questo differente modo di essere mafia e imporre il dominio sulla città. Il reato di associazione mafiosa non è stato mai riconosciuto in una sentenza: i giudici hanno sempre stabilito che a Roma ci fossero trafficanti, rapinatori, spacciatori ma non vere organizzazioni criminali. È questo il clima che serve ai clan per prosperare. E non appena i giornali hanno fatto trapelare la possibilità che alla guida della procura capitolina potesse arrivare Giuseppe Pignatone, con decenni di esperienza nella lotta alle cosche, i boss hanno deciso di imporre la pace. I delitti sono cessati all'improvviso: negli ultimi dodici mesi ci sono stati solo due omicidi connessi alla criminalità, entrambi però sul litorale, lontanissimo dal centro. È la stessa strategia criminale della sommersione o dell'invisibilità che è stata attuata in Sicilia dal vecchio padrino Bernardo Provenzano nel 1993 dopo l'arresto di Riina. Niente più omicidi ma solo affari svolti in silenzio con l'aiuto della politica sostenuta dalla mafia. Le fonti de "l'Espresso" hanno descritto come si sia trattato di una scelta imposta dai "quattro re". Pronti a debellare in qualunque modo chi infrange la moratoria: poche settimane fa un ex dei Nar che stava per assaltare una banca armato fino ai denti è stato catturato durante un controllo dei carabinieri scattato al momento giusto. Questo silenzio ha indotto in inganno, alcuni mesi fa, qualche investigatore, il quale avrebbe riferito al prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, facendolo sobbalzare dalla sedia, che la mafia non è presente in città. La realtà è ben diversa. Con un potere invisibile che trae linfa dalla corruzione generalizzata. La scorsa settimana il procuratore Pignatone partecipando ad un convegno organizzato nell'ambito del salone della Giustizia ha detto: «Roma è una città estremamente complessa perché mentre a Palermo e Reggio Calabria tutto viene ricondotto alla mafia, nella capitale i problemi sono tanti. Credo che da un lato non bisogna negare, come accaduto a Milano, che ci sia un problema di infiltrazioni mafiose». Pignatone al Salone della Giustizia ha detto: «A Roma c'è un rischio: l'inquinamento del mercato e dell'economia per l'afflusso di capitali mafiosi. Facciamo appello agli imprenditori perché stiano attenti: diventare soci di un mafioso significa prima o poi perdere l'azienda. Nella capitale è diffusa la corruzione ed è altissima l'evasione fiscale. La procura è impegnata a far sì che non appaiono come fenomeni normali. Qualche giorno fa abbiamo sequestrato il libretto degli assegni di un signore, che sulla causale aveva scritto "tangente". Questa è la dimostrazione del rischio di assuefazione, di accettazione. Bisogna reagire a questo stato di cose». Per questo motivo Pignatone non è solo; oltre a validi pm, lavora con un pool di investigatori che il procuratore ha voluto portare nella capitale e con lui hanno condiviso il "modello Reggio Calabria", che con intercettazioni e pedinamenti ha smantellato il volto borghese della 'ndrangheta. Poliziotti, carabinieri e finanzieri abituati a lavorare in squadra, l'unico modo per dare scacco ai re di Roma.

Roma, poltrone ai fascisti. Ex di Avanguardia Nazionale, esponenti di Terza Posizione, perfino naziskin vicini a Mokbel. Così Alemanno ha piazzato nei posti che contano della Capitale i suoi amici estremisti neri, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Boia chi molla, gridava a fine anni Ottanta il giovane Gianni Alemanno, al tempo capo del Fronte della Gioventù e fedelissimo di Pino Rauti, leader dell'ala movimentista dell'Msi e futuro suocero. Vent'anni dopo, nessuno può accusarlo di incoerenza: Gianni, diventato sindaco di Roma, non ha mollato nessuno. Non ha tradito, non ha lasciato per strada i vecchi camerati, nemmeno quelli finiti in galera per banda armata e atti terroristici, neppure i personaggi più discussi della galassia d'estrema destra protagonista degli anni di piombo. Anzi. Nell'anno di grazia 2010 Roma è sempre più nera, con fascisti ed ex fascisti che spuntano dappertutto. Nei posti cardine dell'amministrazione comunale e nell'entourage ristretto del nuovo Dux, nell'assemblea capitolina e nelle società controllate dal Comune, passando per enti regionali e ministeri. Vecchie conoscenze sono comparse anche nella parentopoli che ha investito l'Atac, dove lavorano - come ha scritto Ernesto Menicucci sul "Corriere" - l'ex Nar Francesco Bianco (in passato arrestato e processato per rapine e omicidi insieme ai fratelli Fioravanti, fu scarcerato per decorrenza dei termini) e l'ex di Terza posizione Gianluca Ponzio. Ponzio oggi è a capo del Servizio relazioni industriali della municipalizzata del Comune, negli anni Ottanta fu protagonista di arresti plurimi per rapina e possesso d'armi. La sinistra ha gridato allo scandalo, ma i due sono sono solo la punta dell'iceberg di un gruppo di potere sempre più radicato in città, cementato dagli ideali e dall'antica appartenenza, da interessi (anche economici) e da relazioni amicali e familiari. La lista comprende ex militanti di Terza posizione e dei Nuclei armati rivoluzionari, uomini di Forza nuova, naziskin vicini alla cricca di Gennaro Mokbel, capi storici di Avanguardia nazionale, ultrà e combattenti delle battaglie degli anni Settanta e Ottanta. Battuto a sorpresa Francesco Rutelli, disintegrati i potentati di Forza Italia (già messi a dura prova durante la giunta regionale guidata da Francesco Storace) ora sono nella cabina di controllo e, nella nerissima capitale, comandano loro. I due personaggi più influenti dell'amministrazione non sono assessori, ma due amici del sindaco: Franco Panzironi e Riccardo Mancini. Del primo, a capo dell'Ama, si sa praticamente tutto. Meno noti, invece, sono i trascorsi dell'uomo che Alemanno ha voluto alla guida di Eur spa, società controllata dal Campidoglio e dal ministero dell'Economia che ha nel suo portafoglio immobili per centinaia di milioni. Mancini, classe 1958, ha finanziato la campagna elettorale del 2006 e ha fatto da tesoriere durante quella del 2008. È un imprenditore di successo: erede di parte del patrimonio della famiglia Zanzi (energia e riscaldamento), ha comprato nel 2003 la Treerre, società di bonifiche e riciclaggio che fattura oltre 6 milioni di euro l'anno. Anche lui, che ha sempre vissuto all'Eur, è stato vicino ai camerati di Avanguardia nazionale: nel 1988 è stato processato - insieme ai leader del movimento Stefano Delle Chiaie e Adriano Tilgher, che oggi lavora in Regione con Teodoro Buontempo - e la Corte d'Assise lo condannò a un anno e nove mesi per violazione della legge sulle armi. Ora, dopo vent'anni, Alemanno gli ha dato le chiavi di un quartiere che conosce bene, quello del "mitico" bar Fungo, dove un tempo si ritrovavano quelli di Terza posizione, i ragazzi di Massimo Morsello e il gruppo di Giusva Fioravanti. Una curiosità: un socio in affari di Mancini, Ugo Luini (amministratore della holding del gruppo, la Emis) è pure tra i consiglieri della fondazione del sindaco, Nuova Italia. Mancini e Panzironi, ovviamente, si conoscono bene. A novembre il capo dell'Eur Spa ha assunto Dario, il figlio di Franco, già portaborse al Comune e ora funzionario con contratto a tempo indeterminato. La scelta ha fatto gridare allo scandalo il centrosinistra, ma sono altre le indiscrezioni che preoccupano Alemanno. Mancini, l'uomo che dovrebbe gestire la Formula 1, è infatti amico di Massimo Carminati, tra i fondatori dei Nar e leader della sezione dell'Eur, simpatizzante di Avanguardia nazionale e sodale della Banda della Magliana: il personaggio del "Nero" del film "Romanzo Criminale" è ispirato alla sua storia. I due sono spesso insieme, tanto che qualcuno sospettava che l'ex estremista (incriminato per vari delitti efferati ma assolto - quasi sempre - da ogni accusa) fosse stato assunto dalla municipalizzata. «Una sciocchezza» chiosano a "L'espresso" gli uomini del sindaco «Mancini lo vede solo perché si conoscono da anni. Nessun rapporto di lavoro». Un lavoro ben retribuito Alemanno e Panzironi l'avevano invece trovato a Stefano Andrini, assurto agli onori delle cronache perché insieme a un gruppetto di naziskin picchiò selvaggiamente, nell'estate del 1989, due "compagni" davanti al cinema Capranica. Andrini, 40 anni, fa parte di una generazione successiva a quella dei movimenti storici degli anni di piombo. La rissa costò a lui e al fratello gemello una condanna a quattro anni e otto mesi (poi ridotti a tre) per tentato omicidio. La carriera criminale continua anche dopo la reclusione: entrato nell'orbita del gruppo di Delle Chiaie, Stefano nel 1994 viene arrestato per alcuni scontri con gli autonomi. Un passato burrascoso che nel 2009 non gli impedisce di sedersi sulla poltrona di amministratore delegato di Ama Servizi Ambientali. Andrini, ultrà della Lazio, non c'è rimasto molto. Lo scorso febbraio è stato travolto dall'inchiesta sugli affari della banda capeggiata da Gennaro Mokbel. Secondo i magistrati sarebbe stato proprio lui a organizzare - tramite i suoi agganci a Bruxelles - la falsa candidatura di Nicola Di Girolamo, il senatore tanto caro a Mokbel («Sei il mio servo», gli diceva) e alle famiglie 'ndranghetiste di Isola Capo Rizzuto. Il sindaco, si sa, non molla mai nessuno. E perdona tutti, forse perché anche lui è stato sfiorato da vicende giudiziarie, come aggressioni e lancio di bombe molotov (sempre assolto). Non bisogna sorprendersi, così, che abbia provato a sistemare anche altri ex skin protagonisti del pestaggio al cinema Capranica. Così Mario Andrea Vattani (arrestato con gli Andrini ma poi assolto al processo), figlio del potente presidente dell'Ice Umberto, è diventato capo delle relazioni internazionali e del cerimoniale del Campidoglio. Assunto fino al 2013, costerà ai contribuenti 488 mila euro tra stipendio e oneri previdenziali. Anche Demetrio Tullio, pure lui arrestato e prosciolto, ha ottenuto un posto fisso. Stavolta al ministero delle Politiche agricole: è entrato grazie a un concorso bandito nel 2006, quando Alemanno era titolare del dicastero. Tullio lavora alla direzione generale della Pesca marittima, ma nel tempo libero si occupa anche di manifestazioni culturali. Il mensile di Ostia "Zeus" lo indica come «presidente dell'associazione Minas Tirith», dal nome della città assediata del Signore degli Anelli, che qualche giorno fa ha organizzato un convegno intitolato "Serate dannunziane". Secondo il giornale, la tre giorni è stata un successo. Non sappiamo se Alemanno ha perdonato anche Mokbel, che si è vantato di averlo preso a schiaffi durante una manifestazione (era il 1998) in cui Gennaro organizzava il sevizio d'ordine. Di sicuro l'inchiesta sul faccendiere che ha messo in piedi la più colossale truffa dal dopoguerra non gli fa dormire sonni tranquilli. Mokbel (in passato «destinatario», scrive il gip Aldo Morgigni nell'ordinanza, «di provvedimenti cautelari per fatti omicidiari collegati ad azioni di gruppi terroristici di estrema destra unitamente a soggetti - quali ad esempio Carminati Massimo - ancora oggi oggetto di ricerche da parte delle forze di polizia») ha infatti complici assai vicini al mondo di quella che fu Alleanza nazionale. In primis l'avvocato Paolo Colosimo, finito anche lui in galera per associazione a delinquere: fino a qualche tempo fa tra i suoi clienti c'era Nicolò Accame, l'ex portavoce di Francesco Storace alla Regione Lazio. Rampollo della dinastia Accame (il papà Giano, "fascista di sinistra", fu un intellettuale influente, la sorella Barbara è la moglie del leader carismatico di Terza posizione Peppe Dimitri, morto tragicamente nel 2006) è stato condannato per corruzione, rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio nell'ambito dell'inchiesta "Lazio-gate". Non solo. Del gruppo Mokbel fa parte anche Silvio Fanella, considerato dagli inquirenti il cassiere della banda. Il suo nome è spuntato a sorpresa nella compravendita di una società, la Mondo Verde, fondata anni fa dal capo della segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, e da due suoi cugini. A "L'espresso" risulta che Fanella rilevi il 50 per cento delle quote nel luglio del 2000, quando Antonio ha già lasciato l'impresa. Dopo pochi mesi, Fanella e il suo socio Teodolo Theodoli vendono le azioni a una ditta amministrata da tal Fabrizio Moro. Sarà un caso, ma Moro è un amico di Lucarelli. Sarà una coincidenza, ma per la Mondo Verde targata Moro lavorerà in alcuni progetti - come ha rivelato "Repubblica" - il cognato di Gennaro Mokbel. Lucarelli, classe 1965, imprenditore, è uno dei fedelissimi di Alemanno. Con l'estrema destra ha sempre avuto grande feeling: il segretario del sindaco nel 2000 era il portavoce romano di Forza Nuova, movimento di estrema destra fondato nel 1997 dai latitanti Massimo Morsello, ex Nar, e Roberto Fiore, ex Terza posizione, che sfuggirono a una retata. Era il 1980, l'anno della strage di Bologna. I due scapparono a Londra, e tornarono solo quando le condanne per banda armata furono prescritte o, nel caso di Morsello gravemente malato, inapplicabili. Lucarelli si dà da fare: con i suoi organizza sit in inneggianti al leader dell'ultradestra austriaca Haider, manifestazioni contro il gay pride (i volantini lo definivano «la saga del pervertito») e risse davanti al Campidoglio (Marcello Fiori, vicecapo di gabinetto di Rutelli, denunciò di essere stato spintonato da Lucarelli). Nel who's who della cerchia di Alemanno ci sono anche altri ex camerati di rango. Vincenzo Piso, ex militante di Terza posizione e di Ordine nuovo, siede oggi in Parlamento ed è coordinatore del Pdl regionale. Venne arrestato nel 1980, restò in carcere per quattro anni con l'accusa di banda armata, venne poi prosciolto. Influente consigliere di Piso e del sindaco è poi Marcello De Angelis, anche lui di Terza posizione, cinque anni di carcere alle spalle e una carriera come cantante del gruppo musicale 27Obis, riferimento all'articolo del codice penale sulle associazioni con finalità di terrorismo. Fratello del leader di Terza posizione Nanni, morto in circostanze misteriose in carcere, Marcello ora è senatore e direttore di Area, la rivista fondata da Alemanno e Storace. Da un anno al Comune lavora anche Loris Facchinetti (nell'ordinanza del 31 dicembre 2009 si specifica che la collaborazione è «a titolo gratuito»), ex leader di Europa civiltà, un movimento neopagano e paramilitare di estrema destra nato nel 1969 che aveva rapporti pure con la massoneria. Fermato «per reticenza nell'inchiesta di piazza Fontana», come ricorda Ugo Maria Tassinari nel suo libro "Fascisteria", Facchinetti - sposato con la sorella di Fabio Rampelli - oggi è delegato del sindaco di Roma per il Mediterraneo, ed esperto di "Politiche internazionali" della fondazione di Alemanno. Che ha voluto vicino a sé pure Claudio Corbolotti, aiutante di Lucarelli al Comune, arrestato nel 2004 per gli scontri avvenuti fuori l'Olimpico durante il derby Lazio-Roma. A proposito di ultrà, anche Guida Zappavigna, ex dei Boys della Roma ed ex Fuan, arrestato come presunto Nar e prosciolto in istruttoria, ha avuto un incarico dalla Polverini: ora è presidente del parco del Lago Lungo e Ripa. Grande tifoso di Totti e compagni è anche Mirko Giannotta. Le cronache ricordano che è stato arrestato nel 2003 insieme al fratello perché accusato di rapine ai danni di banche e gioiellerie, e che dal 2008 è diventato capoufficio del decoro urbano del gabinetto del sindaco. Già. Alemanno, cuore nero, non molla mai nessuno.

I fasciomafiosi alla conquista di Roma. Ex terroristi e colletti bianchi uniti dall’ideologia e dal denaro. E ormai più forti dei tradizionali clan. Ecco l’inedita rete di potere che oggi controlla la Capitale. E l'arresto per l'omicidio Fanella legato al caso Mokbel è solo l'ultimo tassello di un mosaico più grande, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Non è una città, ma un intreccio di traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su cui si è imposta una cupola nera. Invisibile ma potentissima, ha preso il controllo di Roma. Trasformando la metropoli nel laboratorio di una nuova forma di mafia, comandata da estremisti di destra di due generazioni. Al vertice ci sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Ai loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager nostalgici e giovani neofascisti. L’ideologia garantisce compattezza, il credo nell’azione e nella sfida. I soldi, tanti e subito, premiano la fedeltà. E la componente borghese, dai maturi colletti bianchi ai ragazzi in camicia nera, gli permette di arrivare ovunque. Con le buone o con le cattive. Per comprendere bene cosa accade oggi nella Capitale, in questo grande spazio circoscritto dal Grande raccordo anulare, occorre mettere da parte quello che accade a Napoli, a Palermo o a Reggio Calabria. È nella Capitale che ha messo radici un sistema criminale senza precedenti, con fiumi di cocaina e cascate di diamanti, ma anche tanto piombo. Una fascio-mafia, che sintetizza la forza perversa di due tradizioni in un’efficacia che gli ha consegnato anni di dominio incontrastato. Persino gli investigatori hanno fatto appello alla sociologia per spiegare il modello romano. Qui si incarna la microfisica del potere teorizzata da Paul Michel Foucault: il potere criminale-mafioso si esercita, si infiltra, «non è qualcosa che si divide tra coloro che lo possiedono o coloro che lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno o lo subiscono. Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola, o meglio come qualcosa che funziona solo a catena. Non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si esercita attraverso un’organizzazione reticolare». Si estende in tutte le strutture sociali ed economiche, con dinamiche che cambiano continuamente e costruiscono altri patti e altri affari. Si infiltra, entra nei ministeri, nelle finanziarie, nelle grandi società pubbliche come nei covi dei rapinatori e nelle piazze di spaccio. A Roma non ci sono zone in cui commercianti e imprenditori sono obbligati a pagare il pizzo. Non c’è l’oppressione del boss di quartiere. E gli omicidi sono calibrati con estrema attenzione. Luglio si è aperto con l’assassinio di un pezzo da novanta di questo sistema, Silvio Fanella, nei condomini bene. Agosto si è chiuso con l’esecuzione di un’autista della nettezza urbana, Pietro Pace, nella periferia estrema: il padre ha offerto una taglia di 100 mila euro sui killer. Delitti miratissimi, perché quello che conta è far girare i soldi, che si tratti di gestire immobili, licenze, investimenti o di vendere droga. Gli architetti di questo sistema non si sporcano le mani con il sangue. Sanno a chi affidare il lavoro sporco. E quando devono colpire duro, hanno a disposizione una centuria nera compattata dall’estremismo di destra. Uno dei componenti di questa cupola rivoluzionaria è Massimo Carminati, che sembra avere trasformato il suo personale romanzo criminale in una marcia trionfale. È stato nella banda della Magliana e nelle squadre terroriste dei Nar, con amicizie di rango in Cosa nostra e negli apparati deviati dello Stato. Coinvolto in processi importanti, come quello per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, ne è sempre uscito assolto. Ha scontato pochi anni di carcere per episodi minori. Nella Roma nera è un mito: un leader da seguire e ascoltare. E lui da leader si comporta e agisce. Si mostra, a chi non lo conosce, con modi felpati ed educati. Ma quando vuole sa imporsi con la forza, tanto che sodali e rivali lo rispettano con timore. È lui “l’ultimo re di Roma”. I suoi avvocati Ippolita Naso e Rosa Conti respingono questa ricostruzione: «Se tutto ciò rispondesse a verità, più che un uomo di potere sarebbe corretto definirlo uomo dai super poteri, che ha in mano le redini dell’imprenditoria capitolina, in grado di condizionare le vicende della politica romana, capace di passare dal traffico di droga ai vertici degli affari economici controllando, già che c’è, anche il territorio. E il tutto con un occhio solo!». Un riferimento a quella ferita vecchia di trent’anni, l’eredità di un conflitto a fuoco con i carabinieri che gli ha fruttato il soprannome di “er Cecato”. Per i legali però, come scrivono in un atto di citazione per difendere il loro cliente: «Siamo all’apoteosi dei luoghi comuni cinematografici. E di questo strabordare di informazioni neanche l’ombra di un elemento, un indizio, una circostanza oggettiva, una testimonianza, un riscontro, una indicazione di massima, una traccia, un segno che si sforzi di dare una parvenza di verità a quanto riferito». Per gli avvocati, «Carminati non ha più alcun conto in sospeso con la giustizia, è attualmente privo di pendenze penali e soprattutto re-inserito in un contesto sociale e familiare del tutto lecito, nel quale lodevolmente egli sta cercando di recuperare» e poi «si prende cura costantemente del figlio ventenne e convive stabilmente con la compagna, Alessia Marini, con la quale gestisce il negozio di abbigliamento “Blue Marlin”». Le parole degli avvocati sono un punto di partenza per decifrare la pista nera. Il negozio fa capo alla “Amc Industry srl” di cui è amministratore unico Alessia Marini e Carminati non compare come socio. La “Amc industry” dal primo gennaio 2011 ha preso in affitto una villa a Sacrofano, alle porte di Roma, su una collinetta che domina tutta la zona. Si tratta di una bella abitazione, ben rifinita, su due piani, con grande piscina circondata da prato all’inglese e un lungo viale che separa dal cancello. Qui vive Massimo Carminati. La villa risulta di proprietà del commercialista Marco Iannilli, un professionista dalle alte relazioni che negli ultimi quattro anni è diventato protagonista della cronaca giudiziaria. È stato arrestato e condannato in primo grado per la colossale truffa su Fastweb e Telecom Sparkle, che ha fatto girare centinaia di milioni di euro. Ma ha anche un ruolo chiave nelle istruttorie su Enav, l’azienda pubblica che gestisce il traffico aereo, su Digint e su Arc Trade: procedimenti che ruotano intorno a Finmeccanica, il gigante statale degli armamenti hi-tech. È nei guai anche per la vicenda della mazzetta pagata da Breda Menarini, sempre del gruppo Finmeccanica, per aggiudicarsi la fornitura di autobus da Roma Metropolitane, in cui sono indagati anche l’ex sindaco Gianni Alemanno e Riccardo Mancini. Che in passato avevano avuto rapporti con Carminati: un passato forse non così remoto. Solo coincidenze? Quando nel febbraio 2010 i carabinieri del Ros arrestano Iannilli, lo trovano in possesso di una Smart intestata a Carminati. E quando il commercialista a novembre 2011 finisce ancora in cella, i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Roma e i militari del Ros annotano che «immediatamente dopo l’arresto di Iannilli, si recava presso la sua abitazione Massimo Carminati, allertato a tal proposito dalla moglie del commercialista». Perché tanto interesse? Negli atti non c’è risposta. Ma Iannilli per gli inquirenti era un esperto «nell’utilizzo di prestanome» e «per la costituzione o la rilevazione di società italiane ed estere, e la conseguente apertura dei relativi conti correnti, allo scopo di veicolare i profitti illeciti provenienti da operazioni di frode fiscale di notevole entità». Un professionista insomma che gestisce decine di milioni di euro e che sarebbe stato capace di dare copertura pulita ad attività in tutto il mondo, «il tutto per agevolare altri soggetti o organizzazioni criminali, in attività di riciclaggio di denaro». Il commercialista sembra pendere dalle labbra del “Cecato”. E non pare essere l’unico. C’è un altro uomo introdotto nei salotti buoni e di manifesta fede fascista che avrebbe subito il carisma dell’ex terrorista: Lorenzo Cola, tra i principali collaboratori di Pierfrancesco Guarguaglini, fino al 2011 numero uno di Finmeccanica. Per gli investigatori ha controllato un sistema illegale «in grado di influenzare le scelte societarie e commerciali dell’Enav». In questo modo ha creato operazioni di sovrafatturazione fra le aziende di Finmeccanica e società subappaltanti riconducibili a Iannilli: somme trasferite all’estero grazie alla rete del commercialista. Iannilli e Cola erano in affari con un altro estremista duro e puro: Gennaro Mokbel, condannato in primo grado come regista della truffa Fastweb con un riciclaggio da due miliardi. Ma è anche l’uomo che con l’aiuto, da una parte degli amici di Carminati e dall’altra della ’ndrangheta, è riuscito a far eleggere al Senato Nicola Di Girolamo, oggi detenuto ai domiciliari. In ogni indagine condotta dalla magistratura romana che riguardi grandi operazioni finanziarie spunta sempre qualcuno legato all’estrema destra, alla ’ndrangheta, agli 007 deviati, e a boss napoletani trapiantati nella Capitale. E su tutto si allunga l’ombra del “Cecato”. Perché lui vive in una terra di mezzo, perché sa come risolvere i problemi di chi abita negli attici dei Parioli e sa a chi chiedere nei meandri delle periferie più malfamate. L’intreccio di business e crimine, di manager e fasci, è esploso con i proiettili che il 3 luglio scorso in un condominio elegante della Camilluccia hanno ucciso Silvio Fanella. Gli inquirenti lo definiscono “il cassiere di Mokbel” e stava scontando ai domiciliari la condanna a nove anni proprio per l’affaire Fastweb-Telecom Sparkle. Uno degli aggressori è rimasto ferito ed è stato arrestato: Giovanni Battista Ceniti, ex dirigente piemontese di Casa Pound. Non doveva essere un omicidio. In tre, fingendosi militari delle Fiamme Gialle, volevano rapire Fanella e farsi rivelare il nascondiglio di un tesoro da sessanta milioni di euro. Solo una parte è stata poi ritrovata dal Ros: mazzette di denaro e sacchetti pieni di diamanti, sepolti in un casale ciociaro. La caccia a quel forziere è stata un’ossessione, che potrebbe avere incrinato antichi accordi tra i nuovi re di Roma. Già due anni fa avevano provato a rapire Fanella. E proprio le indagini sul primo raid hanno aperto un altro spaccato sui poteri occulti della Capitale. Per quel blitz la procura ha ordinato l’arresto di tre persone. Uno è Roberto Macori, 40 anni, fino al 2011 factotum di Mokbel che poi si è legato ad un altro dei senatori della Roma criminale: Michele Senese, detto “o Pazzo”, il padrone della periferia a Sud del raccordo anulare, dove domina lo spaccio. Anche lui passato dalla banda della Magliana, ma soprattutto boss legato alla camorra e ai casalesi: da un anno è in cella per omicidio. Anche lui abituato a pensare in grande e muoversi nell’imprenditoria, sempre in accordo con Carminati. Prima dell’arresto, assieme a Macori voleva mettere in piedi una truffa da 60 milioni, rilevando un deposito di carburante a Fiumicino. Entrambi erano in stretto contatto e Macori al telefono parlava dell’interesse «dei napoletani» per il tesoro custodito da Fanella. Non sarà un caso se a casa di Macori, dopo l’arresto, i carabinieri hanno sequestrato sei diamanti purissimi che sembrano essere uguali a quelli trovati nel caveau di Fanella. E gli investigatori non credono più alle coincidenze. Stanno ricostruendo un mosaico in cui tanti delitti, tante acrobazie finanziarie in cui compaiono gli stessi nomi e gli stessi metodi. I reduci dei Nar, gli emissari di ’ndrangheta e camorra, la manovalanza a mano armata reclutata tra i neofascisti: l’organigramma della nuova fascio-mafia romana.

Alemanno, il missino che ha scalato il Campidoglio. Per i detrattori Paperino in virtù di un timbro di voce non proprio suadente, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Gianni Alemanno, per i detrattori Paperino in virtù di un timbro di voce non proprio suadente. Genero di Pino Rauti, ideologo della Destra sociale, il giovane Alemanno è uno degli esponenti di punta della gioventù neofascista. D'origine barese, ricalca il modello dell'«intellettuale tenebroso», spesso vestito di nero, sempre apparentemente cupo, fascinoso per il gruppo che gli va dietro. Finirà implicato in una sola azione violenta, il lancio di una molotov all'ambasciata Usa. Ma siamo già alla fine della stagione incendiaria: Gianni nel frattempo ha conosciuto Isabella Rauti, ne frequenta la casa, di lì a poco sarà deputato con il Msi. La sua esclation politica, il suo «passaggio di grado» avviene soltanto nella terza vita, quando dopo aver accettato di malavoglia la trasformazione del Msi in An, viene lanciato prima come ministro (all'Agricoltura, probabilmente la sua stagione migliore), quindi nella sfida per la poltrona del Campidoglio. Stracciò Rutelli, ex «big» a corto di charme , ma tanto del merito fu anche suo. Luci e ombre nella sua stagione da sindaco, dove un uso assai disinvolto di concorsi e assunzioni per gli amici gli è costata il voltafaccia dei cittadini.

Gianni Alemanno, primo sindaco nero di Roma, indagato per associazione mafiosa. Cinque anni vissuti maldestramente in Campidoglio, contornato di presunti corruttori e delinquenti, fedelissimi travolti via via da avvisi di garanzia e scandali, danze delle parentopoli dell’Ama e dell’Atac, scrive Susanna Turco su “L’Espresso”. Nel suo fu comitato elettorale romano, ex deposito Atac di via della Lega Lombarda, giganteggia ancora lo slogan dell’ultima perdente campagna elettorale per il Campidoglio: “Il coraggio del fare”. Su Twitter, l’ultima foto è quella con “mia zia Maria di oltre 102 anni”, postata esattamente 20 ore prima del diluvio. Adesso che il diluvio è arrivato, quasi con un salto spazio temporale da brividi, Gianni Alemanno, primo sindaco nero di Roma e primo ex sindaco ad essere indagato per associazione mafiosa, dirama note e messaggi in cui assicura: “Dimostrerò la mia totale estraneità e ne uscirò a testa alta. Chi mi conosce sa che ho sempre combattuto a viso aperto mafia e criminalità”. Il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, titolare dell’ inchiesta “Mondo di mezzo” , spiega che “alcuni uomini vicini all'ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell'organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione”, ma chiarisce che “la posizione di Alemanno è tutta da vagliare”. Parole che, fuori dalla vicenda giudiziaria s’intende, non stridono con l’adagio politico per cui nei palazzi s’è sempre descritto Alemanno come “un perfetto gregario, non un leader”, che ha fatto di questo “il segreto del suo successo”. Comunque, per la cronaca, a poche ore dalla notizia della procura l’unico a scomodarsi subito per dirsi pubblicamente “certo della sua estraneità alle accuse” è Ignazio La Russa. Il resto, silenzio assoluto. L’accelerazione dentro un romanzo criminale in piena regola, intanto, cade per Alemanno su un percorso di quieta ricostruzione di sé – e magari di una qualche destra possibile – dopo i nefasti fasti del potere: un percorso che fino a ieri aveva accenti gozzaniani. Con l’adorabile zia Maria, le scritte “noi Alemanno duriamo a lungo”, le foto invero tristissime con la pizza a taglio sulla scrivania, le presenze in piazza e a Tor Sapienza, e il tintinnare delle multe sulla panda rossa, e le foto dei temporali romani, gli immigrati, le foto dei Fori imperiali vuoti di macchine (“la grande tristezza”), le iniziative di presentazione a Rieti della “rivoluzione italiana”, i pomeriggi a convegno con “gli amici di Fratelli d’Italia” per il porto di Gioia Tauro, i plausi al ribellismo azzurro di Raffaele Fitto, il figlio che studia l’esame all’università, le trasferte a Orvieto, a Crotone, a Catanzaro, le presentazioni del suo ultimo libro. Insomma, il disegno complessivo di un crepuscolo politico battagliero, tutto sommato ben vissuto, nello stile di un grande avvenire dietro le spalle. Salvo naturalmente il puntuale, reiterato, a tratti ossessivo attacco a Marino, l’uomo che gli soffiò la poltrona in Campidoglio: comprensibile anche questo, in fondo. E non solo per motivi personali. Già, perché adesso che Alemanno è indagato, e il senatore grillino Andrea Cioffoli ne chiede le “dimissioni”, a Montecitorio parlamentari e giornalisti sbottano: “Ma dimissioni da che?”. Con il che chiarendo in che punto fosse precipitata – prima del diluvio appunto – la percezione pubblica di un personaggio che i più avevano salutato nella primavera del 2013, dopo i ballottaggi. Ecco invece Alemanno è sempre rimasto lì, da perdente ai ballottaggi, nel consiglio comunale a Roma. Mancata pure la catapulta delle europee con Fdi, ha continuato ad essere legato a doppio filo col regno che una volta guidò. Cercando anche di far dimenticare i lati peggiori di quei cinque anni vissuti maldestramente in Campidoglio, contornato di presunti corruttori e delinquenti, fedelissimi travolti via via da avvisi di garanzia e scandali, danze delle parentopoli dell’Ama e dell’Atac, fino alla sublime catastrofe della gestione della neve a Roma. Ombre che parevano sbiadite, consegnate al passato – anche grazie alle disgrazie dell’amministrazione Marino – e che invece ora tornano a brillare.

Buzzi, la mente della coop con le mani in pasta. Salvatore Buzzi, 59 anni, in galera è di casa. Fu lì che gli venne l'idea, e non si trovava in gita di piacere, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Il 29 giugno dell'85, dopo un convegno tenutosi a Rebibbia l'anno prima, fonda la cooperativa sociale per il reinserimento dei detenuti. «Non fu un atto volontario, ero un detenuto in attesa di giudizio», ricorderà con ironia. Nel 2004 la «29 giugno» (la chiamarono proprio così, «per tenere a mente quella giornata che aprì le nostre gabbie mentali») ha già 215 dipendenti. Uno snodo delle politiche ambientali e sociali del Comune. Di lì a poco, secondo gli inquirenti, per Buzzi ci sarebbe stata una seconda «illuminazione», ancora più brillante della prima. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno», dice nelle intercettazioni. Sistema perfetto per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici, il cui crocevia porta il nome di Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni. Anche Buzzi godeva di buone entrature : «Solo in quattro sanno quello che succede e sono nell'ordine Bianchini, Marino, Zingaretti e Meta», dice a Carminati. E questi, senza esitazioni: «E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi , amico mio».

Ozzimo, dal volontariato a ras del piano casa. Daniele Ozzimo è un ragazzo di Centocelle, classe '72, uno conosciuto dalle parti della Tiburtina perché s'è fatto largo nel volontariato, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Classico studente «impegnato» di Scienze politiche alla Sapienza, nel '94 s'iscrive al Pds, continua a occuparsi di servizi sociali e disabilità. Nel 2000 è segretario del partito al V Municipio, nel 2008 entra nel Consiglio comunale tra le fila del Pd. Ma è già un altro Daniele, rispetto al ragazzo di Centocelle che si batteva per handicappati e barriere architettoniche. Ora può contare su appoggi importanti e conoscenze influenti, che gli valgono la poltronissima di assessore alla Casa nella giunta Marino. Con deleghe dall'emergenza abitativa al piano casa, ai centri di formazione professionale. Ieri Ozzimo si è dimesso subito, non credendo ai propri occhi e reclamando la totale estraneità ai fatti, «per non arrecare in nessun modo danno all'amministrazione della città». Attestati di stima gli sono arrivati dal sindaco e altri esponenti del Pd cittadino, duramente colpito anche per il coinvolgimento nell'inchiesta di Mirko Coratti, presidente dell'Assemblea capitolina, e due consiglieri: Franco Figurelli ed Eugenio Patanè (regionale).

La foto che imbarazza il ministro Poletti, scrive “Libero Quotidiano”. C'è una foto che sta girando online e che certamente imbarazzerà l'attuale ministro del Lavoro del governo Renzi, Giuliano Poletti. E' uno scatto risalente al 2010, quando Poletti era presidente della Lega Coop. E lo vede a tavola in un ristorante romano assieme ad alcuni dei personaggi che sono stati coinvolti e indagati nell'indagine sulla "cupola romana" che controllava gli appalti nella capitale con modalità di stampo mafioso. Poletti è seduto accanto a Franco Panzironi, ex ad della municipalizzata dei rifiuti Ama (arrestato); il deputato del Pd Umberto Marroni (non indagato); l'ex assessore alla Casa della giunta Alemanno Daniele Ozzimo (indagato);  Angelo Marroni, garante dei detenuti del Lazio (non indagato); Salvatore Buzzi, responsabile della coop "29 giugno" (indagato); l'allora sindaco Gianni Alemanno (indagato). per la cronaca, seduto a un altro tavolo c'è il pregiudicato Luciano Casamonica.

Da Poletti al Pdl tutti a tavola col capo clan Una foto racconta il potere di mafia Capitale. Nel 2010 il braccio destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi organizzò una cena per ringraziare "I politici che ci sono a fianco". Da Rebibbia al Palazzo, l'incredibile carriera di un ex detenuto modello divenuto il dominus di una cooperativa da sessanta milioni, scrive Emiliano Fittipaldi “L’Espresso” C'è una foto che racconta alla perfezione la parabola di Salvatore Buzzi, secondo la procura di Roma capo della nuova Mafia capitolina insieme all'ex fascista Massimo Carminati. Lo scatto risale al 2010, e immortala una cena in un centro di accoglienza organizzata da Buzzi e la sua cooperativa, "29 giugno". Attorno al tavolo ci sono tutti quelli che a Roma contavano qualcosa. Politici di destra e sinistra, assessori e esponenti del clan dei Casamonica, tutti insieme appassionatamente. Buzzi, detenuto negli anni '70 e '80 per omicidio, poteva dirsi più che soddisfatto: era riuscito infatti a far sedere fianco a fianco l'allora sindaco Gianni Alemanno (oggi indagato con Buzzi per associazione mafiosa), l'ex capo dell'Ama Franco Panzironi (arrestato con Buzzi), un esponente del clan dei Casamonica in semilibertà, l'attuale assessore alla Casa Daniele Ozzimo (al tempo consigliere Pd e pure lui indagato oggi dai magistrati: si è dimesso ), il portavoce dell'ex sindaco Sveva Belviso e il potente parlamentare del Pd Umberto Marroni, seduto, sorridente, vicino a Panzironi. Marroni (accompagnato dal padre Angiolo, al tempo garante dei detenuti della Regione Lazio) era capogruppo del Partito democratico in Consiglio comunale, sulla carta il capo dell'opposizione ad Alemanno. Oggi è onorevole, e siede alla Camera. «Per due anni - raccontò Buzzi - insieme ad altre nove cooperative abbiamo lottato contro Alemanno che voleva tagliarci i fondi. Abbiamo organizzato sette manifestazioni in Campidoglio. Alla fine abbiamo raggiunto un accordo e perciò c'è stata quella cena. Invitammo i politici che ci erano stati a fianco, per questo c'erano anche esponenti del Pd». Nella cena bipartisan Buzzi era riuscito a infilare anche Giuliano Poletti, attuale ministro del Lavoro e allora gran capo della Lega Coop. Poletti e Buzzi si conoscono bene: il ministro (non indagato e non coinvolto nell'inchiesta) è stato invitato dal braccio destro di Carminati anche all'assemblea della cooperativa 29 giugno per l'approvazione del bilancio 2013. Tanto che, per festeggiare l'arrivo di Giuliano al dicastero del Lavoro, lo scorso maggio Buzzi ha dedicato la copertina del magazine dell'associazione proprio all'ignaro Poletti. Numero del magazine sul quale troviamo le firma di Angiolo Morroni e interviste di Ozzimo e Giovanni Fiscon, dirigente dell'Ama anche lui finito in manette. Buzzi è uno che ci sa fare. La sua carriera ha dell'incredibile. Arrestato per omicidio, condannato a trent'anni, nel 1980 decide di mettersi a studiare e di laurearsi. Tre anni più tardi, risulta a "L'Espresso" riesce a diventare dottore in Lettere Moderne, con una tesi sull'attività giornalistica dell'economista Pareto. Un lavoro eccellente: Buzzi prende 110 e lode, è il primo a laurearsi all'interno delle mura di Rebibbia. Un anno dopo, sempre in carcere, si fa notare prendendo la parola in un convegno su "Misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna". La sua relazione chiede che la riforma carceraria venga applicata rapidamente, in modo da garantire ai carcerati misure alternative alla detenzione. Anche stavolta, applausi a scena aperta, tanto che Stefano Rodotà, allora deputato della sinistra indipendente, secondo l'Ansa dichiara che «la relazione svolta dal detenuto Buzzi rappresenta un documento concreto e di grandissimo interesse per cui d'ora in poi per le istituzioni non ci sono più alibi». Un detenuto modello, insomma. Buzzi due anni dopo corona il suo sogno, ed esce dalla cella. Fonda con altri soci la cooperativa «Rebibbia 29 giugno» e comincia a rifarsi una vita. Partecipa nel 1986 a un convegno sugli anni di piombo a Roma a cui partecipano ex terroristi dissociati che hanno aperto cooperative, e racconta di aver ottenuto - con la sua - alcuni lavori di ristrutturazione sulla Tiberina, persino quelli per la ristrutturazione di una caserma dei carabinieri. «Se non ci saranno altri lavori» spiega dal palco «tutto finirà. Cosa aspetta il comune di Roma a dare una destinazione ai 500 milioni di lire che la Regione Lazio ha attribuito ad ogni comune sede di istituzioni carcerarie?». Non sappiamo quando Buzzi decide si tornare al crimine, né quando conosce Carminati e e i sodali con cui costuira l'associazione mafiosa che - ha spiegato Giuseppe Pignatone - da lustri domina Roma attraverso tangenti, intimidazioni, usura, riciclaggio e corruzione. Sappiamo che di soldi, alla sua cooperativa, ne arriveranno a bizzeffe. Grazie, soprattutto, agli accordi con la politica: spulciando il bilancio 2013, si scopre che i ricavi della galassia presieduta da Buzzi hanno sfiorato i 59 milioni di euro, mentre il patrimonio di gruppo ha superato i 16,4 milioni. Possibile che la politica, in tutti questi anni, non si sia mai accorta che l'ex detenuto modello era tornato dalla parte dei cattivi?

«Ohh ma che... me so’ comprato Coratti» Intercettazioni, imbarazzo nel Pd romano. Secondo gli inquirenti che indagano sulla Mafia Capitale, all'esponente dem Mirko Coratti sarebbero stati promessi "150 mila euro di stecca" qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni di euro, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. «E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi amico mio, eh capisci». A buon intenditor poche parole. E l'ultimo Re di Roma, Massimo Carminati detto “Er cecato”, le parole sa dosarle con attenzione. Metafore e mezze parole per dire e non dire. I suoi interlocutori però capiscono al volo gli ordini. Mettersi la minigonna e andare a battere è un messaggio preciso che coglie al volo Salvatore Buzzi, il presidente della Cooperativa 29 giugno, legata a Legacoop, imprenditore di riferimento di Carminati e con quest'ultimo finito agli arresti nell'operazione sulla Mafia capitale della procura antimafia di Roma. Quella frase vuol dire che il gruppo, che i pm definiscono Mafia Capitale, ha necessita di trovare nuovi referenti politici nell'era post Alemanno. «A seguito del mutamento nella maggioranza del comune di Roma sortito dalle consultazioni elettorali, investe nell’acquisizione di nuovo capitale istituzionale, decisione strategica mimeticamente rappresentata dall’espressione di Carminati, a suo dire rivolta a Buzzi». All'ordine di Carminati segue una campagna acquisti nella nuova compagine di maggioranza. «La scuderia è pronta», commenta Buzzi, che i pm definiscono come uomo in «indiretta collaborazione con Carminati», riferendosi ad alcuni amici politici che hanno ricevuto incarichi istituzionali. Tra le figure agganciate a sinistra, i magistrati e gli investigatori del Ros guidati dal colonnello Stefano Russo, indicano Mirko Coratti. Esponente del Partito democratico e presidente dell'Assemblea capitolina. Un'insospettabile cui si rivolge Buzzi, il quale sostiene che« solo per metteme a sede a parla’ con Coratti, 10mila gli ho portato». E' sempre il presidente della cooperativa rossa a rivelare altri particolari captati dalle cimici dei detective dell'Arma. A Coratti sarebbero stati promessi 150 mila euro di stecca qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni di euro sul sociale. «Ohh ma che..me so’ comprato Coratti» esclama il manager della 29 giugno. Un ulteriore riferimento al presidente del Consiglio comunale è in una conversazione tra il boss Carminati e lo stesso Buzzi. «Con ste bustine, il libricino nero e bustine qua, eh!» chiede il Re di Roma, «Vedo Coratti, il segretario vediamo ste cose con lui» risponde l'imprenditore riferendosi alle «bustine» sul tavolo. I rapporti diretti con Coratti, scrivono i magistrati, non sono millanteria. «Emerge non solo dalle conversazioni intrattenute con il capo segreteria di costui finalizzate a costruire momenti d’incontro, ma anche da contatti tra Buzzi e Coratti, riconducibili alla gara del multimateriale di Ama e ad altre questioni di rilevanza pubblica», scrive il giudice per le indagini preliminari nell'ordinanza di custodia cautelare. A tirare in ballo il politico del Pd un'altra frase intercettata pronunciata sempre da Buzzi: «Perché Coratti sicuramente me chiede da divide già l’anticipo per cui io glie dò un lotto.. ah gliel’ho detto che il milione già se lo so…possono..». Intercettazioni che hanno fatto luce sul sistema de "Er cecato" e che stanno mettendo in forte imbarazzo il Pd capitolino.

Killer neri e violenti rossi. Il "cupolone" trasversale nel nome degli affari. La strana alleanza tra l'ex Nar Carminati e l'uomo delle cooperative Buzzi. Distanti in politica ma uniti nel mettere in società i loro contatti per far soldi, scrive Massimo Malpica su “Il Giornale”. Il Rosso e il Nero, a braccetto, nel nome degli affari. Secondo la procura di Roma, la capitale era coperta da un «cupolone» rigorosamente trasversale, che per i magistrati ha, in pratica, reinventato la mafia. Perquisizioni dei Carabinieri in Campidoglio nell'ambito di un'inchiesta su un'organizzazione di stampo mafioso. Ma se toccherà alle toghe dimostrare la concretezza delle accuse, non può non colpire la «strana coppia» al centro dell'indagine che ha sconvolto la città eterna. Da una parte c'è Massimo Carminati, l'esponente dei Nar legato alla banda della Magliana (è il «Nero» nell'epopea di libri, film e tv sulla banda, ma il suo vero soprannome è il «Cecato»). Dall'altra c'è Salvatore Buzzi, una condanna per omicidio risalente agli anni '80 prima di far carriera come presidente della cooperativa di detenuti ed ex detenuti «29 giugno», legata a Legacoop. Che c'azzeccano Nar e coop rosse? Che ci fanno insieme due tipi così? Fanno soldi, nel «mondo di mezzo». Secondo la procura di Roma, la loro «cupola» pilotava e lucrava su gare e appalti pubblici, dai rifiuti ai campi nomadi, dalla manutenzione del verde pubblico ai centri d'accoglienza. Tutto contando su solidissimi appoggi politici, naturalmente trasversali anch'essi. Tant'è che tra gli indagati c'è l'ex sindaco di centrodestra della capitale, Gianni Alemanno, perché per la procura uomini a lui vicini erano legati all'organizzazione. Ma c'è anche l'assessore alla Casa della giunta Marino targata Pd, Daniele Ozzimo, come pure il presidente dell'assemblea capitolina, Mirko Coratti. E tra i nomi citati a vario titolo nelle mille e passa pagine di ordinanza c'è quasi tutta la politica locale a 360 gradi. Lo slogan, insomma, è che «la politica è una cosa, gli affari so' affari», come riassume, intercettato, proprio Buzzi, rispondendo a chi gli chiede come, lui di sinistra, possa lavorare con Carminati. E se la guida è bicefala, ognuno cura i rapporti con gli «amici» della propria parte politica, nel comune interesse. E bicefale, trasversali, inevitabilmente lo diventano anche le ramificazioni del comitato d'affari. La «mafia capitale», come l'ha battezzata la procura di Roma. O semplicemente la «scuderia», per rubare proprio a Carminati e Buzzi la metafora ippica che i due usano a proposito della nuova giunta di Ignazio Marino, sperando che dei «nove cavalli» alla fine ce ne fossero almeno «sei dentro», così «la scuderia è pronta» - spiega Buzzi - e «poi si cavalcherà», replica Carminati. Diversi, appunto, ma soci, collaborativi, in grado di usare sia le amicizie che le intimidazioni. Tanto che Buzzi racconta a un collaboratore di quella volta in cui, non riuscendo a parlare al capo segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, per lo sblocco di un finanziamento, era intervenuto con una telefonata Carminati: «Aò alle tre meno cinque scende, dice, “ho parlato con Massimo, tutto a posto domani vai”... aò, tutto a posto veramente! C'hanno paura de lui». Intimidazione o amicizia, l'importante è il business. E appunto la vocazione agli affari, annotano gli inquirenti, «non ha barriere politiche». Con Buzzi che, subito dopo le ultime comunali romane, quando Marino al ballottaggio sconfigge Alemanno, si rammarica ma assicura di non essere impreparato. Perché lui, e l'organizzazione, erano già pronti a qualunque evenienza, indipendentemente dall'esito del voto. «Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati», racconta intercettato, «e mo vedemo Marino, poi ce pigliamo 'e misure con Marino». Sono i traghettatori e parlano con tutti. Mediatori, sensali, collettori, ricattatori quando serve, portano le tangenti e decidono le assunzioni, definiscono gli affari e spartiscono la torta, raccomandano e suggeriscono, tramano e fanno girare il mondo. Sono le anime del mondo di mezzo, sono i padroni del purgatorio, né vivi né morti. Non esiste più destra e sinistra, ma alto e basso, sopra e sotto. L'obiettivo è sempre lo stesso: denaro e potere. Nessun timore nel mettere le mani su una giunta e nel lavorare per fare il bis con la successiva, di colore opposto. Nessun problema nel trovare gli agganci, a destra prima e a sinistra poi. Il Rosso e il Nero, insieme alla conquista di Roma.

"Bustoni di soldi a tutti, anche a Rifondazione". Nelle carte dell'indagine Carminati descrive la rete di contatti tra criminali e politici. I pm: "Era intoccabile perché foraggiava partiti di ogni genere", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Nel mondo di Massimo Carminati, «il mondo di mezzo» che ha dato il nome all'inchiesta della Procura di Roma, è normale che un ex Nar vada a cena con un politico. È lo stesso Carminati a dirlo al suo braccio destro militare Riccardo Brugia. Per il procuratore Giuseppe Pignatone l'intercettazione più significativa di tutta l'indagine è quella in cui Carminati spiega la teoria del mondo di mezzo, quello dove «ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo...un mondo in cui tutti si incontrano e dove è possibile che un domani io mi trovi a cena con un politico». Perché per i pm la struttura messa in piedi da Carminati era una vera e propria cerniera tra ambienti criminali e settori istituzionali, che traeva il suo potere e la sua forza di intimidazione dai legami storici con la Banda della Magliana e con l'eversione nera e il cui sviluppo criminale si era evoluto al punto da individuare come terreni privilegiati della sua azione, quelli dell'economia e degli appalti. Carminati utilizzava i suoi trascorsi criminali per convincere gli imprenditori ad affiliarsi alla sua organizzazione. Con uno di questi, che incuriosito gli aveva chiesto quale fosse a suo dire la rappresentazione cinematografica più calzante che era stata fatta del suo personaggio, si mette a fare una vera e propria classifica del suo palmares: «Bene Romanzo Criminale , ma solo il film, perché la serie è una buffonata, ma la vera banda della Magliana è quella descritta su History Channel». Per i magistrati sarebbe un errore derubricare il ruolo di Carminati a quello di pensionato del crimine. Piuttosto deve essere considerato un personaggio dalla caratura criminale assoluta, un «intoccabile per aver foraggiato partiti di ogni genere che rende intoccabili quelli che con lui si associano». Nell'ordinanza viene citata un'informativa del Ros in cui Salvatore Buzzi spiegava di aver saputo dallo stesso Carminati del suo coinvolgimento negli affari illeciti in cui era coinvolta Finmeccanica: «Ma lo sai perché Massimo è intoccabile? Perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica, bustoni di soldi. A tutti li ha portati Massimo. Non mi dice i nomi perché non me li dice....tutti! Ecco perché ogni tanto adesso...4 milioni dentro le buste...Alla fine mi ha detto Massimo “è sicuro che l'ho portati a tutti! Pure a Rifondazione!”». I pm citano una conversazione tra Carminati e l'ex direttore commerciale di Finmeccanica Paolo Pozzessere, imputato di corruzione per vicende interne alla controllata pubblica, in cui quest'ultimo chiede protezione all'ex Nar: P.:«Chi c'hai te di cose là...per difendermi?» C.:«C'ho il gruppo....so' tosti loro, comunque sono tosti, so' duri insomma, eh. È dura cioè, però capito loro una volta che si liberano del processo una cosa è finita la festa no, che cazzo te ne frega...vuoi mette. A te praticamente l'accusa viene da coso, da Borgogni la tua, l'accusa de Borgogni». Quando sta per cambiare la maggioranza al Comune cominciano le strategie per tessere rapporti con la nuova amministrazione. Carminati dà a Buzzi indicazioni precise: «Mettiti la minigonna, amico mio, e vai a batte co' questi». L'obiettivo è di tessere rapporti con Mirko Coratti, presidente dell'assemblea comunale, e di legare il più possibile a loro il dirigente delle segreteria del nuovo sindaco Marino, Mattia Stella. Dopo la nomina di Giovanni Fiscon a direttore generale dell'Ama, frutto di una pesante attività di lobbying, i pm intercettano una telefonata nel corso della quale il manager informa Buzzi della nomina e questi gli dispensa alcuni consigli tranquillizzandolo nel caso le elezioni comunali le avesse vinte Marino: «Marino viaggia in area Zingaretti, capito? Riusciamo a parlarci, tranquillo». La ricerca di interlocutori nell'amministrazione romana non ha confini nè colori. La mancata vincita di Alemanno, certo, li ha rammaricati («Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, c'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine doveva sta' assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno che cazzo voi di più»). Ma si sono presto riorganizzati e le trattative corruttive sono andate avanti anche con l'amministrazione successiva. Buzzi riferisce che Franco Figurelli, capo segreteria dell'assemblea, veniva retribuito con mille euro mensili, oltre a 10mila euro pagati per poter incontrare Coratti, mentre a quest'ultimo venivano promessi 150mila euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale. Buzzi intercettato spiega quante ruote vanno unte nel suo lavoro: «Pago tutti, anche due cene con il sindaco, 75mila euro ti sembrano pochi?». Poi prosegue: «La cooperativa campa di politica, perché il lavoro che faccio io lo fanno in tanti, perché lo devo fare io? Finanzio giornali, eventi, faccio pubblicità, pago segretaria, pago cena, pago manifesti, lunedì c'ho una cena da 20mila euro pensa... questo è il momento che paghi di più perché stanno le elezioni comunali...noi spendiamo un sacco di soldi sul Comune». Cercando sponde anche nei media a proposito di un appalto contestato per un centro rifugiati, salta fuori un sms della parlamentare Pd pugliese Micaela Campana in risposta alla richiesta di Buzzi di presentare un'interrogazione. Il messaggio della deputata, annotano gli investigatori, si chiude con un «bacio grande Capo». Buzzi vanta buoni rapporti anche con il vice di Ignazio Marino, Luigi Nieri di Sel. Tanto da caldeggiare direttamente con lui la nomina di un capo dipartimento che «avesse risposto alle loro esigenze». Dopo sms e chiacchiere, Buzzi conclude: «Dacce una mano perché stamo veramente messi male con la Cutini (assessore alle Politiche sociali che aveva voce in capitolo, ndr)». E Nieri lo rassicurava: «Lo so lo so, come no? Assolutamente...va bene? Poi ce vediamo pure...».

Il business dei migranti e l'asse con le cooperative. Primarie inquinate per il Pd di Roma, tangenti a un esponente dem, rapporti profondi con LegaCoop e con tutto il sistema della cooperazione, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Primarie inquinate per il Pd di Roma, tangenti a un esponente dem, rapporti profondi con LegaCoop e con tutto il sistema della cooperazione. Non è solo il centrodestra il terreno di coltura dell'organizzazione criminale guidata da Massimo Carminati. Nel corso di una conversazione intercettata nell'ufficio di Salvatore Buzzi il 15 novembre 2013, Claudio Bolla illustra a tre avvocati la storia delle cooperative costituite dallo stesso Buzzi. Qui di seguito il riassunto dei pubblici ministeri: «Negli anni 1999/2000 la cooperativa (29 Giugno Onlus, ndr) entrava in contatto con la Lega Coop dell'area emiliano-romagnola, con la quale iniziò a collaborare nell'ambito delle pulizie industriali. Ciò faceva compiere un primo salto di qualità alla cooperativa stessa, la quale decideva di interessarsi anche della raccolta dei rifiuti e manutenzione del verde. Bolla spiegava quindi che, nel tempo, la cooperativa 29 Giugno era cresciuta sempre di più, tanto che nel 2010 venne deciso di costituire anche la cooperativa 29 Giugno Servizi, attiva ne settore delle pulizie. (...) A tal proposito, Bolla precisava: «...però nasce e c'ha uno scatto di qualità nel momento in cui ci viene affidata l'emergenza Nord Africa, che riusciamo anche con l'apporto della Lega Coop a contendere al gruppo della Cooperativa cattolica: l'Arciconfraternita.. il rapporto con loro, soprattutto dal punto di vista diciamo delle attività è sempre di l a 5, nel campo dell'accoglienza richiedenti asilo, nel campo dell'accoglienza minori...ai Misna, perché abbiamo anche quel settore... però già essere entrati... contemporaneamente riusciamo con Eriches anche nel campo dell'emergenza alloggiativa». Poi precisava: «...Questo 1 a 5 però ci ha consentito di far si che il consorzio Eriches, diciamo da un consorzio poco significativo che a stento raggiungeva il milione di curo fino al 2010... abbia avuto un fatturato significativo, che stiamo intorno ai 16 milioni di euro».

Rapporti anche con Zingaretti. Il 22 gennaio 2013 Salvatore Buzzi parla nel suo studio con Carlo Guarany, referente dell'organizzazione per i rapporti con la pubblica amministrazione. L'associazione a delinquere è preoccupata di un'eventuale vittoria del centrosinistra alle amministrative, ma i rapporti con alcuni esponenti del Pd non sembrano poi cattivi. In particolare, con l'ex capogruppo dem in consiglio comunale e ora deputato Umberto Marroni (candidato alle primarie ma sconfitto da Ignazio Marino), con Mario Ciarla (attuale presidente della Commissione Agricoltura della Regione Lazio) e con il governatore laziale Nicola Zingaretti.

Buzzi: è vero, è vero se vince il centro sinistra siamo rovinati, solo se vince Marroni andiamo bene.

Guarany: e chi ci va più dal Sindaco poi..(...)

G: va bene, senti un po' Salvatore, siccome poi oggi pomeriggio devo passare da Marroni per la... siccome mi ridirà di «Ciarla» (fonetico, ndr) ci pensi tu a fissa' con lui?

B: con Ciarla?

G: eh

B: ma si fa una cena, famo un incontro.

G: no, no, ma io pensavo di vederlo io e te, andarlo a trova'... incontrarlo io e te.

B: esatto.

G: si, si, poi magari lo famo venì quando famo la cosa con Zingaretti.

S: esatto..

Tangenti a Patané. Particolare rilievo assume la figura del consigliere regionale Pd, Eugenio Patané. Ecco un'intercettazione del 16 maggio 2014: Particolare rilievo assume la figura del consigliere regionale Pd, Eugenio Patané. Ecco un’intercettazione del 16 maggio 2014: «Buzzi: eh .. se lui riesce .. se Massimo se riesce a piglià quello della destra noi pigliamo (inc) ... sta a loro trovasse co la destra! ... terza cosa .. Patané voleva 120 mila euro a lordo .. allora gli ho detto "scusa ... Caldarelli: de quale? .. parli de? Gauarany: del Multimateriale"».

Altri agganci con il Pd. Nelle conversazioni del sodalizio si accenna a un non megli oprecisato Leonori in riferimento al Pd. Potrebbe trattarsi di Marta Leonori, deputata chiamata da Ignazio Marino nella giunta del Comune di Roma per «liberare» un posto all’inquisito Marco Di Stefano. «Proseguendo nell’analisi degli appalti sui quali focalizzare l’impegno delle proprie risorse, Guarany palesava anche la necessità di trovare un sostegno politico( «madobbiamo sceglie la strada politica pure .. capito .. la strada politica sono 2 ..odentro il Pd.. che sarebbe questa de Leonori.. »). In merito ad una non meglio precisata gara da “60 milioni”,Massimo Carminati ricordava ai presenti che Regione Lazio potevano contare anche sull'appoggio di Luca Gramazio».

Primarie «inquinate». Nell’ottobre 2013 il sodalizio criminale tenta di accreditarsi ulteriormente con il Pd romano sostenendo i principali candidati alla segreteria locale: il senatore Lionello Cosentino, poi vincitore, e Tommaso Giuntella. Nelle intercettazioni compare pure il nome di Daniele Pulcini,l’imprenditore da cui il piddino Marco Di Stefano affittò due immobili a 7 milioni di euro per Lazio service, società della Regione. Il 28 ottobre 2013 «Salvatore Buzzi tentava di effettuare delle chiamate e, non riuscendo a mettersi in contatto, esclamava: “non risponde Daniele!“ (riferendosi a Daniele Pulcini). Alla domanda di Massimo Carminati: “come siete messi per le primarie?“ Buzzi rispondeva: “stiamo a sostene' tutti e due ... avemo dato centoquaranta voti a Giuntella e 80 a Cosentino“, puntualizzando: “Cosentino è proprio amico nostro“.

Spunta anche il ministro Cancellieri. In una conversazione del1 4novembre 2012 tra gli indagati si fa riferimento anche ad una telefonata di Gianni Alemanno all’ex ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri per ottenere risorse pubbliche per Roma. «Quadrana da Alemanno .. . ha chiamato la Cancellieri(Ministro dell’Interno,ndr), mo domani si sente Salvi con questo del Ministero, intanto vediamo un attimo di riuscire a far partire, anche tramite solo una lettera ... che serve a Salvi per sbloccare gli impegni».Gramazio precisava che la lettera da parte del Ministero ad Alemanno,sarebbe stata sufficiente per sbloccare i fondi.

C’è pure Bettini. Il 9 aprile 2014 Buzzi chiamò Carlo Guarany dicendogli che sarebbe andato lui da Coratti (presidente del consiglio comunale di Roma), quindi gli chiedeva di andare da Bettini (Goffredo Bettini, deus ex machina di Ignazio Marino; ndr).

L’affare «verde». In una intercettazione del novembre 2012 Fabrizio Testa afferma: «perfetto ... importantissimo ... D'Ausilio (verosimilmente Francesco D’Ausilio: Capogruppo PD, ndr) chiama Giovanni Quarzo (Consigliere Roma Capitale-Presidente Commissione Trasparenza, ndr) e gli dice “Sul verde Roma stanno (inc) i soldi“ dice “voi chi c’avete“... allora ha detto “io c’cho Buzzi della 29 giugno è il mio referente per tutto il verde di Roma».

"Gli immigrati rendono più della droga". La mafia nera nel business accoglienza. Così i fascio-mafiosi di Massimo Carminati si sarebbero spartiti secondo i Pm i soldi per i richiedenti asilo. Milioni di euro. Senza controlli, grazie alla logica dell'emergenza. E a rapporti privilegiati con le autorità. La parte delle indagini che riguarda il consorzio Eriches e Salvatore Buzzi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Uno sbarco a Brindisi«Rendono più della droga». Per la mafia nera che comandava su Roma gli immigrati erano un business favoloso. Messi da parte gli ideali politici, la banda fascista che rispondeva agli ordini di Massimo Carminati, arrestato questa mattina insieme ad altre 36 persone, aveva trovato nell'accoglienza dei profughi l'occasione per intascare milioni. Il regista dell'operazione è Salvatore Buzzi, anche lui finito in carcere. L'idea di trasformare il sociale in un business gli è venuta negli anni '80 proprio in prigione, mentre scontava una pena per omicidio doloso. Oggi come presidente del consorzio di cooperative Eriches guidava un gruppo capace di chiudere il bilancio 2013 con 53 milioni di euro di fatturato. Gli incassi arrivano da servizi per rifugiati e senza fissa dimora, oltre che da lavori di portineria, manutenzione del verde e gestione dei rifiuti per la Capitale. Un colosso nel terzo settore. Che secondo gli atti delle indagini rispondeva agli interessi strategici del “Nero” di Romanzo Criminale. Buzzi infatti, secondo i pm, sarebbe «un organo apicale della mafia capitale», rappresentante dello «strumento imprenditoriale attraverso cui viene realizzata l'attività economica del sodalizio in rapporto con la pubblica amministrazione». I documenti dell'operazione che ha portato in carcere referenti politici e operativi della mafia fascista svelata da Lirio Abbate su “ l'Espresso ” in numerose inchieste, mostrano nuovi dettagli sull'attività della ramificazione nera di Roma. A partire appunto dall'attività per gli stranieri in fuga da guerra e povertà. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?», dice Buzzi al telefono in un'intercettazione: «Non c'ho idea», risponde l'interlocutrice. «Il traffico di droga rende di meno», spiega lui. E in un'altra conversazione aggiunge: «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro 'imprenditoriale' di Massimo Carminati. Più chiaro di così. Il suo consorzio, Eriches, dentro cui si trova anche la "Cooperativa sociale 29 giugno", nel 2011 riesce  ad entrare a pieno titolo nella gestione dell'Emergenza Nord Africa: un fiume di soldi (1 miliardo e 300 milioni) gestiti a livello nazionale dalla Protezione Civile e dalle prefetture per l'accoglienza straordinaria delle persone in fuga dalla guerra in Libia e dalle rivolte della Primavera Araba. È in quel periodo che le cooperative di Buzzi, nate come progetto durante la sua permanenza in carcere negli anni '80, arrivano a fatturare oltre 16 milioni di euro solo con l'accoglienza degli stranieri. Business che continueranno a seguire. Anche che sono proseguiti fino ad oggi con la marea umana di Mare Nostrum. Per ottenere immigrati da ospitare, intascando rimborsi che vanno dai 30 ai 45 euro al giorno a persona, Buzzi s'impone nelle trattative. E può contare, stando alle indagini, su referenti di primo piano. Come Luca Odevaine, presidente di Fondazione IntegrAzione ed ex vice capo di Gabinetto di Walter Veltroni al comune di Roma. In qualità di rappresentanza dell'Upi, l'unione delle province italiane, Odevaine seide al “Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza”, da cui, spiega in diversi incontri con Buzzi e i suoi colleghi, può «orientare i flussi che arrivano», favorendo le cooperative amiche, perché ricevano più immigrati e quindi più soldi dallo Stato. In un'altra intercettazione sostiene di poter controllare le decisioni del prefetto Rosetta Scotto Lavina «che è in difficoltà, ha troppi sbarchi, non sa dove mettere le persone», e per questo lui può aiutarla indicandole a chi affidare i fondi. Per questa attenzione, spiega Buzzi in una serie di intercettazioni riportate negli atti, Odevaine avrebbe ricevuto dal clan di Carminati uno stipendio da 5mila euro al mese. Ma non era l'unico riferimento politico del consorzio. Anche l'assessore alle politiche sociali Angelo Scozzafava in una telefonata assicura: «su Roma quanti posti c'hai? Perché me sa che sta per arrivà l'ondata...». Per controllare l'accoglienza degli stranieri, Buzzi avrebbe avuto un accordo «al 50/50», ovvero per dividersi a metà tutti gli appalti, con la rete dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, network di coop cattoliche in cui rientra anche Domus Caritatis, la cooperativa di cui “ l'Espresso ” aveva raccontato le politiche spregiudicate durante l'Emergenza Nord Africa del 2012, quando barboni e adulti furono fatti passare per minorenni pur di ottenere rimborsi duplicati dal ministero (malagestione denunciata da Save The Children e dal Garante per l'Infanzia). Stando agli atti dei Pm, l'accordo per la spartizione del business dei profughi sarebbe stato sancito con Tiziano Zuccolo, rappresentante della rete dell'Arciconfraternita, con cui ancora nel maggio del 2013 Buzzi parlava del “Patto” in riferimento all'arrivo  dei siriani scappati dalla guerra. «Va be’, a Salvato’, noi l’accordo, l’accordo è quello al cinquanta, no?», chiedeva Zuccolo, e Buzzi confermava: «Ok, io sto premendo per riceverne altri 140» e Zuccolo ribadiva: «Eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?» Grazie a queste poltiche la holding dominata da Buzzi, che condivideva tutte le scelte, secondo le indagini, con il boss Carminati, è riuscito a ricevere anche fondi europei. Nel 2011 ad esempio ha  avuto dal Fondo Europeo per i Rifugiati ben 234mila e 400 euro, di cui 130 direttamente da Bruxelles e gli altri dallo Stato. Nel 2012 le cooperative che rispondevano alla “mafia capitale” hanno assistito 1320 famiglie per conto del Comune di Roma nell'ambito di un'altra emergenza, quella abitativa. Ma è stato il 2013 l'anno migliore per il consorzio Eriches, come si legge nel bilancio, chiuso con un margine netto di quasi tre milioni di euro. «Nell’ambito dell’accoglienza, siamo cresciuti ed abbiamo continuato la gestione delle attività assistenziali in favore di immigrati, senza fissa dimora, mamme con bambini, ex detenuti, nomadi e famiglie in difficoltà», spiega il presidente, Salvatore Buzzi: «e abbiamo vinto il bando promosso da Roma Capitale per 491 immigrati facenti parte dello SPRAR, una commessa significativa che ci consentirà di stabilizzarci nel settore», con rimborsi garantiti da 35 euro al giorno. E pochi controlli sulla qualità degli aiuti. Nel 2013 Eriches ha vinto anche il bando della prefettura di Roma per il Cara di Castelnuovo di Porto, ovvero il centro per richiedenti asilo di Roma: centinaia di posti, continue proteste per le condizioni indegne di vita. L'appalto da 21 milioni di euro è stato però bloccato dal Tar. E nel bilancio Buzzi si lamenta, evocando il conflitto d'interessi: «nonostante le nostre giustificazioni siano state accettate dalla Prefettura, non siamo riusciti ad iniziare il servizio peralcuni “dubbi” provvedimenti adottati della Terza Sezione Ter del TAR Lazio», scrive: «presieduta da Linda Sandulli, la quale, per inciso, è proprietaria insieme al marito di una ditta edile (PROETI Srl) che effettua manutenzioni proprio all’interno del CARA; un enorme conflitto di interessi». «Siamo fiduciosi che il Consiglio di Stato possa a breve ripristinare legalità e diritto», conclude. Forse con un senso, implicito, dell'ironia.

Minori come schiavi ai Mercati generali. Bambini egiziani ospiti delle case di accoglienza che lavorano oltre 12 ore al giorno per pochi euro, intimidazioni e ricatti alle famiglie che hanno pagato il viaggio della speranza verso l'Italia. È la realtà del Centro Agroalimentare di Guidonia, alle porte di Roma, il più grande del paese e terzo in Europa come volume d'affari. Malgrado gli sforzi di sorveglianza e le inchieste della magistratura continua a essere preso d'assalto da giovanissimi in cerca di un lavoro che si trasforma spesso in un brutale sfruttamento, scrivono Rosita Fattore e Caterina Grignanisu La Repubblica”.

Caporalato al servizio dei negozi di frutta, scrive Rosita Fattore. Come una prigione il Centro agroalimentare di Roma è circondato da una rete di acciaio alta due metri e mezzo, con sopra 20 centimetri di filo spinato. Tre turni di agenti controllano continuamente l'intera area con cani lupo al guinzaglio, ma non è per non far uscire qualcuno: scoraggiano l'ingresso dei non autorizzati. Ma ogni giorno decine di minori scavalcano le recinzioni e spostano cassette di frutta per 12 ore, guadagnando 20 euro a giornata. Questo prevedeva l'accordo che le loro famiglie hanno sottoscritto in patria, quando li hanno spediti attraverso il mare, a fare fortuna in Italia. Per la legge sono le vittime dell'intermediazione illecita e dello sfruttamento del lavoro minorile. Caporalato insomma. Il Centro agroalimentare di Roma, a Guidonia, è il mercato generale più grande d'Italia, il terzo in Europa per volume di affari. Loro, i clandestini che scavalcano, sono ragazzi egiziani fra gli 11 e i 18 anni. "Abbiamo eseguito anche 200 respingimenti al giorno  - racconta Flavio Massimo Pallottini, direttore della Car scpa, società proprietaria dei 140 ettari di via Tenuta del Cavaliere - ma non possiamo fare molto se non accompagnare questi ragazzi fuori dal perimetro del Car. È un fenomeno preoccupante e odioso che riguarda le persone di età minore che alloggiano nelle case famiglia che sono pagate dai contribuenti, e che magari il giorno vanno a fare cose di questo tipo". Sono giovani arrivati in Italia senza adulti che li accompagnassero e quindi non possono essere ricondotti nella nazione di provenienza. "La presenza di minori immigrati irregolari a Roma è rilevantissima - osserva il vicecomandante della Polizia Locale di Roma Capitale, Antonio Di Maggio - Il nostro Nucleo assistenza emarginati (Nae) riceve decine di richieste ogni giorno. I ragazzi arrivano al centro, dicono di essere minori e chiedono assistenza da parte del Comune". L'impressione è che sappiano perfettamente che la legge italiana li tutela e che siano informati perfino degli spostamenti che questo ufficio ha subito negli ultimi tempi, da viale Trastevere e via Goito. "Arrivano al Nae vestiti bene, a volte con dei telefonini - prosegue Di Maggio - È chiaro che dietro a questo fenomeno ci sono sicuramente uno o più gruppi, più o meno strutturati, che gestiscono questa organizzazione". Le indagini sul caporalato diffuso in tutta la Capitale partono dalle frutterie etniche. Il 3 gennaio 2012 proprio Di Maggio diffonde una circolare, in cui chiede a tutti i dirigenti delle unità operative di comunicare al comando centrale "i dati completi delle attività commerciali gestite da persone originarie del Nord Africa". Un documento che trascina Di Maggio nella polemica politica, tacciato da alcuni esponenti del consiglio capitolino di razzismo. In realtà il vicecomandante vuole leggere dentro un fenomeno in cui il comando è inciampato per caso pochi mesi prima. Da alcuni sopralluoghi nei negozi di frutta gestiti da stranieri emerge che in quei locali spesso lavorano, e addirittura vivono, "stranieri che soggiornano illegalmente nel paese". O che da lì si spostano per andare a lavorare altrove. L'intuizione è giusta, bastano pochi mesi e viene a galla lo scandalo del caporalato che dilaga nel Centro agroalimentare di Guidonia. "C'è un fenomeno particolare nell'ortofrutta ed è la crescita di questi negozi gestiti da extracomunitari, in particolare egiziani che hanno creato in questo settore un tessuto e una rete importante - spiega ancora Pallottini che riveste anche la carica di amministratore delegato della Cargest srl, società che gestisce operativamente il centro di Guidonia - ed è egiziana la componente maggiore che riscontriamo tra chi si introduce abusivamente. I minori entrano nel Car in modo illegittimo scavalcando, forzando le recinzioni, nascosti nei camion, risalendo dai campi. Vengono per lavorare e a volte per accaparrarsi gli imballaggi". Gli abusivi nei mercati ci sono sempre stati. Ci sono qui come a Torino, Milano e Napoli o altrove. Ma a Guidonia capita che i ladri di lavoro siano minori, "infra-sedicenni e addirittura bambini", sottolineano i rapporti della Polizia Locale di Roma Capitale che lo scorso 18 dicembre hanno fatto scattare un'operazione nel Car. Quel giorno gli investigatori trovano al lavoro 12 minori e denunciano due operatori del Car. Secondo gli inquirenti, il punto di collegamento tra l'arrivo dei ragazzi in Italia e il loro sfruttamento sarebbero proprio i negozi di ortofrutta gestiti da egiziani che sfruttano vincoli di conoscenza o anche familiari con chi lavora al Car. Sono loro che gestirebbero in modo più o meno diretto la manodopera. Il fenomeno era talmente diffuso che la Cargest ha cercato una soluzione. Qualche mese fa ha riaperto il bando per la movimentazione di merci all'interno del centro. La vecchia azienda che lo faceva non riusciva a garantire efficienza. La Rossi Transworld si è aggiudicata l'appalto e ha iniziato a lavorare a pieno regime. Dopo neanche due settimane, a metà settembre, è scoppiata però una gigantesca rissa proprio tra i banchi dell'ortofrutta. Un gruppo di "abusivi" come sono definiti nei verbali, ragazzi e tutti stranieri, ha aggradito i lavoratori della Transworld. È una vera e propria guerra di territorio. "Il grave episodio di settembre  -  osserva Pallottini - attesta che il lavoro nero a Guidonia sta trasformandosi in qualcosa di simile ad un racket intimidatorio dedito a violenze e pretese egemoniche di tipo criminale". Un gruppo di facchini abusivi ha aggredito lavoratori regolari di un'azienda che opera al Centro Agroalimentare di Roma. La denuncia arriva dall'amministratore delegato della società di gestione del Car Massimo Pallottini. "Evidentemente hanno sentito crollare le loro ambizioni di controllo sulle attività di carico e scarico nei padiglioni ortofrutticoli, così ieri sera una cinquantina di giovani abusivi stranieri ha fatto irruzione nel Padiglione Ovest del Mercato Ortofrutticolo per aggredire i lavoratori regolari di una azienda logistica privata che, da lunedì, ha assunto in concessione i servizi di trasporto e spostamento di pedane e cassette nel Car". Dopo le indagini e la rissa, oggi la situazione è più o meno calma sia dentro che fuori dal centro. I respingimenti sono una quarantina ogni giorno. Una quiete tra una tempesta e l'altra. La Cargest ha potenziato la sicurezza al punto di investire in sorveglianza 80mila euro al mese. "Va da sé che una struttura come questa - dice ancora Pallottini - non può arrivare a spendere 2 milioni di euro, cioè il doppio di quello che c'è ora in bilancio, solo per tutelarsi da questo fenomeno". Dal canto loro, le forze dell'ordine non hanno personale a sufficienza per presidiare l'accesso e il perimetro del mercato e le cose rischiano di aggravarsi ulteriormente quando i soldi finiranno.

Il procuratore: "Fenomeno indecoroso", scrive Rosita Fattore. "Siamo di fronte a un fenomeno indecoroso per il nostro paese". Con queste parole Luigi De Ficchy, procuratore di Tivoli, descrive quello che ogni giorno avviene al di là dei cancelli dei mercati generali di Roma. Un vero e proprio sistema di facchinaggio abusivo che spesso si avvale della manodopera di minori immigrati irregolarmente.

Procuratore, può dirci cosa sta succedendo?

"Polizia e Carabinieri svolgono controlli giornalieri e da settembre una nuova cooperativa di facchini si è stabilita regolarmente all'interno del Centro agroalimentare di Guidonia. Questo ha tolto un po' di spazio agli irregolari e la situazione sta migliorando, ma nel Car rimane un grande interesse dietro allo sfruttamento del lavoro irregolare di adulti e minori".

Quando parla di sfruttamento fa riferimento al caporalato?

"Posso dirle che pensiamo che c'è una rete di attività che cerca di incanalare queste persone sin dalla partenza dal loro paese.  Arrivano qui con l'idea di poter lavorare al Centro agroalimentare, ma al momento non abbiamo elementi sufficienti per andare oltre le ipotesi".

Chi sono i ragazzi che vanno a lavorare a Guidonia, da dove arrivano?

"Quando vengono fermati ovviamente non dicono nulla: non raccontano chi li ha introdotti all'interno del centro né per chi lavorano. Alcuni hanno mostrato dei documenti che dichiaravano che sono nelle case famiglia di Roma e da lì si muovono come possono e vogliono...".

Ma queste strutture non hanno delle responsabilità nei confronti dei minori che ospitano?

"Il loro dovere verso i ragazzi è lo stesso di un genitore o di un tutore. Non c'è obbligo di tenerli all'interno della casa famiglia, o di seguirli una volta fuori".

Quindi vengono lasciati soli?

"Ci sono delle regole riguardo alle attività, ma non è facile sorvegliare questi ragazzi quando escono dalle strutture. Si potrebbe però valutare una sanzione amministrativa, per esempio la revoca delle autorizzazioni per chi non vigila".

E all'interno del Car come funziona la sicurezza?

"E' un centro privato e quindi la vigilanza interna non spetta allo Stato. Certo, ci sono stati dei pattugliamenti sul posto, ma abbiamo enormi problemi di controllo del territorio: un'estensione troppo grande per le risorse che abbiamo. Magari potessimo avere un commissariato solo per gli accessi al Car".

L'avvocato: "Manca una legge ad hoc", scrive Caterina Grignani. Quando arriva un ragazzo che dichiara di essere minorenne, le forze dell'ordine lo portano da un medico che attraverso il rilevamento del polso stabilisce se è al di sopra o al di sotto dei 18 anni. I minori vengono portati nei centri di accoglienza che ne diventano, di fatto, i tutori. Idealmente in queste strutture dovrebbero imparare l'italiano, ricevere informazioni sulla loro condizione legale ed essere avviati a un lavoro che gli consentirà, una volta compiuti i 18 anni, di ottenere il permesso di soggiorno. In realtà questo avviene in poche realtà e la via per sopravvivere si apre fuori dal centro e dalla legalità. L'avvocato Antonello Ciervo, dello studio legale Pernazza-D'Angelo di Roma, è membro dell'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi) che recentemente ha vinto due cause con minori egiziani. Dato che ai minori si applica la legge del paese di provenienza, e in Egitto la maggiore età si raggiunge a 21 anni, questi ragazzi sarebbero potuti restare nel centro di accoglienza altri tre anni.

Quale legge tutela i minori migranti non accompagnati che arrivano in Italia?

"Una legge al momento non esiste. L'Italia ha aderito a diverse convenzioni per tutelare i minori ma una norma specifica non c'è, quindi, in via ordinaria, si applica il Codice civile. Al momento è in discussione alla Camera il progetto di legge Zampa, fortemente voluto da molte associazioni di tutela, in particolare da Save the Chidren. È alla Commissione Affari costituzionali. Non affronta tutti i nodi e soprattutto in generale considera i minori stranieri più stranieri che minori. Così come è stato presentato il progetto di legge sembrerebbe introdurre una normativa speciale per minori all'interno di quella per gli stranieri".

I centri di accoglienza sono tenuti al controllo dei minori durante il giorno? È possibile che i minori possano girare per la città (e di conseguenza lavorare in condizioni di sfruttamento)?

"I centri sono tenuti a controllare gli ospiti all'interno del centro. Ai minori viene affidato come tutore il sindaco del Comune dove il centro si trova. I ragazzi possono uscire, c'è un controllo sugli orari, ma tendenzialmente sono liberi di andare in giro. Se si verificano episodi di lavoro in nero e di sfruttamento e chi gestisce il centro non se ne accorge, questo significa che c'è scarsa diligenza".

Con l'aumento degli arrivi appare evidente che mancano le risorse per affrontare la questione.

"I centri idealmente dovrebbero organizzare un avviamento professionale in modo che i minori una volta diventati maggiorenni abbiano un punto di riferimento lavorativo e quindi maggiori possibilità di ottenere un permesso per lavoro. È vero che i fondi mancano, le strutture sono sempre al limite e si è costretti a ragionare in termini emergenziali. Ma credo che ci sia anche una scelta politica di fondo, basti pensare che praticamente non esistono uffici per l'assistenza legale dei ragazzi".

Dall'Egitto sognando di fare fortuna, scrive Caterina Grignani. "Fashkara" è il nome che in Egitto usano per descrivere chi vive in Italia e a casa ci torna solo per le vacanze. Con vestiti di marca, l'iPhone e soprattutto i racconti. Chi in Egitto ci vive, ascolta e immaginando quella vita migliore inizia a pensare al viaggio. I giovani egiziani sono invidiosi di quelle che in realtà sono favole perché i lavori che gli egiziani svolgono in Italia sono faticosi, malpagati e spesso sconfinano nello sfruttamento. La voglia di lasciare il proprio Paese passa anche attraverso l'osservazione delle famiglie di chi è partito: iniziano a stare meglio, a comprare auto, elettrodomestici e vestiti, a migliorare, con i soldi che gli vengono inviati, la loro condizione. I social network hanno un forte peso: sono racconti ancora più credibili perché corredati di fotografie. Scorrendo i profili si vedono foto di soldi, che magari sono quelli di un affitto in nero da pagare per una casa strapiena, smartphone, lettori mp3 e computer. E poi scarpe e tute come quelle dei calciatori. Sulle bacheche di chi parte ci sono le canzoni dei rapper egiziani ma anche di quelli italiani e le foto dei ragazzi scimmiottano quelle pose da duro, da chi ce l'ha fatta. "Sono venuto qui per prendermi tutto", scrive M. su Facebook. Si alimenta così la visione distorta della vita al di là del mare. Si può migrare regolarmente, ricongiungendosi a un parente già arrivato in Italia. Oppure si migra irregolarmente. Save The Children nel dossier "Percorso migratorio e condizioni di vita dei minori non accompagnati egiziani" frutto del progetto europeo "Providing Alternatives irregular migration for unaccompanied children in Egypt", spiega come la decisione della partenza sia spesso appoggiata e condivisa dalla famiglia. Ma anche nei casi in cui i genitori non approvano, trovare qualcuno che conosca un B'saffar, un intermediario, è facile. Il B'ssafar ha spesso accanto a sé un mandoub, un portavoce. Si tratta di micro organizzazioni composte da circa sei persone che operano nelle città. Il viaggio ha un costo che varia dai 4.000 ai 10.000 euro. Sono cifre alte e se la famiglia non ha il denaro si firma un contratto per un finto acquisto di merce o una cambiale. In questo modo il tribunale potrà far ottenere all'organizzazione il denaro pattuito in caso di mancato pagamento. L'intermediario indica ai minori dove recarsi, solitamente nelle città più grandi. Il viaggio può essere autonomo o organizzato. Prima del 2007 la costa di imbarco era la Libia, ora è più difficile perché per attraversare la frontiera ci vuole un visto che si ottiene solo avendo un lavoro nel paese. Le partenze avvengono quindi sempre più spesso dalle coste egiziane. In attesa del momento giusto per salpare i ragazzi rimangono in capannoni o in case per un periodo variabile tra le due settimane e i due mesi. La maggior parte dei minori egiziani arrivati in Italia ha affrontato il viaggio via mare, sui barconi. Una minoranza ottiene un visto e arriva via aereo. Si tratta di chi proviene da famiglie con più disponibilità economica o con parenti già emigrati che li aiutano una volta arrivati. La partenza via mare avviene da Alessandria, oppure dalle coste tra il Lago di Burullus e Dumyat e dal Porto di Burg Mghizil. Durante il viaggio non si ha alcuna possibilità di ribellarsi o di reagire alla violenza degli scafisti, anche una denuncia in Egitto di queste persone viene percepita dai ragazzi come un atto inutile. Lo sbarco avviene sulle coste della Sicilia, della Calabria e della Puglia. I minori egiziani poi si spostano e le città in cui si registra una presenza maggiore sono Roma, Milano e Torino. Save the Children ha studiato e approfondito il fenomeno, ha redatto rapporti molto precisi. A Roma inoltre è attivo il centro Civico Zero che oltre all'accoglienza e a diverse attività, offre assistenza legale gratuita ai minori. Secondo Viviana Valastro, responsabile protezione minori per Save the Children, è oggettivamente difficile credere che a quell'età i giovani egiziani si autorganizzino per lavorare, sapendo dove andare e a che ora. L'organizzazione ha adottato iniziative formali per portare le autorità a conoscenza del fenomeno e con il Progetto Egitto ha cercato di informare i minori sui rischi, non per disincentivarne la partenza, ma per fa sì che fosse una decisione consapevole, e si è sforzata di creare alternative in loco. Una delle conclusioni è che i ragazzi hanno una bassissima percezione dello sfruttamento anche perché sono abituati a lavori pesanti anche in Egitto, sin da piccoli. E poi perché con il cambio euro lira egiziana gli sembra comunque di guadagnare una bella somma. Il video cartone "The italianaire" è stato un altro degli strumenti utilizzati durante il progetto per sensibilizzare i minori. È stato ideato insieme ai ragazzi stessi. Anche in questo video il gioco serve a spiegare più chiaramente. E le testimonianze dei coetanei vogliono essere il punto di partenza per riflettere sulle reali condizioni che si trovano una volta sbarcati in Italia.

L'economia dello sfruttamento, scrive Vladimiro Polchi. "Lavoro tutti i giorni, dalle dieci alle dodici ore. A fine mese il padrone mi paga solo 400 euro. Da due anni è così. Sono stanco, la schiena mi fa male. Non voglio più vivere da schiavo". Singh è un bracciante dell'agro pontino: un indiano sikh sfruttato a due passi dalla Capitale. Sì, perché il nostro è ancora il Paese degli schiavi invisibili. Terra di caporali, che non si preoccupano neppure dell'età delle loro vittime. È l'Italia dello sfruttamento: mille norme, qualcuna anche buona, pessime prassi. Si parte dalla sciagurata Bossi-Fini, che tiene sotto ricatto i lavoratori stranieri facendoli dipendere dal "padrone" non solo per lo stipendio, ma anche per il permesso di soggiorno. Perdi il posto? Peggio per te: sei a rischio clandestinità. Una pessima legge che sta lì da 12 anni, nonostante i continui propositi di riforma. Il nostro paese però, nel tempo, si è dotato anche di qualche norma più avanzata. Vediamola. Lo stop al caporalato, innanzitutto, è arrivato col decreto legge 138/2011, che ha introdotto nel codice penale il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Nel mirino soprattutto agricoltura e cantieri. Se c'è prova dello sfruttamento del lavoratore con violenza, minaccia o intimidazione scatta una pena da 5 a 8 anni, oltre alla multa da mille a 2mila euro per ciascun lavoratore coinvolto. Non solo. Nel luglio 2012 si è aggiunta la "legge Rosarno": il decreto legislativo che prevede il rilascio del permesso di soggiorno a chi denuncia il datore di lavoro che lo sfrutta. Le nuove norme hanno diversi limiti. Difficile applicarle. Qualcosa comincia comunque a vedersi: dall'introduzione del reato di caporalato sono 355 i caporali arrestati o denunciati, di cui 281 solo nel 2013 (dati Flai-Cgil). Quanto allo specifico caso dei minori stranieri non accompagnati (12.300 quelli sbarcati dall'8 ottobre 2013 a oggi), nel nostro paese nero su bianco non c'è ancora niente. Eppure qualcosa si muove, anche se lentamente: la Commissione Affari costituzionali della Camera a ottobre ha approvato una proposta di legge (prima firmataria la deputata Pd, Sandra Zampa) che promette di rafforzarne la protezione. Vedremo. Intanto lo sfruttamento continua. Stando alla Flai-Cgil, "sono circa 400mila i lavoratori che trovano un impiego tramite i caporali, di cui circa 100mila presentano forme di grave assoggettamento, dovuto a condizioni abitative e ambientali considerate paraschiavistiche". Perché? Forse perché c'è "un'economia dello sfruttamento". È questo il punto: "I lavoratori impiegati dai caporali - prosegue la Flai-Cgil - percepiscono un salario giornaliero inferiore di circa il 50% a quello previsto dai contratti nazionali". E se sono immigrati le cose vanno anche peggio. A confermarlo è un'indagine curata dall'economista Tito Boeri per la Fondazione Rodolfo Debenedetti: gli immigrati, meglio se irregolari, sono funzionali a molte imprese perché lavorano di più e guadagnano di meno. Molto di meno. Non solo. Anche dove non si sfrutta illegalmente la manodopera, i salari vengono comunque ridotti: "Le aziende agricole di piccola dimensione (entro i 15mila euro di fatturato) - scrive l'ong Crocevia - confrontano la crisi economica generale con durezza, tagliando all'osso la remunerazione del lavoro". Insomma, forse non basta il nuovo reato a colpire le sacche di sfruttamento, ma dovrebbero essere sanzionate anche tutte quelle aziende, grandi e piccole, che si avvalgono dei caporali. Come? Escludendole dai fondi europei, per esempio.

ROMA. CAPITALE DELLA MAFIA NERA.

Roma è la capitale della Mafia nera. Clan ed estrema destra si sono alleati. Per affari. E per far tacere i cronisti coraggiosi. Parla il procuratore nazionale Antimafia Franco Roberticon Paolo Biondani su "L'Espresso". Roma capitale: anche per la mafia. Una nuova mafia che uccide, ma solo quando è necessario. Ha una smisurata forza economica. Complici eccellenti tra imprenditori e professionisti. Usa la corruzione per comprare politici e pubblici funzionari. E stringe rapporti con terroristi mai pentiti della destra eversiva, cresciuti all'ombra di storiche protezioni garantite da pezzi dei servizi segreti e da altri settori dello Stato, compresa qualche divisa o toga sporca. A lanciare l'allarme sulla criminalità nera che soffoca Roma è il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. Magistrato dal 1975, ha lavorato in Campania, Toscana e Lazio firmando indagini fondamentali contro la camorra. Dall'agosto 2013 guida la Dna, l'organismo centrale che coordina tutte le inchieste antimafia. Roberti è “turbato” dalle intimidazioni subite dal giornalista de “l'Espresso”Lirio Abbate. E in questa intervista disegna per la prima volta un quadro completo, «nei limiti in cui si può, anzi si deve farlo senza danneggiare le indagini in corso» sull'avanzata mafiosa «a Roma e in altre province del Lazio».

Procuratore Roberti, partiamo dai negazionisti: c'è chi ripete da anni che a Roma la mafia non esiste.

«È un'affermazione assurda. Tutte le organizzazioni mafiose sono radicate a Roma da almeno trent'anni. Non si tratta di infiltrazioni esterne: hanno fortissimi interessi e precisi personaggi di riferimento. Capi, complici, riciclatori. C'è un radicamento, una stratificazione che ha origini lontane. A Roma viveva un boss di Cosa Nostra del calibro di Pippo Calò. Il clan Bardellino è cresciuto nel Basso Lazio ed è arrivato fino alla capitale. A Roma c’erano i cutoliani e ora abbiamo trovato i casalesi. La 'ndrangheta c'è sempre stata, dai De Stefano ai Mammoliti e tanti altri. E le nuove indagini portano ogni anno a sequestri e confische per centinaia di milioni».

Ci indica qualche caso esemplare di radicamento mafioso a Roma?

«Per la mafia di oggi, basta citare il Cafè de Paris, un luogo di valore simbolico sequestrato al clan Alvaro della 'ndranghetra. Per il passato, ricordo l'omicidio di Enzo Casillo, ucciso a Roma nel 1983 con una bomba sotto l'auto: era il luogotenente di Raffaele Cutolo, girava con documenti falsi forniti da quegli stessi pezzi di servizi segreti che trattarono con la camorra per liberare Ciro Cirillo, il politico democristiano rapito dalle Br. Oggi sembra un archetipo: la prima grande trattativa Stato-mafia».

Nei mesi scorsi la capitale e la costa laziale sono state insanguinate da troppi omicidi. C'è una guerra di mafia?

«Una volta gli omicidi a Roma venivano liquidati come “regolamenti di conti”. E non si parlava mai di mafia, solo di “mala”. Oggi non parlerei di guerra, anche perché molte indagini sono in corso. Ma alcuni omicidi sembrano avere una finalità strategica più ampia».

È il caso dell'assassinio di Silvio Fanella, il tesoriere di Gennaro Mokbel, l'ex neofascista condannato per il maxi-riciclaggio del caso Fastweb?

«Dico solo che mi riferisco ad alcuni omicidi. E ad altri episodi inquietanti».

Il nostro collega Lirio Abbate, che vive sotto tutela da quando lavorava a Palermo, continua a subire intimidazioni a Roma: sullo speronamento dell'auto di scorta su cui viaggiava, pochi giorni fa, le indagini sono solo agli inizi, ma già in ottobre due sconosciuti hanno lasciato un'auto rubata con pallottole e minacce a suo nome davanti all'ingresso della redazione. «Leonardo Sciascia diceva che i mafiosi odiano i magistrati e i giornalisti perché ricordano. Lirio Abbate ha memoria storica: conosce nomi, date, fatti e sa collegarli al presente. Per questo è visto come un pericolo dalla mafia romana».

Abbate è stato nel mirino pure della 'ndrangheta, ma certe intimidazioni sono iniziate quando “l'Espresso” ha pubblicato i suoi scoop sui “re di Roma” e sui “fascio-mafiosi”: boss, riciclatori, trafficanti di droga ed ex terroristi di destra. A Roma c'è una mafia nera?

«Il legame tra mafia e terrorismo nero va avanti da decenni. Per la strage del rapido 904 è stato condannato un boss di Cosa nostra e a custodire l'esplosivo era un neofascista. Quell’intreccio fu scoperto dal procuratore Vigna con un'istruttoria pionieristica. Le nuove indagini stanno soltanto rendendo più visibile, finalmente, lo stesso tipo di intreccio».

La bomba su quel treno del 23 dicembre 1984 uccise 17 innocenti. Il politico con l'esplosivo era Massimo Abbatangelo, che fu eletto parlamentare del Msi. Il mafioso stragista era Calò, primo alleato a Roma della Banda della Magliana.

«Oggi si tende a dimenticare che la Banda della Magliana è stata un'organizzazione mafiosa a tutti gli effetti. Una mafia romana in grado di trattare con Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta».

Eppure per decenni le sentenze romane hanno negato la mafia. Quando poi si è scoperto che qualche giudice di rango prendeva soldi dal cassiere della Magliana, i reati erano ormai prescritti. C’è stata paura, lassismo, incapacità e talvolta peggio anche nella magistratura?

«In generale è vero che in passato i magistrati e anche le forze di polizia non riuscivano a trovare prove in grado di reggere fino alla Cassazione. Oggi, però, il nuovo procuratore Pignatone e l'aggiunto Prestipino hanno saputo portare a Roma la grande capacità ed esperienza maturate a Palermo e Reggio Calabria. E anche le forze di polizia sono molto più efficaci. Ma non vorrei essere frainteso: magistrati e polizia giudiziaria oggi dispongono di tecnologie molto più moderne e utilizzano leggi approvate solo dopo il sacrificio di giudici come Falcone e Borsellino».

In che senso si parla di "nuova mafia"?

«Negli ultimi anni lo sviluppo dei gruppi criminali è stato segnato dalla globalizzazione dei mercati e dalla saldatura con l'economia. Il riciclaggio, il reimpiego di capitali illeciti, le connivenze nella finanza sono aspetti caratteristici delle organizzazioni mafiose moderne».

La Magliana e i terroristi neri spesso sceglievano obiettivi ricattatori: non si svaligia una banca a caso, ma il caveau del palazzo di giustizia, perché è lì che si nascondono i segreti dei potenti. Oggi la mafia nera ha poteri di ricatto?

«Risponderanno le indagini. Di certo la storia della mafia a Roma è fatta di questo potere di condizionamento».

E la politica è ancora collusa?

«Per una mafia economica l'omicidio è un atto estremo: prima ci provano con i soldi. Infatti i legami con certe cricche legate alla politica sono diventati strettissimi. Oggi la corruzione è lo strumento principe della metodologia mafiosa».

Inseguita e speronata l'auto di scorta dell'inviato dell'Espresso Lirio Abbate. I poliziotti riescono a fermare uno dei fuggitivi. Il giornalista è sotto protezione da sette anni per le minacce di morte  ricevute dalla mafia. L'ultimo episodio sospetto martedì sera in pieno centro di Roma. Le indagini della squadra mobile, scrive di Giovanni Tizian su "L'Espresso".Una macchina sospetta che li segue. Poi li sperona. E a quel punto fugge. Un fatto inquietante: nell'auto blindata c'è l'inviato dell'Espresso Lirio Abbate con gli agenti della sua scorta. Da sette anni Lirio vive sotto protezione della Polizia di Stato per le minacce che ha ricevuto dalla Mafia. Dopo lo speronamento, l'auto ha fatto una repentina marcia indietro per poi accelerare cercando di dileguarsi nel traffico del Lungotevere. Sembrava andata, persa. E invece gli agenti che proteggono Abbate l'hanno inseguita fino a quando l'auto dei fuggitivi è rimasta imprigionata nell'incolonnamento davanti a un semaforo.  E' a questo punto che uno dei tre poliziotti della scorta è sceso, pistola in pugno, e ha iniziato a correre verso i fuggitivi riuscendo a bloccare il conducente. All'interno dell'auto un ventenne romano, incensurato, che è stato consegnato agli agenti della squadra mobile che adesso indagano sulla vicenda. Dai primi riscontri non sarebbero emersi legami tra il ragazzo e i clan. Gli investigatori ritengono però quantomeno sospette le modalità con cui è avvenuto l'incidente e la reazione di fuga. Nel corso della perquisizione dell'auto da parte degli agenti è stato ritrovato anche un documento che appartiene a un cittadino straniero sul quale si stanno concentrando le indagini. Gli investigatori hanno interrogato a lungo il giovane fermato e che si trovava alla guida dell'auto. Accertamenti sono stati fatti sul suo conto, mentre è partita la ricerca di filmati e immagini delle telecamere fisse di sorveglianza in città lungo il tragitto dell'inseguimento. In questura il giovane fermato non ha saputo spiegare il suo gesto. Anche i controlli alcolici e su sostanze stupefacenti sono risultati negativi. Di certo, se ha agito per conto di qualcuno, questo qualcuno ha scelto molto bene e con cura l'esecutore dell'intimidazione che è persona incensurata senza collegamenti apparenti con la criminalità organizzata. I detective della Mobile continueranno a indagare sull'episodio cercando di capire se c'è un collegamento con le precedenti minacce, anche recenti, ricevute da Lirio Abbate. Intimidazioni che, in alcuni casi, l'Espresso ha scelto di non raccontare per non intralciare le indagini ancora in corso. Abbate ultimamente si è occupato di criminalità organizzata romana, raccontando il potere dei quattro Re di Roma, (Casamonica, Senese, Carminati, Fasciani), e dei rapporti tra alcuni boss della mala e gli ambienti politici e neofascisti della Capitale.

LE COOP ROSSE E LA MAFIA CHE NON TI ASPETTI.

Le Cooperative Rosse sono come Cosa Nostra, scrive Giorgio Alfieri su “L’Opinione”. Si sta svelando che il sistema coop è un impero economico costruito grazie all’intreccio tra amministratori locali, partito di sinistra e managers. In pratica le regole che valgono per tutti, non valgono per le coop, che non sei tu, come dice la pubblicità, ma sono loro, quelli di sinistra seduti tronfi sulla montagna di soldi accumulati manipolando e alterando politicamente il mercato. Operazioni politiche condotte nella totale illegalità e in danno delle persone oneste, prese per i fondelli e gabbate. A Roma è venuto fuori, con foto, che Giuliano Poletti, attuale ministro del lavoro del governo Renzi e capo delle coop rosse, quindi a capo dell’impero economico del partito democratico (democratico un cavolo!), si intratteneva a tavola con killer, banditi e faccendieri oggi in galera, per “festeggiare” (sic), con soci e amministratori, la truffa perpetrata agli italiani. Alla faccia e in spregio della legalità e del mercato uguale per tutti, il comune di Roma con il sindaco Ignazio Marino garantiva le banche perché sganciassero ben trenta milioni alle coop rosse per i servizi forniti, sappiamo come. Mentre cioè le imprese falliscono a migliaia perché le casse pubbliche non corrispondono neanche il dovuto, le coop rosse di Giuliano Poletti e soci si garantivano illegalmente i pagamenti in qualità di compagni. Un modus operandi illegale oltre che dispendioso, sempre a carico degli italiani, dati gli interessi da corrispondere alle banche. Contestualmente l’uomo di Walter Veltroni, Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto cioè di Veltroni, che aveva addirittura cambiato in passato il proprio nome per non farsi riconoscere perché dotato di condanna per droga (del cambio nome se ne sono accorti al dipartimento di Stato di Washington, negandogli per sempre l’ingresso negli Stati Uniti) ha moltiplicato, triplicato, quadruplicato, quintuplicato gli immigrati nelle periferie romane per lucrarci sopra e fare, per sé e il partito della sinistra, affaroni d’oro. Matteo Renzi, nominando tali figuri, non poteva non sapere, profittando di cotanta illegalità alle spalle degli italiani. In altre parole, ha utilizzato, scegliendoli e portandoli in palmo di mano, politici e amministratori pubblici che si sono organizzati in una sorta di associazione a delinquere, alle dipendenze della criminalità romana. Matteo Renzi ha usufruito per sè del tesseramento gonfiato, dei rom portati a votare alle primarie, delle cooperative sociali usate come serbatoio di voti. Gli italiani ora sanno chiaramente, i romani in testa, che il partito democratico di sinistra, in un tutt’uno con taluni esponenti dell’estrema destra, sono stati colti tutti insieme a fregarli, formando una categoria politica trasversale il cui trait d’union o denominatore comune è stato ed è rubare in loro danno e alle loro spalle. Poi ci si stupisce che non si vada a votare!

Il crimine della politica. La politica del crimine. Mafia Capitale a Roma. E prima l’Expo a Milano e il Mose a Venezia. Più una miriade di altre inchieste. Sembra la stessa storia da Tangentopoli ad oggi, ma così non è, scrive Bruno Giorgini su “Qcodemag”. La criminalità pare sempre più essere nel nostro Paese l’unico oggetto concreto della politica. In rapida sequenza associazione a delinquere, corruzione – che sul territorio nazionale da sola secondo la Corte dei Conti (2011) vale circa 60 (sessanta) miliardi l’anno cioè il 3 per cento del Pil – e concussione con gli annessi e connessi all’Expo di Milano, lo stesso, qualcosa in più qualcosa in meno (è difficile stargli dietro), a Venezia per il Mose, infine eccoci a Roma dove s’aggiungono altri reati attinenti in modo pieno l’esercizio della minaccia, della violenza e del ricatto. Nel mezzo una miriade di inchieste, avvisi di garanzia, qualche arresto, che non risparmiano alcuna regione del territorio nazionale, o quasi. Ovunque sono coinvolti sia esponenti significativi del partito della nazione, leggi Pd, che della destra diversamente configurata, Lega, Forza Italia, fascisti ecc… Sembra la stessa storia da Tangentopoli (1992) a oggi, ma così non è. Per l’intanto, la politica comunque la si voglia definire ha una quota di violenza insita ab origine. Seguendo Freud possiamo anche dirla così: il padre tiranneggia i fratelli, e si gode le donne, figlie e mogli. Poi i fratelli si mettono d’accordo per ucciderlo. Ma una volta eliminato il padre padrone, chi comanda? Allora per evitare di incorrere nello stesso rischio e incidente toccato al padre tiranno, i fratelli si spartiscono in modo egualitario il potere e le donne, nascendo così la democrazia. Ovvero la democrazia origina dal parricidio, e si costituisce affinchè la lotta per il potere non produca altri omicidi, in specie il crimine massimo della guerra civile. In Italia le collusioni tra criminalità e politica democratica – il fascismo era intrinsecamente criminale – datano almeno dalla Liberazione in varie forme. In un rapido e assai incompleto elenco citiamo: la strage di braccianti e popolo il primo maggio del 1947 a Portella delle Ginestra perpetrata dal bandito Giuliano al soldo di agrari e, probabilmente, esponenti politici reazionari; la funzione di cerniera con la mafia assunta in modo semiufficiale da Vito Ciancimino a lungo sindaco di Palermo e proconsole di Andreotti; più vicino a noi il ruolo di Dell’Utri, anch’egli cerniera con Cosa nostra oltre che fondatore di Forza Italia e stretto sodale di Berlusconi; e che dire dell’influenza politica con voto di scambio conclamato e sugli appalti della ‘ndrangheta che impera dalla periferia milanese dilagando nell’hinterland e oltre in Lombardia; poi la serie di stragi e attentati alla bomba di matrice fascista nonchè statuale, i famigerati servizi segreti deviati cosidetti, quasi tutte a partire dalla strage di stato del 12 dicembre 1969 in Piazza Fontana guarda caso impunite; quindi tutto il groviglio della trattativa stato mafia, altro buco nero giunto a sfiorare il Presidente Napolitano e/o il suo più stretto entourage. Ce ne è abbastanza da essere sconsolati e/o indignati, eppure quel che sta emergendo dalle intercettazioni e dalle pagine d’accusa rispetto alla terra di mezzo Mafia Capitale, l’associazione criminale guidata da Massimo Carminati, già militante dei NAR e della banda della Magliana, probabilmente intrecciata e protetta da ambienti dei servizi, rappresenta un salto di qualità rispetto all’ordinaria amministrazione e intreccio delle relazioni tra criminalità e politica. Con Salvatore Buzzi affiliato alla banda oggi in carcere, l’organizzazione criminale programma e dirige la politica di accoglienza (si fa per dire) agli immigrati, ovvero su un problema politico sociale di primaria importanza per la stessa convivenza civile nella capitale d’Italia, fino a oggi i decisori sono stati un gruppo di criminali innervati nei gangli delle strutture pubbliche e dei partiti PD, FI e l’intera destra fino ai neonazisti, poi chissà. Prendete fiato e pensateci con calma, si tratta di un fatto enorme. Salvatore Buzzi inventa la cooperativa sociale 29 Giugno e presiede il consorzio Eriches 29, con fatturati di parecchie decine di milioni di euro e un ampio spettro di sostenitori bipartisan certificato simbolicamente dalla cena immortalata dalle foto con Alemanno e Poletti, allora Presidente di Lega Coop, la rete delle cooperative un tempo dette rosse, che nulla vede, nulla sente, nulla dice, povera stella ingenua pulzella che rimase incinta senza sapere come, si usa dire in Romagna – ma si sa una abbuffata bipartisan non si rifiuta mai – e molti altri papaveri di varie parti politiche. È Buzzi a proclamare che sulle spalle degli immigrati (e dei cittadini) si può guadagnare più che smerciando eroina – è questa nella sua accezione la tanto sbandierata sussidiarietà del privato sociale per coprire le carenze dell’ intervento pubblico! Uno dei tratti d’unione è anche Luca Odevaine, già capo di gabinetto di Veltroni (oibò!) che si attiva per moltiplicare il numero di immigrati cioè i profitti della cosca, riuscendo a passare dai 250 stabiliti a oltre 2.500. Ma ecco che guardando le cose da questo punto di vista, si capiscono alcuni altri eventi. Carminati sa che qualcuno lo sta pistando – come si dice in gergo – e guarda caso si scatena una campagna invereconda e demenziale su tutti i media – pure quelli dell’establishment paludato come Repubblica, il Corsera, ecc… – contro l’unico che allo stato attuale dei fatti appare impermeabile a questo sistema criminale bipartisan, il sindaco Marino messo in croce per l’affaire della Panda rossa, ovvero un paio di multe causa divieto di sosta. Intanto il partito della nazione Pd (guarda un po’ che coincidenza) invoca più o meno a mezza bocca un rimpasto della giunta, lasciando solo il sindaco nonchè volendo di fatto commissariarlo. Adesso il ganzo fiorentino è costretto a commissariare l’intero Pd romano diciamo per “infiltrazioni mafiofasciste” e/o meno fortemente per acclarate collusioni con Mafia Capitale? Chissà, certo che il commissario designato, tale Orfini, già giovane turco di sinistra e, avendo cambiato verso da sinistra a destra, ora presidente nazionale del Pd per grazia ricevuta da Renzi, non pare all’altezza essendo più abituato a piegare la schiena nell’inchino servile che a raddrizzare le storture, specie etiche. Infine la politica nazionale: lo scandalo romano bagna parecchio le polveri del ganzo toscano. Le elezioni che riteneva di poter vincere a man bassa, non paiono più così certe nel risultato, come già dicevano le recenti elezioni regionali. Il segretario del partito della nazione Pd è ancora il dominus incontrastato nel palazzo, ma fuori il suo spazio raggrinzisce, riducendosi ogni giorno, il suo cammino vacilla parecchio, insicuro, poco efficace, zoppicante persino nella grammatica della sua propaganda al solito spedita, e sta arrivando lo sciopero generale del 12 dicembre.

Il colpo di grazia l’ha dato il prefetto di Roma, scrive di Andrea Cangini su “Il Resto del Carlino”. Già la cronaca del malaffare capitolino ha offerto al mondo l’immagine di un Paese allo sbando, dove a reggere sono solo le vecchie affiliazioni criminali. Poi il prefetto Pecoraro ci ha messo del suo adombrando, e non disponendo, il commissariamento del Comune per infiltrazioni mafiose e sostenendo che il sindaco Marino rischi la vita. Trattandosi di Roma e non di Casal di Principe, si può immaginare la prima reazione di istituzioni internazionali e investitori stranieri: alla larga dall’Italia, paese infetto sin dalla Capitale. A ringraziare è il sindaco, la cui esistenza era fino a ieri minacciata dai romani insoddisfatti e rinato invece a nuova vita politica grazie alla qualifica di solitario argine a quel malaffare di cui fino ad oggi pare non essersi accorto. Questione romana? No, questione nazionale. La romanità dei fatti, il Romanzo Criminale e la presenza di ex terroristi neri rendono la storia facilmente raccontabile. E di sicuro impatto. Ma al netto del folklore locale e degli echi cinematografici accade a Roma quel che è accaduto altrove: si percepiscono i segni di uno Stato inefficiente, dove il prefetto dà pubblicamente la linea al ministro pur senza decidere nulla; si assiste all’emersione del solito comitato d’affari trasversale. Sempre stato un potere debole, quello dello Stato italiano. La cui ossatura è storicamente rappresentata dai comuni: il potere locale che dà sostanza al potere nazionale. Ebbene, il potere locale è in crisi. Non tante singole crisi cittadine, ma un’unica, gigantesca, crisi di sistema. E poiché è dai tempi del Pci che la sinistra italiana si è radicata sotto i campanili comunali, questa crisi investe sopratutto il Partito democratico, che con Matteo Renzi ha ora l’urgenza di ridisegnare la mappa del potere non solo a livello centrale ma soprattutto a livello locale. Il primo campanello d’allarme è risuonato a Siena quando i magistrati entrarono al Monte dei Paschi mettendo in ginocchio la città simbolo della sinistra finanziaria. Qualcosa di simile è accaduto a Genova, dove l’arresto del presidente della banca Carige, Giovanni Berneschi, ha messo in luce un sistema che per conto degli ex Ds ha in Claudio Burlando il proprio astro calante. Anche a Genova l’intreccio riguarda massoneria, ambienti vaticani e coop rosse: cioè tre delle quattro colonne che da cinquant’anni reggono, nell’ombra, lo Stato italiano. La quarta è la mafia.  Ora evocata, forse impropriamente, a Roma. A Genova è emerso lo stesso sistema di potere messo in luce dai magistrati veneziani nell’ambito dell’inchiesta sugli appalti del Mose e da quelli milanesi che hanno indagato sull’Expo. Scattano dunque le manette, vacillano le giunte. E se al Nord e al Centro la crisi del sistema è conclamata dalle inchieste giudiziarie, al Sud è resa ufficiale dal caos amministrativo che trova nella Napoli di Luigi De Magistris la propria punta più avanzata. I magistrati fanno il loro dovere, ma è la politica a dover riformare il sistema. E la politica, oggi, si chiama Matteo Renzi. Il quale, per ridisegnare la mappa del potere locale ridando così sostanza al potere nazionale, deve scardinare il malaffare da sempre incistato nei gangli amministrativi delle grandi città. Servono forza, volontà politica e sindaci all’altezza. Non se ne vede traccia.

Roma capitale mafiosa, scrive Enza Galluccio su “LOraquotidiano”. Per la prima volta in questo dannato Paese, il concetto di mafia e mafiosità smette di essere attribuito soltanto al nostro sud e, forse, si comincia a comprendere la vera complessità del fenomeno. Ebbene sì, non sono bastati i vari Expo, Mose e quant’altro per convincere l’informazione – sia essa pubblica sia essa privata –  a mettere al posto giusto le giuste definizioni. Oggi affermare  che in Italia domini un sistema semplicemente corrotto, vuol dire considerare soltanto una piccola parte di un immenso problema. È dunque mafia quella che realmente regola i fili della gestione pubblica, ma non tirino un sospiro di sollievo i benpensanti carichi e certi dei loro luoghi comuni, non si sta parlando del fenomeno criminale e militare che opportunisticamente viene associato soltanto alla Sicilia, con unica capitale Palermo. Senza nulla togliere alla drammatica storia di Cosa Nostra, oggi la cronaca racconta di un altro paese criminale, dove la parte militare è l’estrema destra eversiva con i suoi affiliati facenti capo a Massimo Carminati, esponente dei NAR –  gruppo d’ispirazione neofascista degli anni ‘70 – e della Banda della Magliana. Essi sono il braccio e i compagni di merende di uomini politici di ogni taglia e appartenenza. Insieme sono “mafia”, nessuno escluso. Vediamo, dunque, che tra i principali nomi dei coinvolti ci sono proprio quasi tutti, dal Re delle cooperative rosse ad ex democristiani,  da Alemanno e i suoi amici camerati  ad esponenti del Pd; da consiglieri del Pdl ad  ex di Forza Nuova …Dunque su cosa “lavoravano” arricchendosi questi individui ? Non par vero, eppure si parla di “aiuti” ai Rom e agli immigrati … Proprio loro! Quelli cacciati dalla rivolta a Tor Sapienza che poi sono finiti in un centro legato a società ora sotto inchiesta …Vale a dire che contando su piani di emergenza – per questo meno controllabili e controllati – vengono affidati a certe cooperative, senza alcun bando, dei servizi come la sicurezza e la pulizia di centri accoglienza e campi Rom. Qui i minori  sono i più ambiti perché “rendono di più”. Ovviamente, le opere pagate  non vengono mai eseguite e i soldi stanziati finiscono tra questi faccendieri di ogni matrice politica e criminale.  Perché tutto questo avvenga sono necessari altri politici compiacenti, appositamente fatti eleggere anche dal braccio che oggi viene definito mafioso, la cui radice è soprattutto del centro-nord …Ad esempio, il Carminati – amico di Valerio Fioravanti – è nato a Milano. Si è poi trasferito a Roma da ragazzo dove ha sviluppato la sua carriera di picchiatore fascista. Fioravanti lo definisce: “uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura”. Così quelli della mafia romana sono “accordi al cinquanta” e rendono più del traffico di droga, mentre le vere vittime giacciono allo sporco, senza energia elettrica e senza nulla di quello che viene pagato con soldi pubblici …Tutto avviene in quel “mondo di mezzo in cui tutti si incontrano” proprio come i massoni piduisti, gli appartenenti a servizi segreti paralleli, i mafiosi siciliani, gli ‘ndranghetisti calabresi …Perché, in quel mondo oscuro, il potere è forte e tutto è possibile.

Cooperative rosse e mafia nera: il futuro delle coop sociali dopo lo scandalo Mafia Capitale, scrive di Alessandra De Angelis su “Investire Oggi”. Lo scandalo soprannominato Mafia Capitale che ha portato a 37 arresti ha fatto crollare a Roma il sistema delle cooperative solidali,le cd coop rosse (macchiatesi di mafia nera)? Al centro dello scandalo che la procura ha ribattezzato Mafia Capitale c’è il rosso della sinistra, quella attiva nelle cooperative sociali (dette rosse appunto) ma c’è anche tanto “nero”: non è solo il personaggio di Romanzo Criminale a cui si ispira la figura del boss a capo di questo sistema, Carminati, è il colore del fascio e della mafia che ha lucrato sui fondi destinati ad immigrati e rom. Mafia Capitale: di rosso nelle cooperative resta la tovaglia. Nella foto della cena che da ieri gira sul web, e che ritrae Alemanno e Poletti a tavola con i boss, spicca una tovaglia rossa. Ma cosa resta della sinistra nel sistema di Mafia Capitale? Salvatore Buzzi, amministratore e coordinatore di varie società cooperative è l’emblema di questo business: era riuscito a creare un vero e proprio impero creando società di servizi con ex carcerati, cooperative che tra le altre attività si erano aggiudicate appalti anche nel campo accoglienza profughi, svolgendo servizi per conto del comune e retribuiti con fondi statali. Immigrati e rom: quanto hanno fatto guadagnare alle cooperative mafiose. I numeri parlano chiaro: le previsioni di bilancio del 2014 stimano, per la “29 Giugno – Onlus” (aderente a Lega Coop), un fatturato di 25,2 milioni di euro e di un utile di 800 mila euro, per la “Eriches 20″ un fatturato di 13,08 milioni e un utile di 250mila euro e per a “29 Giugno – servizi” un fatturato di 9,9 milioni di euro e un utile di 130 mila euro. E il commento dello stesso Buzzi nell’intercettazione della telefonata con Pierina Chiaravalle è emblematico: “tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. Cooperative solidali, lo scandalo e scenari futuri. Uno scandalo che inevitabilmente ha generato una vera e propria bufera nel sistema delle cooperative solidali, Da subito Legacoopsociali ha preso le distanze dai soggetti coinvolti nelle indagini della magistratura sospendendo Salvatore Buzzi in primis, ma anche Carlo Maria Guarany, Alessandra Garrone, Paolo Di Ninno e Franco Cancelli (tutti in manette). In un comunicato ufficiale si leggesdegno e sgomento dei cooperatori sociali per quanto va emergendo a Roma”. Proprio per non compromettere la reputazione di tutte le persone oneste che prestano servizio nelle cooperative solidali di Roma, è stato chiesto alla magistratura “di accertare rapidamente e fino in fondo ogni responsabilità” ribadendo che “Simili fatti, ove confermati, non sono compatibili con l’essere cooperatori sociali, e offendono in primo luogo la realtà quotidiana, faticosa ed onesta  delle cooperative sociali che a Roma come in tutto il Paese svolgono un ruolo fondamentale e preziosissimo di servizio e di solidarietà, e non possono vedere ingiustamente lesi la reputazione e l’onore”.

Scandalo Coop rosse: si paga per lavorare. Dipendenti costretti a versare 4000 euro per essere assunti da una cooperativa, scrive Giorgio Mottola su “Il Corriere della Sera” Quanto sareste disposti a pagare per avere un lavoro da seicento euro al mese? Non serve arrovellarsi troppo, una cooperativa sociale di Padova ha stabilito la cifra congrua: 4000 euro. Questa è la somma che la Codess, membro della Legacoop sociali, chiede ai propri dipendenti neoassunti. Che, almeno sulla carta, sono molto più che semplici dipendenti. In molti casi, la Codess preferisce infatti che i propri lavoratori divengano automaticamente soci della cooperativa. Anzi, «è la condicio sine qua non per essere assunti», spiega Chiara, che per poco più di 600 euro al mese, fino a poche settimane fa, lavorava come educatrice in un asilo nido pubblico di Modena gestito dalla coop padovana. Ed è diventando soci che il posto di lavoro diventa particolarmente “caro”. A prescindere dall’ammontare dello stipendio, che mediamente si aggira tra i 600 e i 1200 euro al mese, un socio lavoratore deve sborsare innanzitutto 3000 euro per comprare la propria quota sociale (molto salata rispetto a quanto chiedono le altre cooperative), soldi che vengono restituiti solo nel caso in cui il contratto di lavoro venga rescisso e il socio chieda di riavere indietro il proprio denaro. Altri 1000 euro devono invece essere versati alla Codess a fondo perduto (quindi senza possibilità di poterli mai rivedere), a titolo di tassa di ammissione soci. Niente paura, però, i 4000 mila euro non bisogna consegnarli subito e in contanti. La cooperativa li scala in piccole e comode rate mensili dalla busta paga. Non parliamo di piccole cifre. La Codess ha infatti circa 3000 dipendenti di cui oltre l’80 per cento è anche socio. In questi anni la cooperativa è cresciuta molto, diventando una tra le più grandi nel settore sociale, capace di aggiudicarsi appalti pubblici in tutta l’Italia centro settentrionale, dal Veneto al Piemonte, passando per l’Emilia Romagna e la Toscana. Lo scorso anno è riuscita a raggiungere un fatturato che supera gli 85 milioni di euro con un utile di 250 mila euro. Ma non è tutto oro quello luccica, ci tengono a sottolineare i vertici di Codess, che in passato hanno fatto parte del direttivo regionale di Legacoop in Veneto: le amministrazioni locali pagano con molto ritardo e per questo la società è “costretta” a chiedere i soldi ai propri dipendenti, è la spiegazione che ci hanno fornito nella nota scritta che ci hanno inviato. Ai soci lavoratori di Modena il “prelievo” dalla busta paga non è andato giù. Tramite la Cgil modenese, hanno contestato i mille euro della tassa di ammissione soci e, dopo una lunga trattativa, la Codess ha preferito restituire i soldi ai dipendenti, evitando un processo davanti a un giudice. Quello emiliano è tuttavia l’unico caso di restituzione della tassa in Italia. Il prelievo sulla busta paga degli altri lavoratori della Codess, per ora, continua.

Il boss finanziava gli spettacoli delle femministe radical chic. La Coop 29 giugno di Buzzi sponsor dello show della Dandini. Sul palco pure Camusso, De Gregorio e C. E la Boldrini applaudiva in prima fila, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Quando c'è da sponsorizzare gli eventi culturali degli artisti organici al Pd il boss della Coop 29 Giugno Salvatore Buzzi, quello che al telefono con l'ex terrorista Carminati dice «tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno!» (e l'altro gentiluomo gli risponde: «Mettiti la minigonna e vai a battere co' questi amico mio»), rivela davvero un cuore d'oro. Un animo sensibile non solo ai milioni da lucrare su rom e clandestini o agli appalti facili grazie agli amici in Campidoglio, ma anche al tema della donna nella società, davvero molto sentito dal sodale del «Cecato». Sempre, beninteso, che a farne uno spettacolo fosse qualche esponente del salottino intellettuale romano di marca Pd (ex veltroniani), quell'asse di ferro - descritto anche da Bernardo Caprotti nel suo illuminante Falce e carrello - tra partito, coop, amministrazioni amiche, Cgil e poi anche artisti e intellettuali inseriti nel sistema. Così Serena Dandini, già veltroniana nella RaiTre in quota Pd, quando cerca sponsor per il suo spettacolo sulla violenza contro le donne, Ferite a morte, trova subito una schiera di coop rosse che fanno a gara per sostenerla: Coop Centro Italia, Unipol, Coop Adriatica, Coop Lombardia, Legacoop Veneto, Coop Estense, Coop Novacoop, Legacoop Fvg. E tra queste non poteva mancare, come racconta il sito Qelsi.it, la potente Coop 29 Giugno di Buzzi, iscritto al Pd e ras degli appalti al Comune di Roma. Quello che dice «Me li sto a comprà tutti, semo diventati grandi», appena fiuta l'occasione per stringere il legame col sistema di potere Pd ci si tuffa di testa, da buon uomo di affari che sa quanto le relazioni, specie a Roma, contino più di tutto per fare i soldi. Anche perché nel grande business di Buzzi (60 milioni di euro di fatturato) non ci sono solo gli immigrati ma anche le «donne singole in difficoltà con figli minori a carico», come si legge nella presentazione della «Eriches 29», una partecipata del suo gruppo. Cioè: si alimenta l'emergenza e gli spettacoli che ne parlano, per papparsi poi le commesse pubbliche per la gestione di quel fenomeno, come per le cifre dell'immigrazione a Roma, gonfiate grazie al sodale Odevaine, ex capo di gabinetto di Veltroni. E infatti la 29 Giugno supporta anche uno spettacolo sui rifugiati dell'attore terzomondista Giobbe Covatta. Un marchingegno perfetto, non fossero arrivati i carabinieri del Ros. E così Buzzi è fiero di poter annunciare, in un vibrante comunicato del marzo 2013: «La Cooperativa 29 Giugno sostiene il progetto teatrale di Serena Dandini che vede come interpreti importanti attrici italiane e donne della società civile per accendere i riflettori su quello che ormai è diventato un fenomeno diffuso in tutto il mondo: il femminicidio». Non solo, nel numero di dicembre della rivista della cooperativa, Magazine (che contiene chicche straordinarie come una recensione genuflessa al film di Veltroni su Berlinguer, che finisce con un sobrio «Grazie Walter») Buzzi è ancor più fiero di confermare la sponsorizzazione, «in maniera concreta», anche al tour internazionale della Dandini: «La 29 Giugno - si legge -, che ha sempre sviluppato una particolare sensibilità nei confronti della dignità delle donne, con entusiasmo e partecipazione ha deciso di rimanere ancora vicino, in maniera concreta, all'iniziativa di Serena Dandini nella viva speranza che possa contribuire ad una sensibilizzazione generale e ad una diminuzione e scomparsa totale dei casi di femminicidio». Sul palco, all'Auditorium di Roma, per l'evento sostenuto dalle coop rosse e da quella del sensibilissimo Buzzi («4 milioni dentro le buste!»), si schiera il sistema di potere Pd in tutte le sue articolazioni. C'è la segretaria della Cgil, Susanna Camusso. Gli attori de sinistra , dalla Buy alla Costa. I giornalisti amici, come la De Gregorio, messa da Veltroni segretario Pd alla direzione del giornale Pd l'Unità (prima che chiudesse). E «tra il pubblico un'applauditissima presidente della Camera Laura Boldrini», come si legge nell'house organ della 29 Giugno, con enfasi da cinegiornale fascista. Tutti finanziati dalla coop al centro di «Mafia capitale». D'altra parte, lo dice Buzzi intercettato, «gli affari so' affari».

Mafia Capitale? Salvatore Buzzi, i campi rom e le coop rosse, scrive Francesco De Palo su “Formiche.net”. Gli intrecci, le piste dei pm, le intercettazioni riguardanti il numero uno della cooperativa "29 giugno". Secondo di una serie di articoli di Formiche.net sull'inchiesta giudiziaria che coinvolge a Roma politici, imprenditori e funzionari pubblici. Da Rebibbia alla cooperativa “29 giugno”, passando per una (eccellente) tesi di laurea. Chi è e come si è evoluto, dall’esperienza carceraria a quella imprenditoriale, Salvatore Buzzi (una condanna per omicidio alle spalle) ritenuto, dai pm che indagano sullo scandalo Mafia Capitale, il numero due dell’organizzazione alle spalle di Carminati. Dall’esclusione sociale agli affari con la Pubblica Amministrazione, romana e non: ecco quanta strada ha fatto Buzzi che, intercettato dai pm, diceva: “La politica è una cosa, gli affari so’ affari”. E ancora: “Gli zingari? Rendono più della droga”.

29 GIUGNO. Si tratta di una cooperativa nata nel 1985, in seguito ad un convegno organizzato dai detenuti del carcere di Rebibbia su “Le misure alternative alla detenzione e il ruolo della comunità esterna”. In quella circostanza (era appunto il 29 giugno del 1984) venne avanzata la proposta di realizzare una cooperativa, con soci i detenuti, proprio per offrire loro la possibilità di un futuro lavorativo. Buzzi in quei giorni era un detenuto in attesa di giudizio, pertanto non un operatore volontario. “Il mio modo di essere e di impegnare il mio tempo durante la detenzione mi portarono ad occuparmi di sociale e quindi un po’ anche di me” disse a proposito del suo nuovo impegno nel marzo del 2004 intervistato dalla rivista Ristretti.

CARRIERA. Con 215 dipendenti la cooperativa viene presieduta proprio da Buzzi che, con 110 e lode, fu il primo detenuto a conseguire il titolo di dottore in lettere moderne all’interno del penitenziario romano. Oggi i pm Ielo, Cascini e Tescarol ritengono che sia non solo il braccio operativo dell’organizzazione ma che abbia gestito il cosiddetto “libro nero” delle tangenti. Il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, presentando i numeri dell’inchiesta che sta terremotando la Capitale (già 37 arresti e 100 indagati, tra cui l’ex sindaco Gianni Alemanno) ha annunciato ulteriori sviluppi legati a presunti giri di denari che interesserebbero non solo i campi rom, ma anche l’emergenza neve nella Capitale ed una serie di appalti. Al momento si sa che Buzzi nel bilancio 2013 fa segnare ricavi complessivi per 59 milioni di euro, così come riportato dall’Espresso, mentre il patrimonio di gruppo è di oltre 16,4 milioni.

LEGA COOP. Un altro filo che riguarda Buzzi su cui gli inquirenti hanno indagato, è quello che conduce alla Lega Coop già presieduta dall’attuale ministro Giuliano Poletti. Una foto in queste ore sta girando in rete e ritrae proprio l’ex capo delle Coop rosse in un ristorante romano con una serie di personaggi finiti nell’inchiesta Terra di Mezzo: oltre all’allora sindaco Alemanno e al pregiudicato Luciano Casamonica, c’è l’indagato Salvatore Buzzi; Franco Panzironi, ex ad della municipalizzata dei rifiuti Ama arrestato; l’ex assessore alla Casa della giunta Alemanno Daniele Ozzimo, indagato; il deputato del Pd Umberto Marroni e Angelo Marroni, garante dei detenuti del Lazio (questi ultimi due non indagati).

PAROLE. I pm scrivono nelle 1200 pagine dell’inchiesta che Buzzi “pone in essere l’avvicinamento dei decisori pubblici, sia con la vecchia che con la nuova amministrazione, in funzione degli interessi del sodalizio”. E secondo l’indicazione strategica di Carminati mette la minigonna per “andare a battere con la nuova amministrazione”. Due i nomi che spuntano dalle intercettazioni: Mirko Coratti e Franco Figurelli, suo capo segreteria, stimolati Buzzi per non perdere una gara d’appalto all’Ama, sbloccare certi pagamenti e aggiudicarsi una nomina al V Dipartimento. “Oh, me so’ comprato Coratti”, dice Buzzi, che indica la cifra di mille euro mensili versati a Figurelli (oltre a 10.000 euro pagati per poter incontrare il Presidente Coratti). Lo stesso Coratti sarebbe stato destinatario di altri 150.000 euro qualora avesse sbloccato 3 milioni sul versante sociale.

MIGRANTI VS DROGA. In un’altra intercettazione Buzzi, parlando con un’amica a proposito del business relativo agli immigrati, osserva: “Apposta tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Eh. Il traffico di droga rende di meno”. E a un imprenditore spiega: “Ma lo sai agli altri soldi che gli do’ Giova’? Ma tu lo sai perché io c’ho lo stipendio, non c’hai idea di quante ce n’ho… non ce li hanno… pago tutti pago… Anche due cene con il sindaco settantacinquemila euro ti sembrano pochi? Oh so centocinquanta milioni eh. I miei ti posso assicura’ che non li pago. Mo’ c’ho 4 cavalli che corrono col Pd e 3 col Pdl”.

CARMINATI. L‘ex Nar, seguito per lungo tempo dai carabinieri del Ros, sarebbe secondo i pm a capo dell’organizzazione, tenendo le fila non solo dell’estrema destra eversiva protagonista degli anni settanta a Roma, ma degli intrecci con manager pubblici e privati, uniti dal comun denominatore della politica in Campidoglio. Sarebbe stato lui a dare le indicazioni materiali a Buzzi, che si vantava di pagare 5 mila euro al mese a Luca Odevaine, l’ex vice capogabinetto del sindaco Veltroni (un passato tra Pci e Legambiente), poi nominato capo della Polizia provinciale e incaricato di gestire manifestazioni ed emergenze nella Capitale.

Inchieste e scandali, quante ombre sulle cooperative rosse, scrive Alessandro Genovesi su “Ibtimes”. Dentro gli scandali degli ultimi tempi, su tutti l'EXPO, un ruolo nient'affatto marginale è stato giocato dalle cosiddette cooperative rosse. Si guardi, tanto per non fare nomi, al gigante Manutencoop Facility Management e al suo presidente Claudio Levorato, iscritto nel registro degli indagati per concorso in turbativa d'asta e utilizzazione di segreti d'ufficio. Per il manager di Manutencoop i PM della procura della Repubblica di Milano avevano addirittura chiesto anche l'applicazione di misure cautelari. Tuttavia il giudice per le indagini preliminari ha rigettato la richiesta, ritenendo che nei confronti di Levorato non sussistessero le esigenze cautelari richieste dal codice di procedura penale. Un'ombra piuttosto imbarazzante per il mondo delle coop, da sempre legato a doppio filo alla sinistra, in tutte le sue diverse declinazioni (PCI-PDS-PD). Vedasi, ad esempio, il caso di Giuliano Poletti, ministro del Lavoro del governo Renzi dopo essere stato per anni Presidente di Legacoop. Ma gli intrecci delle cooperative vanno al di là della politica. Sentite, a tal proposito, cosa ha detto la segretaria CGIL, Susanna Camusso, in occasione del congresso di Rimini del mese scorso: "Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene". Parole dure e inconsuete, se si pensa al triangolo PCI-COOP-CGIL che per decenni ha costituito un inscalfibile centro di potere e di interesse. Parole, ci permettiamo di osservare, anche tardive: da molti anni oramai le cooperative si comportano alla stessa maniera delle aziende di tipo "capitalista", vale a dire mettendo, nella scala delle priorità, molto avanti i profitti e molto indietro i diritti dei lavoratori-soci. Quando va bene. Perché quando va male, ad essere aggirate sono le norme del codice penale. Oltre al caso Manutencoop, ancora tutto da dimostrare, sono in corse altre indagini che coinvolgono altri colossi del mondo cooperativo. Si pensi alla CMC, società con sede a Ravenna che si occupa di costruzioni, finita agli onori della cronaca per il caso del "porto fantasma" di Molfetta, cantiere aperto - secondo l'ipotesi accusatoria della procura di Trani - per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. La CMC, per non farsi mancare nulla, è implicata anche nell'inchiesta sulla bonifica dell'area Rho-Pero, che fa parte dell'operazione Expo, con l'accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il lavoro della cooperativa. Anche altri due giganti del mattone come Coopsette e Unieco sono finiti nell'occhio del ciclone l'anno scorso quando, in occasione dell'arresto del Presidente della regione Umbria Maria Rita Lorenzetti, i magistrati hanno ipotizzato l'esistenza di un'associazione a delinquere finalizzata proprio a finanziare indirettamente le due cooperative, entrambe in odore di fallimento. Insomma, altro che solidarietà e tutela del lavoro. Le COOP sono ormai perfettamente integrate nel capitalismo all'italiana, dove la spintarella, l'aiutino e la mazzetta la fanno da padrone, alla faccia dei "sacri" valori del libero mercato.

La grande torta delle coop rosse tra scandali e soldi dagli amici. La galassia delle aziende legate al Pd è finita spesso nel mirino dei pm per tangenti e appalti sospetti. Ma con le imprese di sinistra le procure chiudono un occhio, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Quasi mezzo milione di occupati e un giro di affari globale vicino ai 60 miliardi di euro». Si presenta così, sotto il titolo «Come coniugare etica e affari», la Legacoop, casa madre di tutte le coop rosse, un sistema di 15mila imprese che fanno affari da nord a sud e in tutti i settori: edilizia, grande distribuzione, servizi, assicurazioni, banche. Una galassia da sempre parallela al partito - prima Pci, poi Ds, ora Pd - con intrecci di vario tipo: nomine, travaso di dirigenti (che diventano sindaci o anche ministri, come il renziano Poletti ex capo di Legacoop), favori, appalti da amministrazioni amiche. Etica e business, ma ogni tanto, e nemmeno raramente, qualche scandalo. Quando scoppia il bubbone, di quelli grossi, scavi e ci trovi dentro una coop. Nel giro di mazzette attorno all'Expo ecco spuntare Manutencoop, colosso bolognese da 1 miliardo di euro l'anno di fatturato (per il 60% arriva dal pubblico), guidato da sempre dall'ex Pci Claudio Levorato, indagato dalla Procura milanese come presunta sponda a sinistra della cricca. Levorato era finito già nei guai a Brindisi, l'estate scorsa, anche lì per una storia di appalti (la Manutencoop si occupa di pulizia), stavolta alla Asl della città pugliese dove «negli anni la cooperativa emiliana di area Ds - scrive la Gazzetta del Mezzogiorno - ha preso 70 milioni di appalti». Quando si scoprono le magagne il sistema si chiude a riccio, in difesa, e il Pd si scopre garantista ad oltranza (vedi Bersani sul Fatto: «Se la magistratura accerta reati trarremo le conseguenze...»). Eppure i buchi neri del sistema sono frequenti, anche se spesso le Procure archiviano. Qualche anno fa la Coopservice, grossa cooperativa emiliana specializzata in servizi alle imprese, in vista della quotazione in Borsa di una sua controllata ha costituito, tramite una fiduciaria in Lussemburgo, un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali. La Guardia di Finanza ha scoperto tutto e segnalato 46 nomi alla Procura di Reggio Emilia, che ne ha indagati due, riconoscendo la finalità dell'operazione: «Non si voleva che le plusvalenze venissero distribuite tra tutti i soci ma a un numero ridotto di persone». Condannati? No, perché poi il pm ha chiesto l'archiviazione. Coop rosse anche nel «sistema Sesto», quello che ruotava attorno a Filippo Penati, presidente della Provincia di Milano, capo del Pd lombardo ed ex braccio destro di Bersani. Lì la coop rossa in questione è il Consorzio cooperative costruttori di Bologna, che avrebbe imposto consulenze fittizie da 2,4 milioni di euro a Giuseppe Pasini, l'immobiliarista proprietario delle aree ex Falck, elargite come «condizione per compiacere la controparte nazionale del partito», racconterà proprio Pasini ai pm. Anche lì coop rosse e lieto fine. Al vicepresidente della Ccc bolognese, insieme ad altri due rappresentanti delle coop, tutti accusati di concussione, è andata infatti bene: prescritti. Affari dappertutto, ma cuore pulsante in Emilia Romagna, vero ombelico della vecchia «ditta» Pd, sede anche della Unipol (a Bologna, Via Stalingrado...), quella della tentata scalata a Bnl per opera di Consorte, finita male («abbiamo una banca?»). Lì le coop si aggiudicano un appalto su quattro e hanno un monopolio di fatto nella grande distribuzione (70%). Ne sa qualcosa Bernardo Caprotti, fondatore di Esselunga, che ha ingaggiato una battaglia sanguinosa, a suon di denunce, con Coop Estense, che gli ha impedito l'apertura di due supermercati in provincia di Modena, abusando della sua «posizione dominante». Si è dovuti arrivare al Consiglio di Stato (che ha sanzionato la coop per 4,6 milioni di euro), dopo che il Tar aveva accolto il ricorso della società emiliana. Una battaglia durata 13 anni. Ancora in Emilia-Romagna, ad Argenta (Ferrara), la Coopcostruttori, una delle corazzate di Legacoop, è naufragata in un mare di debiti dopo essere finita sotto inchiesta con l'accusa di fare affari col clan dei Casalesi. Fuori dai guai, invece, il governatore piddino Vasco Errani, finito in mezzo al cosiddetto «scandalo Terre Emerse», dal nome della cooperativa agricola che per la costruzione di una cantina vinicola a Imola aveva beneficiato di un finanziamento regionale di 1 milione di euro. Piccolo dettaglio: il presidente della coop è Giovanni Errani, suo fratello. Ma tutto è finito bene per Vasco Errani, accusato di falso ideologico in atti pubblici: assolto dal giudice «perché il fatto non sussiste». Ma il potere coop si ramifica molto lontano dall'Emilia. «Si respira un clima pesante attorno alla struttura di prima accoglienza di Lampedusa» disse il presidente di Legacoop Sicilia dopo lo scandalo suscitato dalle riprese del Tg2 sui maltrattamenti in un centro di accoglienza per i clandestini, a Lampedusa, gestito da una coop. Un «business» da 2 milioni al giorno, in cui non potevano mancare anche loro. E nemmeno nelle grandi opere. Al nodo Tav di Firenze lavora la Coopsette, altro gigante degli appalti pubblici. Anche di loro si sta occupando la Procura di Firenze, che ha messo sotto indagine 36 persone, tra cui l'ex presidente Pd della Regione Umbria, la dalemiana Lorenzetti. Il sospetto è che si siano usati materiali scadenti, in business addirittura con la camorra. E meno male che lo slogan è «coniugare etica e affari».

Nello Scandalo sanità spuntano le coop rosse, scrive Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Spunta anche la Lega delle cooperative nell’indagine che riguarda Lea Cosentino in uno dei quattro fascicoli sul sistema degli appalti sanitari nelle Asl pugliesi e che martedì ha portato al dimissionamento della manager vicina al Pd. Cosimo Catalano, il quarto uomo coinvolto nell’indagine insieme a Gianpaolo Tarantini, all’imprenditore Enrico Intini e alla stessa Cosentino, è infatti il direttore generale della Supernova di Lecce, che si occupa di servizi e che aderisce a Legacoop. Supernova, 750 dipendenti, è un’importante azienda che si occupa tra l’altro di pulizia, facchinaggio e manutenzione degli impianti in molti ospedali del Salento tra cui anche il «Fazzi» di Lecce. Nella vicenda che riguarda la Cosentino e Catalano la guardia di finanza si sarebbe concentrata su un piccolo appalto di pulizie (55mila euro) che l’Asl Bari non avrebbe però mai avviato. Gli inquirenti ipotizzano i reati di turbativa d’asta, corruzione in atti d’ufficio e associazione per delinquere: ritengono, evidentemente, che Cosentino stesse in qualche modo cercando di favorire Catalano così come avrebbe fatto nei confronti dell’imprenditore barese Enrico Intini. Il tutto sarebbe avvenuto con i buoni uffici di Gianpaolo Tarantini, il vero perno di tutto il Barigate, l’uomo che si trova al centro di tutte le indagini portate avanti in queste settimane dalla procura di Bari. Quello dei servizi di ausiliariato rappresenta una fetta molto ricca degli appalti sanitari. Un mercato nel quale i soggetti collegati a Legacoop sono molto presenti, soprattutto in Puglia: negli ospedali baresi lavora ad esempio un’azienda collegata a Manutencoop, il colosso del global service «rosso». È lo stesso mercato in cui, qualche mese fa, era scoppiato il caso Romeo, l’imprenditore napoletano al centro di un’intricata tela di rapporti trasversali con il potere politico. Il sistema delle cooperative è del resto molto presente in Puglia, sia negli appalti sanitari sia nella grande distribuzione organizzata. E non è un mistero che il principale referente delle Coop all’interno della giunta regionale sia il vicepresidente e assessore alle Attività produttive Sandro Frisullo, anche lui salentino come Cosentino e Catalano e anche lui tirato in ballo in questa vicenda per alcune telefonate con Tarantini. Nei confronti di Frisullo, come ha chiarito anche il procuratore Emilio Marzano, non ci sono comunque da parte degli inquirenti accuse di alcun genere. Il rimpasto nella giunta regionale deciso dal governatore Nichi Vendola porterà comunque l’assessore dalemiano a lasciare l’incarico. Ieri pomeriggio il pm Giuseppe Scelsi ha interrogato Intini sia sulla questione che riguarda i rapporti con la Asl di Bari, sia per i suoi contatti con la Protezione Civile: sarebbe stato Tarantini in particolare a presentare l’imprenditore di Noci al sottosegretario Guido Bertolaso. «Riteniamo - dice l’avvocato di Intini, Federico Massa - che la sua posizione sia stata sufficientemente chiarita, abbiamo la certezza della tranquillità. Abbiamo anche portato elementi che, secondo noi, dimostrano l’estraneità ai fatti contestati». La Cosentino invece attende ancora di essere ascoltata. «Nei prossimi giorni - si limita a dire il suo legale, l’avvocato Francesca Conte - mi recherò dal dottor Scelsi per chiarire i contorni della vicenda». Ma nel frattempo è giallo sulla posizione della manager: l’altro giorno l’assessore Tommaso Fiore aveva annunciato la «sospensione cautelativa» della Cosentino dall’incarico di direttore generale. La delibera approvata mercoledì e resa nota ieri racconta invece una storia totalmente diversa: il provvedimento (che secondo la difesa della manager non è ancora stato notificato) sembra costituire infatti l’avvio di una procedura di licenziamento che sarà concluso entro 30 giorni. La Cosentino ha già annunciato ricorso al Tar.

Falce e carrello: ecco perché al giudice non piace il libro di Caprotti, scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Il Tribunale di Milano, giovedì scorso, ha stabilito che Falce e carrello, libro scritto dal patron di Esselunga Bernando Caprotti che denuncia il sistema di favoritismi di cui godono le Coop, è da condannare e ritirare dal mercato per concorrenza sleale ai danni di Coop Italia. Il giudice del tribunale nella sentenza si allarga e critica addirittura lo stile con cui è scritto il libro. Negli ultimi 10 anni, ritirati solo due testi: uno sulla pedofilia e uno di Travaglio. «La prefazione del libro, che ragionevolmente non resterà fra gli scritti più pregevoli e degni di essere ricordati per il valore scientifico di cui pure è convenuto l’autore». «Gli scritti raccolti nell’appendice esprimono con toni anche ironici e sarcastici una pungente critica al “sistema” delle cooperative». A leggere queste righe si potrebbe pensare di essere, se non proprio dalle parti della giuria del premio Strega, quanto meno nei dintorni. Invece è la sentenza con cui la prima sezione civile del Tribunale di Milano giovedì scorso ha stabilito che il libro Falce e carrello – le mani sulla spesa degli italiani, scritto da Bernando Caprotti (patron di Esselunga), con la prefazione dell’economista Geminello Alvi e un’appendice curata dall’inviato de Il Giornale Stefano Filippi è da condannare per concorrenza illecita ai danni di Coop Italia (il consorzio delle cooperative attive nella grande distribuzione): perciò Caprotti, Alvi, Filippi e l’editore Marsilio dovranno risarcire con 300 mila euro Coop Italia. Ma soprattutto, è questo il dato più discusso, il giudice ha deciso di bloccare la pubblicazione del libro e ritirare le copie già sul mercato. Questo non è il primo scontro giudiziario tra il patron di Esselunga e il mondo delle cooperative, scatenato da Falce e Carrello. Però la sentenza di giovedì è la prima in assoluto a stabilire che il libro debba proprio sparire dalla circolazione. E, fatto ancora più controverso, la sentenza è anche uno dei rarissimi casi in cui viene chiesto che un libro sia ritirato dal commercio. In dieci anni è accaduto ad esempio solo in due casi; nel 2000 con un libro del collettivo Luther Blisset sulla pedofilia, Lasciate che i bimbi, e nel 2010 con un’edizione del libro L’odore dei soldi di Marco Travaglio. Qualcuno, come Pierluigi Battista dalle colonne del Corriere della Sera ha parlato di “Rogo dei libri”: «D’accordo le Coop non si toccano, venerate come una reliquia sacra e quindi bisognose di robuste esenzioni fiscali – ha scritto Battista – ma per questo il libro deve essere bandito, gettato al macero, bloccato nella pubblicazione, per sentenza di un tribunale che dovrebbe giudicare nel nome del popolo italiano e non in quello dei baroni dei supermercati politicamente corretti?». Per il vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi (Pdl), la sentenza «riporta alla memoria un periodo storico che non vorremmo rivivere, quello in cui i libri scomodi venivano bruciati in piazza o messi all’indice»; per il presidente del Pdl in Senato Maurizio Gasparri si tratta di una «sentenza incredibile e assurda, da film Fahrenheit 451, o da libro di George Orwell», opinione condivisa anche dal capogruppo Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto. Franco Siddi, presidente della Federazione nazionale della stampa, pur premettendo che «le sentenze si rispettano», ha aggiunto: «Bruciare i libri non è mai indice di libertà. Credo che da un libro, anche il più scorretto, ci si possa difendere contrapponendo altre tesi, altre prove. E sul libro in questione credo sia più efficace prevedere una ristampa con sentenza a margine». Giancarlo Mazzucca (Pdl) membro della commissione cultura, e giornalista, ha fatto notare che «Caprotti in un’intervista al mio giornale illustrò una situazione suffragata da fatti sul potere economico nelle regioni rosse, che c’era e c’è tuttora. Se poi nel libro ci sono inesattezze o contenuti diffamatori, naturalmente c’è sempre lo strumento della querela, ed eventualmente si può stabilire la ripubblicazione del libro cancellando le parti che risultano non vere». Invece no, nel caso di Caprotti non se ne parla proprio. Eppure, anche in altri due casi lo stesso Tribunale di Milano si era pronunciato su Falce e Carrello, e in modo opposto. Nella prima causa, mossa da Coop Liguria, il giudice nel 2010 ha sentenziato che non c’è diffamazione (ma sempre esercizio di libera opinione garantito costituzionalmente), bensì concorrenza sleale. Da qui la condanna al semplice risarcimento di Coop Liguria con 50 mila euro. Nella seconda causa, mossa da Coop Estense, invece, il giudice nel marzo 2011 ha stabilito che non c’è stata né diffamazione, né concorrenza sleale. In nessuno dei due casi dunque si è parlato di correzioni o ritiro dal mercato delle copie del libro. Anzi: proprio per la denuncia di Falce e Carrello, va ricordato che nel marzo di quest’anno l’Antitrust, l’authority che vigila sulla concorrenza e sul mercato, ha avviato due indagini su Coop Estense e Unicoop Tirreno. Ora invece la diversa sentenza sul caso di Coop Italia. Con tanto di analisi del testo e commento di stile sulla prefazione di Geminello Alvi e appendice di Stefano Filippi: «Gli scritti di Filippi – annota anzi con scrupolo il giudice – hanno l’evidente finalità di sorreggere le tesi e le opinioni di Caprotti al pari della prefazione di Alvi, pur non avendo il giornalista meritato l’esplicito ringraziamento che in apertura Caprotti ha riservato invece ad Alvi». «È evidente che l’“operazione Falce e Carrello” ideata e realizzata da Esselunga spa tramite il suo “creatore” e con il concorso di un’economista, di un giornalista e di un editore va ben al di là della legittima espressione di opinioni e giudizi critici sul regime fiscale delle cooperative, con la dolosa consapevolezza di favorire Esselunga ai danni di Coop». E se la libertà di critica viene riconosciuta da una parte della sentenza, essa non basta più nell’altra parte della sentenza a giustificare ancora l’esistenza di un libro. Per la scellerata «operazione Falce e Carrello» è però «impossibile per la Coop Italia dimostrare quanti e quali consumatori possano aver dubitato dei prodotti Coop fino a decidersi a rivolgersi ad altri operatori, fra cui Esselunga». Il danno patrimoniale della concorrenza sleale lo ha dunque stimato il giudice.

Nuova sentenza: «Falce e carrello» torna in libreria, scrive Buzzi Emanuele su “Il Corriere della Sera”. La motivazione «Difficile negare una valenza di sequestro e censura» nello stop alla distribuzione. Torna tra gli scaffali il pamphlet Falce e carrello , scritto dal patron di Esselunga Bernardo Caprotti. E si riaccende la polemica per quello che è stato un caso economico-letterario-politico degli ultimi mesi, poi sfociato in una vicenda giudiziaria. Il libro, pubblicato nel 2007, racconta la competizione con la Coop, denunciando un presunto ostruzionismo delle amministrazioni locali e degli operatori economici delle regioni «rosse» rispetto all' espansione della catena Esselunga. A settembre la prima sezione civile del tribunale di Milano aveva accolto il ricorso presentato da Coop Italia contro Caprotti e il suo saggio, ordinando (oltre a un risarcimento di 300 mila euro) anche la sospensione della distribuzione del pamphlet. Il motivo? La «pubblicazione, diffusione e promozione degli scritti contenuti nel libro Falce e carrello integrano un' illecita concorrenza per denigrazione ai danni di Coop Italia». Ora, nuovo round, nuovo atto. La prima sezione civile della Corte d' Appello di Milano ha ordinato la sospensione dell' esecutività della sentenza di primo grado. Di conseguenza il libro può tornare liberamente sul mercato in attesa della decisione di secondo grado, prevista in primavera. Nell' ordinanza, firmata dal giudice Giuseppe Patrone, la sospensione della distribuzione viene indicata come «un provvedimento cui non sembra agevole, per l' attualità degli effetti, negare una sostanziale valenza di sequestro e censura». E proprio sul valore censorio della sentenza di primo grado a settembre si era scatenata la bagarre politica, con il centrodestra pronto a sollevarsi contro quello che veniva bollato come «un autentico scandalo». Una bagarre culminata con l'intervento in prima persona, sulle pagine del Corriere , dello stesso Caprotti, che ironizzava così sulla vicenda: «Io sono soltanto sleale, cioè "unfair", subdolo e tendenzioso. Un niente, di questi tempi! Quasi un gentiluomo. E per i danni subiti da Coop per questa sleale concorrenza ha accordato 300 mila euro invece dei 40 milioni richiesti! Il libro? Non si ordina neppure di bruciarlo sulle pubbliche piazze». Coop Italia, al tempo stesso, aveva espresso soddisfazione nel vedere condannata «un' aggressione violenta e lesiva che noi non ci saremmo mai sognati di fare nei confronti di un concorrente», prendendo anche le distanze da ogni tipo di polemica: «La suddetta sentenza non ha nulla a che fare con la pretesa di mettere al rogo i libri, anche se falsi e diffamatori, né ci siamo mai espressi in tal senso». Era solo il primo atto della battaglia legale milanese. Una delle molte che vedono fronteggiarsi Caprotti e le Coop in tutta Italia. Nell' aprile 2010 il patron di Esselunga ha vinto nei confronti di Coop Liguria, nella primavera del 2011 ha vinto contro Coop Estense, poi c' è stata la decisione del tribunale di Milano. Nel 2012 sarà la volta della sentenza d' appello a Milano e del primo grado della causa con Coop Adriatica. La vicenda Il libro «Falce e carrello», scritto dal fondatore di Esselunga Bernardo Caprotti e uscito nel 2007, è diventato un caso La polemica Il libro è una denuncia dello stretto legame tra Coop, il colosso della grande distribuzione, e le amministrazioni di sinistra, soprattutto in Liguria ed Emilia Romagna. La tesi di Caprotti è che quel legame avrebbe rappresentato una pesante distorsione della concorrenza La vicenda giudiziaria Lo scorso settembre il Tribunale di Milano aveva accolto il ricorso presentato da Coop e stabilito la sospensione della distribuzione del libro. Ora, la Corte d' appello ha sospeso l'esecutività della sentenza di primo grado.

"Mafia e coop rosse": un libro sui misteri e depistaggi d'Italia, scrive “Il Giornale di Sicilia”. Scritto da Elio Sanfilippo, presidente di Legacoop Sicilia e Nino Caleca, assessore regionale all'Agricoltura. Si intitola «Mafia e coop rosse. Misteri, intrighi e depistaggi» ed è il libro scritto da Elio Sanfilippo, presidente di Legacoop Sicilia e Nino Caleca, assessore regionale all'Agricoltura (Editore istituto Poligrafico europeo, 168 pag., 12 euro). Il libro ricostruisce il clima politico e gli scenari conseguenti alla fine della Prima Repubblica e all'inizio delle indagini legate a Tangentopoli: dall'arresto, nel 1993, di Primo Greganti, noto alle cronache con l'appellativo di «compagno G», all'affermazione elettorale di Silvio Berlusconi e Forza Italia. «Il libro ha una visione di parte ma documentata» scrive Mauro Lusetti nella prefazione. Il volume esamina il ruolo delle coop e il sospetto di fondi versati all'estero, la zona grigia e i retroscena dell'omicidio di Pio La Torre, ma anche il ruolo dei Ciancimino nella trattativa Stato - mafia, e la guerra degli appalti; le 'faide interne al Pds e i contrasti tra le coop rosse e il movimento "La Rete" di Leoluca Orlando, fino al nuovo corso delle cooperative impegnate in Sicilia sul fronte antimafia e che gestiscono beni confiscati. «Troppo spesso la dizione "coop rosse" viene ripetuta a indicare in modo dispregiativo un'epoca ed un sistema di interessi e tangenti per finanziare la politica e il partito - aggiunge Lusetti - Questo libro dimostra, carte alla mano, con documenti storici, cronache giornalistiche e verbali di inchiesta, che tutto questo non c'è stato. E che quando c'è stato ha coinvolto individui, ma non il sistema, non la Lega delle cooperative. Racconta anche dei tentativi fatti da Legacoop e dalla sinistra per liberare l'economia dalla mafia».

MAFIA E COOP ROSSE. MISTERI, INTRIGHI E DEPISTAGGI. Un libro di Elio Sanfilippo e Nino Caleca, scrive Elisa Sanfilippo su “Giornalecittadinopress”. “Questo libro è un libro per il futuro, per i nostri figli, per i ragazzi, per precisare che tutte le cooperative hanno le carte in regola perché si possa continuare con fiducia nella lotta contro la mafia” – sono queste le parole di Nino Caleca,attuale Assessore Regionale all’Agricoltura e autore, insieme ad Elio Sanfilippo, del libro “Mafia e Coop Rosse. Misteri, Intrighi e Depistaggi”, presentato, Lunedi 1 Dicembre, presso la suggestiva cornice della Società Siciliana per la Storia Patria, in Piazza San Domenico. Presenti all’incontro il Presidente dell’ Ordine dei Giornalisti di Sicilia Riccardo Arena, il sottosegretario di Stato al ministero dell’Istruzione Davide Faraone, il presidente della cooperativa Cmc e presidente del comitato di sorveglianza Ccc Massimo Matteucci. Coordinatrice dell’incontro la giornalista Gioia Sgarlata. Il libro ripercorre, nello specifico, le vicende del movimento cooperativo, soffermandosi sulla Prima Repubblica, su tangentopoli e sull’avvento di Berlusconi. Gli autori mettono in luce, attraverso fonti e dati di estrema rilevanza, i vari tentativi di “inquinamento” ad opera di Cosa Nostra. Come ha anche sottolineato Mario Lusetti, nella prefazione al libro, l’espressione “coop rosse” troppo spesso viene utilizzata con una connotazione negativa o dispregiativa ed è proprio da questo uso inappropriato, che il libro prende avvio: dimostrare come qualsiasi legame tra il movimento cooperativo e la mafia sia del tutto anomala ed impossibile, in virtù della natura stessa del principio cooperativo, dove mezzo e fine sono coincidenti. Per Riccardo Arena “il pregio di questo libro è quello di avere guardato alle vicende giudiziarie con occhio abbastanza critico; si tratta di un lavoro complesso con una buona analisi del rapporto tra la cooperazione di sinistra (preferisco non usare l’espressione coop rosse) e il mondo imprenditoriale in generale, ma anche le organizzazioni criminali”. Inoltre, il Presidente dell’ Ordine dei Giornalisti di Sicilia, ha richiamato l’attenzione verso i verbali di Vito Ciancimino, posti in appendice al libro. Per Massimo Matteucci, invece, “il libro è testimonianza che aiuta a comprendere la gestione di una fase transitoria della storia italiana. Un analisi precisa, puntuale e allo stesso tempo articolata”. Una storia critica del movimento cooperativo fatta di traguardi, di successi, ma anche di errori e sbagli certamente evidenziati e legittimi, ma non contaminati dalla mano della mafia. Con grande enfasi e fiducia Elio Sanfilippo ha mandato, con questo libro, un illuminate messaggio ai giovani – “Il movimento cooperativo non hai mai conosciuto, non conosce e non conoscerà mai la subordinazione a Cosa Nostra. E questa è la base, il DNA del movimento cooperativo Siciliano e Nazionale”.

Coop rosse e mafia, arresti in Sicilia. Palermo: sedici ordini di custodia per gli appalti, indagati due dirigenti della Quercia. Grasso: sono i frutti dell' inchiesta di Caselli, scrivevano Felice Cavallaro e Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Nella Sicilia dei feudi, delle lotte contadine, del contrattacco all' impasto di mafia e politica, la San Cipirello-Corleone era diventata il fiore all' occhiello delle amministrazioni di sinistra. E per inaugurare quella strada ultimata cinque anni fa, si disse, liberando la Provincia dalla pressione delle cosche, senza più «pizzo» e racket, atterrò a Palermo il simbolo di Mani pulite, Tonino Di Pietro, allora ministro dei Lavori pubblici. Ma dopo il taglio dei nastri e i proclami antimafia anche su quella strada si abbatte adesso il sospetto che le cooperative rosse e gli imprenditori vicini ad alcuni deputati transitati dal Pci ai Ds si siano sporcati le mani. Da quei trenta chilometri d'asfalto al restauro del castello di Caccamo, da strade e case popolari di Partinico alle fogne di Bagheria avrebbero partecipato per vent'anni al condizionamento mafioso degli appalti anche amministratori di sinistra e «mafio-imprenditori» amici di grandi boss, a cominciare dal superlatitante Bernardo Provenzano. E' questa la gravissima accusa della Procura di Piero Grasso che ha chiesto ed ottenuto dal gip Dino Cerami la cattura di dieci persone, gli arresti domiciliari per altre sei e due avvisi di garanzia per i dirigenti siciliani della Quercia Gianni Parisi, ex segretario regionale del partito, e Domenico Giannopolo, il sindaco di Caltavuturo da alcuni anni deputato all' Assemblea regionale. Per questi ultimi il reato sfuma in un contesto che impone maggiori indagini e alla fine potrebbero risultare totalmente estranei, ma l'effetto dei provvedimenti è comunque devastante perché, come dicono Grasso e il suo aggiunto Guido Lo Forte, l'inchiesta, incardinata nel marzo '98 sotto la guida di Giancarlo Caselli, accende una luce sinistra sul «doppio gioco» dell'imprenditoria rossa. Le parole spese contro la mafia si sarebbero smorzate attorno al «tavolino» di cui ha parlato Angelo Siino, «signore degli appalti» per conto di Totò Riina. Giurava di averle viste con i suoi occhi le buste delle offerte aperte in segreto per truccare gli appalti. E hanno aggiunto i loro ricordi altri pentiti come Giovanni Brusca, Vincenzo La Chiusa e Salvatore Lanzalaco, tutti scagliati contro personaggi di casa alla Lega delle cooperative o nel quartier generale dei Ds. E' il caso di Pietro Martino, rappresentante per la Sicilia del Consorzio cooperative di produzione e lavoro, il potente Conscoop, con sede a Forlì. Ed è il caso di Tommaso Orobello, il responsabile della cooperativa «La Sicilia» di Bagheria, la città delle ville soffocate dal cemento, con consiglio comunale sciolto per mafia. E' questa la roccaforte di Nicolò Giammanco, il capo dell'ufficio tecnico da ieri agli arresti domiciliari, cugino dell'ex procuratore della Repubblica di Palermo e padre di un ingegnere già coinvolto in un'altra inchiesta con due costruttori considerati pedine dell'imprendibile Provenzano. Ma gravitano davvero tutti nello stesso calderone politico-mafioso? Accanto a Grasso e Lo Forte, ecco i giovani pm Gaspare Sturzo e Gaetano Paci, pronti a ricordare come il gruppo abbia gestito gli appalti a Partinico con il boss Giovanni Bonomo e a Caccamo con il latitante Nenè Geraci: «E se mancava l'accordo si rivolgevano a Benedetto Ferrante, il capo famiglia di San Lorenzo a Palermo». Questo sarebbe accaduto anche con la cooperativa Cepsa guidata da Raffaele Casarrubia, arrestato come Ignazio e Stefano Potestio, gli imprenditori di Polizzi Generosa, da sempre vicini al Pci-Pds, in rapporti con l'onorevole Parisi, amareggiato: «Nella mia vita ho sempre combattuto contro la mafia, ho la coscienza a posto, e aver conosciuto i Potestio non significa niente, compagni a tutti noti nel partito». Lo stesso partito in cui Pio La Torre, vittima della mafia nell' 82, s' era lanciato contro i pasticci delle cooperative rosse di Bagheria con una inchiesta interna. Un «bubbone» dai contorni rimasti sfumati.

Cooperative Rosse: cosa sono e perché sono sempre meno sociali? Scrive Kati Irrente su “NanoPress”. Con l’ultimo scandalo che riguarda una cooperativa sociale di Padova, per entrare nella quale i suoi dipendenti devono versare una somma di 4.000 euro, tornano alla ribalta le cosiddette Cooperative Rosse, società costituite per gestire in comune un’impresa. Il mondo delle coop rosse è cresciuto nel Dopoguerra per volere del Pci, che ne teneva le redini attraverso la Legacoop, nominalmente un sindacato d’impresa (come Confindustria), che si è invece rivelata essere una sorta di holding attraverso la quale la politica sceglieva strategie e manager. Ma cosa sono le Coop Rosse, nello specifico? Le cooperative nascono in origine per tutelare gli interessi dei soci, siano essi consumatori, lavoratori, agricoltori, operatori culturali. In teoria, è bene dirlo, alla base del sistema cooperativo ci sono dunque i principi di mutualità, solidarietà, democrazia. Il fatto che il sistema delle Cooperative sia da lungo tempo al centro di critiche e di polemiche deve fare riflettere. Difatti, con il passare del tempo, le cooperative sociali si sono trasformate in un meccanismo sempre meno sociale, rivolto piuttosto al profitto, al pari di una qualsiasi impresa privata, o di una banca. E a questo punto ci si chiede per quale motivo le cooperative non siano oggetto degli stessi controlli rivolti alle aziende private o agli Istituti bancari. Perchè le cooperative sono sempre meno sociali? Nel mirino c’è la Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue, talora abbreviata in Lega delle Cooperative o Legacoop, ovvero l’associazione di tutela e rappresentanza delle cooperative ad essa aderenti. Il motivo principale delle critiche verso le coop risiede nel fatto che esse godono di agevolazioni fiscali notevoli rispetto alle normali imprese. Queste agevolazioni vengono riconosciute perché le Cooperative si dichiarano essere senza scopo di lucro e dimostrano di avere scopo mutualistico. Quella che però sembra venire alla luce in questi ultimi anni è una prassi diversa: sebbene molti soci affermino che è normale pagare una cifra (talvolta anche molto alta) per associarsi, il vero problema risiede altrove, ad esempio nei contributi versati al 50%, nella non retribuzione delle ore di malattia, nella gestione non sempre corretta dei giorni sottratti al lavoro a causa di infortuni, e poi le retribuzioni orarie più basse, le 48 ore settimanali di lavoro obbligatorie contemplate dal regolamento di alcune coop, o il pagamento degli stipendi posticipati a 90 giorni. La domanda che sorge naturale a questo punto è: chi comanda le Cooperative? L’assemblea dei soci lavoratori o soltanto alcuni dirigenti? In definitiva, queste aziende mutualistiche (ma solo sulla carta), sono davvero senza scopo di lucro, o servono ad arricchire qualcuno? Dai dati ufficiali del 2009 elaborati dal Centro Studi Legacoop, le cooperative aderenti sono oltre 15000, con otto milioni e mezzo di soci, e sviluppano un fatturato attorno ai 56 miliardi di euro, dando occupazione ad oltre 485.000 persone. Gli scandali più eclatanti. L’ultimo scandalo in ordine di tempo ha coinvolto la Codess, membro della Legacoop sociali, che di norma chiede ai propri dipendenti neoassunti la cifra di 4.000 euro per divenire soci della cooperativa. Il tutto per un lavoro retribuito dai 600 ai 1.200 euro al mese. Inoltre 1000 euro devono essere versati alla Codess a fondo perduto, a titolo di tassa di ammissione soci. Qualche anno fa, invece, la Coopservice, grossa cooperativa emiliana specializzata in servizi alle imprese, in vista della quotazione in Borsa di una sua controllata costituì, tramite una fiduciaria in Lussemburgo, un tesoretto di 36 milioni di euro destinato ai vertici aziendali. Ed è proprio in Emilia Romagna, patria del Pd, e sede anche della Unipol, che l’attività della Legacoop ha il suo fulcro. Ad Argenta (Ferrara), la Coopcostruttori, facente parte della Legacoop, è naufragata nei debiti dopo essere finita sotto inchiesta con l’accusa di fare affari col clan dei Casalesi. A Milano, l’affaire EXPO ha evidenziato il ruolo giocato dalle cooperative rosse. Si guardi al gigante Manutencoop Facility Management e al suo presidente Claudio Levorato, iscritto nel registro degli indagati per concorso in turbativa d’asta e utilizzazione di segreti d’ufficio.

RITUALI D’INIZIAZIONE. I GIURAMENTI. IL GIURAMENTO DELLA MAFIA. ‘NDRANGHETA, CAMORRA, SACRA CORONA UNITA, COSA NOSTRA.

Da Wikipedia.

DI COSA NOSTRA

Punciuta. Punciuta è un termine in lingua siciliana che significa puntura e dà il nome al rito di iniziazione per i membri di Cosa nostra. L'iniziato viene condotto in una stanza alla presenza di tutti i componenti della Famiglia locale in riunione. Uno dei momenti chiave, da cui la cerimonia prende il nome, è la puntura dell'indice della mano che l'iniziato utilizza per sparare con una spina di arancio amaro o, a seconda del clan mafioso, con un'apposita spilla d'oro. Il sangue fuoriuscito viene usato per imbrattare un'immaginetta sacra a cui in seguito viene dato fuoco mentre il nuovo affiliato la tiene tra le mani e pronuncia un giuramento solenne: "giuro di essere fedele a cosa nostra. Se dovessi tradire le mie carni devono bruciare come brucia questa immagine". Successivamente, vengono ricordati al nuovo affiliato gli obblighi che dovranno essere rigorosamente rispettati: non desiderare la donna di altri uomini d'onore; non rubare agli altri affiliati; non sfruttare la prostituzione; non uccidere altri uomini d'onore, salvo in caso di assoluta necessità; evitare la delazione alla polizia; mantenere con gli estranei il silenzio assoluto su Cosa Nostra; non presentarsi mai da soli ad un altro uomo d'onore estraneo, poiché è necessaria la presentazione rituale da parte di un terzo uomo d'onore che conosca entrambi e garantisca la rispettiva appartenenza a Cosa Nostra. La descrizione più antica del rituale della "punciuta" si trova in un rapporto giudiziario della questura di Palermo risalente al febbraio 1876. Tuttavia la magistratura ha accertato come alcuni soggetti, pur non affiliati in maniera formale a Cosa Nostra attraverso il rito della punciuta, rivestano ruoli assai importanti all'interno delle Famiglie, con particolare riferimento agli imprenditori che, giustificando la propria vicinanza alla mafia con la necessità di lavorare in un contesto ambientale ostile, con la loro condotta traggono notevoli vantaggi di ordine economico e rafforzano la posizione sociale della Famiglia. Alla fine degli anni novanta alcuni analisti hanno ipotizzato che la mafia abbia scelto di ripensare i propri principi fondanti tendendo a far coincidere la struttura criminale primaria con la famiglia naturale e pertanto, per riconoscere gli affiliati, è sufficiente il solo legame di sangue senza necessità della punciuta. Tuttavia il ritrovamento della formula del giuramento e l'elenco delle regole da rispettare nel covo dei latitanti Salvatore e Sandro Lo Piccolo nel novembre 2007 nonché le indagini degli organi inquirenti e le recenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Gaspare Pulizzi, Manuel Pasta e Sergio Flamia hanno dimostrato che il tradizionale rito della punciuta persiste ancora oggi.

DELLA ‘NDRANGHETA

Riti della 'Ndrangheta. « Davanti alla gran curti non si parra, pochi paroli e cull'occhiuzzi 'nterra, l'omu chi parra assai sempre la sgarra! Culla sua stessa lingua s'assutterra » Antico detto della 'Ndrangheta). I riti della 'ndrangheta sono dei cerimoniali necessari per poter essere ammessi all'organizzazione criminale. Essa, in quanto società segreta, nell'arco della sua storia ha sviluppato molti riti per ogni occasione. Inoltre è l'unica delle organizzazioni criminali di stampo mafioso operanti in Italia ad aver mantenuto i riti che la contraddistinguevano nel passato. Essi tramandati o oralmente o tramite dei codici, i quali sono stati rinvenuti varie volte dalle forze dell'ordine, o anche tramite audiocassette o CD in forma musicale autoprodotta. Prima dei codici l'unica modalità per la comunicazione delle leggi e riti della società era solo la via orale ed era anzi vietato metterle per iscritto per il pericolo che le forze dell'ordine ne potessero entrare in possesso. Già, alla fine dell'Ottocento, però questa regola viene a cadere con il ritrovamento dei primi codici. Essi, il primo supporto nel quale scrivere i riti di affiliazione e promozione e comportamento, nonché di memorizzazione della terminologia in uso. Il primo codice ritrovato è stato quello di Nicastro nel 1888, il secondo quello di Seminara nel 1896 e il terzo, un codice sequestrato a Catanzaro nel 1902. Nel 1926 e nel 1927 vengono sequestrati rispettivamente a Platì e Gioiosa Jonica altri 2 codici. Nel 1963 vengono scoperti il codice di San Giorgio, nell'abitazione del capobastone Angelo Violanti il codice di Sant'Eufemia, e il codice di Gioia Tauro. Nel 1971 si trova il codice di Toronto e nel 1975 il codice di Presinaci. Il 27 ottobre 1980 viene sequestrato a Giralang in Australia, un codice per il rituale di sgarro a Domenico Nirta (nato il 27 novembre 1934). Nel giugno 1987, viene ritrovato a Pellaro a casa dello ndraghetista Giuseppe Chilà il primo codice riguardante i riti della Santa. Nel dicembre del 1987 viene sequestrato a Nailsworth Building un codice per il rituale di camorra di Raffaele Alvaro (nato il 7 dicembre del 1931). Nel 1989 viene preso al capobastone Giuseppe Chilà il codice di Reggio Calabria, in cui sono descritte la società di sgarro, e le doti di santa e vangelo. Nel 1990, i codici di Rosarno, Lamezia Terme e Vallefiorita. Questi codici erano e sono imparati a memoria dagli affiliati. Nel 2013, dopo l'arresto a Roma di Gianni Cretarola accusato dell'omicidio di Vincenzo Femia, gli agenti trovano nella sua abitazione tre fogli scritti a mano in un codice composto da lettere greche, latine e simboli particolari. Una volta decifrato si è scoperto essere un codice di 'ndrangheta, tra cui il rito di battesimo. La leggenda della nascita della 'ndrangheta. Per l'origine mitica della 'ndrangheta viene fatto riferimento a tre cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che in tempi lontani per vendicare l'onore della sorella uccidono un uomo e per questo vengono condannati a 29 anni, 11 mesi e 29 giorni di carcere nell'Isola di Favignana. Al termine del periodo di detenzione maturarono quelle regole di onore e omertà che costituiscono il codice della "società" e contraddistingueranno le future organizzazioni criminali mafiose italiane e si dividono: Osso fonderà Cosa Nostra in Sicilia, Mastrosso la 'ndrangheta in Calabria e Carcagnosso la Camorra a Napoli. L'albero della Scienza e il Giardinetto. "L'albero della scienza è una metafora di come è strutturata la società, da un codice rinvenuto durante un rito di affiliazione rivela che l'albero della Scienza è diviso in 6 parti: « Il fusto rappresenta il capo di società; il rifusto il contabile e il mastro di giornata; i rami i camorristi di sangue e di sgarro; i ramoscelli i picciotti o puntaioli; i fiori rappresentano i giovani d'onore; le foglie rappresentano la carogne e i traditori della 'ndrangheta che finiscono per marcire ai piedi dell'albero della scienza". » (Un codice di 'Ndrangheta).  Alla base dell'albero è rappresentata anche una tomba per simboleggiare la fine delle foglie. La ‘ndrina, afferma Malafarina nel Il codice della 'Ndrangheta viene rappresentata come un giardinetto di rose e fiori con in mezzo una stella dove si battezzano picciotti, camorristi e giovani d’onore. Il picciotto entra nel “giardinetto” a fronte scoperta con i ferri alle braccia ed i piedi alla tomba.

Battesimo del Locale e Formazione della società. Il battesimo del Locale è un rito facoltativo che si fa a discrezione del capo-società, colui che presiede la riunione e consiste nella purificazione del Locale. Precede il rito obbligatorio della formazione della società. Il rito si consuma mediante questa formula:

«Capo-Società: Buon vespero. Saggi compagni

Gli altri: Buon vespero

Capo-Società: State accomodi per battezzare questo locale?

Gli altri: Stiamo accomodi

Capo-Società: A nome dei nostri vecchi antenati, i tre cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, battezzo questo locale se prima lo riconoscevo per un locale che bazzicavano sbirri e infami, da ora in poi lo riconosco per un luogo sacro santo e inviolabile dove può fermare e sformare questo onorato corpo di società.».

Una variante dell'ultima frase del capo-società trovata nella zona di Rosarno è:

«Io battezzo questo locale sacro santo e inviolabile come l'hanno battezzato i tre vecchi cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, se prima lo conoscevo come un locale di transito e passaggio da ora in poi lo riconosco per un locale battesimale dove si battezzano picciotti, giovani d'onore e camorristi.»

Con la formula di Formazione della società incomincia qualsiasi riunione di 'Ndrangheta che riguardi qualsiasi attività del Locale.

«Capo-Società: Buon vespero

Gli altri: Buon vespero

Capo-Società: Siete conformi?

Gli altri: Siamo conformi.

Capo-Società: Su che cosa?

Gli altri: Sulle regole di società

Capo-Società: Nel nome dell'arcangelo Gabriele e di Sant'Elisabetta, circolo di società è formato. Ciò che si dice in questo circolo a forma di ferro di cavallo, qua si dice e qua rimane, chi parla fuori da questo luogo è dichiarato tragediatore a suo carico ed a discarico di questa società.».

Una formula differente di Rosarno è:

«Capo-Società: Buon vespero

Gli altri: Buon vespero

Capo-Società: Siete conformi?

Gli altri: Siamo conformi.

Capo-Società: Calice d'argento, ostia consacrata, parole d'omertà è formata società»

Successivamente i presenti si baciano la mano e poi si siedono a braccia conserte per tutta la durata della riunione ad eccezione del capo-società. Ora la riunione può incominciare.

La riunione al Santuario della Madonna di Polsi. « BUON VESPERO siete conformi !!! sù di chè a batezzare societa conformissimo batezzo e ribatezzo questa società così come la batezzarono i nostri tre fondatori: conte qulino, conte rosa e cavaliere di spagna se loro lo batezzarono con fiori rosa e gelsomini alla mano destra io lo batezzo con fiori rosa e gesolmini ala mano destra se loro lo batezzarono con ferri catene e camicia di forza io lo batezzo con ferri catene e camicia di forza se prima questo locale era transitato da sbiri carogne infami e tragediatori da questo momento lo conosco come un posto sacro santo e inviolabile e con parola d'umiltà e batezzata località»

Rito di iniziazione o Battesimo. L'iniziato nella 'Ndrangheta si chiama contrasto onorato quando diventa Picciotto d'onore deve compiere il rito di battesimo (o anche rito di rimpiazzo o rito di taglio della coda), nome preso dalla tradizione cristiana che lo farà entrare nella onorata società. Un affiliato, il quale garantisce per lui con la vita, lo presenta davanti agli altri componenti della 'ndrina che devono essere almeno 5 più un anziano della famiglia che celebrerà il rito. In carcere può capitare di non essere nel numero prestabilito, e dalla confessione recente di Vincenzo Femia, rivela che per il suo battesimo nella calzoleria del Carcere di Sulmona le persone mancanti furono rappresentate da fazzoletti annodati. Il capobastone dirà:Calice d’argento, ostia consacrata, parole d’omertà è formata la società. Il Contrasto Onorato presentato dal suo garante al Capo-Società che affermerà: «Prima della famiglia, dei genitori, dei fratelli, delle sorelle viene l’interesse e l’onore della società, essa da questo momento è la vostra famiglia e se commetterete infamità, sarete punito con la morte. Come voi sarete fedele alla società, così la società sarà fedele con voi e vi assisterà nel bisogno, questo giuramento può essere infranto solo con la morte. Siete disposto a questo?» (Codice della 'Ndrangheta). Il contrasto onorato è anche chiamato a giurare nel nome di «nostro Signore Gesù Cristo. Dovrà giurare con la figura di San Michele Arcangelo tra le sue mani mentre brucia e dovrà pronunciare: Io giuro dinanzi a questa società di essere fedele con i miei compagni e di rinnegare padre, madre, sorelle e fratelli e se necessario, anche il mio stesso sangue.»

Oppure un'altra variante: «Giuro su questo pugnale e su questa tomba, larga e profonda al livello del mare, dove nessuno la potrà scoprire, di essere fedele coi miei compagni e tutti saggi mastri. Di non trasgredire le regole sociali e di essere sempre pronto ad ogni chiamata dell’Onorata Società».

In casi particolari come il carcere basterà compiere il rito pungendosi il dito per l'"offerta di sangue" e bere il proprio sangue senza bruciatura del santino. Avviene poi lo scioglimento della Società cioè la riunione: «Capo-società: Da questo momento abbiamo un nuovo uomo d'onore, Società ha formato, il circolo è sciolto. Buon vespero. Gli altri: buon vespero.»

Rito per la dote di camorrista:

« D: Che cosa rappresenta un camorrista?

R: Un camorrista rappresenta un leone legato con una catena di 24 maglie e 25 anelli che non si può distaccar senza l'ordine della società.

D: Fatimi grazia saggio compagno, dove risiedono capo e contabile?

R: Alto saggio compagno, capo e contabile risiedono in mezzo ad una isoletta in mezzo al mare con una camicia di forza e ferri e catene che combattono e ricombattono per non essere ribattuti da altri capi società.

D:Che cosa rappresenta la camorra?

R:La camorra rappresenta una palla di sangue che gira in tutto il mondo e per ogni 24 ore compie il suo giro.

D:Quanto vale un camorrista?

R:Un camorrista vale quanto una piuma d'oro esposta al vento.

D:Che cosa rappresenta un camorrista a circolo formato?

R:Un camorrista a circolo formato rappresenta un giudice che in quel momento giudica e da quel momento in avanti può essere giudicato.

D:Da che cosa è formato un camorrista?

R:Un camorrista è formato duro come il ferro, forte come la seta, leggero come una penna lasciata al vento.

D:Quanto pesa un camorrista?

R:Un camorrista pesa quanto una pinna abbandonata al vento e vale quanto l'oro di tutta la Francia.

D:Quanto mangia un camorrista?

R:Un camorrista mangia quanto un cardellino affamato, sta zitto o si piomba come una palla che gira e batte di qua e di là perché che deve essere come una molla spirali che sempre ritorna e non può stare mai ferma.

D:Fatimi grazia saggio compagno, come vi hanno battezzato camorrista?

R:Alto saggio compagno, a me mi hanno battezzato senza cappello e senza camicia a mezzo busto come l'Angelo.

D:Che cosa avete visto?

R:Un tavolo di noce finissima con un damasco d'oro di seta finissima con cinque armature, quattro pari e una dispara che rappresentava il capo della società.

D:Perché rappresentava lui il capo della società? Perché era più grosso e più malandrino degli altri?

R:No, non era né più grosso né più malandrino, poiché in quel momento aveva due cariche speciali e inviolabili che era stata eletta di tutti noi camorristi come un padre in una famiglia.

D: Dove vi hanno battezzato?

R:Sopra un monte dove vi era un giardino di rose e fiori e c'erano i nostri 3 fratelli e cavalieri Osso Mastrosso e Scarcagnosso convenzionati per la mia consacrazione.

D:Come son vestiti i camorristi a società formata?

R:I camorristi a società formata devono essere vestiti di verde di rosso e di bianco.

D:Perché devono essere vestiti di verde di rosso e di bianco?

R:Perché rappresentano il simbolo della società.

D:E in società sformata come sono vestiti?

R:Di bianco, perché rappresentano l'onore.

D:Parlo con voi saggio compagno, di grazia dove risiede la camorra?

R:Sulla più alta montagna della Spagna dove l'ho vista l'ho servita e l'ho lasciata per non essere scoperto dalla sbirraglia.

D:Fatemi grazia saggio compagno, come avete fatto per giungere alla fonte battesimale?

R:Alto saggio compagno, per essere battezzato e reso fedele presso le fonti battesimali ho lottato con due leoni inferociti e così sono entrato.

D:Fatimi grazia saggio compagno, che cosa avete visto?

R:Ho visto un corridoio formato di finissimo marmo una grande stanza illuminata ed un grosso leone incatenato con una catena di 24 maglie e 23 anelli.

D:Fatimi grazia come avete fatto a entrare nella stanza?

R:Per passare mi sono imposto al grosso leone a nome del nostro severissimo San Michele Arcangelo e mi ha fatto passare.

D:Chi era quel grosso leone?

R:Era il nostro vecchio cavaliere venerando che ivi stava per impedire l'ingresso a tutti quelli che non erano battezzati presso le fonti battesimali e così sono passato.

D: Che cosa avete visto dentro la stanza?

R:Ho visto un tavolo rotondo coperto con un damasco di purissima seta e due calici d'oro finissimo ed io sono andato per prendere diritti e disposizioni ma da una voce mi sento chiamare non so perché e non so cosa fare per rispondere per regole sociali. » (Documento ritrovato a Stefanaconi nel 1975.)

Il rito di passaggio a camorrista avviene prima elencando da parte di un affiliato le sue qualità positive e da un altro affiliato le qualità negative, questa operazione è definita Contraddittorio. Dopo avviene la Pungitina cioè il giuramento di sangue. Si punge l'indice della mano destra del picciotto dimodoché delle gocce di sangue cadano sulla figura di santa Annunziata e poi le si dà fuoco. Alla funzione è presente anche il contabile dell'organizzazione (chi gestisce la parte economica di un Locale).

Formula di perquisizione:

«Mastro di Giornata: Buon Vespero state conformi a sequestrare queste armature?

Tutti: Siamo conformi.

Mastro di Giornata: Se prima mi riconoscevo per un mastro di giornata da questo momento mi conoscerete per un poliziotto d'omertà che fa il suo dovere in società formata. Chi ha armature che le tirasse fuori.

Mastro di Giornata: Ora che sono sequestrate qualsiasi armatura, guai a chi trovo specchi, coltelli e rasoi, verrà praticato con due e tre zaccagnate (coltellate) nella schiena, come è prescritto dalla regola sociale, con una mano mi ribasso e con un'altra vi passo le pulci.»

Formazione della società:

«Capo società: Buon Vespero saggi compagni.

Tutti:Buon vespero.

Capo società: Siete accomodi per formare società di sgarro?

Tutti: accomodissimi.

Capo società: Con bastone d'oro e pomello d'argento stella mattutina che forma a ciampa di cavallo società criminale e 'ndrina con parole d'uomo e parole d'omertà è formata società. A nome di Minofrio, Mismizzu e Misgarru è formata la società di sgarro.»

Promozione a sgarrista:

«Capo società: A nome di Minofrio, Mismizzu e Misgarru passo alla prima votazione su <nome camorrista> Se prima lo riconoscevo come camorrista di sangue da questo momento lo riconosco per uno sgarrista fatto a voce appartenente e non appartenente a questo corpo di società sacra santa e inviolabile. »Si procede poi al taglio della testa della figura di San Michele Arcangelo e poi la si brucia e si fa una croce col coltello sul pollice del camorrista.

Formula di battesimo finale:

«A nome di Minofrio, Mismizzu e Misgarru che gli hanno tagliato la testa a San Michele Arcangelo perché è stato molto severo nella sua spartizione e il suo corpo è stato sepolto sotto due pugnali incrociati, la sua testa è stata bruciata e con la sua cenere ti battezzo e ti consacro sgarrista. Se prima lo riconoscevo come sgarrista non consacrato, adesso lo riconosco sgarrista battezzato e consacrato. Io mangerò con lui centesimo, millesimo e soldo della baciletta, gli difenderò carne sangue pelle e ossa fino all'ultima goccia del mio sangue se raggiri porta macchia donerò infamità a carico suo e a scarico della società.»

Santa. I protettori della Santa e dei santisti sono: Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e Alfonso La Marmora. Il santista viene riconosciuto da una croce grande pochi millimetri fatta con una lama su una spalla.

Rito per la dote di Vangelo. Si procede con una prima votazione:

«Capo società: Saggi fratelli siamo pronti per la federizzazione?

Tutti: prontissimi.

Capo società: A nome di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre e di Nostro Signore Gesù Cristo passo la prima votazione sul conto del nostro fratello <nome santista> . Se fino adesso era un uomo riconosciuto alla Santa/sacra corona adesso lo riconosciamo per un nostro fratello non ancora riconosciuto e federizzato.»

C'è poi una seconda votazione con formula conclusiva: «A nome di Gasparre, Melchiorre e Baldassarre e di Nostro Signore Gesù Cristo passo alla seconda votazione. Se fino adesso era riconosciuto fratello non ancora appartenente, adesso lo riconosciamo appartenente e non federizzato.»

Poi gli si incide su una spalla una croce e il neo-vangelista recita quest'altra formula:«Giuro sopra questa arma e di fronte a questi fratelli di non partecipare a nessuna società e a nessuna organizzazione tranne al Sacro Vangelo, giuro di essere fedele dividendo sorte e vita con i miei fratelli.»

Si arriva all'ultima votazione. «A nome di Gasparre, Melchiorre e Baldassarre e di noi tutti saggi fratelli presenti e assenti si passa alla terza e ultima votazione. Al nuovo fratello amato e abbracciato, federizzato e baciato con giuramento già fatto e con la croce sulla spalla sinistra giurando con lui di essere fedele con gioia e sangue.»

Infine si scioglie la società di Vangelo: « A nome di Gasparre, Melchiorre e Baldassarre in questo sacro giorno e con la luce del cielo, noi saggi fratelli cavalieri d'onore sformiamo il sacro vangelo.»

Riti per la dote di Trequartino, Quartino e Padrino. Qui sotto sono elencante le frasi di rito intercettate per l'assegnazione di queste tre doti.

Quartino: «A nome del principe russo, conte leonardo e fiorentino di Spagna, con spada e spadino è formato il Quartino».

Trequartino: «A nome di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, giuro sulla punta dello spadino, hanno formato il Trequartino.»

Variante: «A nome di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre e Carlo Magno, giuro sulla punta dello spadino, hanno formato il Trequartino.»

Padrino: «A nome del principe russo, conte leonardo e fiorentino di Spagna, con spada e spadino è formato il Padrino.»

Riti per la dote di Crociata e Stella. Qui sotto c'è un frammento di intercettazione con una frase del rito per l'assegnazione della dote di Crociata. «A nome di Conte Aquilino che ha camminato tredici anni, tredici mesi e tredici giorni, ha varcato Gerusalemme, si prese la spada … Cavalieri di crociata.»

Qui sotto c'è un frammento di intercettazione con una frase del rito per l'assegnazione della dote di Stella. «Dal cielo e nel mare il nostro Signore Creatore è formata la stella polare.»

Riti di punizione:

Spennellata di escrementi

Zaccagnata del liccasapuni

Cappotto di legno

L’utri ca’ fossa, Omicidio a causa di tradimento.

Segnali e segni di riconoscimento  (Il segno di un picciotto):

Berretto alla storta (Come scritto nel codice australiano di Raffaele Alvaro degli anni ottanta.

Dopo dei riti di assegnazione di una dote, il rituante deve dare al capo-società una stretta di mano e un bacio (sulla fronte o sulla guancia)

Terminologia:

Baciletta: metaforicamente è il nome della cassa comune di una Locale.

Carduni: è ogni persona al di fuori dell'organizzazione e che non è neanche contrasto onorato, ovvero persona vicina all'organizzazione ma non affiliata.

Stipatu: messo da parte in attesa di una decisione definitiva; in passato c'era anche lo stipatu cu sfregiu, sospeso con uno sfregio nel volto per far sapere a tutti del suo comportamento deviato.

Colpe. La classificazione delle colpe:

Trascuranza: La trascuranza è una colpa lieve, quando una persona non ha fatto abbastanza attenzione. La trascuranza può determinare un processo, che delibera un'assoluzione.

Sbaglio: la condanna per uno sbaglio è sempre la morte.

Tragedia: succede quando un affiliato dice falsità all'interno dell'organizzazione per trarre profitto personale.

Macchia d'onore: è un comportamento indegno di un affiliato o di un suo parente.

Infamità: è un colpa gravissima dell'affiliato che tradisce.

Svincolo. A nome di San Michele Arcangelo lu fiuri fiuri di li malandrini chi porta spati spatini e bilancini in manu chi taglia e rintaglia in carne pelle e ossa, così vi rintglio io, punti, favella, tragenza e cica in bocca, a nome della Santissima Annunziata la mia favella e libera e la vostra è vincolata. C'è una barchetta in mezzo al mare cu tri valenti marinari chi spartinu e dividinu diritti e reguli sociali ho un frustino di noce fino finissimo che galleggia nel mare; sono un vero camorrista e non mi potete rintagliare.

D: Che cosa rappresenta la camorra a mano vostra?

R: È come l'ostia consacrata a mano del sacerdote che morire si ma abbandonarla mai.

D: Quando vi hanno rimpiazzato che cosa avete visto?

R:Un tavolino in noce fino finissimo con una tovaglia di seta rossa fina finissima quattro armature pari e una dispara.

D:Come avate fatto a scoprire che nel mondo esiste la malavita?

R: Era una bella mattina di sabato, spunta e non spunta il sole quando mi feci una passeggiata in una larga ed aperta campagna dove incontrai una donna vestita di nero che splendeva più del sole; l'ho salutata ed ho domandato come mai signora sola in questi luoghi? Alto giovanotto non sono sola bensì aspetto il nostro severissimo Salvatore. E chi è questo nostro severissimo Salvatore? Avrei l'onore conoscerlo. Attendete fra poc sarà qui, ed è il nostro vecchio cavaliere cammorristiale che per ben 24 anni ha camminato sotto le celle della Favignana. Quando ad un tratto vidi arrivare un cavaliere con una cavallina bianca sellatura d'oro brigliatura d'argento palma nelle dita così ho fatto a scoprire che nel mondo esisteva la malavita.

D: Come siete entrato nella società?

R: a braccia conserte, tallone unito e l'angiolino.

Durante il giuramento per il conferimento della Santa, registrato dai Carabinieri nell’operazione della Dda di Milano in Lombardia che ha portato all’arresto di 40 presunti ‘ndranghetisti, si fa riferimento a Mazzini, Garibaldi e La Marmora. Garibaldi, nella ricostruzione degli investigatori, rappresenta il capo del Locale di ‘ndrangheta (l’organizzazione locale), Mazzini il contabile e La Marmora riveste invece la carica di “236 mastro di giornata”, tra le più alte dell’associazione. Nei video i segreti del giuramento alla ‘ndrangheta, ma anche le soluzioni estreme in caso di “errori” di grande entità. Recitati parte in italiano e parte in dialetto le parole sono comunque raccapriccianti. Nel video, registrato dagli investigatori a Castello di Brianza, in provincia di Lecco, si sente e si vede:  “Buon Vespero e Santa sera ai Santisti”, iniziano a recitare, “Giustappunto questa santa sera nel silenzio della notte e sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna, formo lasanta catena! Nel nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora con parole di umiltà formo la santa società. Dite dopo di me: Giuro di rinnegare tutto fino alla settima generazione, tutta la società criminale da me fino ad oggi riconosciuta per salvaguardare l’onore dei miei saggi fratelli. Nel nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora, passo la mia prima, seconda, e terza votazione su … Se prima lo conoscevo come un saggio fratello fatto e non fidelizzato, da questo momento lo conosco per un mio saggio fratello. Sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna sformo la santa catena. Nel nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora con parole di umiltà è sformata la santa società”.

LE REGOLE DI CHI SGARRA. Nel segno del “Noi non possiamo mai cambiare”, quasi a sancire una immutata condizione che dura da sempre, i membri delle ‘ndrine spiegano ai nuovi affiliati, come ognuno sia il giudice di se stesso e come, in caso di “trascuranza grave” ci si debba comportare. “Fino a ieri – spiegano – appartenevi alla società criminale. Per quanto riguarda la ‘ndrangheta fino a ieri eravate completo. Oggi state prendendo un’altra stada. Devi essere armato. Dovete rinnegare tutto quello che conoscevate fino a ieri. Qua ci sono due strade: la montagna … il monte santo …Oggi, da questo momento in avanti, non vi giudicano gli uomini, vi giudicate da solo. Ci sono due alternative: se nella vita commetterete una trascuranza grave, non devono essere i vostri fratelli a giudicarvi. Dovete essere voi a sapere che avete fatto la trascuranza e scegliete voi la strada da seguire. Il giuramento del veleno: una pastiglia, c’è una pastiglia il cianuro. O vi avvelenate o prendete questa che spara. Dei colpi in canna ne dovete riservare sempre uno. Quello è per voi. Se vi chiedono: Scusate di chi siete figlio? Vostro padre chi è? Voi gli rispondete: mio padre è il sole, mia madre è la luna.

LA SACRA CORONA UNITA

La Sacra corona unita è un'organizzazione criminale italiana di connotazione mafiosa che ha il suo centro in Puglia e che ha trovato negli accordi criminali con organizzazioni dell'est europeo la sua specificità per emergere e distaccarsi dalle altre mafie italiane. Ha raggiunto il suo apice tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta del XX secolo; successivamente all'intervento dello Stato, e a un gran numero di arresti, è stata notevolmente indebolita e marginalizzata tanto che numerosi analisti la considerano sconfitta.

Etimologia. Il nome di questa organizzazione è formato da 3 parole:

sacra: poiché quando si affilia un nuovo membro all'organizzazione questo viene "battezzato" o "consacrato", come un sacramento religioso;

corona: poiché nelle processioni si usa il rosario (o "corona");

unita: come sono uniti e forti "gli anelli di una catena".

Storia. Origini. Nel 1981 il boss camorrista Raffaele Cutolo, affidò a Pino Iannelli e Alessandro Fusco il compito di fondare in Puglia un'organizzazione diretta emanazione della Nuova camorra organizzata che prese il nome di Nuova camorra pugliese (Società foggiana). Questa associazione prese piede soprattutto nel foggiano a causa della vicinanza territoriale e dei contatti preesistenti tra esponenti della malavita locale e i camorristi campani. Tuttavia questa iniziativa venne vista con sospetto dai malavitosi di altre zone della Puglia. Come risposta al tentativo di Cutolo di espandersi in Puglia, si tentò di dar vita ad un'associazione malavitosa di stampo mafioso formata da esponenti locali. Si ritiene che la Sacra corona unita sia stata fondata da Giuseppe Rogoli nel carcere di Trani la notte di Natale dell'anno 1981. Giuseppe Rogoli era già affiliato alla 'Ndrangheta (nella 'ndrina dei Bellocco di Rosarno) e chiese il permesso al capobastone Umberto Bellocco di formare una 'Ndrangheta pugliese. Nel 1987 Rogoli affidò a Oronzo Romano e Giovanni Dalena la costituzione di un'altra 'ndrina nel sud barese chiamata La Rosa, sempre con il consenso della 'Ndrangheta. L'attività di gestione degli enormi flussi di denaro derivanti dalle attività illecite fu affidata a Nicola Murgia che fu per questo motivo soprannominato "il cassiere" dalla Direzione Investigativa Antimafia. Il braccio destro di Rogoli fu Antonio Antonica, primo affiliato di Rogoli a causa dell'antica amicizia nonché personaggio di spicco della malavita mesagnese. A causa dello stato di detenzione di Rogoli, Antonio Antonica era stato nominato responsabile unico delle attività illecite che si svolgevano nell'area brindisina. Antonica ebbe il compito anche di nominare alcuni capi zona della provincia di Brindisi. Con le prime scarcerazioni il numero degli affiliati aumentò e ognuno pretendeva la sua parte di guadagno. Antonica sentiva il peso dell'organizzazione tutto sulle sue spalle ed ebbe una discussione con Rogoli che gli negò il permesso di trafficare droga. Antonica, così, preferì abbandonare Rogoli e creare un clan contrapposto. Questo comportò l'inizio di una guerra lunga tre anni di conflitti e sgarri che portò alla sua uccisione. Iniziò la rifondazione della Sacra corona unita partendo dalle modalità di affiliazione, con regole più rigide e severe. Così nel carcere di Trani nacque la Nuova sacra corona unita il cui statuto sarebbe stato firmato oltre che da Rogoli, da Vincenzo Stranieri di Manduria da Alberto Lorusso e da Mario Papalia legato a Cosa nostra. Nel 1987 la Sacra corona unita era composta dalle famiglie più rappresentative del brindisino guidate da Salvatore Buccarella, Alberto Lorusso, Giovanni Donatiello, Giuseppe Gagliardi e Ciro Bruno e da qualche propaggine nella provincia di Taranto. Alla lunga proprio il gran numero di cosche contribuirà ad un altro periodo di tensione all'interno dell'organizzazione tra brindisini e leccesi. Lo schieramento brindisino della Sacra corona unita, con Salvatore Buccarella e Giovanni Donatiello, è stato quello che dimostrò nel corso degli anni una maggiore compattezza, finché non è stato colpito da una pesante offensiva giudiziaria.

«Giuro su questa punta di pugnale bagnata di sangue, di essere fedele sempre a questo corpo di società di uomini liberi, attivi e affermativi appartenenti alla Sacra corona unita e di rappresentarne ovunque il fondatore, Giuseppe Rogoli»

(Giuramento)

«Giuro sulla punta di questo pugnale, bagnato di sangue, di essere fedele a questo corpo di società formata, di disconoscere padre, madre, fratelli e sorelle, fino alla settima generazione; giuro di dividere centesimo per centesimo e millesimo per millesimo fino all’ultima stilla di sangue, con un piede nella fossa e uno alla catena per dare un forte abbraccio alla galera.»

2. Giuramento)

«Giuro su questa punta di pugnale bagnata di sangue, di essere fedele sempre a questo corpo di società di uomini liberi, attivi e affermativi appartenenti alla Sacra corona unita e di rappresentarne ovunque il santo, san Michele Arcangelo »« Giuro su questa punta di pugnale bagnata di sangue, di essere fedele sempre a questo corpo di società di uomini liberi, attivi e affermativi appartenenti alla Sacra corona unita e di rappresentarne ovunque il santo, san Michele Arcangelo

(3. Giuramento)

La SCU è divisa in 47 clan, autonomi nella propria zona ma tenuti a rispettare interessi comuni a tutti i circa 1.561 affiliati della Sacra corona unita. Si tratta quindi di un'organizzazione orizzontale per molti versi simile a quella della 'Ndrangheta.

Gerarchia. Il primo grado è la "picciotteria", il successivo il "camorrista", cui seguono sgarristi, santisti, evangelisti, trequartisti, medaglioni e medaglioni con catena della società maggiore. Otto medaglioni con catena compongono la "Società segretissima" che comanda un corpo speciale chiamato la "Squadra della morte". Bisogna specificare che questa piramide di ruoli ha un valore soprattutto simbolico: spesso il potere detenuto dal singolo affiliato non corrisponde in realtà alla sua posizione nella gerarchia formale.

LA CAMORRA

Nuova Camorra Organizzata. La Nuova Camorra Organizzata (conosciuta anche con l'acronimo N.C.O.) è l'organizzazione camorristica creata da Raffaele Cutolo, boss dei boss della camorra, negli anni settanta del XX secolo in Campania. Si ingrandì enormemente agli inizi degli anni ottanta coinvolgendo gli altri clan di camorra in sanguinose guerre. Fu soppiantata dalla Nuova Famiglia, una confederazione di clan creata ad hoc da boss quali Michele Zaza, i fratelli Ciro e Lorenzo Nuvoletta ed Antonio Bardellino (affiliati a Cosa Nostra), e da altri capi-banda camorristi (Carmine Alfieri, Luigi Giuliano, Pasquale Galasso). La NCO fu considerata estinta alla fine degli anni ottanta, quando molti dei boss furono uccisi o arrestati.

Storia. I primi anni. Il fondatore di questa organizzazione è Raffaele Cutolo, detto anche "il sommo" o "il professore" (in napoletano: o' prufessòre), nato a Ottaviano, piccolo centro alle porte di Napoli, ai piedi del Vesuvio. Il professore conosce da giovane le sbarre del carcere per un omicidio commesso nel 1963, ma trasforma la carcerazione nel suo trampolino di lancio. L'organizzazione nacque nel padiglione Milano del carcere di Poggioreale a Napoli all'inizio degli anni settanta, per iniziativa di Cutolo e di vari compagni di cella tra cui Raffaele Catapano, Pasquale D'Amico e Michele Iafulli. Cutolo si ispirò, inizialmente, ai rituali della Bella Società Riformata, l'organizzazione camorristica napoletana di inizio Ottocento, e della Confraternita della Guarduna, associazione criminale spagnola del XVII secolo. Uno dei documenti audio ritrovati che testimoniano questi rituali è il cosiddetto "giuramento di Palillo", un giuramento cerimoniale di iniziazione registrato su audiocassetta sequestrato a Giuseppe Palillo, affiliato di Cutolo, al momento del suo arresto. La cassetta conteneva suoni e canzoni e un lungo monologo. La voce non fu riconoscibile in maniera chiara, essendo l'audio di pessima qualità, ma tutto lasciava pensare che fosse quella dello stesso Cutolo. La cerimonia veniva definita, nel gergo camorristico, "battesimo", "fedelizzazione" o "legalizzazione." L'apertura del monologo si soffermava sul valore dell'omertà: Omertà bella come m'insegnasti, pieno di rose e fiori mi copristi, a circolo formato mi portasti dove erano tre veri pugnalisti. La storia che segue racconta dei camorristi spagnoli che, dopo essere stati esiliati dalle loro terre, giunsero in Campania, in Calabria, in Sicilia e in Sardegna dove fondarono una "società divina e sacra". Dopo una nuova dispersione, fu trovato l'accordo per la definitiva riconciliazione nelle stanze del castello di Ottaviano, luogo che per Cutolo aveva da sempre avuto un valore simbolico. Fino a quando sette cavalieri raccolsero il potere della società e lo consegnarono a Cutolo. Seguiva poi la descrizione della cerimonia con il taglio sul braccio e il patto di sangue per rendere effettiva la "fedelizzaizone". Tra i passaggi più significativi del giuramento di Palillo, documento esemplare degli ideali di tutta la controcultura criminale cutoliana, che faceva leva sulla disoccupazione dilagante e sulle ingiustizie sociali, vi era il seguente, che suonava profetico e al tempo stesso cupo e minaccioso nei confronti degli stessi affiliati: «Un camorrista deve sempre ragionare con il cervello, mai con il cuore... Il giorno in cui la gente della Campania capirà che vale più un tozzo di pane libero che una bistecca da schiavo, quel giorno la Campania ha vinto veramente... Noi siamo i cavalieri della camorra, siamo uomini d'onore, d'omertà e di sani princìpi, siamo signori del bene, della pace e dell'umiltà, ma anche padroni della vita e della morte. La legge della camorra a volte è spietata, ma non ti tradisce.» La formula d'apertura era: "Con parole d'omertà è formata società". Il giuramento finale era: "Giuriamo di dividere con lui gioie, dolori, sofferenze... però se sbaglia e risbaglia ed infamità porta è a carico suo ed a discarico di questa società e responsabilizziamo il suo compare di sangue". L'elenco di tutti i "fidelizzati" sarebbe poi stato conservato presso una delle stanze del castello di Ottaviano, nascosto in una nicchia nella parete e tenuto in cura dalla sorella di Cutolo, Rosetta. La ritualità è stata sempre di rilievo nelle organizzazioni criminali. In particolare, nell’ambito della Nuova Camorra Organizzata, Cutolo aveva predisposto un suggestivo “giuramento di sangue”. Il rito cominciava con il “battesimo” del luogo in cui veniva svolto il giuramento, pronunciando le seguenti parole: “Battezzo questo locale come lo battezzarono i nostri tre vecchi antenati. Se loro lo battezzarono con ferri e catene, io lo battezzo con ferri e catene. Alzo gli occhi al cielo, vedo una stella volare, è battezzato il locale”. Dopo il rito continuava: “Tengo cinque damigelle alla mia destra, cinque bei fiori alla mia sinistra, una ciampa di cavallo alla romana che forma società divina e sacra. Cade una stella, scende una belata: con parole d’omertà, è formata società. Quanto pesa un picciotto? Quanto una piuma sparsa al vento. Cosa rappresenta un picciotto? Una sentinella d’omertà che gira e rigira sette cantoni e che quello che vede e che sente lo porta in ballo alla società”. Poi, come ricorda Francesco De Simone, seguono taluni atti simbolici quali un’incisione che il padrino compie col coltello sulla punta del dito indice destro dell’iniziato e sul suo dito indice, toccandosi col sangue. Un abbraccio fra “cumpare” e “cumpariello”, fra padrino e figlioccio, suggella la fine del rito iniziatorio. Al vertice del gruppo c'è ovviamente Cutolo, definito "il Vangelo", che faceva le veci del vecchio capintesta della Bella Società Riformata ma, a differenza di questi che veniva eletto nel corso di riunioni tenute da rappresentanti dei vari quartieri di Napoli, Cutolo è il capo indiscusso per volontà divina, da cui dipende la vita e la morte di tutti. Al livello sottostante vi è la cassiera dell'organizzazione, la sorella Rosetta. Seguono quindi i santisti, ossia i bracci destri di Cutolo, che cambiarono nel corso degli anni. Tra di essi vi furono Corrado Iacolare, Vincenzo Casillo, Pasquale Barra, Antonino Cuomo. Seguono quindi gli sgarristi, i capizona o referenti territoriali che si divisero Napoli e Salerno con le rispettive province. Gli affiliati vennero definiti semplicemente picciotti. Vi erano infine gruppi speciali di affiliati, definiti batterie, ossia la manovalanza di killer pronti ad uccidere chiunque al primo comando. Alla cerimonia di affiliazione dovevano partecipare cinque persone: il Vangelo, un affiliato favorevole ed uno sfavorevole, il contabile e il maestro di giornata. Gli ultimi due avevano il compito di "registrare" la "fedelizzazione" in caso di esito positivo. Per quanto riguarda i rapporti comunicativi con l'esterno, di fondamentale importanza dato che la maggior parte dei principali esponenti della NCO erano ergastolani, Cutolo sviluppò due strutture parallele, una all'interno del sistema penitenziario chiamata "cielo coperto", e l'altra al di fuori chiamata "cielo scoperto". Per mantenere la sua leadership, Cutolo necessitava di trasmettere i suoi ordini ai membri della NCO al di fuori del carcere in modo efficace e affidabile, assicurando al contempo che una parte dei profitti generati fosse consegnata all'interno del carcere in modo da poter espandere la sua campagna di reclutamento. Le particolari condizioni del carcere di Poggioreale, che includevano la sua posizione strategica nel centro di Napoli e il flusso continuo di persone come affiliati liberi sulla parola e parenti dei carcerati, consentirono a Cutolo di coordinare con successo le attività criminali dalla sua postazione centralizzata, da cui inviava direttive agli associati per le operazioni esterne. I parenti venivano utilizzati principalmente come corrieri di informazioni, ma, quando questi non erano disponibili, false parentele venivano certificate attraverso la collaborazione, più o meno forzata, degli impiegati nei comuni in cui gli affiliati erano residenti; ciò avvenne in particolare per il comune nativo di Cutolo, Ottaviano. Il Dipartimento di Giustizia scoprì nel 1983, che Cutolo era stato visitato quasi ogni giorno da luglio 1977 a dicembre 1978 da Giuseppe Puca che utilizzava un documento secondo cui risultava cugino di primo grado di Cutolo. Cutolo aveva anche ricevuto tre visite da un altro suo affiliato che risultò, nell'ordine, cognato, compare e infine cugino di primo grado; tutte relazioni parentali formalmente iscritte nel registro comunale. Cutolo istituì anche il cosiddetto soccorso verde per aiutare la popolazione carceraria, fornendo loro abiti, avvocati, consulenza legale, soldi per sé stessi e per le loro famiglie, e anche regali come articoli di lusso. Fin dalla prima affiliazione, Cutolo aveva istituito un fondo di 500.000 lire per ogni affiliato. I soldi venivano versati ai carcerati, in tutta Italia, tramite il sottogruppo di Rosetta Cutolo, che disponeva di diversi corrieri ed era considerata la cassiera dell'organizzazione. Nel tentativo di controllare l'intera regione, Cutolo superò e andò oltre la struttura familistica tipica della camorra urbana. La NCO aveva una struttura aperta e poteva contare su circa 1.000 nuovi affiliati all'anno. L'affiliazione era aperta a tutti, bastava solo giurare fedeltà a Cutolo e giurare di contribuire alle attività criminali comuni. Tuttavia, non appena il business dell'organizzazione si ampliò a dismisura e c'era bisogno di più manodopera, il reclutamento divenne più aggressivo e, in seguito, anche obbligatorio. In prigione, i carcerati venivano costretti a diventare membri della NCO. In caso contrario, potevano subire una punizione corporale o addirittura una vendetta trasversale. L'organizzazione era una sorta di federazione di diversi clan, ognuno con la sua area territoriale di riferimento, ma gerarchicamente ordinata e strettamente controllata da Raffaele Cutolo. Al di fuori del carcere, veniva indetta una riunione esecutiva, ogni quindici giorni, in cui Rosetta Cutolo, raccoglieva le informazioni da riferire poi al fratello nelle visite in carcere.

Il dopo-terremoto. Servendosi dei ricavati delle tangenti imposte dai suoi fedelissimi fuori dal carcere, Cutolo riesce ad investire attentamente i guadagni all'interno dello stesso carcere di Poggioreale per aiutare le condizioni dei giovani detenuti, soprattutto quelli destinati a uscire presto. Tra le motivazioni addotte dal Cutolo per attrarre sempre più nuovi affiliati vi sono quelle legate a quelle che lui riteneva le ingerenze della mafia siciliana negli affari criminali campani. Solo con un'organizzazione forte ed unita Napoli e la Campania avrebbero potuto contrastare la forte avanzata di Cosa Nostra, soprattutto nel campo del contrabbando e dello smistamento di stupefacenti. Oltre a tentare di costruire un'identità regionale su basi delinquenziali, Cutolo usa anche il suo ascendente per ricomporre liti e dispute all'interno del carcere. I risultati non si fanno attendere: la popolarità tra gli ex-detenuti è altissima i legami di gratitudine sono molto saldi e un mare di soldi comincia ad affluire nelle casse del Professore. Già nel 1980 la NCO poteva contare su circa 7.000 affiliati. Le offerte in danaro sono però il primo passo per creare una falange di fedelissimi. Il passaggio da gruppo di affiliati legati da un patto di sangue ad organizzazione affaristica ramificata come una holding e connessa con la politica e con gli ambienti finanziari, avvenne dopo il terremoto del novembre del 1980, quando le cellule cutoliane cominciarono ad infiltrarsi negli appalti per la ricostruzione o a richiedere tangenti ai grossi cantieri che nascevano come funghi a Napoli e provincia e in buona parte della Campania. Nella relazione sulla camorra, presentata nel 1993 dalla Commissione Parlamentare Antimafia, la veloce diffusione della NCO da semplice banda carceraria ad holding mafiosa viene spiegata come segue: «Ad un ceto delinquenziale sbandato e fatto spesso di giovani disperati, Cutolo offre rituali di adesione, carriere criminali, salario, protezione in carcere e fuori. Si ispira ai rituali della camorra ottocentesca, rivendicando una continuità ed una legittimità che altri non hanno. Istituisce un tribunale interno, invia vaglia di sostentamento ai detenuti più poveri e mantiene le loro famiglie. La corrispondenza in carcere tra i suoi accoliti è fittissima e densa di espressioni di gratitudine per il capo, che si presenta alcune volte come santone e altre come moderno boss criminale. Vive di estorsioni, realizzate anche attraverso la tecnica del porta a porta. Impone una tassa su ogni cassa di sigarette che sbarca. Vuole imporsi ai siciliani, che non si sottomettono. Impera con la violenza più spietata.» (Commissione Parlamentare Antimafia, 1993f, pp. 43-44)

Anche le alleanze con altre realtà delinquenziali extra-regionali diventano numerose: oltre che con la Sacra Corona Unita pugliese (da lui fu creato un ramo nel 1979 capeggiato dai fratelli Spedicato e Guerrieri che gli si ribellò successivamente per la sua indipendenza), Cutolo stringe i rapporti con la 'ndrangheta, in particolare con le cosche Piromalli, De Stefano e Mammoliti. Con la sua breve latitanza tra il 1978 e il 1979, Cutolo stringe anche accordi con le bande lombarde di Renato Vallanzasca (detto "il bel Renè") e Francis Turatello e quelle pugliesi (Nuova Camorra Pugliese e Sacra corona unita). Quando considera la sua organizzazione oramai matura, Cutolo decide di imporre una tassa persino sulle casse di sigarette a tutti gli altri clan camorristici di Napoli. Nel 1978 Michele Zaza (noto contrabbandiere napoletano legato con la mafia siciliana) e i suoi creano una banda denominata Onorata fratellanza, ma Cutolo non se ne preoccupa e si infiltra in nuovi territori. Il contrasto con la Nuova Famiglia. Quando tenta di prendere il controllo della zona del centro di Napoli (Forcella, Duchesca, Mercato, Via del Duomo) nelle mani dei potenti Giuliano, questi si alleano con i clan di San Giovanni a Teduccio e di Portici e con i boss Carmine Alfieri e Pasquale Galasso. Alla fine del 1978 nasce la cosiddetta Nuova Famiglia, formatasi da una precedente alleanza denominata "Onorata Fratellanza", una confederazione di clan creata ad hoc per eliminare i cutoliani. E scoppia la guerra. È una guerra senza quartiere: nel solo napoletano, nel 1979 si registrano 71 omicidi; l'anno successivo sono 134 e salgono a 193 nel 1981, a 237 nel 1982, a 238 nel 1983, per scendere a 114 nel 1984. Anche la NF fece un uso propagandistico dell'affiliazione con relativo cerimoniale per attrarre sempre più giovani sbandati. Il giuramento ufficiale di affiliazione fu trovato nell'auto di Mario Fabbrocino e ricalcava in maniera spudorata quello della NCO, rifacendosi ai valori della fedeltà e dell'omertà. Quando nella Nuova famiglia subentrano anche i Nuvoletta, gli Alfieri, i Galasso, i Misso della Sanità e soprattutto i casalesi, la guerra si conclude con un indebolimento dei cutoliani e con un rafforzamento della presenza camorristica nel napoletano.Alla fine degli anni ottanta una serie di blitz e una catena di omicidi (tra cui quello del figlio di Cutolo, Roberto, e quello del suo avvocato, Enrico Madonna), mettono la parola fine all'ascesa cutoliana.

RAFFAELE CUTOLO. I SEGRETI DEL BOSS.

Le accuse di Cutolo: «Se esco e parlo il Parlamento crolla», scrive “Giornalettismo”. In un dialogo per via indiretta con Repubblica, l'ex boss della camorra attacca: «I miei segreti fanno tremare tutti. Per dignità non mi sono mai venduto ai magistrati. Il pentito va a gettone. Un nuovo oltraggio alle vittime». E ancora "ho testimoniato per Andreotti, lo stimavo, ma ci rimasi male perché non mi ringraziò neanche. L'ultimo che ho stimato è Berlusconi". Le accuse di Cutolo: «Se esco e parlo il Parlamento crolla». Da più di mezzo secolo è detenuto in carcere, a parte un breve anno di latitanza tra il 1977 e il ’78. Da 36 è in isolamento totale al 41 bis. Non si è mai pentito, Raffaele Cutolo, detto ‘o professore. Da Parma, dove sono reclusi anche boss mafiosi come Riina, Bagarella, il “Nero” Massimo Carminati (oltre all’ex parlamentare di Forza Italia Marcello Dell’Utri) l’uomo che fondò la Nuova camorra organizzata si considera un “sepolto vivo”. E, nel corso di un colloquio (per via indiretta) con Paolo Berizzi di Repubblica, attraverso la moglie Immacolata Iacone e il legale Gaetano Aufiero, Cutolo accusa: «I miei segreti fanno tremare tutti. Chi è al comando oggi è stato messo lì da chi veniva a pregarmi». Non ha mai voluto collaborare con la giustizia: «Per dignità non mi sono mai venduto ai magistrati. Se la sono legata al dito e hanno buttato la chiave. [..] Pago e pagherò fino alla fine. Ma non sono un pericolo. Sarei pericoloso se parlassi, ma non ce l’hanno fatta a farmi diventare un jukebox a gettone: il pentito va a gettone. Parla e guadagna. Un ulteriore oltraggio alla memoria delle vittime», spiega sul quotidiano diretto da Ezio Mauro. Una convinzione che ormai non è una novità. Già nel 2006, intervistato dallo stesso giornalista Berizzi, aveva così motivato il suo rifiuto a pentirsi: «Mi sono pentito davanti a Dio, ma non davanti agli uomini. [...]  Per me riabilitarsi significa essere coerente con me stesso, pagare gli errori con dignità. La dignità è più forte della libertà, non si baratta con nessun privilegio. È da anni che i magistrati provano a convincermi. Nel ’94 il procuratore Francesco Greco, per il quale ho molto rispetto, mi disse: starai in una villa con tua moglie. Avremmo potuto avere un figlio. Rifiutai. E sono orgoglioso di aver sempre resistito alla tentazione. Penso che la legge sui pentiti sia un’offesa alla gente onesta e alle famiglie delle vittime». Ora si trova nel carcere ducale, il tredicesimo della sua vita. Non vede nessuno, eccetto la moglie e la figlia Denise, nata attraverso l’inseminazione artificiale. Nel dialogo con “Repubblica” non mancano le accuse di Cutolo alla politica: «Allo Stato servo così. Pensano sia ancora legato alla camorra. Ma quale camorra?». La Nco di Cutolo era diventata pre-Sistema, anti Stato. «Pagina chiusa dal 1983, quando ho sposato Tina nel carcere dell’Asinara (presente un giovane Luigi Pagano, oggi vice capo del Dap)».  [...]  Se lo contendevano negli anni d’oro Cutolo, quando sempre dal carcere, a cavallo tra 70 e 80 guidava il suo esercito di 7 mila affiliati nella guerra sanguinaria (persa) contro la Nuova Famiglia. E anche dopo, nell’81. Mezza Dc gli chiede di far liberare l’assessore regionale napoletano all’edilizia Ciro Cirillo, uomo di Antonio Gava sequestrato dalle Br. Sulla trattativa tra servizi segreti, Cutolo e brigatisti — accertata nel ‘93 da un’ordinanza del giudice istruttore Carlo Alemi — l’ex boss ha detto e non detto. «È stata la prima trattativa Stato-mafia. Forse anche la mia vera condanna». In cella ha quattro fotografie: due papi — Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II — quella della madre, e una della moglie Immacolata con la figlia. «Ho una telecamera puntata sul gabinetto. Non posso avere in cella più di tre paia di calzini e mutande. Vorrei mi spiegassero il senso. Ho sempre tenuto a essere in ordine. Sono figlio di contadini ma la cura di sé è importante. La insegnavo ai miei uomini». Casillo, Alfonso Rosanova il «santista », Pasquale Barra ‘ o animal, il boia delle celle morto due giorni fa. «È una forma di rispetto essere sempre impeccabili: ho ammirato Andreotti. Testimoniai per lui al processo Pecorelli. Nemmeno un grazie, ci sono rimasto male. Alcuni suoi colleghi mi mandavano gli auguri a Natale. Tutti parolai i politici. L’ultimo che ho stimato è stato Berlusconi».

Raffaele Cutolo: "Io, sepolto vivo in una cella. Se esco e parlo crolla il Parlamento". Da Parma, dove è detenuto al 41 bis, l'ex boss della Camorra accusa: "I miei segreti fanno tremare tutti. Chi è al comando oggi è stato messo lì da chi veniva a pregarmi", scrive Paolo Berizzi su “La Repubblica”. "Se parlo ballano le scrivanie di mezzo Parlamento". Dopo trent'anni? "Molti di quelli che stanno adesso ce li hanno messi quelli di allora venivano a pregarmi". Non indossa più pantofole con le iniziali ricamate. "Per dignità non mi sono mai venduto ai magistrati. Se la sono legata al dito e hanno buttato la chiave". Essendo sepolto vivo, Cutolo non ha un volto né un corpo. Puoi solo immaginarlo per come lo descrivono. La moglie, Immacolata Iacone, tecnicamente "vedova", e l'avvocato avellinese Gaetano Aufiero. Sono gli unici, oltre alla figlia Denise, che vedono "don Raffaè". Gli unici autorizzati, degli altri parenti non si vede più nessuno. "Al mio difensore ho chiesto di non venire più. Non ho più carichi pendenti, il mio saldo con la giustizia è in pari. E il 41 bis ho smesso di impugnarlo, tanto è inutile" dice rinserrato nella sua dimensione post-crepuscolare Raffaele Cutolo detto ' o professore. Parla con Repubblica attraverso la moglie e il legale. Adesso è a Parma. Tredicesimo carcere della sua vita. Tredici come gli ergastoli. Record italiano di lungodegenza carceraria. Il "Professore di Ottaviano" che comandava e distribuiva croci e terrore, e lo Stato lo combatteva e intanto lo accreditava. "Mi hanno usato e gonfiato il petto, da Cirillo a Moro che, a differenza del primo, hanno voluto morto e infatti mi ordinano di non intervenire. Poi mi hanno tumulato vivo. Sanno che se parlo cade lo Stato". Misteri italiani. Segreti italiani. A Parma ci sono anche Riina, Bagarella, il "Nero" Massimo Carminati. E Dell'Utri. Cutolo è invisibile. Da primo rigo sull'indice della letteratura camorristica a caso da antropologia di laboratorio. "Anche un albero che non dà più frutti serve sempre  -  lascia galleggiare le parole Cutolo, figlio di contadini e poi Criminale d'Italia a cui Fabrizio De André dedicò versi da epica brigantesca in Don Raffaè  -  Lo lasci lì l'albero secco, può fare legna". Se lo contendevano negli anni d'oro Cutolo, quando sempre dal carcere, a cavallo tra 70 e 80 guidava il suo esercito di 7 mila affiliati nella guerra sanguinaria (persa) contro la Nuova Famiglia. E anche dopo, nell'81. Mezza Dc gli chiede di far liberare l'assessore regionale napoletano all'edilizia Ciro Cirillo, uomo di Antonio Gava sequestrato dalle Br. Sulla trattativa tra servizi segreti, Cutolo e brigatisti  -  accertata nel '93 da un'ordinanza del giudice istruttore Carlo Alemi  -  l'ex boss ha detto e non detto. "È stata la prima trattativa Stato-mafia. Forse anche la mia vera condanna". Ricorda i politici del passato. "Ho ammirato Andreotti. Testimoniai per lui al processo Pecorelli. Nemmeno un grazie". E Silvio Berlusconi, "l'ultimo che ho stimato". Ma per il resto i politici sono "tutti parolai". Racconta il carcere duro. "Salto anche l'ora d'aria. Se per respirare un'ora devo farmi perquisire e sottopormi a controlli umilianti, preferisco stare in cella. Allo Stato servo così. Pensano sia ancora legato alla Camorra. Ma quale Camorra?". In cella ha le foto di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, quella di sua madre e una con moglie e figlia. "Ho una telecamera puntata sul gabinetto. Non posso avere in cella più di tre paia di calzini e mutande. Vorrei mi spiegassero il senso". Ed infine dice: "Mi sono pentito davanti a Dio, ma non davanti agli uomini. Cutolo è morto, resuscita per un'ora quando viene sua figlia e gli dà una carezza".

Quando Campobasso si fermò per il faccia a faccia tra “O’ animale” e Raffaele Cutolo. Il 27 febbraio 2015 è morto in carcere a Ferrara Pasquale Barra, il camorrista noto anche per aver accusato e fatto arrestare Enzo Tortora. Nel 1984, nel tribunale campobassano, si ritrovò per la prima volta di fronte il suo ex boss per testimoniare in un processo. Nel capoluogo un incredibile spiegamento di forze nell’ordine, in corte d’assise un confronto aspro, tra accuse e messaggi in codice, scrive Giuseppe Villani su “Primo Numero”. Era detto “O’ animale”, ed oltre che per i suoi efferati omicidi è passato alla storia per aver accusato ingiustamente Enzo Tortora. Non solo: Pasquale Barra, morto ieri nel carcere di Ferrara dove stava scontando la condanna all’ergastolo, fu protagonista di un epico scontro con il suo ex padrino Raffaele Cutolo davanti alla Corte d’Assise di Campobasso. Accadde nel giugno del 1984, nel processo per l’assassinio in carcere di don Francesco Diana. Una giornata che nel capoluogo di regione, a distanza di 31 anni, ricordano in molti, anche per il massiccio spiegamento di forze: centinaia di uomini e mezzi blindati per quello che fu il primo confronto tra il boss e il suo ex luogotenente, che non si vedevano da due anni. Nel frattempo Barra aveva iniziato a vuotare il sacco sull’organizzazione della nuova camorra organizzata. Fu un confronto aspro, anche se preceduto da una pacca sulla spalla di Cutolo a Barra e concluso con una stretta di mano. In cui, più che parlare dell’omicidio di Diana, i due si lanciarono una serie di accuse e di messaggi in codice. E che il giorno seguente guadagnò le prime pagine dei giornali. Cutolo provocò Barra, dicendo che non era un pentito ma ancora un camorrista. Barra, di rimando, disse di aver saputo che Cutolo voleva farlo uccidere. Don Raffaele replicò: «Io non vi avrei mai fatto ammazzare. Non vi fidate di chi ve lo ha detto, pensate piuttosto a vostro figlio, che è un bravo ragazzo. Dategli onore, non disonore. In un’organizzazione come la camorra i pentiti non possono esistere. Se parlano, lo fanno per motivi personali, nelle caserme dei carabinieri, con le donne e lo champagne, e chiedono soldi alla gente per non accusarla. Voi siete di una famiglia buona. Se davvero vi volevano ammazzare, voi sapete chi era, mi avete mandato un’imbasciata». E Barra: «Io vi avrei mandato un messaggio? E quando? Attraverso chi?». E Cutolo, che oggi ha 74 anni ed è detenuto in isolamento: «Se vuoi, dillo tu. Io non faccio arrestare degli innocenti». «Rafé, nun me fai fesso», la risposta di Barra che però soffrì tremendamente il confronto.

Raffaele Cutolo, i segreti del boss. Cutolo è una bomba pronta a esplodere. Dal caso Cirillo fino al sequestro Moro. Sullo sfondo i contatti con la Dc. I ricordi occulti che fanno tremare la politica, scrive Enzo Ciaccio su "Lettera 43" il 03 Marzo 2015. Ha ribadito che se lui raccontasse i segreti che sa «ballerebbero le scrivanie di mezzo parlamento». Perché, ha aggiunto, «molti di quelli che in parlamento ci stanno adesso ce li hanno messi quelli che allora venivano a pregarmi». E ancora, quasi in un grido: «Mi hanno tumulato vivo: sanno che, se parlo, cade lo Stato». Parole di cemento. Anatemi al veleno. Ma quanto c’è di vero, allarmante, pericoloso nelle sue minacce? E quanto di quel che dice, invece, è frutto di una frustrazione profonda, sedimentata e imbarbarita nei decenni di reclusione e spietato isolamento? Per alcuni, Raffaele Cutolo, 73 anni, licenza elementare, ex vinaio, falegname, autonoleggiatore ed ex boss indiscusso della cosiddetta Nuova camorra organizzata (la banda di malavita che tra gli Anni 70 e 80 spadroneggiava in Campania), è solo «un uomo ormai anziano e psichicamente svanito», con 13 ergastoli da scontare, in carcere a regime di 41 bis dal 27 aprile 1963 (tranne una breve evasione dal manicomio giudiziario di sant’Eframo a Napoli), fiaccato nel fisico, nel morale e nella mente «e non più in grado di ragionare con giudizio e serenità»: per i suoi denigratori, insomma, Cutolo è ridotto a una sorta di larva umana, «uno che spesso non sa neanche più quel che dice». Per altri, invece, ‘O professore (come era chiamato dai suoi affiliati, che raggiunsero negli Anni 80 la dimensione di un vero e proprio esercito da 7 mila unità, armato, compatto, pronto alle stragi ma anche a una sorta di welfare ante-litteram che garantiva stipendi e servizi sociali) non è affatto un relitto umano che va delirando, ma «un capo criminale in piena efficienza, che conserva nella mente lucidissima la memoria di molte tra le malefatte che la classe politica di quegli anni avrebbe consumato in tema di business da dopo-terremoto, rapporti inconfessabili con la malavita organizzata, patti irriferibili con le organizzazioni terroristiche dell’epoca, le Brigate rosse più di tutte». Cutolo, secondo chi lo ha ben conosciuto, non possiede da qualche parte a Ottaviano (il suo paese natale, nel cuore dell’area vesuviana) o altrove archivi segreti né esplosivi elenchi “dei cattivi e dei buoni”. «Ma», fanno notare gli inquirenti, «il fatto di non aver conservato mai carte che scottano non vuol dire che il boss non ricordi eventi, malefatte, nomi e cognomi specie di coloro che gli hanno procurato del male o gli hanno in passato elargito promesse che poi non sono state mantenute». «Il film della sua vita», ricorda chi lo ha conosciuto, «è come se ce lo avesse stampato nella testa, anzi nella memoria che - nonostante la prigionia - si mantiene viva e in salute». Al contrario di altri boss, grafomani fino al parossismo, don Raffaele non ha mai esagerato con lettere, pizzini, diari, memoriali o altro. Le parole scritte le ha riservate - con pudore - ai dialoghi con la moglie Immacolata, sposata quando era già in carcere, o con la figlia Denise, avuta grazie all’inseminazione artificiale. Il boss, da uomo di campagna diffidente e introverso, ha sempre nutrito inimicizia istintiva per la parola scritta, tranne quando l’ha utilizzata per scrivere le sue poesie d’amore di cui è orgoglioso (e - dicono - assai geloso). Per il resto, ha sempre evitato il più possibile di mettere nero su bianco, ritenendo la parola scritta «arma che tradisce» e dalla quale - una volta vergata - non è possibile recedere. Una sola eccezione l’ha fatta per le lettere spedite a una giornalista di Ottaviano, Gemma Tisci, nel corso della prigionia, da cui è scaturito un libro. «Per il resto», raccontano in Paese, «Cutolo tiene tutto a mente e ha sempre consigliato ai suoi, e perfino alla sua amatissima sorella Rosetta, che gli ha tenuto per decenni il controllo degli affiliati e degli affari, di scrivere il meno possibile, compresi gli elenchi (cifrati) dei detenuti amici cui spedire i soldi per l’assistenza alle famiglie». Secondo gli inquirenti, è proprio tale connotazione «tutta orale» ma capace di rimandare a prove e inconfutabili riscontri a rendere un «fantasma» come Cutolo particolarmente «pericoloso» per chi ha tramato con lui e ora ha da temere dalle sue eventuali accuse: il boss è in carcere da decenni, ma fuori del carcere (o dentro) non esistono archivi da sequestrare, elenchi in cui spulciare, documenti riservati da far scomparire, carte in cui rubare verità mai rese note. Nulla. Contrariamente a Francesco Schiavone, il boss pentito dei Casalesi morto il 22 febbraio di cui i magistrati stanno ora sequestrando le carte segrete, non c’è nulla di scritto su quello che il boss Cutolo ha combinato nella sua vita o su quello che gli altri hanno combinato con lui né su ciò che lui sa e può decidere di dire ad alta voce su coloro che lo hanno incrociato nel tempo, malviventi, manager e uomini politici di basso, medio e altissimo livello compresi. La vicenda “politica” più rilevante in cui Cutolo ha di sicuro svolto un ruolo illegale ma di primaria importanza (come ha dimostrato il giudice Carlo Alemi) è la cosiddetta trattativa avvenuta nel carcere di Ascoli Piceno nei giorni del sequestro dell’assessore regionale campano all’urbanistica Ciro Cirillo, consumato nel 1981, cioè nel periodo più incandescente del business da dopo-terremoto. In quel carcere, in visita al detenuto Cutolo - ritenuto in grado di far da mediatore tra lo Stato e le Brigate rosse per l’eventuale liberazione dell’assessore rapito - si recarono numerosi esponenti di spicco della Democrazia cristiana dell’epoca, nonché parecchi personaggi minori che parlavano (e trattavano) con il capo camorra a nome di leader del calibro di ministri come Antonio Gava, Giulio Andreotti, Enzo Scotti e tutto il gotha del Potere politico e partitico dell’epoca. Con loro, a suggellare i dettagli e le modalità del “patto”, erano presenti esponenti dei Servizi segreti nonché alti gradi delle Forze dell’ordine, rigorosamente non in divisa. Il nome di Cutolo, però, è comparso anche in relazione a presunte trattative tra lo Stato e le Br che sarebbero avvenute ai tempi del sequestro di Aldo Moro, nel tentativo di giungere alla sua liberazione. Si sta raccontando di vicende, come è noto, che risalgono a più di 30 anni fa: molti, ma non tutti, fra i personaggi dell’epoca non ci sono più. Altri sono ormai scomparsi dalla scena politica nazionale e locale. Ma è vero - come Cutolo ha ribadito più volte - che rigagnoli di bugie e di sangue, omissioni, ombre e misteri collegano quei giorni di trame, scambi e promesse mancate all’attualità politica che invece preferirebbe ignorarne i contorni: «In parlamento», fa notare più di un osservatore, «oggi siedono molti figliocci, nipoti e nipotini ideologici di quei leader che nel segreto del carcere di Ascoli (e nei giorni del sequestro Moro) patteggiarono con il ras di Ottaviano pur di salvare la vita all’assessore Cirillo e al leader Dc». Che cosa patteggiarono? Quante delle promesse fatte a Cutolo e ad altri malavitosi sono state poi mantenute? Di quante la comunità ne paga, senza saperlo, ancora oggi il prezzo? A proposito di Cirillo, l’ex assessore è un altro dei protagonisti dell’epoca che finora si è ben guardato - nel corso delle centinaia di interviste concesse - dal raccontare qualcosa dei suoi segreti e della torbida vicenda del sequestro. Cirillo, però, ha di recente fatto sapere di aver consegnato a un notaio un dossier che racconterebbe la sua verità. Per il resto, silenzio, connivenze, distrazioni, misteri. E bocche cucite. Cutolo, che di scritto non lascia nulla (tantomeno nelle mani di un notaio) ma ricorda e fa capire di avere le prove di tutto, fa paura proprio per la sua estrema, spaventosa volatilità. ’O professore è come una bomba, che può esplodere quando vuole, ed è senza disinnesco. Oppure, può restare lì: immota, inerte, silente, in apparenza innocua. Ma fino a quando, chi può saperlo?

La versione Cutolo sul caso Moro: "Rapito con le armi della 'ndrangheta". Le rivelazioni dal 41 bis dell'ex capo della Nuova camorra organizzata: "Patto in carcere tra le Br e le cosche calabresi", scrive Paolo Berizzi su “La Repubblica” il 18 novembre 2015. Nessun pentimento ("solo davanti a Dio" ). Nemmeno una dissociazione. Ma, per la prima volta dopo oltre mezzo secolo dietro le sbarre -  34 anni in isolamento, 23 in regime di 41 bis - , Raffaele Cutolo ha deciso di collaborare con lo Stato. Una scelta clamorosa che Repubblica è in grado di rivelare e di ricostruire. Una scelta maturata recentemente, in gran segreto, nel carcere di Parma, dove l'ex capo della Nuova camorra organizzata ha appena compiuto 74 anni. Qui, due mesi fa, Cutolo ha chiesto -  a sorpresa -  di essere interrogato sul rapimento e la morte di Aldo Moro. E ha parlato. Le sue rivelazioni -  il verbale è stato secretato -  le hanno raccolte in cella un luogotenente dei carabinieri e un magistrato. Collaborano entrambi con la Commissione parlamentare di inchiesta che indaga sulla complessa, e ancora oscura vicenda, dello statista democristiano rapito e ucciso dai terroristi delle Brigate Rosse il 9 maggio 1978. Ma vediamo, con ordine, quello che è successo nel carcere di Parma. Siamo all'inizio di settembre: l'Italia e l'Europa sono alle prese con il caos migranti. Cutolo, come da routine, incontra la moglie Immacolata Iacone nell'unico colloquio mensile previsto per i detenuti sottoposti al regime del carcere duro (41bis). Piccolo ma non irrilevante passo indietro: sei mesi prima. È il 2 marzo. L'ex boss della camorra si sfoga in un colloquio riportato sulle colonne di questo giornale: "Mi hanno sepolto vivo in cella, se parlo crolla lo Stato", dichiara Cutolo. A stretto giro arriva la replica del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. "Cutolo dica quello che sa e sarà valutato, siamo pronti a indagare", lo incalza il 10 marzo. Un invito, più che eloquente, rivolto a "don Raffaele" affinché potesse prendere in considerazione l'idea -  sempre parole di Roberti -  di fare "seguire alle dichiarazioni contro lo Stato anche delle dichiarazioni concrete". Perché, è il ragionamento, "la possibilità di uscire dalla condizione del 41bis dipende soltanto da lui...". Lui, Cutolo. Torniamo dunque a settembre. Non si sa se e quanto le parole di Roberti abbiano instillato nel vecchio padrino della camorra lo spunto per una riflessione (a parte una breve parentesi nel '94 -  morta sul nascere -  l'ex boss di Ottaviano è sempre stato un muro di silenzio). Ma adesso Raffaele Cutolo vuole parlare. Di Moro, sicuramente. Forse anche di altro. Chiede di essere ascoltato da chi sulla morte del politico Dc sta cercando di fare chiarezza. In questi casi la prassi prevede due possibilità: o il detenuto scrive -  di persona o attraverso il proprio legale -  al magistrato (o ai magistrati) che indagano. O affida la sua richiesta al direttore del carcere. Sta di fatto che la seconda metà di settembre, Giuseppe Boschieri, luogotenente dei carabinieri, consulente della Commissione Moro, contatta uno dei legali di Cutolo, l'avellinese Gaetano Aufiero. Il carabiniere chiede se all'interrogatorio richiesto dal detenuto eccellente volesse prendere parte anche il suo difensore. Ma non trattandosi di un interrogatorio di garanzia, il legale ritiene superflua la propria presenza. Lunedì 14 settembre 2015. Nel carcere di via Burla -  dove sono reclusi tra gli altri anche i super boss Totò Riina e Leoluca Bagarella (quest'ultimo appena trasferito in Sardegna), il "Nero" Massimo Carminati e Marcello Dell'Utri -  Cutolo parla. Dichiarazioni spontanee. Che finiscono in un verbale. È uno dei 41 documenti raccolti dalla Commissione Moro e annunciati all'ufficio di presidenza. Si legge nell'elenco: "Verbale di riversamento di files audio su supporto informatico relativi all'escussione del detenuto Cutolo Raffaele, avvenuta il 14 settembre 2015". Mittente del documento 316/1, protocollo 1027, data 21-09-2015, è il luogotenente Boschieri. Leggendo le carte che mettono in ordine i documenti c'è un particolare che balza all'occhio: il verbale relativo all'interrogatorio di Cutolo è segreto. Di più. dei 41 documenti raccolti da parlamentari, magistrati, poliziotti, carabinieri che collaborano con la commissione, il 316/1 è l'unico secretato. Gli altri sono tutti liberi o, al massimo, riservati. Perché? Che cosa ha rivelato sulla fine di Moro l'ex capo della Nco? Ha riferito circostanze e particolari che non devono o non possono essere resi pubblici? E, soprattutto, perché a 74 anni, dopo mezzo secolo al gabbio, e 34 anni di tolale isolamento, Cutolo decide di parlare accettando, di fatto, di collaborare con quello Stato da cui si è sentito "usato e abbandonato"? Il riferimento è al suo coinvolgimento nella vicenda dell'ex assessore regionale Dc Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br a Torre del Greco nel 1981 e poi liberato -  secondo una sentenza passata in giudicato -  "alla fine di una lunga e serrata trattativa tra apparati dello Stato e il boss Raffaele Cutolo, a cui si è chiesto di intervenire presso le Br per ottenere la liberazione di Cirillo". Tredici ergastoli, record italiano di lungodegenza carceraria, sposato con Immacolata Iacone da cui ha avuto (inseminazione artificiale) la figlia Denise di 7 anni. Disse Cutolo in un'intervista a Repubblica nel 2006: "Mi sono pentito davanti a Dio, non davanti agli uomini. È immorale fare arrestare persone innocenti per avere soldi e protezione dallo Stato. Riabilitarsi significa pagare gli errori con dignità. La dignità è più forte della libertà, non si baratta con nessun privilegio... ".

Il lato oscuro del Paese nei segreti del professore. Cutolo riapre il caso Moro, scrive il 18/11/2015 Bruno De Stefano su “Metropolisweb”. Perché non ha mai collaborato con lo Stato? Perché non ha voluto contribuire a sciogliere quel grumo di misteri che ha accompagnato prima la sua irresistibile ascesa e poi il suo rapido declino? Perché si è negato la possibilità di trascorrere la vecchiaia lontano dal 41 bis per godersi la moglie e la figlia? Perché, restando in silenzio, ha consapevolmente allungato il collo sotto quella ghigliottina rappresentata da 13 ergastoli? Da sempre Raffaele Cutolo si porta appresso un grappolo di interrogativi quasi tutti senza risposta. Almeno fino a ieri, quando il quotidiano “la Repubblica” ha raccontato che l’ex boss di Ottaviano, feroce capo della Nuova camorra organizzata attualmente al carcere duro nel penitenziario di Parma, ha aperto il suo scrigno di segreti per svelare ciò che sa sul sequestro di Aldo Moro, lo statista democristiano rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo del 1978 e poi assassinato 55 giorni dopo, all’alba del 9 maggio. Il “professore”, così come lo chiamavano in tanti, non sarebbe però diventato un collaboratore di giustizia, categoria che ha sempre disprezzato perché, parole sue, «è immorale fare arrestare persone innocenti per avere soldi e protezione dello Stato», aggiungendo di essersi «pentito davanti a Dio e non davanti agli uomini». Non è la prima volta che il nome di Cutolo cammina parallelamente a quello di Moro, anzi. Negli anni scorsi proprio l’ex boss aveva sostenuto di essersi interessato, su sollecitazione del suo avvocato Francesco Cangemi, alla trattativa per la liberazione dello statista democristiano. Attraverso esponenti della Banda della Magliana sarebbe venuto a conoscenza del covo in cui le Br tenevano Moro prigioniero; dopo aver ottenuto rassicurazioni da alcuni esponenti politici - avrebbero alleggerito la sua detenzione in cambio dell’indirizzo del covo - Cutolo aveva dichiarato di aver ricevuto un avvertimento dal suo braccio destro, Vincenzo Casillo: «C’è chi non vuole la liberazione di Moro, i nostri referenti politici hanno detto che devi farti gli affari tuoi». Dettaglio non trascurabile: Casillo è morto dilaniato da un’autobomba nel 1983, l’avvocato Cangemi ha sempre negato di aver palato di Moro con il suo cliente. Quindi non ci sono conferme a questa versione. Ora si scopre che il fondatore della Nco ha fornito nuovi elementi che sarebbero stati secretati. Dunque, almeno stavolta le sue parole vengono ritenute attendibili. Detto questo, è il caso di porsi delle domande. Quesiti suggeriti dall’imperscrutabile comportamento che Cutolo ha tenuto da quando è finito in galera. Come mai, ad esempio, ha deciso di parlare proprio ora che ha 74 anni e un fisico sfibrato da una serie di malanni? Per quale oscura ragione ha deciso di sbriciolare quel muro del silenzio dietro il quale si è nascosto per decenni, irrobustendolo ogni tanto con ambigue allusioni, tipo “se esco e parlo, crolla il Parlamento»? Addentrarsi in suggestive dietrologie è tempo perso, meglio affidarsi a fatti concreti, ad uno in particolare. Non è la prima volta che Cutolo compie un passo in avanti verso lo Stato. Più di vent’anni fa, infatti, il camorrista di Ottaviano aveva deciso di collaborare con i magistrati ed aveva anche verbalizzato alcune dichiarazioni. A raccontarlo è stato Franco Roberti, attuale capo della Direzione nazionale antimafia e per lungo tempo pubblico ministero a Napoli. Cinque anni fa, il magistrato svelò che l’ex boss aveva deciso di vuotare il sacco, ma che poi innestò la marcia indietro proprio mentre era pronto il trasferimento in una località protetta. Sostenne di non voler più pentirsi perché le sue donne, cioè la moglie Immacolata Iacone e la sorella Rosetta, gli avevano detto di non farlo. Una spiegazione che non hai mai convinto Roberti, secondo il quale «Cutolo indietreggiò sulla strada del pentimento perché fu minacciato dai servizi segreti». Un’affermazione piuttosto impegnativa pronunciata da un magistrato di primissimo piano. E allora, dunque, come mai proprio adesso l’ex boss è tornato, seppur parzialmente, suoi passi? E perché, infine, non parlare invece della trattativa per l’assessore regionale democristiano Ciro Cirillo, rapito dalle Br nell’aprile del 1981 e poi liberato al termine di un oscuro e ripugnante mercanteggiamento tra Dc, pezzi dello Stato e camorristi?

Raffaele Cutolo voleva pentirsi, ma fu minacciato dai servizi segreti, scrive il 06/03/2010 “Metropolisweb”. Si era aperta una crepa nella coscienza di Raffaele Cutolo, era stato ad un passo dal raccontare i retroscena degli orrori della faida degli anni Ottanta, poi, la decisione di tirarsi indietro quando era già stato avviato un imponente servizio di protezione. “Le mie donne mi hanno detto di non pentirmi”, disse allora il professore della Nco, “in realtà Cutolo ebbe pressione da parte dei servizi segreti”. A raccontarlo è il procuratore capo della Repubblica di Salerno, Franco Roberti. Allora, il pm Efra magistrato in servizio alla Dda di Napoli. Era quasi riuscito nell’impresa più ardua degli ultimi trent’anni, far parlare il boss che fondò una delle organizzazioni criminali più potenti della storia del Mezzogiorno. Cutolo, secondo il racconto che Roberti affida alla stampa questa mattina, era pronto a vuotare il sacco, partendo dalle trattative per la liberazione di Aldo Moro. L’impresa stava riuscendo grazie anche al lavoro del pubblico ministero Alfredo Greco, al quale il superboss aveva sussurrato: “Dottore, da dove dobbiamo cominciare?”. In quei giorni, Cutolo è formalmente indagato per la morte di Salvatore Alfieri, fratello del boss Carmine. E’ recluso nel carcere di Belluno, ma per i primi colloqui è stato trasferito nel penitenziario di Carinola. Non basta, per ascoltare i segreti e gli orrori della cruenta faida degli anni Ottanta si decide che è meglio trasferire il professore di Ottaviano in una struttura militare nel salernitano. Il viaggio è già programmato, ma poche ore prima Cutolo torna sui suoi passi. “Non voglio più collaborare”. Il Pm Greco parte alla volta del carcere di Carinola, viene seguito da un’auto e una moto di grossa cilindrata e capisce che qualcosa non va. Arriva nel penitenziario, ma prima di lui sono arrivati decine di uomini funzionari del ministero. A quel punto, è impossibile convincere il superboss. E quella crepa nella coscienza di Cutolo torna magicamente a richiudersi.

Denyse, 7 anni, scrive al papà Raffaele Cutolo: «Chiedi scusa, così ti fanno uscire», scrive il 18/11/2015 Giovanna Salvati su “Metropolisweb”. «Qualsiasi testo gli venga portato in carcere viene cestinato». Tutto. Tranne quella lettera che ha scritto Denyse, sette anni e due occhi che brillano come stelle. Lei si chiede ingenuamente: «Se papà ha sbagliato basta che chieda scusa, e tutto si risolve». Non è così. E Immacolata Iacone lo sa. L’innocenza della figlia del boss Raffaele Cutolo sta tutta in una considerazione. La speranza della madre, invece, sta nel desiderio di poter invecchiare accanto al suo uomo. Uno che negli anni Ottanta guidava l’esercito di morte della Nuova Camorra Organizzata. Lei sceglie di parlare solo per raccontare un uomo «stanco».  Dice Immacolata Iacone: «Ho la possibilità di incontrarlo solo ogni due mesi, ma solo per dieci minuti». Una boccata di ossigeno per il boss che dura seicento brevissimi secondi, nei quali l’ex capo della camorra appare spesso in vestaglia e capelli grigio ben pettinati. «Dieci minuti nella sala dei colloqui per ritrovare la voglia di vivere, o meglio, di sopravvivere».  Quando la porta si spalanca, Cutolo incontra sua figlia ed è - racconta Immacolata - una delle poche ragioni di vita». «Il sorriso della piccola gli ridona colore e calore, allora si alza dal letto dove ormai passa le sue intere giornate e il sorriso torna sul suo volto. Raffaele non va nemmeno più a passeggio nell’area riservata ai detenuti al carcere duro, e Denise resta l’unica cosa che gli toglie il respiro. La sua principessa, come dice lui». Denyse ovviamente non sa nulla del passato. Della camorra, del sangue, dei processi, dell’ergastolo, del carcere duro. Non sa del Cutolo da tredici ergastoli, che da 34 anni vive in isolamento e che da 23 vive è al 41 bis. «Le ho raccontato che suo padre è in quell’istituto perchè ha commesso degli errori e lì le persone lo aiutano a non sbagliare più», racconta Immacolata Iacone. «Per Denyse allora tutto diventa un gioco: dai cancelli alle guardie penitenziarie che sorvegliano ogni colloquio». Mentre racconta i suoi brevi incontri con il marito Immacolata china spesso il capo quasi sotto un peso insopportabile. Ottaviano-Parma, e ritorno. Tutto per quei dieci minuti. Ogni due mesi. «Per Raffaele, Denyse è l’unica cosa che conta, però è stanco. Il suo cuore è stanco e malato. Quando andiamo a trovarlo non vuole nemmeno più parlare, vuole solo trascorrere del tempo con la figlia. Io per questo mi sacrifico: non importa che io ci sia, preferisco che stia più tempo con sua figlia, che se la goda, perché è la sua unica medicina che funziona». Immacolata racconta di un uomo stanco e ammalato, che rinuncia anche all’ora d’aria, che «non scrive più una lettera», che non vede da mesi sua sorella Rosetta, che chiede di respirare, che dice di essersi pentito solo davanti a Dio, e che avrebbe raccontato nuovi particolari del rapimento di Aldo Moro. Verbali che, secondo alcuni, potrebbero far tremare i polsi a molti potenti. Ancora oggi. Raffaele Cutolo ha spento le sue 74 candeline in cella il 4 novembre scorso, in isolamento in quella cella dove ormai ha consumato la sua vita da «sepolto vivo» come lui stesso ha dichiarato lo scorso 2 marzo. «Ci sono altri detenuti che sono nel suo stesso regime di detenzione ma a loro almeno è concesso di stare in compagnia, perchè a Raffaele ancora no?», si chiede Immacolata, la moglie del boss della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo. Un marchio che ancora pesa. In città e fuori. A Ottaviano, a Napoli, in Campania, in Italia. Lei non si meraviglia. Lei questa vita l’ha scelta. E non si è mai lamentata. Tranne per una cosa: «Raffaele Cutolo è stanco, malato, non ha più la forza di combattere contro la sofferenza dell’isolamento. Non ha mai chiesto sconti, semplicemente umanità».

PENTITI E PENTITISMO: L'INTERESSE PERSONALE SPONTANEO O INDOTTO.

Così un Pm ha chiesto a un pentito di accusarmi, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Nei giorni scorsi, nell’edizione calabrese del Garantista abbiamo pubblicato la notizia del pentimento di un avvocato accusato di avere avuto a che fare con la famiglia Cacciola e di avere avuto un ruolo prima nella ritrattazione di Concetta Cacciola (testimone di giustizia che accusava la sua famiglia) e poi nella tragica induzione al suicidio (o addirittura nell’assassinio) di Concetta dopo che aveva ritrattato la ritrattazione. La prima ritrattazione di Concetta era avvenuta attraverso una cassetta audio che era stata mandata ad alcuni giornali, tra i quali “Calabria Ora” che allora dirigevo. L’avvocato Pisani, che assisteva la famiglia Cacciola (accusata da Concetta, figlia e sorella di tre imputati) si è pentito a settembre e nei giorni scorsi sono stati resi pubblici i verbali del suo interrogatorio. Qui mi limito a trascrivere una paginetta dell’interrogatorio, e poi la commenterò.

Vittorio Pisani: ... fruscii… eh… aveva detto che comunque l’avrebbe…avrebbe mandato il giorno dopo tutto il materiale per la pubblicazione su Calabria Ora.

Pubblico ministero: Perché proprio a Calabria Ora? No, le chiedo se c’è un motivo perché proprio a Calabria Ora…

Vittorio Pisani : Calabria Ora, sostanzialmente è stato sempre un giornale un po’, non a favore della Procura ma contro…contro la Procura, no?, su alcune circostanze, che io da lettore, voglio dire, quindi lui aveva identificato questa…questa testata giornalistica per inviare il tutto, di fatto l’ha inviato…

Pubblico Ministero: Era questo il motivo per cui l’aveva inviato a Calabria Ora o aveva un rapporto pregresso con Sansonetti?

Pisani: Io non lo so questo, dottore, non lo so.

Pubblico ministero: Non ne avete parlato?

Pisani: Eh?

Pubblico ministero: Non ne avete parlato?

Pisani: No, no, no.

Ora vi prego di ragionare sul tono delle domande. Pisani si è pentito, riceverà dei benefici dal suo pentimento, sa che sarà il Pm a decidere se riceverà questi benefici, e quando li riceverà, e in che misura. Il pubblico ministero lo incalza sul punto specifico: Sansonetti conosceva i Cacciola? Se ne infischia del fatto che la cassetta era stata mandata anche alla Gazzetta, che è di gran lunga il giornale più importante della Calabria. Gli interessa solo Calabria Ora e il suo direttore. Chiede il motivo per il quale ha scelto Calabria Ora. Non si accontenta della spiegazione logica che riceve («perché era notoriamente un giornale contro le Procure») sollecita una spiegazione diversa: e chiede non se esistessero rapporti tra me e i Cacciola, ma chiede specificamente se esistesse un “rapporto pregresso”. Lascia chiaramente capire all’interrogato che a lui piacerebbe sentirsi rispondere di sì. Che vuole che gli si dica questo: che esistevano rapporti tra me e i Cacciola. Pisani però è un avvocato e probabilmente ha timore a mentire. E dunque, seppure un po’ intimidito, dice di no che a lui non risulta. E visto che il Pm insiste (“non ne avete parlato?..eh? Non ne avete parlato?”) nega per tre volte: no, no, no. A voi sembra questo il modo di interrogare un pentito? Voi credete che indurre i pentiti ad accusare delle persone, contro le quali si vuole agire, sia un metodo corretto? Voi avete mai letto le cose che diceva Giovanni Falcone su come si interroga un pentito? Avete mai sentito dire che lui sosteneva che chi interroga mai e poi mai deve far capire quale risposta vuole? «Mai», diceva Falcone (e chissà che non salti su qualcuno, adesso, a dirmi che Falcone era un amico della mafia…). Voi non temete che l’uso così discrezionale, e spregiudicato, e inquisitorio, e medievale della legge sui pentiti sia una mina vagante che rischia di offuscare ogni verità e di perseguitare molti innocenti? Nel caso specifico c’è qualcosa di più. Il Pm sa che comunque l’interrogatorio sarà reso pubblico. Se ne infischia della figura che farà lui per la faziosità delle sue domande. Sa che – a parte il nostro giornale – nessun altro avrà il fegato per contestargli quella faziosità. E però sa anche che la pubblicazione del verbale varrà come intimidazione, verso di me e verso i giornalisti del mio giornale. Come dire: «Sappiate che vi abbiamo nel mirino, sappiate che abbiamo strumenti pesantissimi per colpirvi, piantatela di criticare la Procura o ve la facciamo pagare». Il bello è che noi non abbiamo nessuna possibilità di essere difesi da questo assalto. Non c’è nessuna autorità alla quale possiamo ricorrere. A Chi? Al Procuratore di Reggio? Al Csm? Sì, possiamo farlo, ma con speranze molto esili. Non esiste una autorità terza che abbia il potere di porre fine ai soprusi ricevuti da parte della magistratura. Si può giusto scrivere un articolo come questo, sbraitando un po’ e sapendo bene che l’effetto sarà solo quello di incattivire i magistrati. Del resto l’unica altra scelta era quella di tacere e far sapere a chi di dovere che l’intimidazione ha colto nel segno. A me non piaceva questa scelta.

P.S. In un’altra parte del verbale Pisani dice di aver saputo che io e un collega della Gazzetta del Sud avevamo fatto varie telefonate all’avvocato Cacciola, che assisteva la famiglia Cacciola e che poi è finito insieme a tutti gli altri imputato per aver costretto Concetta alla ritrattazione. Dico subito che non credo proprio di aver fatto nessuna telefonata, non lo ricordo e tendo ad escludere la circostanza (che comunque gli investigatori possono controllare agevolmente dal momento che sicuramente il mio telefono, quello del giornale e quello di Cacciola – immagino – erano sotto controllo). E comunque se pure avessi telefonato all’avvocato Cacciola, che all’epoca era incensurato, per avere un documento giornalistico molto importante, avrei soltanto fatto il mio dovere. Cioè, mi spiego: io sono convinto che il mio dovere di giornalista sia quello di dare le notizie e vigilare sul comportamento dello Stato nei confronti dei cittadini. Dello Stato: anche delle Procure. Se invece uno pensa che il mio dovere sia rispettare, venerare e obbedire alle Procure – come spesso avviene sulla stampa italiana – allora è chiaro che l’eventuale telefonata all’avvocato Cacciola sarebbe stato un vero delitto di lesa maestà.

Sansonetti: «Il caso Cisterna e l’inutile legge sui pentiti», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Piero Sansonetti racconta il caso del giudice Alberto Cisterna, accusato ingiustamente da un pentito, scaricato dai colleghi, e ora prosciolto. «Una storia che ci parla delle lotte di potere interne alla magistratura e dei danni che fa la legge sui pentiti»Lo Giudice è il pentito della ‘ndrangheta che si è autoaccusato degli attentati alla procura generale di Reggio Calabria e alla casa del procuratore generale. Storia del gennaio 2010: una vendetta contro magistrati e forze dell’ordine per gli arresti e i sequestri di beni subìti. Alberto Cisterna è stato uno dei nomi più importanti tra le toghe antimafia, sostituto procuratore alla Direzione nazionale fino al marzo di quest’anno. Nel momento in cui la storia di Lo Giudice e quella di Cisterna si sono intrecciate ne è scaturito un cortocircuito mediatico e giudiziario dagli effetti disastrosi. Il pentito ha accusato il magistrato di corruzione in atti giudiziari per una connivenza con le ‘ndrine: secondo Antonino, Cisterna si era incontrato con il fratello Luciano Lo Giudice e, di fatto, gli aveva dato sempre protezione. Ne è scaturita un’inchiesta, che ha avuto numerosi risvolti fino a quelli clamorosi di pochi giorni fa: mercoledì la procura di Reggio Calabria ha chiesto l’archiviazione dell’indagine. «Cisterna era uno dei migliori investigatori dell’antimafia, la cui carriera è stata rovinata» racconta a tempi.it il direttore di Calabria Ora, Piero Sansonetti.

Cos’è accaduto ad Alberto Cisterna?

«Cisterna è stato affondato, poco più di un anno fa, da un avviso di garanzia. Il tutto per la deposizione di un pentito considerato assai poco attendibile da chiunque conosca un po’ la ‘ndrangheta. L’avviso di garanzia ha provocato l’intervento del Csm, che in primavera ha deciso di rimuoverlo dal suo prestigioso incarico di numero 2 dell’antimafia nazionale per spedirlo a fare il giudice in una piazza più modesta, come Tivoli. Una punizione severa, anche se non era stata provata ancora alcuna colpa. Adesso la procura di Reggio ha chiesto l’archiviazione. È come se avesse detto candidamente: “Scusate tanto, le indagini non hanno trovato nulla contro di lui”. Qual è il risultato di un anno di fango e sospetti? Sul piano giudiziario nessuno, su quello personale la carriera di Cisterna è stata rovinata».

Quali sono gli insegnamenti di questa vicenda per la nostra giustizia?

«Credo siano due. Il primo è che la magistratura, una fetta almeno di essa, usa il suo enorme potere talvolta male e per lotte interne. Per capirlo basta guardare il contesto in cui avviene la vicenda di Cisterna. È tutto lampante, non lo dico io».

Cioè?

«Semplice: il procuratore capo di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, dopo 4 anni, stava per andarsene (in seguito è stato infatti nominato procuratore capo a Roma) e si poneva il problema della successione. Uno dei candidati era proprio Cisterna, magistrato di grande prestigio, all’epoca alla Direzione nazionale antimafia. Ma a Reggio Calabria ci sono due gruppi di magistrati in lotta tra loro, uno che faceva riferimento a Pignatone, l’altro contrapposto che si riferiva a Cisterna. Lo scontro era anzitutto “di potere”, prima che di idee. C’era sicuramente anche una differenza di concezione della ‘ndrangheta (Pignatone la vedeva molto verticistica, Cisterna la vedeva come organizzazione orizzontale), ma non era tanto questo. La procura di Reggio sotto la gestione Pignatone ha ottenuto risultati molto importanti nella lotta alla ‘ndrangheta, eseguendo numerosi arresti, ma questo non esclude che si possa avanzare una critica, che sotto la sua gestione le lotte di potere sono state spregiudicate. Una parte della procura voleva evitare la nomina di Cisterna, considerato troppo vicino alla cordata opposta: questa lotta di potere si è spinta fino a convincere i magistrati anti-Cisterna a considerare attendibile la testimonianza di un pentito minore, come Nino Lo Giudice, detto “Il nano”. Si è intrecciata una campagna giornalistica ed è stata confermata la tesi che, quando giudici e giornalisti fanno squadra, il diritto se ne va a quel paese. La magistratura è un istituzione che ha tanto potere, ed è inevitabile che si creino gruppi di potere, e non sempre la differenza è sulle idee. Come si può intervenire su questo elemento? L’unica via è ridimensionare il potere della magistratura. L’altro insegnamento che va tratto dalla vicenda Cisterna è sulla legge sui pentiti».

Perché?

«La legge sui pentiti, secondo me, oggi non serve a niente. Servì ai tempi di Falcone, ma introduce una tacca nel diritto. Perché chi si pente non paga? Non possiamo sospettare che qualcuno abbia avuto un nome dando in cambio la garanzia dell’impunità? Nel caso dei pentiti la legge è addirittura usata dai pentiti stessi meglio che dai magistrati. Nel caso Cisterna questo è evidente. C’è un pentito, Lo Giudice, che non aveva alcun peso nell’organizzazione criminale, era un “cocomerario”. Lo Giudice ha accusato un esponente politico e Cisterna: sono state prese per buone solo le sue dichiarazioni su Cisterna. E oggi viene fuori che sul politico le indagini avrebbero dovute essere approfondite, mentre su Cisterna non c’era assolutamente nulla, a parte le parole del pentito. Eppure su questa base è stata fatta una campagna stampa. Cisterna in primavera è stato “riservatamente” convocato da Pignatone a Roma per essere interrogato. Tanto riservatamente che, mentre era in volo sull’areo, ha letto la notizia della convocazione sul Corriere. A mio avviso, la legge dei pentiti va riformata, o meglio abolita perché la mafia sa usare lo strumento legislativo meglio dei giudici. Ma succede anche che qualche magistrato, anche senza pensare chissà a quale macchinazione, ma in buona fede, si convinca di una tesi investigativa e non avendo le prove, trovi il pentito pronto a “parlare”.»

C’È UN POTERE FUORI CONTROLLO: LA MAGISTRATURA, scrive Piero Sansonetti su “Calabria Ora”. La magistratura ormai è diventata un potere fuori controllo. Rischia di fare dei danni gravi, di far saltare gli equilibri fondamentali che regolano il funzionamento della nostra società, e di devastare lo stato di diritto. Purtroppo, al momento, il mondo politico sembra cieco di fronte al pericolo. C’è solo Silvio Berlusconi che lo denuncia, ma è poco credibile perché, tra le tante vittime dello strapotere dei giudici, lui certamente è la meno innocente. I suoi nemici invece sono convinti, ahinoi, di poter trarre profitto dallo scontro tra Berlusconi e il potere giudiziario, e quindi se ne infischiano, anzi alimentano la corsa dei giudici all’onnipotenza. è così: l’Italia è nelle mani di una classe dirigente e di un ceto politico molto poco responsabili, non all’altezza dei propri compiti. La guerra tra magistrati che si è aperta in Calabria, e che ieri ha visto il procuratore di Reggio, Giuseppe Pignatone, azzannare il dottor Alberto Cisterna, numero due dell’antimafia nazionale, è uno degli esempi più limpidi, e preoccupanti, di questo impazzimento del potere giudiziario. Pignatone ha deciso di iscrivere Cisterna sul libro degli indagati  (e la notizia – chissà per quali misteriose vie! - è stata fornita al “Corriere della Sera”) sulla base della testimonianza di un pentito che nessuno, in Calabria, ritiene neppur minimamente attendibile. Mentre è opinione comune che la moralità del dottor Cisterna sia fuori discussione. Io, che sono vecchio, mi ricordo molto bene quando, tanti anni fa, un certo pentito Pellegriti, uomo di mafia, accusò in modo generico e senza riscontri Giulio Andreotti di contatti con “Cosa Nostra”; il giudice Falcone, nel giro di due ore, fece una cosa molto semplice: incriminò Pellegriti e dispose il suo arresto. Vi assicuro che Pellegriti, nonostante tutto, aveva più credibilità del pentito Lo Giudice detto il “nano”. Perché Falcone fu così duro con lui? Perché avendo una grandissima conoscenza della materia delicatissima del “pentitismo”, Falcone sapeva quale fosse il pericolo: che i pentiti iniziassero loro stessi a diventare protagonisti, usassero la magistratura ai loro scopi, destabilizzando e soprattutto portando la giustizia lontanissima dalla verità. Falcone aveva costruito su un pentito - Tommaso Buscetta - la sua grandiosa opera di investigazione e le sue scoperte sulla mafia, ma sapeva anche che i pentiti andavano maneggiati con grande cautela. E che bisognava, spesso, diffidare di loro. Francamente il dottor Pignatone, nel caso di Lo Giudice, non ha mostrato grande cautela. Ha creduto a una sua testimonianza basata per altro non su conoscenza diretta e nemmeno sul sentito dire, ma su una intuizione (“avevo l’impressione che mio fratello avesse...”) e invece di reprimere la calunnia ha proceduto all’iscrizione di Cisterna nel registro degli indagati e non ha impedito che la notizia arrivasse ai giornali. Producendo un danno di immagine e di credibilità incalcolabile ad uno degli uomini chiave dell’antimafia nazionale. Diciamo che, al momento, questa partita – cioè questa guerra nella magistratura – la sta vincendo la ’ndrangheta. La quale, potete starne certi, stasera brinda a champagne per il colpo portato a segno dal “nano”. Cosa si può fare adesso, per impedire che il “suicidio” dello Stato prosegua? Ripeterò quello che ho detto altre volte, e ancora recentemente – in garbata e serena polemica con il dottor Pignatone. 

Primo, occorre riformare la legge sui pentiti, profondamente, in modo da ridurre al minimo la possibilità dei pentiti di essere decisivi nell’orientamento delle indagini e nelle loro conclusioni, e ridimensionando consistentemente il regime premiale. I pentiti non devono essere, come sono adesso, i padroni della Giustizia.

Secondo, bisogna intervenire per spezzare il cerchio di “complicità” tra magistratura e stampa, e cioè la tendenza di pezzi importanti di magistratura ad usare la stampa come un proprio strumento “punitivo” o “ricattatorio”. è molto difficile che la stampa possa sottrarsi a questa sua subalternità da sola, perché è difficile rinunciare alle notizie e agli scoop. E allora deve intervenire la legge. 

Terzo, si deve procedere a una riforma della giustizia che restituisca alla magistratura il suo ruolo essenziale nel funzionamento di una società democratica e le impedisca di compiere continuamente irruzione in ambiti di potere che non sono suoi e di usare le proprie competenze al fine di vincere battaglie politiche e di potere. Separazione delle carriere, riforma del Csm, riforma delle intercettazioni, eccetera.

Non c’è molto tempo da perdere. L’idea che riformare la magistratura sia un atto che va nella direzione dell’aiuto alla malavita è follia. è il contrario. Non è possibile combattere davvero la malavita con la magistratura ridotta come oggi è ridotta. Se la stessa lotta alla mafia diventa uno strumento per altre battaglie politiche, statene certi, la mafia vincerà sempre.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

ECCO COME MI VOGLIONO FAR FUORI.

Io, Antonio Giangrande, sono uno “ScassaCazzo”, ma non per i soliti mafiosi, così come usa definirli la sinistra retrograda ed ipocrita. Il mio target è l’Istituzione, corrotta ed incapace, i media omertosi ed i cittadini emuli dell’illegalità.

Per spiegare il concetto uso le parole di Giulio Cavalli. Darò voce a chi è adulato dai comunisti, ma è come se parlasse di me. "Ecco come mi uccideranno", scrive Giulio Cavalli su “L’Espresso”. «Un falso incidente, dicono i mafiosi. Perché sono "uno scassaminchia". Con il solito copione: delegittimazione, isolamento, quindi morte. Ma questa volta parlavano di me. Un onore che è solo una metastasi della paura». Cronaca di un omicidio annunciato, per la penna di chi dovrebbe esserne la vittima: scrittore, autore, politico. All'inizio arriva lo straniamento. E' questione di qualche secondo. Sentirsi estraneo al resto del mondo, apolide, anaffettivo per difesa, come per ingoiare tutto senza lasciare briciole che possano ferire quelli che ti stanno vicino. Poi aspetti che si posi la povere. E arriva tutto il resto: cerchi che si chiudono, densi come lava. Sono anni che so che qualcuno mi vuole male, anzi, sono anni che so bene che qualcuno mi vedrebbe volentieri morto. Lo so io, lo sanno quelli che mi accompagnano con la pistola in tasca e non avrebbero mai pensato di farlo in un impolverato camerino teatrale e lo sanno quelli che ci vivono, bene o male, con me. Ma le parole del pentito Bonaventura hanno uno scatto in più: scrivono la sceneggiatura di ciò che sospettavi, fissano i luoghi, i dialoghi, i tempi e i modi; come se da anni sapessi di fare parte dello spettacolo, e in ritardo solo ieri mi è arrivato il copione e la sceneggiatura non mi piace per niente. Delegittimato prima che ucciso: questo è il comandamento laico che dovremmo tenere a mente. Totò Riina ai suoi diceva che "quello lì deve finire mascariato" quando si doveva togliere di mezzo un nemico scomodo. Mascariato, delegittimato, isolato, sospettato per essere lasciato senza le difese delle relazioni oltre che delle scorte, è il metodo che in questa italietta sempre più prepotente si usa nell'antimafia ma anche nel lavoro, nella politica e nelle relazioni sociali. Un'esibizione di prepotenza scambiata per potere che funziona grazie al mito della durezza e alle convergenze inconsapevoli degli utili idioti: così diventa facile essere intolleranti con le fragilità e al servizio del signorotto di turno. Non mi sembra solo questione di mafia, qua, no, per niente: è il federalismo delle responsabilità che ha voluto insegnarci che la solidarietà è un vezzo troppo democratico che non possiamo permetterci per non mettere in pericolo le nostre posizioni di rendita e il futuro dei nostri figli. Dietro la delegittimazione che avrebbe dovuto ammazzarmi prima di ammazzarmi c'è un vizio sociale, mica solo mafioso, e per questo alle mafie funziona perfettamente. L'ho vissuta in tutti questi miei ultimi anni, la delegittimazione, ogni mattina, che ti arriva insieme alla colazione, nel ruolo del minacciato: esposto al cannibalismo perché dovrebbe fare parte dei giochi, mi dicono. Ma forse varrebbe la pena, forse, al di là del film che in questi giorni mi hanno cucito addosso, riflettere sul metodo che prende piede solo perché intanto stiamo perdendo la capacità della critica, di costruire una chiave di lettura collettiva, di darci da fare per un'alfabetizzazione sociale sulle mafie che non stanno più al sud o lì dove ce le hanno sempre raccontate e non hanno i capi che ci propinano in tivvù ma sono nello scontrino del nostro caffè al bar sotto casa che continua a cambiare gestione, sono nella verdura degli ipermercati così vicini che non hanno abbastanza clienti eppure stanno in piedi lo stesso, stanno nel miracolo dei rifiuti che hanno trasformato la merda in oro e sono il banchetto più ricercato, stanno nelle case incessantemente costruite e desolatamente invendute che trasformano le periferie in cimiteri senza elefanti, stanno in un mercato in cui qualcuno vince sempre perché non ha bisogno di guadagnare soldi ma spenderne per ripulirli. E così intanto a perdere sono il talento, lo studio, la meritocrazia e tutte quelle altre cose che giocano con le regole che non reggono più. Poi c'è l'omicidio travestito da incidente. E anche a questo siamo abituati, no? Al Paese dei morti che sono stati suicidati e subito alla svelta tutti a chiudere il caso: come si impacchettano le verità qui da noi, nemmeno al ristorante con il pesce. L'omicidio è una conferma. Conferma dolorosa, sì, ma stava nell'aria. Dicono i De Stefano, i Papalia e i Tegano che sono uno "scassaminchia", pensa, succede che basti raccontare per scassare la minchia, così poco, sono talmente smutandati senza il loro solito silenzio tutto intorno per favorirne l'immersione che una parola dietro un sipario li rende subito stupidi e nervosi. Uno scassaminchia, sarebbe da scrivere sulla carta d'identità come professione. Professione nel senso più antico e decoroso: professare ideali nel proprio lavoro e nella propria cittadinanza, lì nei doveri dove su certi temi non esistono contratti a progetto o precariato, anche se l'hanno capito ancora in troppo pochi. Ti vogliono ammazzare, Giulio. Mi arrivano i messaggi e la solidarietà. Le preoccupazioni, i rodimenti e gli auguri (che non si dovrebbero fare ad un attore). Hai paura? No, non rispondo, gli arlecchini non devono mai prendersi troppo sul serio. Mi investiranno? Impossibile: tutta questa gente intorno è la mia isola pedonale. Mi screditeranno? Possibile, ci divertiremo un sacco a sgretolare tutto questo onore che è solo una metastasi della paura. E quindi? Quindi c'è un articolo della Costituzione (messa così male, ultimamente) che è l'articolo 4 e dice: Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Insomma non essere scassaminchia è anticostituzionale, eh.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

PROCESSO AL COLLE.

Quelle trattative con il boss decisive per vincere la guerra. Tra documenti storici ufficiali e narrativa ecco il primo accordo tra Stato e mafia che orientò le sorti del secondo conflitto, scrive Carlo Maria Lomartire su “Il Giornale”. Pubblichiamo uno stralcio del libro del giornalista Carlo Maria Lomartire La prima trattativa Stato-mafia appena uscito in libreria. Il saggio racconta in forma narrativa e col supporto di documenti ufficiali la vicenda delle trattative tra Stato e mafia durante la Seconda guerra mondiale, da cui emerge un ritratto a tutto tondo del celebre boss Lucky Luciano. Nei primi giorni di febbraio del '43, in uno di quei loro incontri periodici che servivano a fare il punto sulla situazione nel porto di New York, la cui sicurezza sembrava ormai rientrata nei parametri della normalità, Haffenden rivelò a Polakoff qualcosa di grosso. (...)«Quando dico che l'invasione dell'Europa comincia dall'Italia e dal Sud, intendo proprio il Sud dell'Italia. Sbarcheremo in Sicilia: il nome in codice è Operazione Husky. La pianificazione dell'organizzazione è stata affidata al generale Dwight Eisenhower. Credo che questo basti per dimostrare l'importanza che i comandi alleati attribuiscono all'operazione. Dicono che sarà la più colossale azione di sbarco della storia. Comunque metteremo piede in Europa per la prima volta dall'inizio della guerra». «Perché proprio la Sicilia?». «Be', a parte considerazioni strategiche più generali, ci sono buone ragioni per ritenere che sull'isola possiamo trovare più collaborazione che altrove». «Quali sarebbero queste buone ragioni?». «Prima di tutto perché lì il fascismo pare che non abbia mai attecchito troppo. In Sicilia è sempre stato vivo un certo sentimento indipendentista, che in questi mesi sembra particolarmente fervido. E poi perché, come lei sa fin troppo bene, gli Stati Uniti hanno accolto centinaia di migliaia di immigrati siciliani. Il nostro esercito è pieno di gente originaria della Sicilia. Tutti bravi soldati». (...) «Abbiamo bisogno, e rapidamente, di aggiornare e completare queste informazioni, perché l'operazione deve essere conclusa entro luglio. E c'è un solo modo per averle presto e attendibili: ottenerle da gente del posto, dai siciliani. Che amano molto gli Stati Uniti a cui, come le dicevo, sono legati anche dai vincoli di sangue creati dall'emigrazione. Ma, si sa, sono anche un popolo molto diffidente. Perciò chi può chiedere loro queste informazioni senza suscitare sospetti e chiusure se non altri siciliani, o meglio: americani originari della Sicilia?». «Comincio a capire, temo». «Si tratta di contattare tutti i siciliani di immigrazione recente e metterli a disposizione dei nostri cartografi e navigatori per correggere, aggiornare e completare le carte esistenti. E pensiamo che nessuno meglio di Luciano, con l'aiuto dei suoi amici, possa radunare in fretta questa gente e convincerla a collaborare». «Era proprio quello che temevo». «Naturalmente questo ulteriore servigio renderebbe ancora più ingente il debito di riconoscenza dello zio Sam verso il suo cliente». (...)Il nome di Luciano, assicurò la collaborazione dei più potenti boss della costa orientale: personaggi come Vito Genovese, che intanto era tornato in Italia, Albert Anastasia, Vincenzo Mangano, Frank Costello, Nick Gentile, Thomas Buffa, Frank e Joe De Luca, Joe Profaci, Toni Lopiparo, Leonard Calamia, Jim Balestrieri, Joseph e Peter Di Giovanni. Un gioco da ragazzi, per costoro, contattare, direttamente o indirettamente, centinaia di siciliani, non tutti necessariamente mafiosi ma tutti certamente disponibili, mettendoli in contatto con una squadra del Nis, detta per l'occasione «dei siciliani» e non a caso comandata da due ufficiali con origini siciliane: Paul Alfieri e il solito Anthony Marzullo, i quali rispondevano direttamente ad Haffenden. Con loro collaborava un gruppo di cartografi coordinato dal primo geografo-navigatore della Marina, George Tarbox. (...)«Avvocato, faccia presente ai suoi amici dell'intelligence che le prigioni siciliane sono piene di antifascisti, uomini d'onore, perché gli uomini d'onore sono per forza antifascisti. Se per caso gli Alleati dovessero un giorno sbarcare in Sicilia, liberando questi prigionieri si farebbe un atto di giustizia. E poi potrebbero essere molto utili, questo glielo posso assicurare io». Moses colse perfettamente il senso della richiesta: liberare i mafiosi detenuti nelle carceri siciliane, considerandoli prigionieri politici, e impiegarli per assicurarsi il pieno controllo delle zone occupate. «Lo terrò presente», rispose. (...) «È superfluo che io le dica, capitano, che nella loro grande maggioranza, le persone con cui abbiamo preso contatto per arricchire la nostra documentazione sulla Sicilia o che incontreremo dopo lo sbarco sono, chi più chi meno, tutte vicine alla mafia», fece notare, con discrezione, l'avvocato Polakoff ad Haffenden quando questi gli descrisse compiaciuto il lavoro fatto. «Affidarsi a loro dopo l'invasione significa accrescerne ulteriormente il controllo del territorio, dare loro più potere. Oltre tutto sono ansiosi di rivalsa perché il fascismo è effettivamente riuscito, almeno in parte, a metterli momentaneamente in un angolo. Io li conosco, so come ragionano e come si muovono, non so se è prudente..». In realtà l'avvocato di Luciano non era minimamente preoccupato della rinascita della mafia in Sicilia. Semplicemente, ancora una volta voleva acquisire benemerenze con Haffenden per spenderle a favore della futura liberazione del suo assistito. «Lo capisco perfettamente, avvocato», lo interruppe secco l'ufficiale, «ma, come lei sa, noi ora stiamo facendo la guerra ai nazi-fascisti. Alla mafia penseremo in un altro momento». (...) Proprio in quei primi giorni di febbraio del 1943 in cui Haffenden si assicurava la collaborazione di Luciano anche per spianare la strada all'invasione della Sicilia, accadde qualcosa che, partendo da altri ambienti, sembrò andare nella stessa direzione.

Ecco lo scoop che cercavano Ingroia e Travaglio. L'ex pm e i suoi colleghi hanno ragione: la mafia ha trattato eccome con gli Stati, e la foto che pubblichiamo è la prova definitiva, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Vogliamo dare una mano all'ex pm Ingroia e ai suoi colleghi in servizio permanente alla procura di Palermo, sempre a caccia di intrighi e scoop giudiziari. Perché hanno ragione: la mafia ha trattato eccome con gli Stati, e la foto che pubblichiamo è la prova definitiva. L'ha scattata Robert Capa nel luglio del '43 sulle colline siciliane e immortala un pastore, che secondo un pentito (il nonno di Ciancimino) faceva parte della cupola (il telefono di suo nipote è tutt'ora intercettato), indicare a un soldato americano la via che porta al Quirinale. Pare che l'allora giovane Giorgio Napolitano fosse al corrente della tresca e abbia taciuto, tanto che un anno dopo i marines entrarono a Roma liberandogli il posto che infatti il furbo Giorgio ha occupato anni dopo. È storia: se l'Italia è stata liberata dal nazifascismo e la strada a Napolitano è stata spianata, lo si deve a quella trattativa tra Stati (Uniti) e mafia. Pare, dico pare, che Ingroia e soci abbiano già chiesto una rogatoria internazionale per spulciare i conti degli eredi dell'allora presidente Franklin Delano Roosevelt a caccia di possibili tangenti. E che dalla procura di Palermo sia partita la richiesta di interrogare il suo successore Obama alla Casa Bianca. Travaglio già prepara una edizione speciale del Fatto Quotidiano.

Assalto al Colle: la triste fine di Re Giorgio. Giorgio Napolitano è stato costretto a rispondere ai criminali attraverso i loro legali: 40 tra pm e avvocati al Quirinale per interrogarlo sulla presunta trattativa Stato-mafia, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Ha accettato che lo santificassero e adesso marcia verso il martirio. Giorgio Napolitano appartiene a un mondo giurassico ormai scomparso ma caparbiamente agisce come se quel mondo esistesse ancora. I più giovani non lo sanno, ma quell'uomo eternamente sfottuto come un (finto) rampollo di casa Savoia a causa della sua somiglianza con Umberto il «re di Maggio», è stato da un certo momento in poi un difensore convinto del sistema occidentale ed ha rappresentato nel Partito comunista italiano una corrente molto audace, perché doveva contrapporsi all'altra corrente composta dagli uomini cari al Kgb sovietico. Non a caso Henry Kissinger - suo coetaneo ed ex Segretario di Stato sotto Nixon - diceva di lui che era l'unico comunista per cui provasse amicizia. Personalmente mi spingo più in là: il Pci alla caduta dell'impero sovietico era diviso ormai fra filoamericani benvoluti dalla Cia e filorussi benvoluti dal Kgb. Non parlo di agenti o di spie, ma di quegli intellettuali che nell'apparato non visibile preparano le svolte politiche. Io me ne accorsi quando la comparsa del «Dossier Mitrokhin» nel 1999 scatenò una guerra interna al Partito comunista in cui i filoamericani trattavano i filorussi con disprezzo accusandoli di spionaggio interno e di lì cominciò la dissoluzione del partito di Togliatti, che si sta completando con la cacciata di fatto di tutti i comunisti dal partito dei Ds. Napolitano ha partecipato dietro le quinte a questo processo, trincerato dietro i suoi discorsi ufficiali di scoraggiante prevedibilità, come devono essere in genere i discorsi di chi abita al Quirinale. Certo, qualcuno ricorderà che Napolitano faceva parte di quel gruppo dirigente stalinista (dopo Stalin) che impose a Nikita Krusciov la sciagurata repressione nel sangue degli studenti e degli operai di Budapest nel 1956, ma su questa storia e molte altre lo stesso Napolitano ha riconosciuto gli errori con onestà. Esiste una sua splendida intervista a un giornalista americano, in proposito, che non ricordo di aver letto in italiano. Ma sta di fatto che l'allora giovane dirigente del Pci (che come tutti a quell'epoca aveva un passato fascista) si mise a studiare l'inglese, lingua che parla con scolastica padronanza e che gli ha aperto più d'una porta. Che cosa sta succedendo oggi a quest'uomo vergognosamente costretto a rispondere a due fra i più grandi criminali della storia italiana, sia pure attraverso i loro avvocati? Io credo che la risposta sia semplice: Napolitano paga oggi (da qualche anno ormai) il suo passato e le sue scelte a favore dell'Occidente e degli Stati Uniti. La memoria dell'acqua, che solo in apparenza passa e se ne va, è invece eterna. Che Napolitano possa essere accusato di aver fatto, o tutelato una trattativa fra Stato e mafiosi per evitare altre perdite di vite umane e devastazioni, è ridicolo. Come scriveva ieri il direttore di questo giornale, visto che lo Stato non ha perso nulla e che i mafiosi hanno perso tutto, andrebbe fatto un monumento a coloro che hanno messo nel sacco la mafia. Ma in molti pensano, e io fra loro, che il tentativo di incastrare il Capo dello Stato con l'umiliazione di un interrogatorio a domicilio condotto dai criminali, abbia lo scopo di completare il «character assassination», l'uccisione della figura pubblica di un uomo che da molti anni è garante di equilibri che vanno di traverso alla sinistra. Certo, non dimentichiamo tutto ciò che è accaduto nel momento dell'espulsione di Berlusconi dall'ultimo governo votato dal popolo con una serie di trame di palazzo guidate, o eseguite proprio da Napolitano. L'uomo non è esente da pecche anche gravi. Ma oggi va difeso sia perché le accuse nei suoi confronti appaiono grottesche, macchinose e persecutorie; sia perché i suoi nemici di oggi sono molto vicini ai nemici di ieri. Certo, Napolitano non è vittima di un «complotto comunista» ma è vittima di un complotto ordito alla maniera dei comunisti, con un apparato derisorio stalinista, cioè del genere che fu poi diligentemente copiato dai nazionalsocialisti: insudiciare la vittima e poi sottoporla alla gogna di un processo di per sé umiliante. Pur di far perdere Napolitano, non si esita a far vincere Riina. Che poi sarebbe l'esatto opposto di quanto l'ipotizzata trattativa fece davvero, dal momento che Riina con tutti i suoi è chiuso nelle patrie galere e dunque era un perdente, come era giusto che fosse. E dunque, se vincesse il partito che oggi lo vuole alla gogna, vincerebbe lo sgretolamento dell'istituzione repubblicana, come accadde quando fu la volta di Francesco Cossiga, un altro che aveva scelto la libertà e la pagò carissima. Noi speriamo che Napolitano regga botta, che dia fondo alle sue qualità più solide: una calma invidiabile, la capacità di sgretolare i macigni riducendoli in sabbia e una forte fiducia in se stesso ma anche di chi sta al suo fianco perché sa riconoscere una montatura ideologica da un'accusa giudiziaria.

Trattativa stato mafia, un danno al processo sentire Giorgio Napolitano. L'udienza al Colle offusca la credibilità della massima carica istituzionale. E serve solo a un ritorno mediatico per i pm. Come sostiene anche qualche magistrato contrario al "tiro al bersaglio contro il capo dello Stato", scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Giorgio Napolitano Puntare così, come stanno facendo i pm di Palermo, sul Presidente della Repubblica fa venire in mente un vecchio detto siciliano: «’U carbuni si nun tingi mascarìa», il carbone se proprio non colora almeno macchia. È come inserire un virus in grado di offuscare la credibilità della massima carica istituzionale, insinuare dubbi sulla sua sincerità, seminare sospetti sulla genuinità di ciò che dice, o non dice. Una tecnica che venne denunciata proprio da Giovanni Falcone quando finì sotto accusa al Csm. Il bersaglio adesso è Giorgio Napolitano. E qui sta il problema, perché se a un Capo di Stato si voleva porre qualche domanda sulla trattativa Stato-mafia, non è certo all’attuale, come ben sanno i pm, ma a un suo predecessore, Oscar Luigi Scalfaro. Più alto è il nemico più valoroso è chi lo persegue? Il valore sta nella capacità di provare processualmente gli addebiti. I giudici sono chiamati ad accertare se vi sia stata violenza o minaccia a un corpo politico «per impedirne o comunque turbarne l’attività». È la tesi della procura che accusa imputati mafiosi, politici, ex ministri ed ex carabinieri: è il processo alla trattativa Stato-mafia. Un processo che per risvolti mediatici e istituzionali è destinato a passare alla storia del Paese, spostando addirittura dentro il Quirinale un’intera sezione di corte d’assise. Per la prima volta un Presidente sarà sentito come testimone in un “pubblico” dibattimento, anche se non ci saranno spettatori e nemmeno gli imputati verranno ammessi. I pm hanno convocato come teste Napolitano per rispondere solo di una frase contenuta in una lettera del giugno 2012 scritta dal consigliere giuridico del Colle, Loris D’Ambrosio: una missiva in cui si definiva amareggiato per le polemiche sulle telefonate intercettate tra lui e Mancino, rassegnando le dimissioni. In quella occasione D’Ambrosio scrisse di aver avanzato «ipotesi, solo ipotesi» facendo accenni criptici a una stagione di bombe, veleni e misteri, dal “corvo” di Palermo al fallito attentato a Falcone all’Addaura, fino agli omicidi eccellenti e alle stragi del ’92 e ’93, accompagnate da episodi poco chiari sia all’interno delle istituzioni sia della mafia, preceduti da un «lei sa», riferito a Napolitano. Il presidente ha già comunicato ai giudici con una lettera che non ebbe da D’Ambrosio nessun «ragguaglio o specificazione» sulle «ipotesi enucleate», ma ciò non è servito a escludere la sua deposizione. Napolitano ha sottolineato che non sa altro. I pm però lo vogliono vedere a tutti i costi davanti a loro, per farsi ripetere «non so». E la loro irruzione al Quirinale crea uno sfregio istituzionale. Anche all’interno della magistratura c’è chi sostiene che i pm di Palermo a questo punto avrebbero potuto rinunciare al teste. Come Giuseppe Di Lello, ex giudice istruttore del pool, che alla “Stampa” ha parlato di un «tiro al bersaglio contro il Capo dello Stato». L’ex magistrato ritiene che abbia «preso vigore una campagna contro il Presidente» e dopo la distruzione delle intercettazioni telefoniche fra Napolitano e Mancino «la “compagnia di giro” ha aggiustato il tiro sul bersaglio, spostandolo sulla lettera che  D’Ambrosio inviò a Napolitano. Purtroppo D’Ambrosio è morto». Di Lello chiede «perché mai il Capo dello Stato dovrebbe sapere quali fossero questi ipotetici indicibili accordi, quando ha già fatto sapere di non avere null’altro da aggiungere? Di sicuro però, il danno è stato fatto perché il coinvolgimento nel processo del Capo dello Stato è interpretato dal popolo antimafia duro e puro come la conferma che Napolitano sia depositario di tutti i segreti della trattativa e, di conseguenza, delle stragi». Ma la deposizione oltre che uno sfregio istituzionale potrebbe rivelarsi anche un errore processuale. Che rischia di minare l’intero dibattimento. Perché, vietando la presenza degli imputati, si apre la strada a più di un ricorso sulla validità del giudizio. Certo, il magistrato deve sempre tendere alla ricerca della verità. Ma deve anche evitare che certe azioni spazzino via il lavoro di ricerca che ha come obiettivo quello di accertare se lo Stato si è piegato alla mafia e capire se tante vittime innocenti come Dario, Caterina, Nadia, Fabrizio, Angela possano essere state uccise nel ’93 in via dei Georgofili da una bomba destinata a sostenere una trattativa inconfessabile. I vuoti da colmare sono ancora tanti e sarebbe bastato rinunciare al teste e andare spediti verso la fine del dibattimento per ottenere una verità giudiziaria. La sensazione è che questi pm siano saliti a bordo di un’auto che viaggia a forte velocità imboccando una strada che sembra essere un vicolo cieco. «Ci vorrebbe un po’ più d’equilibrio da parte di tutti», scrisse Norberto Nobbio nel 1992, quando un sistema politico affondava anche sotto i colpi delle stragi e quando sicuramente vennero imbastiti dei tentativi di dialogare con le mafie. Ma quell’appello non ha ancora trovato ascolto.

La deposizione di Napolitano e la memoria breve dei magistrati di Palermo, scrive Marco Pratellesi su “L’Espresso”. Siamo un Paese dalla memoria breve. Il che, per un lettore, è pure giustificabile. Meno lo è se a non ricordate sono apparati dello Stato. Meno ancora se smemorata è la magistratura che, indagando sui fatti, si dovrebbe supporre che li conosca. In una intervista al Corriere della Sera, il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi alla domanda se era proprio necessaria la testimonianza del capo dello Stato risponde: “Sì, e il suo esito l’ha dimostrato. Il capo dello Stato ci ha offerto un elemento di conoscenza importante, spiegando che con le bombe del 1993 la mafia pose un aut aut alle istituzioni che secondo lui fu recepito immediatamente: o alleggerite la stretta su Cosa nostra o noi andiamo avanti con la destabilizzazione”. Un elemento di conoscenza importante? I giudici di Palermo dovrebbero sapere, dovrebbero ricordare. O, almeno, avere l’umiltà di informarsi. Bastava leggersi i verbali, le istruttorie di due magistrati come Piero Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi, che su quelle bombe indagarono, per sapere che non c’era altra pista investigativa se non quella del ricatto della mafia allo Stato. I due magistrati sono nel frattempo morti, ma la memoria storica delle loro indagini resta agli atti. Impossibile non sapere per chi su quei fatti indaga. Se questo è quello che i giudici di Palermo hanno ottenuto al Colle, ancora una volta aveva ragione Napolitano che, un anno fa, con una lettera alla Corte, aveva spiegato che molto probabilmente la sua deposizione sarebbe stata superflua. E tale oggi ci appare.

28 ottobre 2014. Stato - Mafia, La deposizione di Giorgio Napolitano. «Le bombe erano un ultimatum Telefoni muti e tememmo il golpe». Il Capo dello Stato sugli attentati della mafia nell’estate del 1993: fu subito chiaro che erano nuovi sussulti della fazione più violenta di Cosa Nostra, scrive di Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Nella sala del Bronzino adibita ad aula di corte d’assise, i giudici sono sistemati un gradino più in alto rispetto ad avvocati e pubblici ministeri, seduti di fronte a loro. Quando il presidente Alfredo Montalto, verbalizzate presenze e assenze, invita a far entrare il capo dello Stato, si apre una porta laterale e fa ingresso Giorgio Napolitano. I corazzieri scattano sull’attenti, gli avvocati si alzano in piedi, giudici e pm restano seduti. Il capo dello Stato prende posto sullo stesso piano rialzato della corte, alla sua destra, con in mano una cartellina che raccoglie alcuni documenti. Si siede e pronuncia la formula di rito, impegnandosi a dire tutta la verità.
Alle 10,05 comincia una testimonianza da cui l’accusa incassa una frase che - nella propria visione - conferma il quadro del ricatto allo Stato portato dai mafiosi e favorito da alcuni rappresentanti delle istituzioni. Riguardo agli attentati di Firenze, Roma e Milano nella primavera-estate del 1993 Napolitano, all’epoca presidente della Camera, dice: fu subito chiaro che erano nuovi sussulti della fazione più violenta di Cosa nostra, per porre lo Stato di fronte a un aut aut ; o si alleggeriva la pressione nei confronti della mafia o si rischiava il proseguimento degli attacchi destabilizzanti. Ma l’esame dei pm comincia con una premessa del procuratore aggiunto facente funzioni di capo, Leonardo Agueci, il quale sottolinea il riguardo dell’intero ufficio per Napolitano e l’alta funzione che esercita. Subito dopo tocca all’altro procuratore aggiunto, Vittorio Teresi, che comincia dal riepilogo degli incarichi istituzionali ricoperti dal testimone, per arrivare alla conoscenza con il magistrato Loris D’Ambrosio, nel 1996, quando Napolitano era ministro dell’Interno e lui capo di gabinetto al ministero della Giustizia. Salito al Quirinale nel 2006, Napolitano lo ritrovò che era già consigliere giuridico di Ciampi, e lo confermò nell’incarico: «Avevamo un rapporto direi quotidiano, che sfociò in affetto e stima ma sempre sul piano del lavoro, non facevamo conversazioni a ruota libera». Ed eccoci al cuore della deposizione: la lettera con cui il 18 giugno 2012, un mese prima di morire, D’Ambrosio comunicò a Napolitano le proprie dimissioni (respinte), ed espresse il timore di essere stato trattato, fra il 1989 e il 1993, da «utile scriba» e «scudo per indicibili accordi». Il pm Teresi chiede a più riprese se il capo dello Stato abbia saputo di più circa questi sospetti. «No - è la sintesi delle risposte - D’Ambrosio mi aveva trasmesso solo ansietà e sofferenza per la strumentalizzazione delle intercettazioni tra lui e Mancino. La lettera fu per me un fulmine a ciel sereno. Non ebbi sentore o percezione delle sue inquietudini relative al 1989-’93, ma dell’indignazione per il trattamento ricevuto, dopo aver dedicato una vita alle istituzioni, a costo di minacce che ebbero effetti sui suoi familiari (il riferimento è alle indagini svolte da D’Ambrosio sul terrorismo nero e i Servizi deviati alla Procura di Roma, ndr ). Era profondamente scosso perché veniva messa in dubbio la sua fedeltà istituzionale, si sentiva ferito a morte». La riservatezza costituzionalmente garantita delle attività presidenziali, «anche informali», consentirebbe a Napolitano di non parlare delle sue conversazioni con D’Ambrosio, ma il presidente non si ferma: «Non ebbi con lui discussioni sul passato». Nessun cenno agli «indicibili accordi», che del resto erano «ipotesi prive di sostegno oggettivo, ché altrimenti da magistrato avrebbe saputo cosa fare, mentre di questi dubbi non ha parlato né nelle audizioni parlamentari né ai pubblici ministeri». E gli accenni a ciò che avrebbe scritto, e invece non compare, nel libro di Maria Falcone in ricordo del fratello trucidato dalla mafia, «rimangono righe a cui è difficilissimo dare un’interpretazione». Con le domande del pm Nino Di Matteo, alle 11,10, si passa al dibattito parlamentare del 1992 sull’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario che introdusse il «carcere duro» per i boss. Napolitano spiega che «il presidente della Camera non entra nel merito dei provvedimenti né si confronta con i gruppi parlamentari», ma si dice «convinto che la strage di via D’Amelio rappresentò un colpo di acceleratore» all’approvazione della legge. Ad altre domande su questo tema Napolitano risponde pur sottolineando più volte che «ci stiamo allontanando molto dal tema dell’esame»; lui ha buona memoria, garantisce, «ma non quella di un elefante», né può paragonarsi «a Pico della Mirandola», e il presidente della corte fa notare che certe dimenticanze, a tanti anni di distanza dai fatti, sono più che comprensibili. Ricorda bene, invece, il testimone d’eccezione, le «voci» di attentato ai danni suoi o di Giovanni Spadolini raccolte dal Sismi nell’estate del 1993; ricorda che gliene parlò l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi, affidandogli una discreta sorveglianza da parte dei Nocs durante una sua trasferta parigina; e ricorda anche di aver cambiato abitazione, trasferendosi nell’alloggio di Montecitorio, perché casa sua era in un vicolo di Roma dove sarebbero state a rischio altre persone. Così come ricorda le ipotesi sulle strategie mafiose del ‘93 sebbene l’interpretazione dei fatti sia «materia opinabile», e i timori di Ciampi (all’epoca capo del governo) per un possibile colpo di Stato; la notte delle bombe ci fu un black out telefonico, tipico ingrediente del golpe come riportato in un libro degli anni Settanta citato da Napolitano. Una situazione di «fibrillazione» e attacco frontale allo Stato che però - nella ricostruzione del presidente - non impedì una prosecuzione della «lotta senza quartiere» alla mafia, non inficiata dalle minacce personali: lui e gli altri responsabili istituzionali avevano vissuto la stagione del terrorismo «quando non volavano solo minacce ma anche pallottole, e servire il Paese significa anche mettere a rischio la propria vita». A novembre del ‘93 però il ministro Conso decise di non prorogare il «carcere duro» per oltre 300 detenuti, sulla base dell’idea che era meglio favorire la fazione mafiosa meno violenta nel rapporto con lo Stato, «ma sono analisi oggetto della pubblicistica, di cui io non seppi niente»; quanto ai «41 bis» il presidente della corte blocca la risposta: «La domanda non è ammessa, non è rilevante». Dopo una pausa di venti minuti, alle 12,35 cominciano il controesame dei difensori e le domande dell’avvocato Cianferoni, per conto di Riina. Ci sono specificazioni e approfondimenti, e a un quesito del legale del «capo dei capi» di Cosa nostra Napolitano ribatte: «Non voglio rubare il mestiere alla pubblica accusa avventurandomi nei rapporti tra mafia e servizi segreti». Un ulteriore quesito sulle opinioni di Scalfaro viene bloccato, e alle 13,35 la deposizione finisce. Il presidente della corte Alfredo Montalto stringe la mano al capo dello Stato, che saluta gli altri presenti con un cenno del capo. L’udienza è tolta.

Stato-Mafia, Napolitano sentito per tre ore: "Mai saputo di accordi". I membri della Corte d'Assise di Palermo a Roma per raccogliere la testimonianza del presidente della Repubblica. Il capo dello Stato chiamato a raccontare quanto gli disse Loris D'Ambrosio a proposito di presunti rapporti tra Cosa Nostra e le istituzioni e a riferire su un attentato progettato contro di lui nel 1993. "Ha detto che non si sentì minimamente turbato", hanno raccontato alcuni legali degli imputati. Quirinale: "Massima trasparenza". Il procuratore di Palermo: "Ha risposto a tutte le domande". Rigidissime le misure di sicurezza, scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. È durata più di tre ore l'udienza di Giorgio Napolitano al Quirinale da parte dei giudici della Corte d'Assise di Palermo: nel corso della deposizione nell'ambito del processo Stato-mafia "Giorgio Napolitano ha riferito che, all'epoca, non aveva mai saputo di accordi" tra apparati dello Stato e Cosa Nostra per fermare le stragi, ha detto Giovanni Airò Farulla, avvocato del Comune di Palermo, lasciando il Quirinale. Il presidente, a quanto riferito da uno degli avvocati di Nicola Mancino, Nicoletta Piergentile, ai microfoni di Sky Tg24 al termine della deposizione del presidente della Repubblica, "non ha mai parlato esplicitamente di trattativa e sul fatto di poter essere oggetto di attentato" nel '92-'93 "ha detto che lui non si era minimamente turbato perché faceva parte del suo ruolo istituzionale. Adesso - ha aggiunto Piergentile - si andrà avanti con tutti gli altri testi in calendario". Il legale dell'ex generale Mario Mori, invece, non ha posto domande al presidente della Repubblica "per rispetto istituzionale", ha detto uno degli avvocati che hanno partecipato all'udienza al Quirinale.

Quirinale blindato per la testimonianza del presidente Napolitano nel processo sulla trattativa tra mafia e Stato. Sotto gli arazzi del Salone del  Bronzino entrerà la Corte di assise di Palermo. La sala, che ospita i preziosi arazzi cinquecenteschi tessuti su disegni del pittore manierista Agnolo Bronzino, è di solito usata per gli incontri tra il Presidente della Repubblica e i capi di Stato in visita in Italia. "Da parte del capo dello Stato c'è stata una grande collaborazione - ha ribadito  il procuratore di Palermo Leonardo Agueci - Napolitano ha risposto a tutto in modo molto ampio. La deposizione ha confermato l'utilità della sua citazione". Per l'avvocato Luca Cianferoni, legale di Totò Riina, il presidente della Repubblica "ha tenuto sostanzialmente a dire che lui era uno spettatore di questa vicenda". Poi ha aggiunto che "la Corte non ha ammesso la domanda più importante", quella sul colloquio tra il presidente Napolitano e l'ex presidente Oscar Luigi Scalfaro quando pronunciò il famoso "non ci sto!", ha detto il legale, spiegando che "questa domanda non ha trovato il diniego di Napolitano, ma quello della Corte che non l'ha ammessa". Il legale di Riina ha, poi, sottolineato che il presidente "ha consultato delle carte durante la deposizione: lui ha avuto modo di avere quelle carte che il 15 ottobre sono arrivate dai pm di Firenze e che a noi parti private hanno richiesto una certa attività. Questo un teste normale non può farlo". Giorgio Napolitano, ha detto ancora Cianferoni, "rispetto al 41 bis ha detto "ero uno spettatore di questa vicenda non sono un giurista'". Per quanto riguarda la nomina di Oscar Luigi Scalfaro a capo dello Stato, i legali hanno riferito che - secondo Napolitano  - la strage di Capaci fu un fatto talmente forte da essere da stimolo a trovare un accordo politico sulla nomina del nuovo capo del Quirinale. Il capo dello Stato ha risposto a tutte le domande. Anzi, in un paio di occasioni ha chiesto al presidente della Corte di Assise, Alfredo Montalto, di poter rispondere anche a domande del legale di Riina che la Corte non aveva ritenuto ammissibili. ''Presidente, se lei permette voglio accontentare l'avvocato'', ha detto Napolitano, che ha ribadito di volere rispondere oggi su tutto ed evitare di ripetere nuovamente in altra occasione questo evento". Non sono mancati, nel corso dell'udienza, momenti di ironia: "Pensate che abbia la memoria di Pico della Mirandola?", ha detto a un certo punto Napolitano, scherzando di fronte ad alcune domande dei pm, che, secondo il Presidente della Repubblica, si allontanavano dall'alveo originario della sua testimonianza. La deposizione del capo dello Stato, che si è svolta soltanto grazie alla sua ''disponibilità'', come sottolineato ripetutamente dalla Corte, ha riguardato due temi probatori: la lettera scritta a Napolitano nel 2012 dal suo consigliere giuridico Loris D'Ambrosio dopo essere stato sentito dai pm di Palermo, e le informative riservate degli apparati di sicurezza su un progetto mafioso di attentare, tra il 1993 e il 1994, alla vita di Napolitano e di Giovanni Spadolini, che all'epoca erano, rispettivamente, presidenti della Camera e del Senato. D'Ambrosio, che nel 2012 è morto d'infarto, era stato interrogato sulle sue telefonate con Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza nel processo per la trattativa, che si lamentava di essere sottoposto a indagini da diversi uffici giudiziari piuttosto che in un'unica sede. Nella lettera a Napolitano, che è stata peraltro resa pubblica dal Quirinale, D'Ambrosio manifestava il suo timore di poter essere considerato ''utile scriba di indicibili accordi'' negli anni '90, quando come magistrato era in servizio prima all'antimafia e poi al Dap. Ma resta senza risposta la domanda su cosa intendesse il consigliere giuridico del Quirinale per "indicibili accordi": il dubbio, secondo quanto raccontato da Napolitano, non fu mai chiarito, anche perché tra i due "non ci furono ulteriori interlocuzioni". Su questo passaggio il presidente della Repubblica è stato categorico: "Se D'Ambrosio avesse avuto altro da riferire, visto il suo spessore umano e professionale, lo avrebbe fatto". Il Quirinale "auspica che la Cancelleria della Corte assicuri al più presto la trascrizione della registrazione per l'acquisizione agli atti del processo, affinché sia possibile dare tempestivamente notizia agli organi di informazione e all'opinione pubblica" dell'udienza, si legge in una nota del Quirinale, nella quale si sottolinea che il presidente della Repubblica, ha risposto a tutte le domande e "con la massima trasparenza e serenità, senza opporre limiti di riservatezza connessi alle prerogative costituzionali neé obiezioni riguardo alla stretta pertinenza ai capitoli di prova ammessi dalla Corte stessa". Stamani il primo ad arrivare al Quirinale è stato il presidente della Corte d'Assise di Palermo Alfredo Montalto, poco dopo le nove. È entrato in auto, con la scorta, dalla porta secondaria del palazzo, la cosiddetta Porta dei Giardini, che si trova in via del Quirinale. Dallo stesso ingresso, quindici minuti dopo, è entrato il sostituto procuratore Nino Di Matteo, dentro un corteo di tre auto anticipato da due motociclisti dei carabinieri. Poi, dalla Porta dei Giardini sono entrati anche gli altri pubblici ministeri di Palermo, il procuratore reggente Leonardo Agueci, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Intanto, dall'ingresso principale del Palazzo entravano anche gli avvocati dei dieci imputati. Nessuna dichiarazione, passo veloce fra i cordoni di carabinieri e agenti della sicurezza che tengono a distanza giornalisti e curiosi. Il Quirinale è blindato per l'audizione del capo dello Stato al processo trattativa stato-mafia. L'udienza è iniziata alle dieci ed è terminata dopo le 13:30. Nella sala del Bronzino, la sala dove generalmente il presidente della Repubblica incontra i capi di Stato, l'udienza ha seguito le normali procedure. La cancelleria ha aperto il verbale chiamando l'appello delle parti presenti. Intanto, un tecnico ha registrato ogni parola. Accanto al presidente Montalto c'erano il giudice a latere Stefania Brambille e i sei giudici non togati. È toccato ai pubblici ministeri iniziare l'esame del presidente. È stato Vittorio Teresi a porre le prime domande al testimone Napolitano, sulla lettera che due anni fa gli mandò il suo consigliere giuridico Loris D'Ambrosio,  "Non credo che ci siano gli elementi per ritenere definitivamente superato il pericolo di un ritorno di strategia di violento attacco allo Stato", ha detto il pm Nino Di Matteo, in un'intervista esclusiva ad Euronews, prima della deposizione. "La mafia, a un certo punto, ha cominciato a capire che gli attentati eccellenti, le bombe pagavano", dice ancora Di Matteo, "erano utili perché lo Stato, andando a cercare la controparte, dimostrava di cominciare a piegare le ginocchia. Cosa Nostra, in particolare Totò Riina ha capito le bombe potevano essere la strategia giusta per costringere lo Stato a venire a patti". Chiusa la parentesi romana, e l'esame del suo teste più noto, il processo tornerà nell'aula bunker del carcere Ucciardone, dove Di Matteo proseguirà l'interrogatorio del collaboratore di giustizia Angelo Siino.

"Un presidente della Repubblica che fa distruggere i nastri delle conversazioni con un indagato in un processo di mafia, Nicola Mancino, e poi si rifiuta di rispondere pubblicamente (e cosa c'è di più pubblico del presidente della Repubblica?) ai giudici non si è mai visto. Cosa teme Giorgio Napolitano? Più di così non potrebbe essere squalificato agli occhi dell'opinione pubblica. La sua reazione è già di per sé un'ammissione di colpevolezza". E' l'attacco che Beppe Grillo, leader M5s, sferra al capo dello Stato dal suo blog il giorno dopo l'udienza al Quirinale sulla presunta trattativa Stato-mafia, Così come riportato da “La Repubblica”. "Forse - osserva ancora - la sua rielezione è servita proprio a questo, a metterlo in una situazione di massima sicurezza. Lo sapremo in futuro, questo è certo, troppi sono stati coinvolti nella trattativa Stato-mafia perché non venga alla luce la verità. Qualunque essa sia". E poi: "Se sulle risposte di Napolitano ai giudici non sussistono dubbi, saranno state del tenore: non c'ero, se c'ero non mi sono accorto di nulla e alla mia età mi appisolo di frequente. Sono invece più interessanti le domande che possono avergli posto i giudici".

Ma su "ricatto della mafia" Giorgio Napolitano parlò già nel '93. Martedì 28 ottobre 2014 i pm di Palermo hanno interrogato il presidente della Repubblica sulla presunta "trattativa", ma le sue dichiarazioni sono identiche a quelle rilasciate nel 1993 dopo le bombe stragiste di Firenze e Milano, quando l'ex migliorista era presidente della Camera, scrivono Lirio Abbate e Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Giorgio Napolitano all'epoca in cui era presidente della Camera Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, subito dopo gli attentati di via Fauro e dei Georgofili parlando con gli studenti il 31 maggio 1993 aveva usato le stesse affermazioni che ha ripetuto martedì davanti ai giudici della Corte d'assise di Palermo, in trasferta al Quirinale per il processo sulla trattativa Stato-mafia. All'epoca Napolitano era presidente della Camera e rispondendo, durante il dibattito, ad una domanda di uno studente sulle bombe a Milano e Firenze aveva detto: «Si è trattato di un attentato di carattere mafioso? Di una strage di carattere mafioso? Dico subito che la risposta è incerta. Il Procuratore della Repubblica di Firenze, Vigna, un magistrato molto serio e capace, ha messo in chiaro come si debbano raccogliere ancora altri elementi prima di poter arrivare ad una definizione precisa, ad una ipotesi concreta per quel che riguarda la matrice esatta di questi atti terroristici». L'analisi che fece all'epoca Napolitano era: «Non bisogna soltanto chiedersi se Maurizio Costanzo (obiettivo dell'attentato mafioso a Roma ndr) fosse, come persona e come uomo della televisione, un obiettivo tale da giustificare un atto terroristico di quella portata, come non ci si può chiedere solo se ci fosse specificamente un interesse della mafia a colpire la Galleria degli Uffizi». Insomma quale che sia stato secondo Napolitano «il centro eversivo autore degli atti, si è mirato a creare un clima di intimidazione, di tensione e di terrore nel Paese. Su questo non possiamo avere dubbi». Parlando agli studenti l'allora presidente della Camera sosteneva che : «Possiamo ritenere che ciò corrisponda anche ad un interesse e ad una strategia della mafia oppure no, questo è da verificare, ma non c'è dubbio che, nel momento in cui si cerca nel nostro Paese di portare più a fondo la lotta contro la mafia e di creare le condizioni di un profondo rinnovamento politico-istituzionale, vi sono forze eversive decise a mettere in opera anche i mezzi più barbari per fermare questo processo». Sentito martedì mattina dai pm di Palermo proprio sul rischio attentato che venne diramato nel 1993 dal servizio segreto militare nei riguardi proprio di Napolitano, il Capo dello Stato ha detto che fu informato ed ha poi ripetuto ai giudici lo stesso concetto espresso ventuno anni fa agli studenti. Nulla di nuovo ci sarebbe quindi alla fine dell'udienza che si è svolta al Quirinale. Su quella stagione e il ricatto fatto allo Stato dalla mafia con le bombe, ne ha parlato nel 2010 in fase di indagini preliminari anche l'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, sentito proprio dai pm di Palermo. «La mia convinzione che in quei frangenti coincidenti con le bombe di Roma, Milano e Firenze, si concretizzasse il pericolo di un colpo di Stato, nasceva dalla eccezzionalità oggettiva di quegli avvenimenti (compresa l'interruzione delle linee telefoniche di Palazzo Chigi nelal notte tra il 27 ed il 28 luglio 1993) e non da notizie precise in mio possesso. Ricordo perfettamente che convocai, in via straordinaria, il Consiglio suprema di Difesa. Di tale convocazione venne informato anche il presidente della Repubblica». Ecco il ricordo di Ciampi, all'epoca presidente del Consiglio: «In un clima di smarrimento generale, nel corso di quella riunione qualcuno avanzò l'ipotesi dell'attentato terroristico di origine islamica. Altri, tra cui certamente il Capo della polizia Arturo Parisi, escludendo la fondatezza di quella pista,avanzarono l'ipotesi della matrice mafiosa». In conclusione Cianpi dice: «Io ho maturato il convincimento che quelle bombe fossero contro il governo da me presieduto. Ciò perché ho constatato che gli attentati iniziarono, con quello in via Fauro, poco dopo l'insediamento di quell'esecutivo e cessarono pressochè contestualmente al momento in cui, nel dicembre 1993, rassegnai le dimissioni».  Grillo insiste nel suo attacco al capo dello Stato sostenendo che "c'è qualcosa di inquietante nelle ripetute telefonate di Mancino, al di là del contenuto delle stesse. Mancino sapeva di essere intercettato. Telefonare al Quirinale con l'insistenza con cui lo ha fatto non poteva che inguaiare Napolitano, cosa che poi è puntualmente successa, e quindi ubi maior minor cessat, l'attenzione si è spostata completamente sul presidente della Repubblica che invece sulle eventuali responsabilità di Mancino che, va ricordato, vide poco prima del suo assassinio Paolo Borsellino nel suo ufficio al Viminale (era allora ministro degli Interni) in cui era presente Bruno Contrada, condannato in seguito in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa". "Borsellino uscì dall'ufficio sconvolto e fumando due sigarette alla volta come testimoniò un suo amico/collaboratore - conclude Grillo -. Mancino in seguito non ricordò neppure di averlo incontrato".

Processo al Colle e giudici onnipotenti, scrive Salvatore Scuto, presidente Camera penale di Milano, su “Il Garantista”. Non è il cubo di Rubrik né un complicato Sudoku. Seppur all’apparenza sembri proprio un rompicapo, infatti, il processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia – che è in corso di celebrazione davanti la Corte d’assise di Palermo e di cui oggi si celebrerà un’udienza al Quirinale, con l’esame del teste Giorgio Napolitano – costituisce solo la riprova di quanto sia portatore di guai il diffuso fenomeno che vede il processo penale farsi strumento per raggiungere finalità che non gli sono proprie. Tendenza molto conosciuta dalla Procura della Repubblica di Palermo che, negli ultimi vent’anni, ha preteso a più riprese di riscrivere la storia del Paese utilizzando gli schemi dell’indagine e del processo penale. Ne sono scaturite narrazioni più adatte a ricostruzioni cinematografiche che ai principi che regolano il corretto andamento processuale, tutti tesi a governare secondo legge, e nel rispetto dei diritti dell’imputato, l’accertamento di un fatto e la conseguente responsabilità di chi, in ipotesi, l’avrebbe commesso. Non a caso quelle storie processuali continuano a funzionare da inesauribile serbatoio per quel circuito mediatico-giudiziario che ha palinsesti e autori tanto conosciuti quanto ripetuti, sempre più stancamente, nel tempo. L’indagine sulla cosiddetta trattativa inizia molti anni addietro e ha per protagonista uno dei più controversi esponenti dell’inner circle mediatico-giudiziario, l’ex pubblico ministero Antonio Ingroia. Non possiamo escludere che quell’indagine avesse un fondamento che postulasse l’esigenza di un approfondimento. Ciò che lo stesso suo incedere ha reso evidente, però, è che la sua strumentalizzazione da parte dell’inquirente sotto il profilo mediatico e politico, anche per scopi personali, ne ha irrimediabilmente compromesso la credibilità e la stessa attendibilità. Inutile dire come risulti oltremodo difficile, in una simile cornice, ricondurre ad una convincente unità sistematica gli effetti processuali che ne sono derivati. L’epilogo di tale complesso fenomeno di strumentalizzazione del processo penale si compie oggi. L’udienza che sarà celebrata al chiuso delle austere stanze del Quirinale per assumere la testimonianza dello stesso presidente della Repubblica, infatti, riassume in sé tutte le contraddizioni che quel processo suo malgrado rappresenta. E a voler interpretare le stesse decisioni della Corte palermitana che hanno portato a ritenere ammissibile e rilevante quella testimonianza e a regolarne le forme di assunzione, ecco che si prova appunto la sensazione di doversi confrontare con un rompicapo. Proviamo a mettere insieme alcune tappe del percorso, non certo facile, intrapreso dalla Corte. Sulla base del contenuto di una lettera indirizzata da Loris D’Ambrosio allo stesso Capo dello Stato, e da questi resa pubblica, la Corte prima decide di assumere la testimonianza del Capo dello Stato, che pur aveva dichiarato di non poter aggiungere nulla rispetto al contenuto di quella lettera; poi decide che al particolare status di cui gode il Quirinale, sede della Presidenza della Repubblica, ed alla tutela dello stesso debba essere sacrificato il sacrosanto diritto degli imputati a presenziare all’udienza stessa. E ciò senza che sia nato il dubbio che la sentenza con la quale, nel gennaio del 2013, la Corte costituzionale risolse il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, sorto a seguito dell’attività di intercettazione telefonica cui fu oggetto lo stesso presidente della Repubblica, in favore di quest’ultimo, possa dispiegare i suoi effetti anche in relazione all’ammissibilità dell’assunzione testimoniale dello stesso. Sarà sembrata quantomeno frutto del buon senso, la decisione della Corte che ha inibito, oltre che al pubblico, anche agli imputati che ne hanno fatto richiesta, la diretta partecipazione all’udienza presso il Quirinale. La presenza di un pericoloso imputato come Salvatore Riina, ergastolano e ritenuto il capo storico di Cosa Nostra, si è detto e scritto, avrebbe quanto meno compromesso l’immagine della stessa Presidenza della Repubblica. Peccato, però, che né Riina né gli altri imputati abbiano scelto di farsi processare per il non delitto di trattativa, e che una volta processati essi conservino il diritto sacrosanto, appunto, di poter presenziare al loro processo anche quando questo è costretto a piegarsi nell’impervia via dell’assunzione testimoniale del Capo dello Stato. Dobbiamo dirlo con chiarezza: quella che la Corte di assise di Palermo scriverà oggi è una delle pagine più brutte della storia del processo penale. L’illegittima compressione dei diritti degli imputati, infatti, è il risultato di un infelice compromesso cui la Corte è giunta nel tentativo di dar seguito alle istanze della Pubblica accusa e di tutelare al contempo la più alta istituzione dello Stato. Ne hanno fatto le spese la parte processuale più debole e più meritevole di tutela, ovvero l’imputato, anche quando sia ritenuto pericoloso, e lo stesso processo, la cui tenuta di legittimità è stata posta concretamente a rischio a fronte della poco convincente motivazione di tale scelta. Nè poteva essere diversamente, una volta che il controllo giurisdizionale rispetto alla fondatezza della stessa ipotesi di accusa non ha funzionato per come avrebbe dovuto. La stessa decisione che decretò la necessità dell’approfondimento dibattimentale è, infatti, l’origine di questo corto circuito. Nè, del resto, ci stupiremmo se l’inserimento del Capo dello Stato nell’ambito di questa indagine sia stato, a sua volta, oggetto di forzature e di strumentalizzazione. Ricordiamo tutti, infatti, la virulenta campagna di stampa contro la Presidenza della Repubblica che si sviluppò nell’arco dell’estate del 2012; la pubblicazione di atti di quell’indagine, con l’attribuzione agli stessi del perentorio contenuto tipico delle sole sentenze definitive, e di intercettazioni telefoniche che coinvolgevano uffici della Presidenza della Repubblica nonostante non avessero alcuna rilevanza penale. Mai come in quei frangenti, come ricordò l’Unione Camere penali italiane, il patologico fenomeno dell’utilizzo così diffuso delle intercettazioni telefoniche mostrò i pericoli che esso comporta per lo stesso assetto della nostra democrazia. L’indiscriminato ricorso a quel mezzo di ricerca della prova, infatti, fuori dal controllo giurisdizionale, è arrivato in questo caso a violare guarentigie previste dall’ordinamento allo scopo di tutelare l’autonomia e l’indipendenza dei poteri dello Stato. Un attacco, quello al presidente Napolitano, che non fu solo il frutto dell’azione di alcuni tra i più zelanti protagonisti di quel mai sopito tentativo di affermazione di uno stato autoritario attraverso l’uso indiscriminato ed esondante del controllo di legalità, ma che incrociò quel vasto movimento di pensiero tendente ad affermare la difesa ad oltranza dello status quo in materia di ordinamento giudiziario e dello stesso assetto costituzionale dell’ordine giudiziario. Non dobbiamo mai dimenticare, infatti, che il pensiero del Capo dello Stato, nella sua qualità di presidente del Csm, ha infatti investito il ruolo e la funzione dello stesso Csm, la natura delle pratiche a tutela, il condizionamento degli equilibri delle correnti nella nomina dei dirigenti dei singoli uffici. Elevato il rischio, sulla base di queste continue prese di posizione, di diventare l’obiettivo di quella formidabile macchina da guerra ispirata al più conservatore e reazionario giustizialismo. Ecco allora, e forse non caso, riemergere, proprio alla vigilia dell’udienza di oggi, dalle colonne del Fatto Quotidiano del 24 ottobre, l’antico protagonista di questa vicenda processuale. Lo avevamo lasciato, ormai tempo addietro, mentre si esibiva lungo la Penisola, con le mani in tasca strette a pugno, ben saldo sui palchi che dominavano piazze affollate da pellegrini desiderosi di un verbo. Ritornava da una breve incursione nella terra dell’El Dorado, convinto che l’indebito strumento costituito dall’indagine sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, e gli echi mediatici cui l’aveva piegata, fosse sufficiente per conquistare un posto in Parlamento e forse anche qualcosa di più. La fine di quel disegno è nota. All’oblio cui è destinato, però, Ingroia non si rassegna e ci ricorda che non potrà essere nella sala del Quirinale trasformata in aula di udienza perché «ho ritenuto non vi fossero più le condizioni per un pieno accertamento della verità». Dimentica, però, che in quell’aula non ci sarà per l’incompatibilità determinatasi a causa della sua decisione di candidarsi come premier del Paese e del suo rifiuto di continuare ad indossare la toga in una sede evidentemente non ritenuta alla sua altezza. Il problema però è che in quell’aula restano i guasti che il suo modo di interpretare la funzione di pubblico ministero ha provocato al Paese, alla Giustizia e alla stessa magistratura, che un po’ di credibilità agli occhi dei cittadini l’ha proprio persa.

Espugnato il Quirinale! I giudici festeggiano, scrive Errico Novi su “Il Garantista”. L’udienza è tolta. I pm se ne vanno. E se ne vanno soddisfatti. Anzi, per dirla con il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, «molto, molto soddisfatti». L’audizione del teste Giorgio Napolitano nell’ambito del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia pare sia stata un successo. Ma chissà quanto durerà. Pochissimo, probabilmente. Anzi a pensarci bene è già finita. Perché appena tre ore dopo la storica irruzione dei magistrati al Quirinale i cinquestelle già tirano le loro immancabili bordate. In una nota il movimento di Grillo parla di «deposizione che non lascia traccia», accusa Napolitano di dare priorità non alla «ricerca della verità sulla terribile stagione delle bombe» ma di scavare «un solco profondo che divide i cittadini dalle istituzioni». Seguirà dibattito su quello che il presidente sapeva e non ha detto. Nonostante la Procura parli di «risultato straordinario dal punto di vista processuale», finirà come l’apprendista stregone di Walt Disney, con le scope che si moltiplicano all’infinito: dallo Stato-mafia verrà per gemmazione un altro processo, mediatico, in cui Napolitano da teste diventerà imputato. E così avanti all’infinito. Eppure i pm sono contenti. Il presidente, dice Teresi, «ha risposto a 40 domande, ha detto che subito dopo le stragi di Roma, Firenze e Milano del ’93 tutte le più alte istituzioni hanno capito che si trattava della prosecuzione del piano stragista di Cosa nostra, e che l’organizzazione mafiosa tendeva a porre un aut aut: o si ottenevano benefici o ci sarebbero state finalità destabilizzanti». Naturalmente si tratta di un’ipotesi. Il Capo dello Stato la presenta come tale. Come la sua «valutazione» sul 92-93. Ha parlato di «sussulto della fazione oltranzista di Cosa nostra», dell’obiettivo di «porre un aut aut», appunto. E’ un’analisi. Non una certezza. Eppure queste parole, dice ancora l’aggiunto Teresi, «per noi sono il cuore del processo». Figurarsi il resto. E intanto nella Sala del Bronzino il processo trova «un’accoglienza straordinaria», racconta uno dei difensori di Nicola Mancino, Nicoletta Piergentili, «tutto organizzato alla perfezione, ciascuno ha avuto una propria postazione con una scrivania». Erano 40 persone tra Corte d’assise, pubblici ministeri (si sono presentati in 5), avvocati della difesa e delle parti civili (oltre 20 persone). Tutto come in un’aula di tribunale vera. «L’udienza è durata più di 3 ore con una breve pausa, il presidente ha risposto con grande chiarezza e puntualità», aggiunge Piergentili. Anche con ironia, quando necessario. A un quesito su una certa informativa dei servizi che secondo i pm avrebbe dovuto tenere a memoria per vent’anni, lui dice: «Pensate che abbia la memoria di Pico della Mirandola?». E, ancora, ribatte al volo all’avvocato intervenuto in rappresentanza del Comune di Palermo: «Su Loris D’Ambrosio vorrei dire una volta per tutte: si trattava di un uomo di tale qualità che se il suo timore di diventare ’utile scriba per indicibili accordi’ non fosse stato solo un’ipotesi ma qualcosa di concreto, sarebbe corso alla Procura della Repubblica». Sempre su D’Ambrosio Napolitano dice: «Eravamo una squadra». Ecco, le confessioni del defunto consigliere giuridico del Quirinale avrebbero dovuto costituire uno dei due soli capitoli di prova ammessi, insieme con l’informativa dei Servizi che a giugno ’92 indicò Napolitano e Spadolini tra gli obiettivi di possibili attentati. In proposito il presidente spiega di non aver avuto «particolari timori», si trattava di circostanze «connesse alla funzione di presidente della Camera». In ogni caso, spiega, «non ho mai saputo di accordi tra apparati dello Stato e Cosa Nostra». Ma la discussione è andata ben oltre il perimetro fissato dalla Corte. E Napolitano non si è mai sottratto. Lo rivendica subito dopo l’udienza con una nota: il presidente della Repubblica, vi si legge, «ha risposto alle domande senza opporre limiti di riservatezza connessi alle sue prerogative costituzionali né obiezioni riguardo alla stretta pertinenza ai capitoli di prova ammessi». Poi la sfida, in cui il Colle auspica che la cancelleria «assicuri al più presto la trascrizione per l’acquisizione degli atti del processo», in modo da «dare tempestivamente notizia delle domande e delle risposte rese dal Capo dello Stato con la massima trasparenza e serenità». In teoria dunque non ci sarà agio di rimestare. In pratica l’avvocato di Riina lo fa senza ritegno («Napolitano è stato aiutato dalla Corte, che non ha ammesso la domanda sul ’non ci sto’ di Scalfaro»). E pure il legale che rappresenta il “Centro Pio La Torre” si tormenta perché «nessuno ha fatto domande specifiche sulla trattativa». L’unica chiosa possibile è quella del guardasigilli Orlando: «Quest’udienza non la definirei una cosa normale». Difficile dargli torto.

Stato-mafia: Il patto non ci fu ma la trattativa è sempre un bene, scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Non ho mai creduto al “patto Stato-mafia” dei primi anni Novanta. Anzi, sono certa che quell’accordo non si sia mai realizzato. Non perché io ritenga che lo Stato non arriverebbe mai a sporcarsi le mani fino a stringerle a un mafioso, anzi questo lo fa tutti i giorni con i “pentiti”, a partire da Buscetta in avanti. Non si guarda in faccia nessuno, non si separa il grano dal loglio, quando si ha a che fare con il collaboratore di giustizia. La sua parola è sempre d’oro, anche quando si tratta di quel tale Scarantino che consentì di tenere per vent’anni in galera gli innocenti, da lui accusati di aver partecipato all’omicidio del magistrato Borsellino. Lo Stato ha quindi sempre trattato con i mafiosi, senza schifarsi né senza che nessun magistrato imbastisse un processo per chiedere conto al ministro dell’Interno del perché ci fossero assassini (“pentiti”) in libertà con a disposizione soldi e a volte persino una sorta di “licenza di uccidere”. Anche ai tempi del rapimento di Aldo Moro si discusse molto di “trattativa”: mercanteggiare o no con le Brigate rosse? Prevalse il “partito della fermezza” e l’ostaggio fu ucciso. Il Partito socialista, i radicali, ma anche molti di noi giornalisti garantisti, ritenevamo che l’aspetto umano, salvare una vita, dovesse prevalere sulla ragion di Stato. Lo penso ancora. Quindi, pur essendo certa che nel 1992-93 una vera trattativa non ci sia stata, ritengo che, qualora il “misfatto” si sia compiuto, ciò sarebbe stato giusto e sacrosanto. I mafiosi, in quello come in altri periodi (gli anni Ottanta erano insanguinati di morti, da Piersanti Mattarella a Pio La Torre fino al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa) facevano il loro mestiere di assassini e stragisti. E, dopo l’omicidio dell’esponente andreottiano Salvo Lima del 12 marzo, facevano circolare i nomi di altri uomini politici nel mirino. Esponenti non solo democristiani come Calogero Mannino o lo stesso presidente Scalfaro, ma anche il socialista Claudio Martelli, ministro di Giustizia e, come è emerso di recente, il repubblicano Spadolini, presidente del Senato, insieme al presidente della Camera Giorgio Napolitano. Se in quei giorni tragici alcuni esponenti delle istituzioni hanno cercato il contatto con personaggi più che contigui alla mafia come il sindaco di Palermo Vito Ciancimino, hanno fatto solo il proprio dovere, quello di tentare di salvare vite umane, la vita di chiunque fosse minacciato. Del resto, quale sarebbe stato l’oggetto del “criminoso baratto”? La derubricazione dell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario per una serie di imputati minori di associazione mafiosa. Stiamo parlando di persone in attesa di giudizio (in gran parte verranno in seguito assolte) che non erano capimafia e che nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara subivano (lo posso testimoniare personalmente, avendo fatto diverse visite ispettive in quei luoghi) trattamenti inumani al limite della tortura. Il ministro della Giustizia Conso (Martelli nel frattempo si era dimesso in seguito a un avviso di garanzia della Procura di Milano) con quel provvedimento di derubricazione non ha fatto altro che riportare nell’alveo della costituzionalità l’uso del carcere, soprattutto nei confronti di persone in attesa di giudizio, quindi innocenti. E allora, di che cosa stiamo parlando? Tutti inchinati davanti a questo processo-farsa, costoso e utile solo a chi esibisce l’ennesimo circo mediatico-giudiziario?

PROTOCOLLO FARFALLA.

Protocollo farfalla, così avvocati e attivisti venivano spiati, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Il cosiddetto “protocollo farfalla” non ha nulla a che vedere con la trattativa Stato- Mafia. È stata invece una operazione di intelligence, portata avanti in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria, per mettere sotto controllo le associazioni dei detenuti, avvocati penalisti che esercitavano legittimamente la difesa dei reclusi al 41 Bis e uomini appartenenti alla criminalità organizzata che in rivendicavano i propri diritti di detenuti e protestavano contro il carcere duro: un regime che gli organismi internazionali, e recentemente anche Papa Bergoglio, considerano tortura. Da un articolo del Sole 24 Ore, avente probabilmente come fonte qualche membro del Copasir, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, mentre sono in corso le audizioni proprio in merito al “protocollo”, si apprende che la denominazione farfalla” si ispira al nome dell’Associazione Papillon”: creata nel 1996 da un gruppo di detenuti comuni nella casa circondariale romana di Rebibbia, con l’obiettivo di promuovere cultura nel carcere e intraprendere battaglie nonviolente in collaborazione con movimenti politici sensibili alle tematiche carcerarie, come i radicali. Perché questa attenzione? Tutto è partito nel settembre del 2002 quando, su iniziativa della stessa Associazione Papillon, il mondo carcerario – con la solidarietà dei movimenti libertari e partiti come i radicali, i verdi, ed una parte di Rifondazione comunista- intraprese una spettacolare protesta nonviolenta durata una settimana. Nella piattaforma di protesta, condivisa da tutti i detenuti, c’era la richiesta di indulto generalizzato di 3 anni (misura che avrebbe consentito l’uscita dal carcere di circa 15 mila persone); il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale; la riforma del codice penale; l’abolizione dell ergastolo e la depenalizzazione dei reati minori; l’abolizione degli articoli 4 bis e 41 bis, l aumento della liberazione anticipata a 4 mesi e un aumento delle misure alternative. Ci fu anche un’audizione parlamentare dell’ allora vice presidente di Papillon, Vittorio Antonini, detenuto politico a Rebibbia perché fece parte delle Brigate Rosse, che diede voce in parlamento alle ragioni della protesta. A quella importante campagna di pressione del mondo carcerario aderirono anche boss, come Leoluca Bagarella che con un proclama letto in udienza denunciò la tortura del 41 Bis. Ed è qui che lo Stato intravedeva un disegno ”oscuro”, una regia unica che avrebbe collegato l’ex terrorismo rosso (sebbene Antonini fosse il solo detenuto politico ad aderire con forza alla protesta, mentre gli altri erano tutti reclusi comuni) con la mafia. Altro ”campanello d allarme” fu il ritrovamento, nell’agosto del 2002, di un volantino di ”Papillon Rebibbia Onlus”, al carcere di Novara nella corrispondenza di Andrea Gangitano, uomo d’onore di Mazara del Vallo detenuto in regime di 41 bis. Tutta materia ghiotta, in teoria, per il Sisde che ha dato vita, in collaborazione col Dap (guidato allora da Giovanni Tinebra), alla famosa ”operazione Farfalla”. I servizi monitoravano anche avvocati penalisti, soprattutto quelli politicamente di sinistra, che difendevano i detenuti reclusi al 41 Bis. Vittorio Antonini, raggiunto dal Garantista, dichiara che già all’epoca c’era il sentore che i servizi segreti operassero, e soprattutto già circolavano retropensieri su un presunto coinvolgimento della mafia. «Si tratta di dietrologie strampalate, mosse dall’apparato repressivo dello Stato – ci racconta Vittorio Antonini – già uscite sui giornali nel 2002, durante un lungo e partecipato ciclo di proteste nelle carceripromosso dalla Papillon-Rebibbia a partire dal 9 settembre e conclusosi dopo la visita di Giovanni Paolo II in Parlamento, dove anche il Papa tornò a denunciare la drammatica realtà delle galere». Poi Antonini prosegue dichiarando che «quelle dietrologie fecero seguito alla nostra audizione davanti al comitato carceri della commissione Giustizia della Camera, dove ribadimmo la validità della piattaforma di lotta per la quale si stavano battendo decine di migliaia di detenuti organizzati dalla Papillon-Rebibbia. Una piattaforma che per la prima volta dopo dieci anni comprendeva anche la richiesta di abolire l’ostatività sancita dall’articolo 4bis, di abolire la pena dell’ergastolo per qualsiasi tipo di reato e di metter fine alla situazione di tortura oggettiva che si era determinata dopo il 1992 con l applicazione dell’articolo 41 bis a migliaia di detenuti». Antonini spiega poi che «gli autori di quella geniale pensata dietrologica  erano evidentemente incapaci di comprendere le drammatiche ragioni di fondo che avevano portato più di ventimila detenuti a seguire le indicazioni di protesta della Papillon-Rebibbia. E ancor meno compresero perché, già dai primi passi della protesta la Papillon-Rebibbia denunciò e prese le distanze dai gruppi promotori del movimento dei girotondi che per il 14 settembre del 2002 organizzarono una grande manifestazione nazionale a Roma su contenuti che noi definimmo una cultura tipica del populismo giustizialista nazionalpopolare, nonostante la scellerata adesione a quei girotondi di tanta parte dell’associazionismo e della sinistra sociale e politica, compresa quella extraparlamentare e antagonista di molti centri sociali delle principali città». Poi Antonini ironizza: «Visto che eravamo in compagnia degli amici del partito Radicale e della stessa Chiesa cattolica, i dietrologi potrebbero sempre divertirsi a cercare un qualche Grande Vecchio tra l’amico Pannella, oppure Giovanni Paolo II o al limite Papa Francesco, visto che ha avuto l’ardire di abolire l’ergastolo nel codice penale del Vaticano e di denunciare la condizione delle nostre galere, compresa la tortura oggettiva del 41bis». E conclude amaramente: «Siamo solo dispiaciuti che a dodici anni di distanza quegli obiettivi di civiltà necessitano ancora dell’organizzazione e della lotta, dentro e fuori dalle galere, dentro e fuori dalle Istituzioni, per essere finalmente posti all’ordine del giorno di un Parlamento e di un Governo che su questi temi sembrano essere maestri in politiche palliative. Ognuno deve fare la sua parte in questo tipo di battaglie, e per quel che ci riguarda continueremo ad adoperarci affinché quei temi rientrino nelle agende parlamentari e soprattutto entrino all’interno delle piattaforme di lotta dei grandi movimenti sociali di protesta che oggi si stanno piacevolmente risvegliando e riempiendo le piazze». Ad ogni modo il richiamo di Antonini al concetto di ”dietrologia” trova conferma dallo stesso sottosegretario Marco Minniti, così come dall’ambasciatore Giampiero Massolo (Dis), i quali hanno assicurato al Copasir che “l’operazione Farfalla” non portò a nessun risultato. Non trovarono nulla. Rimane il fatto che però è stata condotta un’operazione di spionaggio nei confronti di chi, alla luce del sole, intraprendeva delle lotte o svolgeva il proprio lavoro come gli avvocati penalisti. Tutto ammissibile in uno stato che consideriamo ”di diritto”? Un’altra domanda però è legittima. Se oggi è in corso un’altra operazione di intelligence simile, visto che la lotta contro la detenzione di tortura è ripresa e partecipano anche tanti ergastolani ostativi, metteranno sotto controllo anche Papa Bergoglio perché si è dichiarato contro il 41 bis?

Renato Schifani: "Assolto dopo 15 anni per mafia, come vivere un film dell'orrore". L'ex presidente del Senato: "Mi sono ispirato all'esempio di Andreotti. Da Berlusconi nessuna telefonata", scrive Carmelo Lopapa su “La Repubblica”. Il caso è chiuso. L'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa archiviata dal gip di Palermo su proposta dei pm, ma 15 anni sono stati tanti, per chi ha dovuto convivere con quell'ombra anche da presidente del Senato. "Oggi mi volto indietro e mi stupisco della forza d'animo che ha sostenuto una grande sofferenza, alimentata dalla consapevolezza della mia totale estraneità. Ma non volevo iscrivermi al partito dei politici che per il solo fatto di essere sottoposti a indagini spesso polemizzano con la magistratura".

Dopo tanti anni avrebbe voglia di togliersi qualche sassolino dalla scarpa, lo ammetta.

"Mi è sembrato di vivere una drammatica vicenda romanzesca, aggravata dal fatto che venivo informato dell'indagine a mezzo stampa. Non ho mai assistito da avvocato civilista persone che fossero palesemente sottoposte a indagini, in ogni caso, come è stato dimostrato, non potevo sapere del loro status e il mio rapporto col cliente non ha mai travalicato il confine professionale ".

Da presidente del Senato, come ha convissuto col macigno?

"Ho vissuto momenti di fortissimo dramma interiore e ho cercato con tutte le forze di apparire distaccato e ugualmente rispettose del ruolo di garante delle regole. Spero di esserci riuscito. Ho tenuto tutto dentro, oggi devo dire grazie alla mia famiglia e a tutti coloro che mi sono stati vicini. Anzi, durante il quinquennio del mandato, ispirato da ambienti inquirenti, ho suggerito al relatore del pacchetto sicurezza, l'allora senatore Carlo Vizzini, la norma che ha introdotto il sequestro dei beni leciti in sostituzione di quelli venduti a terzi dai mafiosi. L'ho fatto con riserbo istituzionale, sapendo di venire incontro alle esigenze di alcune procure impegnate in prima fila contro la criminalità organizzata. Avrei avuto gioco facile nel rivendicare quella norma nel momento in cui ero indagato: non l'ho mai fatto. Lo dico oggi per la prima volta".

Tanta solidarietà anche da Forza Italia. L'ha chiamata Berlusconi?

"No, nessuna telefonata. Ma durante la mia vicenda ho sempre potuto contare sulla sua solidarietà. Come pure su quella di Alfano, ministro della Giustizia e oggi all'Interno".

Si è ispirato al classico modello Andreotti?

"Ho apprezzato Andreotti che non ha mai reso dichiarazioni polemiche nei confronti della magistratura. Ma mi sono ispirato alla mia coscienza, al mio ruolo di uomo di diritto e di seconda carica dello stato. Ero e resto fermamente convinto che i procedimenti penali si rispettano ".

L'esatto contrario di quanto fatto da Berlusconi.

"Ognuno ha la sua storia. Va detto che Berlusconi, da imprenditore, non era stato indagato, salvo poi essere assediato dai processi. Ad ogni modo, non sta a me fare paragoni".

“La mafia è stata corrotta dalla finanza. Prima aveva una sua morale, chiamiamola così”. Beppe Grillo a Palermo il 26 ottobre 2014 per lo “Sfiducia day” contro il governatore della Sicilia Rosario Crocetta ha parlato così davanti al Parlamento regionale, scrive "Il Fatto Quotidiano". “Tra un uomo d’affari e un mafioso non c’è quasi nessuna differenza”, ha detto Grillo. “Il primo sa che è fuori legge, l’altro si assolve perché è dentro il sistema”. E ancora: “Se il Giappone mette la prostituzione e la droga nel Pil, allora io voglio che la mafia si quoti in borsa”. Parole provocatorie duramente criticate da più parti. Il primo è stato lo stesso Crocetta: “E’ uno xenofobo, omofobo e filomafioso che cerca i voti di Cosa nostra e che vuole consegnare la Sicilia ai vecchi gruppi di potere”. Ma a condannare la presa di posizione anche Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo Borsellino (“Stia più attento con le parole”) e Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni Falcone (“Insulto a tutte le vittime). Nel dibattito sono intervenuti anche il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi: (“Parole prive di fondamento e di cultura del fenomeno”) e il procuratore facente funzione di Palermo Leonardo Agueci (“Mafia e moralità sono un ossimoro”). “Che cos’è la mafia?”, ha detto Grillo dal palco di Palermo. “E l’onestà? E’ un tic nervoso. A me non fa paura la disonestà commerciale ed economica. Non mi scandalizza più di tanto chi ruba. Mi fa paura chi è disonesto intellettualmente. E’ la disonestà culturale di questo Paese che è in ginocchio. Io dico queste cose da 20 anni”. Il leader del Movimento 5 stelle ha attaccato poi politica e finanza: “La mafia è stata corrotta dalla finanza. Non metteva bombe nei musei o uccideva i bambini nell’acido. La mafia aveva una sua morale, chiamiamola "una sua morale". Ora non c’è più niente. E’ stata corrotta da dentro dalla finanza, dai soldi, dalle multinazionali, dagli affari. Cos’è oggi un’associazione a delinquere? Da chi è formata? Ve lo dico io: da un uomo d’affari. E tra un uomo d’affari e un mafioso non c’è quasi nessuna differenza. L’unica differenza è che il mafioso sa che è fuori legge, mentre l’imprenditore si assolve perché è dentro il sistema che gli permette quelle cose lì”. La colpa secondo Grillo è di chi si crede assolto perché è dentro il sistema: “Chi c’è dietro? Un uomo d’affari, un politico, un banchiere, un commercialista, un notaio, un poliziotto e un magistrato. A volte non c’è nemmeno un delinquente dentro l’associazione a delinquere. Quando sei dentro non te ne accorgi più, sei dentro un sistema. In Parlamento si ritengono galantuomini quelli che non rubano. Ce ne sono. Ma sono dentro un sistema che accettano ed è peggio quel galantuomo lì di quello che ruba”. E qui una nuova provocazione: “La mafia bisognerebbe quotarla in borsa come hanno fatto in Giappone. Visto che loro nel Pil ci mettono droga e prostituzione, io voglio che la mafia si quoti in borsa. E vuoi vedere che se investi guadagni anche? Vedrete i titoli di domani dei giornali: "Grillo a favore della mafia. Bisogna investire sulla mafia”. Il fenomeno mafioso secondo Grillo è cambiato nel tempo: “Il concetto di mafia è cambiato molto. Qui in Sicilia è rimasto poco: qualche pizzo, qualche sparatoria. Ma adesso la grande mafia è a fare i grandi lavori con i soldi dati dall’Unione europea destinati al mezzogiorno invece vengono usati da imprese e lavoro solo nel settentrione e nel centro Italia. Il leader M5s è tornato poi ad attaccare Giorgio Napolitano: “Avremmo vinto se non avessimo avuto questo presidente della Repubblica. Adesso hanno impedito a Riina e Bagarella di andarci vicino. Ma per proteggerli, perché dopo il 41 bis trovarsi un Napolitano bis…”.Non sono mancati gli attacchi politici alle parole di Grillo, dal presidente dell’Udc, Giampiero D’Alia fino al vicepresidente del Pd, Claudio Martini. “Le sue”, ha commentato D’Alia, “sono dichiarazioni deliranti che si commentano da sole. Ma non è che per caso sta chiedendo con modo antico i voti a Cosa Nostra?”. Duro anche Martini: “Basta offendere le istituzioni, Grillo vaneggia”. I 5 stelle invece, ribadiscono che il discorso del leader è stato manipolato: “Ancora una volta”, dice il capogruppo al Senato Alberto Airola, “la disinformazione di regime manipola un intervento di Beppe Grillo, storpiando il senso delle sue parole sulla mafia e sulla lotta alla mafia. Ancora una volta una pletora di ipocriti, politici e cortigiani, si straccia le vesti e simula indignazione. Dov’erano i professionisti dell’indignazione, così scandalizzati da una frase di Beppe Grillo che non hanno nemmeno capito, quando si abbassavano le pene per il reato di voto di scambio?”. Dura le reazione del governatore Rosario Crocetta: “La mafia non ha mai avuto una condotta morale. Cosa nostra ha sterminato bambini anche nel passato e la novità degli intrecci con gli affari è solo una stupidità storica di chi non conosce la mafia. Invece di parlare della mafia Grillo torni a fare i suoi show. Non si avventuri su questo terreno. Quando uno parla della mafia con la disinvoltura con cui lo fa Grillo, dicendo che bisogna quotarla in borsa, questi affari se li vada a fare a Genova”. Sulle dichiarazioni del leader del Movimento 5 stelle si è espressa anche Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo Borsellino ed ex europarlamentare: “Beppe Grillo dovrebbe stare un po’ più attento con le parole, sapendo che fa opinione e che le sue parole hanno un peso specifico nell’opinione pubblica. Gli chiedo di documentarsi meglio prima di sparare giudizi come battute da un palco. Non mi piace essere classificata come categoria io non sono solo sorella di una vittima di mafia ma una cittadina, una palermitana che ha vissuto quei terribili anni delle stragi. La sua battuta è dovuta all’ignoranza, nel senso di ignorare, alcuni fatti accaduti nella nostra terra”.  Un’opinione condivisa anche da Maria Falcone, sorella del giudice assassinato da Cosa Nostra nella strage di Capaci: “E’ un insulto a tutte le vittime di Cosa Nostra. Il signor Grillo mostra di non conoscere il significato della parola mafia. Tratta con leggerezza un argomento che ha creato tanto dolore e tanti morti, dimentica il sacrificio di Giovanni Falcone e delle altre vittime di Cosa nostra”. A criticare Grillo anche il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi: “Chi afferma che la mafia aveva una sua morale non ha mai capito cosa è la mafia. Cosa nostra ha sempre ammazzato vittime innocenti. Ricordo a Grillo che tra le vittime dei boss ci sono stati, tanti anni fa, anche sindacalisti. Uno su tutti, Placido Rizzotto. Sono affermazioni prive di ogni fondamento e di cultura del fenomeno….”. Così anche il procuratore facente funzione di Palermo Leonardo Agueci: “Le parole mafia e moralità sono un ossimoro, sono due concetti in radicale contrasto che non possono essere accostate. Su questo c’è davvero poco da aggiungere… Rimane il discorso che vale per tutti i politici cioè, che a combattere la mafia a parole e ad applicare patenti di mafiosità e antimafiosità sono tutti bravi, poi vanno messi alla prova. E vale pure per il M5S”.

IMPRENDITORIA CRIMINOGENA. SEQUESTRI ED AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. A CHI CONVIENE?

Quando i magistrati amministrano la giustizia ed anche l'economia.

Nel corso di un procedimento penale, il Giudice per le indagini preliminari, su richiesta del Pubblico ministero che conduce le indagini, può disporre, a titolo cautelare, il sequestro preventivo ai sensi dell'art. 321 e segg. Cod.proc. pen., di patrimoni, aziende, titoli, conti correnti, beni mobili ed immobili di cui è consentita anche la confisca. In tale ipotesi, al fine di assicurare la custodia, la conservazione e l'amministrazione dei beni in sequestro, il Giudice che ha disposto il sequestro, nelle more dello svolgimento delle occorrenti indagini e dell'istruzione del processo, allorquando sia sequestrata una o più aziende cui assicurare la continuità del ciclo produttivo ed i livelli occupazionali, procede alla nomina di un Amministratore di riconosciute esperienza e professionalità, ai sensi dell'art. 12 sexies, I, III e IV comma bis, DL 306/1992 convertito con modificazioni in legge 356/92. Tale disposizione normativa che regola i poteri e le facoltà concessi all'Amministratore Giudiziario è definita “norma di collegamento” atteso che essa richiama il disposto normativo di cui agli artt. 1 e segg. della legge fondamentale (Rognoni-La Torre) 575/65 e successive modificazione e integrazioni; in particolare delle disposizione che interessano la gestione e la destinazione dei beni sequestrati o confiscati. L'Amministratore Giudiziario opera in stretto rapporto con il Giudice, definito Giudice Delegato alla misura applicata, il quale autorizza, tra gli altri, di volta in volta ed a seguito delle relazioni/Istanze scritte dall'Amministratore Giudiziario, il compimento degli atti di straordinaria amministrazione. L'Amministratore Giudiziario, nello svolgimento del suo incarico, è altresì obbligato al deposito di relazioni e di rendiconti periodici relativi all'attività svolta e, all'atto della definizione del procedimento, alla redazione del rendiconto finale nonché – in ragione degli esiti del detto procedimento - alla restituzione dei beni all'avente diritto o, nell'ipotesi in cui venga disposta la confisca, alla consegna all'Erario ed in tale ipotesi egli può assumere l'incarico di Amministratore Finanziario.

Credo di spiegarmi l’idolatria verso i magistrati dei comunisti e dei penta stellati para comunisti (perché chi è comunista, è cattivo ed invidioso dentro). Loro pensano, non avendo niente da perdere in termini di proprietà, che i “padroni” sono tali sol perché rubano. Se poi questi padroni ladri sono del sud Italia, ecco presentati al mondo i mafiosi. Da ciò deriva per i sinistroidi la voglia di dire “quello che è tuo, è mio, quello che è mio, è mio”. Per gli effetti ai comunisti serve un potere che sia al di sopra di quello economico-finanziario. Pensano di avere dalla loro parte i magistrati che li vendicano punendo i padroni. Per questo li assecondano in tutti i loro voleri. In questo modo i comunisti vedono nemici ovunque, ove non vi sia condivisione delle loro vedute. Non pensano, i fessi, che facendo così alimentano le ingiustizie sociali. Uno, perché in carcere ci sono solo indigenti, spesso innocenti. Due, perché in Italia il vero potere lo detengono i magistrati. Tre, dove vi è povertà, vi è ignoranza, quindi non si è liberi di conoscere per scegliere. In questo caso non si parla di democrazia, ma di magistocrazia. Inoltre, né i magistrati, né i comunisti vengono da Marte. Ergo, nel marcio italico si è tutti uguali. E' necessario non guardare fuori, ma guardarsi dentro. E non alimentare leggende metropolitane in simbiosi con i propri simili. Basta aprire al mondo il proprio cervello.

Da sempre auspico la realizzazione di una figura super partes che tuteli verità e giustizia. Un difensore civico giudiziario che abbia il potere del magistrato, ma che non sia uno di loro, corporativamente influenzabile. Uno che abbia il potere di aprire quel fascicolo e scoprire cosa c'è dentro. Altrimenti quel fascicolo rimasto chiuso cristallizza una verità mistificatrice.

La verità raccontata da un’altra prospettiva contro i maestrini dell’informazione, spesso di sinistra ed ammanicati con i magistrati. Ed i leghisti ci sguazzano nella verità artefatta.

E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it,  Lulu.com, CreateSapce.com e Google Libri.

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta».

Come nell’affaire Formigoni?

«Sì. Fa parte dello stesso gioco».

E' finita come doveva finire, visto che in appello perfino il procuratore Santamaria aveva chiesto l'assoluzione. Il tribunale, però, aveva deciso di arrivare a giudizio, condannando gli stilisti Stefano Dolce e Domenico Gabbana a un anno e sei mesi di reclusione per evasione fiscale. Condanna che oggi la Cassazione ha cancellato in via definitiva per che gli imputati "non hanno commesso il fatto". Insieme ai due stilisti è stato assolto anche il commercialista Luciano Patelli, scrive “Libero Quotidiano”. L'accusa di omessa dichiarazione dei redditi riguardava la società Gado, all'epoca dei fatti con sede in Lussemburgo, per gli anni 2004 e 2005. Secondo la tesi accusatoria della procura di Milano, la Gado sarebbe stata un caso di esterovestizione, basata in Lussemburgo solo per pagare meno tasse ma di fatto amministrata in Italia. La società era stata creata per la gestione dei marchi, tra cui Dolce&Gabbana, D&G Dolce e Gabbana, ceduti alla Gado dai due creatori di moda. La contestazione nei confronti della società - e degli imputati - era di non aver pagato tasse per un imponibile di 200 milioni di euro. In primo grado Dolce e Gabbana erano stati condannati a un anno e otto mesi ciascuno, con riduzione come detto di due mesi in appello. oggi l'assoluzione dopo oltre due anni di processo. Nel luglio 2013 il Comune di Milano aveva negato l'uso di uno spazio pubblico ai due stilisti perchè "evasori".

Prosciolti con la formula perché il fatto non sussiste Vito Gamberale, ex amministratore delegato di F2i; Mauro Maia, partner in F2i; e Vinod Sahai, il procuratore speciale di Srei Infrastructure Finance Ltd Behari, scrive “Il Corriere della Sera” il 24 ottobre 2014. Lo ha deciso il gup Anna Maria Zamagni davanti al quale si è tenuta l’udienza preliminare del procedimento per turbativa d’asta relativo alla vendita da parte del Comune nel dicembre 2011 del 29,75% della Sea a F2i. «La giustizia si è avverata in Italia, abbiamo sofferto per due anni e mezzo». Così l’ex ad di F2I, Vito Gamberale, ha commentato la sua assoluzione. «L’Italia non può tenere in piedi un giudizio di questo genere per due anni - ha spiegato - e oggi è venuto fuori che non c’era nulla, il vuoto torricelliano, e oggi rendiamo grazie alla giustizia italiana». Poi ha sferrato un attacco a Pisapia:«Il sindaco di Milano è un pover’uomo, con che faccia si è presentato come parte lesa... Milano merita altro».

L’origine dell’indagine. L’inchiesta sulla vendita della azioni Sea per cui si è tenuta l’udienza preliminare a Milano a carico del presidente del fondo F2i, Vito Gamberale e di altre due persone nasce dalla trasmissione, nell’ottobre del 2011 da parte della Procura di Firenze a Milano di un’intercettazione di tre mesi prima nella quale Gamberale parlava con il manager di F2i Mauro Maia (anche lui imputato nell’udienza preliminare). Pochi giorni dopo, Bruti mise quell’intercettazione in un fascicolo che assegnò al dipartimento reati economici guidato da Francesco Greco, che il 2 novembre lo affidò a un pm del suo pool, Eugenio Fusco. Il 6 dicembre 2011, Fusco segnalò a Bruti la necessità di trasmettere il fascicolo al dipartimento di Robledo, perché si poteva ipotizzare una turbativa d’asta. Bruti Liberati tre giorni dopo avvertì Robledo che gli avrebbe girato il fascicolo, ma alla fine gli assegnò l’indagine solo il 16 marzo 2012 e, dunque, con un ritardo di almeno tre mesi.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

Venerdì 24 ottobre 2014 si tiene a Taranto la conferenza prefettizia tra il Prefetto, Umberto Guidato, il dirigente dell’Ufficio ordine e Sicurezza Pubblica, sostituito dal capo di Gabinetto, Michele Lastella e le associazioni antimafia operanti sul territorio della provincia di Taranto. In quell’occasione è intervenuto il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, oltre che scrittore e sociologo storico, che da venti anni studia il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSapce.com e Google Libri.

Il dr Antonio Giangrande ebbe ad affermare che nuovi fenomeni si affacciavano nel mondo dell’illegalità: l’usura di Stato con Equitalia, l’usura bancaria e, per la crisi imperante, l’usura pretestuosa, ossia la denuncia di usura per non pagare i fornitori. E comunque la mafia segue il denaro, ed al sud denaro ne è rimasto ben poco.

Il prefetto ed il suo vice, in qualità di rappresentanti burocratici del sistema statale prontamente hanno contestato l’esistenza dell’illegalità para statale e para bancaria, mettendo in dubbio l’esistenza di indagini giudiziarie che hanno svelato il fenomeno.

Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi.    Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

"Io, vescovo rimosso dalla Santa Sede per la mia lotta contro mafia e massoni". Il caso di Francesco Miccichè, alto prelato di Trapani, rimosso dal suo incarico nonostante per i magistrati sia "parte lesa". Mentre la curia della città siciliana è al centro di uno scandalo sulla gestione di fondi e beni ecclesiastici. In una trama che vede protagonista anche lo Ior, scrive Piero Messina su “L’Espresso”. "Il Vaticano ha sentenziato la mia condanna dipingendomi come un essere immorale da tenere alla larga, mi ha rottamato come pastore indegno, mi ha classificato mafioso, truffaldino e inaffidabile, mi ha trattato peggio di un delinquente, condannato all’inazione come un minus habens, un incapace”. Le parole sgorgano come pietre dal memoriale di Francesco Miccichè, documento di oltre cento pagine, redatto del vescovo alla guida della Diocesi di Trapani dal 1998 sino al 16 maggio 2012. Quel giorno la rimozione arriva, a firma di Adriano Bernardini, Nunzio Apostolico in Italia. E’ l’obbligo alle dimissioni. La nota inviata dalla Santa Sede – e classificata con il bollo di "segretissima” – ha il sapore della minaccia: senza  l’abbandono immediato della Diocesi, la destituzione si sarebbe celebrata con la pubblicazione sull’Osservatore Romano, entro 72 ore. Per un religioso, peggio di una fucilazione. Da quel momento, Monsignor Miccichè tenterà in tutti modi di aprire un canale con la Santa Sede, prima con Papa Benedetto XVI e poi con il Santo Padre Francesco. Senza ottenere nulla, se non un brevissimo incontro, alla fine dello scorso anno con Papa Bergoglio: "Ho chiesto al Papa udienza per poter raccontare la mia storia – ammette il prelato – e il Santo Padre mi ha pregato di rivolgere la richiesta al suo segretario particolare”. Non è successo nulla: Città del Vaticano, sul caso Miccichè, ha eretto il classico muro di gomma. Ora, in quel memoriale, il vescovo messo ai margini della comunità religiosa ripercorre la sua via crucis laica. Da oltre tre anni la Curia di Trapani è l’epicentro di una serie di inchieste giudiziarie che ruotano attorno alla gestione dei fondi e dei beni ecclesiastici. Sullo sfondo di quelle carte giudiziarie si intravede la lotta per il potere e per il controllo delle Diocesi siciliane, l’inviolabilità dello Ior e l’immancabile ipotesi di inquinamento mafioso. Con in più l’ombra della massoneria deviata. Dossier anonimi, lettere false, bonifici bancari transitati sui conti dello Ior e transazioni con firme apocrife sono gli ingredienti di questo plot Vaticano in salsa siciliana, racchiuso nel dossier del vescovo. Ora che la Procura di Trapani, guidata da Marcello Viola, si avvia a chiudere le indagini, resta l’interrogativo di quella rimozione ex abrupto di Monsignor Miccichè dalla Diocesi. Perché il vescovo siciliano, secondo la ricostruzione dei magistrati, è considerato, almeno sino ad ora, "parte lesa” in quei procedimenti giudiziari. Miccichè è convinto di pagare un conto dalla genesi antica. Sin dall’arrivo nella Diocesi, il vescovo siciliano ha messo nel mirino mafia e grembiulini. Nel marzo del 2000, attacca così le logge trapanesi e la mafia: ''La massoneria ha messo radici profonde nella nostra città, condizionandone la vita e lo sviluppo. Le Diocesi della Sicilia occidentale, tra le quali quella di Trapani, vivono in un territorio che è storicamente la culla del fenomeno malavitoso tristemente noto con il nome di mafia”. Scoppia un putiferio, con la massoneria italiana che accusa il monsignore di oscurantismo. Miccichè sarà minacciato: "mi venne detto – da un padre della Società religiosa di San Paolo, ndr - che se non mi fossi convertito e iscritto alla massoneria avrei fatto una brutta fine. Tragica profezia”. Il vescovo di Trapani chiederà aiuto al Vaticano: "Chiesi udienza al Cardinale Joseph Ratzinger allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e fui ricevuto dall’allora Segretario della stessa congregazione Sua Eccellenza Mons. Tarcisio Bertone al quale riferii quanto mi era successo e a lui chiesi lumi su come comportarmi… Alla mia obiezione come mai non si mettesse un freno ai preti che andavano in tutta Italia a fare conferenze in favore della massoneria, Bertone mi rispondeva candidamente: Ma cosa vuole, Eccellenza, anche in Vaticano ci sono cardinali, vescovi e prelati iscritti alla massoneria”. Schizzi di fango colpiranno l’episcopato di Miccichè a Trapani di nuovo nel 2009, quando un esposto anonimo, il primo di una lunga serie, sarà recapitato alla Procura nazionale antimafia, allora retta da Piero Grasso, al Cardinale Bertone e al Cardinale Re. In quel documento si accusa Miccichè di avere al suo fianco come "segretario vescovile” un esponente di una famiglia della mafia rurale di Alcamo. In quel documento, per la prima volta, viene citata anche la Fondazione Auxilium, struttura sanitaria guidata dalla Diocesi di Trapani e convenzionata con la Regione siciliana. Miccichè respingerà ogni accusa e dimostrerà che quel "segretario”, era in realtà solo l’autista dalla Diocesi di Trapani, assunto prima del suo arrivo. Miccichè non nega di avere subito pressioni dalla mafia: "Anch’io da subito arrivato in Diocesi fui avvicinato da persone di questo genere che mi chiesero con fare perentorio di interessarmi in loro favore presso la Procura di Trapani che aveva sequestrato i loro beni, reputandoli prestanome di potenti mafiosi di Alcamo. Il mio diniego fu secco e l’atteggiamento e le parole degli interessati suonarono come una minaccia, ma non mi pento affatto di avere agito come ho agito e di non essermi piegato ai loro dictat”. Nel mese di febbraio del 2011 la Diocesi di Trapani finisce al centro di uno scandalo finanziario. Si ipotizza un buco milionario nei conti della Curia. Sotto la lente delle Fiamme gialle finisce anche la gestione di due fondazioni della curia siciliana, la Auxilium e la Campanile, già fuse nel 2007. Auxilium è una struttura sanitaria con oltre 300 dipendenti e conta su una convenzione dal valore di 5 milioni di euro con la sanità regionale. Miccichè, nel 2009, ha nominato suo cognato come procuratore della fondazione. La giustizia italiana e quella vaticana si mettono in moto. Le indagini puntano anche al direttore degli uffici amministrativi della curia di Trapani, padre Ninni Treppiedi. Alla fine, nell’inchiesta della Procura di Trapani risulteranno 14 indagati con ipotesi di reato che vanno da diffamazione, calunnia e falso, a truffa, appropriazione e riciclaggio. Treppiedi avrebbe aperto conti correnti allo Ior: da semplice sacerdote non li avrebbe potuti tenere. Su quelle transazioni la Procura di Trapani avvia una rogatoria internazionale, ancora oggi ferma su un binario morto. Il nome di Treppiedi apparirebbe anche nel memoriale dell’ex direttore generale dello Ior, Gotti Tedeschi. Sulla base di quelle indagini "laiche” Miccichè sospende a divinis don Treppiedi. La procedura verrà confermata e rafforzata da un decreto della  Congregazione del Clero del Vaticano. Tra le spese di quella gestione anche l’acquisto di auto di lusso, donate a cardinali delle alte sfere vaticane. Alla fine, Treppiede – legato un tempo a personaggi della politica siciliana come l’ex sottosegretario all’Interno Antonio D’Alì – deciderà di collaborare con la giustizia. Un contributo, affermano dalla Procura di Trapani, "di assoluto valore”. Ma intanto contro Miccichè si scatena l’inferno. Treppiedi, dopo la sospensione a divinis, sporge denuncia contro il vescovo Miccichè, accusato di avere svuotato i conti della curia. Il Vaticano invia un visitatore apostolico, Monsignor Domenico Mogavero. Miccichè non potrà mai leggere il contenuto della relazione che porterà alla sua rimozione. Accusato di aver depredato la Curia, Miccichè si difende e mostra gli estratti bancari: "altro che senza un soldo, quando ho lasciato la Diocesi di Trapani sul conto c’era più di un milione di euro, mentre la Fondazione Auxilium disponeva di oltre otto milioni di euro”. Sempre in quel periodo, il vescovo deve difendersi da una campagna denigratoria costruita ad arte. Viene diffusa una lettera su carta intestata della Diocesi di Trapani. E’ indirizzata a Luigi Bisignani, l’uomo al centro dello scandalo P4. Nella missiva che reca la firma di Miccichè, si chiede l’intercessione in Vaticano da parte di Bisignani perché  "il Papa - a quel tempo Benedetto XVI, ndr - non è in grado di decidere più nulla e il potere è demandato nelle mani dei Salesiani e in particolare del Cardinale Bertone che lo esercita in modo delinquenziale e spregiudicato”. Quella lettera – lo dimostreranno i magistrati - è un falso. Monsignor Miccichè tenta la difesa e veste i panni dell’investigatore: si mette sulle tracce dell’attività svolta da Treppiedi allo Ior. In più, aiuta i magistrati ad accedere nei luoghi di culto coinvolti nell’indagine per  transazioni immobiliari sospette. Per la Santa Sede sono peccati mortali. Nel memoriale del vescovo siciliano appiedato dal Vaticano si legge: "Io stesso mi sono recato allo Ior per conoscere se in qualche modo la stessa Diocesi di Trapani o la mia persona fossero stati coinvolti, a mia insaputa, in operazioni di riciclaggio. Allo Ior non ho ottenuto alcuna informazione. Sono stato indirizzato dal Sostituto della Segreteria di Stato, Sua Eccellenza Mons. Giovanni Angelo Becciu, il quale non ha reputato opportuno ricevermi. Dalla mia visita presso lo Ior ho potuto accertare, però, che molti presso questo istituto conoscevano don Treppiedi. Per loro era capo ufficio alla Congregazione di Propaganda Fide”.

A conferma della gestione allegra dei beni sequestrati con decreti penali mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano  i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali  con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis  ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova  per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati  della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

Chiarificatrice è l’'inchiesta di Salvo Vitale del 31 marzo 2014 su “Antimafia 2000”.  Beni confiscati, così non funziona. E’ una storia che parte da lontano, cioè dal 1982, quando, quattro mesi dopo l’uccisione di Pio La Torre, venne approvata la legge Rognoni-La Torre, (in sigla RTL) che consentiva il sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Aggredire i mafiosi nei loro patrimoni era l’obiettivo del nuovo strumento. Dopo  14 anni, a seguito della raccolta di un milione di firme, organizzata dall’associazione Libera, veniva approvata la legge 109/96 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati, una sorta di restituzione ai cittadini di ciò che era stato loro sottratto con la violenza e l’illegalità. Ultimo atto, nel 2011, l’approvazione della cosiddetta legge Alfano che dava o tentava di dare una sistemazione definitiva a tutte le norme sull’argomento e creava l’Agenzia Nazionale ai beni confiscati alla mafia, con sede a Reggio Calabria, che avrebbe dovuto occuparsi gestione dei beni attraverso l’iter dal sequestro alla confisca. Pur riconoscendo che esistono ancora grossi limiti, la legge è ritenuta una delle più avanzate al mondo ed è stata presa a modello per la recente approvazione della normativa europea. Quello dei beni giudiziari è un vero affare, se si tiene conto che il numero dei  beni confiscati è, ad oggi, di 12.946, cifra in continua evoluzione, di cui 1.708 aziende e che di questi, circa il 42,60%  pari a  5.515 è in Sicilia, particolarmente in provincia di Palermo (1870). Si tratta di un patrimonio da alcuni approssimativamente stimato in due miliardi di euro, ma La Repubblica (22 marzo 2012) parla di 22 miliardi di euro, il Giornale di Sicilia (6 febbraio 2014) di 30 miliardi, di cui l’80% nelle mani delle banche. Di queste aziende solo 35 sono in attivo e solo il 2% genera fatturati. E’ un immenso patrimonio comprendente supermercati, ristoranti, trattorie, residence, villaggi turistici, distributori di benzina, fabbriche, impianti minerari, fattorie, serre, allevamenti di polli, agriturismi, cantine, discoteche, gelaterie, società immobiliari, centri sportivi, pescherecci, stabilimenti balneari e anche castelli. Quasi tutti falliti. Molte le difficoltà di carattere finanziario, con i lavoratori da mettere in regola e il pagamento dei contributi arretrati ai dipendenti che i boss facevano lavorare a nero, Sopravvive solo qualche azienda, alle cui spalle c’è una grande struttura, come Libera, che può tornare a fatturare, ma, dice Franco La Torre, figlio di Pio, “finché si tratteranno le aziende di proprietà delle mafie come aziende normali, il meccanismo messo in moto dallo Stato non funzionerà mai”. Un fallimento totale di cui nessuno si dichiara responsabile.

Limiti. Quali sono i limiti? Innanzitutto i tempi molto lunghi che passano dal sequestro alla confisca. Poiché all’atto del sequestro il bene è “congelato”, in genere si  fa ricorso, da parte del tribunale competente, alla nomina di un amministratore giudiziario. E’ questo il primo punto debole: nella maggior parte dei casi si tratta di persone del tutto incompetenti, senza alcuna capacità manageriale, di titolari di studi commercialistici o di studi legali di cui spesso le Procure si servono per alcune indagini, e che sono in buoni rapporti con il magistrato incaricato di fare le nomine. L’incompetenza di queste persone ha portato al fallimento del 90% delle aziende sotto sequestro, alla rovina economica di parecchie famiglie che nelle aziende trovavano lavoro e alla crisi dell’indotto  che gira attorno all’azienda, anche perché, e questo è un altro limite, le aziende sotto sequestro possono  e devono riscuotere crediti, ma non possono saldare debiti se non al momento della sentenza che ne sancisca la definitiva sistemazione. La conclusione a cui si arriva facilmente e a cui arrivano le parti danneggiate è che con la mafia si lavorava, con l’antimafia c’è la rovina economica, ed il messaggio è devastante nei confronti di chi dovrebbe rappresentare lo Stato. La valutazione economica del bene confiscato è fatta da un apposito perito, nominato sempre dal tribunale, al quale spetta un compenso apri all’1% del valore del bene da valutare. Spetta al titolare o al proprietario del bene l’onere della prova sulla provenienza del bene, ovvero l’obbligo di dovere dimostrare che il bene è stato costruito, realizzato, gestito senza violazione della legge. Al giudice spetta invece dimostrare i reati di cui è accusata la persona penalmente sotto inchiesta.  In tal senso si dà alla magistratura un notevole potere e, molto spesso succede di trovare beni confiscati, senza che i proprietari abbiano  ancora riportato particolari condanne penali per associazione mafiosa, oppure altri beni sotto sequestro dopo che i loro titolari sono stati assolti, anche in via definitiva. Per non parlare di debiti e mutui accesi con le banche, che lo stato non si premura di rimborsare e che quindi finiscono co il lasciare il bene nelle mani delle banche stesse. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli stessi amministratori giudiziari: per fare un esempio banale, Andrea Modìca da Moach, uno dei più grossi esperti in queste partite di giro a suo favore, degne di scatole cinesi, liquidatore della Comest dei fratelli Cavallotti, ha messo in vendita un camion con gru per 600 euro, girandolo alla ditta D’Arrigo di Borgetto, di cui è ugualmente amministratore, e quando i proprietari hanno denunciato l’imbroglio al giudice  per le misure di prevenzione, la cosa è stata sistemata facendo passare il tutto per una sorta di noleggio.

L’audizione di Caruso. Nell’audizione alla Commissione Antimafia, fatta il 18 gennaio 2012, il  prefetto Caruso, al quale è stata affidata la gestione dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia che ha sede a Reggio Calabria, dice: “Altre criticità riguardano la gestione degli amministratori giudiziari, per come si è svolta fino ad ora…., l’amministratore giudiziario tende, almeno fino ad ora, a una gestione conservativa del bene. Dal momento del sequestro  fino alla confisca definitiva – parliamo di diversi anni, anche dieci – l’azienda è decotta. Siccome compito dell’Agenzia è avere una gestione non solo conservativa, ma anche produttiva dell’azienda, abbiamo una difficoltà di gestione e una difficoltà relativa a professionalità e managerialità che, dal momento del sequestro, posso individuare e affiancare all’amministratore giudiziario designato dal giudice. In tal modo, quando dal sequestro si passerà alla confisca di primo grado, sarà possibile ottenere reddito da quella azienda….. Facendo una battuta, io ho detto che, fino ad ora, i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente. Ometto di dire quanto succede in terre di mafia quando l’azienda viene sequestrata, con clienti che revocano le commesse e con i costi di gestione che aumentano in maniera esponenziale. Ricollocare l’azienda in un circuito legale, infatti, significa spendere tanti soldi, perchè il mafioso sicuramente effettuava pagamenti in nero e, per avere servizi o commesse, usava metodi oltremodo sbrigativi, sicuramente non legali, e aveva la possibilità di fare cose che in una economia legale difficilmente si possono fare. Siamo in attesa dell’attuazione dell’albo degli amministratori giudiziari, nella speranza di avere finalmente persone qualificate professionalmente alle quali poter rivolgersi e di avere delle gestioni non più conservative ma produttive dell’azienda”.

Il decreto del 6 settembre 2011 n.159 ha, anzi aveva previsto l’istituzione di un albo pubblico degli amministratori, con l’individuazione delle competenze gestionali, l’indicazione del numero delle nomine assegnate e delle competenze in denaro incassate, ma questa norma, per quattro anni è stata accantonata, perché toglie di mano al giudice che dispone delle nomine, il notevole potere di agire a proprio arbitrio e consente che certi passaggi oggi secretati, restino solo a conoscenza o siano a disposizione del Presidente dell’Ufficio che dispone le misure di prevenzione  e del suo diretto superiore, il Presidente del tribunale, e non  diventino di pubblico dominio. Qualche corso di formazione per amministratori giudiziari è stato organizzato dall’Afag  a Milano, e un master a Palermo nel 2013, da parte del DEMS, ma tutto è sfumato nel nulla. Solo il 24.1.2014 è stato finalmente scritto il regolamento per la formazione dell’albo, il quale avrebbe dovuto  diventare diventare operativo dopo l’8 febbraio, ma ancora non se ne sa nulla, addirittura qualcuno dell’Antimafia Nazionale lo ha ritenuto inopportuno: questo regolamento se nasce, nasce monco, nel senso che non prevede alcuna norma sulle retribuzioni degli amministratori e non prevede l’indicazione degli incarichi affidati, i quali, per strane ragioni di privacy, rimangono secretati e nelle mani dei magistrati. Si sa che il numero degli amministratori giudiziari nominati dal tribunale è di circa 150, molti dei quali titolari di più incarichi, grazie a chi ne dispone la nomina. Proprio il prefetto Caruso qualche giorno fa ha messo il dito sulla piaga, disponendo la revoca di alcuni “amministratori” intoccabili: "Alcuni hanno ritenuto di poter disporre dei beni confiscati come "privati" su cui costruire i loro vitalizi. Non è normale che i tre quarti del patrimonio confiscati alla criminalità organizzata siano nelle mani di poche persone che li gestiscono spesso con discutibile efficienza e senza rispettare le disposizioni di legge. La rotazione nelle amministrazioni giudiziarie è prevista dalla legge così come la destinazione dei beni dovrebbe avvenire entro 90 giorni o al massimo 180 mentre ci sono patrimoni miliardari, come l'Immobiliare Strasburgo già del costruttore Vincenzo Piazza, con circa 500 beni da gestire, da 15 anni nelle mani dello stesso professionista che, per altro, prendeva al tempo stesso una parcella d'oro (7 milioni di euro) come amministratore giudiziario e 150 mila euro come presidente del consiglio di amministrazione. Vi pare normale che il controllore e il controllato siano la stessa persona?". Tutto ciò ha provocato le rimostranze del re degli amministratori Gaetano Seminara Cappellano, titolare di uno studio con 35 dipendenti,  detto “mister 56 incarichi”, amministratore di 31 aziende, tra cui proprio la Immobiliare di Via Strasburgo, della quale gli è stata revocata la delega. Il nuovo incarico è stato affidato al prof. universitario Andrea Gemma, del quale si è subito diffusa la falsa notizia che lavora nello studio della moglie di Alfano. Nuovi amministratori sono stati nominati al posto di Andrea Dara (Villa Santa Teresa Bagheria, un impero con 350 dipendenti e un fatturato annuo di 50 milioni di euro) e Luigi Turchio, amministratore dei beni di Pietro Lo Sicco: l’incarico per la liquidazione è stato affidato a all'avvocato Mario Bellavista che (come ha lui stesso obiettato) in un passato lontano è stato difensore di fiducia  di Lo Sicco per qualcosa in cui la mafia non c’entrava: per questo motivo, qualche giorno dopo Bellavista si è dimesso. Non devono essere piaciute al PD le dichiarazioni del prefetto Caruso il quale, tramite Rosy Bindi e su sollecitazione di qualche parlamentare siciliano, è stato convocato urgentemente per un’audizione alla Commissione Antimafia, con l’accusa, già frettolosamente evidenziata da Sonia Alfano, di mettere in cattiva luce l’operato dei magistrati che si occupano di Antimafia. Anche L’ANM, la potente associazione dei magistrati, si è schierata contro Caruso sostenendo che, invece di rilasciare dichiarazioni sull’operato dei magistrati delle misure di prevenzione,  avrebbe dovuto rivolgersi ai magistrati stessi, i quali così avrebbero potuto e dovuto giudicare se stessi. In tempi del genere, potrebbe sembrare che parlare del cattivo operato di alcuni magistrati, sia come fare un favore a Berlusconi che sui magistrati ha sempre detto peste e corna. Questo “fare muro” attorno ai magistrati palermitani, anche quelli che hanno gestito i loro uffici e i loro compiti come una personale bottega, con scelte e preferenze opinabili, finisce con l’avallare la cattiva gestione del settore, coperto, come si vede, da protezioni che stanno molto in alto. Qualche illuminato politico ha dichiarato addirittura che “parlare male dei magistrati significa fare un favore alla mafia”.   Caruso si è difeso sostenendo di non avere a disposizione né uomini, né mezzi, né strumenti legali per affrontare con successo l’intero argomento dei beni confiscati: ma tira voce che, se non si dà una regolata, potrebbe anche perdere il posto: “ In tal senso la Commissione Antimafia è stata  a Palermo il 17, 18. 19 febbraio, per godere di qualche giornata di sole e lasciare le cose come stanno rimuovendo quel rompiscatole di Caruso. Ciò che emerge, ha detto la Bindi, è che l’Agenzia ai beni confiscati dovrà subire alcuni interventi”. E, per quanto si può supporre, non si tratterà di interventi migliorativi, ma punitivi. Interessante una lettera che l’avv. Bellavista ha inviato a Rosy Bindi, nella quale sostiene  che “concentrando l’attenzione sulla mia posizione si sia tentato di sviare la Sua attenzione dall’opera meritoria del Prefetto Caruso che sta scoperchiando pentole mai aperte….  Mi meraviglia come Lei, invece di insistere sul nome Bellavista, non abbia chiesto quale magistrato ha autorizzato alcuni Amministratori a ricoprire 60 o 70 incarichi. Quale magistrato abbia autorizzato pagamenti di parcelle per milioni di euro. (Le faccio presente che una legge della Regione Siciliana, limita i compensi per gli amministratori pubblici a 30000 euro lordi per i presidenti dei cda.), se vi siano familiari di magistrati o di amministratori che hanno ricoperto o ricoprono cariche o incarichi all’interno delle amministrazioni giudiziarie. Se qualche amministratore giudiziario si trovi in conflitto di interessi attuale e non di 14 anni fa. Il Prefetto Caruso  la mafia ha combattuto sulla strada e non da una comoda poltrona a migliaia di chilometri di distanza. Onorevole Presidente, credo che molto più del Dott. Caruso, sia certa magistratura a delegittimare se stessa, quando per difendere le proprie posizioni alza un muro e persiste in comportamenti che rischiano di apparire illegittimi. Sono certo che la Sua intelligenza non cadrà nella trappola del depistaggio già usata durante i tempi bui della prima Repubblica della quale Lei è stata una Autorevole Protagonista”. Nessun dubbio su colui cui fa riferimento Bellavista.
In appoggio all’operato di Caruso si è schierata la CGIL, ma anche il sindacato di polizia Siulp, mentre Equitalia, che dovrebbe essere depositaria di un fondo di due miliardi provenienti dai beni di proprietà dei mafiosi, mostra qualche difficoltà a documentare e a restituire quello di cui dovrebbe essere in possesso. Da parte sua il prefetto Caruso ha detto: “Io lavoro da 40 anni con i giudici e nessuno mi può accusare di delegittimarli. Ho solo detto quello che non va nel sistema”.

Proposte. Da quando nel 2011 è stato approvato il Codice Antimafia, diverse sono state le proposte di modifica, in particolare per la parte che riguarda la gestione patrimoniale. Ultima in ordine di tempo, ma sicuramente la più complessa e strutturata, viene da una  Commissione , istituita nel 2013 dal governo Letta, per studiare il problema dell'aggressione ai patrimoni della criminalità organizzata e presieduta dal Segretario Generale della Presidenza del Consiglio Garofoli, che già si era occupato del tema della corruzione. Nel gennaio 2014 la Commissione, con la partecipazione, fra gli altri, dei magistrati Gratteri, Cantone e Rosi, presenta una relazione di 183 pagine in cui si evidenziano le principali criticità in tema di gestione dei beni e si propongono possibili soluzioni e innovazioni legislative, dall'ampliamento del ruolo e della dotazione di uomini e mezzi dell'Agenzia, all'affiancamento di figure manageriali per la gestione delle aziende, dall'anticipo della verifica dei crediti alla regolamentazione degli amministratori giudiziari. Particolare attenzione nella relazione Garofoli trovano le proposte della CGIL, che si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare, ribattezzata "Io riattivo il lavoro", sostenuta a loro volta da Libera, ARCI e Avviso Pubblico. Al centro delle modifiche portate avanti dal sindacato ci sono proprio le aziende ed in particolare la tutela dei lavoratori e dei livelli di occupazione. "Due i punti di forza imprescindibili" dice Luciano Silvestri, responsabile Sviluppo e Legalità CGIL "il primo è la creazione dei tavoli di coordinamento presso le prefetture, che dovrebbero coinvolgere parti sociali, istituzioni e società civile nel monitoraggio e nella gestione delle aziende fin dalla fase del sequestro; il secondo è il fondo di rotazione, da finanziare con i soldi (tanti) del Fondo Unico Giustizia e con cui finanziare la fase di "legalizzazione" delle aziende poste in amministrazione statale. Dopo aver raccolto migliaia di firme, la proposta del sindacato è giunta in Commissione Giustizia alla Camera con relatore Davide Mattiello, deputato PD con un lungo trascorso di militanza antimafia. Chissà se e come i due percorsi riusciranno ad incontrarsi!. Il governo, tra i suoi tanti annunci di principio,  ha comunicato che trasformerà in decreti legge molti dei suggerimenti della Commissione Garofoli e che lo farà in tempi brevi. Nel dibattito si inserisce anche Confindustria, in particolare la sezione siciliana, che sta mettendo mano ad alcune autonome proposte, stranamente assonanti con quelle dell'on. Lumia. Per ora nulla è troppo chiaro perché, dicono i responsabili: "Ci stiamo lavorando", ma da uno studio elaborato nel 2012 dall'Università di Palermo e da alcune dichiarazioni più recenti dei rappresentanti degli imprenditori, oltre che di alcuni magistrati applicati alle misure di prevenzione di Palermo e Caltanissetta, a loro notoriamente vicini, si deduce che le aree di principale interesse saranno tre: l'inserimento di figure manageriali all'interno delle procure, la riduzione del ruolo dell'Agenzia per i beni confiscati alla sola fase della confisca definitiva e la verifica dei crediti: c'è chi spinge per anticiparla ad inizio sequestro e chi invece vorrebbe procrastinarla addirittura alla confisca definitiva, complicando ulteriormente la vita a chi onestamente vanta crediti nei confronti di aziende sotto sequestro e che in conseguenza di amplissimi buchi creati da queste fatture non pagate rischia il fallimento. A prima vista sembra si tratti del tentativo, degli industriali siciliani, di mettere le mani su quel che resta dell’economia siciliana per operare l’ennesima rapina: non si vuole dire no al tribunale nel privarlo della nomina del suo amministratore e si istituisce un’altra figura con un altro stipendio: nessuna attenzione e nessuna garanzia è prevista per i posti di lavoro dell’azienda. Fra l’altro, da quando Ivan Lo Bello, già presidente di Confindustria Sicilia ha proposto l’espulsione degli imprenditori che pagano il pizzo, tutti gli industriali siciliani fanno professione di antimafia e trovano magari qualcuno da denunciare come estorsore, tanto per farsi una verginità e lavorare, oltre che col consenso di Cosa Nostra, anche con la protezione dello stato. Non è detto  che l’asino uscito dalla porta non rientri dalla finestra, nel senso che non si trovino all’interno delle Associazioni o degli enti destinatari quelle presenze mafiose di cui ci si voleva liberare. Un problema centrale è comunque quello di garantire il posto di lavoro e tutelare i dipendenti che, quasi sempre, si ritrovano nella rovina economica. Alla Commissione Antimafia la redazione di Telejato, dopo avere sentito diverse associazioni antimafia, ha avanzato le seguenti proposte:

-Consentire l’immediato pagamento dei creditori dell’azienda sin dal momento della confisca, per evitare di causare il fallimento di aziende fornitrici legate all’indotto su cui l’azienda confiscata opera;

- Legare il momento della confisca a quello dell’iter giudiziario, nel senso che non  si può procedere alla confisca di un bene se non è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa;

- Non consentire più di un incarico agli amministratori giudiziari;

- Svincolare l’arbitrio della nomina dalle competenze nelle mani di un solo magistrato e allargarne la facoltà a tutti i magistrati del pool antimafia;

- Individuare e colpire l’eventuale responsabilità penale dell’amministratore giudiziario obbligandolo a presentare annualmente i bilanci, revocandogli l’incarico nel caso di gestione passiva non motivata adeguatamente e obbligandolo a risarcire i danni nel caso di amministrazione fraudolenta;

- Risarcimento, da parte dello stato, dei danni provocati da cattiva amministrazione giudiziaria, nel caso di totale proscioglimento delle accuse e non reiterazione del provvedimento di confisca, come si è recentemente verificato;

- immediata esecuzione, che non vada oltre un mese,  del provvedimento giudiziario di conferma o dissequestro della confisca. I casi scandalosi di rinvii, spesso di vari mesi, se non di anni, causati da  ritardi, da momentanei malesseri e  da altre scuse prodotte dal magistrato incaricato delle misure di prevenzione non possono essere giustificabili, anche perché l’azienda sotto confisca corre il rischio di perdere il suo giro di affari o di essere messa in liquidazione da amministratori giudiziari che girano attrezzature e macchinari, svenduti a prezzi irrisori ad altre aziende sotto il loro controllo;

-Possibilità di revoca, su eventuale richiesta motivata, dell’incarico di amministratore giudiziario da parte di un magistrato inquirente diverso da quello che ne ha fatto la nomina e che è solitamente il giudice addetto alle misure di prevenzione.

Come si può notare, la richiesta più importante è quella di  distribuire l’immenso potere di cui dispone il singolo magistrato addetto alle misure di prevenzione, nell’amministrazione di un impero di 40 miliardi di euro, utilizzando le competenze anche di altri magistrati, al fine di non strozzare ulteriormente, sino ad arrivare al collasso, la debole economia siciliana, nella quale, il settore dei beni confiscati, salvo pochissimi casi, ha accumulato fallimenti, gestioni poco trasparenti e disperazione da parte di lavoratori trovatisi sul lastrico.  L’affidamento della gestione dei beni  ai rampolli di una Confindustria apparentemente verniciata di antimafia, non è la soluzione del problema, ma sarebbe necessario, come già in qualche altra regione, organizzare  corsi di formazione fatti da gente qualificata e che non siano occasione, come al solito, di distribuire il finanziamento del corso ai soliti “amici” e rilasciare l’attestato a tutti, senza accertare l’acquisizione di competenze.

La “Latticini Provenzano”. Si tratta di un caseificio con  sede a Giardinello, un paese di circa mille abitanti, recentemente assurto alle cronache per la cattura di Sandro e Salvatore Lo Piccolo. Ali inizi del 2000 , grazie ai fondi europei previsti dai Patti territoriali, l’azienda venne ristrutturata e adeguata  alle norme, diventando un moderno caseificio dove lavoravano una trentina di famiglie, assieme a un indotto di pastori e vaccari che fornivano il latte. Il rimborso di questi fondi avviene  dopo che il proprietario li ha anticipati ed è in grado di documentare i lavori eseguiti. La lentezza di questi rimborsi crea notevoli difficoltà economiche al titolare del caseificio, il quale si rivolge a Giuseppe Grigoli, un imprenditore di Castelvetrano, non ancora indagato, ma già conosciuto come il re dei supermercati Despar, e che si scoprirà come prestanome di Matteo Messina Denaro.  Grigoli chiede un aumento  del capitale, chiede di assumere il controllo del 51% dell’azienda per accedere a un megamutuo del Monte dei Paschi di Siena, mutuo che viene bloccato quando Grigoli è arrestato, nel 2006. In questo momento l’azienda conta su 52 dipendenti, di cui 13 vengono licenziati. In un ultimo disperato tentativo Provenzano offre la sua quota allo stato, detentore della parte confiscata,  per ottenere il prestito, ma ci perde anche quella.  Il caseificio, che, in questa vicenda con la mafia c’entrava solo di striscio, come poi confermato dagli sviluppi giudiziari,  viene confiscato e affidato a un curatore giudiziario di nome Ribolla, il quale, nella sua somma incompetenza, nel 2012 lo porta al fallimento con una situazione debitoria di 28 milioni di euro.  E’ un chiaro esempio di come un’industria di eccellenza può essere condotta sul lastrico e di come i restanti 39 operai, che, pur di mandare avanti l’azienda, sino al gennaio 2012 hanno lavorato senza  stipendio, rimangono disoccupati. Con Grigoli contava 52 dipendenti. Nel 2006, con il sequestro, 13 dipendenti vengono licenziati. La chiusura, lo scorso maggio, lascia fuori i restanti 39.  Al momento della chiusura la sua esposizione debitoria era di 28 milioni di euro.   

Il porto di Palermo. La vicenda riguarda 350 lavoratori facenti parte della “Newport”, società che gestisce i lavori portuali. Nel 2010 la DIA inoltra un’informativa al prefetto di Palermo, nella quale sostiene che tra questi lavoratori ci sono quattro mafiosi e 20 parenti di mafiosi, in gran parte facenti parte del clan di Buccafusca, capomafia di Porta Nuova. Si dispone il sequestro preventivo e viene nominato come amministratore giudiziario il titolare dello studio legale “Seminara-Cappellano”, il quale dispone la sospensione cautelare per 24 lavoratori, i quali, sino al giugno 2013, data in cui interviene la dott.ssa Saguto, cioè la responsabile della nomina di Seminara,  sono pagati senza far niente. La vicenda è molto più ingarbugliata di quanto non appaia, in quanto gli operai sono titolari di una quota societaria, ma il dissequestro sarà possibile quando potranno dimostrare di essere esenti da infiltrazioni mafiose. Cioè non si sa quando. Presidente dell’Autorità portuale è stato un uomo dell’on. Lumia, tal Nino Bevilacqua, che attualmente è stato sostituito da un uomo di Schifani, tal Cannatella.

La MEDI-TOUR. E’ un caso più complesso. Si tratta di una cava di pietrisco, in territorio di Montelepre, già di proprietà di Giacomo Impastato, detto “u Sinnacheddu”, fratello di Luigi, il padre di Peppino Impastato. Da lui è passata al figlio Luigi, ucciso a Cinisi il 23 settembre 1981, nel corso della guerra tra i seguaci di Badalamenti e i Corleonesi. La gestione effettiva della cava è stata portata avanti dall’altro figlio Andrea, al quale il 22 febbraio 2008 vengono confiscati beni per 150 milioni di euro riconducibili a Bernardo Provenzano e a Salvatore Lo Piccolo, dei quali Andrea è un prestanome, grazie agli intrallazzi del suo compaesano Pino Lipari, vero ministro dei lavori pubblici di Provenzano, la cui moglie Marianna Impastato ha qualche vincolo di parentela con Andrea. Il provvedimento prevede,  innumerevoli immobili e appezzamenti di terreno da Carini a San Vito Lo Capo, il Mercatone Uno di Carini, anche il sequestro di cinque aziende, tutte del mondo dell’edilizia, la più grossa delle quali è la Medi.tour, che si occupa della gestione della cava di Montelepre. Amministratore giudiziario di tutto viene nominato uno dei pupilli della dott.ssa Saguto, la regina della sezione “misure di prevenzione”, un commercialista di nome Benanti, titolare di uno studio a Palermo e, per quel che se ne sa, in ottimi rapporti con un altro curatore giudiziario molto a cuore alla Procura di Trapani, un certo Sanfilippo. Benanti ha avuto occasione di dimostrare di avere buone conoscenze quando, ottenuta l’amministrazione dei beni di un altro costruttore, Francesco Sbeglia, di Palermo, nel 2010, al Centro Excelsior (Hotel Astoria) mandò, a un incontro con alcuni imprenditori che volevano collaborare alla gestione dei beni, lo stesso Sbeglia. In tal caso, grazie alla protesta dei tre imprenditori, gli venne revocato l’incarico, ma solo quello, in quanto non gli venne meno la fiducia della dott.ssa Saguto. Pare che gli siano affidati una ventina di incarichi, si dice che abbia dilapidato  una cifra altissima degli introiti del supermercato Mercatone, ma il suo nome non è venuto fuori nemmeno nelle polemiche seguite alle dichiarazioni del prefetto Caruso. Torniamo alla Medi.tour.  Andrea Impastato , del quale si vocifera, senza conferme, di una diretta collaborazione con la giustizia,tant’è che nell’ultimo recente processo gli è stata dimezzata la pena,  ha quattro figli, due dei quali, Luigi e Giacomo,  dipendenti della cava. Nel 2011, su decisione del tribunale vengono licenziati, ma i due fratelli non si perdono d’animo e creano una nuova società, la Icocem, con sede a Carini, riconquistando, a poco a poco, buona parte del mercato che si riforniva nella loro ex cava. Riescono anche a “rifarsi” una verginità denunciando al magistrato diversi tentativi di richiesta del pizzo e iniziando una fitta collaborazione. Da parte sua Benanti, che si presenta una volta ogni tanto alla cava di cui è amministratore, con il macchinone e in dolce compagnia, in una sua relazione accusa gli Impastato, diventati suoi diretti concorrenti,  di  associazione mafiosa.  Con strana sollecitudine il tribunale  dispone  il sequestro della Icocem, la dott.ssa Saguto ne affida l’amministrazione, indovinate un po’, al solito Benanti, il quale mette in liquidazione la società che è chiamato ad amministrare e che  si trova a soli cento metri dalla cava. Nel frattempo vengono licenziati i 20 operai che lavorano nella cava, e alcuni sono assunti “ a tempo”, secondo le richieste di materiale: qualcuno di essi è disposto a dichiarare che Benanti avrebbe disposto l’interramento di rifiuti tossici all’interno della cava, facendo poi riempire il tutto con terra e piantumare con stelle di natale: al giardiniere sarebbero stati pagati 18.000 euro. Gli Impastato presentano ricorso, con una loro relazione, nella quale è dimostrata la tracciabilità e la regolarità di tutte le operazioni che hanno condotto alla creazione della loro società, ma l’udienza, che avrebbe dovuto svolgersi ad  ottobre, per indisposizione, di chi, indovinate un po’, della dott.ssa Saguto, è rinviata al 6 febbraio 2013, dopodichè c’è stato un ulteriore rinvio a maggio Quello che più stupisce è la presenza, all’interno della cava, di Benny Valenza, pluripregiudicato e mafioso di Borgetto, da sempre occupatosi di forniture di calcestruzzo, con un pizzo da 2 euro a metro quadrato, da distribuire agli altri mafiosi della zona: gli sono stati sequestrati alcuni beni, è stato condannato per aver fornito cemento depotenziato per la costruzione del porto di Balestrate e per altri reati affini, ma, tornato a piede libero, ha ripreso la sua abituale attività: da qualche tempo agisce come dipendente di un’impresa di legname, allargatasi ultimamente nel campo dell’edilizia, della quale è titolare un certo Simone Cucinella: la ditta il 24.1 ha preso misteriosamente fuoco.  L’intraprendente Valenza  ha installato, naturalmente attraverso meccanismi apparentemente legali, un deposito di materiali da costruzione in un posto collocato tra la cava e il deposito adesso chiuso degli Impastato: non si sa se la collaborazione con Benanti, all’interno della cava, si estenda anche a questa nuova struttura.

La COMEST e l’affare del metano. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune  aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. C’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione. Decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad aggiudicarsi numerosi appalti e concessioni per  metanizzare molti comuni,con il sistema del project financing, ovvero offrono ai comuni la costruzione degli impianti di metano, con fondi propri ,con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi lasciare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni stessi.  Sul mercato c’è già  l’Azienda Gas spa, nata per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale , decide di potenziare la società, e chiede i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica.  Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, alla presenza, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità  che apre le porte alla Gas spa e al terzetto  Ciancimino-Lapis-Brancato, perchè con questo patto di legalità vengono assegnati ai mafiosi  direttamente gli appalti  senza alcuna celebrazione di gara: unico ostacolo la Comest che già ha ottenuto numerose concessioni in numerosi comuni Siciliani,  e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco. Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agira,  è scritto: “Cavallotti due milioni”. Ci vuol poco a incriminare i Cavallotti, che, come tanti, pagavano il pizzo, con l’accusa di associazione mafiosa e di turbativa d’asta, e a  disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto e scarcerato “perché i fatti non sussistono”. Dopo di che nel 2002 la Corte d’Appello  ribalta la sentenza con una condanna e, dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa: di conseguenza i fratelli non sono ritenuti vicini ad esponenti mafiosi di alcun tipo. Qualche mese dopo, nei confronti dei tre fratelli scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristofaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione , motivando, dopo un attenta lettura della documentazione processuale che i tre fratelli  sono stati vittime della mafia, e adducendo, a conferma dell’assoluzione perchè il fatto non sussiste nel procedimento penale, anche le numerose denunce degli attentanti subiti nei cantieri e ai mezzi, nel corso dell’ attività imprenditoriale:  ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario, da parte del Tribunale di Palermo, un  Andrea Modìca de Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TO-SA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. Si tratta di un personaggio legato ad altri fratelli, uno dei quali titolare a Palermo, di uno studio di commercialista, un altro magistrato a Roma e un altro alto dirigente del ministero di Giustizia. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni. L’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati  quasi tre anni, anzi, nel  dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dai figli, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un avvocato, un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, i figli titolari, la cui sola colpa è di essere figli di persone che sono state  indagate, condannate e poi prosciolti dall’accusa di  associazione mafiosa. Gli ultimi sequestri riguardano  un complesso di aziende edili, e pure una parafarmacia già chiusa dal 2013: l’accusa è quella della riconducibilità delle aziende ai fratelli Cavallotti, come al solito, accusati di essere vicini ai mafiosi Benedetto Spera e Bernardo Provenzano, malgrado la definitiva assoluzione dalle accuse e la scomparsa, da tempo, dalla scena,  dei mafiosi citati. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per “ ritardo di notifica”. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti.  Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati e che lascia ampio spazio al sospetto che le confische, in attesa della sentenza d’appello della  Cassazione, diverranno definitive e tutto sarà cancellato con un colpo di penna.

E il caso di aggiungere a questa storia alcuni particolari:

Nel 1998 al  gruppo Cavallotti sono confiscate le aziende

- Comest  spa  (valore 50 milioni),

- Icotel  spa (valore 10 milioni), Imet srl (valore 10 milioni),

- Cei srl  (valore 2 milioni),

- Coip srl (valore 10 milioni:

nel 2012 di tutto ciò rimane solo un valore di 20 milioni per la Comest, mentre è o diventa  zero il valore delle altre aziende, anche di quelle ad esse collegate, come la Calcestruzzi Santa Rita, che aveva un valore di partenza di 5 miloni di euro e i gruppi Edil Forestale e D’Arrigo, che, per alcuni aspetti, sono soci in affari con il Modìca.
Il Modìca già nel 2009 è stato denunciato per truffa alla Guardia di Finanza di Palermo, ma della denuncia non s’è saputo più nulla. Intorno a lui e a suo fratello ruotano:

- la Advisor Services  For Bisness  srl, che agisce in stretto contatto con la Mac Consulting srl, di cui è legale rappresentante tal Fabio Uccello,

- la Lamb & Souce Real Estate srl, la Integre Sicilia, azienda oggi in liquidazione,  di cui sono soci la Advisor Service, Kodaleva Sonia, , moglie di Emanuele Migliore, socio di Modìca e Di Fiore Giuseppe, avvocato di fiducia di Modica.

- la CS immobiliare srl., del fratello Marco,

- la Immobiliare Il Borghetto srl.,

- la Gam Immobiliare, che fa da tramite per complesse partite di giro,con le aziende confiscate dei D’Arrigo di Borgetto e della Edil Forestale,

- la Servizi e Progetti srl, il cui legale rappresentante è Roberta Ponte, moglie di Andrea Modica,

- la Cogetec srl, azienda costituita per gestire i subappalti del gruppo Cavallotti, di cui risulta amministratore unico un certo Vincenzo Parisi.

Strettamente collegate alla Comest e alle aziende del Modìca  le vicende della TOSA costruzioni srl, azienda confiscata che acquista per due milioni di euro il ramo aziendale della Comest, mediante un rilevamento virtuale di debiti creati tramite fatture e parcelle: la Tosa vende i suoi debiti o i suoi presunti crediti alla Italgas per 22 milioni di euro ottenendo 5 posti di lavoro per compiacenti  amici del Modìca pronti a prestarsi alle sue manovre speculative. Dalla TOSA, sotto forma di anticipo escono i fondi per alcuni lavori, anche personali, effettuati a Baida, a Cinisi, a Marsala. Oggi la TOSA è stata restituita al demanio dello stato come una scatola vuota, senza una lira e senza che nessuno abbia pagato per la sua  dissoluzione. Di tutto l’impero della Comest è invece rimasto un giro di 700 mila euro di utile grazie alla gestione del metano nei comuni di Monreale, Altavilla Milicia, Santa Cristina Gela e Piana degli Albanesi. Nel 2012 il prefetto Caruso ha revocato a Modìca gli incarichi.

La AEDILIA VENUSTA. (ovvero, come l’Acqua santa può diventare acqua diabolica).  A Palermo, in via Comandante Simone Gulì n.43 presso la borgata Acquasanta si trova, anzi c’era una villa palermitana del 1700, ma dove si potevano notare  visibili tracce di una sua preesistenza  risalente  al 1.500, o addirittura al medioevo: qualche storico ha parlato addirittura  di reperti di origine etrusca. La villa si affacciava sul porticciolo e aveva tutte le finestre con vista sul mare. L’originaria proprietà fu della nobile famiglia dei Gravina, di origine normanna. Gli esponenti del  ramo siciliano dei Gravina, che presero il nome da quello di un feudo pugliese da cui provenivano, parteciparono alla prima crociata, ebbero diritto di essere seppelliti nel pantheon reale, furono Grandi di Spagna, possedevano 9 principati, 5 ducati, 7 marchesati, 3 contee ed oltre 24 baronie. Dentro  l’attuale edificio scorreva una sorgente di acqua minerale, sulfurea e purgativa, contenente sali alcalini, quali solfato di calcio e magnesio, e cloruro di calcio, sodio e magnesio, considerata miracolosa per i suoi benefici. Di lì il nome di “Acqua santa” dato a tutta la borgata . Attualmente l’acqua è stata incanalata in condutture che sfociano a mare. Da una ricerca pubblicata da Claudio Perna e curata dall’Associazione culturale “I Luoghi della Sorgente” apprendiamo che “la sorgente acquifera era situata in una grotta, un piccolo ambiente ipogeico, che un tempo fu santuario pagano, poi piccola cappella conosciuta come Palermo a S. Margherita di fora, dedicata a Santa Margherita, protettrice dai mostri marini, e infine intitolata alla Madonna della Grazie, come attesta il Mongitore che riferisce di un affresco raffigurante la Vergine, risalente al tempo dei Saraceni e rinvenuto nel 1022. Nel 1774 la grotta e i terreni furono concessi al Barone Mariano Lanterna, che acquistò dai benedettini del Monastero di S. Martino delle Scale il terreno circostante la grotta dell’Acquasanta e vi costruì una  tipica casina settecentesca di modeste dimensioni con un semplice impianto su due elevazioni: alcune sale interne mantengono gradevoli decorazioni a fresco tardo-settecentesche. Apprendiamo dalla stessa fonte che nel 1871 i fratelli sacerdoti Pandolfo acquistarono la villa e  fecero uno stabilimento per bagni e cure idroterapiche, che sfruttava le proprietà terapeutiche della sorgente di acqua minerale poco distante per la cura di malattie metaboliche. Nello  stabilimento  si potevano fare dei bagni  alla temperatura naturale dell’acqua di 18°-19° , ma grazie al processo di riscaldamento  anche i bagni caldi, a 25°-36°, e caldissimi fino a 42°. Successivamente i due sacerdoti decisero di commercializzare l’acqua che poteva anche essere bevuta, con 50 cent alla bottiglia. C’era anche la possibilità di fare delle docce che esercitavano la loro azione meccanica su un punto preciso del corpo con getti  d’acqua ascendenti, dal basso verso l’alto, discendenti, dal basso verso l’alto, e laterali in orizzontale. Lo stabilimento aveva in un edificio camerini da bagno distinti in familiari e singolari e nell’altro la macchina a vapore per il riscaldamento dell’acqua, le sale da soggiorno e da pranzo e gli ambienti di servizio. Tale istituto, accresciutosi nel 1892, fu attivo però per poche decine di anni. La struttura dei Bagni Minerali situati nella grotta e nei locali di Villa Lanterna era costituita da due edifici su tre piani collegati da una terrazza, tuttora è ancora visibile l’iscrizione “Fratelli Sacerdoti Pandolfo”, sormontata da un timpano con acroterio. Gli ambienti interni rispettavano l’originaria suddivisione e sul fianco sinistro del prospetto si trovava l’ingresso al mare preceduto da due piloncini, trasformato in abitazione. Le analisi dell’acqua hanno riscontrato proprietà analoghe a quelle della fonte Tamerici di Montecatini Terme. La fonte aveva una portata di 15 litri al secondo e consentiva di effettuare mille bagni al giorno, con continuo ricambio delle acque. Nel 1993 venne effettuato un sopralluogo dai vigili urbani e dalla sovrintendenza e si accertò che la sorgente era ancora utilizzabile e avrebbe potuto essere ripristinata, ma non se ne fece niente: la preziosa acqua, attraverso cunicoli sotterranei, oggi finisce a mare. Tutto questo complesso,  comprende le Terme, anch’esse adibite ad appartamenti, la grotta adiacente all’ex chiesetta, un piano terra di 70 mq, in vendita a 100 mila euro, un piazzale e altre tre più recenti costruzioni adibite ad abitazioni o uffici, di circa 250 mq. L’immobile, suddiviso in cinque unità è stato venduto a tre architetti e a una signora romana. Uno degli  architetti è Vincenzo Rizzacasa, già preside di un istituto d’arte di Santo Stefano di Camastra, che nel 2005 ha deciso di dar vita a un’impresa di costruzioni, la “Aedilia Venusta”, intestata al figlio Gianlorenzo, specializzata in ristrutturazioni, munita di certificato antimafia  e iscritta ad Addio Pizzo, fino a quando non si scopre che al suo interno lavoravano i mafiosi Francesco e Salvatore Sbeglia, legati al campo delle costruzioni e già oggetto di misure di prevenzione, di sequestri e di procedimenti giudiziari. Secondo i giudici gli Sbeglia sarebbero stati soci occulti di Rizzacasa e, attraverso la sua ditta, sarebbero tornati in attività, con metodi e sistemi di illecita concorrenza. Rizzacasa è legato al vicepresidente della Confindustria  Ettore Artioli, titolare di un’azienda, la Venti, che ha commissionato a Rizzacasa la ristrutturazione della Manifattura Tabacchi di Palermo. Nei progetti della Aedilia Venustas c’era anche la trasformazione dell’area della villa del Barone Lanterna in un residence di lusso con 15 appartamenti e due studi professionali, il tutto con regolare concessione, rilasciata nel 2009  e con tanto di visto da parte della Sovrintendenza ai Beni Culturali, che, per contro, avrebbe dovuto tutelare la conservazione di monumenti storici di questo tipo, cosa che in Sicilia scatta solo in certe circostanze.  Scattano le misure di prevenzione per Rizzacasa, al quale vengono sequestrati le imprese edili Aedilia Venustas, l’Immobiliare Sant’Anna, Verde Badia, un insieme di 33 immobili in via badia, una decina di appartamenti, la villa Barone Lanterna, sei magazzini e sette automezzi. Artioli si autosospende dalla Confindustria, ma continua la sua carriera manageriale, al punto che nel 2012 viene nominato, dal sindaco Leoluca Orlando, presidente dell’Amat. Per Rizzacasa, espulso da Confindustria,  inizia un iter giudiziario, una condanna in primo grado per favoreggiamento semplice, cioè senza l’aggravante dell’associazione mafiosa . In appello Rizzacasa è assolto e l’assoluzione è confermata, in via definitiva, nel febbraio 2014, in Cassazione. Assolti anche  i suoi consociati Lena e Salvatore Sbeglia. Rizzacasa ha rinunciato alla prescrizione per avere una sentenza di piena assoluzione. Per una di quelle anomalie tipiche della legge italiana e in particolare, di quella sui beni sequestrati alla mafia, il patrimonio immobiliare di Rizzacasa, per decisione del giudice delle misure di prevenzione, per il quale è sufficiente il “libero convincimento” che l’assoluzione non basta, rimane congelato sotto sequestro, malgrado l’ordine di dissequestro dell’azione penale. Ma siamo arrivati al punto: dopo le denunce del prefetto Caruso, è ormai noto che il giudice delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo  ha un rapporto privilegiato con lo studio legale di Cappellano Seminara, al quale ha già affidato una cinquantina di beni confiscati alla mafia. Cappellano, diventato amministratore giudiziario della Aedilia Venustas,  continua l’attività di smembramento della villa del barone Lanterna con la costruzione degli appartamenti in progetto: per risarcirsi del suo  “estenuante” lavoro, da lui stesso stimato in circa 800 mila euro, si impadronisce di due appartamenti: probabilmente ne disporrà la vendita per incassare il compenso. Da una visura notarile storica si rileva che “gli immobili citati vengono venduti a 250 euro al mq. per quanto riguarda la villa antica e le terme, quelli più moderni a 200 euro mq.” Se è vera questa notizia ci vuol poco a dedurre che, fissando un prezzo così basso, Cappellano Seminara può mettere le mani su tutto il complesso edilizio e impadronirsene. Da una nota della Camera di Commercio si deduce che “il fatturato di Aedilia Venustas s.r.l. stimato, nel 2011, tra i 300 e i 600 mila euro, durante il 2011 è diminuito, nello stesso anno,  del -1263% rispetto al 2009 e che il risultato netto ottenuto durante il 2011, dopo gli oneri finanziari, le tasse e gli ammortamenti è diminuito del -609,64% rispetto al 2009”. Il tutto grazie all’oculata amministrazione di Cappellano Seminara e a chi lo ha messo in quel posto.

La 6GDO e l’impero Despar. Quella di Giuseppe Grigoli sembra una storia comune, iniziata con l’apertura, negli anni 80 di una piccola attività di vendita di detersivi all’ingrosso e poi diventata, tra  gli anni ’80 e ’90  una grande  realtà economica, in grado di fatturare 600 milioni di euro l’anno, attraverso l’apertura di una serie di centri commerciali, da Trapani ad Agrigento, a Palermo, con il marchio Despar, in grado di gestire il 10% di tutto il fatturato Despar. La realtà più grossa è “Belicittà”, ovvero il più grande centro commerciale del trapanese, a Castelvetrano. Grigoli crea il gruppo 6GDO , una ditta che distrisce prodotti alimentari a vari supermercati. Si è detto e si è scritto che dietro questo impero finanziario ci sono i soldi  di Matteo Messina Denaro, ovvero c’è il riciclaggio di milioni di euro di oscura o illecita provenienza: si è anche parlato, ma senza particolari riscontri processuali, di  una gestione spesso intimidatoria nell’imporre, con sistemi mafiosi, particolari condizioni ai fornitori di merce. Il nome di Grigoli viene trovato nelle lettere di Matteo Messina Denaro nel covo di Bernardo Provenzano, l'11 aprile 2006.  Grigoli voleva aprire un Despar a Ribera, un paese sotto l’ala protettiva del boss locale Capizzi che, addirittura, gli aveva chiesto il pizzo: pare che Capizzi, in un primo tempo fosse stato assunto nel supermercato, ma che avesse contratto con Grigoli un debito di 297,28  mila euro, che si rifiutava di pagare. Così Messina Denaro si era, per iscritto, rivolto a Bernardo Provenzano chiedendogli di intervenire a favore del “suo paesano". Provenzano si era rivolto al boss di Agrigento Giuseppe Falsone che avrebbe dovuto mettere pace tra i due. E’ caratteristico il tono dei pizzini di Messina Denaro: "Capizzi prima restituisca i soldi che si è preso e dopo gli amici di Ag mi dicono cosa vogliono dal mio paesano ed io sono disponibile a sistemare il tutto. E' ormai una questione di principio. Io ho fatto della correttezza la mia filosofia di vita".  E, nell’ultima lettera, : "Solo se Cpz comincia a pagare  il mio paesano paga 10 mila euro per ogni sito che ha ad Ag per ogni anno. In questo caso, dato che paga, non darà posti di lavoro. La mia seconda proposta: se il mio paesano non paga niente per come vuole il 28 (è il codice di Falsone - ndr) per rispetto a me, ed io lo ringrazio e gli sono grato per ciò e dica al 28 che io non dimenticherò mai questa gentilezza, allora se il mio paesano non paga, darà due posti come impiegati per ogni sito, impiegherà 2 persone che interessano ad Ag". Nel 2006 Grigoli è arrestato, processato e  condannato a 12 anni di carcere per associazione mafiosa: al processo vengono fuori  i nomi di capi mafia, a parte quello dell’imputato latitante Messina Denaro, di suo padre, «don Ciccio», di Bernardo Provenzano, di Filippo Guattadauro, il cognato del capo mafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro,  i nomi di politici, come quello dell’ex presidente della Regione Totò Cuffaro, che chiede a Grigoli di vendere nei suoi supermercati alcuni vini prodotti da suoi “amici”,  o quello dell’ex deputato regionale  cuffariano, Francesco Regina, andato da Grigoli a chiedere voti. A Grigoli si rivolge persino, per la vendita di ricotta il boss Vito Mazzara, l’uomo che avrebbe ucciso Mauro Rostagno e che attualmente sconta l’ergastolo. La confisca riguarda 12 società cominciando dalla capofila, il Gruppo 6GDO, punto di eccellenza un maxi centro commerciale, il Belicittà di Castelvetrano, e poi ancora 220 fabbricati tra palazzine e ville, 133 appezzamenti di terreni, uliveti e vigneti per un totale di 60 ettari. Tutte aree di campagna ricadenti in quell’area del Belice, da Zangara a contrada Seggio, dove i boss mafiosi siciliani a cominciare da Totò Riina, per continuare con Bernardo Provenzano e i Messina Denaro, avevano fatto incetta di terreni con l’idea che in quei luoghi doveva sorgere negli anni ’90 la “Castelvetrano 2”, un maxi complesso immobiliare che avrebbe dovuto ricalcare la più famosa “Milano 2” di marca berlusconiana. Il tutto viene affidato a un amministratore giudiziario, Nicola Ribolla. I suoi sette anni di amministrazione sono serviti a smantellare interamente un impero economico e a ridurre sul lastrico, senza lavoro, le 500 famiglie che vivevano all’interno delle attività confiscate. Al processo Ribolla ha tentato di giustificare il suo operato dicendo che “molti supermercati associati hanno chiesto di disdire il contratto con noi, i fornitori non ci hanno fatto più credito, e anche le banche ci hanno chiuso i rubinetti”. Sono in corso ancora trattative, stimolate anche in un incontri tra i lavoratori, ai quali è stata già mandata la lettera di licenziamento e  Sonia Alfano, in interventi  del sindaco di Castelvetrano  Felice Errante e della CGIL: il circuito comprende 43 supermercati Despar, più i 40 affiliati del gruppo 6GDO in provincia di Trapani : Despar, Eurospar, Superstore, Interspar ad Agrigento e Trapani.  Hanno già chiuso i supermercati più grossi di Marsala e Trapani, altri lo stanno facendo, poiché  non vengono più riforniti di merci, gli scaffali sono semivuoti. Addirittura, nel 2010 alla Prefettura di Trapani si era firmato un “protocollo di legalità” per salvare la “Special Fruit” una delle tante aziende del circuito di Grigoli e affidarne l’attività alla Coop, ma non se n’è fatto niente. La Special Fruit è stata messa in liquidazione, malgrado Ribolla ne avesse disposto un aumento di capitale stornandovi i soldi della 6GDO La chiusura delle banche ha prodotto la mancanza di liquidità per pagare fornitori e dipendenti, ma ha anche sospeso diversi crediti da riscuotere. Recentemente a Ribolla, forse in considerazione della sua scarsa capacità imprenditoriale, è stato aggiunto, come consulente, l’avvocato Antonio Gemma, vicino ad Angelino Alfano, ma la cosa non è servita a niente. L’amara conclusione di chi si trova sul lastrico è che quando c’era Grigoli tutto funzionava perfettamente,  l’azienda aveva un attivo di 600 milioni che sono scomparsi nel nulla con l’amministrazione giudiziaria: Insomma, ci troviamo davanti al volto nuovo di Cosa Nostra, così come si è potuto vedere anche col sequestro di un miliardo e 300 mila euro fatto al “re del vento” Vito Nicastri, di Alcamo, nel quale l’imprenditoria diventa l’elemento centrale per l’accumulazione del capitale, oltre le vecchie, ma sempre presenti pratiche del pizzo, e gli uomini d’onore, anche senza bisogno di esplicite affiliazioni, sono imprenditori e professionisti. Rispetto all’intraprendenza di costoro lo stato, avvolto nelle sue pastoie o rappresentato da gente incapace rischia di arrivare, quando arriva, con molto ritardo,  si trova davanti al proprio fallimento senza che si imputi tutto ai metodi di un’economia illegale: spesso, come nel caso dei lavoratori della 6DIGI , tutti messi in regola,  tutto funziona, almeno apparentemente, nel rispetto della legalità e all’interno di un circuito efficiente e produttivo.

Una parte di questa inchiesta è stata pubblicata sul numero di marzo 2014 de “I Siciliani giovani”. Ringrazio per la collaborazione, nella realizzazione dell’inchiesta, la redazione di Telejato, ovvero Pino Maniaci e Christian Nasi.

In questo mio trattato mi preme parlare anche dell’affaire “Banca Marche”. Una domanda sorge spontanea: a quando la parola fine? Il caso dell'imprenditore Ciro Di Pietro e della sua famiglia. Mi interesso perchè, dopo anni dal suo arresto, ancora non si è addivenuti ad una condanna definitiva, tale da renderlo colpevole. Intanto il suo patrimonio è amministrato dalla magistratura. E per la stampa è e rimane solo un mascalzone.....con la sua famiglia, tra cui il figlio Amedeo, avvocato.

Ho cercato di trovare sul web notizie attinenti il caso e la persona. Nulla. Solo notizie conformi, come se uscissero dalla medesima velina. Non una versione diversa. Tutto rilasciato dalle conferenze stampa dell'accusa. Dare voce alla difesa, sia mai!

“Catch me” (Prendimi, dal titolo del noto film che vede Di Caprio nei panni di un truffatore): è questo il nome dell’operazione scelto dal sostituto procuratore Manuela Comodi per descrivere l’attività delle 7 persone che ruotavano intorno a Ciro Di Pietro, imprenditore napoletano dal forte “carisma”, scrivono Sara Minciaroni e Alessia Chiriatti su “Tuttoggi” del 9 novembre 2012. Secondo la ricostruzione fornita oggi in conferenza stampa dal capo della mobile Marco Chiacchiera, Di Pietro si sarebbe rivelato un affabulatore talmente abile da raggirare persino le banche. Ad insospettire gli inquirenti proprio la facilità con cui diversi istituti bancari permettevano l’accesso al credito all’imprenditore, senza che questi fosse di fatto munito di solide garanzie: un fiume di soldi pari a 20 milioni di euro, basato su false garanzie e, cosa ancor peggiore, mai restituito. 8 dunque gli arresti  eseguiti a Perugia, Napoli e Avellino. In queste città e a Belluno la squadra mobile del capoluogo umbro ha effettuato anche numerose perquisizioni sequestrando molti documenti al vaglio degli investigatori. Perquisita anche una sede di “Italiani nel mondo”, la Fondazione creata dal senatore De Gregorio, il parlamentare del pdl al centro di numerose inchieste per truffa, riciclaggio, favoreggiamento della camorra, corruzione e false fatturazioni. Con Di Pietro, detenuto nel carcere di Napoli, sono stati raggiunti dai provvedimento di custodia i suoi figli Amedeo (avvocato) e Anna,  il fedele commercialista  Nunzio Capri (descritto dagli inquirenti come il “braccio operativo”, essendo l’autore della falsificazione dei bilanci nonché il titolare di quasi tutte le società fittizie coinvolte nell’inchiesta), il faccendiere di Umbertide Salvo Tempobuono e l’architetto Leonardo Orsini Federici, che secondo l’accusa avrebbe fornito i Sal (stati avanzamento lavori) con cui richiedere alle banche i finanziamenti. Due i funzionari di altrettante banche finiti ai domiciliari: si tratta del trevano Carlo Mugnoz, direttore della filiale perugina di Banche Marche e dell’avellinese Giuseppe Parnoffi, ex vice direttore regionale di Bcc Napoli, licenziato lo scorso anno dalla Banca dopo le prime perquisizioni disposte dalla magistratura. A loro è attribuita la complicità nell’emissione del credito. Ciro Di Pietro non si è fermato a questi due istituti bancari: nel tempo ha preso contatti anche con banche estere, tentativi puntualmente falliti. E’ andata meglio con l’umbra Banca Popolare di Spoleto che, stando alla ricostruzione, ha anticipato al partenopeo 150mila euro a fronte di fatture rivelatesi poi false. L’istituto di piazza Pianciani sarebbe stato interessato solo da questa operazione che, al momento, non ravviserebbe responsabilità penali in capo a chi trattò la pratica. Di certo anche PopSpoleto è rimasta vittima del millantatore in abiti eleganti che avrebbe vantato una amicizia con l’allora n. 1 Giovannino Antonini, oggi presidente della holding Scs. Peggio, molto peggio è andata invece a Medioleasing e Unicredit, interessate rispettivamente da una esposizione per 5,1 e 1,5 milioni di euro. Le accuse per la cricca sono pesantissime: si va dalla associazione per delinquere ai delitti contro il patrimonio e l’amministrazione finanziaria, truffa a danno di istituti bancari, falso, appropriazione indebita, false comunicazioni sociali, false fatturazioni, danno all’erario (per 3 milioni di euro). Inutile dire che sull’inchiesta aleggia il sospetto del riciclaggio. Sotto la lente di ingrandimento sono finite alcune operazioni immobiliari e ristrutturazioni che Di Pietro realizzava (quando non faceva finta di realizzare) in Umbria. Ecco quelle finite nel mirino: l’hotel Il Perugino a Ellera (nel 2009 fu la sede del Perugia Calcio di Leonardo Covarelli), le operazioni Ghinea, Villa Montemalbe (destinata a sede della Fondazione Italiani nel Mondo), Borgo San Giovanni, San Martino in Colle, Belvedere di Ripa e hotel Auronzo. Ristrutturazioni, compravendite  e costruzioni: il tutto per 20 milioni di euro arrivati nelle casse delle società di cui facevano parte Di Pietro & Co e di cui adesso si cerca di ricostruire tutti i passaggi. Stando all’inchiesta Il Perugino veniva usato come bene a garanzia per ottenere finanziamenti quattro volte superiori al reale valore dell’immobile. Le indagini hanno preso l’avvio dal commissariamento della Seas di Umbertide (l’azienda edile impegnata nella manutenzione stradale finita nell’inchiesta “Appaltopoli”), società che Ciro di Pietro tenta di scalare molto probabilmente grazie alle buone conoscenze che Tempobuono ha su Umbertide. L’obiettivo di Di Pietro era quello di farsi nominare d.g. di Seas, condizione necessaria affinche due suoi “amici” (non ancora identificati) finanziassero l’acquisto di quote societarie. L’inchiesta è destinata ad andare avanti e accertare eventuali connivenze fra l’imprenditore e la criminalità organizzata campana. Per la prima volta la polizia ha messo in atto il provvedimento di sequestro per equivalente: una volta stimata la truffa, l’autorità giudiziaria ha cercato tra i beni in possesso degli indagati per far fronte almeno al danno subito dallo Stato. Sotto i sigilli sono così finiti 2 appartamenti di proprietà degli indagati e quote societarie per un valore di 3 milioni di euro. Ai 20 milioni di euro, inclusi i 3 mln di evasione fiscale, la “cricca” Di Pietro è arrivata mettendo insieme tutta una serie di operazioni che hanno visto particolarmente colpita la Banca delle Marche, dove appunto ci sarebbe stata la complicità di Mugnoz, Medioleasing e Unicredit. Nel dettaglio: Banca Marche 10,3 milioni di € (3,5 mln per ristrutturare Borgo Baglioni a Collestrada; 1,5 mln per l’acquisto e la ristrutturazione di una villa a Montemalbe; 2,7 mln per l’acquisto di alcuni immobili a Corciano, 2,6 mln per un immobile a Ripa); Medioleasing Spa 5,1 mln per la ristrutturazione de Il Perugino. Banca Unicredit ha anticipato fatture per 1,5 mln di euro, così come il BCC Napoli (250mila), Bps (150mila) e Banca Popolare Ancona (50mila). Una curiosità: Banca delle Marche ha finanziato anche l’acquisto di un elicottero per 200mila euro, che Di Pietro non ha mai acquistato. Al vaglio degli inquirenti ci sarebbero anche i rapporti intercorsi tra Di Pietro e ambienti politici campani, umbri e romani. Le intercettazioni telefoniche avrebbero messo in luce diversi nomi eccellenti. Solo il prosieguo dell’inchiesta consentirà di comprendere eventuali altre collusioni. Per il resto se Di Pietro sperava di farla franca ha trovato sulla sua strada il pm Manuela Comodi. “Cath me, if you can” era il titolo del film interpretato da Di Caprio: la procura di Perugia c’è riuscita.

In Italia per diventare professionista bisogna abilitarsi. Attenzione, non dimostrare di essere capace, ma mostrare di essere uguale agli altri. Devi essere omologato e non rompere il cazzo alla categoria ed al sistema di potere. E così è. Queste le notizie apparse sul web.

“Truffa delle case. Centinaia di Perugini raggirati. L’Operazione Catch me ha portato all’arresto di otto persone ed alla scoperta di un’appropriazione indebita di 20 milioni di euro”, scriveva Umberto Maiorca su “Il Giornale dell’Umbria” del 10 novembre 2012.

“Perugia, un inganno da 17 milioni. E Di Pietro vuole tornare libero, scriveva Egle Priolo su “Il Messaggero” del 20 novembre 2012.

Poi c'è anche la diatriba sulle comparsate in tv. Hotel Auronzo: «Colpo alla malavita». I carabinieri di Belluno spiegano la loro tranche di inchiesta sul caso Di Pietro. Ma è “gelo” con la procura. Non è finita l’indagine attorno all’hotel Auronzo, del quale sono state sequestrate le quote di proprietà: altri indagati sono nell’aria, benchè non venga precisato il numero da parte dei carabinieri di Belluno, scrive Cristina Contento l’11 novembre 2012 su “Il Corriere delle Alpi”. Otto arresti su ordine di custodia del gip di Perugia, ma anche una serie di indagati sui quali si stanno ancora effettuando accertamenti. Intrecci con la politica tutti da scoperchiare: non è indagato il senatore Sergio De Gregorio, ospite affezionato dell’hotel Auronzo, che partecipò anche all’inaugurazione del 31 gennaio 2010. Non è finita l’indagine attorno all’hotel Auronzo, del quale sono state sequestrate le quote di proprietà: altri indagati sono nell’aria, benchè non venga precisato il numero da parte dei carabinieri di Belluno. Ieri la conferenza stampa dell’Arma che avoca alla Compagnia di Belluno una prima tranche di inchiesta: quella relativa al patrimonio, condotta da nucleo investigativo e nucleo informativo del reparto. Tranche poi confluita nel fascicolo perugino già aperto. Il comandante provinciale Ettore Boccassini e il colonnello Brighi, comandante del reparto operativo, hanno spiegato il filone di inchiesta seguito dal Reparto carabinieri Belluno, culminato con il «Fascicolo portato da me personalmente con i ragazzi del reparto, alla procura di Perugia, dopo che il procuratore Labozzetta decise di trasmettere nel capoluogo umbro anche la parte di indagini seguita con il pubblico ministero Simone Marcon». Procura che, però, prende le distanze dalla conferenza stampa dei carabinieri: «Non è stata autorizzata dalla procura». Sembra calato il “gelo” tra organi inquirenti e istituzionali in merito alla vicenda, alla luce di queste parole: «Il contributo dei carabinieri è stato marginale rispetto alla complessità dell’indagine e all’attività svolta dalla Mobile di Perugia» spiegano ancora dalla procura di Belluno. «Motivo per cui non è stata affidato loro alcun tipo di misura di prevenzione o sequestro». Tant’è, i carabinieri ieri hanno spiegato la loro parte di indagine, che ha riguardato soprattutto la questione patrimoniale e l’accertamento dei sospetti, grazie anche alla “perizia” che hanno chiesto direttamente alla Banca d’Italia per i movimenti sospetti e i continui finanziamenti che venivano chiesti da Di Pietro. A Perugia già da tempo Ciro Di Pietro era “seguito” dalla locale squadra mobile, visto che il 55enne napoletano era stato accusato di analoghi reati qualche anno prima. In loco, prima di arrivare in provincia. Anche la squadra mobile bellunese, guidata dal vice questore Mauro Carisdeo, stava facendo accertamenti e indagini dopo le segnalazioni. Obiettivo dei carabinieri, come spiega il colonnello Brighi, «era l’aggressione del patrimonio da parte della criminalità: come avvenuto per Calatafimi e per altri reati. Qui abbiamo un soggetto pregiudicato arrivato nel 2009, estraneo alla provincia e al giro di affari locale, che acquisisce un albergo per 2,5 milioni di euro e ne presenta un ampliamento per 12 milioni». Doveva fare apart-hotel, Ciro Di Pietro, finito in carcere col figlio Amedeo di 32 anni, Nunzio Caprio di 49 anni e Sauro Tempobuono. Arresti domiciliari, invece, per Carlo Mugnoz di 61 anni, Leonardo Orsini Federici di 49 anni, Anna Di Pietro di 28 anni e Giuseppe Parnoffi di 44 anni, campani e umbri. Appartamenti e albergo, come va di moda, in Francia. Ma il Comune di Auronzo nicchia sull’investimento immobiliare, tanto è vero che, quando all’assessore Dorigo viene incendiata l’auto, si pensa a un avvertimento: «Ma così non è», spiegano i due colonnelli Boccassini e Brighi. «Quell’episodio non c’entra, c’è un altro indagato». «Ciro Di Pietro ha ottenuto il mutuo di 2,9 milioni, oltre la fidejussione dei due figli»: somme importanti e continui ricorsi al credito presso le banche, con un anomalo sistema di “anticipo fatture” e “l’ipotetica connivenza del personale bancario”, scrivono i carabinieri. Fatture che per i carabinieri sono false: il mutuo ha un piano di ammortamento di 15 anni per 60 rate trimestrali di cui saranno pagati solo 63 mila euro», continuano. Poi il balletto per ritardare i pagamenti, le fatture intestate a società di Perugia e la Banca d’Italia che segnala le operazioni sospette. La società fittizia di comodo è intestata a due prestanome, secondo i carabinieri, altri quattro nel tempo vedranno intestata la proprietà dell’hotel Auronzo. I carabinieri si accorgono di qualcosa che non va, perchè il reddito dichiarato dai quattro non permette un simile investimento. Avallano l’ipotesi investigativa i sospetti trasferimenti di denaro tra diversi conti correnti di società e persone che fanno capo alla famiglia di Di Pietro. Un Di Pietro che, quando «fu sentito da noi, si avvalse della facoltà di non rispondere». Malavita che tentava di organizzarsi in provincia. Ma non è finita qui.

Hotel Auronzo, sequestrata la società, continua Ma. Co. su “Il Corriere della Alpi”. In carcere con altri sette il proprietario Ciro Di Pietro. Pesanti accuse di associazione a delinquere, truffa, false fatture. Bufera sull’albergo Auronzo. L’imprenditore Ciro Di Pietro, napoletano con interessi in molte parti d’Italia tra cui Perugia e Auronzo, è finito in manette con pesanti accuse insieme con altri sette imprenditori, funzionari di istituti di credito, un architetto e un commercialista (quattro sono in carcere, quattro ai domiciliari). L’elenco delle accuse è lungo: a vario titolo le persone arrestate sono accusate di associazione a delinquere finalizzata alle truffe, alle frodi fiscali, appropriazione indebita, falso e false fatturazioni. Ciro Di Pietro, attraverso la società Hotel Auronzo srl, dal 2009 è proprietario dell’omonimo albergo, il più bello di Auronzo, sede del ritiro della Lazio da cinque anni. Ma i suoi ospiti, nei 140 anni di vita, sono stati grandi personaggi della politica, dello Stato, della cultura, della vita sociale italiana. L’indagine che ha portato in carcere a Perugia Di Pietro, è partita da Belluno ed è stata condotta per un anno dal Nucleo investigativo e dal Nucleo operativo del Comando provinciale dei carabinieri. Sono stati fatti molti accertamenti bancari e in questo hanno avuto un ruolo importante funzionari della Banca d’Italia. All’intera operazione, complessa e lunga, ha partecipato anche il Comando dei carabinieri di Cortina. L’indagine è partita alla fine del 2010, neanche un anno da quando Di Pietro è arrivato ad Auronzo, ed è stata coordinata dalla procura della repubblica di Belluno che ha trasferito poi il procedimento alla procura di Perugia che ieri ha dato il via ai provvedimenti. Oltre agli arresti sono stati sequestrati degli immobili in giro per l’Italia e dei conti correnti. Le vittime dell’intera operazione sono le banche, ai danni delle quali sono state emesse le false fatture che servivano per avere poi dei finanziamenti. Per quanto riguarda l’albergo Auronzo, non è stato posto sotto sequestro, ma è stato sequestrato il capitale sociale, di 100.000 euro. Di Pietro aveva speso una barca di soldi per acquistare e ristrutturare l’albergo Auronzo. Personaggio singolare, napoletano verace, aveva incantato molti auronzani con i suoi grandiosi progetti. Senza problemi aveva annunciato a più riprese il valore complessivo del suo investimento in valle d’Ansiei: 12 milioni di euro, disse, che dovevano servire in un paio di anni per dotare l’albergo di nuove suites, di appartamenti, della piscina. L’albergo a quattro stelle di Auronzo, unico in paese, rappresentava un ottimo biglietto da visita per i turisti che in questi anni (grazie alla presenza della Lazio ma non solo) hanno affollato il paese sulle rive del lago. L’arresto del titolare, il sequestro del capitale sociale, la chiusura dell’albergo sono una vera e propria botta, al termine tra l’altro di una stagione turistica estiva. tra le migliori degli ultimi anni e a poche settimane dalla partenza di quella invernale.

E Di Pietro vuole tornare libero, scriveva Egle Priolo su “Il Messaggero” del 20 novembre 2012. Truffe e frodi, restano in carcere gli imprenditori Ciro e Amedeo Di Pietro, il 28 novembre prossimo verranno interrogati dal pm Manuela Comodi, scrive di F.M. su “Umbria 24” del 22 novembre 2012. Restano in carcere l’imprenditore napoletano Ciro Di Pietro e il figlio Amedeo, arrestati dalla squadra mobile di Perugia nell’ambito di un’indagine che ha portato a gala l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata alle truffe. Revocati invece gli arresti domiciliari per la figlia Anna. E’ quanto ha deciso il tribunale del riesame di Perugia dopo l’udienza di martedì mattina in cui Di Pietro, tramite i suoi legali, ha chiesto i tornare libero. Alla richiesta era arrivata l’opposizione del pubblico ministero titolare dell’indagine Manuela Comodi, che il 28 novembre prossimo, interrogherà Ciro e Amedeo Di Pietro nel carcere di Poggioreale. I due indagati principali secondo l’accusa avrebbero intascato 20 milioni di euro truffando istituti bancari chiedendo prestiti per operazioni immobiliari inesistenti. La misura cautelare era già stata revocata nei giorni scorsi per  i direttori di banca Carlo Mugnoz  e Giuseppe Parnoffi  e l’architetto perugino Leonardo Orsini Federici. Resta da definire la posizione del commercialista napoletano Nunzio Caprio.

Crac banca Marche: Tutte le denunce a scoppio ritardato, scrivono invece Sandra Amurri e Giorgio Meletti su "Il Fatto Quotidiano del 13 novembre 2013. Massimo Bianconi, direttore generale di Banca Marche dal 2004 al 2012, “figli di” ne ha assunti parecchi. Fabio Capanna è figlio di Agostino, generale dei Carabinieri e poi vicepresidente della Protezione civile regionale; Francesca Luzi è figlia di Vincenzo, procuratore capo di Ancona prima e di Camerino poi; Marco D’Aprile è figlio di Mario Vincenzo D’Aprile, presidente del Tribunale di Ancona; Serena Orrei è figlia di Paolo, ex prefetto di Ancona; Luca Di Matteo è figlio di Antonio, ex direttore della Cassa di Risparmio di Teramo (Tercas) oggi commissariata. Dettagli, nella storia di una banca messa in ginocchio dai crediti facili alle aziende amiche (mentre chiudeva i rubinetti alle piccole imprese). Servono però alla trepidazione con cui le Marche che contano, dal presidente della Regione Gian Mario Spacca al decano degli imprenditori Francesco Merloni, si sono occupate della banca oggi commissariata.

RAINER MASERA è stato a suo modo vittima di tanta sollecitudine. Il banchiere di lungo corso è stato chiamato lo scorso aprile a Jesi come salvatore della patria. Il presidente Lauro Costa e il vicepresidente Michele Ambrosini si erano appena dimessi. I grandi azionisti, le fondazioni bancarie di Pesaro, Jesi e Macerata, vedevano che le perdite stavano ormai mangiando il capitale. Già a febbraio il presidente della fondazione di Macerata, Franco Gazzani, il primo a denunciare lo sconquasso, aveva scritto in una email riservata a un consigliere della banca: “Quello che ti posso dire, ma lo dico a te che sei persona intelligente, è che siamo a un passo dal commissariamento”. Le fondazioni di Pesaro e Jesi chiedono a Masera di assumere la presidenza della banca. L’ex numero uno dell’Imi ed ex ministro del Bilancio prende tempo. È a quel punto che Francesco Merloni, 87 anni, ex ministro dei Lavori pubblici, lo porta dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Negli austeri saloni di palazzo Koch, Merloni parla di una cordata di imprenditori pronta a investire subito 200 milioni di euro. Si mormorano i nomi di Adolfo Guzzini, Gennaro Pieralisi, dello stesso Merloni e anche di Diego Della Valle. Masera si lascia convincere, ma ben presto scoprirà che le condizioni della banca sono peggiori di quanto pensava e che gli imprenditori marchigiani, nonostante l’appello accorato di Spacca, non cacciano un euro. A fine agosto, subìta l’onta del commissariamento, Masera si dimette, confidando agli amici tutta l’amarezza di chi si è sentito tradito. Nel frattempo ispettori della Banca d’Italia, ispettori interni mobilitati dal direttore generale Luciano Goffi, che dall’estate 2012 ha preso il posto di Bianconi, e magistrati di Ancona passano al setaccio le carte della banca. È Goffi a mandare i primi due esposti alla Procura della Repubblica di Ancona, il 28 febbraio e l’8 marzo 2013. Quando il direttore tira una linea emerge che i crediti “deteriorati” ammontano a 4,7 miliardi, un quarto dell’erogato totale della banca. Basta scorrere qualche storia esemplare per capire come si è potuti arrivare a tale scempio.

CIRO DI PIETRO, costruttore napoletano, viene arrestato a Perugia il 9 novembre 2012 assieme ad altre persone, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata principalmente alla truffa ai danni di Banca Marche. Di Pietro avrebbe ottenuto crediti per 19,8 milioni di euro con l’aiuto di perizie addomesticate sugli immobili. Con lui viene arrestato il direttore della filiale di Perugia di Banca Marche, Carlo Mugnoz. Quattro giorni dopo Goffi cancella dall’albo interno dei periti estimatori l’ingegnere anconetano Giuseppe Lucarini, a cui è addebitata una perizia di favore su immobili della Cellulis, società di Di Pietro. Ma arrivano due colpi di scena. Mugnoz viene quasi subito rimesso in libertà dopo aver convinto il gip di Perugia della sua tesi difensiva: Di Pietro parlava direttamente con il direttore generale Bianconi. Intanto Lucarini scrive una accorata lettera a Goffi, in cui fa capire che i periti subivano pressioni dal vertice della Banca per aggiustare le valutazioni. Scrive Lucarini: “L’imprenditore di Cellulis è un bandito? E mica l’ho scelto io; Banca Marche sapeva già che era stato inserito nelle indagini per riciclaggio già prima di fare le indagini in questione”.

CANIO MAZZARO, imprenditore potentino di 54 anni, ha chiesto il primo finanziamento a Banca Marche il 26 agosto 2004: 2 milioni di euro per la Pierrel Farmaceutici, che allora controllava. La linea di credito è stata deliberata nel giro di 24 ore dal direttore generale Bianconi. Oggi il gruppo Mazzaro è esposto con l’istituto di Jesi per 19,4 milioni, di cui 18,8 già in sofferenza. Scrivono gli ispettori interni: “La motivazione delle richieste dell’appoggio di Banca Marche è stata quasi esclusivamente di natura finanziaria (aumenti di capitale e/o acquisizione di quote di maggioranza) ma in effetti le linee di credito sono state utilizzate per sopperire alla mancanza di liquidità delle società del gruppo”. Mazzaro, di fatto uscito dalla Pierrel, oggi controlla Bioera, società quotata nata dalle ceneri del gruppo Burani. Lui è amministratore delegato, la sua ex compagna e madre di suo figlio, Daniela Garnero Santanchè, è presidente. Ma fino all’anno scorso, Mazzaro era presidente e amministratore delegato era Luca Bianconi, figlio di Massimo. Scrivono gli ispettori della banca con qualche ironia: “Per quanto emerso dall’analisi delle singole proposte di fido e dalla documentazione acquisita, è plausibile che l’ex direttore generale Massimo Bianconi e l’ing. Canio Mazzaro si conoscessero”. Gli ispettori si sono occupati anche dell’immobiliare Bologna Uno, che fa capo all’imprenditore Stefano Mattioli. L’esposizione di 25 milioni circa presenta alcune criticità, tra le quali colpisce il fatto che azionista della società, con il 10 per cento, è l’Immobiliare Uffreducci, “riconducibile all’ingegner Fabio Tombari”. Tombari altri non è che il presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, azionista di Banca Marche.

PIETRO LANARI è uno dei maggiori costruttori marchigiani. La sua esposizione con Banca Marche è di 236 milioni e, secondo gli ispettori Bankitalia, è uno dei clienti messi peggio, insieme ai gruppi Casale, Ciccolella, Minardi- Polo Holding e Foresi, in quanto “i tentativi di ristrutturazione non hanno dato esiti positivi”. Ma il costruttore non ci sta. Sostiene di aver ottenuto il finanziamento per importanti operazioni immobiliari nella regione, in particolare nelle aree turistiche di Numana, Senigallia e Potenza Picena, ma che “poco dopo l’inizio dei lavori la dirigenza di Banca delle Marche è stata sostituita e la nuova ha ritenuto di revocare ogni linea di credito ritenendo che i valori degli immobili fossero prossimi allo zero”. Lanari va oltre e avverte: “Non intendo essere mescolato con sporchi giochi di potere, vicende e vendette personali”.

VITTORIO CASALE, indebitato oggi per circa 60 milioni con Banca Marche, racconta di aver conosciuto Bianconi attraverso il comune amico Leonardo Ceoldo. Un giorno, racconta l’immo – biliarista, Bianconi lo invita nella sede di Banca Marche a Jesi, dove viene ricevuto dal presidente del collegio sindacale, Piero Valentini, e dal vicedirettore generale, Stefano Vallesi, che gli chiedono di salvare l’imprenditore calzaturiero marchigiano Giovanni Marocchi (esposto con la banca per 26 milioni) rilevando le sue quote nel resort Capo Caccia di Alghero. Bianconi chiede a Casale anche di nominare nel collegio sindacale una delle sue società Ludovico Valentini, figlio di Piero, il presidente del collegio sindacale di Banca Marche che gli aveva chiesto il “favore”. Poco dopo, nel 2011, Casale viene arrestato per la bancarotta della sua società Operae, e mentre è agli arresti fallisce anche Marocchi, cosicché l’espo – sizione dell’immobiliarista sale dai 20 milioni iniziali a 40, dopo aver assorbito quella di Marocchi. Appena uscito dal carcere viene nuovamente arrestato per la vicenda dell’albergo Capo Caccia, con l’accusa di essere il regista della bancarotta di Marocchi. “Bianconi, Valentini e Vallesi mi hanno fatto un bel pacco. Nessuno di loro si è più fatto sentire”, protesta oggi Casale, che si di ce pronto a dimostrare le sue accuse in tribunale, mentre l’esposizione di Banca Marche è lievitata a 60 milioni. Possibile che Bianconi abbia fatto tutto da solo? La storia di questo brillante banchiere che arriva a Jesi nel 2004 per dare slancio a una piccola banca regionale, è intessuta di amicizie importanti, in un ambiente politico-affaristico ad alto coefficiente massonico. Casale racconta di avergli chiesto chi lo avesse sponsorizzato, e di aver ottenuto in risposta un significativo elenco di grossi nomi del potere finanziario regionale e nazionale. Certo è che, mentre dà impulso agli affari della Banca Marche, Bianconi non trascura quelli di famiglia. Nel 2006 sua moglie, Anna Rita Mattia, sale agli onori della cronaca per l’acquisto in leasing di un immobile a Treviso che il giorno didopo viene affittato per 12 anni a Banca Popolare di Bari. Passa un anno e l’Espress o rivela la commistione di interessi con Danilo Coppola e Stefano Ricucci, quest’ultimo finanziato abbondantemente da Bianconi quando era in Bna, poi in Banca Agricola Mantovana e in Cariverona. Le oligarchie locali plaudono alla sua intraprendenza e non battono ciglio di fronte a stipendi d’oro e benefit da nababbo: accresce la clientela tra i costruttori, proprio mentre esplode la bolla immobiliare, promuove due aumenti di capitale, vende gli immobili della banca al Fondo Conero prendendoli in affitto con canoni pari al 7,5 per cento del valore. Nel giro di quattro anni affluiscono nel patrimonio della banca circa 600 milioni di euro. Ma i crediti in sofferenza stanno crescendo molto più rapidamente. BIANCONI fa una fine degna della sua forza passata. Per accompagnarlo alla porta la Banca d’Italia ha dovuto attendere la più classica delle bucce di banana. Durante un’ispezione alla Tercas gli uomini di Visco scoprono che il 7 maggio 2009 Bianconi manda un funzionario a cambiare un assegno circolare di Banca Marche da 160 mila euro con 32 assegni di 5 mila euro cadauno, poi versati sul conto personale del direttore generale. Questo tentativo di sfuggire alla tracciabilità viene giudicato da Bankitalia non coerente “con la deontologia professionale che deve connotare l’operato dell’alta dirigenza di una banca”. Così il 12 giugno 2012 il capo della vigilanza Luigi Signorini chiede a Banca Marche il siluramento di Bianconi. Il presidente Lauro Costa risponde che Bianconi faceva sempre così, perché amava una certa qual “riservatezza relativamente a una parte degli emolumenti percepiti”. Dopo Bianconi (coperto d’oro) anche Costa è stato accompagnato all’uscita. Adesso tocca alla magistratura capire com’è che ci sono voluti tanti anni per accorgersi dello scempio.

Ma chi è Ciro Di Pietro? Che sia vittima di un complotto?

«Poche parole e tanti fatti». Si legge su Forza Pergo. Si è presentato così, Sergio Briganti, nuovo presidente del Pergocrema (a sinistra nella foto mentre stringe la mano a Manolo Bucci, che gli ha ceduto la società gialloblù). E in effetti, di parole, nella conferenza stampa, ne ha fatte poche, nel senso che ha aggiunto poche informazioni a quelle già circolate in via non ufficiale nei giorni scorsi. «Insieme a me ci sono altri quattro soci — ha affermato il 42enne di Terracina, titolare di una società che si occupa di marketing — I loro nomi? Non sono importanti». Uno di questi è Ciro Di Pietro, imprenditore alberghiero, titolare dell’hotel di Auronzo dove va in ritiro la Lazio e dove andrà il Pergocrema. Presente in sala stampa, Di Pietro non ha però parlato. Anticipando quelle che sarebbero state domande inevitabili, Briganti ha poi precisato i ruoli di Claudio Lotito, presidente della Lazio, e di Ermanno Pieroni, ex presidente dell’Ancona, i cui nomi erano stati affiancati nei giorni scorsi al Pergocrema. «Con Lotito esiste un rapporto di lavoro, di amicizia e di rispetto; è una persona che sa fare calcio tenendo i conti a posto. Con Pieroni ho lavorato due anni ad Ancona e a Taranto; è un uomo capace, conosce bene i giocatori e ce ne proporrà, così come ce ne propongono tanti altri operatori di mercato». Presentato dall’addetto stampa Barbara Locatelli, Briganti, che dopo la conferenza ha salutato i tifosi e incontrato le istituzioni, ha poi illustrato il suo progetto. «La nostra è stata una trattativa limpida e trasparente. Abbiamo trovato una correttezza nella gestione che in altre società non avevamo visto. Abbiamo trattato altri club, scoprendo una marea di debiti. Il Pergocrema è pulito e questo ci permetterà di investire. Con il mio gruppo, che è solido, ho deciso di intraprendere questa avventura in una città dove si può lavorare senza pressioni, per proseguire il lavoro iniziato da Manolo Bucci. La nostra sarà un’azienda che fa calcio, sul modello della Lazio. Entro domani presenteremo tutto l’organigramma. Non avremo un direttore generale, perchè siamo tutta gente di calcio. Io sarò a Crema cinque giorni alla settimana e mi avvarrò della collaborazione delle persone cremasche che già hanno collaborato con Bucci. Allestiremo una squadra all’altezza della situazione. Non vendiamo fumo e non siamo qui per perdere tempo». (4 agosto 2011)

Nominato il curatore fallimentare. Ciro Di Pietro, l'imprenditore campano: "C'erano i soldi per fare tutto". E promette battaglia, scrive Francesco Galante su “Inviato Speciale”. Il Pergo e i suoi quasi 80 anni di storia sembrano agli sgoccioli. E' di oggi la notizia che il tribunale ha nominato ufficialmente Claudio Boschiroli quale curatore fallimentare della società. Ma Ciro Di Pietro, il capo della cordata campana che vorrebbe salvare il Pergocrema, è pronto a giocare il jolly opponendosi al pronunciamento. A comunicarlo è stato lo stesso imprenditore che, raggiunto telefonicamente, si è limitato a poche lapidarie parole: “Personalmente non ho ancora ricevuto nessuna comunicazione in tal senso. Ma se questa è la decisione del tribunale di Crema, noi presenteremo opposizione”. “Nelle prossime ore prenderemo contatti con i nostri legali” prosegue Di Pietro, “affiancandoli con docenti universitari che già in passato hanno dato il loro appoggio a società di calcio invischiate in procedure fallimentari, e vedremo il da farsi”. Tra questi anche Sergio La Rotonda, indicato come presidente del Pergocrema. La strategia però sembra delineata: “Dimestreremo al tribunale che non esiste uno stato di insolvenza del Pergocrema, ma solo una momentanea illiquidità. Possiamo dimostrare di avere 350mila euro di titoli certi. E in totale, tra contratti di sponsor che non hanno onorato i loro impegni con la società, più la valorizzazione dei giocatori attualmente in rosa, arriveremmo a circa un milione di euro”. In sostanza, secondo Di Pietro, c'era il denaro per pagare gli stipendi arretrati e presentare la fideiussione per iscriversi alla Lega Pro. Ora però il tempo stringe, perché entro il 25 giugno almeno le pendenze con i tesserati andranno saldate. “Salvatore Cappelleri, Il presidente del tribunale è stato una persona eccezionale” aggiunge Di Pietro, “è la scorsa settimana ci ha consentito di accelerare un percorso che altrimenti sarebbe durato mesi. Sono certo che un paio di giorni ancora basteranno per risolvere la situazione e dimostrare che il Pergo è una società che può andare avanti. Se così non fosse, sarebbe la prima società a fallire con i soldi”.

Eppure la situazione è alle soglie del drammatico. In città danno i gialloblu per spacciati.

“Eppure non abbiamo trovato nessun cremasco disponibile ad affiancarci in questi giorni. Briganti invece di soldi ne ha messi, e anche tanti”.

Di chi è la colpa?

“Se dovesse andare male, il curatore fallimentare andrebbe a risalire fino a due anni indietro la situazione attuale. Quindi oltre Briganti, anche Bucci e Bergamelli saranno chiamati a spiegare cosa è successo. E lo stesso dicasi per gli sponsor che non hanno rispettato i contratti: dovranno spiegare perché”.

Di Pietro giura battaglia, e assicura: “Giovedì avremo in mano le carte per dimostrare che il Pergo non può e non deve fallire”.

Fallimento del Pergo, Di Pietro non molla: “Chi l’ha voluto?” , scrive “Crema Oggi”. “Il Tribunale si è riservato di decidere sull’istanza di fallimento”: queste le prime parole dell’avvocato Oreste De Donno appena uscito dall’aula dove si è tenuta l’udienza, per decidere sulle sorti future del sodalizio gialloblù. A questo punto, il destino sembra segnato e nei prossimi giorni si saprà, se è calato il sipario sul calcio professionistico a Crema. Ciro Di Pietro, accompagnato da Ernesto Rimonti, arrivano in Tribunale poco dopo le 11, per prendere parte all’udienza avente ad oggetto l’istanza di fallimento, presentata nelle scorse settimane,da due creditori del club gialloblù. Udienza prevista per le 11,30, ma durata pochi minuti, con l’avvocato Oreste De Donno, che all’uscita dice: “Il Tribunale si è riservato di decidere sul fallimento”. Fine dei giochi? Forse, ma l’imprenditore napoletano, Ciro Di Pietro che rappresenta il gruppo, che dovrebbe esprimere Ernesto Rimonti come nuove presidente del Pergocrema, non ci sta: “Non abbiamo nessuna intenzione di mollare. Si sta facendo fallire una società che vanta dei crediti. Nessuno si è fatto avanti”. L’imprenditore napoletano punta il dito sugli Istituti di Credito: “Con 350mila euro certi da incassare, non ci hanno voluto fare gli assegni circolari per 35 mila euro”, che sarebbero serviti per far fronte a parte delle richieste dei due creditori, che hanno presentato l’istanza di fallimento. Ma Di Pietro parla anche delle fatture, che devono saldare gli sponsor e non solo: “Briganti ha fatto più casino della grandine, ma a Crema non si è trovato nessuno che ha remato a favore del Pergo. Parecchie persone volevano sguazzare dentro, dalle banche agli sponsor. Bastava che un solo sponsor avesse pagato normalmente – aggiunge Di Pietro – e si poteva evitare il fallimento”. Quindi un pensiero rivolto ai due creditori: “Maosi e Nonsoloverde, che hanno attivato il procedimento, non prenderanno una lira, perché sono chirografari”. E poi, lascia il Tribunale con un interrogativo: “Di chi è la volontà di far fallire la squadra?”.

Caso Pergocrema, Macalli verso il deferimento? Il vicepresidente della Figc e n.1 storico della Lega Pro, Mario Macalli, rischia il deferimento in margine al caso Pergocrema. Il procuratore federale, Palazzi, ha chiuso l'indagine e passato le carte alla Superprocura del Coni come prevedono le nuove norme di giustizia sportiva volute dal Coni: ora Macalli potrà presentare le sue controdeduzioni, ed essere anche interrogato. La prossima settimana Palazzi deciderà se archiviare o deferire (più che probabile). Il caso Pergocrema si trascina ormai da molto tempo: questa estate la procura della Repubblica di Firenze aveva chiesto il suo rinvio a giudizio. Macalli secondo i magistrati avrebbe "provveduto a registrare a proprio nome i marchi Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932". In questo caso, il n.1 dell'ex Serie C, come stato scritto su Repubblica la scorsa estate da Marco Mensurati e Matteo Pinci, "intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando un danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi che se disponibili avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento". Macalli aveva sempre assicurato la sua totale estraneità ai fatti. "Chiarirò tutto". Pare sia arrivato il momento. Possibile inoltre il deferimento di Belloli, presidente del Comitato regionale lombardo e fra i candidati alla successione di Tavecchio alla presidenza della Lega Nazionale Dilettanti. Oltre a lui, resterebbero in corsa solo Tisci e Mambelli, mentre avrebbero fatto un passo indietro Repace e Dalpin. Mercoledì prossimo riunione con Tavecchio. Si vota l'11 novembre. Per finire, chiusa l'inchiesta di Palazzi anche su Claudio Lotito: interrogati quattro giornalisti, acquisito il video. Ora le carte sono in possesso di Lotito, che deve difendersi, e del generale Enrico Cataldi, superprocuratore Coni: presto Palazzi dovrebbe fare il deferimento per le parole volgari su Marotta.

La Commissione Disciplinare ha deliberato il 6 marzo 2013 in merito al fallimento dell’Us Pergocrema 1932 ed ha inibito gli ex presidenti Sergio Briganti per 40 mesi e Manolo Bucci per 12, l’ex amministratore delegato Fabrizio Talone per 6 mesi, l’ex vice presidente Michela Bondi per 3 e gli ex consiglieri del Cda Estevan Centofanti per 3, Luca Coculo e Gianluca Bucci entrambi per 6 mesi, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla base delle indagini effettuate dalla Procura Federale, la Disciplinare ha deciso di infliggere sanzioni ai personaggi di cui sopra accusandoli «di aver determinato (i due presidenti) e di aver contribuito (gli altri dirigenti) con il proprio comportamento la cattiva gestione della società, con particolare riferimento alle responsabilità del dissesto economico-patrimoniale».

A sbiadire ancor di più l’immagine di Briganti, però, ci pensa Striscia la Notizia. L’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti, è stato protagonista di un servizio in una delle ultime puntate di Striscia la Notizia, il tg satirico in onda su Canale 5, intitolato “Minacce, spintoni, schiaffi”, scrive “La Provincia di Crema”. Jimmy Ghione è stato avvicinato da una giovane donna che ha segnalato come, nel vicolo del pieno centro di Roma dove si trova il bar di Briganti, le auto non riescano a transitare in quanto la strada è occupata da un lato da sedie e tavolini del locale e dall’altro da motorini. In quel vicolo, il transito è consentito soltanto agli automezzi di servizio, ai taxi, ai motocicli e alle auto munite del contrassegno per i disabili. E proprio un disabile stava sull’auto guidata dalla donna, che si è trovata la strada bloccata. A quel punto, la signora ha chiesto a Briganti di spostare i tavolini, ma la risposta è stata «un vulcano, una cosa irripetibile», ha commentato la donna.

C’è da chiedersi: quanto importante sia il Briganti per Striscia, tanto da indurli ad occuparsi di lui e non delle malefatte commesse dai magistrati e dall’elite del calcio?

Il presidente del Coni Giovani Malagò è stato condannato dalla Disciplinare della Federnuoto a 16 mesi di squalifica in qualità di presidente dell'Aniene, società per la quale gareggia anche Federica Pellegrini, scrive “La Gazzetta dello Sport”. Per Malagò dunque scatta la sospensione da ogni attività sociale e federale per il periodo in questione. E' stata così riconosciuta la responsabilità di Malagò per "mancata lealtà" e "dichiarazioni lesive della reputazione" del presidente federale Barelli, denunciato dal Coni per una presunta doppia fatturazione. Il caso era nato per una denuncia del Coni, presieduto da Malagò, alla Procura della Repubblica di Roma, per una presunta doppia fatturazione per 820mila euro per lavori di manutenzione della piscina del Foro Italico in occasione dei Mondiali di nuoto. Nel registro degli indagati era stato iscritto il presidente della Federnuoto Barelli, ma il pm aveva chiesto al gip l'archiviazione. La partita giudiziaria era stata poi riaperta dalla decisione di quest'ultimo di chiedere un supplemento di indagini, tuttora in corso. Nel frattempo, nuovi colpi di scena. Barelli, infatti, ha invitato la Procura federale della Fin ad "accertare" e valutare i comportamenti di Malagò, nella sua condizione di membro della Fin come presidente della Canottieri Aniene. Un invito a verificare se ci possano essere state "infrazioni disciplinarmente rilevanti" nelle parole con cui Malagò riassunse la vicenda nella giunta Coni del 4 marzo, parlando, sono espressioni dello stesso Malagò davanti al viceprocuratore federale, "come presidente del Coni e non da tesserato Fin". Il documento-segnalazione di Barelli accusava in sostanza Malagò di aver detto il falso in Giunta accusando ingiustamente la Federazione. La nota Fin citava la "mancata lealtà" e le "dichiarazioni lesive della reputazione", gli articoli 2 e 7, che Malagò avrebbe violato con le sue parole su Barelli in Giunta sulle "doppie fatturazioni". I legali del Coni avevano sollevato eccezioni di nullità, illegittimità e incompetenza, depositando anche il parere richiesto dalla Giunta al Collegio di Garanzia dello Sport, che chiariva la non competenza degli organi di giustizia delle Federazioni su vicende del genere.

Il passato scomodo di Tavecchio, scrivono da par loro Tommaso Rodano e Carlo Tecce per Il Fatto Quotidiano. "Spuntano una denuncia per calunnia contro il super candidato alla Federcalcio e un dossier depositato in procura che lo riguarda. E si scoprono strane storie, dalle spese pazze fino al doppio salvataggio del Messina. Ogni giorno che passa, e ne mancano cinque all’annunciata investitura in Federcalcio, il ragionier Carlo Tavecchio arruola dissidenti, smarrisce elettori: resiste però, faticosamente resiste. Nonostante le perplessità di Giovanni Malagò (Coni), dei calciatori più famosi e di qualche squadra di serie maggiore o inferiore. Il padrone dei Dilettanti, che dal ‘99 gestisce un’azienda da 700.000 partite a stagione e da 1,5 miliardi di euro di fatturato, com’è da dirigente? Dopo aver conosciuto le sue non spiccate capacità oratorie, tra donne sportive handicappate e africani mangia-banane, conviene rovistare nel suo passato. E arriva puntuale una denuncia per calunnia contro Tavecchio, depositata in Procura a Varese due giorni fa, a firma Danilo Filippini, ex proprietario dell’Ac Pro Patria et Libertate, a oggi ancora detentore di un marchio storico per la città di Busto Arsizio. Per difendersi da una querela per diffamazione – su un sito aveva definito il candidato favorito alla Figc un “pregiudicato doc” – Filippini ha deciso di attaccare: ha presentato documenti che riguardano il Tavecchio imprenditore e il Tavecchio sportivo, e se ne assume la responsabilità. Oltre a elencare le cinque condanne che il brianzolo, già sindaco di Ponte Lambro, ha ricevuto negli anni (e per i quali ha ottenuto una riabilitazione) e i protesti per cambiali da un miliardo di lire dopo il fallimento di una sua azienda (la Intras srl), Filippini allega una lettera, datata 24 ottobre 2000, Tavecchio era capo dei Dilettanti dal maggio ‘99. Luigi Ragno, un ex tenente colonnello dei Carabinieri, già commissario arbitrale, vice di Tavecchio, informa i vertici di Lega e Federazione di una gestione finanziaria molto personalistica del presidente. E si dimette. “Mi pregio comunicare che nel corso del Consiglio di Presidenza – si legge – è stato rilevato che la Lega intrattiene un rapporto di conto corrente presso la Cariplo di Roma, aperto successivamente al Primo Luglio 1999 (…). L’apertura del conto corrente appare correlata alla comunicazione del Presidente di ‘avere esteso alla Cariplo, oltre alla Banca di Roma già esistente, la gestione dei fondi della Lega. Entrambi gli Istituti hanno garantito, oltre alla migliore offerta sulla gestione dei conti, forme di sponsorizzazione i cui contenuti sono in corso di contrattazione”. Quelle erano le premesse, poi partono le contestazioni a Tavecchio: “Non risulta che alcun organo collegiale della Lega sia mai stato chiamato a esprimere valutazioni in ordine a offerte formulate dagli Istituti di credito di cui sopra”. “Risulta che non sono state prese in considerazione dal presidente più di venti offerte di condizione presentate in busta chiusa da primarie banche che operano su Roma, le quali erano state contattate dal commissario”. “Non risulta che né la Banca di Roma né la Cariplo abbiano concluso con la Lega accordi di sponsorizzazione”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale del bilancio della Lega non appare, nella voce ‘banche’, la presenza del conto corrente acceso presso Cariplo”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale, alla voce ‘Liquidità/Lega Nazionale Dilettanti’ risulta l’importo di Lire 18.774.126.556, che non rappresenta, come potrebbe sembrare a prima vista, il totale delle risorse finanziarie dei Comitati e delle Divisioni giacenti presso la Lega, bensì è costituito da un saldo algebrico tra posizioni creditorie e posizioni debitorie nei confronti della Lega”. Segue una dettagliata tabella dei finanziamenti ai vari Comitati regionali, e viene così recensita: “Il presidente della Lega ha comunicato che ai suddetti ‘finanziamenti di fatto’ è applicato il tasso di interesse del 2,40%, la cui misura peraltro non è stata stabilità da alcun organo collegiale”. Il vice di Tavecchio fa sapere di aver scoperto anche un servizio di “private banking”, sempre con Cariplo, gestito in esclusiva dal ragionier brianzolo: “Nessun Organo collegiale della Lega ha mai autorizzato l’apertura di tale rapporto (…) e mai ha autorizzato il presidente a disporre con firma singola (…) Trattasi di un comportamento inspiegabile e ingiustificabile, anche in considerazione della consistenza degli importi non inferiore ai venti miliardi di lire”. Ragno spedisce una raccomandata alla Cariplo, e si congeda dai Dilettanti di Tavecchio: “Di fronte all’accertata mancanza di chiarezza, di trasparenza e di correttezza e di gravi irregolarità da parte del massimo esponente della Lega, non mi sento di avallare tale comportamento gestionale e comunico le immediate dimissioni”. Per comprendere la natura del consenso costruito minuziosamente da Tavecchio nella gestione della Lega Dilettanti, un caso esemplare è quello del Messina calcio. La società siciliana approda in Lnd nella stagione sportiva 2008-2009. La famiglia Franza è stufa del suo giocattolo, vorrebbe vendere la squadra, ma non trova acquirenti. Il Messina è inghiottito dai debiti. Dovrebbe militare in serie B, ma il presidente Pietro Franza non l’iscrive al campionato cadetto: deve ricominciare dai dilettanti. Il problema è che il Messina è tecnicamente fallito (la bancarotta arriverà dopo pochi mesi) e non avrebbe le carte in regola nemmeno per ripartire da lì. E invece Tavecchio, con una forzatura, firma l’iscrizione dei giallorossi alla Lega che dirige. L’uomo chiave si chiama Mattia Grassani, principe del foro sportivo e, guarda caso, consulente personale di Tavecchio e della stessa Lnd: è lui a curare i documenti (compreso un fantasioso piano industriale per una società ben oltre l’orlo del crac) su cui si basa l’iscrizione dei siciliani. In pratica, si decide tutto in casa. Nel 2011 il Messina, ancora in Lega dilettanti, è di nuovo nei guai. Dopo una serie di vicissitudini, la nuova società (Associazione Calcio Rinascita Messina) è finita nelle mani dell’imprenditore calabrese Bruno Martorano. La gestione economica non è più virtuosa di quella dei suoi predecessori. Martorano firma in prima persona la domanda d’iscrizione della squadra alla Lega. Non potrebbe farlo: sulle sue spalle pesa un’inibizione sportiva di sei mesi. Non solo. La documentazione contiene, tra le altre, la firma del calciatore Christian Mangiarotti: si scoprirà presto che è stata falsificata. Il consulente del Messina (e della Lega, e di Tavecchio) è sempre Grassani: i giallorossi anche questa volta vengono miracolosamente iscritti alla categoria. Poi, una volta accertata l’irregolarità nella firma di Mangiarotti, la sanzione per il Messina sarà molto generosa: appena 1 punto in classifica (e poche migliaia d’euro, oltre ad altri 18 mesi di inibizione per Martorano). Tavecchio, come noto, è l’uomo che istituisce la commissione “per gli impianti sportivi in erba sintetica” affidandola all’ingegnere Antonio Armeni, e che subito dopo assegna la “certificazione e omologazione” degli stessi campi da calcio alla società (Labosport srl) partecipata dal figlio, Roberto Armeni. Non solo: la Lega Nazionale Dilettanti di Tavecchio ha un’agenzia a cui si affida per l’organizzazione di convegni, cerimonie ed assemblee. Si chiama Tourist sports service. Uno dei due soci, al 50 per cento, si chiama Alberto Mambelli. Chi è costui? Il vice presidente della stessa Lega dilettanti e lo storico braccio destro di Tavecchio. Un’amicizia di lunga data. Nel 1998 Tavecchio è alla guida del comitato lombardo della Lnd. C’è il matrimonio della figlia di Carlo, Renata. Mambelli è tra gli invitati. Piccolo particolare: sulla partecipazione c’è il timbro ufficiale della Figc, Comitato Regionale Lombardia. Quando si dice una grande famiglia."

Macalli a inizio ottobre 2014 è stato anche deferito per violazione dell’art. 1 dalla Procura Figc (dopo un esposto di Massimo Londrosi, d.s. del Pavia) per aver registrato a suo nome nel 2011 quattro marchi riconducibili al club fallito, e per aver ceduto - dopo aver negato il bonifico che ha fatto fallire il club - quello «Us Pergolettese 1932» alla As Pizzighettone, che nel 2012-13 ha fatto la Seconda divisione con quella denominazione. Macalli patteggerà, scrive “Zona Juve”. Anche su internet non si trova conferma.

Mario Macalli, da 15 anni presidente della Lega Pro di calcio, sarebbe indagato per appropriazione indebita, in merito alla sua acquisizione del marchio del Pergocrema, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla scomparsa della società gialloblu (club dichiarato fallito dal tribunale cittadino il 20 giugno 2012), indagano le procure di Roma e Firenze che hanno ricevuto una denuncia da parte dell’ex presidente dei gialloblu Sergio Briganti, nei giorni scorsi inibito per 40 mesi dalla Federcalcio proprio per il fallimento del Pergo. E’ possibile che le due inchieste vengano riunificate. Macalli è stato vice presidente per alcuni anni della società gialloblu, vive a Ripalta Cremasca ed ha il suo studio in città. La storia dell’acquisizione del marchio venne scoperta e resa pubblica da un gruppo di tifosi che avrebbero voluto rilevare la società, percorrendo la strada dell’azionariato popolare. Con quattro registrazioni di marchi, Macalli ha reso impossibile il loro proposito.

Un altro terremoto scuote le malandate istituzioni del calcio italiano. La procura di Firenze, nel giorno della stesura dei gironi, ha chiesto il rinvio a giudizio per Mario Macalli, presidente della Lega Pro. L'accusa: abuso d'ufficio, scrive “La Provincia di Crema”. Oggetto dell'inchiesta penale condotta dal sostituto procuratore di Firenze, Luigi Bocciolini è la vicenda del fallimento del Pergocrema nell'estate 2012, nata dalla denuncia di Sergio Briganti, oggi difeso dagli avvocati Giulia De Cupis e Domenico Naso, e allora presidente del club lombardo. I dettagli dell'accusa per il manager sono pesantissimi: "In presenza di un interesse proprio, intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi, e che se disponibili avrebbero consentito alla società  sportiva di evitare il fallimento".

“Abuso d’ufficio”. E’ questa l’accusa, formulata dal procuratore della repubblica di Firenze, Luigi Bocciolini, che nei giorni scorsi ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio Mario Macalli, presidente della Lega Pro, scrive “Crema On Line”. L’oggetto dell’inchiesta, iniziata nel marzo 2013 riguarda la vicenda del fallimento del Pergocrema, avvenuta nel giugno 2012. L’indagine è partita dalla denuncia dell’ex presidente gialloblu Sergio Briganti. Dai verbali in possesso della polizia giudiziaria fiorentina nell’aprile 2012 l’avvocato Francesco Bonanni, responsabile dell’ufficio legale della Lega Pro, era incaricato di effettuare i conteggi relativi alla ripartizione della quota della suddivisione dei diritti televisivi della legge Melandri. La somma destinata al Pergocrema, allora iscritta al campionato di Prima Divisione Lega Pro, era pari a 312.118,54 euro lordi, al netto 245.488, 80 euro. In quel periodo la società cremasca gravava in una pesante situazione debitoria nei confronti di tecnici, atleti e fornitori. Il 3 maggio 2012 è stata presentata un'istanza da Francesco Macrì, legale dell’Assocalciatori, in rappresentanza di dieci tesserati del Pergocrema che vantavano 170 mila euro di debiti nei confronti del club gialloblu. Il tribunale di Crema ha autorizzato il sequestro cautelativo della somma in giacenza, comunicandolo alla Lega Pro. Il sequestro è stato attivato il giorno successivo. Il dato certo, secondo la ricostruzione degli inquirenti, è che il 27 aprile 2012 la Lega era pronta a versare la quota: Bonanni ha escluso di aver dato l'ordine a Guido Amico di Meane, al commercialista della Lega Pro, di bloccare il versamento alla società cremasca. L'unico che avrebbe dato disposizione di non effettuare il relativo bonifico agli uffici preposti sarebbe stato Macalli.

Eppure, nonostante l’impegno della Procura, il Gup di Firenze Fabio Frangini ha assolto Mario Macalli, presidente della Lega Pro, dall’accusa di abuso d’ufficio riguardo al caso del fallimento del Pergocrema. Secondo l'accusa Maccalli non avrebbe autorizzato il versamento alla società della quota dei diritti tv relativa alla stagione 2011-2012.  Non luogo a procedere, scrive “La Provincia di Crema”. Il presidente di Lega Pro e vicepresidente della Federcalcio, Mario Macalli, è stato prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio, nell’ambito della vicenda che portò nel giugno del 2012 al fallimento dell’Us Pergocrema 1932. La decisione è stata presa martedì mattina 21 ottobre dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Firenze, che non ha quindi accolto la richiesta di rinvio a giudizio depositata dal pubblico ministero Luigi Bocciolini il 30 luglio scorso. Il reato ipotizzato per Macalli era quello previsto e punito dall’articolo 323 del codice penale (l’abuso d’ufficio, appunto). Secondo il pubblico ministero, nella sua qualità di presidente della Lega Pro Macalli aveva intenzionalmente arrecato un ingiusto danno patrimoniale al Pergocrema, dando agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione a bloccare, senza giustificazione, il bonifico alla società di 256.488,80 euro alla stessa spettante quale quota per i diritti televisivi. A seguito di ciò, il 28 maggio 2012, due creditori chirografari depositarono istanza di fallimento del Pergocrema, presso il tribunale di Crema, fallimento che veniva dichiarato il 19 giugno. In sostanza, l’accusa puntava a dimostrare che, la società gialloblù fallì perchè non fu in grado di saldare il debito contratto di 113.000 euro con il ristorante Maosi e l’impresa di giardinaggio Non Solo Verde. Il fallimento sarebbe stato evitato se la Lega Pro avesse eseguito a fine aprile sul contro del Pergocrema, come venne fatto per tutti gli altri club, il bonifico dei contributi spettanti alla società stessa. Ma il Gup — come detto —non ha sposato la tesi. Al termine degli accertamenti, il Gup lo ha prosciolto con formula piena perché "il fatto non sussiste". I difensori del ragioniere cremasco, l’avvocato Nino D’Avirro di Firenze e Salvatore Catalano di Milano hanno evidenziato, tra l’altro, che Macalli non svolge la funzione di pubblico ufficiale e pertanto non si configura il reato di abuso d’ufficio, scrive “Crema On Line”. Quindi l’inghippo c’era, ma non è stato commesso da un pubblico ufficiale? E qui, da quanto dato sapere, il motivo del non luogo a procedere. Come mai questa svista dei pubblici ministeri? «Aspettiamo le motivazioni — ha affermato a caldo l’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti — e poi ricorreremo. La cosa non finisce qui».

LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.

Tortura, dopo 26 anni l’Italia ancora non riconosce il reato, scrive Andrea Oleandri su “Il Garantista”.

10 dicembre 1984. 3 novembre 1988. 10 dicembre 2004. 5 marzo 2014. 27 ottobre 2014. Cosa hanno in comune tra loro queste cinque date? Molto, per chi conosce la storia della mancata introduzione del reato di tortura nel nostro paese.

Era il 10 dicembre 1984 quando l’assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. All’articolo 1 si definiva tortura “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso [...] qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”.

Quasi quattro anni dopo, il 3 novembre 1988, nei prossimi giorni “festeggeremo” il ventiseiesimo anniversario, l’Italia ratificò questa Convenzione ma, in questi ventisei anni, il nostro paese non è stato in grado di dotare il proprio codice penale di questo reato.

Il 10 dicembre del 2004, a vent’anni dall’approvazione della Convenzione da parte dell’Onu, in un carcere italiano, quello di Asti, accadde un fatto che molto c’entra con la tortura o che molto avrebbe potuto averne a che fare. In quel giorno – e nei giorni successivi – due detenuti, protagonisti di un’aggressione ai danni di un agente penitenziario, vengono sottoposti a violenze e umiliazioni a scopo ritorsivo. Il fatto lo riporta Claudio Sarzotti nel n. 3-2013 della rivista di Antigone. “Nell’immediatezza dei fatti i due vengono denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri, nonostante il freddo dovuto alla stagione invernale, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello, razionandogli il cibo, impedendogli di dormire, insultandoli, strappandogli, nel caso di R.C., il codino e, in entrambi i casi, sottoponendoli nei giorni successivi a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo, giungendo anche, almeno per C.A., a schiacciargli la testa con i piedi”. Il processo parte solo nel luglio del 2011 – non per le denunce di altri che nel carcere lavoravano, ma solo per alcune intercettazioni che, inizialmente, nulla avevano a che fare con il caso – e si chiude in Cassazione il 27 luglio 2012. Secondo Riccardo Crucioli, giudice di primo grado “i fatti potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura”. Tuttavia, non essendoci il reato, lo stesso viene derubricato.

Il 5 marzo 2014 il Senato approva un disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Un testo che differisce dalla convenzione Onu in quanto non prevede la tortura come un reato proprio delle forze dell’ordine, ma lo rende generico con una aggravante per chi faccia parte di un corpo dello stato. Una volta approvato l’atto passa alla Camera dei Deputati dove è tutt’ora fermo.

Il 27 ottobre 2014, il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha giudicato l’Italia nell’ambito della Revisione Periodica Universale (UPR). Ancora non sono stati pubblicati i risultati di questa revisione, l’auspicio è, ovviamente, quello di una forte presa di posizione internazionale che spinga, finalmente e con ventisei anni di ritardo, il nostro paese a dotarsi di un reato irrinunciabile per qualsiasi democrazia avanzata.

Papa Francesco contro il Carcere. Sono queste le dure parole, pronunciate lo scorso 23 ottobre 2014 da Papa Francesco, del discorso tenuto da Papa Bergoglio di fronte ai membri dell'Associazione Internazionale di Diritto Penale.

Illustri Signori e Signore!

Vi saluto tutti cordialmente e desidero esprimervi il mio ringraziamento personale per il vostro servizio alla società e il prezioso contributo che rendete allo sviluppo di una giustizia che rispetti la dignità e i diritti della persona umana, senza discriminazioni.

Vorrei condividere con voi alcuni spunti su certe questioni che, pur essendo in parte opinabili – in parte! – toccano direttamente la dignità della persona umana e dunque interpellano la Chiesa nella sua missione di evangelizzazione, di promozione umana, di servizio alla giustizia e alla pace. Lo farò in forma riassuntiva e per capitoli, con uno stile piuttosto espositivo e sintetico.

Introduzione

Prima di tutto vorrei porre due premesse di natura sociologica che riguardano l’incitazione alla vendetta e il populismo penale.

a) Incitazione alla vendetta. Nella mitologia, come nelle società primitive, la folla scopre i poteri malefici delle sue vittime sacrificali, accusati delle disgrazie che colpiscono la comunità. Questa dinamica non è assente nemmeno nelle società moderne. La realtà mostra che l’esistenza di strumenti legali e politici necessari ad affrontare e risolvere conflitti non offre garanzie sufficienti ad evitare che alcuni individui vengano incolpati per i problemi di tutti. La vita in comune, strutturata intorno a comunità organizzate, ha bisogno di regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta adeguata. Tuttavia, viviamo in tempi nei quali, tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge.

b) Populismo penale. In questo contesto, negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale. Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici:figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste.

I. Sistemi penali fuori controllo e la missione dei giuristi. Il principio guida della cautela in poenam. Stando così le cose, il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte. C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative. In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni.

II. Circa il primato della vita e la dignità della persona umana. Primatus principii pro homine

a) Circa la pena di morte. È impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone. San Giovanni Paolo II ha condannato la pena di morte (cfr Lett. enc. Evangelium vitae, 56), come fa anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (N. 2267). Tuttavia, può verificarsi che gli Stati tolgano la vita non solo con la pena di morte e con le guerre, ma anche quando pubblici ufficiali si rifugiano all’ombra delle potestà statali per giustificare i loro crimini. Le cosiddette esecuzioni extragiudiziali o extralegali sono omicidi deliberati commessi da alcuni Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionale della forza per far applicare la legge. In questo modo, anche se tra i 60 Paesi che mantengono la pena di morte, 35 non l’hanno applicata negli ultimi dieci anni, la pena di morte, illegalmente e in diversi gradi, si applica in tutto il pianeta. Le stesse esecuzioni extragiudiziali vengono perpetrate in forma sistematica non solamente dagli Stati della comunità internazionale, ma anche da entità non riconosciute come tali, e rappresentano autentici crimini. Gli argomenti contrari alla pena di morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente sottolineato alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziale e l’uso che ne fanno i regimi totalitari e dittatoriali, che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive legislazioni sono “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta.

b) Sulle condizioni della carcerazione, i carcerati senza condanna e i condannati senza giudizio. – Queste non sono favole: voi lo sapete bene – La carcerazione preventiva – quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso – costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità. Questa situazione è particolarmente grave in alcuni Paesi e regioni del mondo, dove il numero dei detenuti senza condanna supera il 50% del totale. Questo fenomeno contribuisce al deterioramento ancora maggiore delle condizioni detentive, situazione che la costruzione di nuove carceri non riesce mai a risolvere, dal momento che ogni nuovo carcere esaurisce la sua capienza già prima di essere inaugurato. Inoltre è causa di un uso indebito di stazioni di polizia e militari come luoghi di detenzione. Il problema dei detenuti senza condanna va affrontato con la debita cautela, dal momento che si corre il rischio di creare un altro problema tanto grave quanto il primo se non peggiore: quello dei reclusi senza giudizio, condannati senza che si rispettino le regole del processo. Le deplorevoli condizioni detentive che si verificano in diverse parti del pianeta, costituiscono spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale, altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non sono altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà.

c) Sulla tortura e altre misure e pene crudeli, inumane e degradanti. – L’aggettivo “crudele”; sotto queste figure che ho menzionato, c’è sempre quella radice: la capacità umana di crudeltà. Quella è una passione, una vera passione! – Una forma di tortura è a volte quella che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza. Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti, la sua principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno. Come dimostrano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio. Questo fenomeno, caratteristico delle carceri di massima sicurezza, si verifica anche in altri generi di penitenziari, insieme ad altre forme di tortura fisica e psichica la cui pratica si è diffusa. Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione – pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale – ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena. La stessa dottrina penale ha un’importante responsabilità in questo, con l’aver consentito in certi casi la legittimazione della tortura a certi presupposti, aprendo la via ad ulteriori e più estesi abusi. Molti Stati sono anche responsabili per aver praticato o tollerato il sequestro di persona nel proprio territorio, incluso quello di cittadini dei loro rispettivi Paesi, o per aver autorizzato l’uso del loro spazio aereo per un trasporto illegale verso centri di detenzione in cui si pratica la tortura. Questi abusi si potranno fermare unicamente con il fermo impegno della comunità internazionale a riconoscere il primato del principio pro homine, vale a dire della dignità della persona umana sopra ogni cosa.

d) Sull’applicazione delle sanzioni penali a bambini e vecchi e nei confronti di altre persone specialmente vulnerabili. Gli Stati devono astenersi dal castigare penalmente i bambini, che ancora non hanno completato il loro sviluppo verso la maturità e per tale motivo non possono essere imputabili. Essi invece devono essere i destinatari di tutti i privilegi che lo Stato è in grado di offrire, tanto per quanto riguarda politiche di inclusione quanto per pratiche orientate a far crescere in loro il rispetto per la vita e per i diritti degli altri. Gli anziani, per parte loro, sono coloro che a partire dai propri errori possono offrire insegnamenti al resto della società. Non si apprende unicamente dalle virtù dei santi, ma anche dalle mancanze e dagli errori dei peccatori e, tra di essi, di coloro che, per qualsiasi ragione, siano caduti e abbiano commesso delitti. Inoltre, ragioni umanitarie impongono che, come si deve escludere o limitare il castigo di chi patisce infermità gravi o terminali, di donne incinte, di persone handicappate, di madri e padri che siano gli unici responsabili di minori o di disabili, così trattamenti particolari meritano gli adulti ormai avanzati in età.

III. Considerazioni su alcune forme di criminalità che ledono gravemente la dignità della persona e il bene comune. Alcune forme di criminalità, perpetrate da privati, ledono gravemente la dignità delle persone e il bene comune. Molte di tali forme di criminalità non potrebbero mai essere commesse senza la complicità, attiva od omissiva, delle pubbliche autorità.

a) Sul delitto della tratta delle persone. La schiavitù, inclusa la tratta delle persone, è riconosciuta come crimine contro l’umanità e come crimine di guerra, tanto dal diritto internazionale quanto da molte legislazioni nazionali. E’ un reato di lesa umanità. E, dal momento che non è possibile commettere un delitto tanto complesso come la tratta delle persone senza la complicità, con azione od omissione, degli Stati, è evidente che, quando gli sforzi per prevenire e combattere questo fenomeno non sono sufficienti, siamo di nuovo davanti ad un crimine contro l’umanità. Più ancora, se accade che chi è preposto a proteggere le persone e garantire la loro libertà, invece si rende complice di coloro che praticano il commercio di esseri umani, allora, in tali casi, gli Stati sono responsabili davanti ai loro cittadini e di fronte alla comunità internazionale. Si può parlare di un miliardo di persone intrappolate nella povertà assoluta. Un miliardo e mezzo non hanno accesso ai servizi igienici, all’acqua potabile, all’elettricità, all’educazione elementare o al sistema sanitario e devono sopportare privazioni economiche incompatibili con una vita degna (2014 Human Development Report, UNPD). Anche se il numero totale di persone in questa situazione è diminuito in questi ultimi anni, si è incrementata la loro vulnerabilità, a causa delle accresciute difficoltà che devono affrontare per uscire da tale situazione. Ciò è dovuto alla sempre crescente quantità di persone che vivono in Paesi in conflitto. Quarantacinque milioni di persone sono state costrette a fuggire a causa di situazioni di violenza o persecuzione solo nel 2012; di queste, quindici milioni sono rifugiati, la cifra più alta in diciotto anni. Il 70% di queste persone sono donne. Inoltre, si stima che nel mondo, sette su dieci tra coloro che muoiono di fame, sono donne e bambine (Fondo delle Nazioni Unite per le Donne, UNIFEM).

b) Circa il delitto di corruzione. La scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile a causa della connivenza di responsabili della cosa pubblica con i poteri forti. La corruzione è essa stessa anche un processo di morte: quando la vita muore, c’è corruzione. Ci sono poche cose più difficili che aprire una breccia in un cuore corrotto: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,21). Quando la situazione personale del corrotto diventa complicata, egli conosce tutte le scappatoie per sfuggirvi come fece l’amministratore disonesto del Vangelo (cfr Lc 16,1-8). Il corrotto attraversa la vita con le scorciatoie dell’opportunismo, con l’aria di chi dice: “Non sono stato io”, arrivando a interiorizzare la sua maschera di uomo onesto. E’ un processo di interiorizzazione. Il corrotto non può accettare la critica, squalifica chi la fa, cerca di sminuire qualsiasi autorità morale che possa metterlo in discussione, non valorizza gli altri e attacca con l’insulto chiunque pensa in modo diverso. Se i rapporti di forza lo permettono, perseguita chiunque lo contraddica. La corruzione si esprime in un’atmosfera di trionfalismo perché il corrotto si crede un vincitore. In quell’ambiente si pavoneggia per sminuire gli altri. Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità e l’inimicizia. Il corrotto non percepisce la sua corruzione. Accade un po’ quello che succede con l’alito cattivo: difficilmente chi lo ha se ne accorge; sono gli altri ad accorgersene e glielo devono dire. Per tale motivo difficilmente il corrotto potrà uscire dal suo stato per interno rimorso della coscienza. La corruzione è un male più grande del peccato. Più che perdonato, questo male deve essere curato. La corruzione è diventata naturale, al punto da arrivare a costituire uno stato personale e sociale legato al costume, una pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla discrezione onorevole. Tuttavia, il Signore non si stanca di bussare alle porte dei corrotti. La corruzione non può nulla contro la speranza. Che cosa può fare il diritto penale contro la corruzione? Sono ormai molte le convenzioni e i trattati internazionali in materia e hanno proliferato le ipotesi di reato orientate a proteggere non tanto i cittadini, che in definitiva sono le vittime ultime – in particolare i più vulnerabili – quanto a proteggere gli interessi degli operatori dei mercati economici e finanziari. La sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare. Le forme di corruzione che bisogna perseguire con la maggior severità sono quelle che causano gravi danni sociali, sia in materia economica e sociale – come per esempio gravi frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione – come in qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per le proprie malefatte o per quelle di terzi.

Conclusione. La cautela nell’applicazione della pena dev’essere il principio che regge i sistemi penali, e la piena vigenza e operatività del principio pro homine deve garantire che gli Stati non vengano abilitati, giuridicamente o in via di fatto, a subordinare il rispetto della dignità della persona umana a qualsiasi altra finalità, anche quando si riesca a raggiungere una qualche sorta di utilità sociale. Il rispetto della dignità umana non solo deve operare come limite all’arbitrarietà e agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona umana. Cari amici, vi ringrazio nuovamente per questo incontro, e vi assicuro che continuerò ad essere vicino al vostro impegnativo lavoro al servizio dell’uomo nel campo della giustizia. Non c’è dubbio che, per quanti tra voi sono chiamati a vivere la vocazione cristiana del proprio Battesimo, questo è un campo privilegiato di animazione evangelica del mondo. Per tutti, anche quelli tra voi che non sono cristiani, in ogni caso, c’è bisogno dell’aiuto di Dio, fonte di ogni ragione e giustizia. Invoco pertanto per ciascuno di voi, con l’intercessione della Vergine Madre, la luce e la forza dello Spirito Santo. Vi benedico di cuore e per favore, vi chiedo di pregare per me. Grazie.

Decreto Legge Carceri, 8 euro ai detenuti mentre si muore di carcere, scrive Cristina Amoroso su “Il Faro sul mondo”. Altri due detenuti suicidi nei giorni in cui la Camera si apprestava a discutere il decreto legge sulle carceri. Il primo a Padova, un detenuto di 44 anni trovato morto nella cella di un carcere in emergenza nazionale; il secondo a Trento, un detenuto di 32 anni suicida in quello che è considerato un carcere modello. Intanto il decreto legge sulle carceri è approvato in prima lettura alla Camera con 305 sì, 110 no e 30 astenuti. Il decreto completa il “Pacchetto normativo” già approvato nei mesi scorsi in risposta alla sentenza “Torreggiani” della corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condannato l’Italia per la situazione delle carceri. Sentenza scaturita dall’esposto avanzato da Torreggiani ed altri quattromila detenuti per sovraffollamento delle strutture carcerarie tale da determinare un trattamento disumano. Essendo una sentenza pilota, l’Italia aveva un anno di tempo per evitare che la situazione persistesse nel sistema penitenziario. Il provvedimento, che prevede un risarcimento giornaliero in denaro oppure uno sconto di pena ai detenuti che si trovano in condizioni degradanti ed umilianti ed abbiano quindi subito una violazione dei diritti umani, passa ora al Senato. Nel dettaglio, se la pena è ancora da espiare è previsto un abbuono di un giorno ogni dieci passati in celle sovraffollate. Qualora lo sconto di pena non è applicabile interviene il risarcimento in denaro pari ad otto euro giornalieri da consegnare ai detenuti già usciti dal carcere, per cui sono stati previsti 20,3 milioni di euro fino al 2016. Resta difficile non considerare il provvedimento uno “svuotarceri”, destinato a favorire anche mafiosi, nella convinzione dell’assoluta priorità di altri provvedimenti, come il reddito di cittadinanza o l’abolizione di Equitalia, come hanno dichiarato alcuni parlamentari, mentre con il contentino in denaro o lo sconto di qualche giorno non si affronta il problema reale delle carceri italiane: il disumano sovraffollamento in cui i detenuti vivono. Con otto euro passa la paura o passa la tortura? Intanto nel giro di una settimana l’Italia ha riportato altre due condanne. Entrambe dinanzi alla Corte europea dei diritti umani: una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia). Entrambe a conferma della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 della Convenzione). Esse ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in Stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni e molte storie rimangono soltanto dei numeri. Perché i detenuti non rimangono semplici nomi ha provveduto il Dossier 2000-2014, “Morire di carcere”, aggiornato fino al 25 luglio, ad opera di Ristretti Orizzonti, che ha evidenziato i casi di suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose, elencando i detenuti morti dal 2002 al 2014: per cognome, età, data e luogo del decesso. I morti totali nelle carceri dal 2000 al 2014 sono stati 2320, di cui 825 suicidi, nel 2014 i morti in carcere sono stati 82, di cui 24 suicidi. Il dossier “Morire di carcere” rappresenta un contributo importante per far conoscere all’opinione pubblica le reali condizioni del carcere, a cominciare dallo stato di difficoltà e, a volte, di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria. La parte principale del dossier è costituita dalle storie (alcune di poche righe, altre di una pagina) dei detenuti morti nelle carceri italiane, per suicidio, per malattia, per overdose, per “cause non accertate”, riuscendo a restituire un’identità a centinaia di loro, togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli “eventi critici”. Per altrettante persone, morte in carcere, non c’è stato modo di sapere nulla nonostante la rassegna stampa (che ha fatto da base per l’indagine) contenesse notizie tratte da tutti i principali quotidiani nazionali e da molti giornali locali: la conclusione più logica è che, ogni due detenuti che muoiono, uno passa “inosservato”, si legge nella presentazione del Dossier.

Carceri affollate, risarcimento ai detenuti. Così l'Italia prova a salvarsi dai ricorsi. La Camera ha stabilito per ogni recluso che ha vissuto in uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati un indennizzo di 8 euro al giorno o uno sconto di pena. Una decisione per evitare sanzioni dalla Corte europea, che ha spesso richiamato l'Italia. Soddisfatte le associazioni per i diritti, protestano Lega e Movimento 5 Stelle, scrive Federico Formica su “L’Espresso”. L'Italia ci mette una pezza. E per evitare guai peggiori, garantirà un risarcimento in denaro o uno sconto di pena ai detenuti costretti a vivere in situazioni di sovraffollamento talmente gravi da ledere l'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo, secondo il quale “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Camera dei deputati ha infatti approvato con 305 voti favorevoli, 110 contrari e 30 astensioni il “decreto Carceri”, che ora dovrà passare al vaglio del Senato. È un testo destinato a lasciare il segno, dal valore simbolico - e non solo - molto forte. Cosa cambia. Il principio stabilito dal decreto legge è chiaro: chi vive o ha vissuto in condizioni inumane o degradanti nelle nostre carceri, deve essere risarcito in qualche modo. Il testo prevede due strade:

Risarcimento di 8 euro per ogni giorno trascorso in carcere in violazione dell'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo;

Lo sconto di un giorno di pena residua per ogni dieci vissuti, appunto, nelle condizioni già citate.

Il risarcimento in denaro verrà riconosciuto a chi è già uscito dal carcere oppure ai detenuti la cui pena residua è talmente breve che i giorni di “abbuono” sarebbero superiori rispetto a quelli da scontare. Oppure, ancora, a chi ha vissuto in condizioni “inumane o degradanti” per meno di quindici giorni. Lo sconto di pena invece si applicherà a chi è ancora ristretto - nelle condizioni già citate - nelle carceri del nostro Paese. Intendiamoci, il Parlamento italiano non ha scoperto tutto d'un tratto la solidarietà verso i detenuti. Con questo decreto, il nostro Paese cerca infatti di evitare una pioggia di risarcimenti di entità imprevedibile, visto che oltre 6000 detenuti hanno già presentato ricorso alla Corte europea per violazione dell'articolo 3. Non è difficile prevedere l'esito di questi procedimenti, visto che il precedente è già stato fissato dalla sentenza Torreggiani, dal nome di un ex detenuto nel carcere di Busto Arsizio che si rivolse alla Corte Ue. L'8 gennaio 2013, infatti, la Corte ha certificato che il nostro sistema carcerario non solo funziona male, ma lede i diritti più elementari degli esseri umani. Tra i quali, appunto, quelli stabiliti dall'articolo 3. Come conseguenza, i giudici hanno dato all'Italia un anno di tempo per mettere la famosa “pezza”. Cioè per approvare una legge che prevedesse compensazioni e garantisse “una riparazione effettiva” per le violazioni della Convenzione. “Il decreto legge appena approvato a Montecitorio non è una sorpresa, visto che era una procedura obbligata. Ma è sicuramente una buona notizia, nel nome della dignità e del rispetto dei diritti” è il commento di Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone. Il fondo per i risarcimenti ammonterà a 20,3 milioni di euro fino al 2016. Una cifra che potrebbe sembrare piuttosto esigua. Secondo Gonnella, però, “è un calcolo tutto sommato esatto. Teniamo presente infatti che dal gennaio 2013 a oggi il numero dei detenuti è calato da 66.000 a 58.000. I detenuti reclusi in meno di tre metri quadrati sono, al momento, poche decine. La ratio del decreto è quella di risarcire chi, in passato, ha vissuto in quelle condizioni”. Il riferimento ai 3 metri quadrati non è casuale. Nel 2009, infatti, un'altra sentenza della corte europea dei diritti dell'uomo - che tra gli addetti ai lavori è nota come “sentenza Sulejmanovic” - accertò che il detenuto bosniaco che aveva fatto ricorso, Izet Sulejmanovic, era stato recluso in uno spazio di 2,7 metri quadri in una cella del carcere di Rebibbia. Una condizione che violava l'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo. Il Comitato per la prevenzione della tortura ha infatti fissato lo spazio minimo in 7 metri quadri. Il calcolo fu piuttosto semplice: Sulejmanovic - che ottenne un indennizzo di 1000 euro - aveva condiviso una cella da 16,20 metri quadri insieme ad altre cinque persone. Di qui l'assunto: nel momento in cui lo Stato obbliga un detenuto a vivere in meno di tre metri quadrati, gli infligge un trattamento “disumano e degradante”. Stabilita l'entità dei risarcimenti, bisognerà capire in quali casi concederli e in quali no. Insomma, capire di caso in caso quand'è che le condizioni di un detenuto violano la Convenzione. “Il principio finalmente è passato: lo Stato riconosce che una situazione di sovraffollamento grave esiste. In passato era stato messo in dubbio persino questo. Ora è tutta una questione di interpretazione” spiega Alessandro Stomeo, avvocato di Lecce che da anni si occupa di diritti dei detenuti. “I magistrati si rifaranno ai parametri della sentenza Sulejmanovic oppure no? E se il detenuto, pur avendo vissuto in meno di tre metri quadrati, ha comunque passato diverse ore al di fuori della cella, magari perché il direttore della struttura ha consentito il regime delle sezioni aperte, cosa accadrà? In quel caso, dubito che possa essere riconosciuto il risarcimento”. Il regime delle sezioni aperte consente ai detenuti meno pericolosi di muoversi liberamente all'interno di un braccio del carcere, in orari prestabiliti. Alessandro Stomeo non è un avvocato qualunque. Nel 2011 il legale salentino vinse una causa storica che, in un certo senso, anticipò di tre anni il decreto carceri ora al vaglio di palazzo Madama. Stomeo riuscì infatti a fare ottenere al suo assistito, un ex detenuto tunisino che era stato recluso nel carcere di Lecce, un risarcimento di 220 euro per le “lesioni alla dignità umana” patite in un mese di reclusione. A differenza del caso Sulejmanovic la sentenza di Lecce proveniva da un magistrato di sorveglianza italiano e non dalla corte europea. Altre novità. Il decreto carceri ha stabilito anche un aumento del personale di Polizia penitenziaria di 204 unità. La differenza tra i 703 ispettori e vice ispettori in meno e i 907 tra agenti e assistenti in più. “I sindacati di Polizia saranno sicuramente soddisfatti, tuttavia le lacune sono altrove: mancano psicologi, educatori,assistenti sociali, magistrati di sorveglianza - ammonisce Patrizio Gonnella - e proprio le recenti leggi approvate attribuiscono ulteriori compiti e una maggiore mole di lavoro sia ad assistenti sociali che ai magistrati di sorveglianza”. Il decreto appena approvato, infatti, attribuisce a questi ultimi il potere di risarcire i detenuti, mentre un'altra legge, passata nell'aprile scorso, consente agli imputati di chiedere la sospensione del processo in cambio di un periodo di lavori di pubblica utilità. Con l'affidamento, appunto, ai servizi sociali. Dopo l'approvazione del decreto, da Lega Nord e Cinque Stelle sono piovute critiche. I grillini hanno parlato di “indulto mascherato” mentre secondo il leghista Nicola Molteni “un Paese che dà la paghetta ai criminali non è un paese né normale, né civile”. “Chi parla di indulto oggi è in malafede - risponde Patrizio Gonnella di Antigone - il decreto approvato in questi giorni è un tentativo di rimediare (con i soldi di tutti gli italiani) al disastro prodotto da leggi che hanno stipato le nostre carceri all'inverosimile. Curioso che molte critiche partano proprio da chi quelle leggi le promosse e le approvò”.

Risarcimenti: 8 euro per torturarti, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Dopo la “pena sospesa” da parte della Corte Europea che, in data 28 maggio ha riconosciuto i buoni propositi dell’Italia e le ha concesso una proroga per sanare la situazione di drammatica afflizione che vivono i detenuti nelle nostre carceri, il governo Renzi partorisce un decreto: risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Un giorno di tortura, dunque, vale 8 euro. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10 %. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più fino a 21, così ritardando l’ingresso dei non più “minori” nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. Il decreto guarderebbe anche ai problemi di gestione, anch’essi derivanti da un numero di detenuti sempre in esubero rispetto agli istituti penitenziari, da parte della polizia penitenziaria, attraverso provvedimenti tesi ad aumentare la consistenza dell’organico. Un provvedimento certamente insufficiente ed inadeguato che creerà e sta già creando ulteriori momenti di tensione nelle note aree forcaiole che hanno gridato il loro sdegno per il precedente decreto, inopinatamente definito “svuota carceri”, che, nella sua originaria formulazione, in aderenza al dettato costituzionale, estendeva anche ai reati di mafia e a tutti quelli inclusi nel famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la propria valenza risarcitoria per una carcerazione inumana e degradante, prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. La legge di conversione ha stabilito che i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come “più gravi” dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono un po’ meno persone degli altri, che per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi!!! E, dunque, attendiamo le reazioni. Non possiamo però non osservare che se il governo avesse emanato provvedimenti di immediata concretezza deflattiva, non avrebbe dovuto oggi “sbloccare fondi” utili ad uscire dall’emergenza, per erogare l’elemosina degli otto euro, e per salvare dal collasso la polizia penitenziaria, fondi che in qualche modo saremo tutti chiamati a reintegrare. Il grido di amnistia e di indulto fatto proprio dal Papa e dal Presidente della Repubblica rimane inascoltato, la situazione rimane drammatica. Intanto, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece – lo stesso che affermava riguardo alla morte di Stefano Cucchi: “ i nostri colleghi che lavorano nelle camere di sicurezza del tribunale, sono persone tranquille e al di sopra di ogni sospetto” – così commenta il provvedimento sui risarcimenti ai detenuti deciso dal Consiglio dei Ministri: «Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate». E ancora: «a noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infrante e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca e mi auguro che il Capo dello Stato ed il Parlamento rivedano questa norma assurda, tanto più se si considerano quanti milioni di famiglie italiane affrontano da tempo con difficoltà la grave crisi economica che ha colpito il Paese».

La giustizia è ingiusta, scrive Giuseppe Rossodivita su “Il Tempo”. Dopo la condanna dei giudici di Strasburgo con la «sentenza Torreggiani» - ai quali occorrerà fornire risposte entro il prossimo 28 maggio - arriva anche quella dei parlamentari europei giunti in Italia per vedere con i loro occhi le condizioni delle nostre carceri. Peggio di noi solo Serbia e Grecia, scrivono nel rapporto i membri della Commissione Libertà Civili preoccupatissimi, come i giudici di Strasburgo, per l’abuso della detenzione preventiva, che è patologia del processo penale nostrano. Nei fatti è una vera e propria pena anticipata in assenza di condanna, la custodia cautelare in Italia, che pesa circa il 40% delle presenze in carcere. La metà di questo 40% sarà poi assolto, dicono le statistiche del Ministero della Giustizia e le decine di milioni di euro per risarcire le migliaia di ingiuste detenzioni sono prelevate dalle nostre tasse, giammai dalle tasche dei giudici che sbagliano con così tanta preoccupante frequenza. In realtà il carcere disumano e degradante italiano non è altro che il dietro le quinte di uno spettacolo quotidiano osceno: quello dello sfascio del sistema giustizia. Oggi sarà decisa la sorte di Berlusconi, affidamento ai servizi sociali o detenzione domiciliare, condannato eccellente che per vent’anni ha parlato di riforma della giustizia senza però mai muovere un dito.

Giudici che sbagliano e celle-loculi. In un anno quasi nulla è cambiato, scrive Maurizio Gallo su “Il Tempo”. Innocenti dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei giudici. I primi spesso orfani di risarcimento dopo l’ingiustizia subita. I secondi impuniti nella maggior parte dei casi, malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. E comunque tutti, vittime del sistema giudiziario e «sicuri» colpevoli, costretti a subire la stessa barbara sorte in carceri sovraffollate, in celle che assomigliano a loculi. Era il quadro che abbiamo dipinto oltre un anno fa sulle colonne de «Il Tempo». Sono trascorsi tredici mesi. Poco o nulla è cambiato. Il ddl sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione di Anm (l’associazione delle toghe) e Csm (il loro organo di autogoverno). E le patrie galere? Sono sempre strapiene, anche se un po’ meno. In realtà il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà. Inoltre stabilisce che venga eliminato il «filtro» in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l’ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Nel 2013 scrivemmo che, negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo. Ma, considerando che le domande rigettate si aggiravano su due terzi del totale, si arrivava per difetto a circa 50 mila, 50 mila innocenti in galera, appunto. Il tutto per una spesa pubblica di circa 600 milioni di euro. Facendo un paragone fra l’anno scorso e quello in corso, sembrerebbe che i giudici sbaglino meno. Se, infatti, nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni erano stati 1368 e per gli errori giudiziari 25, nei primi dieci mesi del 2014 siamo a 431 ingiuste detenzioni e a 9 errori (fonte il sito «Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. Ma la statistica inganna, come insegna Trilussa. E anche in questo caso la parola magica è «ammissibilità»: dal ministero dell’Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l’ammissibilità della domanda di risarcimento. Non ci sono meno errori, ci sono meno soldi per le vittime degli errori e più richieste gettate nel cestino. Il 28 maggio 2014 è scaduto l’«ultimatum» della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. Noi siamo corsi ai ripari con provvedimenti come il decreto «svuota carceri», il perfezionamento di accordi e procedure per l’espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. E siamo stati promossi. Per ora. Ma non del tutto a ragione. Al 31 luglio 2013 dietro le sbarre c’erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Ma i radicali, da sempre impegnati sul fronte carceri, spiegano che dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43 mila posti. Insomma, se dodici mesi orsono, prima della verifica Ue, eravamo fuorilegge per 17.414 detenuti in più, adesso lo siamo «solo» per 4.848. Una bella consolazione. Ma non basta. Grazie alla possibilità che i carcerati hanno di uscire dalla cella oltre che per la classica ora d’aria e a causa dello scarso numero dei sorveglianti, sono aumentate le aggressioni agli agenti della penitenziaria: per il sindacato Sappe, del 70 per cento da quando c’è questa «vigilanza dinamica». E sono aumentati i suicidi degli agenti, che sono già 10 contro gli 8 di tutto il 2013. Quelli dei detenuti sono scesi ma soprattutto per il calo della popolazione carceraria. E anche lo sfruttamento dei 2000 «braccialetti elettronici», prima non impiegati, non ha risolto il problema, poiché per il Sappe ne occorrerebbero almeno il triplo. Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti il 14 ottobre ha rivolto al Governo un’interrogazione con cui segnalava che «alcuni magistrati di sorveglianza» stanno «rigettando» le richieste di risarcimento dei detenuti ristretti in condizioni che violavano l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, quello utilizzata dalla Corte Ue per bacchettarci. Anche in questo caso, il motivo è «una ritenuta inammissibilità dei reclami» per le detenzioni pregresse» o quelle che «si protraggono in diversi istituti». Insomma, il detenuto deve sperare che la richiesta arrivi al magistrato prima del suo trasferimento in un’altra prigione e, nel secondo caso, dovrebbe adire al giudice civile». Cosa, quest’ultima, praticamente impossibile nelle sue condizioni. Giachetti, poi, fa notare che la Corte non faceva solo riferimento allo spazio a disposizione dei carcerati, ma anche alla «possibilità di usare i servizi igienici in modo riservato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce naturale e all’aria, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base». Un altro punto, infine, è se la superficie «vitale» (3 metri quadri) debba o meno comprendere gli arredi. E il Governo che ha risposto? Non ha risposto.

Niente responsabilità del magistrato, il calvario dei risarcimenti, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Tempo di bilanci, delle mille promesse, delle mille assicurazioni, e dopo la quantità di battimani per la presa di posizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, giunto a inviare un solenne messaggio alle Camere, il suo primo e unico messaggio, dopo le clamorose sentenze della Corte Costituzionale e delle giurisdizioni nazionali e internazionali; e dopo la clamorosa denuncia di papa Francesco che ha raccolto l’appello di Marco Pannella sulle carceri e levato la sua voce contro l’ergastolo, in concreto cos’è cambiato? Purtroppo poco o nulla. Innocenti continuano a languire dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei magistrati; per ulteriore beffa raramente vengono risarciti per il danno subito. I magistrati, a loro volta, quasi sempre se la cavano, nella maggior parte dei casi restano impuniti, e questo malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. Andiamo per punti: il disegno di legge sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione dell’Associazione Nazionale dei Magistrati e del Consiglio Superiore della Magistratura. Il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà dello stipendio. Inoltre stabilisce che venga eliminato il "filtro" in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l'ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo; ma vanno considerate anche le domande rigettate: circa i due terzi del totale; arriviamo così, per approssimazione a circa 50 mila persone innocenti che per qualche tempo hanno soggiornato in carcere. Non consideriamo i danni fisici e psicologici, irrisarcibili e impagabili. Consideriamo solo i costi “vivi” del tenere un detenuto in carcere. Quei 50 mila sono costati alle tasche del contribuente almeno 600 milioni di euro. Tanto sono costati quei 50 mila detenuti innocenti. Compariamo altri dati. Nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni sono state 1.368, e per gli errori giudiziari 25; nei primi dieci mesi del 2014 le ingiuste detenzioni sono state 431 e nove gli errori (la fonte è il sito "Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. C’è una spiegazione: dal ministero dell'Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l'ammissibilità della domanda di risarcimento. Quindi non è che si sbaglia di meno, è che ci sono meno fondi per le vittime degli errori, e di conseguenza più richieste rigettate. Passiamo al sovraffollamento delle carceri. Nel maggio scorso è scaduto l'ultimatum della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. L’Italia ci ha messo una toppa con provvedimenti come il decreto "svuota carceri", il perfezionamento di accordi e procedure per l'espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. A Strasburgo hanno chiuso un occhio. Per ora. Ma dietro le sbarre c'erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Obietta la segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini, che da sempre segue le vicende della giustizia ed è unanimemente considerata un’autorità in materia, ci spiega che “dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6.000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43mila posti”. Se un anno fa, prima della verifica UE, l’Italia era fuorilegge per 17.414 detenuti in più, lo è "solo" per 4.848; e proseguono i suicidi tra i detenuti e, anche,  degli agenti di custodia: quest’anno già dieci (nel 2013 furono otto). Torniamo alla questione dei risarcimenti per ingiusta detenzione. La procedura è lenta, farraginosa; la dimostrazione di quanto la burocrazia possa essere insensata. Il diritto al risarcimento, secondo elementare logica, nasce da un danno subito ingiustamente, in questo caso la privazione della libertà. Una volta accertato che il cittadino è innocente, il risarcimento dovrebbe essere automatico. Diventa invece un calvario di burocrazia e di ostacoli che appaiono frapposti ad arte: la richiesta deve essere presentata nella sezione di appello preposta, due fascicoli, ciascuno con indice, tre copie dell'istanza, una serie impressionante di allegazioni. La persona che ha patito la carcerazione ingiusta deve rintracciare il fascicolo dibattimentale e quello del pubblico ministero ed estrapolare dal loro interno copie, alcune in forma autentica, dì atti dibattimentali e predibattimentali. Spesso si tratta di processi corposi con molti imputati e mentre l'assoluzione dell'istante diviene definitiva, altri imputati condannati propongono impugnazione. Il fascicolo si sposta. Altra cancelleria. Alcuni atti vanno in archivio,spesso si tratta di numerosi faldoni. Quando il richiedente cerca i documenti necessari, il primo sbarramento è dato proprio dalla ricerca del materiale. Il viaggio inizia nella cancelleria di origine e si snoda per archivi e uffici sotterranei alla ricerca degli atti da allegare. Poi, una volta trovati bisogna chiedere che i fascicoli vengano inviati all'ufficio addetto al rilascio copie. Il personale spesso è carente, quindi occorrono giorni per soddisfare la richiesta. Quando finalmente tutti i documenti sono all'ufficio copie, spillati e catalogati, ciascuno nel suo faldone impaginato il richiedente può compilare la richiesta copie. Quando poi finalmente il materiale necessario è raccolto, naturalmente corredato dall’istanza di risarcimento, i fascicoli ordinari e completi di indice, allora non resta che incrociare le dita e toccare ferro e tutto il toccabile. Bisogna attendere che l‘udienza sia fissata, e sperare che il risarcimento sia riconosciuto.

Per gli errori dei magistrati spesi 600 milioni in 20 anni. Prime Palermo e Catanzaro, scrive Dino Martirano su “Il Corriere della Sera”. Oltre ventiduemila risarcimenti. Perugia la più virtuosa. La cifra media pagata è di 6-700 euro al giorno. L'anno peggiore è stato il 2011. Nel 1983 la lettera di Tortora che soffriva l'errore giudiziario sollevò il caso. Il 17 giugno del 1983, quando venne arrestato su richiesta dei pm di Napoli con accuse pesantissime poi liquefatte come neve al sole, Enzo Tortora non immaginava nemmeno cosa fosse l'inferno del carcere preventivo: «La stregonesca e medioevale iniquità del rito giustizia in ferie come una rivendita di gelati, scriveva ad un amico il presentatore tv nel torrido agosto di quell'estate, mentre la spazzatura umana è lasciata fermentare nei bidoni di ferro delle carceri... Sventurati non interrogati e, come me, innocenti... Fate qualcosa, vi prego...».Quella lettera, scritta su un foglio a righe color paglierino, oggi campeggia nell'ufficio del vice ministro della Giustizia, Enrico Costa (Ncd), che la conserva incorniciata perché Tortora la spedì a suo padre, Raffaele Costa, sottosegretario e ministro negli anni 80. Da quel pezzo di carta, per il giovane vice ministro, è nata la curiosità di capire con le cifre cosa sia successo in questi 30 anni: il caso Tortora, conclusosi con un'assoluzione piena, generò, un anno prima della morte del presentatore, il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (1987), il nuovo codice di procedura penale (1988) che introdusse la riparazione per ingiusta detenzione e la legge Carotti (1999) che ha portato da 100 milioni a 516 mila euro il tetto del risarcimento. Negli ultimi 20 anni, i fascicoli R.I.D. (Riparazione per ingiusta detenzione) liquidati dal ministero dell'Economia sono 22.689 per un totale di 567 milioni 744 mila 479 euro e 12 centesimi. I risarcimenti (le richieste fino ad oggi sono state 32.998) sono andati a chi è stato sottoposto a custodia cautelare e poi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile. Ma i soldi sono andati anche a chi ha subito una ingiustizia formale a causa dell'applicazione illegittima della custodia in carcere a prescindere dalla successiva sentenza di assoluzione. Nella geografia delle procure e degli uffici Gip che sono costati di più in termini di risarcimenti spicca la piccola Catanzaro: nei primi sei mesi del 2014 ha prodotto 65 fascicoli R.I.D. liquidati per 2 milioni 303 mila 163 euro. La cifra media dei risarcimenti è di 6-700 euro al giorno. Per cui a Palermo (i reati di mafia prevedono una custodia cautelare più lunga e, dunque, risarcimenti più pesanti), i 35 casi di ingiusta detenzione hanno inciso solo quest'anno per 2 milioni 790 mila 476 euro. Mentre a Napoli, sempre nel 2014, i risarciti sono stati 48 per un totale di oltre un milione e 200 mila euro. Virtuose,anche perché piccole, le corti d'Appello di Perugia (2 casi, circa 12 mila euro) e di Trento (1 caso, circa 27 mila euro). Si tratta, spiega Costa, «di cifre importanti ma fredde: sono numeri che non raccontano le storie umane e i drammi di chi ha dovuto conoscere il carcere a causa dell'errore, o quanto meno della superficialità, di un pm o di un gip». Oggi i magistrati del caso Tortora, gli ex pm Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, l'ex giudice istruttore Giorgio Fontana, non sono degli sconosciuti «ma tutti gli altri magistrati che fine hanno fatto?», è la domanda provocatoria di Costa: «Proporrò che venga avviata una commissione ministeriale per monitorare gli errori e le leggerezze che sono all'origine dei risarcimenti». È certo che questa proposta, nei giorni in cui alla Camera sono calendarizzate le regole più stingenti sulla custodia cautelare e al Senato si affronta la responsabilità civile dei magistrati, rischia di aprire più di qualche crepa tra Ncd e Pd.

Modifiche alla Legge Pinto: oltre al danno, la beffa! Il Dl Sviluppo cambia la Legge Pinto: procedure più snelle, parametri fissi ma eccessiva discrezionalità decisoria del giudice, scrive Lucia Polizzi su “Leggi Oggi”. Il Decreto- legge n. 83 del 22 giugno 2012, convertito in legge n.134/2012, cambia le regole e le procedure della celebre Legge Pinto (L. n. 89/2001), che consente di ottenere un’equa riparazione a chi abbia subito un danno patrimoniale e/o non patrimoniale dall’ingiusta durata di un processo. Da un lato, la novella legislativa snellisce le modalità di ricorso: decide infatti, con decreto inaudita altera parte, un giudice monocratico di Corte d’Appello su una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento. La riforma introduce inoltre parametri fissi sia sul quantum risarcitorio che sui tempi di durata ragionevole del giudizio : il giudice liquiderà infatti una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro, per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo, e che comunque non potrà mai essere superiore al valore della causa. Invece il danno sarà considerato integrato ed esistente solo se risultino superati i sei anni di durata del giudizio (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità). Viene ribadito il termine decadenziale della domanda: il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, e non sarà più possibile invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio. Da un’altra angolazione però, le modifiche normative apportate dilatano oltremodo la discrezionalità decisoria del Collegio rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti , nell’accertare la violazione il giudice valuta:

- la complessità del caso,

- l’oggetto del procedimento,

- il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia:

- in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria,

- nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa,

- nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa,

- nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso;

- e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento.

E, dulcis in fundo, al comma 5 quater, si manifesta la beffa: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge!- è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!

La Legge Pinto e la riparazione del danno per irragionevole durata del processo, scrive Studio Legale De Vivo. Con l’articolo di oggi, iniziamo una serie di interventi dedicati a quella che comunemente viene definita Legge Pinto (dal nome del suo estensore, Michele Pinto o legge 24 marzo 2001, n. 89). Tale legge disciplina il diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo. In questo primo articolo ne esamineremo la nascita e la sua evoluzione con il decreto Legge n. 201 del 2002. Negli interventi delle prossime settimane andremo poi ad analizzarne la riforma attuata con il Governo Monti e l’attuale situazione. La cosiddetta Legge Pinto  nasceva con l’intento di salvaguardare l’Italia dalle condanne della Corte di Strasburgo a fronte dei ripetuti ritardi nella definizione dei procedimenti giudiziari ed anche per evitare l’intasamento della Corte medesima per i tantissimi ricorsi provenienti dall’Italia. Veniva così “nazionalizzato” il diritto all’equa riparazione per la durata irragionevole del processo, rendendo effettivo a livello interno il principio della “durata ragionevole” introdotto dalla Costituzione italiana a seguito della riforma  dell’art. 111 ispirato all’art . 6, paragrafo 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo  e delle libertà fondamentali che riconosce il diritto di ogni persona a che la causa, di cui è parte, sia esaminata e decisa entro un lasso di tempo ragionevole e dell’art. 13 che afferma invece il diritto dei cittadini ad un ricorso effettivo contro ogni possibile violazione della Convenzione. Concretamente la legge disciplina il caso di chi in un procedimento civile, penale o amministrativo, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della convenzione suddetta, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata. Ligio alle direttive e dotato di buone intenzioni il legislatore italiano approntava una disciplina semplice e (fatto raro) di facile applicazione. Senza pagare nulla in termini di costi di accesso alla giustizia (bolli, notifiche, contributi unificati, tassazione degli atti, copie ecc.) seguendo un procedimento snello e semplice, si poteva proporre un ricorso alla Corte di Appello competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p., durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assumeva verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che concludeva il medesimo procedimento, era divenuta definitiva. Il danno liquidato è quello riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Senza disciplinare altro, era la giurisprudenza ad integrare le lacune legislative sulla scorta delle sentenze della Corte di Strasburgo, indicando alcuni parametri: innanzi tutto la durata consona di ogni grado di giudizio, ovvero per il primo grado 3 anni, per il secondo 2 anni, per il terzo 1 anno. Quindi la forbice entro la quale liquidare gli indennizzi variabile da 500,00 € a 1500,00 € per ogni anno eccedente la ragionevole durata. Premesso che, parimenti alla legge in questione, il legislatore italiano avrebbe dovuto attivarsi per velocizzare i processi  ma che non è mai riuscito nell’intento, a seguito di una sempre maggiore mole di ricorsi ai sensi della legge Pinto il legislatore comprese subito di aver aperto la strada ad una pericoloso fronte per le esangui casse statali, impegnando oltremodo la giustizia delle Corti di Appello. E’ da questa preoccupazione che nacque e prese forma l’esigenza di un nuovo intervento effettuato con il decreto legge n. 201 del 2002, teso ad introdurre una “pregiudiziale conciliativa” nell’originario meccanismo della suddetta legge. Il decreto Legge n. 201 del 2002 introdusse, anche se per poco tempo, nel tessuto originario della legge Pinto una conciliazione stragiudiziale in cui gli unici protagonisti divenivano l’Avvocatura dello Stato e l’interessato danneggiato dall’eccessiva durata del processo. Il nuovo articolo 2 bis subordinava la domanda di un’equa riparazione del danno al fatto che fossero decorsi 90 giorni da quello della comunicazione della volontà di introdurre l’azione da parte del futuro ricorrente, diretta all’Avvocatura dello Stato. Al termine del suddetto incontro o le parti raggiungevano un accordo, sottoscrivendo il relativo atto di transazione, oppure non pervenivano ad un’intesa con l’ovvia conseguenza che l’interessato poteva così finalmente procedere all’azione per un’equa riparazione del danno.
Durante questa fase conciliativa il legislatore non aveva però previsto per il ricorrente l’assistenza di un difensore (necessario per affrontare e risolvere i diversi balzelli di questa fase introduttiva) che rimaneva, eventualmente, a carico esclusivo della parte. Il Decreto Legge 201 del 2002, inoltre, si occupava anche del regolamento delle spese della fase contenziosa giungendo ad autorizzare, nelle ipotesi più nefaste, l’eventuale deroga al criterio della soccombenza nel caso in cui una parte non avesse motivato il rifiuto di aderire alla proposta formulata in sede precontenziosa creando un incentivo psicologico e materiale ad accettare la proposta dell’Avvocatura. Tuttavia, come spesso accade alle riforme introdotte per decreto legge, in sede di conversione il legislatore con la Legge n 259 del 2002, decideva di sopprimere il capo I del Decreto legge n. 201 del 2002 disciplinante la suddetta condizione di procedibilità, determinando l’eliminazione del “neo-obbligo” di esperire preventivamente il discusso tentativo di conciliazione. Come prevedibile quindi, stante l’inefficienza della macchina della giustizia, si verificò una richiesta sempre maggiore di indennizzi che portò ad un lento ma inesorabile ritardo della loro liquidazione per mancanza di fondi, sicché al ritardo relativo ai tempi processuali si aggiunse il ritardo relativo ai tempi della liquidazione dell’indennizzo. Ritardi su ritardi! La situazione creatasi però, lungi dal costituire un disincentivo per i cittadini danneggiati, ne aumentava l’aggressività concretizzantesi nell’attuazione delle procedure esecutive nei confronti dello Stato e/o delle amministrazioni  e dei ministeri. Gli indennizzi e le aggiuntive spese per le esecuzioni rappresentavano un onere troppo grande per l’inefficiente Stato Italiano ed è per questo che con varie leggi venne assicurata l’impignorabilità dei fondi destinati alla giustizia. A bloccare il credito del cittadino vi era anche un sistema di verifiche in base a cui  “…le amministrazioni pubbliche, prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore e diecimila euro, verificano, anche in via telematica, se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento …e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo”. Ecco quindi che con tali leggi di dubbia legittimità costituzionale, si precludeva la soddisfazione del credito dei cittadini doppiamente lesi dallo Stato nel loro diritto all’equo processo. La prossima settimana vedremo come il Governo Monti, con il D.L n. 83 del 22 giugno 2012, ha inteso riformare tale situazione….

Continuiamo la serie di interventi dedicati alla Legge Pinto relativa al diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo continua Studio Legale De Vivo. In questo secondo articolo andiamo ad analizzarne la riforma attuata con il Governo Monti. La riforma della Legge Pinto è avvenuta con il Decreto legge n. 83 del 22 giugno 2012 convertito in L. n. 134/2012. Positiva la parte di semplificazione procedimentale: decide infatti, con decreto inaudita altera parte da emettere entro 30 gg dalla proposizione del ricorso, un giudice monocratico di Corte d’Appello su una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento. Apprezzabile è anche la codificazione dei parametri già stabiliti dalla giurisprudenza sia sul quantum risarcitorio che sui tempi di durata ragionevole del giudizio: il giudice liquiderà infatti una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. Criticabile è invece la norma che limita l’indennizzo che non potrà mai essere superiore al valore della causa. Altrettanto criticabile è aver stabilito che il danno sarà considerato integrato ed esistente solo se risultino superati i sei anni di durata del giudizio (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità), quando precedentemente era sufficiente aver superato i soli 3 anni nel primo grado. Nel ribadire poi il termine decadenziale della domanda, secondo cui il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, è discutibile la limitazione che vieta di invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio come era stato finora possibile. Le altre modifiche normative  dilatano la discrezionalità decisoria del Giudice rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti, nell’accertare l’entità della violazione valuta: la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione. Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia: in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria; nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa; nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa; nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso; e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento. Criticabile è la previsione del comma 5 quater, laddove si minaccia che, qualora la domanda sia ritenuta dal giudicante inammissibile o manifestamente infondatail ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1.000 euro e non superiore a 10. 000 euro in favore della Cassa delle Ammende! (Trattasi di un grande disincentivo, essendo ormai risaputa la vasta discrezionalità interpretativa dei giudici). Non solo! Altro aspetto degno rilievo (che stravolge l’iniziale giusta logica della gratuità dell’azione) è la modifica dell’art. 3, comma 3 della legge ai cui sensi “unitamente al ricorso deve essere depositata copia autentica dei seguenti atti:a) l’atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata;b) i verbali di causa e i provvedimenti del giudice;c) il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili.” Considerando che prima della modifica era possibile produrre copia semplice degli atti e/o chiedere l’acquisizione del fascicolo di causa, si può capire come la copia autentica costituisca un peso ulteriore che dovrà sopportare il ricorrente già danneggiato dallo Stato. Un comune cittadino può legittimamente pensare che il legislatore prima di varare una riforma si preoccupi della compatibilità della stessa con le norme di rango superiore e pensa anche che se la legge persegue una finalità la stessa legge non può frapporre ostacoli al conseguimento dei suoi scopi. Purtroppo questo cittadino o non è italiano oppure assomiglia al Pangloss “singolare” precettore del Candido di Voltaire secondo cui tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili! In realtà il fine non troppo recondito perseguito dal legislatore italiano è quello di ostacolare (per il tempo occorrente alla dichiarazione di incostituzionalità della norma) l’esercizio del diritto riconosciuto per la risaputa ragione che lo Stato non è in grado né di far fronte ai pagamenti degli indennizzi né di evadere la gran mole dei ricorsi che per suoi inadempimenti si riversano nelle Corti di Appello competenti. Vediamo ora se le modifiche alla legge Pinto possano essere considerate compatibili e in che misura, con il sistema adottato dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, così come ricostruito dai giudici della CEDU, al cui rispetto l’Italia è tenuta. Come abbiamo rilevato l’obiettivo perseguito con la modifica è lo snellimento del ricorso e delle procedure. E pare che almeno su questo punto il legislatore abbia centrato il suo scopo. Peccato che il ricorrente ora debba sopportare il costo delle copie autentiche degli atti quando nel sistema previgente questa spesa non era prevista.

Considerazioni critiche. Relativamente al quantum dell’indennizzo che non può superare il valore della causa o del diritto in concreto accertato dal giudice nel procedimento in cui è violata la ragionevole durata (art. 2 bis co. III) è bene chiarire che si tratta di un limite non previsto né dalla Convenzione né dalla giurisprudenza CEDU.

Altro punto critico attiene alla previsione contenuta nell’art. 2 comma 2 ter, secondo cui l’indennizzo può essere richiesto solo se il procedimento non si è concluso nell’arco di 6 anni. A tal proposito la giurisprudenza CEDU ha ripetutamente stabilito che anche i procedimenti di durata inferiore ai sei anni possono legittimare l’ottenimento dell’indennizzo (Pelosi / Italia n. 51165/99; Di Meo – Masotta / Italia n. 52813/1999; Nuvoli / Italia n. 41424/1998).

Altro punto critico è quello relativo all’art. 4 della novella in forza del quale la parte ricorrente è obbligata ad attendere la conclusione definitiva del giudizio prima di adire lo strumento previsto dalla legge Pinto. Anche questa limitazione è decisamente contraria alla giurisprudenza CEDU che ha più volte stabilito (per tutti LEsjak / Slovenia n. 33946/03) che si può richiedere l’indennizzo prima della conclusione definitiva del giudizio quando questo eccede la ragionevole durata.

Viene inoltre confermata la precedente previsione della legge in forza della quale il giudice liquiderà l’indennizzo solo in relazione al periodo di tempo eccedente la durata ragionevole (art. 2 bis comma 1). Però anche tale previsione contrasta con la giurisprudenza CEDU che ha più volte ribadito che, ecceduti i termini della ragionevole durata, il procedimento nel suo complesso risulta essere in violazione della convenzione europea (ex plurimis Apicella / Italia n. 64890/01; Cocchiarella / Italia n. 64886/01).

Appare criticabile la nuova previsione in forza della quale l’indennizzo è escluso se una parte abbia rifiutato la proposta di definizione effettuata dal giudice. Si tratta infatti di altro limite non previsto nella convenzione e nella giurisprudenza CEDU.

Le nuove previsioni di cui all’art. 2 co. 2 sembrano attribuire al giudice notevoli margini di discrezionalità (oltre a notevoli già connaturati) nella valutazione delle circostanze del caso e in relazione al comportamento delle parti. Tuttavia tali previsioni, insieme alla tipizzazione delle preclusioni (art 2 quinquies), sollevano dubbi di coerenza con il sistema della convenzione perché l’obbligo di assicurare la ragionevole durata del procedimento grava sugli organi dello Stato che dovrebbero garantire un processo in tempi ragionevoli anche quando le Parti avessero assunto comportamenti dilatori.

Infine la previsione naturale per cui l’indennizzo viene pagato nei limiti delle risorse disponibili non è coerente con il sistema della convenzione europea, perché lo stato dovrebbe preoccuparsi di realizzare un sistema di finanziamento adeguato per far fronte ai propri obblighi (sentenza Simaldone / Italia n. 22644/2003; Gaglione / Italia n. 45867/07).

Perplessità desta la previsione di cui al nuovo art. 5 quater che facoltizza il giudice se accerta che la domanda di indennizzo è inammissibile o manifestamente infondata di condannare il ricorrente al pagamento di una salata ammenda da 1.000 a 10.000 euro, svolgendo questa una funzione dissuasiva per la presentazione del ricorso .

RISARCIMENTO LEGGE PINTO: per farmi risarcire dallo Stato per le cause troppo lunghe mi tocca anche pagarmi l'avvocato? Forse, NO!, scrive l'avv. Alberto Vigani. I tempi della giustizia: la risposta: patto di quota lite o gratuito patrocinio? Tutti, ma proprio tutti, ormai sanno che in Italia i processi durano ere geologiche. E, siccome quasi tutti ci sono passati, anche i sassi hanno capito che non dipende dalle scelte delle parti processuali o dagli avvocati, ma dal sistema! La macchina ha smesso di funzionare già decenni fa, schiacciata dal peso dei troppi procedimenti e da regole che in passato erano ancor più farraginose di oggi. Non devi però credere che ora il meccanismo processuale sia stato snellito e si viva solo del peso delle colpe di ieri. Il codice processuale italiano targato anni 40 era stato concepito per una gestione processuale con tempi da carta carbone e 30.000 avvocati in tutta Italia. Oggi la produzione processuale viaggia sui ritmi del “copia incolla” e gli avvocati in Italia sono 220.000 con quasi 10.000.000 milioni di fascicoli processuali aperti, fra civili e penali. Le regole erano forse perfette allora, nella prima metà del 900, e non tenevano conto delle esigenze e dei ritmi del terzo millennio; senza calcolare che pure le riformette di questi settantanni hanno anche complicato il funzionamento arrivando a prevedere ben 33 percorsi processuali diversi a seconda della tipologia di lite. Insomma, la macchina processuale non funziona più e le cause si trascinano per tempistiche che sono ormai sconnesse dalla vita reale. Un processo civile dura di media una dozzina di anni (12) fra primo e secondo grado. Nella speranza che nessuno degli avvocati delle parti tenti il ricorso per cassazione, che si ruba da solo almeno altri 3 anni. E se una lite riesce a prolungarsi per 15 anni significa che si è presa un quarto della vita operativa di una persona. Questa non è giustizia. I romani, intesi come coloro che parlavano latino e non come tifosi di una squadra di calcio, riuscivano a sintetizzare brillantemente istanti della loro cultura in pochissime parole. Avevano pensato anche a questo con il brocardo: œiustitia dilatio est quam dilatio.

Una giustizia che arriva tardi è una negazione della giustizia. Per fare fronte a questa situazione inaccettabile per democrazie come quelle occidentali, la Comunità Europea ha sanzionato moltissime volte la nostra amata Repubblica Italiana imponendole almeno il risarcimento dei danni causati da questi ritardi ingiustificabili ai cittadini che hanno svolto richiesta. Alla stratificazione dei procedimenti sanzionatori, l'Italia ha risposto con una legge che tutela il cittadino: parlo della legge 89/2001, più conosciuta come Legge Pinto, che ha istituzionalizzato le modalità  del risarcimento. Oggi, se il tuo processo è durato più di 3 anni in primo grado e più di due in secondo, puoi chiedere un risarcimento per il danno subito sia che esso sia patrimoniale, e in questo caso va dimostrato per come effettivamente subito, sia nel caso di danno non patrimoniale, e in quest'altro caso esso è presunto. Si, hai capito bene. Anche se non sei in grado di dare esatta quantificazione del tuo danno economico hai comunque diritto a ricevere una somma di indennizzo per ogni anno di eccessiva durata del processo. L'importo annuale da calcolare in moltiplicazione per il numero di annualità di durata processuale è di euro 1.500,00, e ne hai diritto ha prescindere che tu abbia vinto o perso la causa. La somma è dovuta anche se il processo è ancora in corso ma ha già superato le durate massime previste per ogni grado. In quest'ultimo caso il risarcimento non sarà però definitivo e potrà essere integrato, con apposita richiesta, all'esito finale della causa. Le somme in gioco possono quindi essere di rilevante interesse perchè superano facilmente i 10.000,00 euro per ogni parte processuale. Vediamo assieme perchè.  Oggi una causa media dura in primo grado circa 6 anni e mezzo mentre in appello supera spesso i 5 anni e mezzo. Sommando le durate di primo e secondo grado arriviamo a 13 anni di durata media. E 1.500,00 per 13 anni fa ammontare il risarcimento richiedibili in 4.500,00: questo perchè la norma parla di indennizzo per ogni anno di eccessiva durata del processo, e non di risarcimento per gli anni che superano la normale durata. Ma anche a conteggiare solo gli anni che superano i limiti di legge, ovvero 3 e 2 anni per i primi due gradi, si arriva a 12.000,00 euro (13-5= 8 anni x 1.500 euro). Gli importi sono quindi di tutto rispetto per ogni famiglia italiana.

Come si fa ad averne diritto??? Semplice: devi fare causa allo Stato! E devi avere l'assistenza di un avvocato! Sembra quasi una beffa: dopo esser stato prigionieri di una causa che non finiva più, ti trovi a doverne iniziare un'altra per ottenere giustizia del ritardo! In questi condizioni, molti mollano! Mollano perchè non sono informati. Impauriti dall'iniziare un nuovo processo e dalla necessità di dotarsi di un altro avvocato, rinunciano ad un risarcimento sicuro perchè non sanno che la causa per avere l'indennizzo dura solo 4 mesi e l'avvocato possono averlo a costo zero. I due passaggi critici del processo, durata e costo, si risolvono fin dall'inizio perchè la legge prevede espressamente che il risarcimento deve essere deciso entro il termine massimo di 4 mensilità mentre l'avvocato può essere ottenuto sempre o con il gratuito patrocinio o con il patto di quota lite. Esatto, hai capito benissimo: il primo caso è quello dell’avvocato pagato direttamente dallo Stato in presenza dei requisiti di legge. Con il Dpr 115/2002 è previsto che tutte le persone con un reddito inferiore a 10.766,33 euro hanno diritto ad avere la difesa processuale sostenuta dallo Stato pur potendosi scegliere l'avvocato che preferiscono fra coloro che sono abilitati all'attività specifica. Tutte le volte in cui invece non si hanno i requisiti reddituali per avere l'assistenza a carico dello Stato, si può avvalersi dell'opportunità concessa dalla riforma Bersani. Si, hai letto bene: Bersani ha messo mani anche a questa materia eliminando le tariffe minime e rimuovendo il divieto di patto quota lite. Dal 2008 puoi concordare con il tuo avvocato il suo compenso pattuendo che lui incassi soltanto se vinci ed in ragione di una percentuale di quanto riesci ad ottenere a tuo favore in sentenza. Fine dei rischi!

Se vinci, paghi. Se perdi, amici come prima. Questo vale doppiamente per i ricorsi per la cosiddetta Equa Riparazione da eccessiva durata del processo:

non sono previsti costi processuali, perchè vi sono l'esenzione del contributo unificato, dei costi di notifica e dei bolli, il risarcimento è assicurato e quindi il tuo avvocato sa che non è un terno al lotto, potendo così facilmente accettare l'accordo che gli proporrai. In quel caso, infatti, nessuno rischia. Basta perciò concordare il compenso in una quota dell'indennizzo e presentare il ricorso entro il termine di legge. Questa è la cosa più importante e la ho lasciata per ultima appositamente perchè non sfuggisse all'attenzione: la richiesta di indennizzo deve essere presentata entro 6 mesi dal passaggio in giudicato del provvedimento che chiude la controversia processuale che ha avuto una durata irragionevole. Che sia la sentenza di primo grado, quella di appello od il decreto di chiusura del fallimento, dal momento in cui questo provvedimento del giudice diventerà definitivo e non sarà più impugnabile (ovvero passerà in giudicato) scatterà il decorso dei sei mesi entro cui potrai chiedere il tuo risarcimento. Ricordalo, è importante. Dopo quel termine (di 6 mesi) perderai il diritto ad ogni richiesta risarcitoria!

Ricapitoliamo: tutti hanno diritto ad essere risarciti per la prigionia processuale ed i soldi sono assicurati perchè il debitore è lo stesso Stato che ha causato il ritardo. Per ottenere l'indennizzo basta un tempo brevissimo (4 mesi) ma devi chiederlo entro 6 mesi dalla fine della causa con l’assistenza di un avvocato, che puoi avere anche senza costi aggiuntivi. Basta concordare prima il patto di quota lite o, se ve ne sono i presupposti reddituali, il patrocinio a spese dello Stato.

Durata ragionevole del processo: la ''Pinto su Pinto'' al vaglio della Consulta. Corte d'Appello Firenze, sez. II civile, ordinanza 13.05.2014. Pasquale Tancredi su “Altalex”. La Corte di Appello di Firenze con ordinanza del 13 maggio 2014 promuoveva giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della Legge 24 marzo 2001, n. 89 - “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo” - nella parte in cui essi trovano applicazione anche ai procedimenti di equa riparazione previsti dalla stessa Legge n. 89 del 2001, per contrasto con gli artt. 111, comma 2, e 117, comma 1, Costituzione. L’ordinanza è stata infatti emessa a seguito della promozione di un c.d. giudizio “Pinto su Pinto”, in cui il ricorrente con ricorso ex art. 2, L. 89/2001 proponeva domanda di equa riparazione davanti la Corte di Appello di Firenze lamentando l’eccessiva durata di un precedente giudizio di equa riparazione svoltosi innanzi la Corte di Appello di Perugia, durato complessivamente anni 2, mesi 9, e giorni 16. La Corte di Appello fiorentina sollevava la questione di legittimità costituzionale dell’articolo prima menzionato sulla scorta di valutazioni condivisibili. La Corte infatti ravvisava un contrasto tra la normativa vigente, in particolare tra:

l’art. 2, commi 2 bis e ter, i quali – a seguito delle modifiche del D.L. 83/2012 - prevedono che un giudizio di merito possa considerarsi dalla durata ragionevole allorquando abbia avuto una durata di tre anni in primo grado e comunque quando il giudizio sia stato definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni, e la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte di Cassazione la quale invece individua per un procedimento di Equa Riparazione una durata ragionevole in circa un anno e sei mesi (per un grado di giudizio, più la fase dell’esecuzione) e in due anni e sei mesi (per due gradi di giudizio, compresa la fase di esecuzione). Secondo la Corte rimettente il “diritto vivente” (uniforme alla interpretazione di CEDU e Corte di Cassazione) individua la durata complessiva di un processo ex lege 89 in due anni e tale interpretazione trova tra l’altro conforto anche nella nuova formulazione della stessa legge la quale fissa un termine di 30 giorni per l’emissione del decreto nella fase monitoria (art. 4, comma 3) e un ulteriore termine massimo di quattro mesi per l’eventuale fase di opposizione (art. 5 ter, comma 5). Lo Corte fiorentina, inoltre, rilevava fondatamente che “l’individuazione del principio costituzionale della “ragionevole durata” di cui all’art. 111 secondo comma Cost. non può essere infatti avulsa dalla natura del procedimento stesso, e dalla sua “naturale” durata, che dipende in primo luogo dalla sua maggiore o minore complessità; in questo quadro, il procedimento di equa riparazione è per sua natura destinato a durare assai meno di un giudizio ordinario di cognizione, data la semplicità dei fatti che deve accertare (la durata di un procedimento, e le ragioni della sua protrazione, di regola evincibili dalla mera produzione degli atti processuali), e le finalità a cui tende (indennizzare la violazione di un diritto fondamentale leso proprio da una precedente eccessiva durata), oltre che per la mancanza di un doppio grado nel merito; la previsione di una “ragionevole durata” pari a sei anni risulta pertanto incongrua, e lesiva del predetto art. 111 secondo comma Cost., oltre che dell’art. 117 primo comma, per violazione degli obblighi internazionali derivanti all’Italia dall’art. 6 (CEDU) […]”. L’ordinanza si inserisce quindi all’interno di un dibattito giurisprudenziale attuale ed accesso in cui ultimamente anche le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (19 marzo 2014, n. 6313) hanno aderito ai principi della giurisprudenza CEDU precisando che “nel caso in cui la fase della cognizione del processo Pinto si sia conclusa - non rileva se in senso favorevole o sfavorevole al ricorrente - in un tempo eccedente il termine complessivo di due anni (secondo il consolidato orientamento di questa Corte, conforme alla giurisprudenza della Corte EDU: cfr., ex plurimis, le sentenze n. 5924 e n. 8283 del 2012), il ricorrente può far valere, nelle forme e nei termini di cui alla medesima L. n. 89 del 2001, il diritto all'equa riparazione per la durata irragionevole di tale fase del processo Pinto eccedente i due anni. Caso, questo, che non comporta particolari difficoltà interpretative od applicative della legge n. 89 del 2001 ed è agevolmente riconducibile ai consolidati principi e criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di equa riparazione in generale nonché, specificamente, di durata del processo Pinto e dei relativi criteri di liquidazione del danno non patrimoniale (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 5924 e n. 8283 del 2012 citt.)”.

La Corte Costituzionale è quindi di nuovo chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della Legge 89/2001. La stessa Corte nella sentenza n. 30 dello scorso 27 febbraio 2014 ne aveva fortemente criticato il contenuto invitando il legislatore a riformare il meccanismo indennitario disciplinato dalla legge Pinto in quanto “il vulnus riscontrato e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo, se non inficiano – per le ragioni già esposte – la ritenuta inammissibilità della questione e se non pregiudicano la «priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario» (sentenza n. 23 del 2013), impongono tuttavia di evidenziare che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa […]”. Infine, ancor più di recente – con l’ordinanza 9 maggio 2014, n. 124 – il Giudice delle Leggi ha ribadito che l’indennizzo ex lege Pinto spetta anche alla parte soccombente del giudizio di cui si lamenta l’irragionevole durata “alla stregua del canone che impone di attribuire alla legge, nei limiti in cui ciò sia permesso dal suo testo, un significato conforme alla CEDU, tenuto conto che la Corte europea dei diritti dell’uomo interpreta l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nel senso della spettanza dell’equa soddisfazione per la lesione del diritto alla durata ragionevole del processo a tutte le parti di esso e, in particolare, anche alla parte che sia risultata soccombente”. (Altalex, 27 maggio 2014. Nota di Pasquale Tancredi)

Legge Pinto: e se lo Stato non paga? La risposta dell'Avv. Fabrizio Bartolini Vogliamo affrontare un problema particolare inerente i risarcimenti dovuti in base alla Legge Pinto e cioè quello legato alla effettiva riscossione del risarcimento una volta ottenuto. Infatti sia con la finanziaria del 2007 sia , successivamente con la L. 181/2008 lo Stato ha reso impignorabili i propri beni e quindi il danneggiato-creditore non potrà far altro che attendere i lunghi tempi di liquidazione subendo così, al danno, un altro danno sempre per lo stesso motivo. Questa pagina nasce da alcune denunce e richieste che ci sono state inoltrate  su questo problema ad oggi irrisolvibile se non ricorrendo alla Corte Europea che può condannare, come ha già fatto, al risarcimento lo Stato italiano per non aver provveduto in tempi congrui alla liquidazione. Pensiamo che però singoli ricorsi o testimonianze non diano un quadro ben preciso del problema ad oggi diffusissimo. E’ per questo che abbiamo deciso di raccogliere le vostre esperienze e testimonianze sul problema per poi inviarle, una volta raggiunto un numero ragguardevole, alla Corte Europea nonchè diffonderle via web. Una denuncia collettiva che potrà con il tempo far sentire questa nostra voce ad oggi flebile su questo problema che aggiunge al danno già subito la beffa di essere nuovamente danneggiati con tempi lunghi per attendere la liquidazione del dovuto.

UN ESEMPIO PRATICO

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 16 aprile scorso ha condannato il nostro Stato oltre che per la durata eccessiva dei processi anche per l’esiguità degli indennizzi ex Legge Pinto. Otto condanne in una sola sentenza per processi durati 22 anni e 4 mesi per un grado di giudizio in materia di successione in quanto la liquidazione non era stata calcolata sui criteri dettati da Strasburgo.Alla Corte si erano rivolti otto ricorrenti in quanto i processi erano durati troppo a lungo. Lo stato Italiano aveva sostenuto, costituendosi in giudizio. Che era stata violata la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. Tale eccezioni è stata però respinta dai Giudici di Strasburgo i quali , tra l’altro, hanno considerata esigua la somma risarcitoria riconosciuta dallo Stato Italiano in base alla Legge Pinto. Inoltre gli indennizzi erano stati versati ben oltre in termine di 6 mesi fissato dalla legge: in 5 casi 21i mesi dopo il deposito della sentenza, in un procedimento dopo 30 mesi e negli altri due, rispettivamente 17 e 19 mesi dalla pronuncia. Quindi oltre a durare troppo i processi è troppo lungo il tempo di attesa per ottenere il risarcimento; di attesa si tratta, infatti, in quanto il danneggiato/creditore non ha azioni contro lo Stato per recuperare forzatamente il dovuto potendo solo attendere e denunciare la propria situazione ancora una volta alla CE. Da qui la condanna ad un doppio indennizzo. La Corte ha infatti stabilito che non solo lo Stato deve integrare l’indennizzo troppo esiguo disposto dai giudici interni ma deve anche versare una riparazione per i ritardi nel pagamento. La Corte ha quindi accordato euro 1.400 di risarcimento per il ritardo nel pagamento.

Carte e cavilli: ecco l’inferno di chi deve essere risarcito, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Si discute in questi giorni la riforma della responsabilità civile dei magistrati per gli errori giudiziari; la possibilità dell’erario di rivalersi sul magistrato che ha sbagliato, l’automaticità del meccanismo di rivalsa, la misura di essa. Si affronta il tema della qualificazione dell’errore rilevante, idoneo a comportare l’obbligo risarcitorio. Si annusa il solito trend di supina deferenza all’Anm a dispetto delle dichiarazioni di Renzi che circa un mese fa tuonava: «L’Anm è insorta? Brrrr, che paura. Noi andremo avanti… Deve valere la responsabilità civile dei magistrati: quando sbagliano, devono pagare». La sensazione è che si vada verso una riforma apparente e, nella sostanza, inutile che perseguendo la sacrosanta libertà dei magistrati ne preservi, infine, l’arbitrio. Eppure dagli errori giudiziari possono discendere autentici drammi umani, la completa ed irreversibile distruzione di vite. La carcerazione di una persona innocente è in sé sempre una tragedia che strazia una cellula viva della società. È un cancro, una necrosi, un fenomeno distruttivo con effetti di portata devastante che si dispiegano senza esaurirsi nel nucleo in cui si produce e si sviluppa. La tutela per chi ha subito ingiustamente il carcere – al di là delle ipotesi di sanzione a carico del magistrato che ha determinato la condizione patologica – è lenta, oltremodo farraginosa e scoraggiante, connotata da una burocratizzazione cavillosa e spesso insensata. Chi è stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ed è stato poi, all’esito del procedimento penale, prosciolto con sentenza di assoluzione diventata irrevocabile, ha diritto a ricevere un equo risarcimento del danno subito. Riparazione per ingiusta detenzione, questo l’istituto giuridico. Sembra facile: sei stato in carcere e poi assolto con pronuncia definitiva? Verrai risarcito. Un risarcimento che prescinde dalle responsabilità del giudice che aveva emesso la misura custodiale o la pronuncia di condanna poi riformata. Il diritto al ristoro economico nasce da una lesione di oggettiva gravità: la compressione immotivata di un diritto supremo, la libertà. Inizia, invece, un calvario di burocrazia e di ostacoli di varia natura che appaiono frapposti ad arte per rendere meno accessibile il doveroso rimedio. La richiesta deve essere presentata nella sezione di appello preposta: due fascicoli, ciascuno con indice, tre copie dell’istanza, una serie impressionante di allegazioni. La persona che ha patito la carcerazione ingiusta deve rintracciare il fascicolo dibattimentale e quello del pubblico ministero ed estrapolare dal loro interno copie, alcune in forma autentica, di atti dibattimentali e pre-dibattimentali. Spesso si tratta di processi corposi con molti imputati e mentre l’assoluzione dell’istante diviene definitiva, altri imputati condannati propongono impugnazione. Il fascicolo si sposta. Altra cancelleria. Alcuni atti vanno in archivio (spesso si tratta di numerosi faldoni). Così quando lo sventurato richiedente va in cerca dei documenti necessari, il primo sbarramento è dato proprio dalla ricerca del materiale. Il viaggio ha inizio nella cancelleria di origine e si snoda per archivi e uffici sotterranei alla disperata cerca di tutti gli atti da allegare. Occorrerà poi chiedere che i fascicoli vengano spostati da dove si trovano all’ufficio addetto al rilascio copie. Ci vogliono giorni! Il personale manca. L’interessato – o il suo avvocato – non può per ragioni di privacy e sicurezza portare a termine questa delicata operazione di trasferimento. Finalmente tutti i documenti sono all’ufficio copie, spillati e catalogati, ciascuno nel suo faldone impaginato con scientifica progressione numerica (dell’indice, spesso, rade tracce). Lo speranzoso richiedente compila infine la richiesta copie. Il rilascio è gratuito, anche per quelle autentiche. Il personale di cancelleria, però, avverte che la gratuità delle copie fa sì che loro non possano spendere in tale attività il loro tempo. All’avventore sconfortato – l’interessato o il suo difensore – verrà detto: “se le faccia lei”. Ed ecco allora che il malcapitato si trova per ore in un ufficio polveroso a togliere spille, slacciare documenti con meticolosa attenzione, affrontare macchine fotocopiatrici e risme di carta con la collaborazione (se finisce la carta, se si inceppa la macchina) amabile del personale di cancelleria, interrotto centinaia di volte perché la macchina che sta usando deve assolvere anche a tante altre esigenze più importanti e urgenti: c’è gente ancora da condannare, deve avere la priorità! Infine, quando avrà raccolto il necessario, corredato l’istanza come di dovere, predisposto fascicoli ed indice, aspetterà la fissazione dell’udienza e forse anche il risarcimento.

IL SUCCESSO DELLA 'NDRANGHETA.

Le origini del successo della ‘ndrangheta, scritto da Andrea Zolea. La ‘ndrangheta oggi è l’organizzazione criminale egemone in Italia. Attorno alla mafia calabrese c’è sempre stata una sottovalutazione storica che frequentemente non consente una corretta interpretazione del fenomeno. Questo articolo di approfondimento è il primo: accumulazione originaria, la nascita della Santa e la prima guerra di ‘ndrangheta. Nei successivi si spiegherà quando e attraverso quali fasi i clan calabresi diventano leader nei traffici criminali.

Accumulazione originaria, le radici del primato

Nando dalla Chiesa, nel libro La Convergenza,  illustra i periodi storici della ‘ndrangheta: attraverso la fase economica denominata dall’autore ‘accumulazione originaria’, nel decennio Settanta e Ottanta del Novecento, la mafia calabrese realizza degli investimenti strategici che pongono le basi per l’odierna egemonia sulle altre organizzazioni criminali presenti sul territorio italiano.

 •  La Salerno-Reggio Calabria

Con l’esecuzione dei lavori della nota autostrada si permette un collegamento più rapido tra la Calabria e il “resto del mondo”. Enzo Ciconte (‘Ndrangheta, edizioni Rubbettino) sottolinea che l’assegnazione degli appalti avviene anche con l’assenso di alcuni imprenditori del Nord Italia, attraverso la loro funzione di prestanome. Potenti ‘ndrine lavorano indisturbate nella realizzazione dell’autostrada. Dalla costruzione sino ad oggi, in base alla competenza territoriale, le cosche hanno “mangiato”, prosciugando le risorse pubbliche connesse ai lavori dell’opera.

•  Il V centro Siderurgico

Il Quinto Centro Siderurgico di Gioia Tauro (Reggio Calabria) è un progetto mai portato a conclusione; i promotori dei lavori sono altissime cariche politiche del governo centrale e il boss della Piana di Gioia, Tauro Girolamo Piromalli, detto Don Mommo Piromalli. Attorno al V centro siderurgico si creano svariate imprese edili, dalle quali emerge la figura dello ‘ndranghetista-imprenditore.  “La grande torta”, cioè la spartizione dei lavori tra le ‘ndrine, può essere interpretata come un’intuizione da parte di Don Mommo Piromalli, reputato uno dei più carismatici boss della ‘ndrangheta.

•  I sequestri di persona 

Contemporaneamente ai lavori pubblici (V Centro Siderurgico e Salerno-Reggio Calabria) anche i sequestri di persona sono serviti ad accumulare denaro. Per realizzare questa parte del loro piano strategico, le cosche sfruttano le colonie presenti nel Nord-Italia. Non a caso, gran parte dei sequestri partono da lì e le vittime di questo meccanismo vengono poi nascoste in Aspromonte (San Luca, Platì e Africo soprattutto). La Lombardia è la regione in cui si sono verificati più sequestri di persona; gli ‘ndranghetisti si focalizzano principalmente sui rampolli della buona borghesia del nord e, tra il 1977 e il 1984, eseguono oltre 100 sequestri. Gli introiti di queste attività illegali, in un futuro prossimo, vengono poi reinvestiti nel traffico di droga.

Nasce la Santa

Lavori pubblici e sequestri di persona rientrano nella medesima strategia: investire e incrementare il patrimonio per aprire a nuovi mercati. I sequestri di persona però comportano alti rischi di pena detentiva e  perdita di consenso, elemento fondamentale per la sopravvivenza delle organizzazioni mafiose. Cosa Nostra, infatti, nello stesso periodo, capisce che il sequestro non è la strategia giusta da perseguire. Nasce, quindi, la domanda spontanea: l’accumulazione primaria è stata oggetto di una strategia precisa? Sembrerebbe proprio di sì, perchè dopo i vari filoni citati, le nuove leve della ‘ndrangheta, sofferenti al ruolo che hanno sino ad allora ricoperto, vogliono fare un salto di qualità. Nasce così “la santa”, la prima dote della Società maggiore. Il “santista” è soggetto alla doppia affiliazione; è, cioè, sia ‘ndranghetista che massone. Avviene, così, l’ingresso della criminalità organizzata calabrese all’interno della massoneria deviata, permettendo l’apertura di un dialogo con le figure di potere: architetti, ingegneri, magistrati, avvocati, banchieri, servizi segreti, forze dell’ordine, politici e imprenditori. Chi possiede la santa può intrattenere tutti quei rapporti, impensabili in precedenza con il potere costituito, senza essere considerato un traditore. Infatti, il santista ha anche la funzione di delatore; ciò significa che se qualcuno inferiore di dote all’interno della sua ‘ndrina fa errori lo può segnalare persino alle forze dell’ordine. Ulteriore elemento di novità è il nuovo giuramento del rito di affiliazione: non è più su San Michele Arcangelo (protettore della ‘ndrangheta) ma su Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi e Alfonso La Mormora (tutti e tre massoni).

La prima guerra di ‘ndrangheta

Il conflitto avvenuto tra il 1974 e 1977, combattutosi principalmente tra i clan di Reggio Calabria, causa oltre 230 morti. Uno dei motivi conflittuali è da ricercarsi tra le attività descritte nei primi due paragrafi e le vecchie correnti capeggiate da Antonio Macrì e Domenico Tripodo. Chi sono queste due persone? Antonio Macrì, detto Ntoni Macrì, era il capo bastone di Siderno (fascia jonica di Reggio Calabria), legato alle tradizioni ‘ndranghetiste, contrario ai sequestri di persona e alla ‘santa’; favorevole al mantenimento dell’attività principale delle cosche calabresi prima dell’acquisizione primaria: il contrabbando delle sigarette. Come riportato in Fratelli di sangue, scritto dal Procuratore Aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri e dallo storico di organizzazioni mafiose, Antonio Nicaso, il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro sottolinea che “Macrì era il capo dei capi, rappresentava l’onorata società” e in stretti rapporti con il clan dei corleonesi (da Michele Navarra, il quale viene mandato al confino a Marina di Gioiosa Jonica, fino a Luciano Liggio, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano). Ucciso nel campo bocciofilo di Siderno a colpi di mitra nel gennaio del 1975, il suo assassinio viene ordinato dai De Stefano (Reggio Calabria), dai Cataldo (Locri) e dai Mazzaferro (Marina di Gioiosa Jonica). Domenico Tripodo, detto Don Mico Tripodo, il prediletto di Macrì, originario di Reggio Calabria, è uno degli ‘ndranghetisti più influenti della città; la cosca dei Tripodo si pone in conflitto aperto con i De Stefano (anche loro di Reggio Calabria) perché, come i Macrì, vuole mantenere le tradizioni mafiose del passato. Viene ucciso da due cutoliani nel carcere di Napoli, Poggioreale. In cambio del favore a delle cosche calabresi, il boss della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, ottiene i codici della mafia calabrese, da parte dei Mammoliti di Castellace. L’omicidio viene realizzato anche per via dei buoni rapporti tra Cutolo e il padrino Paolo De Stefano. Altri omicidi rilevanti sono quelli di Giacomo Ferlaino (Lamezia Terme, 3 luglio ’75), avvocato generale dello Stato, ucciso per lupara bianca, il quale si oppone alla degenerazione dell’infiltrazione della ‘ndrangheta nella massoneria; i fratelli Giovanni e Giorgio De Stefano. I gruppi vincenti della 1° guerra di ‘ndrangheta sono i Cataldo, i Mazzaferro, i De Stefano, i Piromalli e i Mammoliti. L’esito di queste sanguinose faide è lo spartiacque tra la vecchia e la nuova ‘ndrangheta; questa fase storica consente ai clan calabresi un salto di qualità nello scenario criminale nazionale e internazionale.

Un ingorgo di cosche nei cantieri della Salerno-Reggio scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il traffico sulla Salerno-Reggio Calabria non è fatto soltanto di automobili e Tir. Con i lavori di ammodernamento dell'autostrada A3 corrono anche i traffici delle cosche che si dividono scientificamente ogni chilometro in costruzione. Lo dicono le inchieste della magistratura, le indagini degli investigatori antimafia e lo dicono i sequestri di aziende e beni mobili che, proprio in questi giorni, si stanno susseguendo. Sui 229 chilometri nei quali in questi anni sono stati aperti decine di cantieri, sono almeno dodici le cosche infiltrate e decine le famiglie della 'ndrangheta intervenute per spartirsi i fondi. Il sistema è sempre lo stesso: per ogni lotto dei lavori l'impresa che vince l'appalto paga il pizzo e se non paga viene estromessa. Alla tangente del 3% sull'importo complessivo dei lavori – centinaia di milioni in questi anni – si somma poi un costo occulto per le aziende: l'affidamento di sub-appalti e forniture di cemento e bitume a ditte di riferimento delle cosche. Ma non è solo l'autostrada a fare gola. Il magistrato antimafia Vincenzo Macrì lancia l'allarme anche sui lavori miliardari per il nuovo tratto della statale 106. La 'ndrangheta è una scienza esatta e i cantieri stradali sono il laboratorio in cui sperimentare le formule. Non c'è tratto dell'autostrada Salerno-Reggio che non passi attraverso la spartizione scientifica delle cosche, che sottomettono le imprese chiamate a svolgere i lavori. Chi non ci sta viene escluso, come l'imprenditore Gaetano Saffioti, che ha il miglior misto cementato della Calabria, indispensabile per i lavori del fondo stradale. Nell'indagine Arca – chiusa il 2 luglio 2007 – la cosca Piromalli arrivò a tracciare, come un architetto, una variante del raccordo autostradale per Gioia Tauro. «Una variante – dichiara il 4 dicembre 2007 il magistrato della Direzione nazionale antimafia Vincenzo Macrì –che poi venne realizzata perché si rivelò migliore di quella progettata dai tecnici dell'Anas.In qualche modo la cosca ha contribuito al miglioramento dei lavori ». L'operazione Arca – che ha portato all'arresto di imprenditori, sindacalisti e criminali – ha coinvolto pezzi da novanta come le famiglie Mancuso, Pescee Piromalli e imprese del calibro di Condotte, Coop costruttori e Baldassini-Tognozzi, vittime del sistema. Il rituale sempre lo stesso con una variabile: la presenza del sindacalista che azzerava i conflitti. Quell'inchiesta lascerà ancora il segno: dopo la confisca di oltre 50 milioni in beni mobili e immobili ai gruppi Guarnaccia e Tassone, in queste ore giungono a maturazione i sequestri di altre aziende e beni per oltre cinque milioni. Già nel 2002, con l'operazione Tamburo, la Dia e la magistratura dimostrarono che ogni lotto da Castrovillari a Rogliano era diviso tra le cosche, con una regia sublime, affidata a Vincenzo Dedato che era diventato portavoce unico delle 'ndrine nei confronti delle imprese. Una cosa mai vista e forse irripetibile. In quell'indagine – che portò ad arresti e successive collaborazioni di boss di rango della 'ndrangheta – furono invischiate imprese come la Asfalti sintex, l'Astaldi e l'Ati Vidoni che si erano aggiudicate lavori per 114 milioni. La tangente era pari al 3% dell'importo dei lavori e le imprese erano costrette ad affidare subappalti e forniture a ditte di riferimento delle cosche. «La quota a carico delle società ora si chiama onere di sicurezza – spiega il colonnello Francesco Falbo, a capo della Dia di Reggio – e non più pizzo».I neologismi non cambiano la sostanza, fatta di accordi. Nella relazione fresca di stampa della Direzione nazionale antimafia per il 2007, ancora Macrì invita a guardare oltre i guard rail autostradali. «L'attenzione delle cosche – scrive il magistrato – potrebbe rivolgersi verso la realizzazione del nuovo tratto della statale 106 da Ardore a Marina di Gioiosa Jonica e della trasversale che porta da Bovalino a Bagnara. Altro possibile obbiettivo di infiltrazione delle cosche è l'area compresa tra i comuni di Delianuova, Sant'Eufemia d'Aspromonte, Oppido Mamertina e Bagnara, che sarà interessata dalla realizzazione della nuova arteria stradale Bovalino Bagnara, con un impegno di spesa di 835 milioni». Milioni che piovono sulle cosche e che sono pronti per essere riciclati in mezzo mondo:dai traffici di cocaina a quelli di armi. «Il problema della 'ndrangheta – ha ripetuto spesso Nicola Gratteri della Dda di Reggio Calabria – non è spendere, ma come spendere. Abbiamo intercettazioni telefoniche in cui mafiosi ridono del fatto di aver fatto marcire banconote per milioni di euro perché avevano dimenticato dove le avevano seppellite ». Sulla Salerno-Reggio Calabria, insomma, gli ingorghi non sono solo quelli degli automobi-listi ma anche quelli tra cosche, politica e imprese. «Confindustria nazionale – spiega Roberto Pennisi,della Dda di Reggio –dovrebbe assumere importanti posizioni contro le grandi imprese che partono dal Nord con l'accordo già raggiunto con le cosche e che, nonostante il rischio di annullamento dei contratti, vanno avanti». Nessuno ha la bacchetta magica ma Roberto Di Palma, magistrato della Dda di Reggio, concorda con Pennisi sulle occasione perse. «Il pacchetto sicurezza –spiega Di Palma – nella parte in cui disciplina il comportamento che devono tenere le imprese quando vengono in contatto con le cosche è valido. Per il momento però resta nella lista dei desideri». La caduta del Governo non aiuta certo il cammino del pacchetto- sicurezza. A trarne benefici è la 'ndrangheta che è alla ricerca di nuovi assetti affaristici (o forse li ha già trovati) dopo l'omicidio ieri a Gioia Tauro del boss Rocco Molè, capofamiglia del braccio armato della cosca Piromalli.

SALERNO REGGIO CALABRIA: L’ETERNA INCOMPIUTA.

Inchiesta di Danilo Loria su StrettoWeb: Autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, l’eterna incompiuta. L’autostrada A3 Napoli-Reggio Calabria ha un’estensione totale di 494,9 km. Rappresenta il secondo tratto della cosiddetta Autostrada del Sole, arteria che collega il nord con il sud dell’Italia, da Milano a Reggio Calabria. Si divide in due tratti principali che corrispondono alle tratte in gestione di due società: la Sam concessionaria del Gruppo Autostrade per l’Italia, da Napoli a Salerno e l’Anas da Salerno a Reggio Calabria. È affiancata dalla SS 18, che parte da Napoli e arriva a Reggio Calabria e che costituisce il percorso alternativo per chi non vuole prendere la SA-RC. La A3 attraversa tre regioni meridionali: la Campania per 171,0 km, la Basilicata per 30,0 km, la Calabria per 293,9 km.

Il 1962 è l’anno decisivo per la costruzione dell’opera. Difatti, il governo di Amintore Fanfani decise di finanziare la costruzione di un’autostrada che collegasse il resto dell’Italia al profondo Sud. Nel 1966 il governo italiano, guidato da Aldo Moro, inaugura il primo lotto completato. Ecco le fasi di apertura dei vari tratti:

1966: apertura tratto Salerno – Lagonegro

1968: apertura tratto Lagonegro – Cosenza tratto difficilissimo da costruire data la conformazione del territorio, ricco di montagne e viadotti

1969: apertura tratto Cosenza – Gioia Tauro

1972: l’autostrada viene completata fino a Reggio Calabria.

A lavori ultimati, l’autostrada aveva più “sembianze” di una strada statale che ad una arteria ad alta velocità, viste le curve continue, la ristrettezza della carreggiata, priva, tra l’altro, di corsie d’emergenza. Per di più, nel corso delle giornate di maggior percorrenza della strada, persistono numerosi ingorghi ed incidenti in vari punti dell’A3. Cosicchè, alla fine degli anni ottanta, i vari governi che si sono succeduti si resero conto che l’autostrada doveva essere assolutamente modificata. Ciò nonostante la situazione non cambiò, cosicchè l’Unione Europea, ha obbligato l’Italia a far sì che la Salerno-Reggio Calabria corrispondesse a chiare normative Europee.

Nel 1997 si decise di dar vita a lavori di ammodernamento dell’arteria, che dovevano essere ultimati in pochi anni. L’anno di conclusione doveva essere il 2003, ma nulla, poi con la legge obiettivo n° 443 del dicembre 2001, si parlò del 2005 ma men che meno. Successivamente i tempi si allungarono a dismisura: si parlò del 2011, ma l’incompiutezza rimase, ad oggi i lavori non sono ultimati. Alcuni giurano che finiranno entro l’anno, altri, con più accuratezza, entro il 2018. Un disastro epocale, quindi, per la più grande opera mai realizzata direttamente dallo Stato.

A luglio 2012, sono stati completati 271 km, 91,5 km sono in fase di ammodernamento o ricostruzione, mentre 75.5 km devono ancora essere appaltati.

I tratti già completati sono quelli tra gli svincoli di:

Salerno Centro – Lagonegro nord (123 km)

Sibari – Cosenza (51 km)

Altilia – Lamezia Terme (31 km)

Sant’Onofrio – Mileto (22 km)

Rosarno – Bagnara (26 km)

I tratti dell’autostrada attualmente in fase di ammodernamento sono tra gli svincoli di:

Lagonegro Nord – Laino Borgo (29 km)

Campotenese – Morano (11 km)

Lamezia Terme – Pizzo (11 km)

Mileto – Rosarno (10 km)

Bagnara Calabra – Campo Calabro (30 km)

I tratti da ammodernare sono 75.5, cioè tra gli svincoli di:

Laino Borgo – Campotenese (21,5 km)

Morano – Sibari (21,5)

Cosenza – Altilia (26 km)

Pizzo Calabro – Sant’Onofrio (9,5 km)

Campo Calabro – Reggio Calabria (8,5 km)

E’ opportuno sottolineare che, sulla costruzione dell’A3 e sui lavori di ammodernamento, ha avuto un peso rilevante la mafia calabrese. Nella fase iniziale della costruzione le ditte che vincono gli appalti si organizzano con la ndrangheta per la fornitura del calcestruzzo e l’assunzione di personale. Nel 1997 con l’inizio dei lavori per l’ammodernamento comincia la vera e propria infiltrazione della malavita. Le ditte vengono obbligate a pagare il pizzo, pena intimidazioni. La magistratura inizia un lavoro enorme: varie le cosche che, come polipi, si avvinghiano sull’opera: Dieco, Giampà, Iannazzo, Mancuso, Pesce, Piromalli, Tripodo. Varie inchieste portate avanti: “Tamburo”, operazione “Arca”, “Alba di Scilla 2”. Coinvolti imprenditori, sindacalisti, gente insospettabile.

Ad oggi viaggiare sulla Salerno-Reggio Calabria è un vero e proprio strazio: un labirinto infinito in cui è facile incontrasi con traffico, con incidenti spesso mortali, con rallentamenti, con uscite autostradali chiuse, con illuminazione precaria. Siamo consapevoli delle difficoltà, ma è opportuno completare e definire un opera che rappresenta una vera e propria vergogna: anni ed anni di lavori infiniti senza riuscire ad arrivare alla meta, ossia dar vita ad un arteria di “decente” percorrenza per tutti coloro che la percorrono.

LA SALERNO - REGGIO CALABRIA FINISCE NEL LATO OSCURO DEL POTERE.

Un reportage estero tratto dalla testata: Die Welt. Articolo originale di Rachel Donadio del 11 ottobre 2012 tradotto da Claudia Marruccelli, Valeria Lucchesi e Elena Acquani per Italiadallestero.info e pubblicata su “Il Fatto Quotidiano”.

L’incompiuta A3 finisce nel lato oscuro del potere. Il lavori di costruzione della A3, che va da Salerno a Reggio Calabria, durano da decenni ed è soprattutto la criminalità organizzata a trarne vantaggio. Un esempio di come i fondi europei possano consolidare strutture corrotte. Iniziata negli anni ‘60, l’autostrada italiana A3 inizia poco lontano da Napoli, vicino a Salerno e termina 480 chilometri più a sud, diventando una strada secondaria nel bel mezzo di Reggio Calabria, il capoluogo. A circa 50 anni di distanza la realizzazione dell’A3 ancor oggi non è stata portata a compimento. In numerosi punti l’autostrada si riduce a due sole carreggiate con un percorso a ostacoli fatto dai cantieri stradali. Cavalcavia a due campate si allungano pericolosamente sui burroni, mentre l’acqua piovana filtra nelle gallerie senza illuminazione, in cui le auto che passano vengono colpite da pezzi di cemento o altri materiali da costruzione. Non esistono opere simili a quest’autostrada del sud Italia che rappresentino in modo così emblematico il fallimento dello stato italiano. Alcuni detrattori la definiscono il frutto marcio di una “cultura basata sui posti di lavoro in cambio di voti” che, alimentata dalla criminalità organizzata, ha frodato sistematicamente lo stato, indebolendo i cittadini e isolando geograficamente e politicamente la Calabria.

Simbolo dei timori dei paesi del Nord Europa. L’autostrada rappresenta anche i timori di alcuni paesi del Nord Europa che fanno parte della zona euro: lo sviluppo di un sistema di trasferimento, in base al quale il nord appoggia un’Europa del Sud bloccata e in cui troppo spesso le sovvenzioni spariscono finendo nei favoritismi e nella corruzione, mentre ai governi locali sembra mancare la capacità o la volontà di fare qualcosa per impedirlo. L’autostrada incompiuta dimostra che i sussidi erogati in passato non sono stati destinati agli investimenti auspicati per il futuro. Questo alimenta i dubbi sulla validità di simili aiuti finalizzati a consentire all’Europa del sud di uscire dall’attuale crisi economica.

Il denaro finisce alla mafia. In Italia l’uso improprio dei fondi europei “ha arrecato enormi danni, dato che sono stati utilizzati in maniera scorretta e quindi, secondo alcuni giudici, hanno favorito anche la criminalità organizzata” sostiene Sergio Rizzo, coautore di successi editoriali sulla corruzione politica. Da quando in Europa si discute di favorire la crescita economica, i funzionari europei raccomandano con sempre più enfasi una maggiore responsabilità. “Più i fondi europei vengono considerati un viatico per la crescita, come espediente per uscire dalla crisi economica, più occorre intensificare i controlli” sono le parole di Giovanni Kessler, capo dell’ufficio dell’UE per la lotta antifrode. Dal 2000 al 2001 l’Italia ha ricevuto più di 47,7 miliardi di euro, finalizzati al consolidamento delle infrastrutture e per l’agricoltura in alcune regioni. La maggior parte è stata in sostanza destinata al sud del paese, che ora non può vantare altro se non un’autostrada completata solo in parte.

Risanamento della A3 dal 2001. L’Italia ha iniziato il risanamento della A3 sin dal 2001, con l’inserimento di un’adeguata corsia di emergenza. Da allora sono stati investiti nel progetto quasi 7.6 miliardi di euro. Dopo che la magistratura italiana ha messo in luce numerose prove di frode, le autorità europee quest’estate hanno imposto al paese di far confluire in altri progetti i 389 miliardi stanziati dall’Europa per l’autostrada. Percorrendo la A3, si può allo stesso tempo percorre il lato oscuro della recente storia italiana. Una storia in cui un misto di corruzione e clientelismo ha contribuito a incrementare la seconda montagna di debiti d’Europa, misurato sul PIL. La A3 è la principale arteria stradale in una regione in cui manca l’alta velocità ferroviaria e la disoccupazione arriva al 20 percento.

Sguardo sul lato oscuro della storia italiana. Si passa per Rosarno con le sue squallide case di cemento ancora da ultimare, un territorio noto per i problemi legati agli stranieri presenti sul territorio. Si passa la città portuale di Gioia Tauro, dove le tombe del cimitero sono tenute quasi meglio di certe case. Il porto è noto alle autorità come punto di arrivo della maggior parte della cocaina proveniente dal Sudamerica e diretta in Europa. Da quando è stata inaugurata la A3, si sono succedute tre generazioni di aziende in subappalto, nominate da personaggi politici di altrettante generazioni. Dal 2000 sono state arrestate centinaia di persone, coinvolte nei cantieri dell’autostrada, per lo più  accusati di corruzione ed estorsione.

Strutture mafiose. La Calabria è soggiogata dalla ‘Ndrangheta, considerata dalle autorità come l’organizzazione criminale più pericolosa. “Le grandi opere pubbliche attirano l’interesse della ‘Ndrangheta“, afferma il magistrato Roberto di Palma, che ha presieduto due processi per corruzione legati all’A3. Esistono stretti legami tra la criminalità organizzata e i politici locali. Recentemente il governo italiano ha addirittura ordinato lo scioglimento del Consiglio Comunale di Reggio Calabria per contiguità con la mafia e ha commissariato l’amministrazione comunale. Secondo il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, tra l’altro, non si è indagato abbastanza sui rapporti che legherebbero appalti pubblici e malavita. Solo lunedì sono stati arrestati 3 dei 51 membri della giunta regionale calabrese con l‘accusa di concorso in associazione mafiosa.

Mancanza di responsabilità. Per molti aspetti la Calabria spiega la mancanza di responsabilità all’interno dell’EU. La commissione europea, diversamente dal Fondo Monetario Internazionale, non sarebbe in grado di stabilire le condizioni per l’assegnazione di crediti, dice Massimo Florin, docente di economia presso l’università di Milano. Inoltre mancherebbe il potere di un’autorità di controllo che sorvegli le uscite. In Calabria, questa situazione è stata un chiaro invito alla corruzione. In uno dei tanti processi legati all’A3, gli accusatori hanno spiegato che non meno di una dozzina di cosche della ‘Ndrangheta ha elaborato “un accordo di pace” per spartirsi lavoro e tangenti.

La regola del 3 %. In un altro processo, in cui sono state condannate 22 persone per concorso in associazione mafiosa e per altri reati, gli accusatori, esaminando uno dei sei più grandi cantieri dell’autostrada, hanno trovato ampie prove della cosiddetta “regola del 3 %“. Ciò vuol dire che i subappaltatori chiedono allo stato un 3 % in più che poi finisce nelle tasche delle cosche. E’ stato addirittura  documentato come le famiglie mafiose decidano gli appalti e stabiliscano chi deve essere assunto – spesso si tratta di amici e parenti. Nel corso degli anni sono stati assunti circa 6000 lavoratori da centinaia di subappaltatori.

Il sud è una terra di lavori mai terminati, poiché un lavoro finito non frutta più”, dice Aldo Varano, giornalista e autore di diversi libri sulla Calabria. Il problema sta nel sistema politico. Ma il problema va oltre la corruzione. E’ insito nel cuore del sistema politico di molti paesi dell’Europa del sud, nella tradizione che prevede che i politici offrano lavori statali ai cittadini in cambio di voti. “Il sud un tempo era un serbatoio di manodopera che negli anni ’70 ha subito un cambiamento diventando un gigantesco bacino di consensi elettorali“, dice Varano. Si riferisce ai voti della Calabria che hanno aiutato tutti i governi degli ultimi 25 anni a restare al potere. Per assicurarsi questi voti, i governi hanno dovuto sborsare soldi, “non per investimenti e sviluppo, ma in modo clientelare.“

Ormai senza fiducia. Secondo la società italiana autostrade, nei lavori dell’ A3 sono stati sempre impiegati circa un migliaio di lavoratori, ma negli ultimi tempi, percorrendo l’autostrada, si intravedeva a fatica una manciata di operai. Pochi sono i calabresi che nutrono ancora fiducia nel loro governo e che credono che l’A3 sarà un giorno completata. Eppure non è tutto così desolante. Oggi 270 chilometri dei 500 totali sono stati risanati e circa 400 chilometri sono percorribili. Gli ultimi 120 chilometri, dicono le autorità, dovrebbero essere terminati entro la fine del 2013. A Roma Fabrizio Barca, ministro per la coesione territoriale, afferma che per lungo tempo sono stati stanziati pochi fondi per il sud. “In Calabria la situazione è particolarmente problematica”. Alla domanda se lì abbia alleati politici, cambia espressione e conclude così: “Diciamo che il rinnovamento del sud non partirà dalla Calabria”.

MAFIE, LA GRANDE ALLEANZA.

Cosa Nostra, 'ndrangheta, camorra. Sempre più spesso collaborano tra loro: per gestire affari, riciclare denaro, influenzare la politica. E' la nuova strategia della criminalità organizzata. Che passa per Roma e arriva al nord, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Larghe intese criminali per gestire traffici globali. Nel terzo millennio la grosse koalition è diventata la regola delle mafie italiane. Cosche di regioni diverse si mettono d'accordo per aprire insieme singoli business o condividere professionalità. Un modo per ottimizzare i profitti e ridurre le liti, quelle che richiedono il piombo e alzano l'attenzione delle istituzioni. Così boss campani e siciliani, calabresi e pugliesi trovano intese per rilevare negozi, eliminare avversari, costruire aziende, corrompere autorità. Nuovi assetti flessibili, liberi da cerimonie ufficiali e affiliazioni impregnate di sacralità. Oggi gli affari e i target da raggiungere hanno soppiantato i principi dell'onore e della fedeltà eterna. Si moltiplicano le joint venture, consorzi temporanei tra holding criminali, che permettono agli spregiudicati padrini versione 2.0 di dominare il mercato. «Le alleanze servono a ridurre i rischi e permettono di adattarsi alle circostanze», osserva Federico Varese, professore di criminologia a Oxford e tra i più importanti studiosi di mafie globalizzate. I clan collaborano per importare tonnellate di coca, per nascondere casse di Kalashnikov, per ripulire milioni di euro in contanti. Oppure lo scambio può riguardare figure particolari: un killer prestato per un'azione di fuoco o un cantante neomelodico da far esibire al party del capo bastone. Sì, anche la musica entra nei patti. Lo ha raccontato un pentito della famiglia Birra di Ercolano: i suoi capi avrebbero speso migliaia di euro per ingaggiare quattro artisti neomelodici napoletani da inviare nei feudi della ?ndrangheta. L'evento da festeggiare? La scarcerazione del padrino calabrese.

MASTER CRIMINALE. Anche in questo caso, mammasantissima campani e calabresi si sono conosciuti in prigione. Non in un penitenziario qualunque, ma nel rigore del carcere duro. Le regole del 41bis impongono che i detenuti più pericolosi stiano in cella con criminali di territori differenti: Totò Riina per anni ha potuto parlare solo con un malavitoso napoletano e oggi Antonio Iovine, l'ultimo leader casalese catturato, passa il tempo con un pregiudicato pugliese. Così per alcuni dei 709 mafiosi reclusi nelle aree speciali del 41bis, il carcere duro sta diventando un master di alto livello, dove conoscersi e stabilire le basi per le iniziative congiunte. «Il penitenziario può trasformarsi in un istituto criminogeno, luogo di nuove alleanze, in cui si decidono le sorti delle organizzazioni sul piano nazionale e locale», spiega a "l'Espresso" Antonello Ardituro, magistrato della Procura antimafia di Napoli in prima linea contro il clan dei Casalesi. «Negli ultimi anni i 41 bis aumentano perché è cresciuto il numero di capi arrestati mentre i posti nel carcere duro stanno finendo».

GRANDE SUMMIT. C'è un mistero irrisolto da tre anni. Nasce dalle immagini riprese dalle telecamere del carcere milanese di Opera: i colloqui nell'ora d'aria tra Giuseppe Graviano, il padrino di Brancaccio condannato per le stragi del 1992-93, e Francesco Schiavone, il "Sandokan" padrone di Gomorra. I due parlano sottovoce camminando durante i summit, ripetuti per giorni. L'allarme per investigatori e procure è stato immediato. L'oggetto delle conversazioni è ancora al vaglio degli inquirenti. Una chiave potrebbe nascondersi nella lettera mandata dal grande capo dei casalesi ai familiari subito dopo la sentenza di Cassazione, in cui li invitava ad andarsene poiché sarebbe arrivata «una valanga». Di cosa? Arresti? Ritorsioni? Pentimenti? Qualche mese dopo quei colloqui, la Direzione investigativa ha svelato che Cosa nostra e casalesi avevano già prodotto una società a capitale mafioso, che assieme ai calabresi gestiva il trasporto di frutta e verdura dai centri di produzione meridionali fino ai ricchi ortomercati del Centro e del Nord.

ROMA DOCET. Il grande laboratorio delle alleanze flessibili è Roma. Accade dai tempi della Magliana: nessuno si sente così forte da occupare la capitale e quindi tutti cercano di mettersi d'accordo. A partire dal traffico di cocaina. L'ultimo consorzio è stato smantellato due settimane fa: un gruppo misto di settanta malavitosi - calabresi, napoletani, romani, albanesi, boliviani, colombiani e venezuelani - che hanno inondato il Lazio di polvere bianca. Tra i fornitori c'era "Bebé", ossia il manager della droga Roberto Pannunzi, considerato il grossista della 'ndrangheta nelle Americhe. Già nel 2006 l'indagine Ibisco ha svelato l'intreccio tra banditi capitolini, ndrangheta, famiglie siciliane e narcos venezuelani e spagnoli per distribuire tonnellate di neve sui sette colli. Dove poi investivano i guadagni nel settore immobiliare grazie a colletti bianchi ricchi di entrature. Tre settimane fa il copione si è ripetuto. E' stata smantellata la collaborazione tra la cosca calabrese dei Gallace e il clan romano dei Romagnoli: smistavano centinaia di chili di coca, contando sulla complicità di personale dell'aeroporto di Fiumicino. «Possono essere anche gruppi diversi di una stessa mafia a investire risorse per comprare droga. Esistono alleanze interne e flessibili basate su specifici progetti», spiega il professor Varese, che conclude: «Le alleanze possono soffrire di fragilità. E generare conflitti. La grande sfida per i clan è ovviare alla mancanza di fiducia utilizzando meccanismi informali che possano portare a buon fine i loro piani, uno di questi è il classico scambio dell'ostaggio, molto usato tra narcos e organizzazioni italiane». Metodi arcaici per business modernissimi.

OBIETTIVI POLITICI. Spesso le sinergie si consolidano intorno a obiettivi politici. Giuseppe Piromalli junior è tra i mammasantissima più potenti della Penisola. Sovrano di Gioia Tauro e della Piana, da oltre dieci anni si trova nella cella di massima sicurezza del carcere di Tolmezzo. E qui ha passeggiato e dialogato con capi siciliani, tra cui Antonino Cinà, medico personale di Riina e membro del direttorio di Cosa nostra. Più degli affari li unisce la volontà di scardinare il 41bis, contro cui calabresi e siciliani «hanno fatto fronte comune elaborando una strategia unitaria», scrivono i magistrati di Reggio Calabria. E «non per caso» sarebbe avvenuta la trasferta milanese dell'emissario della 'ndrina Piromalli negli uffici del fondatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri: diventa l'occasione per ricordare al politico «che gli possiamo garantire Calabria e Sicilia». L'incontro tra Cinà e Piromalli è un ulteriore indizio della vicinanza tra padrini siciliani e calabresi: un puzzle di rapporti e favori al centro di una complessa indagine dell'Antimafia di Reggio Calabria, che ha aperto un fascicolo sul ruolo della 'ndrangheta nella trattativa Stato-mafia.

TRIBUTI DOLCI. I Piromalli sono anche storici alleati dei Santapaola di Catania. Dettano legge sui porti delle città che controllano: tra container e gru hanno eretto imperi. Dopo l'incontro di Tolmezzo, gli emissari di Piromalli hanno incontrato pure i palermitani di Brancaccio. Nell'appuntamento di Gioia Tauro, i picciotti siculi si sono presentati con un vassoio di cannoli freschi, in segno di rispetto alla signoria locale. Invece la famiglia guidata da Salvatore Lo Piccolo, che fino al 2011 ha dominato Palermo, è in contatto con il clan napoletano Polverino. Durante la detenzione di Roberto Perrone, camorrista di punta del gruppo campano, i suoi familiari sono stati ospitati e riveriti da parenti stretti dei Lo Piccolo: pranzi nella villa in riva al mare a Mondello e dolci napoletani inviati per ringraziarli dell'ospitalità.

BUSINESS SENZA CONFINI. Le joint venture spesso sono determinanti per imporsi nei centri del Nord. Nella Repubblica di San Marino un nome salda gli interessi di camorra e Cosa Nostra: Franco Vallefuoco. Un boss contemporaneo. Businessman più che picciotto. Ben inserito nei salotti buoni della politica, socio occulto di società finanziarie e di recupero crediti intestate a insospettabili avvocati e notai locali. Una ragnatela usata - secondo i pm antimafia di Napoli e Bologna - per riciclare decine di milioni di euro. Il percorso dei denari può arrivare anche più lontano, fino alla City di Londra. Lì era stata cementata l'alleanza più sorprendente: quella tra il latitante Herry James Fitzsimon, cassiere dei terroristi irlandese dell'Ira, e due potenti 'ndrine calabresi, Iamonte e Mancuso, ben inserite nella massoneria. Insieme, sostiene l'accusa, hanno ripulito milioni attraverso investimenti immobiliari e costruzioni di villaggi turistici.

NEW BUSINESS. La professionalità di alcuni manager è l'ingrediente che fa lievitare i profitti dei gruppi mafiosi. Se l'esperto è capace e disponibile, si moltiplicano le cosche che gli fanno la corte. Vito Nicastri nel settore dell'eolico e del fotovoltaico ha maturato anni di esperienza. La Dia gli ha confiscato oltre un miliardo di euro contestando la sua vicinanza al superlatitante trapanese Messina Denaro. Ma è anche lo specialista al quale le famiglie calabresi di Africo, Platì e San Luca, si sarebbero affidate per vendere terreni destinati a ospitare pannelli solari. Il consorzio è anche la formula vincente nel gioco d'azzardo legale. Ogni mafia ha il suo re delle slot e delle scommesse, che uniscono le forze fuori dal territorio di origine. Nascono così società miste tra imprenditori di 'ndrangheta, camorra e Cosa nostra. E' il caso di Renato Grasso e Antonio Padovani, che per diversi anni hanno saldato interessi di clan campani e siciliani nella grande arena del gioco. Oppure di Nicola Femia,  'ndranghetista che ha rifornito di macchinette le bische modenesi dei Casalesi e dei circoli del clan Sarno di Ponticelli. E in Emilia Romagna alcuni pentiti hanno raccontato del patto tra boss casertani e 'ndrine crotonesi: province divise in zone d'influenza, a Reggio Emilia la 'ndrangheta, a Modena la camorra. Si coordinano senza pestarsi i piedi: il piombo è il peggior nemico del business, il silenzio il miglior alleato.

VATTI A FIDARE. GIUSTIZIA, LEGALITA' E LOTTA ALLA MAFIA: ROSSA O BIANCA.

DALLE TOGHE DEI LEGULEI ROSSE A QUELLE BIANCHE, DALLE TONACHE DEI PRETI ROSSE A QUELLE BIANCHE, DALLE AULE DEI "MASTRI" O "PROF" ROSSE A QUELLE BIANCHE.

DALLE TOGHE DEI LEGULEI ROSSE A QUELLE BIANCHE.......

Desirèe Di Geronimo vittima dei corvi o della politica? Alta tensione, chi tocca i fili muore; in sostanza, quando si mettono le mani su vicende che scottano e che hanno tutta l’aria di essere poco pulite, succede che si rischia di turbare certi equilibri tra politica e malaffare. I giornali esprimono differenti opinioni sul comportamento del sostituto procuratore della Repubblica che ha avuto l’ardire di osare di dubitare della buona fede di personaggi legati al Presidente della Giunta Regionale, il comunista Nicola Vendola. La Di Geronimo, da inquirente a inquisita e questo su sollecitazione di togati di “area” per punire la loro collega, rea di aver espresso perplessità sul comportamento del giudice barese Susanna De Felice che aveva assolto Vendola. Al Tribunale di Bari comandano forse i togati di “area”? Significa che sono politicamente schierati? Sarebbe questa la Giustizia uguale per tutti? E il CSM non è anche espressione della politica? Il pesce come si è soliti dire, puzza dalla testa, e se nei tribunali tra corvi e  veleni si è scatenata una rivolta, i cittadini possono ancora credere in una Giustizia giusta a due binari? Il Parlamento deve urgentemente predisporre una commissione d’inchiesta finalizzata a riportare serenità tra i magistrati il cui compito è quello di essere imparziale e di non ritenersi padroni di vita e di morte. E’ urgente la riforma della Giustizia e la separazione delle carriere. Basta con l’accanimento giudiziario nei confronti di nemici politici da eliminare. Abbiamo compreso poco nella vicenda Di Geronimo-Bretone contro Susanna De Felice difesa dai togati di “area”, ed avendo come motivo della contesa l’assoluzione di Vendola da una pesante accusa. Ricordo solo per la cronaca che in questi tempi recenti nel tribunale di Bari non si è respirata aria salubre. In attesa che le vicende si chiariscano esprimiamo la nostra convinta solidarietà alla Dott.ssa Desirèe Di Geronimo  autrice di tante inchieste coraggiose, scrive Lucio Marengo su Made in Italy.

La Pm che ha indagato sull’ex assessore alla Sanità della Regione Puglia Alberto Tedesco si sentiva isolata dai suoi stessi colleghi, scrivono Giovanni Longo e Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E oggi che a Lecce appare come parte offesa, è interessante leggere le dichiarazioni di Desirèe Digeronimo agli ispettori del ministero della Giustizia: gli stessi che hanno ritenuto «non sussistente» l’ipotesi di dissapori in Procura a Bari. E che l’accusano di non essersi astenuta, visti i suoi rapporti con una delle amiche più strette di Lea Cosentino, ex manager della Asl Bari indagata. Ma il procuratore di Lecce Motta e l’aggiunto De Donno la vedono in modo diverso, tanto da contestare al Pm Giuseppe Scelsi l’abuso d’ufficio: avrebbe intercettato Paola D’Aprile proprio per «incastrare» la Digeronimo. Il racconto parte nell’estate 2009, quando inizia un «bombardamento mediatico» anche nei suoi confronti: «Infuriava una campagna di stampa sulla vicenda Tarantini che mi preoccupò non poco per il clima di sovraesposizione, e ritenni pertanto opportuno (...) avvertire il procuratore delle intercettazioni tra il Tedesco e il fratello di Pino Scelsi, poiché emergeva dalla mia indagine un conflitto acceso tra i Tarantini e Tedesco, e che il dottor Michele Scelsi, fratello del collega, si lamentava con Tedesco di alcune scelte in materia sanitaria effettuate dalla Cosentino, all'epoca direttore generale dell'Asl Bari, indagata dal collega e da me unitamente al Tedesco». Dicevamo dell’isolamento. «Dall'estate del 2009 e sino a quando ho iniziato a collaborare con i colleghi Bretone e Quercia (...) sono stata completamente isolata dagli altri colleghi e pertanto, non ho avuto più rapporti con loro, come ad esempio con Scelsi, la Pirrelli, la Iodice, persone con le quali maggiormente mi confrontavo in merito a questioni lavorative, perché eravamo amici, anche per la comunanza correntizia («Magistratura democratica). A un certo punto ho capito che l'indagine sull'assessorato alla Sanità, che coinvolgeva il Tedesco, esponente del centrosinistra, verosimilmente aveva inciso sui miei rapporti con loro. Ho chiesto formalmente, anche a seguito di ciò, la cancellazione dalla mia corrente». E come esempio del clima la Digeronimo ricorda l’episodio in cui la collega Iodice le negò l’accesso ad alcune intercettazioni «con allegato il parere dei due procuratori aggiunti Drago e Di Napoli». «Molto spesso apprendevo dalla stampa dell'esistenza di elementi utili per le indagini in corso su Tedesco». E poi le intercettazioni della D’Aprile. Dopo una cena con la Gdf, Laudati «mi fece ascoltare la registrazione di una conversazione tra me e la D'Aprile e mi chiese di chiarire alcune circostanze rilevabili dal colloquio». E così in Procura cominciano i veleni: «Nella stessa circostanza in cui Laudati mi fece ascoltare la conversazione di cui sopra, mi disse, sempre informalmente, che Scelsi aveva diffuso in ufficio pettegolezzi sul mio conto dicendo che io e Marzano lo avevamo pressato per archiviare il procedimento a carico della Cosentino (...). Inoltre, gli evidenziai che la Cosentino era ancora indagata nel mio procedimento». Poi, dice la Digeronimo, ne parlò con Scelsi: «Gli dissi come mai gli era venuto in mente di mettere in giro voci del genere sul mio conto, prive del tutto di fondamento. Lui ha farfugliato che “si era dovuto difendere perché, dopo l'arrivo di Laudati, gli erano stati contestati errori nelle indagini”».

C'è la prova: le toghe rosse hanno in mano la politica. Fioroni rivela: l'Anm ha premuto perché ritirassi la candidatura in commissione Giustizia della Camera per far posto alla Ferranti. Poi le strane smentite, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. La legge del contrappasso colpisce l'Anm. Mentre protesta a gran voce contro il Pdl che «delegittima» i magistrati sulle vicende giudiziarie di Berlusconi, ecco che le scoppia in casa la bomba Fioroni. A dimostrazione delle sue logiche di potere e delle pretese di condizionare la politica. La nota dell'Anm critica le «espressioni violente e offensive, estranee a ogni legittimo esercizio del diritto di critica» contro i magistrati e richiama gli inviti di Giorgio Napolitano ad evitare conflitti. Nella stessa giornata Beppe rivela (ma poi in serata smentisce) di telefonate avute dal sindacato delle toghe per garantire un posto chiave in parlamento a un'esponente di Magistratura democratica: Donatella Ferranti, ex segretario generale del Csm. Nel caos che regna nel Pd sul dopo-Bersani, Fioroni doveva fare il presidente di commissione ma è costretto al passo indietro. «Mi hanno detto - racconta a Repubblica- o ci sei tu o c'è la Ferranti. Ha cominciato a chiamarmi l'Anm. "Non sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore, abbiamo bisogno della Ferranti alla Giustizia. Sa, con Nitto Palma al Senato...". E io ho risposto obbedisco ai magistrati, mica al Pd». Segue scambio di sms, sempre rivelato dall'esponente Pd, con il premier Enrico Letta che gli chiede se è «contrariato» e l'ex-Ppi che gli promette di contrariarlo sabato all'assemblea del partito. La storia suscita una sfilza di domande inquietanti. Perché dall'Anm chiamano un Pd per una questione di posti? Perché hanno bisogno della Ferranti in commissione Giustizia della Camera? Perché, poi, Fioroni dovrebbe «obbedire» ai magistrati? In serata arriva la smentita dell'ex ministro, ieri a colloquio, sembra, col Guardasigilli Cancellieri: «Tutte le ricostruzioni sono fantasiose e infondate. Nessuna associazione, tantomeno di magistrati, ha mai parlato con me, ho condiviso la presidenza della commissione Giustizia all'onorevole Ferranti». Anche l'Anm in serata smentisce: «Mai intervenuta per condizionare l'elezione del presidente della commissione Giustizia della Camera». Dietrofront a parte, sembra che la Ferranti pensasse di avere in tasca il sottosegretariato alla Giustizia e per lei sia stato un colpo vederselo scippare da Giuseppe Berretta. Tanto più che in quota Pdl è stato scelto Cosimo Ferri, leader della corrente d'opposizione all'Anm, Magistratura indipendente. Una nomina andata di traverso al sindacato delle toghe e contestata da Md. Come quella di Palma, presentata come uno scandalo. Tutto questo dimostra quanto l'Anm pretenda di essere forza politica, pur lanciando appelli all'indipendenza e autonomia della magistratura, e pretenda di condizionare le scelte del Palazzo. Collateralismo, lo chiamano. «Se fosse vero quello che dice Fioroni - commenta al Giornale Lorenzo Pontecorvo, vicepresidente di Mi e membro del direttivo dell'Anm - sarebbe molto grave. L'associazione dovrebbe occuparsi dello svolgimento dell'attività giudiziaria, non intromettersi nelle questioni della politica, tantomeno se si tratta delle commissioni Giustizia del parlamento». Il fatto è che l'Anm, guidata dal cartello di sinistra e da Unicost, vive una crisi storica. Rappresenta forse la metà dei 9mila magistrati, se gli iscritti sono ben sotto gli 8mila, 3mila votano Mi, 300 Proposta B e tanti non partecipano. La base è in subbuglio, insofferente per il correntismo e un vertice troppo orientato a sinistra che si preoccupa di politica e non di questioni sindacali, si moltiplicano i movimenti indipendenti e Mi, uscita vittoriosa dalle urne, si trova all'opposizione.

Altro che "toghe rosse": ecco la pattuglia di magistrati che difende Berlusconi. Sin dal 1994 il leader indiscusso del centrodestra accusa i pubblici ministeri "comunisti". Un articolo dell'Espresso racconta come al suo fianco in realtà ci sia una vera e propria pattuglia di magistrati. E' uno dei cavalli di battaglia di Silvio Berlusconi, e non certo da oggi. Sin dal 1994 il leader indiscusso del centrodestra accusa i pubblici ministeri 'comunisti'. Un articolo dell'Espresso racconta come al suo fianco in realtà ci sia una vera e propria pattuglia di magistrati di peso, scesa in campo con il centrodestra per salvare il Cavaliere da guai. Da Nitto Palma a Giacomo Caliendo. Dopo l'ultima tornata elettorale la pattuglia dei giudici diventati parlamentari si è dimezzata: tra Camera e Senato sono nove (cinque del Pd, tre del Pdl, uno di Scelta Civica), mentre erano diciassette nella precedente legislatura. Il partito di Berlusconi non ha mai smesso di portare in parlamento toghe di livello come l'ex ministro Francesco Nitto Palma e l'ex sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo, che sono stati appena rieletti al Senato. Caliendo si è messo in luce come teorico della riforma che punta a dimezzare le pene per il concorso esterno in associazione mafiosa: una leggina ribattezzata dai critici "salva-Dell'Utri" (e per ora accantonata) per il suo sicuro effetto di evitare la galera al manager fondatore di Forza Italia, ricondannato in appello a sette anni proprio per quel reato. Nel frattempo Nitto Palma, numero uno del Pdl in Campania, si è fatto notare prima per la scelta di visitare in carcere l'ex sottosegretario Nicola Cosentino, arrestato per camorra. Ancora più preziosi per Berlusconi, scrive il settimanale, sono quei magistrati che entrano nei palazzi come tecnici, come il giudice Augusta Iannini, chiamata dal 2001 a dirigere il ministero della Giustizia e ora nominata vicepresidente dell'Autorità garante della privacy. "Nemica" dei pm milanesi ha aperto un sito (augustaiannini.it) dove taccia di "maschilismo" chi la etichetta solo come moglie di Bruno Vespa e rivendica i suoi 35 anni di lavoro come "giudice imparziale". Il corteggiamento delle toghe ad Arcore, del resto, precede addirittura la nascita di Forza Italia. Correva l'anno 1993, quando Berlusconi riuscì a sfilare al pool Mani Pulite l'allora pm Tiziana Parenti: eletta dopo mille utilissime polemiche sulle tangenti rosse, ora fa l'avvocata ed è vicina al nuovo Psi. E dopo il trionfo di Forza Italia nel '94 perfino Di Pietro e Piercamillo Davigo si videro offrire poltrone da ministri nel primo governo Berlusconi, che tre mesi dopo, al culmine delle indagini sulla Fininvest, varò il famoso decreto Biondi (niente carcere per le tangenti).

Alla faccia delle toghe rosse, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Berlusconi accusa i pm 'comunisti' ma al suo fianco c'è una vera e propria pattuglia di magistrati di peso, scesa in campo con il centrodestra per salvare il Cavaliere da guai. Da Nitto Palma a Giacomo Caliendo. Toghe rosse? No, azzurre. Vent'anni di bombardamenti della propaganda berlusconiana su fantomatici complotti dei giudici al servizio dei comunisti (o viceversa) rischiano di far dimenticare il ruolo e l'importanza dei magistrati che sono invece scesi in campo con il centrodestra. Con le ultime elezioni la pattuglia dei giudici diventati parlamentari si è dimezzata: tra Camera e Senato, l'associazione Openpolis ne ha contati nove (cinque del Pd, tre del Pdl, uno di Scelta Civica), contro i diciassette della precedente legislatura. Eppure prima e dopo la campagna elettorale si è parlato moltissimo di loro. Non di tutti, però, solo di alcuni: da Piero Grasso, l'ex procuratore antimafia eletto presidente del Senato con il Pd, ad Antonio Ingroia, il pm di Palermo che dopo la bocciatura politica ora si oppone al trasferimento alla procura di Aosta. Ma anche il partito di Berlusconi non ha mai smesso di candidare e continua tutt'oggi a portare in parlamento toghe di grande esperienza come l'ex ministro Francesco Nitto Palma e l'ex sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo. Rieletti al Senato, hanno già sfornato disegni di legge assai contestati, soprattutto dai magistrati rimasti nei tribunali. Caliendo si è messo in luce come teorico della riforma che punta a dimezzare le pene per il concorso esterno in associazione mafiosa: una leggina ribattezzata dai critici "salva-Dell'Utri" (e per ora accantonata) per il suo sicuro effetto di evitare la galera al manager fondatore di Forza Italia, ricondannato in appello a sette anni proprio per quel reato. Nel frattempo Nitto Palma, numero uno del Pdl in Campania, si è fatto notare prima per la scelta di visitare in carcere l'ex sottosegretario Nicola Cosentino, arrestato per camorra, e poi per una raffica di progetti di legge (al momento nove, ma di altri sette è cofirmatario) che hanno fatto rumore: dal rilancio del condono per l'abusivismo edilizio, ai nuovi illeciti disciplinari a geometria variabile per colpire i pm ritenuti politicizzati. Il bello è che nessuno ha mai accusato loro, i due ex magistrati berlusconiani, di aver fatto politica con indagini e processi, nonostante la delicatezza dei tanti fascicoli trattati. Caliendo, napoletano d'origine, è stato per più di trent'anni giudice e sostituto procuratore generale a Milano e poi in Cassazione, diventando anche capocorrente al Csm: un magistrato ascoltatissimo dal centrodestra (grazie ai buoni rapporti con ex dc come Giuseppe Gargani) ancor prima di entrare in parlamento nel 2008. Mentre Nitto Palma è stato uno dei pm di punta della procura di Roma, prima di diventare amico di Cesare Previti (l'ex ministro oggi pregiudicato) e sbarcare in parlamento nel 2001, segnalandosi subito per un tentativo di resuscitare l'immunità parlamentare totale. Oggi è il presidente della commissione giustizia del Senato. Nel lustro 2008-2013, tra i magistrati in aspettativa perché eletti, il Pd ne schierava 9, il Pdl 7 e i centristi uno. Oggi alla Camera, stando alle autocertificazioni dei diretti interessati, resistono tre giudici, equamente divisi: Donatella Ferrante del Pd, Stefano Dambruoso di Scelta Civica, Ignazio Abrignani del Pdl. A ben guardare, però, quest'ultimo non è un magistrato, ma un avvocato civilista siciliano, fedele all'ex ministro Scajola, che faceva anche il giudice tributario. Al Senato invece il Pd batte il Pdl per quattro a due, con l'ex pm Felice Casson, Anna Finocchiaro, Doris Lo Moro e Piero Grasso, che peraltro si è dimesso dalla magistratura appena candidato. Le due toghe azzurre in compenso pesano molto: Caliendo e Nitto Palma sono tra i pochissimi in grado di influenzare la linea di Berlusconi sulla giustizia, tema tornato urgente dopo la condanna anche in appello per le maxi-frodi fiscali sui diritti tv di Mediaset. Preziosissimo, per il miliardario di Arcore, è anche il lavoro dei magistrati che entrano nei palazzi come tecnici. Tra i più in vista c'è il giudice romano in aspettativa Augusta Iannini, chiamata dal 2001 a dirigere il ministero della Giustizia e ora nominata vicepresidente dell'Autorità garante della privacy. Da sempre ostile ai pm milanesi, per replicare a una puntata di "Report" ha aperto un sito (augustaiannini.it) dove taccia di «maschilismo» chi la etichetta come «moglie di Bruno Vespa» e rivendica i suoi 35 anni di lavoro, portati benissimo, come «giudice imparziale». Qualità dimostrata, per altro, già ai tempi di Tangentopoli, quando chiese di astenersi sulla richiesta di arresto per Gianni Letta e Adriano Galliani, spiegando: «Siamo amici di famiglia». Ora, nel governissimo di Enrico Letta, brilla la stella di Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia e capocorrente di Magistratura Indipendente, capace di farsi eleggere al Csm da ben 553 magistrati benché chiacchierato (ma non indagato) per le intercettazioni di Calciopoli, del caso Santoro-Mills e della cosiddetta P3. Con la nuova legislatura, intanto, il centrosinistra ha detto addio a ex magistrati del livello di Gerardo D'Ambrosio, l'ex procuratore Silvia Della Monica o il giudice-scrittore Gianrico Carofiglio, senza contare gli ex pm che avevano lasciato la toga più di vent'anni fa, come Antonio Di Pietro o Luciano Violante. Ma anche il centrodestra ha rinunciato a ex magistrati di governo come Franco Frattini e Alfredo Mantovano, avvicinatisi a Monti e non ricandidati. Per non parlare di uomini di legge come Melchiorre Cirami, l'ex giudice di Agrigento entrato in Parlamento nel '96 con l'Udc, passato nel '98 al centrosinistra con l'Udeur e rieletto nel 2001 con il centrodestra dopo il patto Cuffaro-Berlusconi: portano ancora il suo nome la versione originale del "legittimo sospetto" (per fermare i processi, bastava chiederne il trasferimento) e il comma "super-513" (per annientare i verbali d'accusa, bastava far tacere il complice), subito dichiarato incostituzionale. La fede nel Grande Sud del sottosegretario Gianfranco Miccichè (meno dell'1 per cento a Siracusa) ha tradito anche Roberto Centaro, altra toga azzurra in missione parlamentare dal 1996 al 2013: un presidente della commissione antimafia capace di polemizzare con tutte le procure, oltre che relatore della legge-bavaglio contro le intercettazioni. Incolmabile, poi, il vuoto lasciato da Alfonso Papa, ex pm di Napoli e Roma eletto nel 2008 con il Pdl: nel 2011 è diventato il primo parlamentare, dai tempi dell'esplosivista missino Massimo Abbatangelo, a entrare in carcere perdendo l'immunità. Tornato libero, Papa ha chiesto di riprendere il lavoro di magistrato, ma per ora resta imputato: in teoria dovrebbe preoccuparlo la condanna patteggiata dal suo coindagato, il piduista per sempre Luigi Bisignani, ma a suo favore gioca ancora il privilegio politico che gli ha garantito la distruzione delle prove più insidiose, le famigerate intercettazioni. Il corteggiamento delle toghe ad Arcore, del resto, precede addirittura la nascita di Forza Italia. Correva l'anno 1993, quando Berlusconi riuscì a sfilare al pool Mani Pulite l'allora pm Tiziana Parenti: eletta dopo mille utilissime polemiche sulle tangenti rosse, ora fa l'avvocata ed è vicina al nuovo Psi. E dopo il trionfo di Forza Italia nel '94 perfino Di Pietro e Piercamillo Davigo si videro offrire poltrone da ministri nel primo governo Berlusconi, che tre mesi dopo, al culmine delle indagini sulla Fininvest, varò il famoso decreto Biondi (niente carcere per le tangenti). Da allora Berlusconi gioca soprattutto in difesa: oggi il Pdl schiera 17 avvocati al Senato e 21 alla Camera. Ma su questo fronte il Pd post-giustizialista non teme i rivali-alleati: ha 9 legali tra i senatori e 37 tra i deputati. In totale nel nuovo parlamento, secondo i dati di Openpolis, si contano ben 105 avvocati, che a differenza dei magistrati possono continuare a fare processi (e incassare parcelle dai clienti) anche mentre hanno il potere di cambiare le leggi.

DALLE TONACHE DEI PRETI ROSSE A QUELLE BIANCHE.......

Dalle toghe rosse ai preti rossi, la litanìa è sempre la stessa: una canzone mono-nota, scrive Girolamo Fragalà su “Il Secolo d’Italia”. Dalle toghe rosse alle tonache rosse. Le pecorelle non sono tutte uguali, la carità cristiana è lasciata ai posteri (e non per l’ardua sentenza), del perdono manco a parlarne, si prega solo per alcune anime e si spera che le altre vadano dritte all’inferno, avvolte nelle fiamme. Di preti che si mettono in mostra per la loro fede più comunista che cattolica ne stanno uscendo parecchi. Militanti col pugno chiuso e poco moderati. L’ultimo in ordine cronologico è don Paolo Farinella, sacerdote della Diocesi di Genova, che è stato ospite del programma di Radio2 Un giorno da pecora. Contro chi si è scagliato? Naturalmente contro Berlusconi che «fa soldi solo con la corruzione e se ne frega della fede». Roba quasi da querela. Come se non bastasse, il “don” ha aggiunto: «Se lui non fosse così vigliacco da scappare dai tribunali e venisse fuori che è colpevole, deve andare dentro». Il tutto mentre continuano a girare a mille, sul web, le performance di don Gallo, sacerdote antagonista, fede vendoliana. Record di visualizzazioni per il video in cui si vede il prete, nella Chiesa di San Benedetto a Genova, sventolare il paramento sacro che aveva sulla tonaca come se fosse una bandiera rossa e cantare Bella Ciao. La gustosa scena è avvenuta alla fine della Messa, davanti ai fedeli. Don Gallo nel 2009 partecipò al Genova Pride e ultimamente ha dichiarato che «sarebbe magnifico avere un Papa gay». Facendo un piccolo salto indietro, ricordiamo don Giorgio, il parroco di Monte di Rovagnate, che creò un mare di polemiche per una sua frase («prego il Padreterno che mandi un bell’ictus a Berlusconi facendolo rimanere secco») che nulla aveva di cattolico. Tutti “figli” di don Vitaliano, che tutti ricordano come il prete no-global: insieme con Vittorio Agnoletto (ex parlamentare di Rifondazione comunista) piombò nella sala stampa del Festival di Sanremo munito di bandiere pacifiste. Tra chi insulta,  chi augura gli ictus e chi canta Bella Ciao sull’altare, l’unica vera vittima è la Chiesa. Che finisce per perdere credibilità a causa delle tonache rosse. Proprio ciò che sta accadendo alla magistratura a causa delle toghe rosse.

E poi ti ritrovi l'estemporaneo vescovo di provincia.

Mafiosi, niente funerali religiosi. Niente funerali in chiesa nella Diocesi di Acireale, in provincia di Catania, per chi è stato condannato in via definitiva per reati di mafia e non ha mostrato pentimento prima di morire. Lo ha stabilito il vescovo di Acireale (Catania), Mons. Antonino Raspanti, che ha promulgato un «decreto di privazione delle esequie ecclesiastiche per chi è stato condannato per reati di mafia in via definitiva». Il decreto è stato illustrato dallo stesso prelato nella chiesa di San Rocco, ad Acireale, durante un incontro dal titolo «Conversazioni sulla legalità», al quale hanno preso parte il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri e il Procuratore della Repubblica a Catania Giovanni Salvi. «Questo decreto è nella tradizione di tutto quello che la Chiesa siciliana, i miei confratelli vescovi, anche quella italiana, già da parecchi decenni hanno fatto, lavorando e sensibilizzando di concerto con la società civile, anche con non credenti della società civile», ha spiegato monsignor Raspanti. «Io ho voluto solo mettere - ha aggiunto il vescovo - una conseguenza che è nella logica delle cose, non è una vera e propria innovazione di ciò che la Chiesa ha pensato negli ultimi decenni». «Probabilmente l'applicazione in questo territorio è un po' più innovativa, ma io non voglio enfatizzare, pero» è un segnale netto, fermo, certo, perché vorrei che ci fosse una netta distinzione e chiarezza tra chi appartiene ad una organizzazione e chi appartiene alla Chiesa: le due cose sono inconciliabili, questo e il senso''. «Vorrei che la sensibilità nostra , di tutti, nei confronti di questi fenomeni si alzasse di molto - ha concluso Mons. Raspanti - e desidererei anche che chi aderisce a queste organizzazioni ci riflettesse meglio e potesse, come dicono Gesù e il Papa, convertirsi, cioè cambiare. Questo provvedimento è fatto solo per tentare che qualcuno cambi. E allora tutti miglioriamo».

No alla Chiesa che vieta i funerali di un mafioso, no ai pentiti. Non sono le parole di un boss, ma di una vedova di boss. “Mi chiamo Rosa Pace e sono la vedova di Mariano Agate, ex detenuto del carcere di Viterbo sottoposto al regime del 41 bis, morto per un cancro dopo un’agonia a dir poco terribile il 3 aprile di quest’anno…”. Comincia in questo modo la lettera, il cui contenuto è stato reso noto dal sito Live Sicilia. La vedova del boss mafioso Mariano Agate ha voluto protestare contro il vescovo di Mazara, monsignor Domenico Mogavero, che ha vietato anche le esequie private, dopo che il questore aveva vietato quelle pubbliche.

Era un potente Mariano Agate, “il signore del male” come lo hanno definito in tanti, “socio” dell’”Escobar” calabrese Roberto Pannunzi, custode della latitanza di Totò Riina, massone. Una strategia di potere costellata poi da delitti, omicidi eccellenti, stragi come quella di Capaci. Nel 1983 passeggiando per i corridoi del carcere di Trapani annunciò l’imminente omicidio del giudice Ciaccio Montalto, nel 1988 – imputato in Corte di Assise a Trapani – mandò a dire a Mauro Rostagno, che in tv a Trapani raccontava le sue gesta mafiose, di smetterla di “dire minchiate”. Mariano Agate, lui più di Matteo Messina Denaro, è stato “l’inventore” della mafia sommersa e della mafia che fa impresa e che però “sa sparare e sa mettere le bombe” quando è ora “di sparare e mettere le bombe”. La vedova del boss a cui sono stati negati i funerali religiosi scrive al vescovo Mogavero:

«Mi chiamo Rosa Pace e sono la vedova di Mariano Agate, ex detenuto del carcere di Viterbo sottoposto al regime del 41 bis, morto per un cancro dopo un’agonia a dir poco terribile il 3 aprile di quest’anno. Mio marito è stato destinatario, in nome della Chiesa cattolica, di un singolare trattamento a mezzo del suo rappresentante territoriale e Vescovo di Mazara del Vallo Monsignor Mogavero, il quale, pur conscio che Mariano Agate era spirato dopo aver chiesto di avere contatto con il SIGNORE a mezzo di un sacerdote e di accettare, volere e ricevere l’estrema unzione, ha ugualmente vietato che la salma venisse portata all’interno di una Chiesa, pur non opponendosi alla celebrazione in epoca successiva ad una Messa di suffragio. A seguito di una facile ed univoca interpretazione dei fatti, non posso non essere indotta a concludere che Mons. Mogavero, incurante della manifestazione di fede da parte di mio marito ed incurante della sofferenza che avrebbe inferto a me ad ai miei figli senza un motivo che potesse giustificare il comportamento medesimo nel rispetto degli insegnamenti della Chiesa Cattolica, abbia voluto adempiere ad una particolare esigenza di lancio di un improprio messaggio mediatico e giustizialista, non potendo conseguentemente escludersi che Monsignor Mogavero attendesse un evento del genere, per poter aver a disposizione una tribuna politico-mediatica dalla quale fare propaganda giustizialista, facendo di me e la mia famiglia carne da macello. E’ indubbio che Mons. Mogavero, con il comportamento da me descritto e facilmente riscontrabile non ha sentito la necessità di esercitare il ruolo di Pastore di Anime, e di seguire anche solo in parte i mirabili comportamenti manifestati da giusti Rappresentati della Chiesa, qual deve essere considerato, tra i diversi, Padre Puglisi, che ha veramente dedicato la propria vita alla fede ed ai fedeli. A questo punto, è esagerato dire che Monsignor Mogavero abbia mostrato di privilegiare l’apparire al sentire religioso! Assurdo e per niente cristiano giustificare il divieto dei funerali per persone condannate per reati di associazione mafiosa che non abbiano mai manifestato alcun cenno di pentimento. Mi chiedo cosa ci sia di più intimo del pentimento dell'essere umano; (dolore, rammarico rimorso per aver fatto delle scelte in violazioni di norme giuridiche, religiose e o morali). Essere un collaboratore di giustizia non è e non sarà mai condizione necessaria del pentimento morale o religioso di qualsiasi uomo, detenuto, criminale. La collaborazione con la giustizia è solo un mero strumento necessario ai nostri magistrati per la lotta alla mafia ed alla criminalità organizzata.»

Come la mettiamo con il perdono? È questa la domanda ricorrente di chi lo ha letto. E ancora: come coniugare il perdono dell’errante e la condanna dell’errore con l’iniziativa della diocesi di Acireale di negare i funerali ad un condannato per mafia espresso chiaramente in un documento ufficiale? Insomma, una gran bella questione, dove ci si sente tirati da questa parte o dall’altra, in un ondeggiare anche di sentimenti che scuote, nel profondo, l’animo umano e non consente risposte univoche o scontate. Come non essere d’accordo sul rifiuto della Chiesa di celebrare il funerale in Chiesa per chi si è macchiato di efferati delitti? Ma nel contempo come non pensare alla dimensione del perdono e della misericordia? Avvertiamo disagio di fronte a queste posizioni e non è facile individuare un sentire comune.

E come discernere tra mafiosi palesati e palesanti e mafiosi istituzionali che, mafiosando, in più abusano dei loro poteri, con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri?

Il parroco anti camorra sconfessa il pm Woodcock. Don Merola in radio attacca la toga dell'inchiesta Cosentino: "Leggendo gli atti non ho trovato prove per dire che è un camorrista. Immorale che sia in prigione". Francesco Cramer  su “Il Giornale”. Il prete anticamorra benedice Berlusconi e Cosentino e sconsacra il pm Woodcock. È un fiume in piena don Luigi Merola, sacerdote, scrittore, cavaliere della Repubblica, una vita in trincea contro i clan dei vicoli campani. Microfono in mano, a La Zanzara su Radio 24, parla di politica. E parla chiaro: «Berlusconi? È un perseguitato, i magistrati lo perseguitano tanto». La sua è un'omelia politicamente scorretta ma genuina, specie quando parla delle toghe: «Lo perseguitano come hanno fatto con Mastella - dice il prete -. Alcuni magistrati sono politicizzati e ignoranti, devono leggere e studiare di più. Ci vuole la formazione permanente dopo il concorso». Parole sante anche se difficilmente Anm e Csm sarebbero disposti a fare mea culpa. Poi ci si aspetta che, da prete, arrivi la scomunica per lo stile di vita del Cavaliere. Ma don Merola è tutto fuorché un ipocrita: «Berlusconi - ragiona - è un peccatore come tanti altri. Sono stato a Roma tre anni per lavorare al ministero dell'Istruzione e dico che quello che fa Berlusconi lo fanno tutti, politici di sinistra e di destra, alti funzionari e magistrati. Tutta gente che ha la seconda, la terza e la quarta amante da cui si fanno accompagnare con l'auto blu. Farò nomi e cognomi». E ancora, per l'ex premier arriva il segno della croce: «Berlusconi lo assolvo per il fatto che fa mangiare 80mila famiglie in Italia. Lo perdono con l'assoluzione per qualsiasi cosa abbia fatto». Una vita a raccattare gli ultimi alla stazione centrale di Napoli; una quotidiana battaglia contro l'usura e contro i clan; una guerra aperta alla criminalità organizzata tanto che in un'intercettazione un camorrista disse: «Lo ammazzerò sull'altare». Don Merola la malavita la conosce bene. La tiene sotto controllo, la combatte, la studia. E studia le carte processuali. Tutte. Senza lenti ideologiche. Ecco perché, quando gli chiedono del conterraneo Nicola Cosentino, ex sottosegretario pidiellino diventato simbolo degli impresentabili, don Merola anche questa volta spiazza tutti: «Leggendo gli atti che riguardano Cosentino, mi sono fatto l'idea che non ci sono le prove per dire che è camorrista e per stare in carcere». E quindi «è immorale e ingiusto che sia in prigione, non può inquinare le prove perché si è costituito e il procedimento è chiuso». Naturalmente il sacerdote non può non parlare anche di Henry John Woodcock, uno dei pm titolari dell'inchiesta: «Woodcock lo considero di estrema sinistra, ho saputo che è diventato magistrato dopo due bocciature al concorso. Come prete vengo a sapere tante cose, Woodcock potrà essere preparato sullo sport ma sul diritto deve studiare un po' di più». Prete di strada, don Merola è solito dire pane al pane e vino al vino. Chiama le cose con il loro nome. E per questo è stato inviso alla sinistra. Sul sindaco di Napoli, per esempio, era stato tranchant: «De Magistris a Napoli ha fatto due cose: ha chiuso il centro storico e fatto la pista ciclopedonale, manco fossimo nella Pianura padana. Ma purtroppo non ascolta nessuno. Noi napoletani non sappiamo a che santo dobbiamo votarci, ma saremo proprio noi, alla fine che salveremo Napoli». E non aveva risparmiato neppure Grillo: «Non lo capisco: è un fenomeno tutto italiano. Come si fa a non avere nessun rispetto delle istituzioni, come si fa a dire arrendetevi a chi rappresenta l'Italia? Vogliamo costruire qualcosa o soltanto opporci?». Amico di Caldoro e di Francesco Nitto Palma, don Merola era stato in predicato di diventare parlamentare con la casacca del Pdl. Era pure stato a palazzo Grazioli per un'ora di colloquio con Berlusconi. «Mi ha offerto un seggio per portare avanti le mie battaglie. Ma poi ho detto di no vedendo le liste». Al suo niet fu subito corteggiato da Luca Cordero di Montezemolo ma anche a lui disse niet. E spiegò: «È inutile discutere sul Cosentino sì o Cosentino no. La colpa è del porcellum. Se i cittadini potessero scegliere direttamente questo non succederebbe, invece a scegliere sono i segretari dei partiti».

E che dire di Don Gallo che durante le sue funzioni religiose in chiesa cantava "Bella Ciao" con l'apoteosi rossa ai suoi funerali.

Dopo i porno-funerali di Gallo, autopsia di una Chiesa suicida, nella persona di Bagnasco Angelo, scrive  Don Ariel S. Levi di Gualdo su “PapalePapale”.

Durante il funerale:

“Bandiera rossa la trionferà…”. Ormai ci riesce solo nelle chiese cattoliche.

Preti, vestiti come fosse carnevale, vanno ai funerali di don Gallo.

Pure i comunisti sfottono il presidente dei vescovi italiani.

La segretaria di don Gallo interrompe l’omelia di Bagnasco, già interrotta dai cori di Bella Ciao e Bandiera rossa in chiesa.

Il funerale di don Gallo è diventato possibilità di “comizio” per tutti.

La demagogia clericale di don Ciotti sale sul pulpito.

E Luxuria parlò…

Tutti a rendere omaggio a don Gallo. Ma il fumo di un sigaro sostituisce l’incenso.

Bagnasco e la scena che ha fatto il giro del web: Comunione a Luxuria.

L’abominio della desolazione: le chiese ridotte a discarica abusiva del monnezzaio ideologico del mondo.

L’abominio della desolazione.

«LA SFIDA DELL’OBBEDIENZA NELLA FEDE: PER UN PRETE, PROTEGGERE UN VESCOVO, VUOL DIRE TUTELARE LA CONTINUITÀ STESSA DEL MISTERO SACRAMENTALE DELLA CHIESA.

Non nascondo disagio all’idea che Angelo Bagnasco sia il presidente di quei Vescovi d’Italia che a loro volta sono vescovi nostri. Rendendo però grazie ai doni dello Spirito Santo che molti sacerdoti hanno accolto veramente all’atto sacramentale della loro ordinazione, la nostra grazia di stato ci permette di separare l’uomo dall’ufficio apostolico che è chiamato a ricoprire, accettando e facendo nostra la sfida che spesso si pone dinanzi a noi: obbedire in coscienza e libertà anche le diverse mezze figure che popolano il collegio episcopale, nelle quali risiede il deposito della pienezza del sacerdozio apostolico e per questo meritevoli di sacro rispetto, non per ciò che umanamente sono, ma per ciò che rappresentano sul piano metafisico per l’ineffabile ministero sacerdotale istituito dal Signore Gesù. Ciò rende anche i vescovi più limitati e inadeguati dei legittimi continuatori della catena apostolica e come tali oggetto di dovuta venerazione, all’occorrenza anche di protezione; dovesse costare la nostra stessa vita, perché per un prete, proteggere un vescovo, vuol dire tutelare la continuità stessa del mistero sacramentale della Chiesa.

ANDREA GALLO: UNA PUBBLICA VERGOGNA DEL SACERDOZIO CHE HA SPOSATO TUTTO CIÒ CHE ERA IN CONFLITTO CON LA MORALE LA TEOLOGIA E LA DOTTRINA DELLA CHIESA

Il 22 maggio 2013, ricevendo notizia della morte del presbitero genovese Andrea Gallo, scrivendo su un pubblico forum di discussione informai amici e conoscenti che il giorno dopo avrei celebrato una Santa Messa di suffragio per lui, senza omettere di indicarlo appresso come una autentica vergogna del collegio sacerdotale. Andrea Gallo ha trascorso la vita a sposare e sostenere tutto ciò che è in aperto conflitto con la teologia, la morale e la dottrina sociale della Chiesa, ma soprattutto in aperto conflitto col Vangelo. Che egli abbia assistito i poveri e i disagiati, non fa di lui né un vero cristiano né un vero annunciatore del Vangelo. Se difatti così fosse, ogni filantropo ateo potrebbe costituire un modello di cristiano ideale, o come avrebbe detto quell’altro intoccabile seminatore di confusione di Karl Rahner: un “cristiano anonimo”. Alla santità e alla saggezza del padre della Rerum Novarum, il Sommo Pontefice Leone XIII che dette con essa vita alla Dottrina Sociale della Chiesa, Andrea Gallo ha preferito Hegel e Marx. Tutto ciò che la Chiesa dichiarava moralmente illecito lui lo dichiarava lecito, sempre e di rigore con critiche per nulla larvate, mirate non verso certe note aberrazioni dei clericali e del clericalismo, ma con critiche spesso accese e distruttive verso il magistero della Chiesa e dei suoi Sommi Pontefici, la dottrina e l’etica cattolica. E’ stato un elemento di scandalo e soprattutto di divisione il povero Andrea Gallo, basti pensare quando al termine di una Santa Messa cantò “Bella Ciao” sventolando un fazzoletto rosso.

PER NOI PRETI NON ESISTONO FASCISTI E COMUNISTI MA SOLO UOMINI E FIGLI DI DIO, NOSTRO DOVERE È ACCOGLIERE TUTTI COLORO CHE DESIDERANO ACCOGLIERE CRISTO

Come sacerdoti noi dobbiamo accogliere tutti coloro che intendono veramente accogliere Cristo, cosa che molti nostri confratelli hanno fatto in periodi drammatici della nostra storia patria italiana. Molti preti hanno accolto — alcuni pagando persino con la vita — l’accoglienza e la protezione data ai partigiani rossi mossi da ideali comunisti e ai partigiani bianchi d’ispirazione cattolico-popolare e liberale. Abbiamo accolto e nascosto i giovani socialisti ricercati dalla polizia fascista direttamente dentro il palazzo di San Giovanni in Laterano, sede del Vescovo di Roma. Allo stesso modo abbiamo accolto i giovani fascisti e i giovani della Repubblica di Salò, quando all’apertura dei conti rischiavano il massacro da parte di coloro che per vent’anni avevano subìto le angherie del regime fascista. Per i santi preti che grazie a Dio l’Italia ha conosciuto in anni purtroppo ormai lontani, erano da proteggere dall’ira i ventenni manganellati dai fascisti e i ventenni diventati repubblichini di Salò che alla caduta del regime e dopo l’uccisione di Benito Mussolini rischiavano più o meno analoga fine. Questo è il prete, questo è il sacerdozio. Non dovrei spiegarlo io al Presidente dei Vescovi d’Italia, che noi siamo servi istituiti a servizio della Chiesa di Cristo e dell’uomo, di ogni uomo, per la salvezza dell’uomo. Il presbitero Andrea Gallo è stato un paradigma di prete ideologizzato a servizio dell’ideologia, che per propria natura è escludente; che non guarda all’uomo ma al “credo” politico al quale appartiene o dice di appartenere l’uomo. E avere usato il pretesto del Vangelo per simili scopi, è di per sé cosa malvagia e perversa. Nonostante che le autorità ecclesiastiche abbiano scelto di cedere all’immagine mediatica e di soprassedere su tutto questo, camuffandosi dietro al dito medio di una non meglio precisata misericordia e carità, basate l’una e l’altra — cosa sempre più dimenticata — sulla giustizia e sulla verità, all’occorrenza anche sulla giusta pena, come indica il Signore nel Vangelo.

ANDREA GALLO E LA MANCATA PERCEZIONE DELLA DIVINA DIGNITÀ SACERDOTALE: INDOMITO E IMPUNITO HA TRASCORSO LA VITA A DIVIDERE ANZICHÉ A UNIRE, FACENDO USO DISTORTO DEL VANGELO PER SUPPORTARE L’IDEOLOGIA MARXISTA, IL TUTTO SOTTO GLI OCCHI DELL’AUTORITÀ ECCLESIASTICA IMPOTENTE

Della verità noi siamo servi e non padroni: «Tu non possiedi la Verità, è la Verità che possiede te» [Cf. S. Tommaso d’Aquino, De Veritate, 1257]. Sia chiaro: la grazia, la misericordia e il perdono di Dio costituiscono tutti assieme un mistero che valica di molto ogni giudizio umano, che di rigore non va dato perché non spetta all’uomo giudicare la coscienza dell’uomo. Compito nostro non è condannare con l’arrogante spirito di chi si sostituisce al giudizio di Dio pensando di poter leggere dentro l’intimo delle coscienze altrui. Compito e dovere nostro è indicare sempre con decisa amorevolezza al Popolo di Dio ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è lecito e ciò che invece è disordinato o intrinsecamente malvagio. La Chiesa mater et magistra [Cf. Giovanni XXIII, 15 maggio 1961] ci indica e ci insegna da sempre in che modo si può giungere alla beatitudine celeste e in qual altro si può correre il serio rischio di compromettere l’eterna salute della nostra anima. Perché Dio è «Lento all’ira e grande nell’amore» [Salmo 144 (145)]. Essere lenti all’ira non vuol dire però essere privi di ira divina, come narra il racconto della distruzione di Sodoma e Gomorra [Ge 18:16-22], così particolarmente azzeccato nello specifico contesto in questione. Nella sua vita pubblica Andrea Gallo ha vissuto, predicato e ubbidito la Chiesa sua sposa e i vescovi che reggono le membra del Corpo Mistico del Cristo, in modo conforme al Vangelo? Il tutto nella gravosa misura alla quale sono chiamati in responsabilità coloro che partecipano non solo al sacerdozio regale di Cristo come battezzati, ma coloro che sono chiamati col sacro ordine a partecipare per mistero di grazia al sacerdozio ministeriale di Cristo? Era chiaro — od era stato in qualche modo chiarito ad Andrea Gallo —, che noi sacerdoti abbiamo una dignità superiore a quella degli Angeli [Cf. S. Tommaso d’Aquino, cf. 3 p., q. 22, art. 1] essendo chiamati a celebrare il Sacrificio Eucaristico, memoriale vivo e santo di Dio incarnato, morto e risorto? Oltre alle opere dei sociologi comunisti, Andrea Gallo ha letto qualche libro di teologia o di patristica in vita sua? A parte l’Arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco e i suoi eminenti predecessori Dionigi Tettamanzi e Tarcisio Bertone, questo prete ha avuto qualche vera e autorevole figura episcopale e qualche buon formatore che gli spiegasse con le parole di San Gregorio Nazianzeno che «Il sacerdozio è venerato anche dagli Angeli»? [cf. Sermo 26 de Sanct. Petr.]. E del sacerdozio, che a lui come a tutti noi è stato dato solo in comodato d’uso, non per nostro merito ma per servire la Chiesa e il Popolo di Dio, nel concreto, che cosa ne ha fatto Andrea Gallo, sotto gli occhi di tutti, pubblicamente, per anni e anni? Di questo prete che ha trascorso la propria esistenza in modo alquanto confuso, tutti abbiamo sempre vivo il ricordo umiliante e imbarazzante di un ideologo e di un demagogo che ha concorso a dividere anziché unire, facendo uso distorto del Vangelo per supportare la propria ideologia marxista, anziché usare il Vangelo per liberare se stesso e il Popolo di Dio dalle devastazioni che da sempre hanno prodotto le ideologie. Cosa questa che lui, nato nel 1928, quindi protagonista del Novecento, avrebbe dovuto sapere meglio di chiunque altro, circa i prezzi pagati dal mondo per le ideologie sia di destra che di sinistra.

LA VOLTA CHE VIDI I LIBRI DI ANDREA GALLO ESPOSTI NELLA VETRINA DELLA LIBRERIA INTERNA DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ LATERANENSE, SCRISSI AL CARDINALE  BAGNASCO E AL CARDINALE MAURO PIACENZA DICENDO CHE MI SPETTAVA DI DIRITTO DIVENTARE PREFETTO DELLA CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA E CHIESI DI PORTARE AVANTI LA MIA CANDIDATURA. SONO SEMPRE IN ATTESA DI UNA LORO RISPOSTA.

Non sono mai stato scandalizzato dalle stravaganze di Andrea Gallo, anche perché nel nostro clero si cela di più e di peggio. A scandalizzarmi è stato invece il suo vescovo e i suoi predecessori  che non hanno mai preso alcun provvedimento verso di lui. Mai sono state applicate le sanzioni canoniche a carico di questo chierico che i canoni li ha violati tutti, assieme alle regole più basilari del cristiano e sacerdotale buon comportamento. E parlando del suo vescovo, non parliamo di un vescovo qualsiasi, ma del presidente dei Vescovi d’Italia. Pertanto, il vero errore — invero gravissimo — lo ha commesso l’Arcivescovo Metropolita di Genova, al quale tempo fa inviai una lettera che qui metto a disposizione di chiunque voglia leggere e per la quale non ho mai ricevuto risposta. Capisco che per essere degnati di attenzione da un cardinale, di questi tempi bisogna essere un rabbino ebreo o un imam mussulmano, perché in tal caso le risposte giungono subito, amabili, ecumeniche e interreligiose. Il senso di quella lettera è più che comprensibile: quando l’autorità è completamente priva di quella evangelica e cattolica autorevolezza che di fatto la priva di ogni credibilità, non resta altro che la pacata e rispettosa presa di giro. Quelle prese di giro alla San Filippo Neri, per intendersi, profondamente cattoliche e rammaricate, quanto più sono ironiche nella forma. La vera e profonda vergogna sta nel fatto che l’Arcivescovo Metropolita di Genova si sia esposto e abbia esposto la Chiesa italiana al ridicolo, dato il particolare ufficio da lui ricoperto nell’assemblea dei Vescovi d’Italia. Il vergognoso e indignitoso teatrino di quei funerali ha offeso la Chiesa, la sua dottrina cattolica e la dignità dei veri credenti. Una sconcia passerella di gay, transessuali, anticlericali, comunisti irriducibili ideologizzati sino al midollo e aggressivi scapestrati dei centri sociali che hanno egemonizzato la triste scena, cosa peraltro facilmente prevedibile e che proprio per questo andava prudentemente evitata. Una sfilata di tutto ciò che non è, ma che soprattutto esige in modo deciso e spesso anche violento di non essere cattolico.

IL CABARETTISTA EBREO MONI OVADIA CI HA REGALATO DUE PERLE DI DOGMATICA TRINITARIA: «ANDREA RIUSCIVA A ESSERE UNO E TRINO»

“Stupendo” il commiato del cabarettista ebreo Moni Ovadia, agnostico dichiarato e orgoglioso che non crede nella religione propria e tanto meno in quella degli altri. Un Ovadia affetto da evidenti corti circuiti psicoanalitici dati dal fatto che da una parte si proclama agnostico e dall’altra mangia cibo kasher, anzi glatt kosher. Grottesco oltre ogni limite, quando riferendosi al defunto ci ha rassicurato: «Sono ebreo e agnostico ma secondo me il Gallo risorge». Da questo guitto che gioca a fare l’aschenazita e che per i rabbini ortodossi è come fumo agli occhi, mentre per diversi amici miei che sono ebrei osservanti costituisce da sempre pessimo esempio di israelita che cavalcando la moda ebraica ha trovato solo modo per fare soldi, ci siamo dovuti sorbire anche una “lezione” di dogmatica trinitaria: «Andrea» — ha detto l’Ovadia con demenziale serietà — «riusciva a essere uno e trino».

L’OLIO DI VASELINA DELL’OSSERVATORE ROMANO, L’UNTUOSITÀ DELL’AVVENIRE, LO SCIVOLOSO COMMIATO DI RADIO VATICANA DEDICATO AD ANDREA GALLO

La vera vergogna è stato tutto ciò che di ovattato, di untuoso e di cosparso d’olio di vaselina hanno scritto l’Osservatore Romano diretto da Giovanni Maria Vian e l’Avvenire diretto da Marco Tarquinio, che sul giornale dei Vescovi d’Italia lascia pontificare quel piccolo eresiarca di Enzo Bianchi, impendendo al tempo stesso a un nostro stimatissimo confratello, l’eminente teologo e filosofo metafisico Antonio Livi, di contraddirlo pacatamente e d’indicare l’ovvio: quella di Enzo Bianchi non è teologia cattolica, anzi può essere ed è — aggiungo io — autentico veleno, specie per le giovani menti. In particolare per coloro che si stanno formando al sacerdozio e che solo certi nostri vescovi ormai fuori dalla grazia di Dio possono mandare a fare i ritiri spirituali nella comunità cattoprotestante di Bose prima di impartire loro i sacri ordini. Per non parlare poi dello scivoloso commiato di Radio Vaticana. Siamo davvero al capovolgimento …… questa somma di vergogne si edificano su una tragica realtà: viviamo in una Chiesa ridotta ormai alla totale inversione, dove il bene diventa male e il male bene, l’eterodossia ortodossia e l’ortodossia eterodossia da condannare e da perseguitare. Per questo assieme alla mia lettera del 18 aprile rimasta senza risposta, inviai in omaggio ad Angelo Bagnasco anche una copia del mio penultimo libro E Satana si fece Trino, dove illustro e analizzo questo processo di inversione ecclesiale. Sono certo e fiducioso che quando Sua Eminenza avrà imparato a leggere, quel libro forse lo leggerà. Quando avrà imparato a scrivere, mi risponderà come si conviene a un gentiluomo detto anche “Principe della Chiesa”. Infatti, lo spirito principesco, io non lo misuro sulla base dei titoli o di certe dignità onorifiche, per le quali sempre più preti e vescovi in carriera si venderebbero l’anima al diavolo. Lo misuro in base alla buona educazione e al devoto servizio reso alla Chiesa, in nome del quale spesso bisogna avere la forza di esibire i virili attributi per andare contro corrente e per prendersi la dolorosa responsabilità di non piacere alle masse. Per propria natura le masse sono quasi sempre brutte e irragionevoli, non piacque ad esse neppure il Signore Gesù. Tanto che alla domanda rivolta da Ponzio Pilato alla folla su chi dei due liberare, si levò deciso un terribile grido: «Libera Barabba!».

QUANDO UNA CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA PRESIEDUTA DA UN VESCOVO RISCHIA DI DIVENIRE UN AUTENTICO LUPANARE SACRILEGO NEL QUALE CRISTO È RIDOTTO A MENO DI UN PRETESTO PER DARE SFOGO ALL’EGO IDEOLOGICO DEGLI ERETICI IN PRIMA LINEA

Come sacerdote che vive la liturgia come un sacro mistero che appartiene alla Chiesa e non certo a me che ne sono solo servo devoto, non padrone o primo attore, ho vissuto come un vero colpo basso quella processione filmata di preti “trasgressivi … fuori dal coro … disobbedienti … progressivi … arcobalenisti … filocomunisti …” capitanati da quell’altro notorio squallore sociologico-demagogico di Luigi Ciotti, il cui commiato durante la sacra celebrazione è stato — come suo uso — una gazzarra di sociologia politica priva di teologia, priva di dottrina, intrisa di buoni pensieri sociali ai quali Cristo e il Vangelo fanno da sempre secondario contorto come cornice di tutt’altro quadro, nelle parole di quest’altro arruffapopoli. Che tristezza quelle sciarpette variopinte multicolore dei preti pacifondisti pronti sempre a fare a pezzi i loro confratelli legati alla sana ortodossia cattolica, indossate sopra ai camici al posto di sobrie e consone stole viola, come prevede il rito e la liturgia delle esequie funebri. Che squallore, quell’altra indecente vergogna del sacerdozio di Vitaliano Della Sala, prete filo-omosessualista formato no global, che ha dichiarato: «Quella di Don Gallo è la vera Chiesa». Quanta ignoranza cristologica e teologica, quanta pubblica eresia tollerata dal nostro debole e pavido episcopato italiano! Poveri preti fallimentari fabbricanti di fallimenti e di falliti ecclesiali, grotteschi residuati sessantottini da discarica appartenenti alla “religione” di un non meglio precisato “sociale”, alla “religione” dell’ideologia che nel primo come nel secondo caso finisce spesso per essere una religione senza Cristo Dio, che si serve all’occorrenza di Cristo ma, beninteso: come uomo sociale, come “grande rivoluzionario liberatore”, non come il Verbo Incarnato proclamato e annunciato nel prologo giovanneo [Cf. Gv. 1,1].

DINANZI AI PUBBLICI PECCATORI IO NON CALO LE BRACHE COME IL CARDINALE BAGNASCO PER TIMORE DEL GIUDIZIO DEI MEDIA E DELLE REAZIONI DEGLI INTEGRALISTI LAICI, LI AMO CON CRISTOLOGICO CUORE SACERDOTALE E CERCO DI LAVORARE PER LA SALVEZZA DELLE LORO ANIME

Se a calarsi le brache e a presiedere questo teatro funerario porcino è stato il presidente dei Vescovi d’Italia, figurarsi gli altri nostri vescovi! Figurarsi a quale sbando totale siamo esposti noi poveri preti che dalle loro autorità sempre più prive di autorevolezza dipendiamo …Non aveva l’Arcivescovo Metropolita di Genova un vicario generale, un vicario episcopale o un presidente del capitolo metropolitano al quale far celebrare quel funerale al posto del presidente dei Vescovi d’Italia, semmai nella chiesa di appartenenza anziché nella chiesa cattedrale? Io vivo nel mondo del reale, al contrario del Cardinale Angelo Bagnasco che vive nel proprio palazzo feudale circondato da devoti e compiacenti segretari e collaboratori ai quali non passerebbe mai per la mente di dire in coscienza al proprio potente prelato: “Ritengo che questo sia sbagliato, ma detto ciò decida come meglio crede perché è Lei l’autorità episcopale e, a meno che non mi comandi cose contrarie alla dottrina e alla morale della Chiesa, io che non la penso come lei, proprio per questo sarò il primo a ubbidirle”. Diversamente dal Cardinale Angelo Bagnasco io non mi sposto con la scorta perché qualche burlone ha scritto nottetempo sui muri “Morte al Padre Ariel”. Io ho accolto e accolgo tutti, ma lo faccio in modo pastorale, paterno, evangelico e soprattutto cattolico, sempre e di rigore nel silenzio e nel nascondimento. Nel mio confessionale sono giunte decine di omosessuali afflitti e, come di recente ho dichiarato in una intervista a una rivista cattolica nessuno di loro ne è mai uscito senza assoluzione. Quando celebravo il Sacrificio Eucaristico in una basilica romana, ogni domenica sera, in fondo a quel maestoso tempio, quasi nascosti un gruppo di transessuali sudamericani partecipava sempre alla liturgia eucaristica. Non osavano presentarsi a ricevere il Santissimo Corpo di Cristo poiché consapevoli della vita che vivevano e che avrebbero seguitato a vivere, ma partecipavano con sincera devozione. Poi, dopo la celebrazione, venivano da me a chiedermi la benedizione. Io tracciavo sempre sulla loro fronte un segno di croce col pollice destro e poi li abbracciavo e li baciavo a uno a uno. Vorrei far notare all’Arcivescovo Metropolita di Genova la sostanziale differenza che corre tra queste anime sofferenti e combattute, che spesso mantengono col loro lavoro di prostituzione intere famiglie nei propri paesi di origine, coscienti che quel loro vivere non è bene ed è molto sbagliato; e l’arrogante trans Vladimiro Guadagno, detto Luxuria, ex politico, ideologo rasente l’integralismo, fiero e orgoglioso e, soprattutto, per nulla contristato dal proprio stile di vita …

VLADIMIRO GUADAGNO DETTO LUXURIA RICEVE LA COMUNIONE DAL PRESIDENTE DEI VESCOVI ITALIANI E CI DONA APPRESSO UN PREDICOZZO SULL’ACCOGLIENZA DAL PRESBITERIO DELLA CATTEDRALE DI GENOVA. NOI SACERDOTI, IN OBBEDIENZA ALLE DISPOSIZIONI DELLA CHIESA ALLE QUALI NON POSSIAMO E MAI DOBBIAMO VENIRE MENO, SI DEVE INVECE NEGARLA AI DIVORZIATI RISPOSATI

… è stata cosa imprudente e pure vergognosa l’Eucaristia amministrata dal Presidente dei Vescovi d’Italia al transessuale Luxuria durante la Messa funebre di Andrea Gallo. Semmai ciò non fosse stato sufficiente, l’Arcivescovo Metropolita di Genova ha concesso a questa creatura di prendere la parola all’interno della sua chiesa cattedrale dall’ambone da dove si amministra la Mensa della Parola di Dio, per fare a tutti noi questo predicozzo: «Grazie per averci aperto le porte della tua Chiesa e del tuo cuore. Grazie per averci dimostrato che in una Chiesa comprensiva, inclusiva, che non caccia via nessuno è possibile. Grazie per averci fatto sentire noi tutte creature transgender figlie di Dio amate da Dio. Noi ci auguriamo che tanti seguano il tuo esempio e ci auguriamo anche che qualcuno ti chieda scusa, Don Gallo». Due parole sulla accoglienza, posto che queste persone, notoriamente strapiene di un ego narcisista, disordinato e orgoglioso, aggressive oltre ogni umano limite verso chiunque osi non pensarla come loro, pare non abbiano chiaro che essa procede da Cristo e che la vera Chiesa è quella di Cristo, non certo quella “di base … di piazza … alternativa … disobbediente … arcobalenista” di Andrea Gallo. Il problema è che a questi ideologi del transgender non interessa che la Chiesa apra le porte. Loro vogliono che la Chiesa apra le gambe, possibilmente dalla parte posteriore, per poterla infiltrare da dentro e distruggerla con seme venefico. Ovviamente in nome di una strana carità evangelica e di una non meglio precisata accoglienza e misericordia. È consapevole Luxuria cosa voglia dire e che cosa comporti in senso ecclesiologico ed escatologico aprire le porte a Cristo per essere accolti da Cristo e dalla Chiesa suo corpo mistico? Comporta anzitutto accogliere Cristo e tutte le regole di vita contenute nel suo messaggio di salvezza, non certo pretendere di sovvertire le regole di Dio per andare incontro ai capricci della cultura gender e ai gravi disordini umani e morali di certi soggetti, che non reclamano affatto accoglienza, perché nei concreti fatti vogliono solo sfondare le porte per prendere possesso della casa cristiana alle loro condizioni, in massimo spregio a quelle che sono le regole dettate dalla divina rivelazione. È consapevole Luxuria che la Chiesa deve sì accogliere, ma al tempo stesso deve evitare che lupi rapaci facciano irruzione nell’ovile dove il buon pastore dovrebbe custodire e proteggere le pecore che il Signore ha lui affidato? O forse dobbiamo farci distruggere l’ovile e divorare le pecore perché i lupi travestiti da agnelli ci vengono a parlare di accoglienza, invitandoci a prendere esempio dai Gallo, dai Ciotti e dai Dalla Sala che la Chiesa l’hanno così male servita, con tanto di perentorio invito a chiedere scusa fatto da sotto ai nostri altari a chi la Chiesa intende invece proteggerla, il tutto proferito da un alto esponente di coloro che rivendicano il “sacrosanto” diritto a trasformare la Sposa di Cristo in una prostituta, affinché possa corrispondere alla loro desolante immagine e somiglianza da casa di tolleranza transgender? È consapevole l’Arcivescovo Metropolita di Genova che quel Santissimo Corpo di Cristo da lui amministrato a Vladimiro Guadagno detto Luxuria, noi preti, in devota obbedienza a quanto la Chiesa ci comanda, dobbiamo negarlo a coppie di divorziati risposati? Forse, a questo punto, al Cardinale Angelo Bagnasco non resta che andare a celebrare un solenne pontificale direttamente al Gay Village con Luxuria che fa da madrina alla manifestazione con tutte le accoglienti transgender travestite da agnellini rosa. Per molte volte Luxuria è stata infatti madrina delle parate del Gay Pride alle quali ha partecipato col politico e determinato spirito ideologico di chi esige che la Chiesa accolga e apra quelle porte che poc’anzi — senza irriverenza ma con molto allarme — ho chiamato gambe. E semmai, tutti gli integralisti gay che di prassi mettono in scena pantomime satirico-dissacranti marciando travestiti da suorine vogliose in calze a rete o da vescovi con mitrie color fucsia, l’eminentissimo cardinale potrebbe portarseli dietro come chierichetti. Siamo o non siamo una Chiesa accogliente, includente, caritatevole, misericordiosa? Però, con debita e caritatevole misericordia, anziché nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi, tra una accoglienza e l’altra si dia uno sguardo a certe ripetute immagini dissacranti del gay pride, per avere idea del tasso di rispetto verso l’altrui fede e l’altrui patrimonio di sacralità che alberga in coloro che pretendono di farti sbattere in galera per omofobia, se solo osi semplicemente non condividere il loro stile di vita, improntato sull’evidente disordine umano e morale.

LA PUBBLICA PECCATRICE FU PERDONATA DAL REDENTORE PERCHÈ ERA PENTITA E PERCHÉ CAMBIÒ VITA. NON DIVENNE CERTO PALADINA E IDEOLOGA PRE-CRISTIANA  DELL’ASSOCIAZIONE DELLE LIBERE PROSTITUTE PER LA LIBERALIZZAZIONE E LA LEGALIZZAZIONE DEL MERETRICIO, IN NOME DEL CRISTO RISORTO, ACCOGLIENTE E MISERICORDIOSO

Tutti quanti sappiamo bene che genere di mestiere svolgeva la pubblica peccatrice pentita e perdonata [Lc, 7, 36-50] che bagnò con le proprie lacrime i piedi del Signore, asciugandoli coi propri capelli e cospargendoli col prezioso olio profumato contenuto nel suo vaso di alabastro. Ma sappiamo anche che dopo quell’incontro e quel pianto sui piedi del Redentore, cambiò mestiere e vita. Non divenne certo paladina e ideologa pre-cristiana dell’associazione delle libere prostitute per la liberalizzazione e la legalizzazione del meretricio nel nome del Cristo risorto accogliente, caritatevole e misericordioso. Devo proprio invitare io, il Presidente dei Vescovi d’Italia, a leggere bene e con attenzione quel Vangelo di cui egli è supremo maestro in sua qualità di sommo sacerdote?

POSSA IL SIGNORE PERDONARE IL CARDINALE ANGELO BAGNASCO PER L’UMILIAZIONE INFERTA ALLA CHIESA D’ITALIA E SPERIAMO CHE QUANDO ACCADUTO CON ANDREA GALLO, NON SI RIPETA TRA ALTRI ANNI CON UN’ALTRA VERGOGNA DEL SACERDOZIO: PAOLO FARINELLA, ANCH’ESSO PRESBITERO GENOVESE

Assicuro le mie sincere preghiere al Cardinale Angelo Bagnasco, perché temo che assieme all’anima di Andrea Gallo oggi si debba cominciare a pensare di salvare anche quella del suo vescovo, nonché presidente dei Vescovi d’Italia, che tutt’oggi, nel proprio presbiterio, può vantare un’altro celebre, impunito e ahimè intoccabile ideologo: Paolo Farinella. A tempo e luogo, dobbiamo forse attenderci un altro tripudio di plebaglia da osteria e da pornografico bordello transgender, con rumoroso seguito di giovani spinellari da centro sociale che egemonizzano col pugno chiuso alzato anche la scena dei funerali di quest’altra vergogna del sacerdozio, con la turba ebbra di cieca ideologia che dentro la Casa di Dio rinnova ancora il disumano grido sacrilego: «Barabba … Barabba!», ovviamente in nome di una non meglio precisata accoglienza, carità e misericordia? Possa Dio perdonare Angelo Bagnasco per il male che ha recato in questo delicato frangente alla Chiesa d’Italia e per l’umiliazione inferta ai devoti sacerdoti di Cristo e alle membra vive sempre più sofferenti del Popolo di Dio.» Ariel Stefano Levi di Gualdo, presbitero.

DALLE AULE DEI "MASTRI" O "PROF" ROSSE A QUELLE BIANCHE.

Don Milani, i maestri «rossi» e la meritocrazia dimenticata, scrive Pucci Cipriani su “L’Occidentale”. Ma quello che dette il colpo definitivo a don Milani e alla sua lettera fu non il professor Berardi o la professoressa Calderini (considerati due pericolosi «liberali») ma un illuminato giornalista di “Repubblica”, il professor Sebastiano Vassali che demolì, con una serie di articoli sul quotidiano considerato una sorte di “Bibbia laica e progressista”, il mito di don Milani. Papale, papale, verga il professor Giuliano Vassalli: “Povera Italia! E povera Sinistra! Don Milani (...) volle dividere il mondo come allora s’usava, con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra, e si scelse un bersaglio di comodo, gli insegnanti. In questo senso (...) il suo libro fu una mascalzonata: attribuiva tutti i mali ai professori («la vostra scuola», «i vostri programmi») istigava al linciaggio morale di un nemico (...) gli insegnanti sembravano messi là apposta per far da bersaglio alla rivoluzione dell’epoca come i poliziotti di Valle Giulia (...) Povera Italia e povera Sinistra, che dal ’68 o forse dal ’45 non ha saputo far altra politica che quella d’applaudire tutte le primedonne che hanno calcato la platea del bel paese» (cfr. Vassalli in “Repubblica” del 4 luglio 1992, pag 34). E sempre su “Repubblica” il professor Vassalli, inesorabile, continua: «Don Milani ci appare oggi come fu davvero: un maestro manesco e autoritario (quanti dei suoi sostenitori di un tempo hanno veramente saputo che nella “Lettera” c’è l’apologia della frusta (a pag. 82) e, che a Barbiana erano considerati strumenti didattici “scapaccioni”, “scappellotti”, “cazzotti”, “frustate” e “qualche salutare cignata”?). Un autocrate che non credeva nella pedagogia – in nessuna pedagogia, all’infuori della propria - e che trattava con sufficienza e sarcasmo chi si azzardava a parlargli si sviluppo della personalità degli alunni e di altrettante “sciocchezze borghesi”. Tutto questo in “Esperienze pastorali” ma - scrive ancora Vassalli - «e lo stesso principio era stato da lui sviluppato con molta chiarezza nella Lettera a una Professoressa, dove si delinea: “una concezione collettivistica delle educazione vista come indottrinamento”: una concezione non dissimile - per chi ha ancora memoria di quegli anni - dai modelli educativi della così detta “rivoluzione culturale” cinese”. (cfr. Vassalli in “Repubblica”cit). Tra i miei ricordi di gioventù (avevo allora sedici anni, nda) la mia contestazione a quel gruppo culturale progressista “La Ginestra” che si rifaceva alle idee del prete di Barbiana. E a loro (pretori democratici, presidi, docenti universitari) giocai un tiro maestro e, durante una delle loro riunioni arrivai in compagnia di un giovane, laureato di fresco, già amante degli studi seri, un giovane distinto e preparatissimo: con lui ci recammo al Comune di Borgo San Lorenzo e iniziammo (meglio dire che fu il “giovane professore” a iniziare) con un fuoco concentrico: egli parlò di meritocrazia, quella meritocrazia che, sola, avrebbe salvato gli “ultimi”, parlò di scuola seria che richiedeva sacrifici e non chiacchiere, una scuola che non creasse discriminazioni ma nemmeno odio nei confronti dei “Pierini” ovverosia dei “Signorini attaccati alla scuola media di un tempo” ai quali don Milani voleva trovare un posticino nei confortevoli Gulag dei compagni sovietici. Quel giovanissimo e intrepido professore rispondeva e tuttavia risponde al nome di Franco Cardini che era ed è (anche se lui sembra non crederci) un mio grande amico oltre che uno dei più grandi, se non il più grande studioso del Medioevo a livello mondiale. Fu lui che ebbe per Maestro Attilio Mordini, l’anima del tradizionalismo cattolico non solo a livello fiorentino, un grande mistico di cui, negli ultimi giorni della sua vita, avvenuta lo scorso anno, mi parlava un altro grande mistico: don Divo Barsotti. Fu lo stesso Cardini, in un successivo incontro, a presentarmi Attilio Giulio Schettini (che divenne un caro amico colto prematuramente da “sorella morte”) che iniziò, con la mia collaborazione, una serie di servizi sui “Preti rossi della Toscana” sul settimanale cattolico “Lo Specchio” allora diretto da Giorgio Nelson Page. Anche il servizio su Don Milani (apparso sullo stesso settimanale a firma di uno dei redattori, Pier Francesco Pingitore) posso assicurare che fu preparato da Giulio Schettini. Oggi lo stesso professor Franco Cardini, fa sul quotidiano “La Nazione” l’apologia di Don Milani anche se - come al solito - ha l’onestà intellettuale (merce rara oggigiorno) di ammettere che allora la pensava diversamente: «Si era all’indomani del Concilio Vaticano II - scrive Cardini - che secondo me e secondo quelli del mio gruppo al quale appartenevamo, era stato un grande pericolo per la Chiesa e che alcuni dei suoi interpreti rischiavano di trasformare in una tragedia e in una apostasia». Però Franco Cardini che è un personaggio di grande rilievo e di grande richiamo dovrebbe usare un po’ più di prudenza e astenersi da molte gravissime inesattezze (per esser buoni!) e cercare di rifuggire una certa retorica di cui egli non ha bisogno. Lasciamo perdere l’obbedienza di don Milani, una delle grandi favole, create “ad hoc” da certo sinistrismo (basterebbe andare a consultare il suo carteggio con la Curia!). Don Milani non è vero che - come invece afferma il professor Cardini - scrisse sempre con il permesso della Curia... anzi (a parte la vergognosa parentesi di quell’unico “imprimatur” ottenuto con l’inganno per “Esperienze pastorali”) gli altri libri non ebbero mai l’imprimatur che allora si richiedeva. E queste non sono cose da poco...

E non c’è solo la mafia italiana: bianca (delle istituzioni) o nera (dei gruppi criminali) che sia. La Mafia Russa in casa degli italiani, scrivono Giovanni Bianconi e Gianni Santucci su “Il Corriere della Sera”. Quattro lettere sul dorso del piede destro. Bluastre e sbiadite. Sono un’abbreviazione. Significano: «La morte per un poliziotto accoltellato». Sulla caviglia, un disegno che sembra una stella scomposta: «Vendetta compiuta». Coscia destra, una sorta di ideogramma: «Ladro». Il profilo di una mano con un bracciale incatenato, sul deltoide sinistro: «Condanna scontata». Portava la sua storia criminale tatuata addosso l’uomo assassinato nel giorno della Befana dell’anno scorso. Bari, 6 gennaio 2012, è un venerdì. Piazza Aldo Moro, a pochi passi dalla stazione. Gli scaricano addosso l’intero caricatore di una Browning semiautomatica. Distanza di fuoco: non più di 50-60 centimetri. La pallottola mortale gli sfonda la fronte, sul lato destro. I poliziotti scoprono che il cadavere è di Revaz «Rezo» Tchuradze, 50 anni. Cittadino georgiano. Dagli archivi, spuntano solo un paio di controlli di polizia. Tutto qua. Troppo poco per spiegare un’esecuzione così feroce. Perché la criminalità organizzata dovrebbe ammazzare un georgiano in quel modo? È una vicenda strana. E poi ci sono quei tatuaggi. Rimandano a un altro mondo. A una criminalità arcaica e sconosciuta, carica di simboli e di codici. Parte da quei segni di inchiostro sulla pelle del cadavere l’inchiesta che, in un anno e mezzo, porterà gli investigatori della Squadra mobile di Bari e del Servizio centrale operativo della polizia ad agganciare il gotha della criminalità georgiana: i clan più potenti della mafia russa (o meglio, ex sovietica). Gruppi che stanno combattendo una guerra globale. Anche nelle strade (e nelle case) italiane. Arcipelago Gulag. Questa è una storia che affonda le sue radici nelle pagine più nere del Novecento. Risale dalle carceri staliniane, dai campi di lavoro come la Kolyma (in Siberia), dai gulag. Dagli inferni di neve dov’erano rinchiusi i detenuti politici. E con loro vivevano internati loro: i vory v zakone, «ladri in legge», criminali con un codice. Adepti delle regole mafiose. Vory v zakone è la qualifica più elevata nella gerarchia della malavita russa. A quella comunità reclusa e non piegata, violenta e antistato, cementata nelle baracche dei gulag, unione di ladri, assassini, scassinatori, trafficanti e giocatori d’azzardo, sono dedicate pagine memorabili dello scrittore Varlam Salamov: quelli della malavita «negli anni Quaranta al collo portavano la croce… La croce di Naumov era liscia. Penzolava sul suo scuro petto nudo impedendo di leggere la “puntura” blu —e cioè il tatuaggio di una citazione da Esenin, l’unico poeta riconosciuto e canonizzato dal mondo dei criminali: Così poca è la strada percorsa,/ così tanti gli errori commessi » («Sulla parola», uno de I racconti della Kolyma). È a quel passato lontano che si riallaccia la mafia di oggi. Tradizione e cultura carceraria, calate nell’opulenza e nella ferocia esplose dopo il crollo dell’Urss. Aveva aspirazioni legate a quel sistema il killer che ha sparato a Bari. Otto colpi per diventare un vory v zakone. Così gli era stato promesso. Per questo Kvicha Kakalashvili, anni 33, ladro d’appartamenti, secondo quel che hanno accertato le indagini che l’hanno portato in carcere, è partito da Pioltello, provincia di Milano. E ha guidato fino al capoluogo pugliese il suo commando di assassini. Racconterà mesi dopo una donna arrestata dalla Mobile barese, guidata dal dirigente Luigi Rinella: «Kvicha doveva a tutti i costi vendicarsi, perché solo con la vendetta sarebbe divenuto un vory». L’omicidio era stato deliberato in Grecia, dal boss del suo clan. Eccola, la mafia globalizzata trapiantata in Italia. La cupola in Italia. Il killer del giorno della Befana cercava il migdoma, la raccomandazione di un boss per essere incoronato «ladro in legge». La carica si acquista per meriti di crimine. L’incoronazione avviene durante una skhodka, assemblea plenaria dei più alti capimafia. Merab Dzhangveladze, soprannome Jango, aveva organizzato una di queste riunioni a Roma, in programma per il 18 settembre 2012, in un albergo extralusso nei pressi della via Cassia. Erano già stati noleggiati piccoli pullman e grosse Mercedes («Solo Classe S», si raccomandava il capo) per accompagnare una sessantina di ospiti, arrivati da Mosca e da mezza Europa. La riunione alla fine è saltata per il sospetto che la polizia la stesse intercettando. Quella skhodka era un passaggio chiave nella guerra tra i due più grandi clan della mafia ex sovietica (i nomi derivano dalle città d’origine in Georgia): quello di Kutaisi, a cui apparteneva la vittima di Bari, e quello di Tbilisi/Rustavi, gruppo del killer. Quest’ultima cosca è egemone nella regione di Sochi, la cittadina russa dove nel febbraio prossimo si terrà l’Olimpiade invernale, con il fondato sospetto che la mafia si sia pesantemente infiltrata negli appalti per l’organizzazione. Il primo clan, più ramificato in Italia, è stato praticamente smantellato dalle indagini della polizia. Un’altra skhodka si è tenuta a Milano, il primo dicembre 2011, in un albergo di corso Italia, a pochi isolati da piazza del Duomo. Dal 2009 Jango (arrestato in Ungheria su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Bari) era il successore di Tariel Oniani, capo del clan Kutaisi, una sorta di Riina della criminalità russa, in carcere a Mosca dal 2008. Tra lui e Jango, nonostante la detenzione, sono state intercettate varie telefonate. È Oniani a dare l’ordine quando si addensano i sospetti sulla riunione di Roma: «Annullate e sparite tutti». Durante le indagini, avviene il più eccellente delitto di mafia dell’ultimo decennio in Russia. Il 16 gennaio 2013 Aslan Usoyan, «nonno Hassan», padrino del clan Rustavi, viene ucciso da un cecchino mentre esce con le sue guardie del corpo da un ristorante nel cuore di Mosca. «È un compleanno per tutti — esultano i vory intercettati —, siamo andati cento passi in avanti». Per capire: con l’omicidio di Usoyan, è stato come se qualcuno avesse sparato a Bernardo Provenzano nel cuore di Palermo. Ladri e padrini. Non ci sono ladri d’appartamento più svelti, preparati, agguerriti. Negli ultimi anni le «batterie» di georgiani sono state responsabili di migliaia di furti nelle case italiane. Terreni di caccia delle bande di Kutaisi: Bari, Milano, Roma, Firenze, Empoli, Venezia, Trieste. Zone dove sono stati documentati i furti riconducibili al clan Rustavi (attraverso un’indagine dei carabinieri di Novara nel 2010): Milano, Venezia, Reggio Emilia, Firenze, Perugia, Napoli. Per ogni città, un «ladro in legge» sovrintendeva alle bande: Avto era a Bari (ricercato); Ika a Roma (arrestato); un certo Stalin a Milano (non identificato); Beso, una sorta di sovrintendente per tutta Italia, si spostava tra Bari, Napoli, Milano (arrestato anche lui — al telefono lo sentivano dire cose così: «Avete trovato la cassaforte?», «Uscite, è meglio spostarsi in un altro appartamento»). I ladri smerciano subito oro e pietre presso ricettatori locali, italiani; una parte dell’incasso viene girata al capo-zona. E così, per ogni casa svaligiata in Italia, si alimenta la ricchezza del clan. Tutto confluisce nella obshak, la cassa comune: una sorta di gigantesco fondo di investimento in cui finiscono anche i proventi delle estorsioni, dello sfruttamento dell’immigrazione clandestina e del traffico di documenti falsi. La obshak, secondo un rapporto Interpol del 2010, è calcolabile nell’ordine di miliardi di euro. La sua gestione sarebbe il motivo cardine del conflitto tra i gruppi Kutaisi e Rustavi. L’importanza dell’indagine chiusa dalla Mobile di Bari e dallo Sco il 18 giugno scorso è certificata da una nota dell’Europol: tra i 19 arrestati per associazione a delinquere, «13 avevano il titolo di vory v zakone, è la prima volta che tanti mafiosi di così alto rango vengono bloccati in una singola operazione». Nell’obshak andava probabilmente a finire anche una parte dei guadagni delle estorsioni a Bari: Revaz Tchuradze «proteggeva» un’agenzia di spedizioni in piazza Aldo Moro, incassando tra 0,5 e 1,2 euro al chilo per ogni pacco che i suoi connazionali mandavano in Georgia. Il suo presunto assassino (bloccato in Portogallo) «aiutava» invece l’agenzia di spedizioni concorrente. Spartizioni mafiose. Tchuradze aveva due figli, Dato e Aleko. Ha raccontato un testimone: «Il figlio più grande è detenuto a Tbilisi. Non si taglia la barba da quando hanno ucciso il padre. Lo farà solo dopo averlo vendicato personalmente. Il clan di Kutaisi ha avallato la sua scelta».

PROCESSI DI MAFIA: L’ALTRA VERITA’. PAROLA A MORI E LO GIUDICE.

La verità del generale Mori: "Trattativa coi boss? Fantasie". L'ex capo del Ros attacca i pm: "Giurisdizione parallela politico-mediatica, toghe  alle manifestazioni d'opinione. E la talpa di Provenzano lavorava con Ingroia...", scrive Gian Marco Chiocci e  Mariateresa Conti  su “Il Giornale”. La verità del generale Mario Mori è un processo al processo (anche mediatico). L'ex comandante del Ros, alla sbarra col numero due Mario Obinu per favoreggiamento aggravato, in aula a Palermo prende di petto l'inchiesta sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995, e di riflesso anche quella sulla trattativa Stato-Mafia. Il primo affondo è riservato proprio ai pm.

ANTONIO E NINO MAGI-STAR. Ingroia e Di Matteo - dice Mori hanno creato «una giurisdizione parallela «di tipo politico mediatico» che accredita una realtà di parte. La loro. Di pari passo a teoremi e suggestioni è cresciuto, e cresce, «un movimento d'opinione che cerca condivisione e visibilità» con una serie di iniziative e sponde mediatiche. «Approccio questo, basato sull'enunciazione di ipotesi e teorie suggestive, prive peraltro di puntuali supporti dimostrativi, ma che, sostenuto insistentemente nel tempo, diventa per ciò stesso un portato assiomatico, in particolare per chi, delle vicende, ha una conoscenza superficiale e si ferma alle prime e più immediate evidenze». Di questo «movimento» farebbero vari politici oppure giornalisti, avvocati, consulenti, «tutti sostenuti» da più associazioni antimafia. A queste iniziative, insiste Mori, hanno aderito «alcuni magistrati» (Ingroia e Di Matteo)».

REQUISITORIA IN TV. E qui sta il problema: «Non è normale che si ponga come protagonista di queste manifestazioni anche chi, mentre porta avanti l'azione penale (...) contemporaneamente partecipa in modo attivo a queste iniziative, esplicitando i propri orientamenti che non possono non apparire come conseguenti da acquisizioni processuali già raggiunte, anche se così non è». Lo scopo, osserva l'ex fondatore del Ros, «è quello di indirizzare surrettiziamente la pubblica opinione, con modalità che già agli inizi degli anni novanta del secolo scorso, il senatore comunista Gerardo Chiaromonte (...) aveva individuato e stigmatizzato, nel suo libro I miei anni all'Antimafia, una giurisdizione parallela di tipo politico-mediatica. E questo modo di procedere non mi sembra possa rientrare in una corretta interpretazione di deontologia giudiziaria». Mori pesca l'intervento di Luigi Ferrajoli al congresso di Md di quest'anno: «È inammissibile - e dovrebbe essere causa di astensione e ricusazione - che i magistrati parlino in pubblico, e meno che mai in televisione, dei processi loro affidati. E invece - continua il carabiniere - abbiamo assistito a trasmissioni tv desolanti, coi pm che parlavano dei processi da loro istruiti, sostenevano le accuse, lamentavano gli ostacoli o il mancato sostegno politico alle indagini, discutevano e polemizzavano con l'imputato e, peggio ancora, formulavano pesanti insinuazioni senza contradditorio».

PAPELLI E PENTITI. Dopo aver contestato punto per punto le accuse del colonnello Michele Riccio sulla mancata cattura di Provenzano, Mori stronca Massimo Ciancimino, figlio di Vito, il sindaco mafioso di Palermo, «autore di un'articolata quanto lacunosa strategia calunniatoria e di depistaggio». Parla per sentito dire e consegna ai pm carte false e, comunque, sospette. Come il papello («un atto anonimo, per di più in fotocopia») o come il contropapello, una raccolta di appunti del padre per il libro Le mafie. Per non parlare dei falsi su De Gennaro che gli son costati le manette. Poi ci sono i pentiti con dichiarazioni a rate: Giovanni Brusca ammette d'aver parlato di Mori dopo aver letto Repubblica, e quando è caduto in contraddizione, non ha avuto remore a dire che «erano venuti i magistrati a chiarire tutto» e che aveva dovuto «mettere i puntini sulle i». Stesso dicasi per Mutolo o per Cattafi.

TALPE D'ORO. Se Provenzano è rimasto latitante non è stato per patti inconfessabili, ma (anche) per le informazioni che gli passavano le talpe. Una delle quali distaccata proprio «presso l'ufficio del dottor Antonio Ingroia». Quanto poi ai contatti con Ciancimino senior il Ros si mosse per «dovere professionale», ma gli incontri vennero comunicati «a Fernanda Contri, Liliana Ferraro, Luciano Violante, Gian Carlo Caselli» e «nessuno se ne lamentò o lo denunciò». Tra bombe e stragi il Ros si muoveva da solo visto che «la Procura di Palermo era quasi all'impotenza operativa» come confermato da molti pm. Altri si tiravano indietro. «Con la scomparsa di Falcone e Borsellino, molti (...) avevano scelto il silenzio e la prudenza» salvo poi ricomparire a problemi risulti sulla scena e riprendere «più a parlare che ad agire, magari sostenuti dal conforto di una robusta scorta».

CRUSCA E DOPPIOPESISMO. Per Mori, la trattativa non ci fu. «Facemmo indagini». E bisogna intendersi sui termini. Perché un carabiniere mica è un «membro dell'Accademia della Crusca», dice «trattativa», ma dice anche «contatto, approccio» ed è «patetico», a posteriori, pretendere letture da puristi della lingua. Mori parla di «doppiopesismo» ricordando il tour in carcere dei parlamentari Sonia Alfano e Giuseppe Lumia con l'invito ai boss a collaborare «alla stregua di un vero e proprio colloquio investigativo, che la legge attribuisce solo alla polizia giudiziaria e alla Dna». Nessun dubbio sulle lodevoli intenzioni dei due politici, nemmeno l'iniziativa del Ros con Ciancimino «può essere ragionevolmente considerata tale, alla luce degli esiti di tutte le indagini che in merito sono state compiute».

LA FARSA DEL 41 BIS. Anche la revoca del carcere duro, noto come 41 bis, nel '93, a circa 300 boss, secondo Mori è stata drammatizzata in chiave trattativa. Il generale ricostruisce le posizioni: quella del Ros, che non voleva ammorbidirlo, e quella di tutti gli altri, politici e non, favorevoli e contrari. «L'attenuazione del regime carcerario non ha sortito alcun effetto sulla cessazione delle stragi di mafia». E la riprova è la gigantesca strage mancata per un incidente tecnico allo stadio Olimpico di Roma a gennaio '93.

BORSELLINO E IL ROS. Altro che accelerazione della strage di via D'Amelio perché Borsellino aveva scoperto l'esistenza della «trattativa». Fu il Ros l'unico ad avvertire Borsellino il 19 giugno '92 di un imminente attentato. Dei carabinieri «Borsellino aveva una particolare considerazione». Lo dimostrano i ripetuti incontri, prima di morire, e l'incarico di fiducia ricevuto: il fascicolo «su mafia e appalti», filone su cui indagava Falcone prima di essere ucciso e che Borsellino aveva ripreso dopo Capaci. «Ci chiese ricorda Mori di mantenere il più stretto riserbo sull'incontro e sulle indagini di cui non dovevamo parlare con gli altri magistrati di Palermo». Per la cronaca, quell'inchiesta venne chiusa subito dopo l'uccisione di Borsellino, la richiesta di archiviazione venne «vistata» il 20 luglio del '92, all'indomani della strage di via D'Amelio, e l'archiviazione arrivò il 14 agosto. Borsellino avrebbe dato un incarico così delicato al Ros se sul Ros avesse avuto dei sospetti?

L'ANTIMAFIA DI PROFESSIONE. Chiude Mori. Facile, oggi, «produrre versioni e ricostruzioni avventurose e decontestualizzate». Tanto più «che chi riteneva di servire in quei momenti lo Stato non pensava di doversi precostituire alibi e difese da ipotesi fondate sull'elaborazione di fantasiosi sistemi criminali, pensati a tavolino sulla base esclusiva di un convincimento ideologico, senza il conforto di prove che possano in qualche modo confermarli». Roba da «cultori della letteratura fantasma», non da «professionisti della materia». Il paradosso di questa vicenda è costituito dal fatto che «noi non abbiamo memoria della gran parte degli attuali lottatori antimafia. Non li abbiamo visti perché non c'erano accanto a noi o al fianco di coloro che durante quella tragica stagione hanno davvero combattuto Cosa nostra, alcuni fino a perderci la vita. Rimane l'amara constatazione che forse la vera colpa che non ci viene perdonata da qualcuno sia quella di essere sopravvissuti».

La difesa di Mario Mori nel processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano: Ecco il memoriale di Mario Mori, scrive Anna Germoni su “Panorama”. La verità di un processo in 160 pagine. Coinciso e graffiante per tutti, compresi i pm Antonio Ingroia e Antonino Di Matteo per le troppe apparizioni in tv in merito al processo in corso. Gioca di fioretto il prefetto Mario Mori, imputato insieme al colonnello Mauro Obinu di favoreggiamento a Cosa nostra per la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso (Palermo) nell’ottobre del 1995. Stamattina, 7 giugno 2013, in aula Mori ha letto il suo memoriale difensivo: difendendo la correttezza istituzionale del suo operato e di quello dei suoi uomini, ha contrattaccato sgretolando il castello accusatorio della presunta trattativa Stato-mafia. Il castello di sabbia della Procura di Palermo viene smantellato, prove alla mano. Il generale accusa il tritacarne mediatico del processo, “ripreso da commentatori, opinionisti, studiosi e politici ideologicamente connotati e ben collegati nell’ambiente mediatico-istituzionale che conta, che come tanti pappagalli, avendo al massimo una pallida e limitata idea dei fatti, distillano pareri ed emettono condanne o assoluzioni sulla base del tornaconto personale, senza accorgersi di fare per lo più dello squallido pettegolezzo”. Poi Mori dichiara: ”Risulta più facile proporre a posteriori analisi e soluzioni, senza mai la controprova del riscontro pratico; criticare col senno di poi ogni decisione a suo tempo assunta sul terreno; mettere in dubbio ed interpretare ai propri fini le azioni di chi concretamente ha operato dovendo decidere nell’immediatezza e non disponendo sempre di dati conoscitivi sufficienti per definire condotte e strategie aderenti alla necessità, piuttosto che operare direttamente, mettendoci la faccia e quindi con rischio personale, contro un’organizzazione criminale spietata e sempre in grado di offendere. Si tratta di operazioni per nulla pericolose e molto redditizie, tenuto conto che chi riteneva di servire in quei momenti lo Stato non pensava di doversi precostituire alibi e difese da ipotesi fondate sull’elucubrazione di fantasiosi sistemi criminali, pensati a tavolino sulla base esclusiva di un convincimento ideologico, senza il conforto di prove”. Con voce decisa e ferma Mori ripercorre i 5 anni di dibattimento, con oltre un centinaio di udienze e circa 100 testimoni chiamati in aula. Respinge le accuse screditanti nei confronti dei suoi uomini, appellati dal pm Di Matteo come “scudieri”, che avrebbero “perseguito obiettivi di politica criminale”. “Questa grave accusa dichiara Mori “pronunciata in un’aula di giustizia senza che sia sostenuta da concreti elementi di riscontro, si configura semplicemente come un calunnioso espediente dialettico, mirato a fare prevalere comunque una tesi di parte”. Il prefetto mira a in mettere difficoltà tutto quel momento di opinione costituito dai politici (Sonia Alfano, Giuseppe Lumia, Antonio Di Pietro, Fabio Granata, Luigi Li Gotti, Leoluca Orlando e Rosario Crocetta) e da un fronte trasversale composto da vari professionisti: l’avvocato Fabio Repici, Gioacchino Genchi, giornalisti alla Marco Travaglio, Sandra Aurri, Saverio Lodato, Giuseppe Lo Bianco, Concita De Gregorio. Sostenuti dalle associazioni antimafia delle agende Rosse, Antimafia Duemila, La Rete, Libera, associazione nazionale familiari vittime di mafia, Quinto potere, secondo Mori i pm Ingroia e Di Matteo e molti altri magistrati siciliani hanno avuto come scopo quello di “indirizzare surrettiziamente l’opinione pubblica” verso quella che il senatore Gerardo Chiaromonte appellava come “una giurisdizione parallela di tipo politico-mediatica”. Mori, nel suo lungo memoriale analizza le accuse lanciate nei suoi confronti dal colonnello Michele Riccio, a sua volta querelato dal prefetto, per la mancata cattura di Provenzano. Dalle carte di Mori emerge che il principale accusatore di Mori viene criticata dalla dirigenza della Dia, dai magistrati Pignatone e Principato e dallo stesso Di Matteo nonché dal gip di Catania. Le espressioni usate dai togati nei confronti di Riccio, difeso dall’avvocato Repici, delineano “una personalità assai incline all’autoesaltazione con un malcelato desiderio di porsi al centro dell’attenzione che nei suoi appunti si abbandona ad uno sfogo, senza alcun supporto di qualsivoglia natura, nei confronti di magistrati e dei superiori”. Mori poi parla di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino trasformatosi in “icona della nuova antimafia” e recentemente arrestato per la terza volta. Per il prefetto “il movente di Ciancimino è esclusivamente quello di ottenere un miglioramento della sua situazione giudiziaria per la gestione del patrimonio paterno”. La stessa tesi viene sostenuta dalla procura di Caltanissetta, soprattutto nella richiesta di ordinanza di custodia cautelare del processo “Borsellino quater”. Contro Ciancimino jr i magistrati nisseni sono molto più duri. Scrivono infatti che “il comportamento processuale di Massimo Ciancimino è rivelatore di una personalità deviata” e che “il suo atteggiamento processuale è frutto di una strategia di depistaggio nei confronti di personaggi delle Istituzioni”. Il generale fa emergere nitidamente citando le numerose contraddizioni delle dichiarazioni rese dal controverso collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca, che mano a mano, nel tempo dal 1998 al 2013, “aggiusta sempre il tiro” servendosi della collaborazione con lo Stato “ non ai fini di giustizia ma in relazione alle sue esigenze e nella personale valutazione che egli faceva su quello che volevano sentirsi dichiarare coloro che lo interrogavano”. Poi sempre di fioretto, con atti alla mano sgretola anche le dichiarazioni del neo pentiti Lo Verso, Spatuzza e Mutolo. Il primo, addirittura, viene paragonato come iter comportamentale a quello di Ciancimino jr. Nelle lunghe pagine dedicate al favoreggiamento di Provenzano, il prefetto ripercorre che il Ros, diretto da lui, ha sempre orientato incessantemente la sua opera alla ricerca del boss corleonese. Spiegando con le varie operazione effettuate anche in sintonia con la Polizia di Stato, da “Grande Oriente” al “Grande Mandamento” che tutti i magistrati siciliani avevano grande fiducia nel fiuto investigativo del Ros e che fra questi vi era anche il pm Di Matteo, che esaltava le qualità del reparto che “aveva condotto da oltre tre anni con grandissima professionalità e notevole impiego di mezzi e di risorse”. Il generale parla anche anche dei suoi contatti con Vito Ciancimino e con gli esponenti delle istituzioni, smentendo più volte le dichiarazioni dell’ex Guardasigilli Claudio Martelli. Sulla dissociazione, uno dei cardini della pubblica accusa, il prefetto precisa che “dopo la strage di Capaci era argomento di discussione fra gli esperti” e che perfino il magistrato Roberto Scarpinato in una riunione dell’Anm del 2 giugno del 1992 aveva “esposto un pacchetto di proposte per migliore l’azione di contrasto alla criminalità organizzata, ipotizzando l’applicazione di un provvedimento simile a quello a suo tempo definito per i terroristi disposti a dissociarsi. E che Paolo Borsellino, la cui posizione contraria a riguardo era ben nota, se ne andò durante i lavori del convegno, senza prendere parola”. Altre stoccate arrivano quando si affronta l’argomento del 41 bis, il regime di carcere «duro», la personalità di Francesco Di Maggio e la presunta trattativa Stato-mafia. “Secondo l’accusa” dice Mori “brigando con Vito Ciancimino, su direttiva del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e coordinandomi con il capo della Polizia di allora, Vincenzo Parisi, e con il vice del Dap, Di Maggio e magari recependo ordini del generale Subranni, sarei io il mediatore della trattativa”. Il prefetto dimostra che era stato lui, come comandante del Ros, a svolgere le indagini su Calogero Mannino e sui fondi neri del Sisde che coinvolsero anche Scalfaro, che reagì con il fatidico “Io non ci sto” a reti unificate, pronunciato il 3 novembre del 1993. E’ illogico pensare che da una parte si indaga sui fondi neri, in un’inchiesta in cui viene coinvolto anche il capo dello Stato, e dall’altra parte si facciano accordi sottobanco con la mafia, per un’ipotetica trattativa che con l’attenuazione del 41 bis non ha sortito alcun effetto sulla cessazione delle stragi. Infine si citano anche i colloqui svolti in carcere con Provenzano dagli onorevoli Alfano e Lumia, entrati nella prigione insieme con l’avvocato Repici, senza che questi si qualificasse con il suo tesserino professionale. “Nessuno” dice Mori “ha voluto catalogare questi colloqui come una sorta di trattativa intrapresa con elementi mafiosi a fini inconfessabili e se vogliamo sottilizzare, il nostro tentativo, mio e di De Donno con Vito Ciancimino, era un tentativo messo in atto da due ufficiali di polizia giudiziaria per convincere un cittadino non detenuto alla collaborazione delle indagini, rientrava nelle facoltà che ci erano concesse dalla legge; mentre quello dei due politici, con la presenza inusitata dell’avv. Repici, sarebbe andato ben al di là delle loro prerogative. Se ne deduce che il termine trattativa assume un valore a seconda delle prospettive ideologiche e questo non è corretto”. L’ultima parte delle dichiarazioni di Mori sono rivolte alle stragi del 1992-1994: “Essendo un uomo abituato a considerare i dati di fatto e non le mere ipotesi” dichiara il prefetto “io dico che lo scompaginamento di Cosa nostra è avvenuto per l’impegno e per la dedizione degli uomini delle Istituzioni, alcuni dei quali hanno pagato di persona questo impegno e non per contatti sottobanco o accordi indimostrati e indimostrabili che hanno la fondatezza e l’effettiva consistenza di un castello di carte”.

Altro processo, altra storia, altra verità.

È scomparso da lunedì 3 giugno 2013, scrive Carlo Macrì su “Il Corriere della Sera”. Giovedì 6 avrebbe dovuto testimoniare ma la corte ha dovuto prendere atto della sua assenza. Infine venerdì 7 si è fatto sentire con un memoriale esplosivo che rischia di creare imbarazzo a capi di procure, magistrati e alti funzionari di polizia. Nino Lo Giudice, il pentito che si era autoaccusato di aver messo le bombe alla procura generale di Reggio Calabria e sotto l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro, ha ritrattato tutto, sostenendo di essersi inventato ogni cosa perché costretto da magistrati e organi di polizia. Nel memoriale di cinque pagine recapitato in un plico sigillato all’avvocato Giuseppe De Nardo, difensore di Antonio Cortese e Vincenzo Puntorieri - i due presunti bombaroli accusati proprio da Lo Giudice di essere gli autori materiali degli attentati di Reggio Calabria - Lo Giudice fa anche i nomi dei magistrati che l’avrebbero costretto a dire il falso. Il «Nano» cita l’ex procuratore capo di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, oggi a capo della procura di Roma, l’aggiunto della Dda di Reggio Calabria Michele Prestipino e il sostituto procuratore Beatrice Ronchi, trasferita a Bologna, ma ancora in servizio alla procura antimafia reggina. E poi Renato Cortese, ex capo della mobile di Reggio Calabria, oggi capo della Mobile a Roma. Scrive Lo Giudice: «Non è mai esistita la cosca Lo Giudice – inizia così il memoriale. Poi il pentito affronta il tema delle bombe a Reggio Calabria -. Come sosteneva il dottor Di Landro fino a poco tempo fa che non ero io il responsabile di quegli attentati e che stavo coprendo i veri burattinai lui è sicuro di quello che sostiene perché lui sa bene cosa dice perché lui sa chi sono i burattinai e i burattini». Lo Giudice quindi si pone l’interrogativo:« Perché sta ancora zitto Di Landro? Perché vuole assistere alle stragi degli innocenti? Pur sapendo che né il sottoscritto, né Antonio Cortese e Vincenzo Puntorieri siamo i veri responsabili?. Ma… alte cariche dello Stato e servizi deviati e, professionisti a lui molto noti? E che a suo tempo rivelerò alla persona che io deciderò….». Ce ne è anche per la magistratura reggina. «Come ho sempre sostenuto e, sostengo ancora oggi, a Reggio c’erano due tronconi di magistrati che si lottavano tra loro facendo scempio degli amici di una delle due parti, colpendo onesti cittadini che lavoravano 24 ore al giorno. Mi riferisco a Gioacchino Campolo (in carcere per associazione a delinquere) e Luciano Lo Giudice, fratello del pentito (anche lui in carcere), distrutti dalla cricca (Di Landro-Pignatone-Prestipino-Ronchi e il dirigente della Mobile Renato Cortese. Quest’ultimo – dice ancora Lo Giudice – era parte attiva a controllare la mia mente facendo sempre la parte del "buono", convincendomi a più riprese a dire cose che io non sapevo, mi parlava di massoneria e servizi segreti, suggerendomi nomi e cognomi legati al dottor Cisterna-Mollace-Neri come Massimo Stellato e altri. I dottori Pignatone, Prestipino, Ronchi e Cortese molte volte facevano arrivare il mio avvocato Fernando Catanzaro e dopo qualche 30 minuti lo mandavano via per restare solo con loro, questo per fare tutto ciò che era nel suo intento».  Il «Nano» parla poi dei rapporti tra il fratello Luciano e il dottor Alberto Cisterna, ex numero due della dna, inquisito dai colleghi di Reggio Calabria proprio in base alle dichiarazioni di Lo Giudice e poi prosciolto da ogni accusa con l’archiviazione dell’inchiesta. «Devo ribadire che tra mio fratello Luciano e il dottor Cisterna non c’erano rapporti illeciti, ma solo amicizie normali. Ma subito dopo è nata qualcosa tra me e i miei interlocutori che non stava bene minacciandomi che se non avrei raccontato quello che a loro piaceva mi avrebbero spedito indietro al 41 bis. Mi hanno intimidito e mi hanno dato un ultimatum per il giorno seguente. Dovevo pensare bene cosa raccontare quando mi sarei presentato davanti a loro, e con discorsi convincenti. Ho trascorso la notte senza dormire, incasellando il mio mosaico di discorsi convincenti e compiacenti. Ho accettato quel supplizio per conquistarmi la patente di collaboratore e riacquistare uno spiraglio di libertà a caro prezzo…».

Si rivolge al figlio Giuseppe, lo stesso che ha consegnato il memoriale ed una sim card all’avvocato Francesco Calabrese, scrive Antonio Giuseppe D’Agostino su “CMnews”, chiedendo scusa perché «già ti ho fatto soffrire tanto” e perché “ho combinato un danno irreparabile nei confronti di mamma e di tutti voi. Addio con tutti non so cosa farò dopo che avrò spedito questa lettera, né dove andare visto che sono stato abbandonato da tutti, una cosa è certa, Dio è sempre con me. Mi basta. Ti mando l’ultimo bacio anche se penso che non lo accetterai. Ciao sei sempre nel mio cuore. Tuo Papà». Un addio commosso ad un figlio che, a dire del collaboratore di giustizia, avrebbe fatto soffrire con il suo comportamento. Di qui in poi le dichiarazioni scritte dal pentito sono un vero e proprio pugno nello stomaco per quanti hanno creduto nelle sue parole di accusa. Parole, anche queste ultime, che al momento devo essere confermate ma che aprono uno scenario inquietante sulla sua collaborazione. Ritorniamo al memoriale però. Nel documento Nino Lo Giudice parla di una verità che “nessuno sa ancora e, che desidero esternare anche non voi che difendete molte persone che io ho accusato ingiustamente”. “Nella più totale lucidità mentale”. Lo Giudice, alias “u nanu”, afferma di voler “rivelare tutto ciò che fino ad oggi ho tenuto segretamente dentro di me e, che è arrivato il momento di esternare”.

Non è mai esistita una cosca Lo Giudice”, un’affermazione scritta fra parentesi che apre ad uno scenario inquietanti anche in merito agli attentati e che “come sosteneva il dr. Di Landro fino a poco tempo fa che rilasciava dichiarazioni a ‘destra e manca’ con sicura certezza e senza ombra di dubbio che non ero io il responsabile di quegli attentati e che stavo coprendo i veri ‘burattinai’, è sicuro di quello che sostiene perché lui sa bene cosa dice, perché lui sa bene chi sono i burattini e i burattinai”. Dichiarazioni dure che seguono un interrogativo circa l’atteggiamento dello stesso procuratore generale Salvatore Di Landro sul perché “sta ancora zitto? Perché vuole assistere alla ‘strage degli innocenti’?Pur sapendo che né il sottoscritto, né Cortese, Puntorieri, siamo i veri responsabili? Ma…alte cariche dello Stato e servizi deviati e professionisti a lei molto noti? E che a suo tempo rivelerò alla persona che io deciderò…Esca allo scoperto…E dica quanto è nel suo pensiero, non continui ancora ad assistere senza fare nulla”. Parole dure che aprono scenari inquietanti di servizi deviati, magistrati in lotta fra loro, professionisti implicati in vicende tutte da chiarire, ma che sarebbero ben noti. Parole che evidenziano, per quanti ancora non lo avessero capito, l’esistenza di “due tronconi di magistrati che si lottano tra di loro facendo ‘scempio’ degli amici di una delle due parti, colpendo onesti cittadini che lavorano 24 ore al giorno”, un riferimento alla vicenda di Giacchino Campolo (il Re dei Videopoker) e al fratello Luciano Lo Giudice definiti nel memoriale “imprenditori onesti distrutti dalla cricca”.

Ed è qui una delle parti centrali del memoriale, una prima bomba lanciata sulla città e sui professionisti dell’antimafia che mai si sono posti dei dubbi ed hanno sempre avuto delle certezze. Il pentito punta il dito contro Salvatore Di Landro, Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino, Beatrice Ronchi e il dirigente della Mobile Renato Cortese “che si è prestato ai voleri della ‘citata cricca di inquisitori’” ed era parte attiva “a controllare la mia mente facendo sempre la parte del ‘buono’, convincendomi a più riprese a dire cose che io non sapevo”. Insomma stando alle parole scritte dal pentito, Renato Cortese “mi parlava di massoneria e servizi segreti suggerendomi nomi cognomi legati al dr. Cisterna, Mollace, Neri, come Massimo Stellato e altri. Io non mai detto nei miei interrogatori che il dr. Macrì deteneva un motoscafo nella rimessa di Spanò, questo l’hanno inventato tutto loro”. E per supportare le sue accuse, tutte da confermare, Nino Lo Giudice invita a far tirare fuori le registrazioni integrali “e leggete se dico la verità”. Ad essere onesti a leggere il memoriale si rimane stupiti della precisione con cui il collaboratore di Giustizia apre il “vaso di Pandora” che, se (lo ribadiamo) confermato, potrebbe distruggere anni di lavoro della magistratura reggina facendo intravvedere qualcosa che va ben al di là della semplice stagione dei veleni e che forse qualcuno aveva già preannunciato come la visita di un Arcangelo. Ma Nino Lo Giudice non si ferma qui e va avanti accusando Pignatone, Ronchi, Prestipino e Cortese di far arrivare al suo avvocato a Catanzaro per farlo andare via solo dopo 30 minuti, al solo scopo di restare solo con loro (il tutto sarebbe nei verbali, secondo il pentito). Un rapporto viziato, come successivamente sottolineerà il collaboratore di giustizia, dalla constatazione di dover dire ciò che “a loro piaceva”.

Un esempio su tutti, per usare un eufemismo, le accuse mosse a Mollace e Cisterna sui rapporto con il fratello Luciano dove “non c’erano affari illeciti e i miei interlocutori che non stava bene, minacciandomi che se non avrei raccontato quello che ‘a loro piaceva’ mi avrebbero spedito indietro e al 41 bis”. Un atteggiamento che Lo Giudice definisce intimidatorio “dandomi l’ultimatum per il giorno seguente e che dovevo pensare bene cosa raccontare” con discorsi “convincenti” e “compiacenti”, un mosaico che lo ha portato ad inventare tutto, ma che accettò come fosse un “supplizio” al solo scopo di acquisire la “patente di collaboratore” al solo scopo di riacquistare parte della libertà perduta. Un fiume di parole che mira a giustificarsi rispetto dopo aver accettato “a trascendere alla loro tragedie a inventarmi delle cose che non esistono, che non potevo sapere”. Non si riesce a capacitarsi delle dichiarazioni scritte da Lo Giudice, a volte anche confuse a volte precise, ma fluide. Parla di “genesi” della collaborazione, del “villano che sa bene” di un “tragediatore maledetto” che è andato oltre alle aspettative pattuite, come non parlare di persone e fatti che non conosceva. Ma di qualcosa era a conoscenza Lo Giudice e solo per questo, non per altro, voleva collaborare. Come ad esempio l’omicidio dei Carabinieri, operato da “Villani e l’altro Giuseppe Calabrò (due squilibrati)” o dell’omicidio di Calabrò Francesco ucciso dallo stesso Villani dopo averlo fatto arrivare al porto per una partita di armi. Lo stesso Villani (Consolato) , secondo Lo Giudice, tentò di depistare le indagini, il tutto per vendicarsi “come una carogna fa con una carcassa”. Parla di vendetta Nino Lo Giudice, una vendetta che lo ha spinto ad accusare tutti “senza risparmiare nessuno, anche il mio stesso sangue” colpevole di averlo abbandonato in carcere e che lo ha portato ad inventarsi tutto. “Ma quali affiliazioni, quale padrino, non esiste nulla, ho letto tutto nei libri che ancora penso siano li a casa mia a Reggio”. Dalla letteratura alla realtà, si potrebbe dire, ma non sempre è facile come, ad esempio, quando l’avvocato Nardo gli chiese di recitare la formula della “Santa” e altre formule di giuramento a lui sconosciute. Come sconosciuto a lui era l’autore dell’omicidio Geria (Angelo) di cui si era accusato insieme ad Antonio Rosmini solo “perché c’è un’antipatia viscerale”. Antipatie, vendette, solo perché si sentiva discriminato come per “Reliquato Giuseppe, Bruno Stilo, Lo Giudice Giuseppe” che devono gridare con forza “che sono innocenti”,come per i nipoti Fortunato e Salvatore Pennestri, innocenti pure loro, che “stanno scontando una pena ingiusta” il tutto solo per vendette e risentimenti personali. Ma Lo Giudice non accusa solo se stesso, anche il pentito Consolato Villani sarebbe “pilotato dalla cricca” basterebbe leggere i suoi verbali per capire che “non si rende conto di quello che racconta”.

Anche lui, dunque, secondo il racconto della “cricca” usato strumentalizzato ai loro fini come anche gli avvocati “Gallo (Lorenzo) e Pellicanò (Giovanni) questi son vittime voluti da Pignatone, Ronchi, Prestipino, Cortese che a più riprese hanno voluto tornare sull’argomento perché quello che io dichiaravo non bastava mai, anzi è mancato poco che venissero accusati di gravissimi che a suo tempo riferirò”. Tutte persone a cui il fuggitivo collaboratore di giustizia sente di dover chiedere perdono, ma in particolar modo all’avvocato Gallo. Un memoriale sconcertante, se confermato, che pone in essere un sistema corrotto e corrosivo a cui si fatica a credere, potremmo dire dirompente come il fragore di quella bomba esplosa il 3 gennaio 2010 davanti alla Procura di Reggio Calabria. Un lungo ed estenuante memoriale, per chi legge e scrive, che pone dubbi su tutto e su tutti, personaggi, magistrati, funzionari di polizia, etc. etc, ma che non finisce qui. Perchè Lo Giudice va avanti per descrivere la cattura del boss Pasquale Condello “che io non mai conosciuto personalmente”, alla cui cattura non ha mai contribuito, quindi risulterebbero false le sue dichiarazioni su “Laganà Antonio, Mosè fabio, Cuzzola Santo, o Luciano Lo Giudice” che mai avrebbero ospitato il boss durante la sua latitanza. Tutto inventato, secondo il pentito, per motivi di rancore personale come l’omicidio del padre attribuito alla volontà di Pasquale Condello, o per Lombardo Giuseppe (alias “Cavallino”) che con le sue dichiarazioni lo aveva fatto arrestare nel 2007. Dunque, come sempre sostenuto da alcuni fonti, la cattura del super boss di ‘ndrangheta Pasquale Condello è merito solo del colonnello Valerio Giardina. Le sue dichiarazioni, in merito, erano indirizzate al fine di “far scoprire i veri responsabili di chi informava i ROS per la sua cattura, usando la dottoressa Ronchi che convinta di trovare riscontri a mio favore di collaboratore, invece si trovava di fronte a una verità inaspettata e che prova la mia estraneità”. Tasto dolente il fratello Luciano “non è mai stato affiliato, né prima, né dopo e stato solo per volere di Pignatone che insisteva su di lui così tanto”. Le parole di Nino Lo Giudice sostengono di aver dovuto cedere per aver “un po’ di pace” quindi lo avrebbe accontentato, a suo dire, “consegnando un manoscritto (richiesto da lui) con nomi e cognomi e gradi di tutti i miei fratelli, cognati, e nipoti e persone estranei ma è un manoscritto falso”. Basta, direbbe una semplice mente umana, basta o qui si sprofonda nell’abisso o si rasenta il ridicolo, ma l’informazione deve continuare al di là delle semplici chiacchiere da bar. Quei gradi, questi ruoli, Nino Lo Giudice li ha copiati “sui libri che il dr Gratteri ha scritto”, quindi “mi sono dato il ruolo di padrino da solo, come Consolato Villani si è dato il Vangelo”.

Tutto falso, dunque, secondo il pentito: accuse, ruoli, persone. Tutto falso e lui da sfondo, davanti all’elemento principale il “burattinaio” che può causare danni irreparabili. Scardina tutto, Lo Giudice, scardina in modo dirompente tutto l’asset del pentitismo calabrese gettando ombre su ombre: le armi acquistate in Austria, no a Reggio Emilia, come suggerito dalla Ronchi, “erano armi detenute legalmente come ho sempre detto, l’unico proprietario era Antonio Cortese perché era appassionato di caccia. È vero ci sono stati tanti passaggi, ma è anche vero che il suocero di mio fratello Luciano era possessore di porto e detenzione di armi anche lui cacciatore, non è vero che potessero servire a un eventuale guerra”. Quello che viene raccontato non ha una definizione giuridica e storica, sociale, di lotta, quello che viene descritto (molti colleghi hanno preferito pubblicare solo il memoriale) inquina l’anima di chi in Calabria lotta per la ‘ndrangheta senza per questo farne una professione di fede o altro e un pentito usato per ogni uso è qualcosa che trascende la normale ragione e con difficoltà viene accettato. Una difficoltà che vede in campo anche il magistrato della DNA Donadio (Gianfranco) che volle ascoltare il pentito quando questo era atteso dal procuratore Lombardo a Reggio Calabria. Un colloquio su “persone a me sconosciute” nel quale “ho subito forti pressioni e minacciato”. In quel colloquio si parlò della morte dei carabinieri, di Giovanni Aiello e di una certa Antonella, un colloquio (ascolta la registrazione integrale, dichiara il pentito) dove confermò tutto quello richiesto da magistrato della DNA, arrivando a discutere anche degli “attentati di Borsellino e di altro omicidio avvenuti in Sicilia ai danni dei due poliziotti in borghesi e di un altro omicidio consumato ai danni di un bambino”. Alla fine di questi discorsi il pentito afferma “chiesi io a lui di suggerirmi i nomi di queste persone”che sarebbero state addestrate ad Alghero in una base militare per commettere attentati. La ragione stenta a leggere queste cose, vacilla, nel mare delle incertezze che si susseguono e che parlano anche delle presunte armi dentro il Gran Caffè, tutte bugie. Finalmente è giunta la conclusione a questo memoriale che è davvero sconcertante e trovare conferma in tutte le sue parti, anche in quelle e per quelle persone che lo stesso pentito dice di aver dimenticato perché “glia argomenti che mi hanno esposto la dotteressa Ronchi, Pignatone, Prestipino, Cortese sono stati tantissimi, quindi ritratto tutte le mie dichiarazioni che sono palesi e quelli che ancora non sono stato resi pubblici”. Ora in attesa che tutto questo sia passato al setaccio, vagliato, analizzato dalla magistratura l’unica cosa certa sono le dichiarazioni dello stesso magistrato accusato da Lo Giudice, Alberto Cisterna, che ha subito dichiarato “lo so bene: il drammatico e frenetico succedersi degli eventi imporrebbe di attendere per capire cosa stia veramente succedendo in queste ore. Una cosa, però, mi sento di doverla dire con urgenza assoluta e la dico al signor Lo Giudice Antonino. Mi appello a lui perché ponga fine subito alla sua latitanza e si consegni alla giustizia, nelle mani esclusive del procuratore di Reggio Calabria Cafiero de Raho”. 

L’hanno indicato come un «corrotto», amico di quell’Antistato che per decenni ha combattuto in prima linea, scrive Carlo Macrì” su “Il Corriere della Sera”. Prima in Calabria e poi alla Dna, come vice di Piero Grasso. La vicenda giudiziaria di Alberto Cisterna, magistrato di prim’ordine, è finita però con un’archiviazione, richiesta dagli stessi magistrati di Reggio Calabria che per due anni hanno cercato prove e riscontri alle affermazioni del pentito Nino Logiudice, il “malacarne” di periferia, che l’ha accusato di aver preso soldi dal fratello Luciano, in cambio di favori. Alberto Cisterna, che nel frattempo è stato trasferito dal Csm per incompatibilità ambientale a Tivoli, con funzioni di giudice, ha chiesto la revoca dell’archiviazione. «Voglio un processo e una sentenza e sono disposto anche al giudizio immediato, purché su questa storia si arrivi a una verità» – ha detto l’ex sostituto procuratore della Dna. «I miei colleghi della dda di Reggio Calabria hanno trascorso due anni a monitorare gli ultimi dieci della mia vita. Hanno frugato nei miei conti correnti e valutato tutte le spese fatte con le mie carte di credito. Hanno analizzato cinque anni dei miei tabulati telefonici. Hanno applicato in via straordinaria al mio procedimento un magistrato che, benché trasferito da mesi alla procura di Bologna, è stato mantenuto a Reggio Calabria per occuparsi prevalentemente del mio caso. Hanno interrogato amici, conoscenti e persino i miei studenti dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Per arrivare ad un’archiviazione che non accetto, perché il reato contestatomi è inesistente»- ha aggiunto Alberto Cisterna. E poi: «Il decreto di archiviazione è in sostanza una sentenza emessa in contumacia, un giudizio senza possibilità di appello e senza che vi sia stato alcun contraddittorio». Il provvedimento del gip che ha cancellato l’ «infamia» e composto di circa 600 pagine, otto faldoni dove i pubblici ministeri hanno riconosciuto l’ «inattendibilità» del pentito Nino Logiudice. Il picciotto che vendeva angurie e che i boss utilizzavano per piccoli furti, è lo stesso pentito che si è autoaccusato di aver messo le bombe davanti alla Procura generale di Reggio Calabria e davanti all’abitazione del procuratore generale della città, Salvatore Di Landro. Senza però mai spiegare i veri motivi di quegli attacchi «istituzionali» che nel 2010 hanno intorbidito l’ambiente giudiziario reggino. «Quando affermo che il decreto di archiviazione è inaccettabile, voglio dire che, per me, il processo penale non potrà mai giungere alla verità, ossia ricostruire i fatti così come sono andati. Ma la decisione del giudice deve costituire una mediazione accettabile tra la verità processuale e quella sostanziale, tra le carte dei pubblici ministeri e quello che io ho fatto» – ha spiegato Cisterna.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…).

Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti.   

«L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!».

Va giù duro il presidente Antonio Giangrande.

« Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però,  le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati  a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D'altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!»

Continua Antonio Giangrande.

«Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Le associazioni antiracket ed antiusura riconosciute dal Ministero dell’Interno sono pubblicate sul sito ministeriale.

Alcune non sono schierate, molte di loro, invece, fanno capo al FAI (Federazione Antiracket Antiusura Italiana) di Tano Grasso ed a LIBERA di Don Ciotti. Notoriamente, questi coordinamenti sono destinatari dei fondi statali e regionali.

Quei sette milioni che spaccano l' antiracket, scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. L'ultima polemica nell'antimafia è scoppiata dopo la firma di quattro convenzioni, per quasi 7 milioni di euro, fra il ministero dell'Interno e le associazioni che fanno capo al leader storico del movimento antiracket, Tano Grasso. «Convenzioni basate su un finanziamento milionario», accusa Lino Busà, presidente nazionale di Sos Impresa, animatore di un'altra rete nazionale di associazioni antiracket, la Rete per la legalità: «D'ora in poi potremo dire che esiste un antiracket no profit e un'industria dell'antiracket», accusa Busà. «Stiamo valutando la legittimità di quelle convenzioni, che hanno assegnato finanziamenti davvero esorbitanti senza alcun bando pubblico», aggiunge il presidente di Sos Impresa. «Quei finanziamenti tolgono soprattutto autonomia alle associazioni», dice l'avvocato Fausto Amato, legale di parte civile in molti processi di mafia, impegnato anche lui nelle iniziative di Sos impresa e della Rete per la legalità. Una delle convenzioni riguarda anche l'attivissima associazione palermitana Addiopizzo: con la collaborazione della federazione di Tano Grasso si occuperà di promuovere la diffusione del "consumo critico antiracket", fra Palermo e Gela. Per questa iniziativa, che proseguirà per tre anni, il commissario antiracket del governo ha previsto un milione e 400 mila euro. Dice Tano Grasso, presidente onorario della Fai, federazione delle associazioni antiracket e antiusura: «È necessario dare una svolta all'impegno importantissimo delle associazioni sul territorio. E per farlo sono necessari strumenti. Per il resto, le associazioni continueranno ad operare in autonomia, senza alcuna soggezione nei confronti della politica, anche perché quei finanziamenti arrivano dall'Unione Europea, non dallo Stato. Cosa avremmo dovuto fare? Rinunciare a questa opportunità, che è anche un riconoscimento che l'Europa fa del lavoro svolto dalle associazioni sul territorio?». Grasso spiega che Fai e Addiopizzo avranno solo il compito di coordinare le iniziative: «Gli operatori degli sportelli sono stati selezioni attraverso rigide selezioni avvenute attraverso un bando pubblico», spiega. «Sono stati scelti professionisti che neanche conosco - dice ancora Tano Grasso - sono tutte persone che concretamente, e in modo professionale, potranno aiutare le vittime degli esattori». È ormai scontro fra le due anime del movimento antiracket: da una parte il Fai, dall'altra la Rete per la legalità. «Da due anni abbiamo fatto una scelta netta - dice Busà - vogliamo essere liberi dalla politica. Non riesco davvero a comprendere come si possa arrivare a finanziamenti così elevati: vengono dati 700 mila euro per realizzare uno sportello che noi offriamo da anni gratuitamente». La settimana prossima, il ministro dell'Interno firmerà un'altra convenzione, questa volta con il presidente Confindustria Emma Marcegaglia: il cuore di altre iniziative antiracket sarà la provincia di Caltanissetta. «L' antiracket non è solo Palermo o Napoli, dove tanti commercianti hanno scelto di denunciare», prosegue Tano Grasso: «In tante realtà, soprattutto in provincia, la situazione è ancora difficile, e non basta il volontariato delle associazioni, bisogna costruire progetti e sostenerli con adeguate professionalità, solo così potremo vincere davvero la lotta al pizzo». Busà ribatte: «Le associazioni antiracket devono nascere dal basso, dagli stessi commercianti. Non servono soldi, solo tanta buona volontà».

Il venticello della calunnia sfiora e avvelena il fronte dell' antiracket, scrive Felice Cavallaro su “Il Corriere della Sera” . Non perché i boss siano passati al contrattacco nell'era della ribellione di commercianti e imprenditori. Ma perché a temere una burocratizzazione delle strutture «anti» e, addirittura, a sospettare un giro di mazzette per pilotare i rimborsi del Fondo appositamente costituito è qualche «vittima» adesso lanciata contro i vertici delle associazioni. E un nome s'impone su tutti, quello di Tano Grasso, mitico condottiero dei commercianti di Capo d'Orlando ai tempi di Libero Grassi, presidente onorario della Fai, la federazione antiracket, casa a Napoli dove è consulente del sindaco per la stessa materia. «Spazzatura», dicono di ogni accusa i suoi amici, da don Luigi Ciotti a Pina Grassi, comprese le icone dell' antiracket in Calabria e Campania, Maria Teresa Monaco e Silvana Fucito. Come l' avvocato di Grasso, Fausto Amato, già alla settima querela. Mentre lui sale al Viminale temendo la «delegittimazione» e trovando solidarietà nel ministro Amato. Sembra riecheggiare la polemica sui professionisti dell'antimafia dopo le prime frecciate arrivate attraverso «L'Espresso» con la storia di Giuseppe Gulizia, il costruttore siciliano che ha denunciato il coordinatore Fai nell'isola Mario Caniglia, altro simbolo dell'antiracket. Un terremoto. Perché Gulizia sostiene di avere «ringraziato», dopo i primi rimborsi del Fondo, con bottiglie di champagne imbottite da mazzette da cento euro e di avere dovuto comprare olio a prezzo maggiorato. In totale, una tangente di circa 60 mila euro, il dieci per cento di una prima tranche da 600 mila euro incassata dallo stesso imprenditore con le pratiche antiracket. La vicenda è complessa. Di certezze nessuno ne ha. L'indagine appare difficilissima. E chi denuncia potrebbe passare per un calunniatore. Ma il sospetto soffia come una bufera. Anche contro Grasso che Gulizia giura di avere informato. Quanto basta per scatenare un fuoco di sbarramento a difesa, ma anche nuovi forti attacchi. Come quello di Sonia Alfano, quasi conterranea di Grasso visto che la mafia le ha ucciso il padre giornalista a Barcellona, vicino a Capo d'Orlando, adesso candidata per Grillo alla presidenza della Regione: «L'antiracket non può essere una sola persona. Si faccia da parte per un momento Grasso, se ci sono ombre. Come abbiamo chiesto tante volte a chi ha i riflettori della giustizia puntati addosso. E' il caso di Caniglia. Altrimenti si da la sensazione di una casta. Se si tocca uno di loro ci si scotta...». Non piace questa posizione a don Ciotti che invita piuttosto «ad accertare le responsabilità di chi sparge zizzania». Un po' come Pina Grassi, arrabbiata con i cronisti: «Le notizie vanno verificate prima di questi subdoli attacchi...». E Maria Teresa Morano, coordinatrice dell'antiracket in Calabria: «Noi, con Grasso, siamo quelli che da 15 anni accompagniamo le vittime in tribunale. Il resto lascia il tempo che trova». Severa Silvana Fucito, presidente dell'associazione San Giovanni a Teduccio, tre anni fa indicata da Time «personaggio dell'anno in Europa»: «Sono infuriata contro chi si erge a giudice additando le associazioni e Tano Grasso. Mi sento parte offesa in prima persona». Un fiume in piena e anche se Rita Borsellino non risparmia «solidarietà» a Grasso, la Fucito che sa di una frizione con Don Ciotti bacchetta pure su questo fronte: «La Borsellino ormai non riesce a guardare verso il basso, dove noi operiamo accanto a chi soffre e vive i problemi...». Altra frecciata interna ad un mondo sul quale non tollera «il rischio delegittimazione» lo stesso Grasso: «Per questo sono andato da Amato, pronto alle dimissioni. Ma io sono sciasciano puro. E, da professionista dell'antimafia, convinto che Sciascia avesse ragione, ho usato la sua lezione come antidoto. Ombre? Vedo solo quelle di chi vuole ridimensionare il ruolo dell' antiracket e normalizzare».

LE MAFIE NEL MONDO. GOVERNI ED ORDINAMENTI GIURIDICI PARALLELI.

Oltre alle nostre mafie c'è di più. Dalla Yakuza alla mafia russa, passando per le spietate organizzazioni criminali di Messico e Colombia.

Con mafia ci si riferisce tradizionalmente a gruppi criminali emersi in Sicilia intorno alla metà del XIX° secolo, associazioni volte a controllare il territorio locale in modo organizzato e secondo precise regole di condotta. Oggi, si utilizza in modo generico e canonico il termine "mafia" per indicare associazioni criminali aventi lo scopo di controllare, gestire e preservare i profitti derivanti da traffici illeciti. Lo scrittore e sociologo storico Antonio Giangrande ingloba nel termine mafia, altresì, gli apparati corporativi leciti come le Caste, le Lobbies e le massonerie deviate. Strutture che usano l'affiliazione ed il potere pubblico di cui sono portatori, o ad essi riconosciuto, per abusarne al fine di soddisfare gli interessi personali e collettivi. E' un sistema parallelo che provoca nei cittadini soggezione ed omertà. Spesso e volentieri troviamo la commistione tra i due sistemi (mafia bianca e mafia nera). Ciò è convalidato dal fatto che spesso sono proprio i membri delle istituzioni a far parte dei sodalizi criminali direttamente o indirettamente (appoggio o concorso esterno mafioso). I traffici della mafia vanno dalle armi alla droga, dalle estorsioni al traffico di esseri umani. Niente è tabù per le mafie di tutto il mondo, e le associazioni di crimine organizzato definite in questo modo sono note per la spietatezza nel gestire le loro attività più lucrose. La multinazionale della mafia ha migliaia di sedi in tutto il pianeta. Nessun Paese al mondo può vantare di non essere afflitto dalla piaga della criminalità, organizzata in clan e "famiglie". Si va da quelle storiche asiatiche, la Yakuza e le Triadi cinesi, alla nostrana mafia siciliana, che ha ben attecchito negli Stati Uniti. E poi, i terribili mafiosi messicani e la potente mafia dell'Est, capeggiata dai boss russi che si distinguono per acume e cattiveria. Molti i tratti distintivi dei mafiosi, che prediligono soprattutto i tatuaggi, mentre qualcuno (come in Giappone) per dimostrare l'appartenenza totale al clan Yakuza si amputa le falangi dei mignoli.

Le Mafie italiane. La ’ndrangheta di origine calabrese in Italia è ormai più potente e pericolosa di Mafia (Cosa Nostra e Stidda) di origine siciliana e Camorra di origine campana. Sicuramente dalle 'ndrine calabresi hanno avuto la genesi la Sacra Corona Unita in Puglia (Salento) ed il sodalizio dei Basilischi in Basilicata. È radicata e diffusa nel territorio, dalla Calabria alla Lombardia. Gode della fiducia della criminalità di altri Paesi. Ha costruito il suo impero con i sequestri, si procura il cash con l’usura, investe cifre enormi nel commercio della droga. Fa ormai così parte del tessuto sociale che sembra impossibile sconfiggerla. Oggi la 'Ndrangheta è considerata la più pericolosa organizzazione criminale in Italia, ma è anche una delle più potenti al mondo, con una diffusione della presenza anche all'estero (dal Canada ad altri paesi europei meta dell'emigrazione calabrese). Secondo il rapporto Eurispes 2008 ha un giro d'affari di 44 miliardi di euro. La versione americana di Cosa Nostra è relativamente recente: inizia nella metà del secolo scorso, e si caratterizza subito per la sua abilità di progettare attività criminali ad ampio respiro, senza tuttavia lasciare tracce del suo coinvolgimento. Le sue attività vanno dal racket della protezione al traffico di droga e di armi, fino alla mediazione del business criminale di diverse organizzazioni mafiose. Gli appartenenti a questa mafia sono pochi se paragonati ad altre associazioni criminali, ma sono estremamente selezionati e fedeli al clan, e devono seguire severamente la "regola del silenzio". Chiunque sia "affiliato esterno" non sa mai cosa passi per la testa dei boss o degli affiliati più stretti. "La Cosa nostra" (Lcn) continua a essere la più potente, diffusa e temibile organizzazione criminale negli Usa, al primo posto per fatturato nella classifica mondiale delle mafie. Ha collegamenti stabili con altre organizzazioni criminali e con Cosa nostra siciliana, di cui conserva la struttura: un boss, il suo vice, il gruppo di consiglieri, le truppe. È insediata in almeno 19 stati della Confederazione con le famiglie storiche dei Gambino, Colombo, Bonanno, Genovese, Lucchese, e le più recenti De Cavalcante, Patriarca e Scarfo. I suoi interessi primari sono narcotraffico e riciclaggio, ma anche estorsione, gioco d’azzardo, frodi, usura. Condiziona inoltre i settori economici del trasporto su gomma, delle costruzioni, della raccolta dei rifiuti (tossici, in particolare), ristoranti, distribuzione alimentare, carburanti, abbigliamento, corse dei cavalli, pompe funebri. Controlla diversi sindacati dei lavoratori delle costruzioni, del porto e degli aeroporti di New York.

La Mafia Russa. Nata durante l'Unione Sovietica, ha contatti in tutto il mondo, con un'influenza che non ha pari a livello globale. Gli affiliati vanno dai 100.000 ai 500.000, a livello planetario. Le sue attività sono principalmente traffico di droga e di armi, attività terroristiche, pornografia, frodi telematiche e traffico di organi. La regola primaria è "non collaborare mai con la polizia". Se uno dei membri della mafia russa viene catturato, è facile che venga ucciso non appena rilasciato, visto il potenziale pericolo che rappresenta per l'organizzazione. In Russia, tra i diversi gruppi mafiosi, dominano quelli di: Solntsevskaja Bratva, alla periferia di Mosca (traffico di droghe, estorsioni, riciclaggio, contrabbando); Tambovskaja-Malysevkaja, a San Pietroburgo (droghe, riciclaggio e frode); Izmajlovskaja-Dolgoprudnenskaja, presente anche a New York, Los Angeles, Miami, San Francisco (riciclaggio, estorsioni, furti, traffico di droga e omicidi su commissione); Uralmashkaja, attiva anche in Italia, Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Cina (materie prime, metalli preziosi, droghe e armi). Il gruppo Tambovskaja è quello più influente nella regione nord-occidentale, dispone di una propria rete bancaria, di industrie legali e istituti di vigilanza privata; controlla l’industria dei combustibili e dell’energia, la produzione alimentare, il mercato immobiliare e dell’intrattenimento. Merita un cenno anche la mafia caucasica, strutturata in gruppi su base etnico-religiosa, tra cui spiccano i ceceni. Questi, a Mosca, nei primi anni Novanta, si dedicavano al traffico di autovetture rubate, poi hanno esteso la loro influenza nelle principali città russe, soprattutto nel settore finanziario. Ogni gruppo ha le sue ‘specializzazioni’: i georgiani, sequestri di persona e furti con scasso; gli azeri, il mercato nero dell’ortofrutta; i daghestani e gli armeni, il racket sui piccoli commercianti; gli osseti, rapine e violenze sessuali.

La Mafia Cinese. E' di sicuro la mafia più potente d'Oriente, con sedi in Cina, Malesia, Singapore, Hong Kong, Taiwan, e via dicendo. Molto attiva anche negli U.S.A., è generalmente coinvolta in furti, omicidi a pagamento, traffico di droga, pirateria ed estorsioni. L'organizzazione mafiosa cinese ha inizio nel XVIII° secolo con il nome di Tian Di Hui, che significa "Società del Cielo e della Terra". Tutto nasce dall'occupazione britannica, che favorisce le attività criminali delle società segrete cinese, che vennero definite "triadi". La mafia cinese, con le Triadi (i tre elementi originari confuciani: il cielo, la terra e l’uomo), ha quasi monopolizzato (oltre 4 milioni di membri), in importanti aree mondiali, la tratta delle persone, oltre a narcotraffico, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, estorsione, contraffazione di marchi, riciclaggio. In passato, in Italia era stata definita una mafia ‘Wuton Wutei’ (draghi senza testa e senza coda), per il basso profilo criminale. Ha struttura stratificata, con a capo il Grande fratello (Testa del Dragone) affiancato da un comitato ristretto. Per questa organizzazione – a differenza della mafia italiana – l’uso della forza per il controllo territoriale continua ad essere solo una conseguenza della ricerca del profitto nelle attività commerciali.

Così la mafia cinese colpisce l'Italia. Omicidi, attentati: da Napoli a Prato, le centrali della criminalità cinese crescono a ritmi sempre più veloci, scrive Giorgio Sturlese Tosi l'11 dicembre 2018 su "Panorama". È l’una di notte quando, nel cuore del distretto tessile di San Giuseppe Vesuviano, 30 chilometri da Napoli, un commando di killer armati di pistole e machete entra nell’albergo-ristorante cinese Villa Paradiso. Gli uomini, urlando, si scagliano su tre persone sedute a un tavolo. Vittime e aggressori sono cinesi. Il sangue schizza fin sugli improbabili affreschi di paesaggi asiatici. Una mattanza. Su Zhi Jian, 28 anni, colpito da trentatré coltellate, muore poco dopo in ospedale.

Questo accadeva una notte di maggio del 2006. Undici anni dopo, è il giugno 2017, nella zona industriale dell’Osmannoro vicino a Firenze due pachistani dipendenti di una ditta di trasporti vengono circondati da un gruppo di cinesi mentre caricano un camion. Vengono feriti gravemente, uno a revolverate e l’altro con martellate al petto. La scia di sangue che lega questi due episodi, avvenuti a centinaia di chilometri di distanza, è quella della mafia cinese in Italia (e con mille diramazioni in molte città europee).

Chi è Zhang Naizhong, l’Uomo nero. Per anni, squadra mobile di Prato e Servizio centrale operativo della polizia hanno pedinato, intercettato, ricostruito gli affari di colui che per i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Firenze è il capo dei capi di una potente e feroce organizzazione criminale, con radici nelle regioni cinesi dello Zhejiang e del Fujian e, appunto, «terminazioni» nelle chinatown italiane ed europee: il suo nome è Zhang Naizhong, soprannominato l’Uomo nero. È un imprenditore di successo nel trasporto merci su gomma. Nel nostro Paese si sposta sempre su auto di lusso con autista. Uomo scaltro e spietato, secondo le accuse ha iniziato la sua carriera criminale da clandestino in Francia, a Parigi: qui, negli anni Novanta faceva lo «spallone» nel traffico dei wu ming, i «senza nome» arrivati in Occidente privi di permesso di soggiorno e impiegati poi come manodopera nei laboratori tessili di mezz’Italia. La prima volta Zhang Naizhong è stato arrestato, alla fine degli anni Novanta, nel corso di un’indagine del tribunale di Roma sull’immigrazione clandestina. Scarcerato in breve tempo, ha fondato la società di trasporti Euro Anda, sempre mantenendo i contatti con importanti malviventi in Cina. Parallelamente, ha investito in vari locali notturni della Capitale, in cui è stato accertato lo sfruttamento della prostituzione, anche minorile, e lo spaccio di droghe pericolose come la ketamina. Zhang ci ha saputo fare e, secondo quanto hanno ricostruito gli inquirenti fiorentini, abbinando fiuto per gli affari e violenze contro rivali e clienti, ha raggiunto alla fine il monopolio italiano nel trasporto merci. Illuminante una frase detta ai suoi (e intercettata): «Prima non sapevo come gestire gli affari perché sapevo solo fare il mafioso...». Il tribunale di Napoli lo ha condannato in primo grado per favoreggiamento proprio per la mattanza nell’hotel ristorante Villa Paradiso di San Giuseppe Vesuviano. Ma è stato poi assolto in appello e ha continuato a ingrandirsi lungo le rotte della logistica nel nostro Paese. Stava puntando così a scalare il mercato europeo quando gli agenti del Servizio centrale operativo della polizia e della Mobile di Prato, nel gennaio scorso, lo hanno scalzato dal trono con l’operazione «China Truck», con 53 indagati. A incastrarlo, oltre agli elementi raccolti negli anni dagli inquirenti, un supertestimone: Deshun Weng, alla testa della Eurotransport, una società di logistica rivale di Naizhong. Anche lui è stato coinvolto negli scontri con gli uomini della Euro Anda, ma è soprattutto un insider che conosce i retroscena di molti episodi di violenza, il Tommaso Buscetta di questa inchiesta.

Il business cinese in Europa. Weng ha confermato le tesi investigative e ha raccontato di sparatorie, attentati incendiari, sequestri e omicidi dietro cui ci sarebbe sempre l’Uomo nero. Sullo sfondo, in uno scenario più vasto, una guerra senza esclusione di colpi per aggiudicarsi le tratte su cui viaggiano le merci provenienti dalla Cina. Un business smisurato e un movente più che concreto: nel 2017, l’Agenzia delle dogane ha registrato più di sei milioni di tonnellate di merci cinesi in ingresso in Italia, per un valore di oltre 25 miliardi di euro. Si tratta di milioni di container che sbarcano nei maggiori porti italiani ed europei: il Pireo in Grecia, Napoli, Amburgo in Germania e Bilbao e Valencia in Spagna. Da questi terminali, ogni giorno, muovono migliaia di tir diretti ai depositi di stoccaggio. E da qui viene alimentata in tutt’Europa la rete del commercio al minuto attraverso una flotta infinita di furgoni...È un business destinato a moltiplicarsi con la «Belt and road iniziative», il piano di investimenti da 100 miliardi di dollari che il presidente Xi Jinping vuol destinare a infrastrutture marittime e viarie, inclusi gli scali italiani, per espandere i commerci cinesi in Occidente. Proprio ricostruendo questi percorsi, le inchieste della gendarmeria francese, della guardia civil spagnola, della bundeskriminalamt tedesca hanno trovato punti di contatto con le indagini della Dda napoletana e fiorentina. Dal canto loro, ogni volta che investigatori e magistrati italiani hanno provato a tracciare le linee commerciali su cui si muovono i mezzi della Euro Anda, con sede a Roma in via del Maggiolino, e filiali a Prato, Parigi, Madrid e Neuss, in Germania, si sono imbattuti in un cadavere.

L'operazione "China Truck" e le altre inchieste. In gennaio, luogotenenti e sicari dell’organizzazione di Zhang Naizhong andranno alla sbarra a Firenze. Tra le accuse: spaccio di droga, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, ma anche usura, estorsione e gli immancabili favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e contraffazione di marchi di moda. Tutti reati che, secondo il sostituto procuratore antimafia fiorentino Eligio Paolini, sono serviti a mantenere il potere e a finanziare le attività di trasporti che tale potere hanno alimentato. Il giudice delle indagini preliminari di Firenze ha contestato anche l’aggravante mafiosa: l’assoggettamento degli affiliati, l’intimidazione delle vittime, l’omertà della comunità cinese richiama secondo il gip ruoli e modalità della mafia siciliana degli anni Ottanta, sia pure in modo ancora rozzo e sanguinario. Il tribunale del riesame e la Cassazione hanno tuttavia negato che si tratti di mafia, scarcerando gran parte degli indagati e mettendone altri, come il presunto «capo dei capi», ai domiciliari con il braccialetto elettronico. La complessa partita giudiziaria tuttavia è in corso. «China truck» non è comunque l’unica indagine che ipotizza traffici criminali cinesi in tutto l’Occidente. Altre inchieste svelano punti di contatto inquietanti con l’organizzazione di Zhang Naizhong. In Spagna si sta svolgendo un processo-monstre contro un’associazione a delinquere cinese con interessi nella tratta di clandestini, trasferimenti illegali di miliardi di euro, spaccio di merce contraffatta. A guidarla, secondo l’inchiesta che rischia di coinvolgere personalità di spicco anche istituzionale, ci sarebbe Gao Ping, mecenate d’arte, proprietario di squadre di calcio e amico dei reali di Spagna. Le merci clandestine che ha nascosto a Fuenlabrada, l’enclave commerciale cinese vicino a Madrid, avrebbero viaggiato su camion di criminali cinesi che facevano consegne anche nei depositi di Zhang Naizhong. Ancora: un’inchiesta della guardia di finanza italiana, partita nel 2012 contro 227 imputati e rimasta ferma nel tribunale di Firenze fino alla prescrizione arrivata la scorsa estate, aveva ricostruito il flusso sotterraneo del denaro frutto di attività lecite e illecite, dall’Italia alla Repubblica popolare cinese. Ogni anno, da Prato, attraverso i «money transfer» e la compiacenza di Bank of China, veniva spedito in Oriente oltre mezzo miliardo di euro. Gli inquirenti hanno seguito uno dei corrieri incaricati di inviare il denaro all’estero, il suo nome è Ye Zhekay. In varie tranch ha depositato un milione e 300 mila euro in un’agenzia pratese di trasferimento valuta. Ye Zhekay era il referente di Zhang Naizhong in Francia.

Prato, il fulcro della malavita cinese. In dicembre saranno infine rinviati a giudizio i 92 cinesi indagati per traffico illecito di rifiuti pericolosi dai Carabinieri forestali della Toscana. Hanno scoperto come alcuni trasportatori cinesi di Prato siano stati «collettore» per tonnellate di scarti tessili e plastici. I rifiuti (con la complicità della camorra) venivano raccolti in aziende del Nord e spediti a Shangai come materie prime destinate a nuove produzioni. Oggetti in plastica fuorilegge che la malavita orientale importava clandestinamente, come i 25 milioni di giocattoli pronti per finire sotto gli alberi di Natale e sequestrati lo scorso 26 novembre dalla Finanza in un capannone vicino a Napoli. Intanto a Prato, fulcro della malavita cinese, si continua a sparare. A luglio, in mezzo ai bambini che giocavano in un parco cittadino, due gruppi di cinesi si sono affrontati a colpi di pistola. Poi d’improvviso, alle soglie dei processi che si stanno per celebrare contro le organizzazioni criminali, è cominciata una strana quiete. O, più probabilmente, è un’ennesima e fragile pax mafiosa. 

La storia del capo della mafia cinese in Italia e Europa. Zhang Naizhong, arrestato il 18 gennaio scorso e ora ai domiciliari, solo due mesi prima aveva accompagnato un sottosegretario del governo di Pechino in visita di stato a Roma, per un giro nella capitale. Le intercettazioni svelano le relazioni pericolose, scrive Carmelo Abbate il 16 aprile 2018 su "Panorama". Una stretta di mano nella sede del governo italiano e un messaggio di benvenuto a favore di fotografi e telecamere. Sono le quattro del pomeriggio di lunedì 11 dicembre 2017. Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni accoglie la delegazione della Repubblica Popolare Cinese in visita ufficiale di Stato composta da alcuni ministri, diversi sottosegretari e guidata dal vice premier Ma Kai: "È un grande piacere riceverla qui a Palazzo Chigi e darle il benvenuto nella sede del governo. La sua visita, signor Primo ministro, si inserisce in un quadro di relazioni continue e sempre più forti tra Italia e Cina". Nelle stesse ore, sempre sull'asse Italia-Cina si registrano una serie di telefonate che vengono intercettate dalla polizia italiana. La prima è delle 10 circa del mattino. Da Pechino, Lin Gouchun, detto Laolin, chiama Zhang Naizhong a Roma. Gli dice che un amico, un personaggio importante di Pechino, si trova nella capitale e gli chiede di portarlo a visitare la città e di invitarlo a mangiare. Laolin spiega che un amico in Cina gli ha raccomandato di fare questo, e appena chiuderanno la telefonata gli girerà il contatto su Wechat. Per gli investigatori italiani, Laolin è il capo del ramo malavitoso italiano ed europeo proveniente dalla regione cinese del Fujian, il numero due nella piramide gerarchica dell'organizzazione mafiosa cinese che ha la sua base a Prato. In Cina, Laolin ha comprato diverse miniere di carbone, gli affari italiani li ha lasciati sotto la gestione diretta di un suo fidato luogotenente. Pochi minuti dopo la prima telefonata, sempre Laolin richiama Zhang Naizhong e gli dice che deve mettersi in contatto personalmente con quella persona, perché lui è un "capo di Pechino". Naizhong risponde che lui non sta bene, ha mal di schiena, ma chiederà ad Ashang di portarlo al Colosseo e in Vaticano, poi la sera gli farà trovare un ristorante prenotato. Laolin approva e gli dice di mettersi in contatto direttamente con il "capo di Pechino". Sempre per gli investigatori italiani, Zhang Naizhong è il vertice ultimo della piramide, il numero uno, il padrone indiscusso della mafia cinese in Italia ed Europa. La polizia gli sta alle calcagna da anni, lo considera l'uomo nero, il padrino, il capo dei capi. Dopo le dieci e mezza, Naizhong chiama la segretaria Amei e le ordina di far uscire Ashang con la Mercedes. Il presunto leader di Pechino ha due-tre ore di tempo, deve portarlo in giro e poi riaccompagnarlo dove vuole lui. Poco prima delle 11, Ashang telefona a Naizhong, gli conferma che ha sentito il "capo di Pechino" e si vedranno fuori dall'albergo. Due ore più tardi Naizhong richiama Ashang, il quale riferisce che ha preso la persona, gli ha già fatto vedere il Vaticano e sono diretti verso il Colosseo. Naizhong chiede se lo ha fatto mangiare, Ashang risponde che non c'è tempo, alle 15 e 30 lo deve riaccompagnare in albergo perché ha un incontro con dei "leader" italiani. Nel programma ufficiale della visita di Stato in Italia, alle 16 è fissato il ricevimento del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi. Ashang dice che il "capo di Pechino" gli ha dato appuntamento per le 17 e che dopo vuole andare a vedere la partita della Lazio. Naizhong conferma che ceneranno insieme in un ristorante vicino allo stadio Olimpico, saranno in sei, ci sono anche due amici del "capo di Pechino". Ashang dovrà aspettarli e riportarli in albergo al termine della partita. Nei giorni successivi, ricevute le traduzioni delle trascrizioni delle intercettazioni, la polizia effettua tutti i riscontri e ricostruisce l'identità del "capo di Pechino": un sottosegretario del governo cinese che partecipa a tutti gli incontri ufficiali, anche a quello del 12 dicembre con il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Ma è troppo tardi per fermare quello che, con la conoscenza di poi, è andato in scena per le strade di Roma il giorno 11 dicembre 2017: un cortocircuito diplomatico istituzionale, per cui un esponente del governo cinese si muove in proprio con auto e autista messi a disposizione da colui che è ritenuto dagli investigatori italiani il capo della mafia cinese, e viene scortato dalle macchine della polizia italiana. Pure quando il sottosegretario, a bordo dell'auto del padrino, va a cena con il padrino in persona: Zhang Naizhong. Panorama ha contattato la Farnesina e ha chiesto inutilmente i nomi dei componenti la delegazione cinese in visita ufficiale di Stato in Italia. La domanda alla quale cercavamo una risposta è semplice: davvero un sottosegretario del governo cinese si è accompagnato con l'uomo che dalle nostre forze di polizia viene ritenuto il capo della mafia cinese in Italia e in Europa? Se c'è stato un contatto "proibito", era inconsapevole? Certo, la "presa in carico" per un giro a Roma del sottosegretario cinese non è avvenuta in maniera casuale, ma su precisa richiesta arrivata da Pechino da parte di un uomo, Laolin, che per la polizia italiana avrebbe entrature molto forti grazie al business delle miniere di carbone. Uomo che viene considerato il braccio destro dello stesso capo dei capi, Naizhong. Nell'analisi degli elementi per trovare una risposta alla domanda di partenza, gli inquirenti italiani mettono sul tavolo anche un fatto avvenuto ai primi di dicembre dello scorso anno, poco prima della visita ufficiale in Italia. Succede che il figlio del padrino, Zhang Di, viene arrestato in Cina. Il contatto telefonico con persone in stato di fermo dovrebbe essere vietato, anche a Pechino, ma Naizhong alza il telefono dall'Italia e parla direttamente con il figlio. In videochiamata, come spiega successivamente alla nuora, la moglie di Zhang Di, il quale verrà comunque rilasciato pochi giorni dopo. Nel frattempo, il cerchio della polizia italiana partito dal duplice omicidio di due giovani cinesi, uccisi a Prato nel 2010, sta per stringersi. Il 17 gennaio Zhang Naizhong arriva a Prato in compagnia del figlio. Durante il giro delle sue aziende cambia continuamente auto, i poliziotti che gli sono alle costole alla fine ne conteranno otto. Al ristorante durante il pranzo le persone fanno la fila per essere ricevute. Si avvicinano, lo salutano, si inchinano. La notte, in albergo, dorme sul letto con un uomo che lo protegge a vista dal divano. Al mattino, Zhang Naizhong viene arrestato dalla polizia su ordine della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, che spicca un mandato di cattura per 33 persone, tra le quali c'è Laolin e pure il figlio di Naizhong. Altri 54 sono indagati a piede libero. L'accusa per tutti è di associazione per delinquere di stampo mafioso. Il capo dei capi viene portato in questura, si toglie dal polso l'orologio da 25 mila euro, si sfila anche l'anello con un diamante grosso quanto una nocciola, e si chiude nel silenzio. Rimane per molte ore da solo in una stanza della questura, quando i poliziotti lo accompagnano al fotosegnalamento, tutti gli altri arrestati seduti sulle sedie in corridoio, al suo passaggio abbassano la testa in segno di deferenza. Secondo i magistrati, siamo in presenza di una organizzazione mafiosa che gestisce attività illecite come usura, estorsione, gioco d'azzardo, sfruttamento della prostituzione, spaccio di sostanze stupefacenti, importazioni illegali, commercio di merci contraffatte. Una struttura potente che agisce con discrezione, non si pone mai in aperto antagonismo con lo Stato, e che grazie alla gigantesca quantità di denaro contante ricavato dalle attività illecite è riuscita ad acquisire di fatto il controllo assoluto nel settore dei trasporti delle merci su strada. Tutto ciò, secondo gli investigatori, facendo ricorso ad azioni intimidatorie e violente. A questo riguardo, gli uomini della polizia che hanno condotto l'inchiesta sono anche andati a rileggere diversi omicidi di cittadini cinesi avvenuti in Italia negli anni scorsi, e grazie ai nuovi elementi emersi durante le ultime intercettazioni sono arrivati ad alcuni punti fermi: gli autori degli omicidi erano tutti uomini del giro di Zhang Naizhong, e le vittime erano per la maggior parte concorrenti commerciali nel settore cruciale dei trasporti. In un caso specifico, l'assassinio di Su Zhi Jian, per il quale Naizhong era stato condannato per favoreggiamento in primo grado e assolto in appello, le nuove risultanze investigative della polizia vengono ritenute valide al punto da ipotizzare che Naizhong sia il "mandante" di quell'omicidio. Fin qui le certezze degli inquirenti. Ma il tribunale del Riesame di Firenze l'8 febbraio scorso ha provveduto a raffreddare gli animi. Scarcerazione di quasi tutti gli arrestati, la metà dei quali, compreso Naizhong, spediti ai domiciliari con braccialetto elettronico, e riformulazione dei singoli reati che non sarebbero legati da associazione mafiosa. Un duro colpo quello inferto dai giudici alla Procura, che ha già presentato ricorso in Cassazione e che però negli ultimi giorni ha portato a casa un punto importante a favore dell'inchiesta. Chiamato in causa dai legali degli indagati che chiedevano il dissequestro delle 13 società, due delle quali in Francia e tre in Spagna, otto auto di grossa cilindrata, due immobili e 61 fra conti correnti e deposito titoli, lo stesso tribunale del Riesame di Firenze ha infatti respinto la richiesta e mantenuto il sequestro preventivo sulla base di queste motivazioni: "Le società risultano comunque riferibili a Zhang Naizhong", ed è stata provata l'evidenza di come "il capo dell'organizzazione criminale, Zhang Naizhong, poteva disporre di ingenti quantità di denaro che rappresentano i proventi delle attività illecite poste in essere dal gruppo criminale in questione, quali per esempio la contraffazione, il gioco d'azzardo, l'usura, le estorsioni, lo spaccio delle sostanze stupefacenti e lo sfruttamento della prostituzione". Una conferma evidente che il sodalizio criminale di cui parla la procura esiste e ha al suo vertice il padrino, l'uomo nero, il capo dei capi: Zhang Naizhong.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 17 di Panorama in edicola da giovedì 12 aprile 2018 con il titolo originale "Il boss di scorta".

Il segreto degli ombrelli Made in Cina. Come fanno gli ambulanti a vendere migliaia di ombrelli in tutta Italia? Questione di organizzazione, scrive Giorgio Sturlese Tosi il 28 novembre 2018 su "Panorama". Sono migliaia in tutta Italia, spuntano quando piove e si raccolgono fuori dalle stazioni ferroviarie o nelle piazze più affollate. Sono i venditori abusivi di ombrelli. Noi camminiamo frettolosamente, scansando le pozzanghere, e li percepiamo appena; a volte sono provvidenziali e allunghiamo loro 5 euro in cambio di un ombrello, che spesso durerà giusto il tempo di un acquazzone. Nessuno sa che con quei 5 euro alimentiamo un mercato clandestino che ne vale milioni, e che parte e finisce in Cina: un mercato che è controllato dalle triadi orientali, le organizzazioni mafiose che dalla Repubblica popolare controllano i traffici in tutto il mondo. Da là infatti partono quegli ombrelli, tutti uguali, che bengalesi e senegalesi vendono nelle nostre città, stipati in centinaia di container spediti via mare o ferrovia. Container che vengono poi scaricati nei porti di Napoli, del Pireo, ma anche di Amburgo, dove ormai transita l’80 per cento di tutte le merci cinesi destinate all’Europa. L’organizzazione per la distribuzione della merce è davvero eccezionale, quasi militare. Aggirati i controlli doganali, i parapioggia (che non hanno né certificazione né etichetta) vengono caricati su camion. E qui entrano in gioco le triadi cinesi. Molte inchieste condotte dalla magistratura spagnola, tedesca e francese, e un’indagine recente della Direzione distrettuale antimafia di Firenze (denominata per l’appunto «China Truck», cioè «camion cinese»), hanno scoperto che il trasporto su gomma di merci cinesi è un monopolio delle organizzazioni criminali di Pechino e Shanghai, disposte a contendersi ogni tratta con la violenza. Il risultato è una lunga scia di sangue, che segue i tragitti dei furgoni con morti e feriti a Duisburg, Parigi, Madrid, ma anche a Prato, Roma e Napoli. Il contrasto è difficile. Eppure ricostruire la filiera di questi oggetti di pessima qualità non lo è affatto. A Milano, per esempio, basta seguire le indicazioni degli ambulanti senegalesi che bazzicano vicino alla stazione centrale o nel cuore della Chinatown cittadina, nelle strade e stradine della zona occidentale attorno a via Paolo Sarpi, dove i negozi sono quasi tutti orientali. Il cronista di Panorama finge di voler acquistare 500 parapioggia. Il prezzo che gli viene chiesto è di 1 euro per quelli piccoli e di 2 euro per quelli grandi. In stazione i bengalesi li rivendono rispettivamente a 5 e 10 euro. Ci fanno scendere in grandi magazzini sotterranei dove sono stipati centinaia di scatoloni pieni di pezzi. Fuori piove, e nei magazzini c’è fermento. Chiediamo di vedere la merce, ma i venditori cinesi sono sbrigativi: altri clienti sono già in coda. Il pagamento avviene solo in contanti, e in nero. Fuori, intanto, ha smesso di piovere, ma il venditore che ci ha preso in carico non si preoccupa. Gli ombrelli invenduti, infatti, vengono tutti nascosti nelle edicole gestite dai bengalesi o nei cespugli delle piazze del centro. Gli ambulanti andranno poi a recuperarli al prossimo acquazzone; e gli ombrelli torneranno ad aprirsi, a migliaia. L’Agenzia delle dogane, nel 2017, ha scoperto e sanzionato 444 tonnellate di merce introdotta in Italia dalla Repubblica popolare aggirando le normative fiscali e doganali, per un valore che supera i 13 milioni di euro: la cifra è piccola, e va considerata come indicativa, perché è vero che deriva da controlli sempre più sofisticati, condotti soprattutto sui container nei porti, ma sono pur sempre fatti «a campione» e quindi casuali. Si stima in realtà che per ogni container pieno di merce illegale colpito dalle verifiche dei nostri doganieri, o della Guardia di finanza, ne passino indenni almeno altri 20. In quei container, è ovvio, ci sono anche gli ombrelli che piovono nelle nostre città. Una volta a destinazione, i parapioggia vengono scaricati nelle Chinatown italiane. Sempre a Milano, la Polizia locale ha creato una squadra proprio per contrastare l’abusivismo commerciale, e dall’inizio dell’anno ha sequestrato oltre cinquemila ombrelli e fatto 520 contravvenzioni. La squadra si mette in azione appena comincia a piovere, anche perché gli ombrelli violano tutte le norme di sicurezza: soprattutto quelli più piccoli hanno parti malcostruite, che spesso si rompono e possono ferire. Gli ombrelli cinesi, però, non sono ancora entrati nella «black list» degli oggetti pericolosi la cui vendita è proibita in Europa. Così chi li mette in commercio, se non ha violato norme fiscali o commerciali, non rischia nulla. È difficile dire se il business della pioggia abbia qualcosa a che fare con la vecchia teoria della farfalla, secondo cui se in oriente un insetto sbatte le ali in occidente può scatenarsi un uragano. Una cosa, però, è certa: se a Milano inizia a cadere qualche goccia, a Hong Kong un mafioso sorride.

La Mafia Giapponese. La mafia giapponese ha nella Yakuza (dal punteggio perdente 8-9-3 = ya-ku-za nel gioco di carte dell’Hanafuda), la massima espressione criminale. È riconducibile sostanzialmente a due modelli: lo Yamaguchi-gumi (a struttura piramidale con l’oyabun – ‘padre’ – capo assoluto) e il Sumiyoshi-rengo (federazione di famiglie con l’oyabun primus inter pares). Ha stretto carattere etnico, in quanto riservata soltanto ai giapponesi, e tipico legame di fedeltà e obbedienza degli affiliati al capo. Da ultimo è nata, per scissione interna, anche una terza organizzazione criminale, chiamata Ichiwa-kai. È presente anche negli Usa, Australia, Filippine, America del Sud; opera soprattutto nel traffico di amfetamine, sfruttamento della prostituzione e della pornografia, gioco d’azzardo, usura, estorsione e traffico di persone; controlla interi comparti dell’edilizia, della speculazione immobiliare e finanziaria, dello smaltimento dei rifiuti. La Yakuza è una delle mafie più sanguinarie ed antiche del mondo. Iniziata come organizzazione per il controllo del gioco d'azzardo nel Giappone del XVII° secolo, i suoi membri sono spesso caratterizzati da imponenti tatuaggi che ricoprono buona parte del corpo. Un altro segno distintivo è una falange mancante dal dito mignolo, spesso offerta al boss del clan di appartenenza come segno di rispetto o gesto di scuse. Ha circa 110.000 affiliati, appartenenti a 2.500 famiglie che gestiscono il traffico di prodotti illegali, pornografia, prostituzione ed immigrazione illegale. La mafia? In Giappone è peggio, scrive Pio D'Emilia su “L’Espresso”. La Yakuza controlla un terzo dei parlamentari, è organizzatissima e quasi onnipotente: anche perché le intercettazioni non esistono e i pentiti neppure. Viaggio nell'incredibile malavita organizzata del Sol Levante. Shinjuku è uno dei quartieri non-stop di Tokyo. Il più vivace, il più rappresentativo della metropoli più cara, più efficiente, più sicura, ma anche più corrotta del mondo. Milioni di banconote passano di mano, spesso avvolte in pudichi foulard multicolori (i famosi furoshiki) a titolo di pizzo, commissioni, tangenti mentre milioni di persone escono ed entrano, di giorno, dalle varie stazioni della metropolitana. Di notte poi molti a Shinjuku ci restano, o ci vengono apposta, per alimentare lo spumeggiante e variopinto mercato della "salute", cioè il mondo della prostituzione, e del bakuto, l'impero del gioco e delle scommesse clandestine. Due voci importanti, non certo le uniche, nel megafatturato (tra 2 e 5 mila miliardi di dollari, a seconda delle stime e dei settori che si includono) della mafia più ricca, potente e "trasparente" del mondo: la yakuza. Un impero nell'impero. Dove tutto bolle, si agita e si assesta lontano da sguardi indiscreti e quando emerge in superficie appare immobile nella sua - apparente - armonia. Paese che vai mafia che trovi. In Giappone, dove le cosche sono regolarmente registrate e i boss hanno un bigliettino da visita e viaggiano in treno, è facile incontrarla. Un po' meno combatterla. La yakuza in Giappone è onnipresente: dal Parlamento, dove secondo il mafiologo Kenji Ino almeno un terzo dei deputati viene eletto o ha comunque rapporti stretti con le cosche, al mondo dell'entertainment, degli appalti pubblici, del commercio e, più recentemente, dell'alta finanza. Per non parlare dei "settori" più tradizionali: estorsioni, strozzinaggio, recupero crediti, prostituzione, mondo delle scommesse legali e, ovviamente, illegali. «La yakuza fa parte della nostra storia», sostiene Manabu Miyazaki, figlio di un boss ritiratosi a vita privata e autore di una illuminante autobiografia, "Toppamono" (Fuorilegge). «Proprio come la mafia per voi italiani», prosegue, «e infatti abbiamo gli stessi problemi». All'ultimo piano di un edificio di Kabukicho, la zona più "vispa" di Shinjuku, c'è un ristorante cinese. Alle pareti ritratti di Mao, di Deng e dei nuovi leader, da Hu Jintao e Xi Jinping, che l'ha appena sostituito. Ma anche di Wuer Kaixi, uno dei leader della rivolta di Tienanmen, ricercato numero uno delle autorità cinesi, oggi esiliato a Taiwan e di cui il proprietario si dichiara amico personale. In una saletta interna, protetta solo da una tendina di stoffa, un cameriere chiede a due clienti di spostarsi. Serve l'intera stanza. Una decina di persone, dal look e accento inequivocabile, entrano nel locale e occupano la stanza. Cominciano a mangiare, bere, e parlare ad alta voce. Cosa che i giapponesi non fanno mai. E infatti sono "chairen", mafiosi cinesi "locali", nati e cresciuti in Giappone. Ma che conservano buoni contatti con la madrepatria e che ormai qui, per almeno tre secoli territorio intoccabile della yakuza, la fanno da padrone. Il tutto senza fare "rumore": qualche rissa ogni tanto, ma neanche un morto. Nel giro di una decina d'anni, hanno mutato la struttura del crimine più organizzato e ordinato del pianeta. Il proprietario del locale è uno di loro. Si fa chiamare Li ed è nel suo locale che, 8 anni fa, è stato siglato uno storico patto tra la Sumiyoshi-kai, seconda "cosca" del Paese, pressoché egemone a Tokyo, e le chairen, prime, improvvisate, "avanguardie" cinesi del crimine. Gruppi di vandali in moto che si divertivano a far casino e spaventare commercianti e residenti. I commercianti, ma non tutti, chiamarono la yakuza per proteggerli. Ma gli altri non ne volevano sapere. A qualcuno (il proprietario del locale dove siamo ospiti) venne l'idea di tentare un accordo. Che funzionò. Gli yakuza aggiornavano i cinesi sugli esercizi che si adeguavano e quelli invece "renitenti" al pizzo, e quelli ci andavano giù sempre più pesanti. Ma solo danneggiamenti, mai violenza sulle persone. Nel giro di un paio di anni il pizzo hanno finito per pagarlo tutti e nel quartiere tutti vivono in pace e tranquillità. Alla "pax mafiosa" partecipano anche i coreani, padroni incontrastati dell'enorme business del pachinko, sorta di flipper verticale che vomita - e ingurgita -migliaia di piccole sfere di piombo, che in caso di rara vincita possono essere convertite in contanti (oltre 20 mila esercizi in tutto il Paese, fatturato ufficiale di 300 miliardi di dollari, quattro volte l'intero export di autovetture) e la polizia, senza la cui benevolenza per non dire complicità non potrebbe funzionare. «Ci siamo capiti subito», spiega Li senza tanti problemi, «proprio mentre i nostri rispettivi governi si guardano in cagnesco, noi ci siamo messi d'accordo: la guerra non piace a nessuno e non fa fare quattrini. Meglio dividersi i compiti, cooperare e prosperare assieme». Il ragionamento non fa una piega: Kabukicho ha il più alto tasso di bordelli, koroshi-bako (bische clandestine dove si spennano i ricconi sprovveduti) e spacciatori per metro quadrato al mondo. La sua popolarità, anche in tempi di crisi, resiste perché tutto è organizzato, "oliato" e sicuro. Una pax mafiosa che oltre a giapponesi, cinesi e coreani, unisce e fa prosperare anche altre e meno organizzate minoranze: israeliani, brasiliani, nigeriani, iraniani. La pax mafiosa, che abbraccia cosche, istituzioni, alta finanza e "utilizzatori finali" è garantita, attualmente, da una "cupola" trasparente al cui centro c'è Tsukasa Shinobu, sesto oyabun (padrino) della Yamaguchi-gumi, la cosca più potente del paese, con oltre 7 mila dipendenti "fissi" e 20 mila "precari" che entrano ed escono a seconda del "mercato", uscito due anni fa dal carcere dove ha scontato sei anni per - incredibile ma vero - porto d'armi abusivo altrui. Già, perché tra le varie leggi adottate negli anni '90 dal governo, e che hanno solo lievemente scalfito il potere della Yakuza, ce n'è una che stabilisce non solo la responsabilità civile del boss di una cosca (che in Giappone sono legali: la polizia ne indica nel suo libro bianco 22 di serie A e 51 di serie B) per i danni causati dai suoi "dipendenti" (i mafiosi in Giappone sono regolarmente assunti) ma anche quella penale. Il tutto in un Paese dove non esiste il reato di associazione a delinquere e tanto meno di "stampo mafioso", le intercettazioni non sono consentite che in casi straordinari e dove non esiste un programma di immunità e protezione per eventuali "pentiti". Se in più si aggiunge il fatto che in Giappone vige la discrezionalità dell'azione penale si capisce perché, nonostante l'immagine di efficienza (il 98 per cento dei processi penali termina con una condanna), la lotta contro il crimine organizzato è più formale che sostanziale. Nel 2012, su 22 mila arresti, solo il 67 per cento degli indiziati è stato poi rinviato a giudizio (vent'anni fa era l'88 per cento) e per reati minori: disturbo della quiete pubblica, lesioni personali, guida in stato d'ebbrezza. Di qui la condanna di Tsukasa, che all'epoca, ammise non solo di aver acquistato due pistole (Beretta, che in Giappone sono le più richieste e sul mercato valgono oltre diecimila euro l'una) ma anche di averle date in dotazione ai suoi tirapiedi. Un vero samurai. Accolto come un eroe, all'uscita dal carcere. Ma molto umile: niente elicotteri, auto blindate, scorte vistose e violente: per tornare a casa, dal carcere, ha voluto prendere il treno, come la gente comune, salutando e inchinandosi, tra lo sconcerto delle guardie del corpo e delle autorità. Del resto le beghe delle cosche in Giappone non creano allarme sociale. Anzi. Un meeting della "cupola" - che si riunisce ogni mese a Kobe - affronta e risolve le questioni sul tappeto con grande efficacia. Le statistiche nazionali, del resto, parlano chiaro. La mafia giapponese ha provocato, negli ultimi 10 anni, appena 32 morti.

La Mafia Messicana. E' una sorta di manovalanza mafiosa. Iniziata negli anni '50 all'interno delle carceri con lo scopo di proteggere gli affiliati, è uscita dalle prigioni per riversarsi nelle strade degli Stati Uniti, dove controlla in parte il traffico di droga. Negli U.S.A. ha circa 300.000 affiliati, spesso tatuati per riconoscersi tra le diverse gang di appartenenza. In Messico le mafie dei narcotrafficanti (11 organizzazioni nel 2011, tra cui il cartello del Golfo, di Sinaloa, della Familia Michoacana, dei Los Zetas, di Juárez, dei Los Arellano, dei Beltran Leyva) hanno diversificato i ‘servizi’ offerti: non più solo commercio di droghe, ma sequestri di persona, estorsioni, protezioni ai commercianti, omicidi su commissione, tratta dei migranti. Con strutture dinamiche e mutevoli, disinvolte nelle strategie e nelle alleanze, così come nell’esercizio di una violenza efferata (oltre 34.000 omicidi tra il 2006 e il 2010), questi gruppi esercitano un penetrante condizionamento sulle istituzioni locali e nazionali, mettendo a serio rischio la democrazia, tanto da far parlare di narco-Stato.

La Mafia Colombiana. Il modello messicano ricorda i ben noti cartelli colombiani di Medellín, di Cali, di Pereira, della Costa e di Norte del Valle, oggi frantumati in decine di strutture di piccole-medie dimensioni (cartelitos) e in diverse formazioni paramilitari: Los Rastrojos, Los Macacos, la Oficina de Envigado, Los Paisas, Los Urabeños, Los Cuchillos e altre, specializzate soprattutto nel commercio delle droghe. Robuste le collusioni mafia-politica: dal 2008 al 2010 sono stati ben 77 i parlamentari incriminati perché collusi con narcos e paramilitari. Negli stessi anni, sono stati sequestrati ben 72 submarinos, i semisommergibili costruiti nella giungla per navigare lungo la costa del Pacifico e trasportare la cocaina negli Usa con l’intermediazione delle mafie messicane. Definito anche "Cartello della droga colombiano", è noto al mondo per il monopolio che detiene, da quasi un secolo ormai, sul traffico di droga, in particolare della cocaina, che trasportano in mezzo mondo attraverso i metodi più disparati, anche sommergibili. Opera in tutto il mondo, grazie anche a profonde infiltrazioni nella politica di alcuni Paesi corrotti. I tre cartelli più importanti della mafia colombiana sono il Cartello di Cali, il Cartello di Medellin (paese natale di Pablo Escobar) e quello di Norte del Valle. I cartelli mafiosi colombiani non si occupano solo di droga: sono stati anche coinvolti in rapimenti ed atti di terrorismo.

La Mafia Israeliana. Per quanto poco conosciuta rispetto alle altre mafie, la mafia israeliana ha il controllo del traffico di droga e della prostituzione in molti Paesi. E' nota per la sua spietatezza, non ci pensa due volte ad uccidere chiunque tenti di ostacolarla. Aiutata dalla mafia russa, quella israeliana è penetrata profondamente all'interno del tessuto politico americano, tanto che si fatica a sradicarla.

La Mafia Serba. Diffusa anch'essa in Europa e Stati Uniti, la mafia serba è coinvolta in diverse attività illecite quali traffico di droga, omicidi a pagamento, racket, gioco d'azzardo e rapine. All'interno delle organizzazioni criminali che compongono la mafia serba ci sono tre clan più potenti: Vozdovac, Surcin e Zemun, sotto i quali si trovano organizzazioni più piccole, per un totale di circa 30-40 associazioni mafiose. La mafia serba è stata particolarmente attiva durante le guerre yugoslave, durante le quali ottenne l'appoggio governativo grazie ad una vasta campagna di corruzione. Leader nel traffico internazionale di cocaina, la mafia serba, talvolta associata a quella montenegrina, ha "agenzie" negli Usa, in Sudafrica e nell’Europa occidentale. Si contano una trentina di gruppi nati dalla ‘frantumazione’ dei due nuclei originari guidati dai capi storici Surcin e Zemun. I serbi, grazie all’alleanza consolidata con i colombiani, sono diventati i principali fornitori della cocaina in Italia, Germania, Austria, Spagna e Regno Unito. Si dedicano anche al traffico di armi, di clandestini, di sigarette e alla falsificazione di denaro. Ciascun gruppo (una decina di persone) ha una rigida gerarchia ed è capace di spostarsi rapidamente, alla bisogna, in altra città o paese. Particolarmente violenta, la mafia rumena, in contatto con italiani, albanesi, ucraini e moldavi, si occupa di tratta di esseri umani, sfruttamento della prostituzione, traffico di stupefacenti, rapine e furti, in particolare con clonazione di carte elettroniche.

La Mafia Albanese. La mafia albanese è un insieme di organizzazioni criminali con sede in Albania, attive in Europa e negli Stati Uniti soprattutto nel commercio sessuale e nel traffico di droga. Sono tra le mafie più violente in assoluto, soprattutto se motivati da vendetta. Non sempre questi gruppi criminali sono organizzati tra di loro, anzi, molto spesso tendono a farsi concorrenza, o a scatenare vere e proprie guerre interne. Si sa davvero poco sulle organizzazioni criminali albanesi, data la difficoltà nel riuscire a penetrarvi. Si sa per certo, però, che molti dei traffici illeciti che provengono dell'Est europeo passano per l'Albania, e sono diretti dalla mafia albanese o serba. In Albania, la "Mafia delle Aquile" domina l’immigrazione clandestina, lo sfruttamento della prostituzione e il traffico degli stupefacenti, utilizzando basi consolidate in Montenegro, Croazia, Slovenia, Serbia e Kosovo. Ha rapporti con omologhi sodalizi attivi nei paesi europei più ricchi. L’appartenenza dei componenti allo stesso nucleo familiare e territoriale, con un unico capo supremo, regole rigide e il ricorso all’omicidio a scopo punitivo, la rendono simile alla ’ndrangheta.

La Mafia Giamaicana. Gli Yardies, immigrati giamaicani giunti nel Regno Unito negli anni '50 nella speranza di migliorare le loro condizioni di vita, sono un'associazione mafiosa che generalmente si riunisce in bande violente che generano profitti tramite il traffico di droga o omicidi su commissione. Non hanno mai provato ad infiltrarsi all'interno di organizzazioni di polizia, e dato che commettono frequentemente crimini che vedono coinvolte armi da fuoco sono spesso rintracciabili e perseguibili, vista la severità con cui vengono trattati i crimini violenti in Gran Bretagna.

La Mafia nigeriana. Anch’essa considerata tra le meno violente, è tuttavia una delle più potenti ed estese, con varie comunità sparse nel mondo, grazie alla sua struttura reticolare, favorita da vincoli tribali e omertosi. Spesso usa come copertura "innocue" associazioni culturali di immigrati o confraternite universitarie, note come "gruppi cultisti", di etnia Bini o Igbo, organizzate dai giovani dell’élite dirigenziale nigeriana, responsabili di omicidi e reati predatori. A partire dal suo radicamento nel paese d’origine, afflitto dagli scontri tra gruppi integralisti islamici e cristiani, tra militari e criminali nella regione petrolifera del Delta, la mafia nigeriana costituisce un’ulteriore minaccia per l’intera regione africana.

La Mafia turca. Essa controlla gran parte del traffico di eroina (e di persone) che giunge in Europa dall’Afghanistan. Si tratta di una miriade di gruppi relativamente ridotti e autonomi, non verticistici, per lo più con membri appartenenti a un’unica struttura familiare. Infatti, si parla di "famiglie" (o "clan"), alcune delle quali sono curde e, a volte, perseguono finalità terroristiche.

QUELLA MAFIA CHE SI FA FINTA DI NON VEDERE. LA MAFIA NIGERIANA.

Il vero volto della mafia nigeriana, che ha in pugno la prostituzione in Italia, scrive Andrea Sparaciari il 16/8/2017 su "it.businessinsider.com". Oltre a Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Stidda e Sacra Corona Unita, l’Italia può “vantare” un altro sodalizio mafioso di tutto rispetto: quello nigeriano, gruppi di criminali che tengono saldamente in pugno il mercato della prostituzione, ma non solo. “ll radicamento in Italia di tale consorteria è emerso nel corso di diverse inchieste, che ne hanno evidenziato la natura mafiosa, peraltro confermata da sentenze di condanna passate in giudicato”, scrive la Dia nella relazione sulle sue attività investigative del secondo semestre 2016. Pagine nelle quali i magistrati spiegano, inchiesta per inchiesta, come i nigeriani siano ormai primari protagonisti non solo del traffico di esseri umani, ma anche della droga, delle truffe online e nello sfruttamento della prostituzione. Un ventaglio di attività al quale gli affiliati alle varie bande provenienti dal Paese centroafricano si applicano con spietata efficienza. “Sul piano generale, tra le attività criminali dei gruppi nigeriani, si conferma la tratta di donne di origine nigeriana e sub sahariana, avviate poi alla prostituzione”, si legge nella relazione, che ricorda come il 24 ottobre 2016 la Polizia di Catania, con l’operazione “Skin Trade”, abbia arrestato 15 persone per associazione per delinquere finalizzata alla tratta di persone e sfruttamento della prostituzione. Idem per le indagini sui gruppi attivi nella zona di Castel Volturno (CE) che sarebbero riusciti “a organizzare importanti traffici di droga e immigrati clandestini, operando altresì nello sfruttamento della prostituzione”. L’operazione Cultus che nel 2014 portò in carcere 34 persone, illustra perfettamente il modus operandi dei nigeriani: le ragazze erano reclutate in Togo, da dove venivano “importate” in Italia attraverso il Benin. Una volta sbarcate, si ritrovavano un debito per il viaggio – in media tra i 40 ai 70 mila euro – e per saldarlo erano costrette a prostituirsi sotto gli ordini di una Maman. Il pericolo della denuncia era scongiurato perché assoggettate psicologicamente attraverso pratiche esoteriche. A questo proposito, molti giornali hanno spesso scritto di “rituali voodoo”… In realtà, si tratta del rito “Juju”, una credenza religiosa praticata nella regione del Sud-Ovest della Nigeria. Il paradosso è che il rituale utilizzato per schiavizzare le donne africane, convincendole che lo spirito racchiuso in piccoli feticci possa causare enormi sciagure a loro e alla loro famiglia in caso di disobbedienza, non nasce in Africa, ma è stato importato dai primi colonizzatori europei, tanto che mutua il nome dal termine francese “Joujou”. Comunque, le indagini hanno dimostrato che oltre al traffico di esseri umani, l’organizzazione gestiva anche i corrieri della cocaina provenienti da Colombia, nonché quelli della marijuana dall’Albania. I proventi venivano poi spediti in Nigeria e Togo attraverso agenzie di money transfer. Secondo la Dia, appare poi assodato che le mafie nostrane appaltino il lavoro sporco ai nigeriani e che questi, quando agiscono da indipendenti, debbano pagare il pizzo a Cosa Nostra e alle ‘ndrine. Una tassa “mal sopportata”, tanto che a volte scoppia lo scontro, come accadde a Castel Volturno nel 2008, quando i Casalesi spararono indiscriminatamente sulle case dei braccianti immigrati, uccidendo sei persone (per altro non affiliate alle bande). Parliamo di bande, perché l’universo della criminalità nigeriana non è monolitico. Tutt’altro: sarebbero almeno una dozzina i gruppi che si contendono il primato, nel Paese africano e all’estero. Per esempio, in Italia è certa la presenza di almeno tre nuclei, divisi da un conflitto sotterraneo e brutale che va avanti da due decenni: la Aye Confraternite, gli Eiye e i temibili Black Axe. Secondo il rapporto “Global Report on Trafficking in Persons 2014” dello United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), con l’operazione Cultus finirono in manette “membri di due gruppi, chiamati Eiye e Aye Confraternite, operativi in alcune parti d’Italia da almeno il 2008”. Due gruppi che “hanno combattuto per oltre sei anni per il controllo dell’area di Roma (Torre Angela, Tor Bella Monaca e Torrenova, ndr)”, affrontandosi con armi da fuoco, spranghe, coltelli e machete. Una lotta che probabilmente ha spalancato le porte ai Black Axe, tanto che il 13 settembre 2016, con l’operazione “Athenaeum”, in Piemonte finiscono in manette 44 persone per associazione mafiosa, spaccio, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e lesioni gravi. L’indagine svela che i Black Axe avevano ramificazioni in buona parte dell’Italia oltre Torino, a Novara, Alessandria, Verona, Bologna, Roma, Napoli e Palermo. Ma il nostro Paese è in buona compagnia: nell’aprile scorso, il capo della polizia di Toronto (Canada), Jim Raymer, ha presentato un’operazione che ha scardinato un’organizzazione di ladri d’auto (anche lì tutti Black Axe) la quale avrebbe trafugato veicoli di lusso per oltre 30 milioni di dollari. Sulla nave diretta in Africa bloccata dalla polizia, sono stati ritrovati suv provenienti anche da Spagna e Belgio. In manette sono finiti, oltre ai ladri, anche rivenditori di parti d’auto, camionisti, impiegati delle compagnie di navigazione e portuali, tutti canadesi doc. In Giappone, invece, nel 2014 fece scalpore l’arresto di un nigeriano gestore di un locale notturno del quartiere a luci rosse di Kabukicho, che costringeva le sue hostess filippine a drogare i clienti svuotandone poi le carte di credito. Si scoprì che il gioco andava avanti da anni e che in totale l’uomo si sarebbe appropriato di oltre 7,5 milioni di euro (soldi spediti in Nigeria dove si stava costruendo un vero palazzo reale). Ma le indagini svelarono anche la diretta partecipazione dei nigeriani nei locali a luci rosse di Kabukicho, nonché i loro legami con la Yacuza nella vendita di eroina, nei furti d’auto, nel riciclaggio di denaro e nell’organizzazione di matrimoni finti. Prostituzione in Italia, furti d’auto in Canada, l’eroina in Giappone, tutte joint-venture che dimostrano quanto i nigeriani siano capaci di stringere rapporti proficui con le mafie locali, adattandosi alle diverse realtà. E non deve stupire: chi gestisce i traffici, contrariamente al credo popolare, non sono illetterati provenienti da sperduti villaggi dell’Africa equatoriale. Spesso, anzi, si tratta di laureati o comunque di persone dotate di cultura superiore. Un dato di fatto che deriva dalla stessa storia della mafia nigeriana.

L’università dei gangster. Le bande mafiose nascono infatti come degenerazione dei gruppi cultisti attivi nelle università della regione del Delta del Niger fin dagli anni ’50, gruppi che si opponevano alla dominazione europea. All’inizio erano semplici confraternite universitarie, ma presto si trasformano in associazioni a delinquere che travalicano i muri dei campus. La confraternita originaria fu quella dei Pyrates, negli anni ’70 subì una prima scissione, dalla quale si formarono i Sea Dogs (i Pyrates) e i Bucanieri.  A loro volta, i Bucanieri diedero vita al Movimento Neo-Black dell’Africa, cioè i Black Axe, che divenne egemone all’interno dell’università di Benin nello stato dell’Edo. Ma anche i Black Axe subirono una divisione, con la quale si formò la Eiye Confraternity. Da lì fu un fiorire di gruppi. Oltre a Black Axe e Eiye, oggi in Nigeria si distinguono per brutalità la Junior Vikings Confraternity (JVC), la Supreme Vikings Confraternity (SVC) e la Debam, scissionisti della The Eternal Fraternal Order of the Legion Consortium. Ognuna di esse ha un’uniforme, propri colori e un’università o scuola superiore di riferimento. Con il ritorno del Paese alla democrazia, nel 1999, in Nigeria si aprì un periodo di lotte furibonde tra i vari potentati politici a livello locale, federale e statale. Fu quasi naturale che partiti e uomini politici assoldassero le confraternite come collettori di voti o guardie del corpo, fino a trasformarle in veri eserciti privati, spesso integrati direttamente nelle forze di polizia locali. Ciò ha permesso ai sodalizi criminali di prosperare e di espandesi all’estero. Europa dell’Est, Spagna, Italia, Giappone, Canada, Sudafrica. Una piovra dalle mille teste che fa affari con tutti: da Cosa Nostra ai narcos sud americani, dai trafficanti d’armi dell’Est ai produttori di marijuana albanesi. A ingrossarne le fila, sono gli studenti universitari e delle secondarie, cooptati sia volontariamente che involontariamente. Negli ultimi anni, però, secondo l’Onu, sarebbero aumentati vertiginosamente anche i membri sotto i 12 anni, bambini di strada utilizzati come soldati. Contrariamente agli anni ’70, poi, oggi esistono anche confraternite tutte al femminile, le più note e temibili sono Jezebel e Pink ladies.

Come funzionano. L’UNODC ha studiato il funzionamento delle confraternite, ecco come descrive il funzionamento degli Eiye: “Il gruppo agisce attraverso un sistema di cellule – chiamate Forum – che operano localmente, ma che sono collegate alle altre cellule radicate in diversi Paesi dell’Africa occidentale, del Nord Africa, del Medio Oriente e dell’Europa occidentale”. Gli Eiye hanno “una struttura gerarchica rigida, retta da una Direzione. Sebbene ogni forum sia indipendente, i membri hanno un ruolo funzionale specifico e sono uniti tra loro da legami familiari o da altri rapporti relazionali”. Tutte le confraternite hanno un leder carismatico, detto “Capones” (in onore di Al Capone), un comandante in capo, che d ordini ai vari capones locali, dislocati nelle varie università, i suoi generali sul campo. Per divenire capones, la persona “deve aver dato prove inoppugnabili di coraggio e brutalità”. Anche per entrare in una confraternita si deve passare un esame: dopo essere stato scelto, l’aspirante viene sottoposto a un rito iniziatico, che ha luogo di notte, spesso in un cimitero, durante il quale viene drogato, picchiato e costretto a dimostrare il proprio coraggio, meglio se con un omicidio o col rapimento di una donna legata un’altra confraternita. Una volta dentro, al nuovo adepto vengono insegnati il rispetto per la “fortificazione spirituale”, le tattiche di combattimento e l’uso delle armi da fuoco. Qualora il candidato si rifiuti di entrare nella banda o, una volta dentro, voglia uscirne, sa che a pagare sarà – oltre a lui – anche la sua famiglia. Una realtà brutale, che si rispecchia poi nel modo di agire – spietato – delle bande. Una spirale di violenza infinita, già stabilmente impiantata nel nostro Paese e che sta diventando sempre più forte e potente. Una piaga destinata a diventare sempre più purulenta e dolorosa.

Meluzzi: la mafia nigeriana ha assunto il controllo militare del territorio, scrive giovedì 15 novembre 2018 "Imola Oggi". Le cifre pazzesche sui reati compiuti dagli immigrati, Meluzzi: “Basta negazionismo”. “Gli immigrati delinquono di più rispetto al resto della popolazione, sei volte di più. Sette volte di più nei reati sessuali. Incredibile la mafia nigeriana”. Alessandro Meluzzi riporta i dati sulla delinquenza in Italia riferita agli stranieri: “Sono un pericolo enorme e non ci deve essere negazionismo e nessun velo di omertà”. Lo aveva già detto anche il governatore della Campania.

Pd, De Luca: “bande di nigeriani hanno occupato militarmente i territori”, scrive martedì 11 settembre 2018 "Imola Oggi". Vincenzo De Luca contro il suo stesso partito: “C’è un problema di cui il Pd non parla mai. Ci sono zone del paese dove bande di nigeriani hanno occupato militarmente i territori”. Finalmente qualcuno a sinistra inizia a svegliarsi?

La mafia nigeriana in Italia: eroina gialla, prostituzione ed elemosina. Li chiamano «cult», dominano il racket da Torino a Palermo. I legami con i clan di Ballarò. La sottovalutazione di un fenomeno preoccupante e diffuso sul territorio, scrive Goffredo Buccini il 21 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". Non sarà ancora controllo del territorio. Ma l’agguato dello scorso settembre ai giardini Alimonda di Torino contro due poliziotti antidroga circondati e pestati da una trentina di spacciatori africani ci va molto vicino. Siamo tra Aurora e Barriera di Milano, accanto a quel corso Giulio Cesare così multietnico che gli ultimi bottegai locali espongono in vetrina il cartello «negozio italiano». La mafia nigeriana comanda qui: e non solo qui.

Cult. «Ho fatto tre informative a tre procure diverse, Roma, Bologna e Palermo, interessate al fenomeno che si sta espandendo a macchia d’olio in tutta Italia e tutta Europa», ha detto alla Commissione parlamentare sulle periferie il commissario della municipale Fabrizio Lotito, che ha lavorato con la procura torinese. Gerarchia, riti d’iniziazione, cosche chiamate «cult»: «Torino è la città con il maggior numero di immigrati nigeriani, a ruota segue l’Emilia Romagna. Le nostre indagini su questo fenomeno mafioso vedono come attori principali i “cult” nigeriani, nati nelle università nigeriane degli anni Sessanta, poi evolutisi fuori e giunti anche in Italia: hanno struttura verticistica e dalle indagini abbiamo potuto ascrivere il 416 bis, l’associazione mafiosa».

Le vittime. Black Axe, Maphite, Supreme Eiye Confraternity, Ayee sono nomi di «cult» che riempiono ormai da anni le nostre cronache; collegandoli come puntini su un foglio mostrerebbero forse un disegno più ampio, imbarazzante per un malinteso senso di correttezza politica: dibattere pubblicamente sui mafiosi nigeriani offre argomenti ai razzisti nostrani? È vero il contrario, perché le prime vittime dei «don» (i capi cultisti) sono ragazze nigeriane vendute come schiave sulla Domiziana e giovani nigeriani (i «baseball cap») ridotti a elemosinare davanti ai bar di Roma o di Milano per ripagare debiti di famiglia contratti in Nigeria.

Traffici milionari. Da Nord a Sud d’Italia s’avanza così la quinta mafia (dopo Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona pugliese) con i suoi traffici milionari di cocaina dalla Colombia al Canada, la nuova eroina «gialla» spacciata nel nostro Nord-Est e i capi dei capi da sempre insediati a Benin City, che resta la casa madre e sta ai «cult» come San Luca sta alle ‘ndrine. Tecnici e puristi diranno che le mafie da noi sono troppe per farne una classifica, dalla russa all’albanese, dalla cinese alla multiforme mafia romana. Proprio il commissario Lotito lamenta inoltre che la mafia nigeriana sia vista «più come un problema di ordine pubblico». Un errore di valutazione, perché nessuna nuova mafia ha la sua pervasività: mille affiliati stimati in Italia (su circa 93 mila nigeriani immigrati), almeno venti città (Torino e Bologna in testa) e dieci regioni coinvolte nella sua rete che conta in giro per il mondo trentamila affiliati in quaranta Stati.

Da Benin City a Palermo. In Italia i mafiosi nigeriani hanno imparato a muoversi strategicamente. Famosa è un’intercettazione in carcere tra due mafiosi del clan Di Giacomo sui boss di Ballarò, centro di Palermo. «Lì ci sono i turchi» (intendendo persone di colore). «Quali?». «I nigeriani... ma sono rispettosi e poi...immagazzinano» (frase che per gli investigatori avrebbe un senso preciso: i «rispettosi» nigeriani di Black Axe detengono grandi partite di droga in accordo con Cosa Nostra). Al Sud dove le mafie autoctone mantengono il controllo militare, la mafia venuta da Benin City cerca patti, come a Ballarò. Al Nord picchia duro: nel 2017, su 12.387 reati firmati dalla criminalità nigeriana (un quinto di quelli commessi da tutti gli stranieri da noi), 8.594 avvengono al Nord, 1.675 al Centro, 1.434 al Sud, 684 nelle Isole.

«Non hanno rispetto per la vita». Torino è teatro dell’operazione Athenaeum dei carabinieri che fotografa il legame tra Maphite e Eiye. Giovanni Falconieri sul Corriere di Torino ha raccontato di un pentito che descrive i Maphite in termini sconvolgenti: «Sono sbarcati a Lampedusa e la gente ha paura di loro... Non hanno rispetto per la vita, hanno già sofferto troppo per arrivare in Italia». Il tema degli sbarchi inquinati dalla mafia di Benin City ormai emerge. Il giudice torinese Stefano Sala, in quasi 700 pagine di ordinanza, motiva le sentenze su 21 membri di Eiye e Maphite, e accende un faro: «I moduli operativi delle associazioni criminali nigeriane sono stati trasferiti in Italia in coincidenza con i flussi migratori massivi cui assistiamo in questi anni» (...), «tra gli immigrati appena sbarcati vengono reclutati i corrieri che ingoiano cocaina».

Lo stipendio dei capi. Un «don», il capo della struttura locale, può ricevere uno stipendio di 35 mila euro ogni tre mesi. L’entità territoriale minore è la «zona», crescendo si sale al «temple» fino al «murder temple» di Benin City dove si elabora la strategia politica. Sembrano i primi verbali di Buscetta risciacquati nella globalizzazione. Se Torino è la nostra città più permeata dalla migrazione nigeriana, Bologna è considerata «la capitale» del cultismo, lo spaccio nella centrale Bolognina e nelle periferie è da anni in mano ai Black Axe. Ma le ordinanze che si moltiplicano, con le operazioni di carabinieri e polizia, descrivono un’onda assai più lunga: Black Axe, a Palermo, 2016, sul gruppo di Ballarò; Aquile Nere, Caserta, stesso anno. Cults, a Roma, 2014. Niger, Torino 2005. Ancora Black Axe, Castello di Cisterna, Napoli, 2011.

Le schiave. «Noi siamo nate morte», raccontano le schiave nigeriane della Domiziana al sociologo Leonardo Palmisano in un libro prossimo all’uscita, «Ascia Nera». Sono «asce nere», «black axe», i mafiosi che promettono la morte a Palmisano, troppo ostinato nell’indagarne i traffici. I ragazzi venuti da Benin City si sentono ormai abbastanza forti per quest’ultimo, minaccioso passo. Molta acqua è passata da questo allarme del 2011: «Vorrei attirare la vostra attenzione sulla nuova attività criminale di un gruppo di nigeriani appartenenti a sette segrete... riusciti a entrare in Italia principalmente con scopi criminali». Non il delirio di un balordo xenofobo ma l’informativa dell’ambasciatore nigeriano a Roma.

Mafia nigeriana, iniziazione segreta e violenza: a Palermo parla il “Buscetta nero”. Su FqMillenniuM in edicola. Il mensile in edicola da sabato 10 novembre pubblica in esclusiva le confessioni di Austine Johnbull, già membro del Black Axe, il più potente fra i “culti” criminali nigeriani, che ha svelato ai pm di Palermo riti di affiliazione, guerre fra gang e affari illeciti: "In Italia tregua tra i clan per evitare le indagini", scrive Giuseppe Pipitone il 9 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Sette candele a terra, per disegnare una bara. Un tempio con al centro un’ascia e una coppa colma di liquido – una bevanda a base di droghe come erba, noce di cola, foglia di zobo, pepe di alligatore, panadol – che sarà bevuto, al cospetto del Priest, dai cosiddetti ignoranti. “Sono quelli che aspirano a essere affiliati. Vengono picchiati da quattro saggi che li frustano con il keboko, mentre percorrono in ginocchio un tragitto chiamato Slave Trade”, la tratta degli schiavi. Non è l’iniziazione a una loggia massonica. È il rito di affiliazione della mafia nigeriana. Un rituale antico ma che si ripete continuamente, in gran segreto. E non solo in Africa. A raccontare questo, come tanto altro, è Austine Johnbull: ed è il primo pentito della mafia nigeriana, in Italia. Ha iniziato a collaborare con il pm di Palermo Gaspare Spedale alla fine del 2016: da allora ha riempito centinaia di pagine di verbali, che il nuovo Fq MillenniuM pubblica in esclusiva. Ha fatto nomi e cognomi. Ha indicato gli infami. Ha detto chi sono i capi e i sottocapi. Ha ricostruito riti d’affiliazione quasi mistici e più concreti affari di droga. Ha confessato di aver giurato sul suo stesso sangue, quello delle mani, che gli hanno inciso da palmo a palmo. “Se qualcuno nega le mie affermazioni, io posso guardargli le mani: se ha una linea, come la mia, sta mentendo”. “Non voglio più essere contro lo Stato ed è meglio collaborare”: sono le prime parole pronunciate da quello che è diventato a tutti gli effetti il Tommaso Buscetta nero. Per spiegare l’importanza delle sue dichiarazioni – che hanno portato alle prime condanne emesse a Palermo per una mafia straniera – i giudici citano la descrizione che Giovanni Falcone fece del boss dei due mondi: “Un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare con i gesti”. Buscetta ha confermato l’esistenza di Cosa nostra, la sua composizione e il suo coinvolgimento dietro a mattanze e omicidi eccellenti. Johnbull ha spiegato che pestaggi e assassinii tra i suoi connazionali sono qualcosa di diverso da semplici risse finite male. Ha svelato che dalla Nigeria si sta espandendo in tutto il mondo una nuova mafia. Anzi più di una: c’è l’odiata Supreme Eiye , l’organizzazione più antica e più numerosa. Ci sono i Vikings. E poi c’è quella a cui apparteneva Johnbull: Black Axe, l’ascia nera, la più potente e pericolosa. “Per ognuno dei nostri che ammazzano, ci vendichiamo uccidendone 10-15 degli altri. Se ne assassinano uno in Nigeria, poi, è guerra totale”. Per gli investigatori, si tratta di un’organizzazione “di tipo massonico e anche mafioso”, strutturata come “uno Stato confederato con ramificazioni in tutto il mondo”. Se agli inizi del Novecento Cosa Nostra e ’ndranghetasono sbarcate negli Stati Uniti seguendo l’espansione di siciliani e calabresi, oggi anche la mafia nigeriana ha esteso i suoi tentacoli negli altri continenti parallelamente ai flussi migratori. In Italia la Black Axe è presente da prima che Johnbull – nome in codice Ewosa, 34 anni – arrivasse da Benin City nel 2009. Ma in quegli anni dalla Nigeria era arrivato l’ordine di mettere “in sonno” l’organizzazione. Dopo le prime condanne emesse nel capoluogo piemontese a seguito di una serie di regolamenti di conti tra Black Axe ed Eye, “il presidente internazionale di Black Axe ha detto – racconta Johnbull – che quello che è successo al Nord, a Torino, a Padova, negli anni 2005-2006, non deve più esistere”. Questo almeno fino al 2010, quando entra in scena Sixco, nome di battaglia di Osalumaghal Uwagboe. Per Johnbull è lui il “Capo dei capi” della mafia nigeriana. Ed è lui che riorganizza Black Axe in Italia. È il 7 luglio 2013: a Verona, Sixco convoca la festa nazionale dell’organizzazione. “Lì c’era gente che arrivava da tutte le città”, dice il pentito. E a quel punto inizia la liturgia. Gli aspiranti Black Axe vengono picchiati, feriti, umiliati con uno sputo in faccia prima di presentarsi al cospetto del “Capo dei capi”. Ora non sono più uomini come gli altri: sono mafiosi, mafiosi nigeriani. Nel Paese inventore delle mafie.

Mafia nigeriana, “in patria protetta dal governo. E i politici la usano per battere gli avversari alle elezioni”. Il racconto del reporter Eric Dumo, autore di diverse inchieste sui "culti" che dal Paese africano stanno diventando protagonisti del crimine globale. L'Italia fra gli snodi più importanti: su Fq Millennium ora in edicola, in esclusiva i verbali resi ai pm di Palermo dal primo pentito dei Black Axe, uno dei gruppi più potenti e sanguinari, scrive Mario Portanova il 17 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". La mafia nigeriana si espande in Italia, come racconta ai pm di Palermo il pentito Austine Johnbull, i cui verbali sono pubblicati in esclusiva su Fq Millennium, il mensile diretto da Peter Gomez, attualmente in edicola. Ma come operano le gang, detti “culti” dalle loro origini nelle università della Nigeria negli anni Settanta, in patria e nel resto del mondo, dove secondo l’Fbi sono presenti in ottanta paesi e stanno diventando sempre più centrali, specie nel traffico di droga? Lo abbiamo chiesto a Eric Dumo, pluripremiato reporter di The Punch, uno dei più importanti quotidiani della Nigeria, e autore di diverse inchieste sul tema.

In Nigeria tutti i culti sono coinvolti in attività criminali?

«Nei tempi più recenti, molti di loro sì. Per esempio, ci sono politici che li ingaggiano per attaccare gli avversari, specialmente in occasione delle elezioni per le cariche più importanti, locali e federali. Oggi queste gang operano in quasi ogni angolo delle più importanti città nigeriane, dove reclutano ragazzi e ragazze con intimidazioni e minacce».

Per fare cosa?

«Oltre a spaccio di droga, prostituzione e frodi finanziarie di ogni genere, molte di queste gang si dedicano alle rapine a mano armata, per accumulare denaro per finanziare le loro attività illecite e il loro stile di vita. Negli ultimi tempi si registrano coinvolgimenti nel land grabbing e nei sequestri di persona.

La cosiddetta mafia nigeriana è originaria di qualche area specifica del Paese?

«In passato, i culti operavano principalmente nei campus universitari, ma negli ultimi anni si sono rovesciati sulle strade, inquinando comunità un tempo serene e pacifiche. Oggi i culti sono ovunque in Nigeria, anche se con grado di diffusione e modalità operative diverse».

Quali sono i più importanti?

«A parte i Black Axe e gli Eiye (due culti presenti in Italia e già colpiti da condanne per associazione mafiosa, ndr), a livello nazionale ci sono i Buccaneers e i Pirate. Poi esistono dozzine di gang regionali e locali in tutto il Paese. Nel Delta del Niger, per esempio, ci sono culti come Dey Bam, Dey Well, Highlanders e una moltitudine di gruppi pericolosi e spietati».

Che cosa ci può dire di Black Axe e Eiye? Dove sono presenti, in Nigeria e all’estero? Si conoscono i nomi dei loro boss? E quali sono le loro principali attività criminali?

«I Black Axe sono noti per le rapine a mano armata mentre gli Eiye sono più coinvolti in estorsioni e nella criminalità politica. I primi hanno una maggiore diffusione nazionale, mentre gli Eiye hanno la loro roccaforte nel Sudovest della Nigeria, l’area di Lagos, Ogun, Ondo, Oyo, Ekiti e Osun. In ogni comunità, questi gruppi hanno leader altrettanto spietati dei loro “coordinatiori” a livello statale e federale. E’ difficile citare nomi specifici di questi leader, perché cambiano nel tempo».

Queste gang si combattono o cooperano, in Nigeria e all’estero?

«Per lo più si comportano da rivali e si massacrano a vicenda per ogni minima provocazione, ma in certe occasioni collaborano per raggiungere obiettivi comuni. Per esempio, i politici ingaggiano più culti in determinate comunità per manipolare e vincere le elezioni. Offrono loro enormi somme di denaro per essere sicuri che siano tutti sufficientemente soddisfatti per raggiungere l’obiettivo. A parte queste e altre rare occasioni, per lo più i culti non collaborano fra loro».

L’Fbi dice che i culti sono presenti in 80 Paesi del mondo. Secondo i risultati delle sue inchieste, dove sono più forti, e in quali business criminali?

«Penso che fuori dalla Nigeria la loro presenza sia particolarmente forte in Malaysia, Sudafrica, Italia, Spagna, Regno Unito, India e Brasile. In tutti questi Paesi sono attivi nello spaccio di droga e nel traffico di esseri umani. Sono divenuti così spietati che persino la criminalità locale in questi Paesi ha paura di loro. Ormai sono quasi ovunque e terrorizzano cittadini innocenti, in particolare i connazionali nigeriani emigrati che rifiutano di sottomettersi».

Che ruolo hanno i culti nel traffico internazionali di droga? Collaborano con altre grandi organizzazioni criminali?

«Le indagini di Interpol e Fbi hanno dimostrato che non agiscono da sole, ma hanno più alleati in altre parti del mondo, con cui collaborano».

Pensa che la diffusione globale di Culti sia collegato alle ondate migratorie dei nigeriani – naturalmente per la massima parte incolpevoli – come è accaduto in passato per le mafie italiane, per esempio Cosa nostra negli Stati Uniti?

«Sì, il vasto movimento di nigeriani verso altri Paesi del mondo, risultato del sottosviluppo in patria, ha contribuito in modo significativo alla crescita di queste gang nel mondo. Nel disperato tentativo di sfuggire alla povertà, ma anche per espandere il loro raggio d’azione, i membri delle gang si aiutano l’un l’altro a emigrare in Paesi come l’Italia, la Spagna, il Brasile, la Malaysia e altri, per aprire una nuova pagina delle loro carriere criminali. La promessa di una vita migliore e di una ricchezza facile in Europa e in America continua a spingere questo tipo di flussi, che aggiungono problemi a problemi».

I culti sono adeguatamente perseguiti in Nigeria, o godono di appoggi?

«Possono contare su alti personaggi a livello di governo, che li sostengono sistematicamente. Grazie a questo supporto, riescono a sfuggire alle indagini e a evitare le pene più severe in caso di arresto. Possono contare su sostegni anche nella diaspora, il che rende più difficile per le autorità locali contrastare la reale minaccia che rappresentano».

Per quanto ne sa, i culti nigeriani si dedicano anche ad attività lecite? Che cosa si sa su come ripuliscono il denaro sporco?

«Di fatto, solo pochi membri delle gang hanno trovato modi di avviare attività economiche lecite  e di ottenere mezzi di sopravvivenza ufficiali, comunque nella maggior parte dei casi le risorse impiegate provenivano da denaro sporco. Molti creano piuttosto semplici attività di copertura mentre continuano a guadagnare da rapimenti, spaccio, frodi e criminalità politica, per sopravvivere e per mantenere il loro sontuoso stile di vita».

MAFIA: GENESI, ANAMNESI, NEMESI.

Origine del Termine.

L'effettiva origine del lemma è ancora oscura. La prima volta che comparve ufficialmente accostato al senso tuttora in uso di organizzazione malavitosa o malavita organizzata è in un rapporto del capo procuratore di Palermo nel 1865, Filippo Antonio Gualterio. Una precedente apparizione in Sicilia si ha due anni prima, nel 1863, nell'opera teatrale I mafiusi de la Vicaria, ambientata nel carcere della Vicaria di Palermo e scritta da Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca. Da questa rappresentazione si dovrebbe la diffusione di termini quali mafia, omertà e pizzo in Italia. La presenza di tale vocabolo quindi sarebbe precedente al 1865 e difatti, secondo il Pitrè il termine mafiusu indicava una persona, un oggetto o un ambiente "di spicco" e nell'insieme abbia un non so che di superiore ed elevato (...) Una casetta di popolani ben messa, pulita, ordinata, e che piaccia, è una casa mafiusedda e solo dopo l'inchiesta del procuratore palermitano è obbligata a rappresentare cose cattive. Tuttavia il Pitré non ne chiarifica l'origine. Si è quindi voluto associare il termine - spesso forzatamente e senza chiari riscontri - con un qualche vocabolo di origine araba, a causa della sua radice non facilmente accostabile a termini di origine invece latina o greca. Tale accostamento alla lingua araba sarebbe giustificato, soprattutto nella storiografia degli anni novanta, con la presenza in Sicilia nel corso del X secolo della componente islamica. Questo ovviamente presupponendo un'ipotetica origine siciliana delle principali organizzazioni di questo tipo. Così secondo Diego Gambetta il vocabolo originario potrebbe provenire dall'arabo مهياص (mahyas = spavalderia, vanto aggressivo) o, come propone il Lo Monaco, مرفوض (marfud = reietto) da cui proverrebbe il termine mafiusu, che nel XIX secolo indicava una persona arrogante, prepotente, ma anche intrepida e fiera. Tuttavia tale origine è messa in discussione dal fatto che non è dimostrato, né attestato l'uso del vocabolo in questione prima della seconda metà del XIX secolo, lasciando quindi 8 secoli di silenzio. In merito a ciò ricordiamo quanto scritto già nel 1853 da Vincenzo Mortillaro nel suo Nuovo dizionario siciliano-italiano per Mafia: Voce piemontese introdotta nel resto d'Italia ch'equivale a camorra. Nel 1959, quando il fenomeno era ormai diffuso e aveva già subìto l'evoluzione storica della Seconda Guerra Mondiale, Domenico Novacco invitava ad una lettura critica del passo di Mortillaro, in quanto a suo dire la "boutade" del Mortillaro (...) era emessa nel solco d'un filo autonomistico siciliano antiunitario che dava ai sabaudi il demerito d'aver introdotto nella immacolata isola cattive tradizioni e tendenze paraispaniche. Leonardo Sciascia, in un suo studio apparso nel 1972 su Storia illustrata, ricostruisce con molta attenzione l'origine del termine mafia. Riprende anche la teoria in merito all'introduzione del vocabolo nell'Isola ricondotta all'unificazione del "Regno d'Italia" espressa da Charles Heckethorn, ripresa poi dall'economista e sociologo Giuseppe Palomba, il termine «MAFIA» non sarebbe altro che l'acronimo delle parole: «Mazzini Autorizza Furti Incendi Avvelenamenti». Fino a che punto sia fondato questo studio, rimane però da considerare il significato antropologico non privo di valore riguardo a un'organizzazione segreta a specchi capovolti che sarebbe nata nell'isola con finalità più o meno carbonare. Sempre con un acronimo il giornalista Selwyn Raab tenta di spiegare in un romanzo storico le origini della mafia, riallacciandosi al mito dei Beati Paoli e ai precedenti moti antifrancesi durante i cosiddetti Vespri siciliani come già fece in sede di interrogatorio Tommaso Buscetta, facendone derivare la frase "Morte Alla Francia Italia Anela". Ovviamente appare del tutto inusuale che nel XIII secolo si potesse parlare nel Regno di Sicilia la lingua italiana, al punto da usarla per la realizzazione di un acronimo, costume più sovente delle rivolte popolari e dei moti carbonari del XIX secolo. Secondo Santi Correnti, che pure rigetta le origini del termine dall'arabo, sarebbe un termine piuttosto recente, forse derivato dal dialetto toscano, trovando un riscontro nella parola maffia. Di simile avviso Pasquale Natella che ricorda come a Vicenza e Trento si usasse il vocabolo maffìa per indicare la superbia e la pulizia glottologica (...) va subito applicata in Venezia ove a centinaia di persone deve essere impedito di pronunciare S. Maffìa (...). La diceria copriva, si vede, l'intera penisola e nessuno poteva salvarsi; in tutte le caserme ottocentesche maffìa equivaleva a pavoneggiarsi e copriva il colloquio quotidiano così in Toscana come in Calabria, dove i delinquenti portavano i capelli alla mafiosa. Sul piano storico e antropologico va comunque osservato che in origine al fenomeno, attecchito sul territorio siciliano, veniva assegnato proprio questo termine esteso poi alle potenti organizzazioni associative a livello mondiale. Rimane comunque il fatto che nell'uso comune il termine mafia è ormai diffuso su larga scala. Per antonomasia e senza qualificazioni si riferisce tuttavia all'organizzazione che ha avuto origine nell'isola come insieme di piccole associazioni sviluppate in ambito agreste. Tali aggregazioni rette dalla legge dell'omertà e del silenzio consolidarono un'immensa potenza in Sicilia e riemersero dopo la seconda guerra mondiale.

Le origini del fenomeno.

Scrive Indro Montanelli: «io non posso aver scritto che le origini della mafia sono spagnole perché non lo penso. Su queste origini sono state scritte intere biblioteche. Secondo il mio amico Virgilio Titone, uno storico siciliano che, come spesso i siciliani, era un impasto di genialità e di follia, quelle origini sono piuttosto saracene e risalgono al 1200, quando l'esercito del grande imperatore Federico II - lo stupor mundi come veniva con ammirazione chiamato - ch'era appunto composto in stragrande maggioranza di saraceni, si dissolse nell'isola, e un po' per autodifesa, un po' per conservarvi qualche posizione di potere, vi costituì una società di mutuo soccorso: la mafia, appunto. È possibile, ma non ci giurerei.

Come non giuro, intendiamoci, su nessuna delle altre innumerevoli teorie che sono state escogitate - ognuna con le sue brave «pezze d'appoggio» - da storici, sociologi, etnologi che a quest'argomento hanno dedicato i loro studi e la loro vita, e fra i quali non le consiglio di arruolarsi. Contentiamoci dunque di riassumere gli ultimi sviluppi della mafia, quelli che le hanno dato i caratteri attuali. Per secoli, i siciliani hanno lamentato l'assenza o l'inefficienza dei poteri centrali - arabi, normanni, spagnoli, francesi e, dall'Ottocento in poi, italiani - che si sono avvicendati sull'isola e che sempre hanno finito per lasciarli in balia dei signori feudali locali che monopolizzavano le ricchezze dell'isola, una ricchezza fatta soprattutto, anzi esclusivamente di terre. La mafia infatti (questo è accertato) ha origini agrarie, e trova i suoi fondatori in quel ceto medio, che sta fra il grande proprietario (il «barone») e il «servo» qual è considerato il contadino. Quest'elemento intermedio, che nell'Italia continentale si chiama «fattore», o «amministratore», è il «massaro», cioè il servo che, più evoluto e scaltro degli altri, diventa il «rappresentante» del barone, che alla vita di «fattoria» - come la si chiama in Toscana - preferisce quella di palazzo in città e vi consuma tutte le sue sostanze, mentre il «massaro» arrotonda le sue derubando il barone e rendendo ancor più esoso lo sfruttamento del servo. I massari sono certamente molto più efficienti dei vecchi signori e capiscono che per poterne ereditare i privilegi debbono avere dalla loro i poteri centrali, cioè quelli del governo: Giustizia, polizia, carabinieri, enti locali eccetera. Ecco la mafia «storica» quale io l'ho conosciuta una cinquantina di anni orsono nel suo ultimo grande capo, Don Calogero Vizzini (nei miei «Incontri» c' è di lui un mio ritratto che credo molto somigliante), ex massaro. La sua mafia, più che ai soldi, teneva al potere e aveva imparato a esercitarlo ricorrendo il meno possibile al sangue (non volle, per esempio, aver a che fare col bandito Salvatore Giuliano, e fu essa ad eliminarlo). A questo punto però avvenne qualcosa di traumatico. Fin allora, quando un mafioso s'inguaiava con la Giustizia, la mafia lo «esportava» in America, la cui mafia non era che una succursale o spurgo di quella siciliana. Dovendo però adattarsi a una società metropolitana, industrializzata e violenta, s'era trasformata in gangsterismo. Nel '43, per prepararvi il loro sbarco, gli americani mandarono in Sicilia gli ex mafiosi siciliani. I quali non erano più i figli o i nipoti del «massaro», ma i figli e i nipoti del «padrino» di Puzo, col mitra in pugno e i miliardi in banca. È stata questa nuova mafia a fare piazza pulita di quella vecchia dei massari, che comunque, anche senza l'avvento dei «padrini» americani, avrebbe finito per prevalere in una società siciliana che sempre meno si basa sul desolato e giallastro latifondo baronale e sempre più somiglia a quella di una Las Vegas senza freni di tribunale e di pena di morte. Don Calogero fece appena in tempo a morire nel suo letto. Altrimenti ci avrebbero pensato i «corleonesi» di Totò Riina.

Il fenomeno mafioso si sviluppò nel sistema economico proprio della Sicilia occidentale, basato sullo sfruttamento del latifondo.

Questo sistema ancora si stampo feudale, era organizzato secondo un struttura a piramide che prevedeva un vertice costituito dal proprietario terriero, una base di contadini e braccianti che lavoravano direttamente la terra, e un centro composto  da una rigogliosa e articolata gerarchia di vassalli, affittuari e subaffittuari, intermediari, ecc., che controllava l'andamento dei lavori, la qualità e quantità dei raccolti, la riscossione di affitti e gabelle. Questa sorta di "classe media", già utilizzata dall'aristocrazia siciliana in funzione antiborbonica, venne usata contro la classe bracciantile e contadina allo scopo di preservare i privilegi aristocratici minacciati dalle leggi dello Stato unitario tendente ad una riduzione dei latifondi. Sfruttando la diffusa ostilità verso un'autorità statale lontana ed ignara della situazione siciliana, la mafia si trasformò, divenendo un organismo sostitutivo dell'Ordine legale, e intervenne nell'amministrazione della giustizia e nella gestione dell'economia, avviando una serie di attività al limite della legalità o del tutto illegali, da cui gli affiliati e le loro famiglie traevano sostentamento. Da qui si sviluppò anche la struttura della mafia siciliana - simile per molti aspetti a quella della 'ndrangheta calabrese e della camorra campana -, organizzata per famiglie o cosche, autonome e parallele, composte da un numero relativamente basso di componenti e guidato da uno o più capi. Lo spirito mafioso poggiava su un rigido codice d'onore e sull'omertà. I conflitti, le contese, i reati andavano regolati all'interno della comunità, facendo ricorso alla mediazione, ma anche all'intimidazione ed alla violenza.

I rapporti con le autorità dello Stato venivano condannati e veniva punito soprattutto, anche con la morte, il passaggio di informazioni alla giustizia. La mafia, seppure sotto diverso nome, compare negli atti giudiziari solo nel 1838, quando il procuratore generale di Trapani, Pietro Ulloa, parla di "unioni e fratellanze, specie di sette", dando un primo quadro agghiacciante delle complicità e delle compiacenze che consentono alla malapianta di crescere: «Non vi è impiegato in Sicilia che non si sia prostrato al cenno di un prepotente o che non abbia pensato a tirar profitto dal suo ufficio...». Sono le fratellanze che generano la mafia e dettano le prime norme non scritte di un'associazione formata non da uomini d'onore, perchè di questo ancora non si discute, ma da uomini di parola, con  una distinzione fin troppo sottile perchè semmai prevale qui l'assonanza fra onore e parola.

E' il tempo delle "bonànche" come venivano chiamati gli uomini con la giacca e, quindi, di "rispetto", comunque distinti da picciotti e contadini. Si calcola che più di ventimila picciotti seguirono Garibaldi con l'obiettivo di risalire lungo la penisola ma, quando ormai le truppe borboniche sembravano vinte, il regio esercito piemontese bloccò le camicie rosse, rispedendo a casa i volontari posti così d'un colpo davanti alla grande delusione di chi aveva sperato almeno in una vantaggiosa distribuzione delle terre. E invece, soppresse le corporazioni religiose con alcune leggi approvate dal 1862 al 1866, i 190 mila ettari di terreno delle proprietà ecclesiali finirono nelle mani di grossi affittuari e proprietari che se li accaparrarono a prezzi irrisori. Nasce così "l'opposizione mafiosa", di bande che si riorganizzano sul modello delle "fratellanze" ma scontrandosi anche con i potenti agrario - mafiosi pronti a un riassetto tutto interno al potere. Al centro ci sono i baroni, gli agrari insidiati nei loro interessi e altri gruppi malavitosi che infestano paesi e campagne. E questo lo scenario in cui l'Italia Unita registra la prima misteriosa strage, che la letteratura racconterà come la notte dei pugnalatori di Palermo con sconosciuti che, sbucando dai vicoli bui, uccisero e ferirono a colpi di pugnale bottegai, cocchieri, passanti, barcaioli e soldati, alcuni dei quali assaliti al grido: "Vuatri siti di lu partitu" (voi siete del partito)". Era il primo ottobre 1862. E dalla Sicilia arrivavano la prima strage e il primo pentito. Quella notte, infatti, per puro caso fu arrestato uno dei feritori che al processo parlò accusando i suoi mandanti. Ma furono i parenti del pentito a giurare sulla sua pazzia e le accuse svanirono. La mafia e i suoi tentacoli stesi attorno al potere cominciavano a imporsi sulla storia.

Le origini: Cosa Nostra.

Le disperate condizioni economiche costringono molti meridionali a un esodo che coinvolge 360 mila persone nel decennio fra il 1872 e il 1882. La Sicilia è la più colpita dal fenomeno e partecipa più di altre regioni, soprattutto per quanto riguarda l'emigrazione in USA.

Dalle navi si sbarca dopo faticosissime e snervanti traversate concluse con interminabili code sulle banchine per guadagnare l'ingresso in un mondo ostile dove si arriva con valigie di cartone piene di ricordi. La ricerca di un alloggio, un'occupazione per i nuovi arrivati passa necessariamente attraverso le conoscenze di quanti si sono già insediati nei quartieri popolati dagli emigranti. Si formano gruppi ristretti pronti a far scattare una solidarietà che, per certi versi, ripropone la fratellanza di vecchie sette con un richiamo all'onore e alla parola. Siamo ai primi embrioni di Cosa Nostra. C'è anche chi si inserisce nel contesto e si rafforza preparando la lotta di penetrazione per ogni traffico, dalla prostituzione alla droga, dalle estorsioni al contrabbando, pronti alla grande occasione del proibizionismo che sancirà il passaggio dalle origini rurali al gangsterismo.

Mafia e fascismo.

Il brigantaggio e la mafia, i sequestri di persona, gli omicidi compiuti a ritmo ossessionante fanno intanto della Sicilia una terra in cui la dittatura fascista decide di avviare una feroce repressione.

Mussolini può farlo perché la dittatura governa senza voti. Ma anche lui si fermerà promuovendo e trasferendo il prefetto Cesare Mori, inviato in Sicilia nel 1924 con pieni poteri. I metodi di Mori sono sbrigativi ma efficaci, sicuramente discutibili, e il prefetto ripulisce città paesi e campagne. Assedia interi centri abitati, stana i capimafia bloccando gli acquedotti, assetando la popolazione come accadde a Gangi. E Mussolini nel '27 rinnova la fiducia a Mori che appena due anni dopo, viene messo a riposo con un secco telegramma, senza avviso. La liberazione dell'Italia dal fascismo, lo sbarco alleato in Sicilia nel luglio 1943 e l'immediata nomina di alcuni capimafia a sindaci dei loro paesi sono il frutto di un'intesa raggiunta da Cosa Nostra con le autorità americane e avviata tre anni prima con un vertice dei boss in riva al fiume Hudson, nel New Jersey. La notte fra il 9 e 10 luglio 1943 gli Alleati trovarono così la strada spianata e le truppe anglo-americane poterono avanzare senza esplodere un colpo anche perché i mafiosi li precedevano scoraggiando eventuali resistenze, invitando soldati e fascisti a deporre le armi che finirono nelle loro mani. Il 1944 è l'anno dei separatisti. E la mafia che aveva servito gli americani divenne separatista appoggiando gli agrari e soffocando il banditismo a eccezione del clan di Salvatore Giuliano. Il primo patto in questa direzione fu sancito fra "don" Calogero Vizzini e l'ispettore generale di polizia, Messana. La collaborazione segreta tra forze dell'ordine e una parte della mafia, con l'uso e la protezione di confidenti e informatori, consentì la cattura di Giuliano o meglio l'omicidio del bandito con la messa in scena di un'inesistente sparatoria. E la mafia compì un altro "servizio": prima Giuliano fu ucciso nel sonno dal fidatissimo picciotto e cugino Gaspare Pisciotta, poi il cadavere fu ridotto dai mitra dei carabinieri a un colabrodo. Ma il massacro che atterrisce il Paese è quello di Portella della Ginestra, una collina a due passi da Palermo dove la banda Giuliano sparò colpi di mitraglia contro i contadini in festa per il primo maggio.

Il dopoguerra.

Erano stati anni di imboscate e attentati. La Sicilia faceva paura. I separatisti costituivano una forza eversiva che rischiava di frantumare il disegno unitario della nuova Repubblica nata anche dalla Resistenza. Anche per soffocare questa spinta era stato concesso nel 1946, all'isola, uno Statuto autonomistico poi recepito dalla Costituzione italiana. Era tempo di elezioni e uomini di ogni partito cercavano voti dappertutto. Anche fra gli amici di Giuliano che si sentì poi "tradito", pronto a vendicarsi con la lupara e con le parole. Giuliano era diventato davvero pericoloso per il potere mentre i siciliani eleggevano la loro Assemblea Regionale che si riunì per la prima volta al Palazzo dei Normanni il 25 maggio 1947.

Sui banchi di sinistra, Blocco del Popolo e repubblicani. Al centro, democristiani e separatisti. A destra, monarchici e liberali. Tutti giurarono di esercitare il mandato "al solo scopo del bene inseparabile dello Stato e della Regione siciliana". L'Autonomia sbriciolò l'indipendentismo e la mafia che era stata liberale con i liberali, separatista con i separatisti si avvicinava spedita al nuovo potere, insinuandosi soprattutto all'interno della Democrazia cristiana. Si era a meno di un mese dalla strage di Portella, "buco nero" di una storia in cui spiccano due clamorosi sviluppi legati alle parole e al destino di Gaspare Pisciotta, il luogotenente di Giuliano.

Al processo di Viterbo gridò la sua verità: "Siamo un corpo solo di banditi, mafia e polizia! Come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo!".

All'Ucciardone, poi, decise di rivelare ogni cosa e chiese di parlare con il procuratore della Repubblica ma si presentò un giovane sostituto, Pietro Scaglione, che ascoltò e promise di tornare qualche giorno dopo con un cancelliere per verbalizzare tutto.

Invece qualche giorno prima arrivò la morte con un caffè alla stricnina e Pisciotta tacque. Cosi la strage restò senza mandanti, secondo il copione di una strategia della tensione riproposta nel dopoguerra. Pisciotta muore il 9 febbraio 1954 e il giorno dopo a Roma viene conferito l'incarico di formare il nuovo governo al siciliano distintosi come ministro degli Interni, Mario Scelta. Cinque mesi dopo, don Calò Vizzini si spegne per vecchiaia a Villalba dove un imponente corteo con capimafia e picciotti giunti da ogni parte della Sicilia si snoda fra le vie di questa capitale della mafia fino alla Chiesa Madre avvolta da un largo drappo nero e da un epitaffio a grandi caratteri: "Sagace, dinamico, mai stanco, diede benessere agli operai della terra e delle zolfare operando sempre il bene e si fece un nome assai apprezzato in Italia e fuori […] ed oggi con la pace di Cristo ricomposto nella maestà della morte da tutti gli amici, dagli stessi avversari, riceve l'attestato più bello, fu un galantuomo".

Le complicità e le compiacenze fra mafia e potere sono spesso evidenti. I padrini sono talvolta riveriti e ossequiati dai potenti. E fra i protagonisti dello scambio non mancano nomi di prima grandezza come lo stesso Vittorio Emanuele Orlando che con una letterina ringrazia un suo capoelettore, il mafioso Francesco Coppola per un fusto di vino eccellente ricevuto in segno di devozione. Poca cosa, forse, ma indica un quadro di rapporti che la commissione antimafia esaminerà molti anni dopo scoprendo come, per esempio, un discepolo di Orlando, l'onorevole Gaetano Palazzolo, scrivesse a Frank Coppola in questi termini: "Caro don Ciccio, se ci mettiamo d'accordo per fare eleggere un deputato amico e amico degli amici, siamo sicuri di mandarcelo".

Gli ultimi anni: mafia e politica.

Più si va avanti, più si parla di complicità e compiacenze tra mafia e potere. In coda a un lungo elogio dattiloscritto seguono le firme di settemila personaggi fra i quali uomini politici, religiosi, avvocati, commercianti e banchieri. Il legale fa anche sapere di avere in tasca i telegrammi di un ministro e di trentasei deputati democristiani che ringraziavano il padrino per i voti ricevuti durante le elezioni. La mafia, appena scalfita da processi e provvedimenti di polizia, lancia in pista i suoi uomini destinati a far carriera anche in politica. E' il caso di Vito Ciancimino, il figlio del barbiere di Corleone. Il comune di Palermo è l'obiettivo di Ciancimino che mette le mani sulla città negli anni Sessanta stringendola in una morsa che diverrà ancora più ferrea negli anni Settanta. Ma di lui i giudici si occuperanno sul serio solo nel 1983. E la prima vera condanna per mafia, con una pena di dieci anni di reclusione in primo grado, arriverà solo in un terribile venerdì, il 17 gennaio 1992.

Il verdetto è inequivocabile nel richiamo all'articolo 416 bis, al reato di associazione mafiosa introdotto nel codice penale subito dopo l'agguato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. La politica è la nuova frontiera scoperta dalle cosche siciliane, con tutta probabilità anche per le influenze dei cugini d'oltreoceano che importano in Italia il pragmatismo e la spregiudicatezza di un'organizzazione che, con il controllo del sindacato, ha provato a condizionare negli Usa settori economici e politici. Il modello americano di Cosa Nostra ribalta totalmente quello siciliano tutto proiettato sulle campagne. Fra i nuovi business primeggia il contrabbando di sigarette, primo banco di prova per l'allestimento di una rete che negli anni Settanta sarà riconvertita per il traffico di droga. Due settori di investimento particolarmente sviluppati negli Usa sono prostituzione e gioco. Il controllo dei grandi casinò consente guadagni ingenti. E sul gioco clandestino si sintonizza anche la mafia siciliana che, però, nell'isola punta soprattutto allo sviluppo edilizio controllando alcune imprese, imponendo tangenti ai costruttori, provvedendo a piazzare capicantiere e guardiani. Ai rampolli dei vecchi patriarchi si affiancano così gli esponenti di una mafia cresciuta sui nuovi business. a cominciare dal contrabbando. Si parla di due modi di intendere il crimine. E scattano frizioni destinate a tradursi in agguati, delitti, stragi con una netta contrapposizione fra vecchi e nuovi mafiosi per il controllo del contrabbando, del mercato ortofrutticolo, del mercato ittico e delle aree edificabili. Soprattutto per quest'ultimo ramo di interesse risultava indispensabile il collegamento con il mondo politico. Si trattava di mettere le mani sulla città e Palermo fu la preda di un famelico gruppo di potere che s'impossessò del Comune per oltre vent'anni con uno svantaggioso e dispendioso controllo di due ricchissimi rami di attività, quelli delle manutenzioni stradali e dell'illuminazione pubblica. Dominus incontrastato nel regolare il flusso degli interessi fu Vito Ciancimino, ponendosi come punto di incrocio ufficiale e non ufficiale per i partiti di maggioranza e di opposizione. Sono gli anni dei comitati d'affari su Palermo e chi ne trae vantaggio sono soprattutto la Cassma del conte Arturo Cassina e, successivamente, L'Icem dell'ingegnere Roberto Parisi, due ditte che, senza gare trasparenti si aggiudicano rispettivamente l'appalto delle fognature e quello dell'illuminazione.

Ci vorranno le devastazioni degli anni Settanta per cominciare a invertire rotta solo a metà degli anni Ottanta, quando la verità sul municipio di Palermo non potrà più essere celata perché ormai hanno fatto la loro comparsa giudici di pasta diversa da quelli del passato. a cominciare dal procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, dal consigliere istruttore Rocco Chinnici e dal suo pupillo, Giovanni Falcone.

DALL’ORDALIA ALLA DIA DI GIOVANNI FALCONE. STORIA DI MAFIA E DI SUPREMAZIA. LA DOTTRINA DELL'UBBIDIENZA.

Giovanni Falcone, nato a Palermo, dopo una breve esperienza all'Accademia Navale di Livorno, studia Giurisprudenza all'Università degli studi di Palermo dove si laurea con lode nel 1961, con una tesi sulla "Istruzione probatoria in diritto amministrativo". Vince il concorso in magistratura nel 1964 e dopo essere stato pretore a Lentini e poi sostituto procuratore a Trapani per 12 anni arriva a Palermo, dove, dopo l'omicidio del giudice Cesare Terranova, comincia a lavorare all'ufficio istruzione. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici gli affida, nel maggio 1980, le indagini contro Rosario Spatola, un lavoro che coinvolgeva anche criminali negli Stati Uniti e che era osteggiato da alcuni altri magistrati. Alle prese con questo caso, Falcone comprese che per indagare con successo associazioni mafiose era necessario basarsi anche su indagini patrimoniali e bancarie, per ricostruire il percorso del denaro che accompagnava i traffici e ricostruire un quadro complessivo del fenomeno e per evitare la serie di assoluzioni con cui si erano conclusi i precedenti processi contro la mafia. La svolta nelle indagini, non solo per la conoscenza di determinati fatti di mafia, ma specialmente della struttura dell'organizzazione Cosa nostra, si ha con l'interrogatorio iniziato a Roma nel luglio 1984 in presenza del sostituto procuratore Vincenzo Geraci e di Gianni De Gennaro, del Nucleo operativo della Criminalpol, del primo e più celebre ‘’pentito’’ di mafia, Tommaso Buscetta. Le indagini portate avanti da Falcone e dal pool di magistrati, sull'esempio di quelli organizzati contro il terrorismo pochi anni prima, portano ad istruire il primo maxiprocesso fatto a Palermo (che termina il 16 novembre 1987) contro la mafia, che vedeva imputate 475 persone. Dopo l'omicidio di Giuseppe Montana e Ninni Cassarà nell'estate 1985, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, si comincia a temere per l'incolumità anche dei due magistrati, che sono costretti per motivi di sicurezza a soggiornare qualche tempo con le famiglie presso il carcere dell'Asinara. Nel gennaio 1985 il Consiglio Superiore della Magistratura, nella votazione fra Falcone e Antonino Meli, basandosi sull'anzianità di servizio, nomina il secondo a capo dell'Ufficio istruzione di Palermo, in luogo di Caponnetto che aveva lasciato l'incarico per raggiunti limiti di età. Da questo momento in poi Falcone e il suo pool sono costretti a fronteggiare un numero sempre crescente di ostacoli alla loro attività: anche la Cassazione sconfessa l'unitarietà delle indagini in fatto di mafia affermata da Falcone e dall'esperienza del suo pool. In questo periodo si svolge anche la vicenda del "corvo", una serie di lettere anonime diffamanti il Pool antimafia e i suoi membri. Nell'autunno 1986 Meli scioglie ufficialmente il pool. Qualche tempo dopo Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio e ministro di Grazia e Giustizia ad interim, offre a Falcone di dirigere la sezione Affari Penali del ministero. In questo periodo, che va dal 1991 alla sua morte due anni dopo, Falcone fu molto attivo, cercando in ogni modo di rendere più efficace ed incisiva l'azione della magistratura contro il crimine. Al ministero Martelli e Falcone lavorano al progetto della Superprocura antimafia. Falcone muore nella strage di Capaci il 23 maggio 1992. Una carica di 500 chili di tritolo posizionata sotto il tratto di autostrada nei pressi di Capaci, fa saltare in aria le due auto blindate su cui viaggiano Falcone con la moglie e l’autista, e i tre agenti della scorta. Si salva solo l’autista della macchina di Falcone. Insieme a Falcone e alla moglie Francesca Morvillo, magistrato anche lei, muoiono gli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. Per la strage di Capaci, la corte d'assise di Caltanissetta, il 26 settembre 1997, ha emesso 26 condanne all’ergastolo, in sostanza l’intera ‘’cupola’’ di Cosa Nostra. Il 9 aprile 2000 i giudici di secondo grado hanno confermato la sentenza, e aggiunto altre tre condanne al carcere a vita. La Cassazione ha riformato in parte il verdetto, annullando alcune condanne e rinviando il processo a Catania. Tra gli imputati condannati definitivamente all' ergastolo, oltre a Totò Riina e Bernardo Provenzano, figurano altri boss tra cui Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca.

Sinistra, magistrati e Falcone: memoria corta o selettiva?

Spataro ricorda l’amico Falcone, il giudice che osteggiò per anni, scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Il procuratore, in prima fila alla commemorazione del giudice ucciso dalla mafia lo scorso 23 maggio 2012, era tra gli aderenti al Movimento per la giustizia fondato da Falcone e fu tra coloro che non lo votarono all’elezione al Csm. A distanza di vent’anni c’è un disagio ancora vivissimo.

Nascosto, accuratamente, ma vivo tra i magistrati che osteggiarono per anni Giovanni Falcone, i «Giuda» di cui parlò anche Paolo Borsellino in un convegno del giugno ’92, poco prima di essere ucciso. Nemici in vita del magistrato palermitano, oggi convinti custodi della sua memoria. Solo che poi succedono episodi difficili da giustificare. Come il fatto, ad esempio, che nella grande commemorazione per la strage di Capaci che si è tenuta a Milano il 23 maggio 2012, tra i primi oratori ci fosse il procuratore Armando Spataro. Lo stesso che, la sera dopo, è stato citato in un documentario dedicato a Falcone (a cura del programma tv La storia siamo noi) come una delle persone che aveva causato maggiore amarezza nel giudice prima che la mafia lo uccidesse.

Per questo ora Spataro, nelle mailing list dei magistrati, cerca di arrampicarsi sugli specchi pur di difendersi. Dietro i suoi celebri baffi, Falcone celava un grande senso dell'ironia, che gli permise di affrontare serenamente gli attacchi dei colleghi. Dopo il fallito attentato dell’Addaura, mentre molti mettevano in dubbio che la matrice fosse mafiosa, il magistrato palermitano si trovò a dire in tv: «Questo è il paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa e non l’hai fatta esplodere, la colpa è tua». Quello di Falcone è stato un percorso costellato di attacchi, anche verbali, ricevuti persino da amici e colleghi. Non fu solo il procuratore generale Pizzillo ad accusare Falcone nell’83 di «rovinare l’economia siciliana» con i suoi processi. Tutti ricordano che, un mese dopo le condanne del primo maxiprocesso a Cosa nostra, nel gennaio 1988, il Csm bocciò la nomina di Falcone a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Il giudice ottimisticamente contava sull’appoggio dei colleghi di alcune correnti, i quali invece all’ultimo istante gli preferirono Antonino Meli. A La storia siamo noi Fernanda Contri, all’epoca componente del Csm, ha detto: «Ricordo che in quell’occasione Falcone disse: “Ma voi avete capito che il Csm mi ha consegnato alla mafia? Che quella sentenza di morte che i mafiosi hanno emesso ora sanno che la possono eseguire, perché neanche i magistrati mi vogliono?!?”». Il magistrato Mario Almerighi ha ricordato: «Credo che gran parte di questo sentimento di astio che ha portato in tanti momenti Falcone all’isolamento, sia dovuto a questo sentimento diffuso tra gli uomini, e quindi anche tra i magistrati: l’invidia». La trasmissione Rai ha chiesto ai componenti del CSM di quegli anni di spiegare perché votarono Meli, ma nessuno ha voluto rilasciare interviste. Ma la trasmissione tv ha anche il merito di riportare alla luce un altro episodio, di solito dimenticato. Dopo la nomina di Meli, Falcone si impegnò per la nascita di una nuova corrente, Movimento per la giustizia. Nel 1990, si consumò il nuovo tradimento: quando Falcone si candidò al Csm non venne eletto proprio perché mancò l’appoggio della sua stessa corrente. Tra i colleghi che ne facevano parte, anche il procuratore milanese Armando Spataro. Che prende pc e mail e scrive ai colleghi dicendosi amareggiato. Per spiegare la sua posizione, invia un estratto del suo libro del 2010, Ne valeva la pena, con le pagine dedicate proprio a Giovanni Falcone. “Non fu eletto – scrive Pomarici – nonostante si fosse impegnato nella campagna elettorale. Credo che, al di là delle eccellenti qualità degli altri eletti, anche la parte di magistratura che rappresentavamo dimostrò la falsità dell’assunto che chi si impegna strenuamente nel settore dell’antimafia, rischiando la pelle, diventa per ciò stesso popolare”. A distanza di 20 anni, a parte questa notazione generica, ai lettori non è dato sapere perché Spataro e i suoi non lo votarono malgrado l’impegno. Non è finita qui. Nel 1991 Giovanni Falcone accettò l'incarico, ricevuto dall’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli, di direttore generale degli Affari Penali. Fu in quel ruolo che il magistrato avviò tutte quelle riforme che diedero sostanziali colpi alla mafia dopo la sua morte: dal rafforzamento del 41 bis, alla creazione della Procura nazionale antimafia e della direzione investigativa antimafia. Ma all’epoca la scelta fu osteggiata con violenza: “Fu un’altra sua successiva delusione e anche io, in questo caso, contribuii alla sua amarezza – scrive Spataro -. Avremmo preferito che non avesse accettato quell’incarico. Gli scrissi una lunga lettera per spiegare le mie forti perplessità. E lui mi rispose mostrandomi amicizia e comprensione. Era come se mi avesse detto: “Capisco i vostri timori”». Peccato che invece il magistrato Almerighi ha raccontato a La Storia siamo noi che Falcone «era molto amareggiato perché molti avevano considerato questa sua scelta un tradimento». Sulla creazione della procura antimafia e sulla naturale decisione che fosse Falcone a dirigerla (decisione che fu molto osteggiata e che il Csm non deliberò prima della strage di Capaci), Almerighi ricorda: «Ricevette molte critiche. Ricordo quella di Armando Spataro che disse: “Ha fatto una ferraglia, e ora vuole guidarla lui”». Sottolinea il magistrato Alfredo Morvillo, cognato di Falcone: «Quello che mi colpisce ora è che di tutti i colleghi che lo hanno osteggiato, nessuno ha avuto il coraggio di riconoscere di aver fatto un errore». E purtroppo, il caso di Spataro è solo un esempio. Si potrebbero citare anche politici come Leoluca Orlando, che raccolse le firme per denunciare al Csm come Falcone «tenesse carte chiuse nei cassetti». La storia siamo noi ha riproposto uno spezzone di una puntata di Mixer del ’93, quando in studio era ospite il neo sindaco di Palermo e che ricevette in diretta una telefonata dalla sorella del giudice, Maria Falcone: «Perché ha deciso di infangare il nome e la dignità di mio fratello?». Orlando allora balbettò qualche scusa, ma sostanzialmente fece finta di nulla. Un po’ come questo 23 maggio, quando ha accolto la nave della legalità che approdava a Palermo: «Esprimo il mio rammarico umano per quell’incomprensione, ricordando il contesto di tensione in cui quel contrasto si è verificato, ma ribadendo che il compito del politico è diverso da quello del magistrato».

Vent’anni di disagi e facce di tolla. Alle manifestazioni attuali in memoria di Falcone non vogliono i rappresentanti politici del centrodestra. I ministri del governo di destra temono di andarci per contestazioni. Su quasi tutti i giornali di area democratica o comunista i magistrati ricordano Falcone, quanto era amato e benvoluto dalla sinistra e da loro stessi. Così anche su La Repubblica, è un viavai di politici, sempre di sinistra, che idolatrano Falcone e Borsellino e ci dicono “dobbiamo ricordare!”. Tra parentesi, ricordare che la destra è mafiosa e noi si che siamo i difensori della verità, dei magistrati come Falcone, che la destra attacca. Ora a leggere queste cose davvero non resisto e ho fatto una brevissima ricerca su internet, mirata al 27 ottobre 1991, poco tempo prima della morte di Falcone. Guarda caso ho trovato questa pagina di “La Repubblica”: UNA COSA MOSTRUOSA. I MAGISTRATI FANNO MURO. «Parte la superprocura fortemente voluta da Martelli e Falcone. Si chiamerà Dna, una sigla che richiama più i test genetici e il delitto dell'Olgiata che non una sofisticata struttura antimafia. "Il Dna del pubblico ministero si avvia ad essere sottoposto ad una totale alterazione genetica", ghigna amaro Gioacchino Izzo, magistrato di "Unità per la Costituzione", e le sue parole danno la misura della reazione che hanno suscitato nella categoria le misure anticriminalità varate venerdì. Immediata e generale è stata infatti la sollevazione dei magistrati. Stavolta, senza divisioni o spaccature. Tutti, dall'Associazione al Consiglio superiore, hanno avuto parole durissime per l'iniziativa governativa. L'Anm è addirittura riunita in seduta generale permanente da venerdì, con duecento delegati venuti da tutta Italia. L'istituzione della Dna viene definita "provvedimento contrario ai principi vigenti, incredibile, fuorilegge", "grave interferenza dell' esecutivo, che vuole la magistratura sottoposta alle sue direttive". A Firenze, un giudice lo ha definito "poco meno di un colpo di Stato". Quella dell'Anm doveva essere un'assemblea preparatoria delle elezioni dei vertici, ma si è immediatamente trasformata in un'alzata di scudi contro i politici: Cossiga per gli attacchi a Casson, Martelli per la superprocura e le iniziative disciplinari contro il giudice Barreca ("una inammissibile interferenza"). Ora si confida nella speciale commissione bicamerale che dovrà vagliare e, se del caso, modificare il decreto. Intanto, il guardasigilli giovedì incontrerà l'Anm. Il documento finale approvato cerca di essere il più possibile costruttivo. Molte, dunque, le indicazioni alternative: istituzione di una agenzia investigativa altamente specializzata, autonoma rispetto ai corpi di provenienza; realizzazione di banche-dati che consentano la raccolta e lo scambio di informazioni fra gli uffici del territorio; specializzazione del Pm quanto a professionalità; spostamento delle competenze giurisdizionali in tema di reati di criminalità organizzata presso i tribunali di capoluogo di distretto; conservazione dell'attuale distribuzione delle competenze, ove sostenuta da adeguati supporti organizzativi; necessaria ristrutturazione territoriale degli uffici giudiziari in base a dimensioni standard. Come accennavamo, mai come in questo caso, tutte le correnti si sono trovate d'accordo. Giacomo Caliendo, vicepresidente dell'Anm, aderente a "UniCost", parla di "misure liberticide, gravemente lesive della libertà del cittadino". Per Vito D'Ambrosio, dei "Movimenti riuniti", la stessa corrente cui aderisce Falcone, "l'iniziativa di Martelli è gravissima... si è in presenza di un grave attacco alla democrazia". Per Mario Cicala, di "Magistratura indipendente", segretario generale dell'Anm, la superprocura è "una nuova, stravagante struttura". Quanto a "Magistratura democratica", il suo segretario, Nello Rossi, dice che "solo la situazione di degrado istituzionale in cui versa il Paese può dar ragione ad un progetto così eversivo e inadeguato". Altri magistrati si succedono al microfono. Parlano di "mostro dalle tre facce", "provvedimento contrario ai principi costituzionali", "struttura che ricorda quelle del fascismo". Osserva ancora Caliendo: "Rifiutiamo un ministro che vuole intimidire i giudici e contestiamo una superprocura che vuole sottoporre il Pm al potere esecutivo e introdurre di fatto la discrezionalità dell'azione penale". Per Cicala, la Dna è un mostro "con il corpo nella giurisdizione, la testa nell'esecutivo e le mani e i piedi nella polizia". Per Raffaele Bertoni, ex presidente dell' Anm, "la superprocura sarà in magistratura quello che la cupola è per la mafia; con una differenza in peggio: che al di sopra della cupola, stando a Falcone, non ci sono estranei che la dirigano, mentre la superprocura sarà certamente diretta da organi esterni al giudiziario". Dal mondo politico la voci più dure vengono da Cesare Salvi del Pds e da Leoluca Orlando. Il leader della "Rete" ha detto: "Questo governo è disponibile a colpire anche i politici amici, che però sono anche amici dei mafiosi?". Quanto agli addetti ai lavori della sponda opposta, gli avvocati, Camere penali e Consiglio nazionale forense, pensano che la Dna possa funzionare. Ma è più "un auspicio" che una certezza.»

Al tempo la lotta era per la cosiddetta superprocura della DNA, Direzione Nazionale Antimafia. Creatura di Giovanni Falcone e fortemente voluta da Martelli, ministro della Giustizia dell'epoca, come risposta e attacco alla mafia. Una persona, che vive e legge Il Fatto Quotidiano, Repubblica e l'Espresso di questi tempi penserà “Ah, ecco che vediamo come i corrotti della prima repubblica, diretti progenitori di questa destra corrotta e mafiosa, attaccano quel sant'uomo di Falcone”. Invece no. Falcone era davvero un grande magistrato ma chi lo attaccava erano i partiti della sinistra tutta, Leoluca Orlando (uno dei peggiori accusatori) e i suoi colleghi magistrati. Nell'articolo (ma ve ne sono altri, è sufficiente fare un ricerca in qualsiasi archivio di giornale, anche sul Corriere della Sera) Falcone e Martelli vengono addirittura accusati di Colpo di Stato da un collega magistrato di Firenze. Ecco qualche breve passo: …”A Firenze, un giudice lo ha definito “poco meno di un colpo di Stato”……”Quanto a “Magistratura democratica”, il suo segretario, Nello Rossi, dice che “solo la situazione di degrado istituzionale in cui versa il Paese può dar ragione ad un progetto così eversivo e inadeguato”. Altri magistrati si succedono al microfono. Parlano di “mostro dalle tre facce”, “provvedimento contrario ai principi costituzionali”, “struttura che ricorda quelle del fascismo”.”… Questo per quanto riguarda i magistrati. Ora passiamo a Leoluca Orlando e i diretti predecessori del PD (allora PDS) con questo stralcio dall'articolo: “Dal mondo politico la voci più dure vengono da Cesare Salvi del Pds e da Leoluca Orlando. Il leader della “Rete” ha detto: “Questo governo è disponibile a colpire anche i politici amici, che però sono anche amici dei mafiosi?”. La verità è che Falcone fu osteggiato ed oggetto di una grave campagna di diffamazione, negli ultimi mesi della sua vita, proprio da parte di sinistra e magistrati. Era un magistrato considerato di destra, all'epoca, e proprio per questo era oggetto di delegittimazione e insulti da parte di chi oggi vuole fare credere alle nuove generazioni e a chi non ricorda di averlo sempre difeso e di essere, anzi, difensore della democrazia e della lotta alla mafia. La sinistra di oggi, con i suoi Bersani, D'Alema, Veltroni, Fassino, Vendola è la sinistra di ieri. I maggiori politici di sinistra di oggi hanno fatto parte del PC e dei DS. Sia che si parli di PD o Rifondazione o Sinistra e Libertà, se andiamo a vedere il curriculum politico dei maggiori leader di oggi, vediamo che hanno fatto parte della gioventù comunista del PC, del PC stesso e del PDS e DS poi. Queste persone, come si può vedere facendo una ricerca in ogni archivio di giornali dell'epoca, accusarono Falcone di nefandezze, e ora si ergono a suoi difensori post-mortem, dopo essere stati accusatori in vita. Io direi una sola cosa: Vergogna. Leggiamo l'articolo di Repubblica, del 1991 e rivediamo le stesse tesi ora portate dallo stesso giornale contro ogni provvedimento e uomo non allienato alla sinistra. Amico dei mafiosi, colpo di Stato, incostituzionale. Fa impressione che abbiano detto queste cose e ora siano saliti sul carro del vincitore postumo. Come sempre, rovesciando la realtà hanno creato un'altra realtà parallela dove loro sono i protettori della giustizia e gli oppositori come sempre sono mafiosi, fascisti e delinquenti. Vergogna.

Dal segreto del confessionale a quello investigativo: una "ordalia nei secoli fedele". La soluzione suggerita da Giovanni Falcone si chiama Direzione Investigativa Antimafia, spiega Cleto Iafrate in tre paragrafi. 1. Il segreto dell’ordalia – 2. Dal segreto istruttorio al segreto investigativo – 3. La Direzione Investigativa Antimafia.

1. Il segreto dell’ordalia. Lo storico Tucidide già nel 450 A.C. sosteneva che per capire il presente è necessario guardare al passato.  Pertanto, parto da molto lontano. Il progenitore del nostro codice di procedura penale è il “Tractatus de maleficiis”, scritto nel 1286 da Alberto Gandino da Crema, capo di una potente famiglia, di professione giudice itinerante. All’epoca, infatti, i Comuni concedevano in appalto la giustizia a nobili stranieri. Nel “Tractatus de maleficiis” uno spazio importante era occupato dall’antichissima pratica dell’ordalia. Si parla dell’ordalia del dio fiume addirittura nel Codice sumero di Ur-Nammu (2112 - 2095 a.C.). Alla pratica si ricorreva per dirimere le vertenze giuridiche che non si potevano, o non si volevano, regolare con mezzi umani. Ordalia, infatti, significa "giudizio di Dio" ed era una procedura basata sulla premessa che Dio avrebbe aiutato l'innocente. Infatti, l'innocenza o la colpevolezza dell'accusato venivano determinate sottoponendolo ad una prova molto dolorosa. L’esito della prova era ritenuto come la diretta conseguenza dell’intervento di Dio. In Europa le più utilizzate erano "l’ordalia del fuoco" e "l’ordalia dell'acqua”. Nel primo caso l’accusato doveva fare un certo numero di passi (solitamente nove) tenendo tra le mani una barra di ferro rovente. Nel secondo caso doveva togliere una pietra da un pentolone di acqua bollente. L'innocenza era dimostrata dall’assenza di ustioni, ovvero, dalla trascurabilità delle stesse. Se le lesioni erano ritenute guaribili, l'accusato era giudicato innocente. L’elemento fuoco, utilizzato per arroventare il metallo o per riscaldare l’acqua era preparato sotto il controllo e la supervisione del clero locale. Solitamente erano sottoposte alla pratica dell’ordalia le donne sospettate di stregoneria e quelle accusate d’infedeltà coniugale. Le registrazioni giudiziarie indicano che un discreto numero di donne accusate siano state ritenute innocenti e scagionate dalla prova dell'ordalia. Si sospetta fortemente che l'ordalia venisse in qualche modo “aggiustata”, agendo sull’elemento fuoco, per ottenere un verdetto che il sacerdote riteneva giusto. I sacerdoti, in effetti, conoscevano bene le loro “pecorelle” giacché ascoltavano le confessioni. Pur essendo obbligati al segreto confessionale, nulla vietava loro di aggiungere altra legna al fuoco, ovvero di astenersi dal farlo. In questa fase storica, quindi l’unico segreto che tiene banco nella procedura penale sembrerebbe il segreto del confessionale. I ministri del culto, dal canto loro, non erano disposti a sottoporsi ai rischi dell'ordalia dell'acqua o del fuoco. Per loro, infatti, era prevista “l'ordalia del pane”. Un pezzo di pane (chiamato "boccone maledetto") era posto sull'altare della chiesa. Si portava l’accusato di fronte all’altare e, dopo aver recitato una preghiera d’invocazione, gli si offriva il “boccone maledetto”. L’accusato, se colpevole, sarebbe soffocato. Poiché le dimensioni del boccone erano decise dall'inquisitore, non è improbabile che qualche boccone sia andato di traverso, si consideri che all’epoca non si panificava ogni giorno. E’ evidente che l’ordalia fosse un imbroglio ideato dagli uomini, alcuni dei quali avranno agito pure in buona fede. D’altronde Dio, ben dodici secoli prima, attraverso suo figlio Gesù Cristo, aveva messo in chiaro la sua scelta di rimanere estraneo alle nostre vertenze giudiziarie: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?” (Lc 12,14). Pur tuttavia credo che in relazione alla pratica delle ordalie, Dio sia intervenuto una sola volta: nell’anno domini 1215, durante il quarto Concilio Laterano, all’esito del quale è stato imposto al clero cattolico il divieto assoluto di amministrare le ordalie. La pratica delle ordalie continuò anche in assenza del clero ancora per qualche secolo, prima di scomparire definitivamente. L’ordalia più che giudizio di Dio, sembrerebbe quindi “manipolazione della procedura” da parte degli uomini, al fine di stabilire un controllo sull’azione penale, sicché le condanne potessero colpire solo i malvisti da chi comandava.

2. Dal segreto istruttorio al segreto investigativo. Nel 1808 il diritto processuale penale è disciplinato dal Code d'instruction criminelle. In esso si prevede un processo cosiddetto bifasico. A tenere banco adesso non è più il segreto del confessionale, ma il segreto istruttorio. L'istruttore, investito dal procuratore del Re, lavora in segreto, raccoglie segretamente le prove e passa gli atti al pubblico ministero. La bilancia, però, pende sempre dalla parte dell'istruttore, che dipende dal re, poiché i suoi verbali si abbattono come una mannaia su imputato e testimone durante la fase del dibattimento, cogliendoli spesso di sorpresa. D’altronde, nella monarchia ogni giurisdizione promana dal re, il quale interviene dove, quando e come vuole, anche attraverso la nomina di suoi commissari. Nel codice del 1913, Giolitti crea qualche piccolo varco al segreto istruttorio. Ammette la partecipazione dei difensori ad alcuni atti: esperimenti, ricognizioni, perizie, perquisizioni domiciliari. Il pubblico ministero, però, rimane sempre di parte, in quanto istruisce con i poteri del giudice; ad esempio, interroga i testimoni ed usa nel dibattimento le prove che ha formato quasi in completa autonomia. Siamo ancora lontani dalla struttura processuale odierna che richiede tre protagonisti: accusa, difesa e organo giudicante. «Il terzo codice (r.d. 19 ottobre 1930), ideologicamente fascista, squadra una procedura ad hoc: l'istruzione ridiventa segreta; resta il pubblico ministero istruttore, enfant gâté del governo; il contraddittorio perde fiato; svanisce ogni nullità non dedotta entro dati termini da chi vi abbia interesse. Era un ordigno così efferato da richiedere sommessi interventi correttivi nella prassi: e caduto il regime politico del quale è figlio, sopravvive sotto lune politiche diverse; fenomeno curioso; l'inerzia dura dieci anni pieni.» (in “Miserie della procedura penale” di Franco CORDERO). Dopo il periodo fascista, il segreto istruttorio viene man mano demolito da diversi interventi legislativi e da alcuni pronunciamenti della Corte costituzionale. Con la legge 190/1970 il difensore viene finalmente ammesso anche all’interrogatorio. Rimane, però, ancora escluso dagli esami testimoniali e dai confronti e lo resterà fino alla fine degli anni ottanta. Siamo, finalmente, giunti al codice vigente, che vede la luce dopo un lungo e travagliato iter. Il suo varo è preceduto da una serie di cautele; non può essere diversamente, poiché il diritto processuale penale tutela interessi molto importanti, oltre ad incidere su diritti soggettivi. Il segreto istruttorio nel nuovo codice si contrae e si trasforma in segreto investigativo. Il progetto preliminare fu approntato da una Commissione ministeriale (istituita nel marzo 1987) e inviato al ministro Guardasigilli, Giuliano Vassalli. Pochi giorni dopo, il testo fu trasmesso ai presidenti di Camera e Senato, che ne affidarono l’esame a una Commissione interparlamentare presieduta da Marcello Gallo. Nello stesso tempo, il progetto venne anche sottoposto all’esame del CSM, dei più alti magistrati, delle associazioni forensi e del mondo universitario. Il 20 maggio 1988 il parere della commissione Gallo fu fatto pervenire al Guardasigilli: questi sottopose il testo delle modifiche e osservazioni al Consiglio dei Ministri, che autorizzò la trasmissione alle Camere. La commissione Gallo espresse il proprio parere definitivo e lo inoltrò al Guardasigilli Vassalli. La redazione del testo definitivo, con le necessarie rifiniture, fu affidata alla commissione ministeriale presieduta da Gian Domenico Pisapia: il Ministro poté sottoporre al Consiglio dei Ministri il testo del nuovo Codice di procedura penale, successivamente emanato il 22 settembre 1988. Nel codice vigente spariscono l’istruzione formale e quella sommaria. Il processo nasce dalla richiesta di un rinvio a giudizio. L'udienza preliminare stabilisce se debba, o no, esservi un dibattimento. Se l'ordinanza è affermativa, si enuncia l'accusa; in caso contrario una sentenza dichiara il non luogo a procedere. Nella fase delle indagini preliminari si acquisiscono gli elementi di prova, al solo fine di valutare l'esercizio o meno dell'azione penale. Il segreto investigativo permane in tutta la fase delle indagini preliminari. Infatti, a mente dell’art. 329, I comma, c.p.p.: “Gli atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari”. La previsione di compiere in segreto determinati atti in questa fase, risponde alla logica di evitare la compromissione delle indagini. La violazione del segreto provocherebbe un’alterazione dell’equilibrio dei poteri. Apro una breve parentesi. Nell'ordinamento giuridico le fonti di produzione sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). Utilizzando una metafora, si può dire che il c.p.p. sta a un DPR come un colonnello sta a un sergente. Il sergente potrà dare ai suoi sottoposti delle disposizioni di dettaglio, ma non potrà mai contraddire ciò che un colonnello ha disposto: nella catena gerarchica il colonnello si trova più vicino all’autorità governativa da cui riceve le linee guida, rispetto a un sergente. Abbiamo visto quali garanzie e cautele abbiano accompagnato la fase di emanazione del c.p.p.. Le cautele utilizzate per emanare norme di rango regolamentare sono notevolmente ridotte. Per esempio il DPR 90/2010 (Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di Ordinamento militare) occupa un posto inferiore nella gerarchia delle fonti, giacché disciplina (ovvero dovrebbe disciplinare) solo aspetti di dettaglio; infatti l’art. 145 disciplina le modalità d’impiego delle bande musicali militari e il successivo art. 146 distribuisce gli strumenti musicali all’interno delle stesse. Quest’ultimo stabilisce che il numero degli strumenti di ciascuna banda militare debba essere così ripartito: 3 flauti, 1 ottavino, 3 oboi, 1 corno inglese, 23 clarinetti di diversa tonalità, 11 saxofoni di diversa tonalità, 2 contrabbassi ad ancia, 5 corni, 8 trombe, 5 tromboni, 20 flicorni di diverse tipologie, 1 timpano, 2 tamburi, 2 piatti, 1 gran cassa.

Com’è evidente gli interessi in gioco sono poco rilevanti. Se la norma avesse mal distribuito gli strumenti, la banda potrebbe stonare e il pubblico, eventualmente, non applaudire. Tali decisioni si possono certamente affidare a un atto di rango inferiore poiché non incidono sui poteri dello Stato, non ne provocano uno sbilanciamento. Non vale, però, lo stesso discorso per il successivo art. 237 (DPR 90/2010) dal titolo “Obblighi di polizia giudiziaria e doveri connessi con la dipendenza gerarchica”. Il cui primo comma afferma: “Indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale, i comandi dell’arma dei carabinieri competenti all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, danno notizia alla scala gerarchica della trasmissione, secondo le modalità stabilite con apposite istruzioni del Comandante generale dell’Arma dei carabinieri”. Faccio presente che tale norma è stata solo riordinata all’interno del DPR 90/2010, la sua datazione è anteriore alla legge 400/1988 sull'Ordinamento del Governo, pertanto si tratta di un atto formalmente presidenziale, ma sostanzialmente governativo. Sembrerebbe che i doveri connessi alla dipendenza gerarchica, imposti dall’ordinamento speciale, siano distinti e separati dagli obblighi di polizia giudiziaria stabiliti dall’ordinamento statuale. Ed in caso di conflitti? Non entro nel merito delle “modalità stabilite”, essendo le “istruzioni” norme esecutive interne emanate da un’autorità amministrativa, non vengono pubblicate in Gazzetta Ufficiale. Pur tuttavia, mi chiedo: può una norma di rango infimo, che distribuisce pifferi a pifferai, disporre indipendentemente dagli obblighi prescritti dal c.p.p.? Si tenga a mente che la fase d’inoltro delle informative di reato precede quella delle indagini preliminari, che devono rimanere segrete. Il vocabolo “segreto” deriva dal verbo “seiungo” ossia, “secerno”, “separo”; rispetto a un dato fatto il segreto separa chi è tenuto a sapere, da tutti gli altri che non devono sapere. E’ di tutta evidenza che le possibilità che un fatto rimanga segreto diminuiscano all'aumentare del numero delle persone che ne vengono a conoscenza. Si tratta di discorsi elementari, sui quali l'espositore educato non insiste, temendo di offendere il lettore. E forse sbaglia! E se la notizia che deve rimanere segreta fosse conosciuta da chi non deve sapere? E se l’informativa di reato riguardasse esponenti delle istituzioni, o dei poteri forti in generale? Guardiamo la questione da un altro punto di vista. Nel caso fosse impartita dall’autorità politica una linea guida (disposizione) non concordata, l’ordinamento militare avrebbe gli anticorpi per contrastarla? A parere dello scrivente, la risposta è negativa. La legge 382/78, voluta anche dall’allora Presidente Pertini, prevede che un ordine non sia eseguito se illecito, ma il relativo regolamento (DPR 545/86) – che era atteso entro i successivi sei mesi, ma venne emanato a distanza di ben otto anni (cioè dopo dodici mesi che il presidente-partigiano era cessato dal mandato) - ha reso la previsione di difficile attuazione: L’illiceità andrebbe fatta presente non a un’autorità esterna e terza, bensì all’interno della stessa autorità militare. La rappresentanza militare, oltre ad essere gerarchizzata, può solo avanzare proposte, tra l’altro non vincolanti, limitatamente a determinati argomenti che attengono alle mense e ai servizi igienici Le note premiali, i giudizi annuali caratteristici e le speculari sanzioni disciplinari, sono svincolate dal principio di legalità e di tassatività, nonostante incidano, attraverso gli avanzamenti, sul diritto soggettivo alla giusta retribuzione; le sanzioni disciplinari di Corpo incidono addirittura sulla libertà personale. Ma com’è riuscito l’ordinamento militare a derogare ai principi costituzionali e, in particolare, a rimanere impermeabile al principio di legalità? L’ordinamento speciale si distingue da quello statuale per la presenza al suo interno di norme che si basano sulla regola dell’onore militare. Quando si parla di onore militare ci si riferisce a tutte quelle qualità etico-psicologiche, espressione di purezza d’animo - quali onestà, lealtà, rettitudine, fedeltà, giustizia, imparzialità - che procurano la stima altrui e che sono dal militare gelosamente detenute e custodite, nell’intimo convincimento della necessità di mantenerle integre. Le origini dell’onore militare si perdono nella notte dei tempi e vanno fatte risalire alla cosiddetta “ordalia del giuramento”, cui accenna Tito Livio in un suo scritto che risale al 293 avanti Cristo. Il giuramento militare si prestava di fronte all’altare e si chiamava “sacramentum militiae”. Esso aveva una funzione propriamente sacramentale: era il momento nel quale gli dei si chinavano sul miles romano e ne modificavano lo stato personale. Dopo il giuramento i milites romani, infatti, potevano chiamarsi “sacrati”, poiché si riteneva che, durante il rito, ricevessero un supplemento di purezza, oltre che di forza e di coraggio. Da quest’atmosfera di ritrovata purezza, trovò facile accoglimento la regola dell’onore militare, su cui si fonda il principio di supremazia speciale, che ancora oggi sopravvive nelle norme regolamentari che derogano ai principi costituzionali. Il legislatore regolamentare ha ritenuto che il presunto onore del superiore sia sufficiente a compensare le limitazioni dei diritti costituzionali del sottoposto; in particolare, vi è la convinzione che la completa attuazione dell’art. 52 Cost., III comma, possa nuocere alla “massima coesione interna” del comparto militare (Cort. Cost. 449/99). Però, non ci si è mai chiesti a cosa potrebbe nuocere, in tempo di pace, una totale ed ermetica coesione interna della polizia giudiziaria militarmente organizzata nel caso dovesse ricevere delle “linee guida” errate da parte dell’autorità politica. Quali le conseguenze sull’obbedienza militare? E quali i contraccolpi sulla procedura penale?

3. La Direzione Investigativa Antimafia. Nel 1991, in un contesto di grave emergenza mafiosa, con L. n. 410/1991 è stata istituita la Direzione Investigativa Antimafia (DIA), la Direzione nazionale antimafia (DNA) e la figura del Procuratore nazionale antimafia. La DIA è l’unico organismo investigativo interforze con competenza monofunzionale di contrasto alle organizzazioni mafiose. La DIA, infatti, senza alcun vincolo territoriale, svolge attività d’investigazione preventiva; per di più, coprendo l'intero territorio nazionale e internazionale, esegue indagini di polizia giudiziaria relative a delitti di associazione mafiosa o comunque ricollegabili a tali attività. La legge istitutiva fu ideata proprio da Giovanni Falcone. Il magistrato ne avvertì la necessità mentre cercava di fare luce sulle infiltrazioni mafiose all’interno delle istituzioni. Falcone, presumibilmente, ritenne che lo strumento investigativo di cui disponeva, nonostante fosse molto efficiente contro la manovalanza mafiosa, andasse rafforzato per combattere la mafia oltre un certo livello. Il magistrato perciò intervenne sulla linea gerarchica e sulla dipendenza funzionale. Intrecciò e confuse nella struttura interforze uomini appartenenti a tre differenti linee gerarchiche (Interno, Difesa, Finanze), che fino ad allora erano state separate e alle dipendenze dei rispettivi Ministeri. Sicché nella DIA, poliziotti, carabinieri e finanzieri sono inseriti, secondo il loro grado, in un’unica gerarchia che è posta alle dipendenze di una struttura centrale. Il magistrato, attraverso l’intreccio delle tre linee gerarchiche, preservò la “polizia giudiziaria interforze” da eventuali conseguenze sull’obbedienza militare dovute alla mancata attuazione dell’art. 52 Cost.. Inoltre, per meglio custodire l’autonomia del nuovo strumento investigativo, lo pose al di fuori delle articolazioni gerarchiche e strutturali del Dipartimento, probabilmente, al fine di non indurre in tentazione la parte malata della politica o, semplicemente, perché non credeva fino in fondo all’ordalia del giuramento militare. Il geniale magistrato, con la L. 410/1991, “squadrò una procedura ad hoc, … un ordigno così efferato da richiedere sommessi interventi correttivi nella prassi”. La prima fase di operatività della DIA fu, però, segnata da una serie di notevoli difficoltà di carattere organizzativo, che rischiarono di minarne fortemente la sua autonomia e incisività. Tra le difficoltà ci furono quelle relative al reperimento delle risorse umane perché nessuno degli organi di polizia che allora svolgevano attività specifica era disponibile a cedere il personale, soprattutto se questo era qualificato. Le difficoltà sono state costantemente evidenziate sin dall’istituzione della DIA. Si riporta uno stralcio degli interventi di Giuseppe Tavormina, primo Direttore della Dia, e di Luciano Violante, rispettivamente nelle audizioni in Commissione antimafia del 16 marzo 2011 e del 29 marzo 2011.

Da queste storture nascono i casi di conflitto.

Il maresciallo capo dei Carabinieri Saverio MASI ha presentato una denuncia con la quale espone in modo circostanziato la possibile storia della mancata cattura di Bernardo Provenzano, prima, e di Matteo Messina Denaro, poi. E’ il racconto di una serie sconcertante di ostacoli che sarebbero stati interposti dai superiori alla cattura dei due boss di Cosa Nostra. Il resoconto del maresciallo Saverio Masi - già sentito come teste nell’ambito al processo contro il generale Mario Mori - ricorda quello del colonnello Michele Riccio che parimenti denunciò di essere stato ostruito dai superiori nella cattura di Provenzano. Il maresciallo Masi è oggi il capo scorta del Pubblico Ministero Nino Di Matteo e condivide con lui quotidianamente il rischio attentati, di recente rilanciato da fonti anonime. Negli anni dal 2001 al 2008, il militare aveva costituito una propria squadra e aveva imboccato la pista di un casolare nei pressi di Ciminna, probabile covo di Provenzano, allora latitante da decenni. Secondo quanto esposto nella denuncia, il sottufficiale sarebbe stato bloccato nelle indagini e poi obbligato a coordinarsi con uomini del ROS che, con vari stratagemmi, gli avrebbero impedito ogni tipo di indagine e di pedinamento del boss. Il maresciallo ha denunciato le forti pressioni ed i continui cambi di incarico cui sarebbe stato sottoposto al fine di abbandonare la caccia dei boss latitanti, fino al punto di essere investito da un ufficiale suo superiore con la frase: «Noi non abbiamo nessuna intenzione di prendere Provenzano! Non hai capito niente allora? Lo vuoi capire o no che ti devi fermare? Hai finito di fare il finto coglione? Dicci cosa vuoi che te lo diamo. Ti serve il posto di lavoro per tua sorella? Te lo diamo in tempi rapidi!». Lo stesso dicasi per la cattura di Matteo Messina Denaro che il sottufficiale sarebbe riuscito addirittura ad incrociare per strada, in incognito, ad un metro di distanza. Anche stavolta egli avrebbe chiesto senza esito di essere approvvigionato di uomini e mezzi necessari per sottoporre a verifica persone, vetture ed abitazioni vicine o di pertinenza del boss. Paradossalmente, oggi il sottufficiale è lui sotto processo per falso ideologico e materiale e tentata truffa, per aver chiesto l’annullamento di una sanzione del codice della strada subita con un'auto privata durante un servizio di polizia giudiziaria. «Usavamo sempre macchine di amici e parenti per fare i pedinamenti - aveva spiegato Masi nell’ambito del processo Mori - in quanto i fiancheggiatori conoscevano ed annotavano le targhe delle auto di servizio che usavamo. Così, ad esempio, se dovevamo entrare a Bagheria, ricorrevamo ad auto intestate a nostri conoscenti del posto, in modo da non destare alcun sospetto, e di multe ne abbiamo ricevute diverse. Era una procedura che i miei superiori conoscevano». I superiori del militare, sentiti nel processo a suo carico, lo hanno però smentito, affermando di non avere mai autorizzato l’uso di mezzi privati per attività di polizia giudiziaria. Il sottufficiale è difeso dagli avvocati Giorgio Carta - ex ufficiale dei Carabinieri - e Francesco Desideri. «La denuncia del nostro assistito - dichiara l’avvocato Giorgio Carta - descrive una pagina buia della storia d’Italia e dell’Arma dei Carabinieri. Ci auguriamo, pertanto, che i fatti riportati siano oggetto di un accertamento approfondito e scevro da condizionamenti che faccia emergere la verità, qualunque essa sia. Certo, lascia sgomenti che un militare che ha dato tanto allo Stato, sia oggi sotto processo con l’accusa di aver falsificato un atto al solo fine di far annullare un verbale del codice della strada. In tal modo, il militare rischia la destituzione che, certamente, costituirebbe un sinistro monito a tutti i carabinieri che intendano impegnarsi come lui nel contrasto alla mafia». Aggiunge l’avvocato Francesco Desideri che «il maresciallo Masi avrebbe dovuto trovare appoggio, sostegno e credito già nel corso del primo grado di giudizio, cosa che non è occorsa. Un servitore dello Stato che oltre ogni immaginabile sforzo, dovere ed obbligo si è profuso nella lotta contro la malavita organizzata ed in particolare contro la mafia, non può essere ritenuto un mistificatore ed un truffatore. Ciò non perché debba essere ritenuto scevro da censure stante la sua posizione, ma perché ha semplicemente svolto il suo dovere, anche con grande sacrificio personale ed economico. Faremo ogni possibile sforzo affinché dinanzi la Corte di Appello Penale di Palermo emerga la verità dei fatti, utile a scagionare definitivamente il maresciallo Masi". Come rivelato da GrNet.it e dal Corriere della Sera, il maresciallo capo dei Carabinieri Saverio Masi, che ha denunciato i superiori per averlo ostacolato nella ricerca di Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro, è oggi sotto processo per i reati di falso e di tentata truffa. Secondo l’accusa, al fine di farsi annullare una sanzione del codice della strada, egli avrebbe falsificato un atto, al fine di attestare l’utilizzo per motivi di servizio di un’autovettura privata. Il militare è stato condannato in primo grado dal tribunale di Palermo alla pena sospesa di 8 mesi di reclusione, nonostante abbia cercato di dimostrare che era una prassi consolidata l’utilizzo di vetture private per svolgere attività di polizia giudiziaria, "in quanto i fiancheggiatori conoscevano ed annotavano le targhe delle auto di servizio che usavamo". I superiori chiamati a deporre nel processo, però, lo hanno smentito, affermando che l’utilizzo delle vetture private "doveva essere preventivamente autorizzato dall’ufficiale" e che "anche il comandante della sezione doveva mettere immediatamente a conoscenza il superiore gerarchico, quindi il comandante del nucleo investigativo che, in qualità di responsabile del servizio di polizia giudiziaria … doveva autorizzare l’impiego", "però non un servizio prettamente operativo come poteva essere insomma un pedinamento o un servizio di osservazione". Il tribunale di Palermo ha fatto proprie queste testimonianze ed ha ritenuto che, nel caso di specie, Saverio Masi avesse utilizzato il mezzo provato senza esserne autorizzato, perciò condannandolo. I nuovi difensori del sottufficiale - gli avvocati Giorgio Carta e Francesco Desideri – stanno cercando di ribaltare la decisione di primo grado e intenderebbero far accertare se, contrariamente a quanto statuito dalla sentenza di primo grado, la prassi invalsa nell’Arma dei carabinieri e nelle altre forze di Polizia fosse, invece, quella del libero utilizzo delle vetture private anche per attività operative, senza necessità di una specifica autorizzazione dei superiori, precedente o postuma. Dopo aver appreso della denuncia del maresciallo capo dei Carabinieri Saverio Masi, un altro militare dell’Arma rende noto di essere stato anch'egli ostacolato dai propri superiori nella ricerca di Bernardo Provenzano, scrive GrNet.it. Il carabiniere ha preso contatto con i legali del maresciallo Masi – gli avvocati Giorgio Carta e Francesco Desideri– e, dopo un lungo incontro svoltosi a Palermo, ha deciso di presentare una denuncia circostanziata sui fatti occorsigli. Si parla degli anni dal 2001 al 2004 e di fatti diversi da quelli denunciati da Saverio Masi, ma riguardanti sempre la ricerca di latitanti, ed in particolare di Bernardo Provenzano. Il militare, all’epoca in servizio presso il Comando Provinciale Carabinieri di Palermo, riferisce di avere ricevuto inspiegabili ordini di non proseguire le indagini ed di aver subito lo stesso tipo di ostacoli denunciati dal Maresciallo Masi.

Ordini militari e disordini normativi.

Il militare tedesco ha imparato dalla storia a legare l'asino dove vuole la legge, quello italiano continua a legarlo dove vuole il padrone, scrive di Cleto Iafrate. Non c’è conversazione tra colleghi, avente ad oggetto l’esecuzione degli ordini ricevuti, che non si concluda con la seguente frase: “… e che vuoi fare, bisogna legare l’asino dove vuole il padrone”.  Molti ritengono addirittura che questa frase, ispirata da rassegnazione mista ad opportunismo, contenga una specie di “elisir di lunga vita”; cioè, sono convinti che il segreto per non avere alcun problema in servizio consista nell’eseguire alla lettera qualsiasi ordine ricevuto, anche quelli di dubbia legittimità. Pur comprendendo appieno e giustificando le ragioni poste a fondamento di questa convinzione, essa da sempre ha destato in me parecchie perplessità. Sotto il profilo formale, non mi è mai piaciuta in quanto presuppone l’esistenza di uno stalliere, di un asino e del suo padrone: chi la pronuncia si vede nel ruolo di stalliere, al servizio di un padrone ed a guardia di un asino, e già questo è tutto dire. Nella sostanza, invece, ritengo che il convincimento sotteso a quell’affermazione sia addirittura rischioso per chi ne fa una regola di comportamento. Per chiarire il concetto intendo ricordare quanto accaduto qualche anno fa ad un agente di polizia, al quale mi riferirò utilizzando un nome di fantasia: lo chiamerò “Unodinoi”. Era una giornata piovosa ed un convoglio di auto di servizio, proveniente da Salerno, procedeva in direzione Reggio Calabria; faceva rientro al Reparto, dopo aver espletato il servizio di ordine pubblico in occasione dello svolgimento di una partita di calcio. Il funzionario che conduceva l’auto alla testa del convoglio, che era anche il più alto in grado, ordinava alle auto che lo seguivano di aumentare la velocità oltre i limiti consentiti per ridurre la distanza tra le vetture. A causa dell’intensa pioggia e della scivolosità del fondo stradale, che incidevano sulla stabilità delle automobili, l’ordine non veniva prontamente eseguito. Il funzionario ribadiva ripetutamente, via radio, l'ordine perentorio di accelerare l'andatura; in particolare, rivolgendosi ad Unodinoi, che conduceva l’auto che lo seguiva, gli intimava “di procedere attaccato alla sua vettura". Costui - proprio come avrebbe fatto la maggior parte di noi, per timore di essere sottoposto ad un procedimento disciplinare o di ripercussioni in sede di redazione della documentazione caratteristica – obbediva all’ordine ricevuto (e confermato) ed aumentava, quindi, la velocità oltre i limiti consentiti. Improvvisamente, il funzionario che guidava l’auto alla testa del convoglio e che aveva impartito l’ordine frenò bruscamente.

Nonostante Unodinoi avesse provato ad effettuare una manovra di emergenza di sterzata e controsterzata, la sua auto si ribaltò rovinosamente, causando il decesso del collega che viaggiava con lui. Da quel momento per Unodinoi è iniziato un lungo e travagliato calvario giudiziario. Il giudice di prime cure lo condanna per concorso in omicidio colposo. Il giudice d’appello, con sentenza emessa in data 28 settembre 2006, lo assolve perché “il fatto non sussiste”. Il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Catanzaro, inoltre, propone ricorso per Cassazione avverso la sentenza ritenendo che "i reiterati ordini di accelerare, impartiti dal (funzionario) potevano essere sindacati e disattesi perché illegittimi, … tanto più che non vi era alcuna urgenza o necessità palese né rappresentata”. La Suprema Corte, infine, ritenuti fondati i motivi addotti dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello, riconosce la responsabilità penale di Unodinoi e lo condanna per omicidio colposo in concorso con il datore dell’ordine. La condanna viene decisa sulla base del seguente ragionamento: “qualificato l'ordine come illegittimo ma sindacabile, il subordinato avrebbe dovuto disattenderlo e non dare ad esso attuazione. Avendo scelto, al contrario, di adempiervi, ha violato, così, norme del codice della strada, rivelatesi causali rispetto al fatto di reato poi verificatosi” (Cass. Pen. Sez. IV, 05 dicembre 2007, n. 888). Faccio una precisazione. Se al posto dell’agente di polizia ci fosse stato un militare, non sarebbe cambiato nulla. Ciò in quanto le norme di riferimento prese in esame dai giudici si applicano sia ai militari che agli appartenenti alla smilitarizzata polizia. Su entrambi, infatti, grava un dovere di obbedienza allorché, dopo che l’inferiore ha esposto al superiore le proprie perplessità, l’ordine viene confermato. L’unica differenza consiste nel fatto che per il militare la conferma dell’ordine può avvenire anche verbalmente, invece, nel caso dell’appartenente alla P.S., è richiesta la forma scritta. Tale lieve differenza normativa, però, nel caso di specie, non ha avuto alcun rilievo ai fini processuali. Per un approfondimento, in merito alle norme che regolano l’esecuzione degli ordini militari, si veda anche qui. Riflettendo sulla travagliata vicenda giudiziaria subita da Unodinoi, mi è venuta in mente la legge processuale che aveva istituito il Pascià turco Alì di Tepeleni: il giudice al servizio del Pascià lanciava in aria una moneta, se veniva testa, assolveva l’imputato, se veniva croce, lo condannava. E siccome una volta gli vennero tre teste di seguito, per le successive tre volte abolì la testa in modo da ristabilire quella perfetta parità quantitativa di assoluzioni e di condanne in cui egli vedeva l’optimum dell’umana giustizia. Alla luce dei fatti, la legge processuale stabilita dal Pascià non sembra meno garantista di quella applicata ad Unodinoi, se non altro, in fatto di percentuale di probabilità di venir assolti o condannati; con la differenza che all’epoca di Alì di Tepelani, i tempi della giustizia erano molto più brevi, duravano il lancio di una moneta, mentre nel caso in esame ci sono voluti diversi lunghi anni.

Dall’esito di tutta la vicenda, sembrerebbe che, pur legando l’asino dove vuole il padrone, comunque non si è esenti da responsabilità in concorso con il padrone. Si spera di avere presto regole più chiare da parte del legislatore ordinario; in attesa, si continui pure a legare l’asino dove vuole il padrone, ma con le dovute cautele e le necessarie precauzioni, coscienti che, nel caso in cui le cose non dovessero andare nel verso giusto, eventuali responsabilità potrebbero venir condivise con il padrone. Cercherò, a questo punto, di spiegare i motivi per cui ho affermato di comprendere e giustificare le ragioni poste a fondamento della suddetta convinzione. Esiste una regola generale comune a tutti gli Stati di diritto, secondo la quale qualsiasi autorità è subordinata alla legge e l’obbedienza è subordinata all'autorità. In altre parole, essendo gli organi dello Stato subordinati alla legge, l'ordine di commettere un fatto contrario ad una norma di legge non è vincolante e, di conseguenza, il subordinato che lo esegue non è esente da responsabilità. Ogni Stato, inoltre, ha previsto gli opportuni rimedi per i casi di violazione di questa regola generale, in ragione della filosofia giuridica che ha ispirato le sue scelte politiche. Analizziamo i rimedi italiani e quelli che ha previsto la Germania. Per farlo, poniamo in relazione l’articolo 47 del Codice Militare tedesco con l'articolo 51 del Codice Penale italiano, che, in virtù della Legge di Principio sulla Disciplina Militare, si applica anche ai militari. Il rimedio offerto dall’ordinamento giuridico italiano è stato elaborato nel clima che si respirava in Italia nel 1930, anno di emanazione del Codice Penale vigente; mentre la Germania ha scritto la sua norma dopo i processi di Norimberga, nei quali la difesa più ricorrente utilizzata dai collegi difensivi degli accusati era basata sulla seguente frase: “ordini superiori”. L'art. 51 del codice penale italiano, con un cerchiobottismo da manuale, prevede che:
"1. L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità.

2. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell'Autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine.

3. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo.

4. Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine".

Diversamente, l’art. 47 del codice militare tedesco prevede che: "Se l'esecuzione di un ordine militare porta alla violazione della legge criminale il superiore che ha impartito l'ordine sarà il solo responsabile. Comunque il subordinato che obbedisce condividerà la punizione se ha ecceduto l'ordine impartitogli o se avrebbe potuto rendersi conto che l'ordine concerneva un atto costituente reato civile o militare". Sembrerebbe che la norma tedesca si sia completamente ispirata al pensiero di John Locke, mentre quella italiana da una parte tende la mano alla filosofia giuridica di John Locke e dall’altra strizza l’occhio al pensiero di Thomas Hobbes. In buona sostanza, in Germania il militare che riceve un ordine “dubbio” deve semplicemente chiedersi: l’ordine che ho ricevuto viola qualche legge civile o militare? Se la risposta è affermativa non lo deve eseguire, in caso contrario, vi darà attuazione.

Parimenti, il giudice tedesco, chiamato a giudicare chi ha eseguito un ordine concernente un atto costituente reato, dovrà chiedersi: l’esecutore dell’ordine poteva rendersi conto, con la diligenza dell’uomo medio, che quell’ordine configurava un reato civile o militare? Se la risposta è affermativa lo condannerà, in caso contrario, lo assolverà. In Italia, invece, il militare che riceve un ordine “dubbio” deve porsi le domande che seguono.

Si tratta di un ordine lecito, di un ordine illecito (criminoso) oppure di un ordine illegittimo?

Qui subentra un primo problema in quanto, se è vero che ogni ordine criminoso (illecito) è anche illegittimo, non vale l'inverso, non essendo ogni ordine illegittimo di per sé anche criminoso.

Ammettiamo che il militare ritenga l’ordine, semplicemente, illegittimo, ma non già criminoso (illecito); in questo caso, il militare si dovrà, ulteriormente, chiedere: Si tratta di un ordine illegittimo sindacabile oppure di un ordine illegittimo insindacabile? (come quello impartito ad Unodinoi). La dottrina più attenta ha introdotto l’ulteriore quesito che dovrebbe porsi l’esecutore italiano: Si tratta di illegittimità formale oppure di illegittimità sostanziale? Per semplicità d’esposizione intendo tralasciare questa ulteriore classificazione degli ordini, si sappia però che essa può essere rilevante ai fini di un eventuale processo. Per far comprendere le difficoltà che incontra colui che deve eseguire l’ordine, faccio un esempio: l’ordine ricevuto dal superiore di punire un proprio inferiore, che tipo di ordine deve considerarsi? E’ un ordine illecito, legittimo o illegittimo?
Se illegittimo, si tratta di illegittimità formale oppure sostanziale? E’ un ordine illegittimo insindacabile oppure illegittimo sindacabile? Se sindacabile, quando diventa insindacabile? Non finisce qui.

Qualora, malauguratamente, il militare dovesse essere sottoposto ad un giudizio per aver eseguito l’ordine (dubbio), dovrà sperare che tutti i giudici chiamati a giudicarlo, ponendosi le stesse domande, rispondano allo stesso modo, il che non è scontato. Nel nostro caso, infatti, il secondo giudice ha dato alle domande una risposta che concorda con quella fornita da Unodinoi, mentre il primo ed il terzo giudice hanno dato risposte contrarie.

L’ordinamento italiano, a differenza di quello tedesco, prevede un’eccezione alla regola secondo cui tutti gli organi dello Stato sono subordinati alla legge. Essa è contenuta nell'ultimo comma dell'art.51 C.P., che prevede il caso in cui la legge non consenta al subordinato di sindacare la legittimità dell'ordine ricevuto. Ma in quali casi la legge non consente di sindacare la legittimità degli ordini? Cioè quali sono gli ordini illegittimi insindacabili? La legge succitata nulla dice sul punto della sindacabilità. Altra fonte normativa di rango inferiore si limita a dire che gli ordini che vengono confermati vanno eseguiti. Quindi nel caso in cui venga confermato un ordine che viola una norma di legge non penale, secondo l’ordinamento italiano va eseguito, secondo quello tedesco no. Ritengo che Unodinoi abbia agito correttamente e che il giudice nel condannarlo non abbia considerato il fatto che l’ordine illegittimo, se confermato, diventa un ordine insindacabile, pertanto, deve essere eseguito. Il fatto che la conferma non sia avvenuta per iscritto non ha alcuna importanza, in quanto la conferma via radio ha lo stesso valore probatorio di una conferma scritta. Ma allora se Unodinoi ha agito correttamente, perché è stato condannato?

Complice la poca chiarezza della norma, che presta il fianco ad equivoci e ad interpretazioni di vario genere. Ecco spiegati i motivi per cui ho affermato di comprendere e giustificare le ragioni poste a fondamento della convinzione in esame: l’ambiguità normativa determina nell’esecutore, che normalmente non è un giurista esperto, una tale incertezza da indurlo a scegliere sempre la strada più semplice e meno rischiosa, cioè quella di “legare l’asino dove vuole il padrone”. Tale convinzione si fonda sì sull’incertezza normativa, ma è sostenuta e rafforzata anche da altri elementi sinergicamente combinati tra di loro. Voglio così sintetizzarli:

a. il divieto imposto ai militari di riunirsi liberamente e di costituire associazioni professionali;

b. le limitazioni imposte alla libera manifestazione del loro pensiero;

c. l’impossibilità di accedere agli atti amministrativi in caso di violazione di interessi legittimi (la normativa vuole che i trasferimenti di reparto siano assimilati agli ordini militari, quindi possono avvenire per non meglio specificate esigenze di servizio);

d. le sanzioni degli “arresti semplici” svincolate dal principio di legalità e di tassatività degli illeciti;

e. la normativa che regola gli avanzamenti, soprattutto degli ufficiali;

f. la normativa che regola i giudizi annuali caratteristici (che incidono pesantemente sulla progressione di carriera con ovvie ripercussioni stipendiali);

g. gli organismi di rappresentanza che, oltre a non poter parlare di alcuni argomenti, non sono a base democratica in quanto presieduti dal più alto in grado.

La convergenza di tutti questi elementi ha l’effetto di infiacchire la volontà di tutto il comparto che detiene il monopolio della forza e gestisce l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. Vi è da precisare che le problematiche esposte non riguardano solo la base, ma attraversano trasversalmente tutta la catena gerarchica.

In tempo di guerra la convinzione che attiene al “quadrupede slegato”, certamente, è una formula vincente perché fa degli uomini armati un corpo unico con una volontà affievolita al fine di attuare le disposizioni ricevute da chi assume le decisioni strategiche. Ma in tempo di pace, quando i militari, deposte le armi, sono dei pubblici ufficiali (i cui atti fanno fede fino a querela di falso), possono rimanere con una volontà limitata o, quantomeno, condizionata se non addirittura intimidita? E se la militarizzata polizia giudiziaria, a seguito di una riforma della giustizia, subisse una maggiore influenza del potere politico, quali potrebbero essere le possibili ripercussioni sulla democrazia? Gli atti pubblici che verrebbero redatti da chi ha una volontà appesantita da simili condizionamenti conserverebbero tutti i loro requisiti sostanziali? Li conserverebbero anche nel caso riguardassero fatti che creano imbarazzo ai “poteri forti” Quando le domande sono difficili, le risposte vanno ricercate nei Sacri Testi che, oltre a contenere parole di vita eterna, offrono anche utili spunti di riflessione per regolare la vita di quaggiù. Si legge che quando i militari posti a guardia del Santo Sepolcro si recarono dai capi giudei a riferire ciò che, nell’adempimento delle loro consegne di servizio, avevano visto con i loro occhi, cioè che Gesù era risorto, i capi giudei, che rappresentavano il potere politico di allora, dissero ai militari: <<DICHIARATE: i suoi discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa venisse all'orecchio del Governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione>>. (Mt 28, 13 – 14). A quell’epoca, i capi giudei erano interessati, principalmente, a difendere e consolidare il loro potere.  Oggi, però, sono altri tempi.

Il Militare e la Politica. Scelta d’amore oppure matrimonio combinato? GrNet.it pubblica un'interessante analisi di Cleto Iafrate, anche di tipo storico, sui rapporti tra cittadino militare, società civile e politica. 1. Il Fatto - 2. Cornice storica pre-repubblicana - 3. I lavori dell’Assemblea costituente e le norme costituzionali – 4. Le norme ordinarie attuative dell’art. 98 della Costituzione - 5. Il carattere educativo della disciplina militare – 6. L’obbedienza militare - 7. La regola dell’onore militare - 8. Considerazioni conclusive

1. Il Fatto. Un giovane carabiniere – in possesso di una laurea in giurisprudenza e in procinto di conseguirne una seconda in scienze politiche - nell’agosto del 2010 s'iscrive ad un partito, allo scopo di partecipare attivamente alla vita politica del nostro Paese. Si tratta di un partito che, all’epoca dei fatti, poteva definirsi d’opposizione, oggi non saprei. Una formazione politica, quindi, che intercettava il dissenso dei cittadini nei confronti delle scelte politiche dell’allora maggioranza di governo; soprattutto in tema di giustizia e fisco. In materia di giustizia, per esempio, il programma di quella formazione politica prevede la rivisitazione dei termini di prescrizione dei processi, in modo da ridurre al minimo i casi d’impunità. In tema fiscale, oltre ad esprimere assoluta contrarietà ai condoni, propone:

- la detrazione del maggior numero possibile di spese, in modo da far emergere il sommerso e ridurre così l’evasione fiscale;

- l’eliminazione degli studi di settore, ritenendo che costituiscano un incentivo all’evasione;

- l’innalzamento fino al 20% della tassazione sulle rendite finanziarie;

- la reintroduzione del falso in bilancio e pene più severe per chi commette reati di tipo finanziario o societario.

Il militare all’interno del partito assume anche un incarico di responsabilità; ma in una regione diversa (Piemonte) rispetto a quella in cui presta servizio (Umbria). Quando il carabiniere notizia i suoi superiori dell’impegno politico assunto, questi aprono nei suoi confronti un procedimento disciplinare. Al militare viene contestata la “lesione del principio di estraneità delle forze armate alle competizioni politiche”e viene aperto nei suoi confronti un procedimento disciplinare. Il carabiniere, allo scopo di evitare ulteriori e più gravi conseguenze disciplinari, presenta un ricorso gerarchico nel quale ipotizza di essere vittima di un’arbitraria e ingiustificata disparità di trattamento. Fa presente che l’Amministrazione ha tollerato e consentito ad altri militari di svolgere attività politica, presumibilmente perché iscritti ad un altro partito. Negli atti del ricorso segnala almeno cinque nomi di altrettanti militari in servizio attivo nell’Arma che militano tra le file di un opposto schieramento politico, i quali, tra l’altro, sono stati anche eletti consiglieri ed assessori in diversi comuni laziali. Il militare rileva che in nessuno di questi casi l’Amministrazione ha avviato dei procedimenti sanzionatori, come se l'esercizio dei diritti politici fosse legittimo soltanto se attuato nei confronti di determinate formazioni politiche. Il carabiniere non riesce, però, con queste argomentazioni ad evitare la sanzione disciplinare, che puntualmente arriva. Il procedimento disciplinare, infatti, si conclude con l'irrogazione di 5 giorni di consegna di rigore. Si tratta della più grave delle sanzioni disciplinari, assimilabile all’espiazione carceraria prevista per i più gravi reati penali con l'obbligo di scontare la "pena" nel proprio alloggio in caserma (l'equivalente degli arresti domiciliari per un comune cittadino). Ne parlerò nel quinto paragrafo. A quel punto, il cittadino militare, dopo aver scontato la pena, decide di invocare il Tribunale amministrativo regionale competente per difendere i suoi diritti costituzionali. Il TAR per l'Umbria nel dicembre 2011 non solo dà ragione al carabiniere ma addirittura condanna l'Amministrazione al pagamento di tutte le spese legali e processuali. Di seguito la sentenza NR. 146/2011. Questi sono i fatti. La vicenda mi offre lo spunto per proporre una riflessione sul valore educativo della disciplina militare ed i suoi riflessi sull’obbedienza del militare. Partirò da lontano.

2. Cornice storica pre-repubblicana. Il ruolo svolto dalle Forze armate, dalla proclamazione del Regno d’Italia in poi, è stato, oltre a quello di difesa dei confini, anche, e a volte soprattutto, di repressione delle istanze democratiche che si ponevano, di volta in volta, in conflitto con gli orientamenti del governo centrale. Si consideri che nel Regolamento di disciplina militare, entrato in vigore l’1 gennaio 1860 (approvato con R.D. 30 ottobre 1859), per la prima volta nella storia dei regolamenti militari, viene inserita una premessa introduttiva. In essa si afferma che l’esercito è istituito prima “per sorreggere il trono” e poi per “tutelare le leggi e le istituzioni nazionali”(una copia dell’edizione originale è reperibile presso la biblioteca dell’istituto geografico militare di Firenze).

All’indomani dell’unità d’Italia, le truppe garibaldine, composte prevalentemente da contadini del sud, non furono accettate nei quadri dell’esercito regolare (a causa, probabilmente, del ragionamento alla base di quella premessa). Si preferì, piuttosto, recuperare i quadri del vecchio esercito borbonico sconfitto; ciò fu possibile grazie anche all’influenza di una classe di ufficiali che proveniva dalla vecchia nobiltà terriera o dall’alta borghesia. Delle truppe garibaldine, entrarono a far parte dell’esercito regolare solamente gli ufficiali, che, tra l’altro, furono posti, per la massima parte, in disponibilità o in aspettativa. Per queste e altre ragioni il popolo sentiva l’esercito staccato dalla vita civile e l’esercito stesso si sentiva escluso e separato da questa. La frattura diventò ancor più evidente tra il 1861 e il 1865, quando l’esercito fu impiegato per reprimere le istanze dei contadini contro il governo. I più determinati erano i contadini siciliani che parteciparono alle proteste armati di forconi. Si consideri che la ricchezza, all’epoca, era iniquamente distribuita; essa era detenuta quasi esclusivamente da un ristrettissimo numero di latifondisti mentre la massa di braccianti agricoli era ridotta alla fame e viveva in uno stato di miseria e sfruttamento. Sempre a quel tempo, non esisteva ancora lo stato sociale e i lavoratori erano totalmente privi di tutele. Il lavoro era, per così dire, totalmente flessibile, ciò determinava l’accettazione di condizioni lavorative ai limiti della schiavitù da parte di un sempre crescente numero di disperati. L’azione di repressione dei contadini fu favorita anche da una disciplina militare rigida e improntata all’obbedir pronto e assoluto. Giolitti, in un discorso tenuto nel settembre del 1900, affermò che le questioni sociali erano più importanti di quelle politiche e che sarebbero state esse in avvenire a differenziare i vari gruppi politici gli uni dagli altri. Egli precisò chiaramente la sua posizione, nei seguenti termini: "Il paese, dice l'On.le Sonnino, è ammalato politicamente e moralmente, ed è vero; ma la causa più grave di tale malattia è il fatto che le classi dirigenti spesero enormi somme a beneficio proprio, quasi esclusivo, e vi fecero fronte con imposte, il peso delle quali cade in gran parte sulle classi più povere. Noi abbiamo un gran numero di imposte sulla miseria: il sale, il lotto, la tassa sul grano, sul petrolio, il dazio di consumo ecc.; perfino le tasse sugli affari e le tasse giudiziarie sono progressive a rovescio. Quando nel 1893, per stringenti necessità finanziarie, io dovetti chiedere alle classi più ricche un lieve sacrificio, sorse da una parte delle medesime una ribellione assai più efficace contro il governo che quella dei poveri contadini siciliani; e l’On.le Sonnino, andato al governo dopo di me, dovette provvedere alle finanze rialzando ancora il prezzo del sale e il dazio sui cereali. Io deploro quanti altri mai la lotta di classe; ma, siamo giusti, chi l'ha iniziata?". La frattura tra i militari e la società civile raggiunse il suo apice nell’agosto del 1917. Mentre gli operai protestavano a Torino contro la mancanza di pane, intervenne l’esercito con le autoblindo. La rivolta, durata tre soli giorni, costò ai dimostranti ben 35 morti. Fu questo progressivo e sempre più accentuato distacco dalla società civile che consentì al fascismo di trovare facile esca nei quadri medio-alti dell’esercito. I quali svolsero un ruolo decisivo nella presa del potere da parte di Mussolini. Furono proprio i capi delle forze armate, chiamati a consulto, a sconsigliare al re l’intervento. Alla richiesta del re sulla convenienza di affidare all’esercito la difesa del governo liberale decretando lo stato di assedio, Diaz e Pecoro Giraldi diedero la famosa risposta: “L’esercito farà il suo dovere, ma è bene non metterlo alla prova”. Durante il fascismo, i tre capi di stato maggiore trovavano un limite al loro potere soltanto nella persona del ministro da cui ciascuno dipendeva, cioè nella persona di Mussolini che era ministro della guerra, della marina e dell’aeronautica e manteneva separate le tre amministrazioni.

3. I lavori dell’Assemblea costituente e le norme costituzionale. All’Assemblea costituente si chiedeva, innanzitutto, di ricucire la frattura tra l’esercito e la società civile e di creare i presupposti affinché non si realizzassero mai più le condizioni per una così rischiosa separazione. Il dibattito si concentrò tutto intorno al cuore del problema: come armonizzare l’ordinamento speciale (esistente) delle Forze armate con l’ordinamento democratico nascente.

Ripercorro alcuni punti salienti dei lavori della Costituente, utili per la bisogna.

a) Venne subito ritenuta primaria l’esigenza che l’esercito dovesse “perseguire le sue altissime finalità senza l’influenza di orientamenti politici.” Si sottolineò che “L’esercito è fatto per difendere la patria: la patria si difende sotto qualsiasi regime e con qualsiasi orientamento politico. L’educazione dei giovani, che devono essere portati anche al sacrificio estremo della vita, deve essere lasciata nelle mani di persone le quali non soffrano, in alcun modo, né l’influenza né il timore degli atteggiamenti politici” (Mastroijanni, Prima sottocommissione, 15 novembre 1946).

b) Giolitti dichiarò: “l’adozione del termine “spirito democratico” dimostra che si vuole avere semplicemente questa garanzia: la garanzia di quello che è il denominatore comune di tutti i partiti che hanno diritto di parlare e di fare sentire la loro voce in una libera assemblea, in un’assemblea democratica come questa”(Ass. cost., 20 maggio 1947).

c) Azzi fece presente che sarebbe stata necessaria una “modifica della vita dell’esercito (modificando) la mentalità degli ufficiali e modificando anche il regolamento di disciplina”(Ass. cost., 21 maggio 1947).

Come noto, il dibattito culminò con la stesura dell’ultimo comma dell’art. 52 Cost., il quale sancì che “L’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della repubblica”. E’ utile ripercorrere brevemente anche il dibattito che ruotò intorno alla stesura dell’articolo 98 della Costituzione, a mente del quale “Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero”. Durante i lavori preparatori che portarono alla stesura dell’articolo, si affermò: “se dicessimo nulla in proposito e, ferma restando la norma generale della libertà del cittadino, per cui ciascuno può iscriversi a qualsiasi partito, domani potrebbe ritenersi illegittima e anticostituzionale qualsiasi legge che stabilisce questo divieto per i carabinieri e le guardie di questura”(Clerici, Ass. cost., 05 dicembre 1947). Illuminante ai nostri fini fu l’intervento di Nobile: “non conviene a nessuno che i quadri delle forze armate si mescolino alla politica (in quanto) esse devono servire a presidiare lo stato e pertanto debbono essere mantenute fuori e al di spora dei partiti politici”(Nobile, Ass. cost., 05 dicembre 1947). In sintesi, si decise che eventuali limitazioni al diritto dei militari di iscriversi ai partiti politici avrebbero dovuto essere stabilite con legge ordinaria e che questo rinvio doveva essere necessariamente previsto dalla stessa Costituzione.

4. Le norme ordinarie attuative dell’art. 98 della Costituzione. E' utile, a questo punto, richiamare le norme ordinarie che regolano i rapporti tra i militari e la politica, al fine di chiarire se sono state stabilite con legge limitazioni, ed in che misura, al diritto dei militari di iscriversi ai partiti politici. Esse sono contenute nella Legge di principio nr. 382/78, la quale nel 2010 è stata “riordinata” all’interno del Codice dell’Ordinamento militare. La normativa è molto chiara. Innanzitutto rileva l’art. 6 della Legge di principio, il quale al primo comma stabilisce che "Le Forze armate debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche". Dal tenore letterale di tale disposizione emerge chiaramente l’autonomia concettuale e giuridica tra le “Forze armate” ed i “militari”che le compongono; nel senso che la prima locuzione indica l’istituzione e non anche i dipendenti della stessa. Infatti, quando il legislatore ha inteso riferirsi ai singolari militari, quali persone fisiche, l’ha fatto espressamente, così come accaduto nell’art. 98 della Costituzione.

Ci si chiede: in quali occasioni il militare rappresenta le Forze armate?

Lo stabilisce il successivo comma 2, secondo cui “Ai militari che si trovano nelle condizioni previste dal terzo comma dell’art. 5 è fatto divieto di partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni politiche ed amministrative”.

Il terzo comma dell’art. 5 della medesima legge, stabilisce che le evocate limitazioni riguardano esclusivamente i militari che si trovano nelle seguenti condizioni:

“a) svolgono attività di servizio;

b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio;

c) indossano l’uniforme;

d) si qualificano, in relazione a compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali”.

Pertanto, alla luce delle norme esaminate, i militari che non si trovino nelle elencate (tassative) situazioni d’impiego ben possono “partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché … svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni politiche ed amministrative”. Tali comportamenti devono ritenersi del tutto leciti e legittimi, almeno fino a quando il Parlamento, e non l’esecutivo o gli stati maggiori, non varerà una norma che imponga espressamente ai militari il divieto di iscrizione ai partiti e/o di partecipazione alla vita interna delle formazioni politiche. Quando, e se, ciò accadrà, il divieto d’iscrizione dovrà valere nei confronti di tutti i partiti, altrimenti verrebbero meno gli architravi su cui poggia la nostra democrazia.

5. Il carattere educativo della disciplina militare. La gestione amministrativa dello strumento militare (il cosiddetto impiego e gestione del personale) prima che fossero istituiti gli Stati Maggiori era accentrata nelle strutture ministeriali ed era una prerogativa dell’autorità politica; la quale realizzava efficacemente i suoi scopi attraverso lo strumento della disciplina militare. La disciplina militare può essere definita il codice di comportamento del militare. In caso di violazione delle norme della disciplina, il militare incorre nelle sanzioni disciplinari. Storicamente le sanzioni disciplinari, oltre ad avere la finalità (retributiva) di repressione degli illeciti, avevano uno scopo, per così dire, educativo. All’interno di una concezione paternalistica della disciplina militare, il superiore utilizzava lo strumento disciplinare per correggere ed educare il sottoposto. Il primo regolamento di disciplina dell’Arma dei Carabinieri sembrerebbe sia stato scritto da un padre gesuita (probabilmente il fratello di Silvio Pellico) ed è stato definito una sorta di "catechismo dei buoni sentimenti”. A tal proposito, si consideri che il regolamento di disciplina del 1964 (abrogato nel 1978) comprendeva delle norme che imponevano al militare “di non contrarre debiti” e “di avere cura nella scelta della propria sposa”.

Ricordo una vignetta pubblicata tanti anni fa da un giornale specializzato: due s’incontrano, uno dice all’altro: “come mai i militari detengono il primato dei matrimoni falliti?” L’altro risponde: “semplice, loro la moglie mica la scelgono, la propongono”. Scherzi a parte, quel primato, effettivamente detenuto, è riconducibile, a mio avviso, ad una normativa sulla mobilità dei militari (in particolare degli ufficiali) dai profili di dubbia costituzionalità, che provoca tanta sofferenza all’interno delle famiglie. La disciplina militare ha subito nel corso della storia profonde innovazioni, l’ultima nel 1978 con il varo della Legge di Principio sulla disciplina militare (L. 382/78). Tale legge - fortemente voluta da Sandro Pertini, eletto Presidente poco prima della sua entrata in vigore - innovò profondamente il concetto di obbedienza militare, stabilendo, per la prima volta, che l’obbedienza del militare dovesse essere non più “assoluta” ma “leale e consapevole”. La legge di principio, però, rimandava a un Regolamento, da emanare entro i successivi sei mesi, che avrebbe dovuto recepire quei principi e disciplinarne solamente gli aspetti di dettaglio. Il Regolamento attuativo giunse ben 8 anni più tardi (DPR 545/86), cioè giunse l’anno successivo alla scadenza del mandato del Presidente-partigiano. Il Regolamento, a parere dello scrivente, scardinò i principi consacrati nella legge 382/78 in tema di obbedienza del militare. Lo fece, però, in maniera indiretta attraverso la regolamentazione degli aspetti attuativi delle sanzioni di Corpo e dell’istituto della rappresentanza militare. La rappresentanza militare ne uscì sterilizzata a causa della gerarchizzazione degli organismi di rappresentanza e della limitazione dei loro poteri.

D'altronde quando si vuole eliminare un pesce dall’acquario, lo si può fare in due modi: o togliendogli l’acqua, oppure inquinandogliela; poiché l’acqua non si poteva eliminare perché voluta dal Parlamento, allora è stata inquinata. Per dirla con una frase ad effetto: “Un concetto è proclamare un diritto, altro è goderne. Problema urgente non è il fondamento, ma sono le garanzie” (De Tilla Maurizio).

Vediamo in che modo è stata inquinata “l’acqua” dell’obbedienza leale e consapevole. Le sanzioni militari si distinguono in sanzioni di Stato e sanzioni di Corpo. Le sanzioni di Stato non si differenziano, sostanzialmente, dalle corrispondenti sanzioni previste nel campo del pubblico impiego. Le sanzioni di Corpo, invece, sono tipicamente militari e la podestà punitiva è attribuita, esclusivamente, ai superiori gerarchici. Esse consistono nel richiamo, nel rimprovero, nella consegna semplice e nella consegna di rigore. La sanzione della consegna semplice consiste nel privare il militare della libera uscita fino ad un periodo massimo di sette giorni consecutivi (art. 1358, comma 4, D. Lgs. 66/2010). E’ evidente che la violazione del precetto ha conseguenze che intaccano i diritti soggettivi di tutti i militari che fruiscono della libera uscita (identificati dall’art. 741 del DPR 90/2010). Per essi la sanzione si ritiene penalmente rilevante, poiché l’afflittività della stessa (pena) è tale da ricomprendere il precetto violato tra le infrazioni aventi connotazioni penali. Ciò in quanto non è certo facile dimostrare che l’atteggiamento psicologico e lo stato d’animo del militare consegnato (privato della libera uscita) siano molto diversi da quelli di qualsiasi altro detenuto comune posto agli arresti domiciliari per essersi reso colpevole di reati ben più gravi. La legge, nel prevedere la sanzione di Corpo della consegna semplice, però, non tipizza gli specifici comportamenti a causa dei quali la sanzione può essere inflitta. Il legislatore, cioè, ha tipizzato i tipi di sanzione, ma ha omesso di tipizzare le violazioni che le stesse censurano. Il tenore dell’art. 1352 del D.Lgs. 66/2010 appare estremamente generico, potendosi riferire a tutte le mancanze previste dal codice di disciplina: la norma, infatti, afferma che “costituisce illecito disciplinare ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina militare sanciti dal presente codice, dal regolamento, o conseguenti all'emanazione di un ordine. La violazione dei doveri indicati nel comma 1 comporta sanzioni disciplinari di stato o sanzioni disciplinari di corpo”. Non c’è dubbio che la scelta della locuzione linguistica “violazione dei doveri”si presta, a causa della sua indeterminatezza, alle più disparate elusioni dei fondamentali diritti del militare. Per avere un’idea circa la genericità della norma, si consideri che tra i doveri del militare v’è anche quello di “avere cura particolare dell'uniforme e indossarla con decoro” (Art. 720 comma 4 del DPR 15 marzo 2010, n. 90 - Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare); di curare il suo aspetto esteriore, che “deve essere decoroso come richiede la dignità della sua condizione” (art. 721 del DPR citato); di “tenere in ogni circostanza condotta esemplare”; di “improntare il proprio contegno al rispetto delle norme che regolano la civile convivenza”; di “astenersi dal compiere azioni e dal pronunciare imprecazioni, parole e discorsi non confacenti alla dignità e al decoro” (art. 732). Le norme di tratto prevedono che “la correttezza nel tratto costituisce preciso dovere del militare” (Art. 733). Le norme denominate “senso dell'ordine” impongono al militare di “compiere ogni operazione con le prescritte modalità, assegnare un posto per ogni oggetto, tenere ogni cosa nel luogo stabilito”(Art. 734). E’ a tutti evidente che chiunque può violare una norma di tratto o del senso dell’ordine, se il superiore lo decide. La consegna di rigore, con cui è stato punito il protagonista del fatto, invece, si realizza con l’obbligare il militare a restare, per un determinato periodo non superiore a quindici giorni, in un apposito spazio della caserma. Il legislatore regolamentare ha provato a tipizzare ben 55 precetti la cui violazione è punita con la sanzione della consegna di rigore (art. 751 DPR 90/2010 - già allegato C al RDM). Alcune delle prescrizioni, però, eludono l’esigenza di specificità e tassatività richiesta dalla legge, descrivendo condotte del tutto generiche, mediante l’uso di forme elastiche ed onnicomprensive. Si consideri che viene contemplata tra le ipotesi di reato punibile con la consegna degli arresti di rigore un non meglio specificato “comportamento gravemente lesivo del prestigio o della reputazione del corpo di appartenenza”(punto 17). Ci si chiede, quali sono tali comportamenti? Tutto è lasciato alla “valutazione” delle autorità militari.

Ma qual è la linea di demarcazione tra autorità militari ed autorità politiche? Sono ipotizzabili reciproche interferenze? Stante la connotazione penale della consegna semplice e di rigore, ritengo che esse, oltre a violare il principio di legalità e di tassatività degli illeciti, contrastino con l’art. 13 (libertà personale) e con l’art. 16 (libertà di circolazione) della nostra Carta costituzionale. Tali vulnus costituzionali si ripercuotono negativamente sul principio d’imparzialità e buon andamento di così delicati e vitali apparati della pubblica amministrazione. Sembrerebbe che le norme che prevedono le infrazioni punibili con le sanzioni degli arresti semplici e di rigore si atteggino come un contenitore all’interno del quale ci può rientrare di tutto; ma proprio tutto. Stando così le cose, il militare non è posto in grado di conoscere preventivamente i comportamenti punibili con la sanzione della consegna. All'Amministrazione, invece, è attribuita la più ampia discrezionalità nello stabilire in relazione a quali illeciti infliggere le sanzioni. A ciò si aggiunga che la finalità “retributiva” sia delle sanzioni che delle speculari concessioni premiali (elogi, encomi e giudizi annuali caratteristici) è solo tendenziale (un’idea guida per l’autorità titolare della potestà); nel senso che non v’è un obbligo assoluto di “retribuire” ogni mancanza disciplinare con la stessa sanzione. L’autorità esercita un potere discrezionale che può portare a valutazioni che non conducono, necessariamente, alla stessa decisione (sanzione) se ritenuta inopportuna o sconveniente per quella circostanza o per quel manchevole. Mi spiego. Se due militari compiono entrambi una medesima azione, censurabile o lodevole, l’uno può venir, legittimamente, sanzionato o premiato e l’altro no. Ciò è ammissibile in quanto alla base dell’ordinamento militare v’è la regola dell’onore. Si comprende quanto sia illusorio il mito dell’obbedienza consapevole, giacché l’ordinamento militare è munito di potenti anticorpi per immunizzare ogni infedeltà alla volontà del Capo. Cioè l’ordinamento è concepito per piegare l’inferiore alla volontà del superiore, più che al disposto normativo, e per ricompensare chi è servizievole. Attraverso tali vulnus costituzionali ben si potrebbero insinuare dei pericolosi comportamenti discriminatori nei confronti dei sottoposti per motivi ideologici e/o politici. Al fine di rendere l’idea circa la sconfinata discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione, riporto due casi veramente accaduti. Da fonte ANSA ed APCOM, datate 17 novembre 2010, si è appreso che un militare italiano, impegnato in Afghanistan, è stato sanzionato con sette giorni di consegna “per aver lasciato il suo posto branda in disordine”. In data 06 giugno 2011, si è appreso (da fonte Grnet.it) che un sottufficiale è stato sanzionato disciplinarmente con la consegna “per aver intrattenuto un rapporto sessuale con la propria fidanzata”. Qualche giorno prima si era sottoposto a visita medica e l’ufficiale medico gli aveva prescritto una cura, nonché la raccomandazione di astenersi da “attività traumatiche di qualsiasi genere”. Alla visita di controllo successiva, il militare avrebbe ammesso di aver avuto, durante la degenza, un rapporto sessuale con la fidanzata, perciò è stato punito. Pare proprio che la sconfinata discrezionalità dell’Amministrazione militare non si limiti solo ad accertare come sono ripiegate le lenzuola, ma, addirittura, pretenda di controllare anche cosa vi accade sotto! La sanzione della consegna non ha una esclusiva rilevanza interna, come alcuni sostengono, è giusto il caso di ricordare che essa viene annotata nella documentazione personale; pertanto ha devastanti effetti sulla carriera del militare ed incide negativamente sull’assegnazione degli incarichi, sui trasferimenti, sull’esito dei concorsi interni, sulla concessione delle ricompense, sull’autorizzazione al NOS. La sanzione coinvolge anche la sfera personale del militare: ha effetti sulla sua autostima e sui suoi rapporti con gli altri militari. Si tenga a mente, inoltre, che ai sensi dell’art. 751 punto 33) del DPR 90/2010 “l’inosservanza ripetuta delle norme attinenti all'aspetto esteriore o al corretto uso dell'uniforme” (articoli 720 e 721) sono valutate per la comminazione della consegna di rigore. Inoltre, tra le cause di cessazione dal servizio permanente, si annoverano “le gravi e reiterati mancanze disciplinari che siano state oggetto di consegna di rigore (art. 12, 2° comma, lettera c L. 1168/1961)”. Pertanto nel caso si venga ripetutamente colti in flagranza di uniforme in disordine oppure di collo peloso (magari a causa di un livello di testosterone troppo alto), si rischia la risoluzione del rapporto di lavoro oltre che pesanti conseguenze sulla carriera. Si ritiene, visto che in gioco vi sono dei diritti soggettivi, che debbano essere meglio tipizzate le infrazioni punibili con la sanzione della consegna. A tal proposito, sono scarsamente condivisibili e destituite di ogni fondamento le osservazioni di chi, soprattutto in ambienti interni all’Amministrazione militare, ritiene che sia impossibile tipizzare tutto. Basti solo considerare che esistono, perfino, delle leggi specifiche (ad hoc) che disciplinano la tipologia dei vini d.o.c., a presidio della loro qualità.

E’ vigente un regolamento europeo che tipizza, addirittura, le dimensioni dei cetrioli e vieta la commercializzazione in area euro di quelli troppo sviluppati. Non si comprende per quale motivo in Italia si dovrebbero lasciare vaganti “cetrioli” di simili dimensioni? (Si ribadisce che la consegna, oltre ad incidere in modo devastante sulla carriera del militare, può determinare la sua cessazione dal servizio). E’ a tutti evidente l’incommensurabilità dei due interessi tutelati: cioè la protezione di beni alimentari e commerciali (cetrioli e vino) e la tutela di beni personali ed intrasmissibili (libertà personale e tutela del posto di lavoro e della giusta retribuzione). I secondi esigono il rispetto della riserva assoluta di legge, del principio di legalità e di tassatività dell’illecito.

6. L’obbedienza militare. E’ evidente che una disciplina svincolata dal principio di legalità provochi una mutazione genetica del concetto di obbedienza militare, che il legislatore ordinario vuole che sia “leale e consapevole”. Il poliziotto-militare, infatti, qualora dovesse ricevere un ordine irregolare, sarà indotto (dalle norme dell’Ordinamento speciale) a fare sempre la cosa giusta per tutelare se stesso, il suo posto di lavoro, la sua carriera e la sua serenità. Non rassicura e non convince il rimedio, basato sull’onore militare, che l’ordinamento (speciale) offre al sottoposto si trovi in tali circostanze. Il militare, nel caso riceva “un ordine … la cui esecuzione costituisce manifestatamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine ed informare al più presto i superiori”(art. 729, comma 2, D.P.R. 90/2010); piuttosto che rivolgersi ad un sindacato esterno ed imparziale. (E’ come dire a cappuccetto rosso di rivolgersi a un altro lupo più saggio e più canuto, piuttosto che al cacciatore. – Come potrebbe continuare a vivere felice e contenta?). Mi spiego. Se, per ipotesi, un militare decidesse (oggi) di non eseguire un ordine costituente reato, che garanzie avrebbe il militare (domani) che quel superiore non lo sorprenda in flagranza di reato di “collo peloso” oppure di “branda in disordine”? Non lo valuti negativamente in occasione della redazione dei giudizi annuali caratteristici, compromettendo, così, la sua carriera? Non lo avvicendi nell’incarico, oppure non lo trasferisca, con una formula di stile? Sinceramente, l’ipotesi di un senso dell’onore ad intermittenza (rispetto al momento in cui si impartisce l’ordine ed a quello in cui si gestisce il personale) è poco plausibile. Giunti a questo punto, ci si chiede: Una polizia militare, separata dallo Stato democratico e posta al di fuori della sua logica, può garantire il libero articolarsi della dialettica democratica, attraverso cui si stabiliscono i fini dello Stato? Stante l’enorme discrezionalità detenuta dalla gerarchia, la democrazia è esente da rischi e minacce? Si consideri che i 350 mila militari, tra cui i 180 mila poliziotti militarmente organizzati, oltre a detenere il monopolio della forza armata, ddispongono di enormi poteri investigativi, possono accedere a dati sensibili e gestiscono strumenti d’indagine sofisticati. Hanno il potere di imprimere direzione e verso alle indagini che consentono di individuare le piste che portano alla verità dei fatti, allo scopo di ridurre al minimo lo scarto tra verità storiche e verità processuali. La sconfinata discrezionalità esercitata dai quadri sulla polizia militarmente organizzata potrebbe avere una qualche incidenza su quello scarto? Si pensi ai casi in cui l’obbedienza militare entra in conflitto con le norme statuali. In questo caso, quale ordinamento prevale, quello statuale informato ai principi costituzionali oppure quello speciale che deroga ad essi e pretende di imporsi sul primo in virtù di una pretesa supremazia speciale basata sulla regola dell’onore? Bel dilemma!

7. La regola dell’onore militare. L’ordinamento militare è riuscito fino ad oggi a rimanere impermeabile al principio di legalità in virtù della regola dell’onore posta alla base di alcune essenziali norme regolamentari. E’ proprio la regola dell’onore a giustificare le deroghe ai principi costituzionali su cui è basato l’ordinamento statuale. L’onore militare può definirsi una qualità etico-psicologica, espressione di tutte quelle virtù caratteriali - quali onestà, lealtà, rettitudine, fedeltà, giustizia, imparzialità - che procurano la stima altrui e che sono dal militare gelosamente detenute e custodite, nell’intimo convincimento della necessità di mantenerle integre. Le origini della regola dell’onore si perdono nella notte dei tempi e sono riconducibili al particolare significato che anticamente era attribuito al giuramento militare. Il primo giuramento militare di cui si ha memoria, è raccontato da Tito Livio in un suo scritto, si tratta di un antico giuramento sannita, che risale al 293 avanti Cristo. Ai tempi dell’impero romano il giuramento militare si chiamava sacramentum militiae, poiché era il mezzo mediante il quale veniva creato, con il favore degli dei, un nuovo stato personale: lo status militis. Il giuramento aveva una funzione propriamente sacramentale. I milites romani, infatti, erano chiamati anche “sacrati”. Essi, a seguito del rito sacro, ricevevano dagli dei un supplemento di forza, di coraggio e, soprattutto, di purezza. Da quest’ atmosfera, ammantata di sacralità e di rinnovata purezza ricevuta con il favore degli dei, trovò facile accoglienza la regola dell’onore militare, su cui si fonda il principio di supremazia speciale, che ancora oggi, anacronisticamente, sopravvive nelle norme regolamentari che derogano ai principi costituzionali, quali, per esempio, le sanzioni di corpo e la disciplina della rappresentanza militare. In altre parole, il principio di supremazia speciale si fonda su un ragionamento molto semplice: “Poiché io sono depositario di senso dell’onore, la mia volontà costituisce principio di legalità (all’interno del comparto militare); quindi posso decidere, di volta in volta, quali sono le infrazioni che danno luogo alle punizioni; posso decidere chi trasferire, chi punire e chi ricompensare. All’interno di questa “insula felix” il principio di legalità non può e non deve approdare”. Dalla regola dell’onore, per esempio, deriva anche la consuetudine secondo la quale nei rapporti epistolari tra ufficiali di grado elevato si antepone al nome il titolo di “N.H. il” (in cui N.H. non è il gruppo sanguigno ma l’abbreviazione di Nobil Homo). Non voglio essere frainteso, si tratta di una qualità effettivamente meritata dalla maggior parte degli appartenenti alla categoria, ma non può essere la prerogativa di tutti gli appartenenti a quella categoria.

8. Considerazioni conclusive. Ritengo che i fatti descritti nel primo paragrafo costituiscano effettivamente una lesione del principio di estraneità delle Forze armate dalle competizioni politiche e spero che non si tratti della punta di un iceberg. L’irrogazione della sanzione disciplinare ha fatto passare il messaggio secondo cui, per esercitare liberamente i propri diritti politici occorre appartenere ad una determinata formazione politica, poiché altrimenti s’incorre in sanzioni disciplinari gravissime. In questo modo si ottiene il risultato di orientare le coscienze politiche dei propri sottoposti, costringendoli, con l’utilizzo dello strumento disciplinare, ad astenersi dall’aderire ad alcune formazioni politiche ovvero ad aderire ad una formazione piuttosto che ad un'altra. Stando così le cose, il mito della necessità di difendere l’apoliticità e la coesione interna delle Forze armate e di polizia militarmente organizzate - com’è stato tradizionalmente impostato - appare una semplice illusione e nasconde delle chiare scelte politiche che si sostanziano nella necessità di subordinare la polizia militare, non tanto alla difesa dei valori costituzionali, quanto piuttosto alle esigenze perseguite, attraverso l’apparato esecutivo, dai gruppi più forti presenti nella realtà civile e sociale del Paese. La tutela della coesione della compagine militare e della sua apoliticità deve avvenire all’interno dei principi di garanzia stabiliti dalla Costituzione e non al di fuori di questi. Altrimenti la disciplina, da semplice strumento di salvaguardia degli interessi dello Stato, diventa essa stessa un valore da difendere, cioè diventa il fine, rischiando, così, di compromettere proprio quegli interessi dello Stato che bisogna difendere. Probabilmente, molti dei tentativi di limitare, in tempo di pace, i diritti costituzionali dei militari, in nome della tutela della compagine interna, dell’efficienza e dell’apoliticità delle Forze Armate e di polizia, sono poco sinceri e, a volte, ispirati a secondi fini. E’ innegabile che la vita militare e il particolare addestramento che esalta il coraggio e l’amor di Patria sviluppino effettivamente tutte quelle virtù (onestà, lealtà, rettitudine, fedeltà, giustizia, imparzialità), altrimenti definite “senso dell’onore”; tali virtù, però, vanno custodite con delle leggi ad hoc che rafforzino la volontà di chi le detiene, altrimenti rischiano di frantumarsi sotto l’incidenza di un potere politico sempre più intrusivo, che seduce e si lascia sedurre. I militari sono anche uomini con tutte le loro debolezze umane. Con il giuramento certamente s’impegnano, ma dal giuramento non ricevono dagli dei alcun supplemento di purezza. S’impone, pertanto, un esame di coscienza e un ripensamento dell’intero Ordinamento militare. E’ necessario distinguere il tempo di guerra, in cui si fronteggiano due eserciti appartenenti a due distinte Nazioni, dal tempo di pace in cui a fronteggiarsi, spesso, sono diverse coalizioni politiche, che appartengono alla stessa Nazione. E’ necessario che l’ordinamento militare sia informato al principio di legalità e alla riserva di legge, come prevede l’art. 52 della Costituzione, e, soprattutto, che il cittadino militare sia messo nella condizione di dire “signornò” in difesa dei valori costituzionali e per il bene del Paese. Termino con un riferimento al Vangelo che ritengo attuale in ogni tempo e fonte di verità ancora tutte da scoprire. La vicenda offre, a mio avviso, un’utile chiave di lettura dei fatti descritti. Essa vede protagonisti da una parte i militari posti a guardia del Sepolcro e dall’altra i capi giudei, preoccupati per la stabilità del loro potere. “Dichiarate: i suoi discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa venisse all'orecchio del Governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione” (Mt 28, 13 – 14).

Il Codice dell'Ordinamento militare e le analogie con tempi del generale Pes di Villamarina.

“L'assolutismo muove sempre i primi passi contro la democrazia cercando di isolare i militari dalla società civile”, scrive Cleto Iafrate.

Esiste un rapporto inverso tra il livello di democrazia e di civiltà raggiunto da uno Stato ed il numero dei suoi cittadini esclusi dalla partecipazione alla vita ed al dibattito politico. Lo Stato che riuscirà ad assicurare a tutti i suoi residenti il pieno godimento dei diritti civili e politici avrà raggiunto il massimo grado di democrazia e di civiltà auspicabile. I suoi cittadini si sentiranno sovrani e sudditi allo stesso tempo. In quello Stato, la politica opererà alla luce del sole, senza temere il confronto con alcuna categoria di persone. Al contrario, lo Stato assolutista tenderà ad accentrare il potere decisionale, negando, con diverse motivazioni, la partecipazione alla vita politica dei suoi cittadini, che considera tutti alla stregua di sudditi. Naturalmente tra questi due casi estremi vi sono tanti casi intermedi. Quando uno Stato liberale prende una direzione assolutista, i primi a percepirlo sono proprio i militari, in quanto divengono destinatari di provvedimenti via via sempre più restrittivi delle loro libertà costituzionali. Tali provvedimenti si inseriscono in un più complesso disegno teso a relegare i detentori del monopolio della forza in una condizione di obbedienza cieca e muta. Orbene, nei mesi scorsi, quando tutti i quotidiani erano impegnati a pubblicare una certa piantina di una casa monegasca e le misure di un tal progetto di cucina, e molti erano concentrati a sovrapporre l’una all’altra al fine di verificare la corrispondenza delle misure, veniva varato, con il D.Lgs 66/2010, il “Codice dell’Ordinamento Militare”, entrato poi in vigore il 9 ottobre 2010. Lo scopo dichiarato era quello di abrogare circa mille atti normativi (per un totale di circa 2.500 articoli di legge), emanati dal 2 aprile 1885 al 1° gennaio 2010, al fine di semplificare l’intera materia, sopprimendo tutte le norme inutili. Tale fine è stato perseguito raggruppando in un solo corpo legislativo (il D.Lgs 66/2010) ben 2.272 articoli. In realtà, si è semplificato solamente l’esercizio della memoria: prima del 9 ottobre 2010, era necessario ricordare sia la legge che i singoli articoli; da questa data in poi, è sufficiente ricordare (re-imparare) solo i singoli articoli della comune legge. Per esempio, l’art. 9 dell’abrogata legge 382/78, a mente del quale “I militari possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione”, è stato accolto dall’art. 1472 del D.Lgs. 66/2010. Nel procedimento di traslazione dalla L. 382/78 al D.Lgs. 66/10 il dispositivo è stato modificato con l’aggiunta di due semplici parole che, però, restringono inesorabilmente i diritti civili e le libertà democratiche dei militari. La nuova formulazione dell’art. 1472, infatti, recita testualmente: “I militari possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare, di servizio O COLLEGATI AL SERVIZIO per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione”. In merito allo strumento normativo utilizzato, quale fonte di produzione, sicuramente bisognerà approfondire se siano stati violati i limiti contenuti nella delega. Il dubbio non è di poco conto: se si dovesse accertare la violazione di tali limiti, si dovrebbe ammettere che è stato approvato un atto legislativo apertamente in conflitto con i dettami della Costituzione. E’ notorio, infatti, che un atto emanato dal solo esecutivo non possa comprimere i diritti già riconosciuti e garantiti da una legge ordinaria, emanata dal Parlamento sovrano in un fecondo clima dialettico in cui trovano spazio anche le volontà delle minoranze e dell’opposizione. Non a caso il giudice costituzionale ha, a più riprese, sollecitato l’impiego di criteri direttivi il più possibile circoscritti, qualora la delega vada ad incidere sulle libertà costituzionali e sui diritti fondamentali (sentenze 250/1991; 53/1997; 49/1999; 427/2000; 251/2001; 212/2003). Al di là di qualsiasi considerazione di carattere giuridico, riservata al mondo accademico, sembrerebbe che l’art. 1472 abbia riportato il nostro Paese indietro di almeno 280 anni, quando le forze armate erano concepite “per sorreggere il trono”. Concezione che ha trovato il suo migliore interprete nel Generale Pes di Villamarina, che fu ministro della guerra dal 1832 al 1847, secondo cui occorreva vietare «con rigore, non pure nelle caserme, ma nei privati domicili, al militare gregario e graduato, qualunque studio, qualunque lettura, anche di argomento militare, sì che un ufficiale scoperto autore di qualche scritto o perdeva il grado, o vedeva preclusa ogni via di avanzamento». Appare, quindi, poco convincente la tesi secondo cui per garantire le libere istituzioni democratiche è necessario vietare al cittadino militare la divulgazione di notizie che, benché non coperte da segreto, siano (in modo non meglio specificato) “collegate al servizio”. Per di più, la nuova formulazione della norma offre una grandissima discrezionalità alle autorità militari, che potendo ritenere ogni opinione espressa collegata lato sensu al servizio, possono impedire che trapeli all’esterno, nella società civile, qualsiasi problematica che agita ed inquieta il mondo militare. Inoltre, ad un precetto così vago ed indeterminato, come quello in esame, corrisponde una sanzione ben definita e, soprattutto, penalmente rilevante, circostanza che contrasta con l’art. 13 della Costituzione e con l’art. 1 del C.P.. Infatti, il punto 6) dell’art. 751 del DPR 90/10 dispone che la violazione dell’art. 1472 del D.Lgs. 66/10 è punita con la sanzione della consegna di rigore (arresti di rigore), che comporta l’obbligo di rimanere in un apposito spazio dell’ambiente militare o nel proprio alloggio per un massimo di 15 giorni. Ritengo che il cittadino militare debba essere totalmente integrato nella vita democratica del nostro Paese. Le sue preoccupazioni e le sue istanze dovrebbero godere della massima visibilità; sostenere il contrario significherebbe guardare con nostalgia ad esperienze che, fortunatamente, la storia ha ormai archiviato e si auspica che non vengano mai più riproposte. Tali esperienze nel passato hanno trovato, proprio nella separazione del comparto militare dal resto della società civile, terreno fertile per il loro progressivo consolidamento e successiva degenerazione. Il tentativo di isolare il cittadino militare dal resto della società, perciò, appare una strada molto pericolosa, che lede proprio quella posizione di apoliticità delle FF.AA. e delle Forze di polizia militarmente organizzate, posta a presidio delle istituzioni democratiche. Il miglior rimedio contro tali pericoli consiste in un ripensamento del ruolo del militare all’interno della società, egli deve poter vivere con coscienza la vita della nazione e tenere sempre nella più alta considerazione individuale la salvaguardia del sistema costituzionale. Le riforme che comprimono i diritti costituzionali dei cittadini militari, fatte passare per difendere l’apoliticità degli stessi, il più delle volte nascondono una decisa scelta politica. Tale scelta si sostanzia nella necessità di avere cittadini militari subordinati, non tanto alla legge, quanto piuttosto alle esigenze perseguite, attraverso l’apparato esecutivo, dai gruppi più forti presenti nella realtà civile e sociale del paese. L’apoliticità va pensata come una “strada a doppio senso di marcia”, il militare va garantito, oltre che dalle insidie provenienti dall’esterno, anche da quelle, eventualmente, provenienti dall’interno, “si rischiano incidenti” quando una delle due forme di garanzie viene sacrificata a vantaggio dell’altra. Concludo con una significativa poesia, attribuita impropriamente al poeta e drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, ma che in realtà è stata ripresa dalla predicazione di un pastore luterano e teologo tedesco Martin Niemöller (1892-1984), che così recita: “… Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare …”.

Diritti dei militari: sillogismi ed inaccettabili separatezze, scrive Cleto Iafrate. “... La polizia giudiziaria militarmente organizzata è come una ‘stella polare’ per l’autorità giudiziaria, con la sua luce consente al magistrato di orientarsi nelle indagini; essa deve poter continuare a brillare anche quando le indagini conducono a ‘menti sopraffine’…” È noto come il nostro ordinamento giuridico sia ispirato al principio della libertà di organizzazione sindacale. Le organizzazioni sindacali sono inquadrabili in quelle formazioni sociali di cui parla l'art. 2 della Costituzione, all'interno delle quali la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo.

L’art.39 della nostra Costituzione ha dato la possibilità a tutti i lavoratori di riunirsi in liberi sindacati. Tali organi hanno il compito di rappresentare i loro iscritti nella stipula di contratti collettivi di lavoro e, a tal fine, essi possono ottenere il riconoscimento della personalità giuridica. Com’è noto, però, per condurre con efficacia qualsiasi trattativa, che interessi gli iscritti ad un sindacato, è necessario che allo stesso sia riconosciuto un ruolo negoziale di contrattazione ed abbia un ordinamento interno a base democratica. Solo in questo modo, si può giungere alla stipula di accordi ed ottenere concessioni con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria dei lavoratori di un determinato settore. La legge di principio sulla disciplina militare ha istituito degli organi particolari, detti di "rappresentanza". Essi furono presentati come un'importante innovazione che avrebbe dovuto "informare" l’ordinamento militare ai principi costituzionali in materia di tutela del lavoro e realizzare l’avvicinamento delle Forze armate allo "spirito democratico" della Repubblica. Gli organismi di rappresentanza militare furono immaginati in "funzione sostitutiva rispetto alla negata libertà sindacale". Nelle intenzioni del legislatore del 1978, tali gli organi avrebbero dovuto, parallelamente alla linea gerarchica, realizzare un insieme di istanze, pareri e richieste che dalla base sarebbero confluite verso il Parlamento, attraverso i vertici delle Forze armate, per favorire "lo spirito di partecipazione e collaborazione e mantenere elevate le condizioni morali e materiali del personale militare nel superiore interesse delle Istituzioni".

L'applicazione pratica dell'istituto della rappresentanza militare, però, è risultata molto difficoltosa. Nel concepire tali organi, il legislatore ordinario ha partorito una legge “zoppa”. Ma v'è di più: il legislatore regolamentare, nel “travasare” i principi sanciti dalla legge all’interno del regolamento di attuazione, sembra essersi munito di un “recipiente incapiente” poiché, a causa delle ulteriori limitazioni, ha finito per compromettere definitivamente il funzionamento di tali organi. La legge di principio sulla disciplina militare è la legge 382/78, essa è stata accolta, unitamente ad altre leggi ordinarie, in un unico testo normativo: il Codice dell’Ordinamento Militare. La norma più controversa della legge di principio sulla disciplina militare, a mio parere, è il primo comma dell'art. 3 della L. 382/78 (recepito dall’art. 1465 del Codice dell’Ordinamento Militare). Tale norma è assai simile a un sillogismo, cosiddetto “entimematico”; questo tipo di sillogismo è un ragionamento logico - deduttivo in cui è taciuta una delle premesse.

L’articolo, infatti, si compone di una premessa implicita (a tutti i cittadini la Costituzione riconosce certi diritti), di una esplicita (ai militari spettano i diritti che la Costituzione della Repubblica riconosce ai cittadini) e di una conclusione (la legge impone ai militari limitazioni nell'esercizio di alcuni di tali diritti). Il sillogismo, però, è contrario a ogni logica aristotelica, in quanto la conclusione è antitetica alle premesse. E’ del tutto evidente che le due premesse non possono convivere insieme alla conclusione, per cui o si accettano le premesse oppure la conclusione. Il legislatore, purtroppo, negli altri articoli della legge non si è informato alle premesse. Conformarsi alle premesse avrebbe significato prevedere solo delle limitazioni di carattere esecutivo e tecnico, tese a garantire che le legittime aspettative dei militari si affievolissero solamente di fronte al rischio concreto di minacce al superiore interesse dello Stato e alla conservazione dell'ordine pubblico e della sicurezza nazionale (così com’è stato fatto, ad esempio, con la normativa che regola il funzionamento dei servizi pubblici essenziali). Il legislatore, invece, ha stabilito un divieto assoluto per i militari di “costituire associazioni professionali a carattere sindacale (ed) aderire ad altre associazioni sindacali" (art. 1475, II comma, del Codice dell’Ordinamento, già art. 8, II comma, L. 382/78). Nelle successive norme, inoltre, il legislatore ha continuato a mostrarsi molto attento a rimarcare i limiti e poco preoccupato a incentivare la portata delle competenze e delle attribuzioni degli organi di rappresentanza. Pertanto, molto ristrette sono le competenze di tali organi. Il legislatore, infatti, ha distinto le materie di cui può occuparsi la rappresentanza, da quelle nelle quali gli organi di rappresentanza non hanno alcuna voce in capitolo. Tra le prime figurano le attività assistenziali, culturali, ricreative e di promozione sociale; l’organizzazione delle sale convegno e delle mense; le condizioni igienico – sanitarie e gli alloggi. Le materie, invece, di cui la rappresentanza militare non può occuparsi sono: l'ordinamento, l'addestramento, le operazioni, il settore logistico operativo, il rapporto gerarchico - funzionale e l'impiego del personale.I limiti di tali organismi, però, non emergono solamente dalla ristrettezza delle materie di cui essi possono occuparsi, ma anche dal fatto che nemmeno nelle materie di loro competenza essi hanno un ruolo che va al di là della semplice possibilità di formulare pareri, proposte e richieste, non vincolanti.

Ad onor del vero, una norma successiva (il D.lgs. 195/95) ha riconosciuto al COCER un ruolo di concertazione, nella sostanza, però, non è cambiato nulla, nel senso che concertare non equivale a negoziare; pertanto i COCER continuano a subire la volontà della controparte in occasione di ogni rinnovo contrattuale. Il Regolamento di Attuazione della Rappresentanza Militare (RARM), emanato con DPR 691/1979, è stato accolto, unitamente ad altre norme di rango regolamentare, in un unico testo normativo: il DPR 15 marzo 2010, n. 90. Ebbene, dopo aver esposto, in breve, le motivazioni per cui la legge di principio è stata definita "zoppa", relativamente alla disciplina della rappresentanza, si espongono le ragioni di fondo che inducono a definire il relativo regolamento di attuazione come gravato da ulteriori impedimenti, che hanno depotenziato ed anestetizzato il funzionamento degli organismi di rappresentanza militare. Nel passaggio dalla legge di principio al relativo regolamento di attuazione, l'attività delle rappresentanze militari è stata delimitata, enfatizzando piuttosto il suo ruolo di "fonte di responsabilità disciplinari". Basti pensare che i punti da 45 a 55 dell'allegato C al Regolamento di Disciplina Militare elencano minuziosamente, con una precisione quasi maniacale, i comportamenti che, se posti in essere dal delegato, danno luogo all’irrogazione della consegna di rigore (sanzione assimilabile agli arresti domiciliari, impartita da una commissione priva del requisito di terzietà, in assenza di un difensore abilitato). A ciò si aggiunga che detta sanzione ha conseguenze devastanti per la carriera del militare. Da un esame complessivo del R.A.R.M. emerge come sia stata sostanzialmente posta in ombra la valenza partecipativa della rappresentanza e la irriducibilità della figura del delegato; circostanza che incide sul clima di partecipazione e collaborazione che avrebbe dovuto informare le riunioni. Innanzitutto, le riunioni dei consigli di rappresentanza "hanno luogo nelle ore di servizio e sono a tutti gli effetti attività di servizio". La norma pone dubbi interpretativi, non essendo chiaro se, nella contemporanea sussistenza di altri servizi, sia possibile inibire al delegato la possibilità di partecipare alle riunioni. Si consideri, inoltre, che non si può essere eletti se si è riportata, negli ultimi quattro anni, una o più punizioni di consegna di rigore. L'incidenza della disciplina sullo svolgimento dell’attività di rappresentanza non si esaurisce nella fase precedente l'elezione, ma investe anche la fase successiva. Si faccia riferimento alla previsione secondo la quale i delegati possono essere destituiti anticipatamente dal mandato per aver riportato nel corso dello stesso due consegne di rigore per violazione delle norme sulla rappresentanza militare. Pur non negando la necessità di prevedere delle specifiche sanzioni disciplinari per i delegati, a causa della particolarità del ruolo che ricoprono, si deve osservare come le norme predette, attualmente, non siano poste con funzione di controllo e di indirizzo dell’attività dei delegati e a tutela dei rappresentati, ma allo scopo di restringere l'autonomia degli organismi stessi. Queste ultime considerazioni assumono maggiore rilievo se solo si considera che la sanzione della consegna è disciplinata anch'essa da un regolamento e non da una legge. Tale circostanza induce a nutrire notevoli perplessità di ordine costituzionale, perché non è conforme alla necessità di garantire il libero esercizio delle funzioni di rappresentanza previsto nella legge di principio e il cui contenuto è stato poi ulteriormente ristretto nella disciplina introdotta dal regolamento attuativo. Questo esercizio, costituendo un diritto sancito in una norma di legge (formale e sostanziale), non può essere disatteso da una disposizione prevista in un atto normativo che è legge solo in senso sostanziale. Sempre sotto il profilo della disciplina, occorre evidenziare la circostanza secondo la quale nessun tipo di sanzione è prevista a tutela della garanzia dell'attività dei delegati. L’art. 1479 (già art. 20 della legge 382/78), infatti, vieta comportamenti assunti ex ante, a scopo intimidatorio, “diretti a condizionare o limitare l’esercizio del mandato”, ma non reprime atti e comportamenti punitivi esercitati ex post, ossia quale ritorsione della gerarchia nei confronti dei delegati. In altri termini, sembra mancare del tutto un mezzo di difesa giudiziale dell’organismo in quanto portatore di interessi collettivi, in analogia a quanto previsto dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori. Non è prevista, per esempio, una specifica sanzione per la violazione del dovere di concordare con gli organi rappresentativi di appartenenza il trasferimento ad altra sede di delegati, quando vi possa essere pregiudizio per 1'esercizio del mandato (dovere specificatamente previsto dall’art. 1480 del Codice dell’Ordinamento Militare). Ad onor del vero, il punto n. 50 dell'allegato C, al Regolamento di Disciplina Militare, prevede tra le infrazioni punibili con la consegna di rigore, "gli atti diretti a condizionare l'esercizio del mandato dei componenti degli organi di rappresentanza militare"; tale formula, però, è di difficile applicazione a causa della sua eccessiva genericità e andrebbe meglio specificata. A proposito della gerarchizzazione degli organismi di rappresentanza, si consideri quanto segue: con riferimento alle riunioni, rileva art. 884, II comma, DPR 15 marzo 2010, n. 90, (già l'art. 14, I comma, DPR 691/1979) a mente del quale il presidente non è scelto con criterio di tipo collegiale bensì gerarchico, poiché deve essere "il delegato più elevato in grado o, a parità di grado, più anziano presente alle riunioni"; le delibere vengono adottate dai delegati presenti e, a parità di voti, prevale il voto del presidente; al presidente è attribuito il potere disciplinare di richiamo e di censura, nonché quello di allontanamento dalla riunione del militare colpevole di aver turbato l'ordine o di non aver osservato le norme sui limiti e le facoltà del proprio mandato; il regolamento, con una norma che ha il tenore di clausola generale, prevede come l'inosservanza delle norme della legge di principio e delle altre disposizioni disciplinanti l'attività dei delegati contenute nei R.A.R.M., è considerata a tutti gli effetti grave mancanza disciplinare e pertanto punibile con la sanzione della consegna semplice. Non vi è chi non veda come tale tipo di punizione è posta in violazione del principio di legalità delle sanzioni disciplinari, con un'interpretazione arbitraria del contenuto della legge di principio sulla disciplina militare. Mi spiego. Se è vero che esiste un diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero per il militare rappresentato, tale diritto andrebbe, a fortiori, riconosciuto al militare rappresentante, con le uniche limitazioni previste dalla legge di principio, cioè argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio. In effetti, al militare rappresentante è concessa tale possibilità ma solo dietro autorizzazione dell'autorità gerarchica competente. In tale modo la libertà che sembra riconosciuta al militare prima della sua elezione, finisce, inesorabilmente, per comprimersi quando costui viene eletto membro della rappresentanza. L'assoggettamento ad autorizzazione sembra proprio eccessiva e rappresenta un’ulteriore chiara restrizione alla libertà di manifestazione del pensiero. Tale restrizione presta il fianco a dubbi e perplessità sotto il profilo della sua legittimità costituzionale. Tutto quanto sopra brevemente visto, fa capire come i singoli rappresentanti siano costretti ad agire, in modo eroico, in un campo irto di insidie, quasi come fosse un percorso di guerra; essi, pertanto, non devono essere biasimati, ma vanno sostenuti e aiutati dai colleghi della base (almeno fino a quando non chiedono di essere prorogati e poi ri-prorogati!). Giunti a questo punto, non si può certo sostenere che gli organismi di rappresentanza siano immuni dai condizionamenti derivanti dalla gerarchia. A tal proposito si consideri il comunicato stampa emesso in data 02/09/11 da un delegato del COCER Carabinieri, Fornicola Michele, il quale ha affermato: “Nel Consiglio Centrale di Rappresentanza c’è un problema di democrazia: non è possibile che un comunicato stampa che dovrebbe avere un contenuto condiviso sia invece redatto unilateralmente, senza che la maggioranza dei delegati ne sappia nulla”. Ha precisato il delegato del COCER: “Quanto accade in occasione della divulgazione dei comunicati stampa del Consiglio è contrario alle regole interne degli organismi della rappresentanza militare”. Tutto questo accade, sostiene sempre il militare, senza tener conto “di quanto previsto dall’articolo 902 del DPR 15 marzo 2010, n. 90, il potere decisionale del COCER non sempre appartiene all'Assemblea, ovvero alla maggioranza dei propri delegati riuniti. Il 90 per cento dei comunicati stampa del COCE non sono stati condivisi dall’assemblea”. E’ evidente che la rappresentanza militare, così come concepita dall’attuale normativa, appare oggi uno strumento obsoleto e drasticamente inutile a rappresentare le istanze della base, per cui un’intera categoria di pubblici dipendenti, in possesso di sconfinati poteri e strumenti investigativi, continua a rimanere in una situazione di assoluta separatezza. Ci si chiede quale sia il motivo per il quale il legislatore italiano sia da sempre contrario a riconoscere ai cittadini militari il diritto di costituire associazioni professionali a carattere sindacale o di aderire a quelle esistenti.

Ebbene, la diffidenza del legislatore ha una radice “biforcuta”.

a) Il mancato riconoscimento delle libertà sindacali sarebbe giustificato dalla preoccupazione secondo la quale un eventuale sindacato armato si porrebbe in conflitto con lo Stato ("datore di lavoro"). A proposito della "conflittualità" degli interessi coinvolti in eventuali "rivendicazioni" sindacali, va osservato come una tale preoccupazione sia infondata in quanto lo Stato, in persona dei propri organi (funzionari ecc), non tende alla massimizzazione di un determinato e personale profitto, bensì ad organizzare i pubblici uffici in modo tale da garantire il buon andamento ed il raggiungimento di un'utilità comune. Ritengo che i suggerimenti e le istanze provenienti dalla base potrebbero rappresentare un utile contributo al miglioramento dell'efficienza della macchina amministrativa della difesa. A tal proposito, si consideri, che le Forze armate e, soprattutto, la polizia giudiziaria e tributaria militare hanno acquisito una notevole professionalità. Non sono infrequenti i casi in cui singoli settori dell'amministrazione della difesa (es. Carabinieri, Esercito, Guardia di Finanza, ecc.) avanzano proposte, volte a rendere più efficiente e produttivo il loro operato, che sono destinate a restare lettera morta perché chi le propone non ha gli strumenti per portarle all'attenzione della collettività. Si consideri, inoltre, che non è il riconoscimento del diritto di libertà sindacale, in quanto tale, a mettere in pericolo lo svolgimento del ruolo tipico delle Forze armate, ma solo certe ed eventuali modalità del suo esercizio. E’ giusto il caso di far rilevare come forme illegittime di esercizio del diritto di libertà sindacale sarebbero sicuramente represse con l'applicazione del Regolamento di Disciplina Militare, oppure con il Codice Penale Militare di Pace oppure con il Codice Penale.

b) La seconda motivazione posta a fondamento del divieto risiede nella preoccupazione secondo la quale l'esercizio della libertà sindacale esporrebbe le Forze armate e di polizia militarmente organizzate al rischio di strumentalizzazione e politicizzazione e ciò potrebbe mettere in pericolo l’assolvimento dei compiti istituzionali. Tali timori, però, risultano pretestuosi e privi di qualsiasi fondamento. Il mancato riconoscimento dei diritti sindacali non contribuisce in alcun modo a scongiurare o allontanare il rischio di strumentalizzazione e politicizzazione. Le stesse preoccupazioni, infatti, potrebbero nutrirsi anche nei confronti degli esponenti più alti della gerarchia, proprio perché questi si trovano più a stretto contatto con i vertici dell'esecutivo. Qualora ciò si verificasse, si correrebbe un pericolo ben più grave per la sicurezza della democrazia. La base, infatti, per quanto mossa da nobili intenti, sarebbe destinata ad un'obbedienza incondizionata, a causa di alcune altre circostanze: grado di istruzione inferiore rispetto alla gerarchia, sicurezza di uno stipendio e timore di perderlo, assenza di organi non indipendenti dalla gerarchia che rappresentino e difendano le sue legittime istanze e, infine, cosa ben più grave, la mancanza del principio di legalità e di tassatività dell’illecito alla base delle sanzioni disciplinari di Corpo (per un approfondimento sul punto, vedi “Il paradosso di un’Europa più attenta alle dimensioni dei cetrioli che non ai diritti soggettivi dei cittadini militari”, pubblicazione online).

Il punto è un altro. Il mancato riconoscimento di una concreta tutela sindacale per i militari si ripercuote direttamente sul concetto di obbedienza militare, fino a provocarne una mutazione genetica. L’obbedienza - definita “ASSOLUTA” nel precedente regolamento e “leale e consapevole” in quello vigente - diventa, a causa dell’assenza di tutele effettive, “ASSOLUTA-mente” necessaria per la carriera del militare. Tale circostanza provoca, di riflesso, un’espansione dei confini che delimitano l’attinenza dell’ordine militare. Tutelare i diritti dei militari equivarrebbe a perimetrare con una linea continua, e non più tratteggiata, i confini di attinenza dell’atto amministrativo-ordine-militare (per un approfondimento sul punto, vedi “Ordini militari e disordini normativi”; vedi anche “Esecuzione dell’ordine militare non manifestatamente illecito: asimmetrie da sanare tra codice penale comune, codice penale militare e legge sulle norme di principio della disciplina militare” entrambi pubblicati online). Si rende, perciò, assolutamente necessario uno strumento di tutela effettiva, a garanzia non solo dei militari, ma anche, e soprattutto, dei superiori interessi della democrazia. Si consideri che la polizia giudiziaria militarmente organizzata è come una “stella polare” per l’autorità giudiziaria: con la sua luce consente al magistrato di orientarsi nelle indagini; essa deve poter continuare a brillare anche quando le indagini conducono a “menti sopraffine”.

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.

Il Popolo della libertà scende in piazza sabato 11 maggio 2013 a Brescia "in difesa di Silvio Berlusconi". Alle numerose esternazioni di esponenti del suo partito su un "uso politico della giustizia" segue quella dello stesso Berlusconi: "La sentenza di ieri è davvero una provocazione preparata dalla parte politicizzata della magistratura che da vent'anni cerca di eliminarmi come principale avversario della sinistra e il rinvio a giudizio di Napoli fa parte di questo uso politico della giustizia". Da una parte vi è Silvio Berlusconi che si presenta come vittima sacrificale della magistocrazia e dall’altra il solito Marco Pannella con i suoi scioperi della fame e della sete per denunciare la detenzione dei carcerati nei canili per umani. Puntano l’indice su aspetti marginali del problema giustizia. Eppure loro sono anche quei politici che da decenni presentano le loro facce in tv. Tutto fa pensare che non gliene fotte niente a nessuno se i magistrati sono quelli che sono, pur se questi, presentandosi e differenziandosi come coloro che vengono da Marte, sono santificati dalla sinistra come unti dall’infallibilità. Tutto fa pensare che se si continua a dire che Berlusconi è una vittima della giustizia (e solo lui)  e che le celle sono troppo piccole per i detenuti, non si farà l’interesse di coloro che in carcere ci sono, sì, ma sono innocenti. Bene, Tutto questo fa pensare che dopo i proclami tutto rimarrà com’è. E tutto questo nell’imperante omertà dei media che si nascondo dietro il dito dell’ipocrisia. Volete un esempio di come un certo modo di fare comunicazione ed informazione inclini l’opinione pubblica a parlare di economia e solo di economia, come se altri problemi più importanti non attanagliassero gli italiani?

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: «Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!»

«La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera». Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.

Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".

Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.

«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»

«Per quanto concerne la remissione per motivi di legittimo sospetto occorre che i capi delle procure generali si attengano a una concezione rigorosamente ristretta dell'istituto». La circolare ministeriale che abbiamo citato non esce dagli archivi del governo Prodi e neppure dal cassetto del terribile ex procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Si tratta invece di una direttiva piuttosto chiara che il ministro fascista Dino Grandi inviava a tutti i tribunali italiani nel 1939, consigliando loro di usare la legittima suspicione con cautela. Eppure se si dà uno sguardo alla storia giudiziaria italiana, se si ritorna su quei casi in cui la legittima suspicione è stata accolta vengono i brividi e si capisce perché la legittima suspicione si trasformi nel legittimo sospetto contro giudici, pubblici ministeri, tribunali. Il caso più drammatico, più doloroso, in cui l'accettazione della legittima suspicione fece danni incalcolabili fu il processo per la strage di piazza Fontana. Non è il caso di soffermarsi più di tanto su quel buco nero della nostra storia. E' tristemente noto: la legittima suspicione riuscì a strappare il processo ai giudici di Milano in un clima golpista e lo trasferì a Catanzaro. Per trent'anni la verità sulla strage rimase sotterrata dalla collusione tra servizi, governi e apparati militari. Il processo di piazza Fontana è il caso più clamoroso ma non certo il primo. Basta scartabellare negli archivi giudiziari per trovare le vittime della legittima suspicione. A due anni dalla fine della guerra si giunge al drammatico processo per la strage di Portella delle Ginestre. Il processo viene spostato da Palermo a Viterbo: la banda di Salvatore Giuliano viene condannata ma i mandanti assolti. Nel 1963 ci imbattiamo nel disastro del Vajont: il processo da Venezia viene trasferito a L'Aquila dove la strage viene definita «evento imprevedibile» e dove governo e Enel vengono assolti. Nello stesso anno il processo per la strage di Ciaculli viene trasferito da Palermo a Catanzaro. Buscetta viene condannato ma altri mafiosi del peso di Pippò Calò se la cavano. Se si leggono gli atti dei processi per mafia si scopre che la richiesta di legittima suspicione viene utilizzata a man bassa, come una chiave magica usata per ottenere in sedi più consone assoluzioni totali o per insufficienza di prove. Il caso più clamoroso è quello di Luciano Liggio, precursore e maestro di Totò Riina. Dopo l'esordio del 1948 con l'uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto, Liggio nel `58 ammazza il boss concorrente Michele Navarra. Liggio viene processato ma prevale la legittima suspicione: nel processo di Bari il fondatore della corrente dei corleonesi viene assolto dal tribunale di Bari per insufficienza di prove. Un altro caso clamoroso fu quello delle schedature Fiat. Negli anni `60 fu proprio Milano il luogo in cui si celebrò il processo alla Zanzara. Quelli sopra i cinquant'anni si ricorderanno che la Zanzara era un giornalino fatto dagli studenti del Liceo Parini usato per contestare ante litteram le regole del conformismo e dell'educazione borghese. In base a denunce e lamentele della parte più reazionaria dei genitori e dell'opinione pubblica ne nacque un processo che fece grande scandalo. Per evitare che nello scandalo finisse il buon nome di qualche famiglia milanese fu invocato addirittura l'ordine pubblico e per legittima suspicione il processo finì a Genova. Nel 1989, comunque, il legislatore decide che le maglie della legittima suspicione sono troppo larghe e discrezionali e soprattutto che vengono usate come strumento per impedire la celebrazione dei processi. A spingere al cambiamento sono proprio i numerosi processi per mafia finiti con l'assoluzione per insufficienza di prove. Viene introdotta una nuova norma, quella attuale. L'introduzione di questa norma restrittiva taglia le unghie a coloro che usavano la legge come un grimaldello, ma limita anche i diritti di coloro che hanno sospetti fondati . Per tutti gli anni `90 i ricchi avvocati dei ricchissimi imputati per tangenti tentano di utilizzare la legittima suspicione per farla franca. Il caso che tutti ricordano è quello di Bettino Craxi che durante la bufera di tangentopoli chiede attraverso i suoi legali ai giudici della Cassazione di spostare da Milano i numerosi processi a suo carico. La richiesta viene presentata in tutte le sedi processuali ma viene respinta proprio perché la suprema Corte si trova a dover fare i conti con una norma restrittiva che lascia poco scampo a chi vuole fare il gioco delle tre carte.

Il 6 maggio 2013 è stata respinta l'istanza di Berlusconi di trasferimento a Brescia dei suoi processi a Milano. La richiesta di trasferimento è basata sul legittimo sospetto che ci sia un accanimento giudiziario, “un’ostilità” da parte della sede giudiziaria del capoluogo lombardo (che giudica sul caso della giovane marocchina) e da parte della Corte d’Appello, che si occupa del processo Mediaset, nei confronti del Cavaliere. In quaranta pagine, stilate dai legali e giunte in Cassazione a metà marzo, vengono rappresentate una serie di decisioni, atteggiamenti e frasi pronunciate in aula dai giudici che sarebbero la dimostrazione dell’accanimento nei confronti del leader del Pdl; tra queste le ordinanze con cui sono stati negati i legittimi impedimenti, le visite fiscali a carico di Berlusconi ricoverato al San Raffaele per uveite, la sentenza del caso Unipol dove gli non sono state concesse le attenuanti generiche, la fissazione di 4 udienze in 7 giorni nel processo Ruby, e alcune affermazioni in aula del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del presidente del collegio, Giulia Turri. Nel 2003 la richiesta di trasferire da Milano a Brescia i processi del cosiddetto filone toghe sporche (Imi-Sir/Lodo Mondadori), in cui era imputato Cesare Previti (mentre Berlusconi era stato prosciolto per prescrizione) fu respinta dai giudici, i quali ritennero che la situazione prospettata non potesse far ipotizzare un concreto pericolo di non imparzialità a Milano.

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». È l' ennesimo colpo di scena sul caso Avetrana. Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate. Per spiegare in che cosa consiste la «grave situazione locale» che «turberebbe lo svolgimento del processo», Mazzotta si dilunga sull'arresto di Cosima (la madre di Sabrina) avvenuto praticamente in diretta tivù dopo la fuga di notizie che l'aveva preannunciato («Fu un tentativo di linciaggio» dice il professor Coppi), parla di testimoni presenti a raduni di piazza che contestavano Cosima, ricorda le pietre e le intimidazioni contro Michele Misseri, il marito di Cosima e padre di Sabrina che fece ritrovare il cadavere di Sarah e confessò di averla uccisa dopodiché cambiò versione più volte, accusò sua figlia dell'omicidio e tornò di nuovo al primo racconto («Ho fatto tutto da solo, Sabrina e Cosima sono innocenti»). Per riassumerla con le parole di Coppi: «L'abbiamo sempre detto, in questo procedimento sono avvenuti fatti di una gravità oggettiva e se non c'è serenità è giusto trasferirlo». Per argomentare meglio la sua richiesta, Coppi ha citato la sentenza Imi-Sir/lodo Mondadori del 2003 (imputati Previti e Berlusconi) con la quale le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono che in quel procedimento non ci fu legittima suspicione. Tutti i punti che in quel processo motivarono la mancanza del legittimo sospetto, nel caso Avetrana dimostrano, secondo Coppi, esattamente il contrario: cioè che esiste la legittima suspicione.

Eppure nonostante il dettato della legge fosse chiaro, la Corte di Cassazione per l'ennesima volta ha rigettato l'istanza.

Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Nonostante ciò da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge Piazza Fontana ll processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969 (foto), ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico Salvatore Giuliano Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica. Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".

C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona". Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.

In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti". Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura". Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini". Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.

Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella. 

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».

Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente.

Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri. Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri. La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata. Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; dal’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove. Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato. 

Paradossale è anche il fatto che è stato assegnato a Franco Coppi il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignita dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof. Coppi è per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato. Il riferimento è, appunto al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Processo la cui levatura professionale rispetto ad altri si è contraddistinta nell’assunzione di due atti fondamentali: richiesta di rimessione del processo per legittimo sospetto e minaccia di ricusazione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini.

Per quanto innanzi detto sarebbe auspicabile la predisposizione di un difensore civico giudiziario a tutela dei cittadini. Senza sminuire le prerogative ed i privilegi dei magistrati a questi doverosamente si dovrebbe affiancare, come organo di controllo, una figura istituzionale con i poteri dei magistrati, senza essere, però, uno di loro, perché corporatisticamente coinvolto. Tutto ciò eviterebbe l’ecatombe di condanne per l’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

ITALIA, CULLA DEL DIRITTO NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.

Con questa importante ed approfondita inchiesta, prende il via la nuova rubrica su la ”INGIUSTIZIA ITALIANA”, che metterà a nudo le disfunzioni, l’inefficienza e l’ingiustizia che caratterizzano lo Stato italiano, i suoi apparati, la sua burocrazia. Un sistema di ingiustizie utile solo a vessare i cittadini, scrive James Condor su “L’Indipendenza”.

LA PALUDE DEI FALLIMENTI. Un Paese dove i processi non finiscono mai. E che in compenso sono fatti malissimo. Un Paese dove la proprietà privata non conta niente, dove lo Stato sottrae illecitamente un minore alle famiglie senza farsi troppi scrupoli, dove la vita delle famiglie è presa a calci. E dove nessuno, per questi abusi, paga mai. Non si tratta di critiche feroci o di sfumature politiche, che anzi attaccano o difendono la giustizia a seconda dello schieramento, ma della fotografia scattata all’Italia dalla Corte per i diritti dell’uomo. Strasburgo ha infatti pubblicato i numeri sulle sanzioni in materia di giustizia inflitte ai Paesi della Convenzione dal 1959 al 2010 dal tribunale per i diritti umani, mostrando al mondo cosa sia davvero quella che ancora alcuni fingono di considerare la culla del diritto pur di non cambiare una macchina che miete vittime a ripetizione: la nostra giustizia. Che miete vittime, ma che costa pure tantissimo sotto il profilo economico: in particolare, ed è paradossale, costa eccezionalmente proprio grazie all’artifizio che lo Stato aveva inventato per rimediare ai propri errori rispetto alla Convenzione, la legge Pinto, che ha fatto molto più che decuplicare i costi senza nemmeno riuscire a individuare le cause del “male”. E aggiungendone dell’altro: ulteriori cause a Strasburgo e ulteriori indennizzi. Giusto per farsi un’idea dei dati di Strasburgo, la Spagna in 41 anni ha subito al tribunale per i diritti dell’uomo 91 sentenze, la Germania 193, il Regno Unito 443, la Grecia 613. L’Italia invece ne ha nientemeno che 2121: una valanga, addirittura il doppio della Russia, superata solo dalla Turchia. Ciò che più conta è che in 1617 casi è stata riconosciuta almeno una violazione della Convenzione per i diritti umani e che solo in 51 casi non sono state riscontrate violazioni. La gran parte delle decisioni riguarda, com’è noto, la lentezza dei processi, specie in materia civile, con 1139 condanne. Sotto di noi, l’abisso, con la Turchia al secondo posto con 440 condanne, quasi un terzo, e sotto un nuovo baratro. Meno noto il fatto che 238 nostre violazioni riguardino l’equo processo, sempre all’articolo 6 della Convenzione, ma diretto alle violazioni del diritto ad una giusta difesa. Ossia: è vero che ci mettiamo tanto a fare un processo, però, alla fine, possiamo dire che è stato pure ingiusto. Quanto al diritto alla vita privata e famigliare, in cui l’Italia vanta plurime condanne per sottrazione illecita di minori alle famiglie da parte dello Stato, non abbiamo eguali: 131 condanne, l’unico Paese con numeri a tre cifre, numeri spaventosi anche se confrontati con Turchia, Russia, Romania, Polonia, tutti Paesi che per decenni non sono stati esattamente noti come templi giuridici. Ma il catalogo di record non finisce qui: 15 sentenze sul diritto di voto (al secondo posto la Turchia con 6, in mezzo ad una sfilza di 0 violazioni) e ben 297 sentenze sulla protezione della proprietà privata. Tra i Paesi dell’Ue sotto di noi c’è l’abisso, dato che al secondo posto c’è la Grecia con 62 violazioni, quasi un quinto delle nostre, che per contro ce la battiamo alla grande con Romania, Russia, Turchia e Ucraina. L’aspetto più importante è che 2121 sentenze per violazione dei diritti umani nei processi non significano 2121 casi, perché ogni sentenza può radunarne a gruppi, perfino di centinaia. È questo che può dare l’idea di un fenomeno mostruoso, una metastasi del sistema che continua a divorarlo.

NUOVI RECORD NEL 2011. Dal 31 dicembre 2010 al 30 novembre 2011 la situazione è infatti ulteriormente peggiorata: l’Italia ha continuato imperterrita a rosicchiare percentuali sulla torta dei ricorsi dei cittadini dei Paesi membri, passando dai 10200 ricorsi della fine del 2010, ai 13400 ricorsi di fine novembre, passando così dal 7,5% all’8,8% della torta. Da notare l’assenza dei grandi Paesi occidentali nella torta – se escludiamo un piccolissimo 2,4% del Regno Unito -, tutti sotto la voce “altri 37 Stati”. E che superiamo Romania, Ucraina, doppiamo Polonia e Serbia, quadruplichiamo o quasi la Bulgaria.

LA LEGGE FALLIMENTARE. L’INFAMIA DEL REGIO DECRETO. Ci sono processi e processi. Per comprendere come l’Italia non rispetti affatto le Convenzioni che firma, c’è un processo italiano in particolare che ha comportato negli anni, e in parte ancora comporta, una sfilza infinita, in una volta sola, di una lunga serie di violazioni agli articoli della Convenzione di Strasburgo, e ai suoi successivi protocolli, sui diritti dell’uomo: si va dalla libera circolazione al diritto alla corrispondenza, dal diritto di voto al diritto ai propri beni, dall’accesso al processo al diritto alla vita privata e famigliare. A comportare tutte queste violazioni è il nostro processo sui fallimenti, uno dei più grandi scandali italiani passati sotto silenzio per decenni. E di cui si fa ancora fatica a parlare. Eppure si tratta quasi sempre di un labirinto dal quale, chi ci finisce dentro, non esce più. Ci sono diverse ragioni per le quali si può incappare in un fallimento, specie in uno Stato che ha la pressione fiscale più alta d’Europa e pretende taluni fondamentali pagamenti, come l’iva, anche prima che uno l’abbia incassata. E che chiede tasse in anticipo sulla presunzione di un volume d’affari, come se gli imprenditori avessero la sfera di cristallo. Di certo in questa maglia finisce spesso brava gente, anche per poche migliaia di euro, gente con una faccia e una casa. E quasi mai, invece, chi fa dell’attività societaria un’arma per delinquere, troppo accorto per non sfruttare prestanome o, per usare una frase in gergo, le cosiddette teste di legno. Troppo astuto per avere intestato qualcosa. Ci vorrebbe dunque una legislazione molto accorta, in grado di stabilire con equità caso per caso. Ma in una Repubblica fondata sul lavoro e che fa dunque dell’impresa del lavoro la sua base, la legge fallimentare è regolata unicamente da una legge del Regno: il Regio Decreto n. 267 del 16 marzo 1942. Una legge rimasta sostanzialmente immutata per 60 anni.

LA SPIRALE DEL FALLIMENTO. Gianna Sammicheli vive a La Spezia. Si è occupata di cause per i diritti umani in Germania, Spagna e in Inghilterra e da qualche tempo si sta confrontando con il sistema giuridico italiano. «La legge 80/2005 e il decreto legislativo 5/2006 hanno dovuto recepire molte delle indicazioni date dalla Corte Europea, per modificare la legge, dopo diverse condanne subite dall’Italia a Strasburgo. Le nuove norme tuttavia hanno finito per applicarsi solo alle procedure iniziate dopo la data di entrata in vigore della legge. Il fatto è che per tutte le procedure che erano in corso in quel momento le violazioni ci sono già state e quindi restano lamentabili nei sei mesi dalla chiusura dal fallimento, nonostante l’abrogazione delle norme». Quali sono le leggi del nostro codice che per 60 anni hanno violato la Convenzione di Strasburgo? «Sono stati abrogati in particolare gli articoli 48, 49, 50 sulla corrispondenza, la libertà di circolazione, l’iscrizione nel registro dei falliti, dalla quale partivano automaticamente le “incapacità” previste dal codice civile e dalle leggi speciali. Molte erano “incapacità” relative ai diritti civili o politici. Come la perdita del diritto di voto per cinque anni, l’impossibilità di iscrizione agli albi per esempio o di amministrare società. In realtà, già aprire un conto corrente per molti è stato un problema. La corrispondenza del fallito, tutta, andava direttamente al curatore; il fallito non poteva muoversi liberamente e doveva restare sempre a disposizione del curatore. Queste limitazioni persistevano fino alla sentenza di riabilitazione, che poteva essere chiesta dopo cinque anni dalla chiusura del fallimento. Il che, spesso, avveniva dopo vent’anni dall’inizio del fallimento». Una vita. Vent’anni senza disporre dei propri beni, senza poter verificare che vengano venduti e non svenduti, senza poter avere un fido o accendere un mutuo, spesso senza nemmeno avere un conto corrente. Vent’anni di segnalazioni alle centrali rischi, un marchio d’infamia che ha ottenuto un rimedio. Forse. «La Corte Costituzionale,- prosegue Sammicheli - con la sentenza n. 39/2008, ha dichiarato l’incostituzionalità degli articoli 50 e 142 per il testo anteriore all’entrata in vigore della riforma, nella parte in cui si stabiliva  che le “incapacità personali” derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurassero oltre la chiusura della procedura concorsuale. Questo proprio per chiarire che se anche la riforma non si applica alle procedure vecchie, le “incapacità” di questi vecchi fallimenti cessano con la chiusura. Però…». Però?

IL RIMEDIO É PEGGIO DELLA CURA. «Il problema è che la riforma ha eliminato il Registro dei Falliti e le norme sulla riabilitazione, ma all’eliminazione non è seguita alcuna modifica di legge che permetta di eliminare di fatto tutte le “incapacità” in modo automatico alla chiusura del fallimento». Si spieghi. «In sostanza, abrogando l’istituto della riabilitazione, paradossalmente non si possono più eliminare tutte le conseguenze che derivavano dalla riabilitazione. Con questa si aveva anche l’estinzione degli effetti dell’eventuale condanna penale che talvolta si accompagna alla dichiarazione di fallimento. Il fallito quindi, oggi, chiuso il fallimento, non può semplicemente chiedere ad esempio l’iscrizione al registro delle imprese per l’inizio di nuova attività commerciale, perché non ha alcun documento che attesti il riacquisto delle capacità, né può ottenere direttamente il certificato del casellario che non menzioni i provvedimenti giudiziari relativi al fallimento. L’articolo 24 T.U. 313/2002 infatti lo rende formalmente possibile solo se c’è stata una sentenza di riabilitazione. Di fatto si lascia che i falliti si arrangino da soli, specie se il fallimento è già chiuso». E cioè questo significa che chi ha visto chiuso il proprio fallimento dopo vent’anni deve fare una nuova causa davanti ad un giudice perché una nuova sentenza ne cancelli il nome dal casellario penale. E sembra in effetti dire lo stesso anche la circolare del Ministero della Giustizia del 22 settembre 2008. E che cosa accade in questi casi? Accade che il giudice interpreta. E non è affatto detto che disponga la cancellazione. Una situazione kafkiana.

CHI CONTROLLA I CONTROLLORI? IL CONTRIBUENTE PAGA. Sicchè anche chi è fallito vent’anni fa e il suo fallimento è stato chiuso da tempo immemore, rischia ancora di trovarsi tracce che gli impediscano una nuova vita, anche solo l’accesso ad una banca. Di più. Nonostante le modifiche, prosegue Sammicheli, «il fallito oggi è tuttora privato dell’amministrazione e della disponibilità dei propri beni a partire dalla dichiarazione di fallimento, beni che vengono gestiti esclusivamente dagli organi preposti. È poi il curatore a stare in giudizio nelle controversie, anche in corso, relative ai rapporti di diritto patrimoniale. Inoltre, il fallito non ha né ha mai avuto libero accesso al proprio fascicolo, il che gli impedisce di verificare l’operato degli organi fallimentari. Se è vero che devono essere i creditori ad interessarsene, è anche vero che non se questi lo fanno e il curatore agisce ai danni del fallimento stesso, come è anche successo, difficilmente il fallito potrà saperlo, pur subendone le conseguenze». Nella zona grigia dei fallimenti emergono così storie come quella di un giudice del tribunale fallimentare di Firenze, Sebastiano Puliga, condannato in primo grado, lo scorso novembre 2012, a quindici anni, tre dei quali condonati. Accusato di corruzione, abuso d’ufficio, peculato, falso, interesse privato in procedure concorsuali e concorso in bancarotta, è stato condannato insieme ad una trentina di persone, tra avvocati, commercialisti, architetti e ingegneri, tutti con pene dai 3 anni e 2 mesi ai 9 anni e 9 mesi. Cuore della vicenda un presunto comitato d’affari per pilotare l’affidamento di perizie e curatele. Il fatto è che le indagini su di lui sono cominciate nel 2002 e la prima sentenza è giunta nove anni più tardi. E riguardava vicende ovviamente precedenti, anni ’90. Significa che, se davvero Puliga è colpevole, ci sono falliti che aspettano giustizia da una vita. «Qualsiasi sia l’esito processuale- dice ancora Sammicheli – è evidente che vicende come queste forse risentono proprio di una eccessiva fiducia accordata originariamente dalla legge agli organi fallimentari. Prima della riforma non c’era alcuna espressa incompatibilità tra i magistrati fallimentari e quelli, ad esempio, incaricati dell’esecuzione sui beni dei falliti. In pratica il giudice del fallimento poteva anche essere giudice delle cause che autorizzava ed in cui stava in giudizio il curatore. La riforma ha cercato quindi di diminuire i poteri del giudice, a favore del comitato dei creditori, aumentando anche i requisiti per essere nominati curatori». Situazione risolta? A sentire il legale no.«Il fallito resta nella situazione precedente. Per ottenere i documenti, in modo da controllare la gestione dei beni, al fallito occorre infatti fare istanza al giudice, che può anche non accoglierla o accoglierla solo in parte. Per esempio le relazioni del curatore anche ora possono non essere date e gli altri documenti dati attraverso il curatore. Il fallito cioè può tuttora non vedere mai il proprio fascicolo e spesso non ha idea di quello che viene fatto».

SUICIDARSI PER NON FALLIRE. E se nessuno vede, e nessuno può controllare, ecco la zona grigia. Dove tutto può succedere, in silenzio. E per anni, tanti anni. Anni in cui il fallito non sa se una sua casa, ad esempio, sia stata venduta a prezzi tali da coprire il debito. Non sa nulla. Solo che pagherà a vita. Con mezzi, beni. E infamia. Di più. «Non solo un fallimento medio anteriore alla riforma è durato almeno dieci anni – conclude il legale -, molti dei quali passati ad aspettare che i beni immobili del fallimento venissero venduti o svenduti, con tutte le conseguenze sulle sue “incapacità”. Ma il fallito, ai sensi dell’art. 120 LF , una volta chiuso il fallimento, ritorna esattamente nella posizione di partenza, ovvero con tutti i debiti non pagati sulle spalle ed è, anche solo teoricamente, di nuovo aggredibile». Punto e a capo. E in una macchina come questa, ecco perché tanti falliti si suicidano. Ed ecco perché in tanti si tolgono la vita piuttosto che fallire.

MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.

Ci sono processi che non cominciano, scrive “Fronte del Blog”. Processi iniqui e processi che non finiscono mai. E che spesso, quando finiscono, risultano pure fatti male. La fotografia di mezzo secolo di giustizia italiana a Strasburgo mette in luce però molto di più: intrusione illecita nella vita privata da parte dello Stato, negazione del diritto di proprietà, violazioni dell’equo processo. Soluzioni? Vediamole.

LEGGE PINTO. Nel 2001 prese forma la legge Pinto, voluta per arginare gli infiniti procedimenti di risarcimento dell’Italia, togliendoli alla Corte Europea per affidarli alle Corti d’Appello. Il risultato non è mai stato brillante ed è emerso in tutta la sua forza nel 2010: le Corti d’Appello risarcivano un’inezia. Il ministero, che aveva visto lievitare gli indennizzi dai 4 milioni di euro del 2002 agli stratosferici 81 del 2008, pagava a rilento (36,5 milioni non risultavano ancora versati alla fine del 2010). E mille persone erano così tornate a Strasburgo, contestando il ritardo nel pagamento della somma già liquidata dalla sentenza: la “mora” della mora. Si trattava della punta dell’iceberg: perché una sentenza non corrisponde ad un caso, ma può radunare anche centinaia di casi. Il ricorso principale, come si sa, nelle cause contro lo Stato a Strasburgo, riguarda la lunghezza dei processi. I responsabili dei ritardi non si sa mai chi siano, se non una generica burocrazia. Nella relazione annuale 2010 al Parlamento il Governo aveva infatti ammesso che la Legge Pinto non riusciva a “fronteggiare efficacemente eventuali condotte negligenti di singoli magistrati, causative dell’irragionevole ritardo processuale, ovvero a vigilare sull’obbligo dei dirigenti degli uffici giudiziari di realizzare un’efficiente organizzazione del lavoro”.

DI CHI È LA COLPA? Eppure i processi non vanno piano perché i magistrati sono pochi: ne abbiamo una media di 1,39 ogni diecimila abitanti a fronte di uno 0,91 dei Paesi dell’Ue, oltre a quasi mille rincalzi entrati negli ultimi tre anni. E allora? Il Governo Monti ha provato a riformare la legge Pinto con il decreto legge dello scorso giugno, che snellisce la procedura. Con quali effetti, avremo modo di raccontarvelo più avanti, perché una riforma strutturale necessita di tempi medi. Di certo, stando ai numeri di Strasburgo, il problema della giustizia in Italia non riguarda soltanto la lunghezza dei processi, civili in particolar modo. Riguarda anche altro. Pure se, di questo “altro” che stiamo per vedere, se ne parla assai poco. Forse perché non pesa economicamente come la lentezza processuale, calcolata pari ad un punto del Pil. Forse. Di sicuro, in uno Stato di diritto, questo “altro” dovrebbe avere un peso addirittura superiore.

EQUO PROCESSO. La Corte per i diritti dell’Uomo ha pubblicato le statistiche sulle sentenze europee emesse dal 1959 al 2011: e l’Italia, oltre a risultare di gran lunga il più condannato tra gli Stati dell’Ue nel totale delle violazioni (quasi il triplo della Francia, 10 volte la Germania, oltre 20 volte la Spagna), alla voce “diritto al giusto processo” presenta 245 condanne. Si tratta sempre dell’articolo 6 della Convenzione per i diritti dell’Uomo, come per la lentezza processuale, ma riguarda stavolta le violazioni del diritto ad una giusta difesa. Materia penale, per intenderci. Tra i Paesi occidentali, ne ha sei in più unicamente la Francia, dove, in compenso, i processi sono molto più rapidi. Il resto della compagnia è formato da Turchia, Romania, Ucraina e Russia. Sotto, il baratro. Ciò significa che da noi non solo i processi durano una vita. Ma in linea di massima sono fatti pure male. Il che, quando di mezzo c’è il penale, comincia a far nascere angoscia. Perché sui dati non ha pesato affatto solo la nostra normativa sulla contumacia, no. «Sono diverse le condanne in materia di giusto processo: per impossibilità di interrogare i testimoni, le vittime e gli accusatori. Per assenza di difesa effettiva e incapacità dell’avvocato d’ufficio, o per processi conclusi solo per via della testimonianza delle vittime o ancora per assenza di imparzialità negli organi giudicanti o nella pubblica accusa». Sono le parole di Gianna Sammicheli. Formazione giuridica in Germania, Spagna e in una ONG di Londra che porta avanti cause per violazione dei diritti dell’uomo di fronte a tutte le Corti internazionali; si è occupata di diritto nei paesi dell’Est, ma è rimasta sgomenta quando si è confrontata con il sistema italiano, non appena è tornata a lavorare nel Belpaese, La Spezia, esattamente. In Italia infatti, spiega: «si assiste ad interpretazioni della giurisprudenza di Strasburgo inspiegabilmente diverse da quelle che deriverebbero da una traduzione letterale della stessa, tanto che la Corte è di nuovo subissata da ricorsi come prima della Legge Pinto». Snocciola sei sentenze contro l’Italia per ingiusta detenzione: doveva riparare lo Stato, ma la magistratura negava gli indennizzi, dando sostanzialmente la colpa dell’arresto all’arrestato.

SOTTRAZIONE DI MINORI, PROPRIETÀ PRIVATA E DIRITTO DI VOTO. «Moltissime – prosegue la Sammicheli – anche le condanne al nostro Paese in materia di minori, dove i giudici italiani hanno tolto i figli ingiustamente alle famiglie». Nella fotografia della tabella di Strasburgo, tutto questo va alla voce “diritto alla vita privata e famigliare”. E qui non abbiamo davvero eguali: 133 condanne, l’unico Paese con numeri a tre cifre, numeri spaventosi anche se confrontati con Turchia, Russia, Romania, Polonia, tutti Paesi che per decenni non sono stati esattamente noti come templi giuridici. Ma il catalogo di record non finisce qui: 16 sentenze sul diritto di voto (al secondo posto la Turchia con 6, in mezzo ad una sfilza di 0 violazioni) e ben 310 sentenze sulla protezione della proprietà privata. L’Occidente, in questo, è lontano da noi anni luce: al secondo posto dell’Ue c’è infatti la Grecia con “appena” 62 violazioni, un quinto delle nostre, che per contro ce la battiamo alla grande con Romania, Russia, Turchia e Ucraina.

COME STANNO LE COSE. I nostri dati della giustizia, visti con l’occhio europeo, sono devastanti. Ma non basta. Perché peggiorano ancora se mettiamo a fuoco alcuni archivi. Secondo uno storico dell’Eurispes, infatti, dal dopoguerra al 2003 oltre quattro milioni di italiani furono “vittime” della giustizia e i prosciolti nei processi tra il 1980 e il 1994 erano addirittura il 43,94%. Quasi la metà. E allora la domanda è: chi ha mai pagato per questi errori e per le tantissime violazioni dei diritti dell’Uomo commesse dalla nostra giustizia? Chi ha pagato per le ingiuste detenzioni comminate, per le violazioni dell’equo processo, per aver sottratto un bambino illegittimamente ad una famiglia, una volta che tutto questo è stato acclarato? È difficile fare nomi. Ma chi non paga quasi mai pare siano proprio i protagonisti della giustizia, e cioè i magistrati, neppure in sede disciplinare. Almeno secondo i dati emersi in “La legge siamo noi” (Piemme, 2009) di Stefano Zurlo, che prendeva in esame svariati procedimenti disciplinari del Csm e raccontava di toghe trattate a buffetti o addirittura assolte per le vicende più assurde, o ancora di toghe non espulse neanche quando avevano chiesto l’aiuto di un boss. Il tutto mettendo sul piatto numeri pesanti: tra il 1999 e il 2006, su 1010 procedimenti disciplinari, 812 sono finiti con l’assoluzione o il proscioglimento; 126 con l’ammonimento, 38 le censure. Ma solo 22 volte c’è stato un vero provvedimento minimo (rallentamento di carriera) e 6 volte l’espulsione. Ventotto provvedimenti concreti su 1010. Non sarà un po’ poco?

QUARTO GRADO DI GIUDIZIO. In nome dell’indipendenza della magistratura non si è mai voluto mettere mano ad una strutturale riforma della giustizia. E si è lasciato che quello che è un problema serio, diventasse un mero “equivoco” politico: chi voleva la riforma s’intendeva fosse schierato da una parte, chi non la voleva, s’intendeva schierato dall’altra. Facile. Ma l’indipendenza della magistratura in Italia non è solo quella che stabilisce l’autonomia dalla politica e l’essere soggetta solo alla legge. No. L’indipendenza della magistratura in Italia è quella che consente ad un giudice l’interpretazione della legge, perché possa decidere in libera coscienza. Un principio nobile, che tuttavia può portare, ad esempio, un giudice di secondo grado a condannare un imputato con gli stessi, precisi elementi, con cui questi era stato assolto in primo grado. A fargli decidere di non sentire alcuni testimoni che la difesa ritiene cruciali. E a non fargli rispettare i dettami chiari e netti stabiliti dalla Convenzione per i diritti dell’Uomo, che pure l’Italia ha sottoscritto. Senza, nemmeno in questo caso, stando ai dati pubblicati da Zurlo, subire alcuna seria conseguenza nemmeno in sede disciplinare. Non a caso, per mettere una pezza alle continue condanne della Corte di Strasburgo all’Italia per le violazioni dell’equo processo, la Corte Costituzionale ha emanato ad aprile 2011 una clamorosa sentenza: la numero 113. Trattava il caso di Paolo Dorigo, condannato a tredici anni e sei mesi con l’unica prova fornita da due testimoni che però non furono mai controinterrogati in un confronto diretto. Già nel 1998 Strasburgo definì quel processo “iniquo”, ma Dorigo uscì di prigione dopo aver scontato quasi tutta la pena. La Corte Costituzionale, partendo proprio dalla sua lunga vicenda, ha stabilito che se Strasburgo dichiara il processo “iniquo”, è illegittimo non prevederne la revisione: e ha in pratica introdotto un possibile quarto grado di giudizio. Sostanzialmente, in caso di condanna dell’Italia a Strasburgo, il processo potrebbe essere rifatto. Ma forse è tempo che oggi si superi l’equivoco politico. E che qualcuno metta finalmente mano ad una riforma della giustizia capace di risolvere tutte queste contraddizioni: premiando finalmente i magistrati che non sbagliano. E rallentando davvero chi sbaglia troppo.

LO STATO DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.

Lo stato della giustizia in Italia: intervista al giudice fatta da Stefano Lorenzetto e pubblicata su "Il Giornale". Questa sconvolgente intervista è un clamoroso atto di denuncia del sistema giudiziario italiano, fatto da chi, Edoardo Mori, magistrato lo è stato in modo instancabile e apprezzatissimo per 42 anni. Quello che racconta è lo sfacelo totale. Una delle sue dichiarazioni..«Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm». Ed eccone un’altra…«La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». E ancora un’altra...."i periti offrono ai Pm le risposte desiderate, gli forniscono le pezze d’appoggio per confermare le loro tesi preconcette. I Pm non tollerano un perito critico, lo vogliono disponibile a sostenere l’accusa a occhi chiusi. E siccome i periti sanno che per lavorare devono far contenti i Pm, si adeguano".

Edoardo Mori, uno di quegli uomini precisi, scrupolosi e dallo stile impeccabile che sembrano appartenere a un secolo precedente, se ne è andato dalla magistratura con un senso di disgusto. Racconta di come troppe volte si è fatto e viene fatto totalmente carta straccia del diritto. E’ davvero estremamente raro che un Magistrato, specie se ha svolto ruoli importanti, faccia dichiarazioni di questo livello. Ecco perché crediamo che questa intervista vada letta.

Magistrati, alzatevi! Stavolta gli imputati siete voi e a processarvi è un vostro collega, il giudice Edoardo Mori. Che un anno fa, come in questi giorni, decise di strapparsi di dosso la toga, disgustato dall’impreparazione e dalla faziosità regnanti nei palazzi di giustizia. «Sarei potuto rimanere fino al 2014, ma non ce la facevo più a reggere l’idiozia delle nuove leve che sui giornali e nei tiggì incarnano il volto della magistratura. Meglio la pensione». Per 42 anni il giudice Mori ha servito lo Stato tutti i santi i giorni, mai un’assenza, a parte la settimana in cui il figlioletto Daniele gli attaccò il morbillo; prima per otto anni pretore a Chiavenna, in Valtellina, e poi dal 1977 giudice istruttore, giudice per le indagini preliminari, giudice fallimentare (il più rapido d’Italia, attesta il ministero della Giustizia), nonché presidente del Tribunale della libertà, a Bolzano, dov’è stato protagonista dei processi contro i terroristi sudtirolesi, ha giudicato efferati serial killer come Marco Bergamo (cinque prostitute sgozzate a coltellate), s’è occupato d’ogni aspetto giurisprudenziale a esclusione solo del diritto di famiglia e del lavoro. Con un’imparzialità e una competenza che gli vengono riconosciute persino dai suoi nemici. Ovviamente se n’è fatti parecchi, esattamente come suo padre Giovanni, che da podestà di Zeri, in Lunigiana, nel 1939 mandò a farsi friggere Benito Mussolini, divenne antifascista e ospitò per sei mesi in casa propria i soldati inglesi venuti a liberare l’Italia. Mori confessa d’aver tirato un sospirone di sollievo il giorno in cui s’è dimesso: «Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm». Da sempre studioso di criminologia e scienze forensi, il dottor Mori è probabilmente uno dei rari magistrati che già prima di arrivare all’università si erano sciroppati il Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi (1910) e il Manuale del giudice istruttore di Hans Gross (1908). Le poche lire di paghetta le investiva in esperimenti su come evidenziare le impronte digitali utilizzando i vapori di iodio. Non c’è attività d’indagine (sopralluoghi, interrogatori, perizie, autopsie, Dna, rilievi dattiloscopici, balistica) che sfugga alle conoscenze scientifiche dell’ex giudice, autore di una miriade di pubblicazioni, fra cui il Dizionario multilingue delle armi, il Codice delle armi e degli esplosivi e il Dizionario dei termini giuridici e dei brocardi latini che vengono consultati da polizia, carabinieri e avvocati come se fossero tre dei 73 libri della Bibbia. Nato a Milano nel 1940, nel corso della sua lunga carriera Mori ha firmato almeno 80.000 fra sentenze e provvedimenti, avendo la soddisfazione di vederne riformati nei successivi gradi di giudizio non più del 5 per cento, un’inezia rispetto alla media, per cui gli si potrebbe ben adattare la frase latina che Sant’Agostino nei suoi Sermones riferiva alle questioni sottoposte al vaglio della curia romana o dello stesso pontefice: «Roma locuta, causa finita». Il dato statistico può essere riportato solo perché Mori è uno dei pochi, o forse l’unico in Italia, che ha sempre avuto la tigna di controllare periodicamente com’erano andati a finire i casi passati per le sue mani: «Di norma ai giudici non viene neppure comunicato se le loro sentenze sono state confermate o meno. Un giudice può sbagliare per tutta la vita e nessuno gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità diabolica nel suddividere le eventuali colpe in tre gradi di giudizio. Risultato: deresponsabilizzazione totale. Il giudice di primo grado non si sente sicuro? Fa niente, condanna lo stesso, tanto – ragiona – provvederà semmai il collega in secondo grado a metterci una pezza. In effetti i giudici d’appello un tempo erano eccellenti per prudenza e preparazione, proprio perché dovevano porre rimedio alle bischerate commesse in primo grado dai magistrati inesperti. Ma oggi basta aver compiuto 40 anni per essere assegnati alla Corte d’appello. Non parliamo della Cassazione: leggo sentenze scritte da analfabeti». Soprattutto, se il giudice sbaglia, non paga mai. «La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». Il dottor Mori parla con cognizione di causa: ha dovuto subire ben sei provvedimenti disciplinari e tutti per aver criticato l’operato di colleghi arruffoni e incapaci. «Dopo aver letto una relazione scritta per un pubblico ministero pugliese, con la quale il perito avrebbe fatto condannare un innocente sulla base di rivoltanti castronerie, mi permisi di scrivere al procuratore capo, avvertendolo che quel consulente stava per esporlo a una gran brutta figura. Ebbene, l’emerita testa mi segnalò per un procedimento disciplinare con l’accusa d’aver “cercato di influenzarlo” e un’altra emerita testa mi rinviò a giudizio. Ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche contenute nelle sentenze, mi sono dovuto poi giustificare di fronte al Csm. E ogni volta l’organo di autogoverno della magistratura è stato costretto a prosciogliermi. Forse mi ha inflitto una censura solo nel sesto caso, per aver offuscato l’immagine della giustizia segnalando che un incolpevole cittadino era stato condannato a Napoli. Ma non potrei essere più preciso al riguardo, perché, quando m’è arrivata l’ultima raccomandata dal Palazzo dei Marescialli, l’ho stracciata senza neppure aprirla. Delle decisioni dei supremi colleghi non me ne fregava più nulla».

–Perché ha fatto il magistrato?

«Per laurearmi in fretta, visto che in casa non c’era da scialare. Fin da bambino me la cavavo un po’ in tutto, perciò mi sarei potuto dedicare a qualsiasi altra cosa: chimica, scienze naturali e forestali, matematica, lingue antiche. Già da pretore mi documentavo sui testi forensi tedeschi e statunitensi e applicavo regole che nessuno capiva. Be’, no, a dire il vero uno che le capiva c’era: Giovanni Falcone».

–Il magistrato trucidato con la moglie e la scorta a Capaci.

«Mi portò al Csm a parlare di armi e balistica. Ma poi non fui più richiamato perché osai spiegare che molti dei periti che i tribunali usavano come oracoli non erano altro che ciarlatani. Ciononostante questi asini hanno continuato a istruire i giovani magistrati e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma guai a parlar male dei periti ai Pm: ti spianano. Pensi che uno di loro, utilizzato anche da un’università romana, è riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di promezio, elemento chimico non noto in natura, individuato solo al di fuori del sistema solare e prodotto in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10 grammi».

–Per quale motivo i pubblici ministeri scambiano i periti per oracoli?

«Ma è evidente! Perché ».

–Ci sarà ben un organo che vigila sull’operato dei periti.

«Nient’affatto, in Italia manca totalmente un sistema di controllo. Quando entrai in magistratura, nel 1968, era in auge un perito che disponeva di un’unica referenza: aver recuperato un microscopio abbandonato dai nazisti in fuga durante la seconda guerra mondiale. Per ottenere l’inserimento nell’albo dei periti presso il tribunale basta essere iscritti a un ordine professionale. Per chi non ha titoli c’è sempre la possibilità di diventare perito estimatore, manco fossimo al Monte di pietà. Ci sono marescialli della Guardia di finanza che, una volta in pensione, ottengono dalla Camera di commercio il titolo di periti fiscali e con quello vanno a far danni nelle aule di giustizia».

–Sono sconcertato.

«Anche lei può diventare perito: deve solo trovare un amico giudice che la nomini. I tribunali rigurgitano di tuttologi, i quali si vantano di potersi esprimere su qualsiasi materia, dalla grafologia alla dattiloscopia. Spesso non hanno neppure una laurea. Nel mondo anglosassone vi è una tale preoccupazione per la salvaguardia dei diritti dell’imputato che, se in un processo si scopre che un perito ha commesso un errore, scatta il controllo d’ufficio su tutte le sue perizie precedenti, fino a procedere all’eventuale revisione dei processi. In Italia periti che hanno preso cantonate clamorose continuano a essere chiamati da Pm recidivi e imperterriti, come se nulla fosse accaduto».

–Può fare qualche caso concreto?

«Negli accertamenti sull’attentato a Falcone vennero ricostruiti in un poligono di tiro – con costi miliardari, parlo di lire – i 300 metri dell’autostrada di Capaci fatta saltare in aria da Cosa nostra, per scoprire ciò che un esperto già avrebbe potuto dire a vista con buona approssimazione e cioè il quantitativo di esplosivo usato. È chiaro che ai fini processuali poco importava che fossero 500 o 1.000 chili. Molto più interessante sarebbe stato individuare il tipo di esplosivo. Dopo aver costruito il tratto sperimentale di autostrada, ci si accorse che un manufatto recente aveva un comportamento del tutto diverso rispetto a un manufatto costruito oltre vent’anni prima. Conclusione: quattrini gettati al vento. Nel caso dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a Ustica nel 1980, gli esami chimici volti a ricercare tracce di esplosivi su reperti ripescati a una profondità di circa 3.500 metri vennero affidati a chimici dell’Università di Napoli, i quali in udienza dichiararono che tali analisi esulavano dalle loro competenze. Però in precedenza avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di Tnt in un sedile dell’aereo e questa perizia ebbe a influenzare tutte le successive pasticciate indagini, orientate a dimostrare che su quel volo era scoppiata una bomba. Vuole un altro esempio di imbecillità esplosiva?».

–Prego. Sono rassegnato a tutto.

«Per anni fior di magistrati hanno cercato di farci credere che il plastico impiegato nei più sanguinosi attentati attribuiti all’estrema destra, dal treno Italicus nel 1974 al rapido 904 nel 1984, era stato recuperato dal lago di Garda, precisamente da un’isoletta, Trimelone, davanti al litorale fra Malcesine e Torri del Benaco, militarizzata fin dal 1909 e adibita a santabarbara dai nazisti. Al processo per la strage di Bologna l’accusa finì nel ridicolo perché nessuno dei periti s’avvide che uno degli esplosivi, asseritamente contenuti nella valigia che provocò l’esplosione e che pareva fosse stato ripescato nel Benaco dai terroristi, era in realtà contenuto solo nei razzi del bazooka M20 da 88 millimetri di fabbricazione statunitense, entrato in servizio nel 1948. Un po’ dura dimostrare che lo avessero già i tedeschi nel 1945».

–Ormai non ci si può più fidare neppure dell’esame del Dna, basti vedere la magra figura rimediata dagli inquirenti nel processo d’appello di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher.

«Si dice che questo esame presenti una probabilità d’errore su un miliardo. Falso. Da una ricerca svolta su un database dell’Arizona, contenente 65.000 campioni di Dna, sono saltate fuori ben 143 corrispondenze. Comunque era sufficiente vedere i filmati in cui uno degli investigatori sventolava trionfante il reggiseno della povera vittima per capire che sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata squadra distruzione prove. A dimostrazione delle cautele usate, il poliziotto indossava i guanti di lattice. Restai sbigottito vedendo la scena al telegiornale. I guanti servono per non contaminare l’ambiente col Dna dell’operatore, ma non per manipolare una possibile prova, perché dopo due secondi che si usano sono già inquinati. Bisogna invece raccogliere ciascun reperto con una pinzetta sterile e monouso. I guanti non fanno altro che trasportare Dna presenti nell’ambiente dal primo reperto manipolato ai reperti successivi. E infatti adesso salta fuori che sul gancetto del reggipetto c’era il Dna anche della dottoressa Carla Vecchiotti, una delle perite che avrebbero dovuto isolare con certezza le eventuali impronte genetiche di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Non è andata meglio a Cogne».

–Cioè?

«In altri tempi l’indagine sulla tragica fine del piccolo Samuele Lorenzi sarebbe stata chiusa in mezza giornata. Gli infiniti sopralluoghi hanno solo dimostrato che quelli precedenti non erano stati esaustivi. Il sopralluogo è un passaggio delicatissimo, che non consente errori. Gli accessi alla scena del delitto devono essere ripetuti il meno possibile perché ogni volta che una persona entra in un ambiente introduce qualche cosa e porta via altre cose. Ma il colmo dell’ignominia è stato toccato nel caso Marta Russo».

–Si riferisce alle prove balistiche sul proiettile che uccise la studentessa nel cortile dell’Università La Sapienza di Roma?

«E non solo. S’è preteso di ricostruire la traiettoria della pallottola avendo a disposizione soltanto il foro d’ingresso del proiettile su un cranio che era in movimento e che quindi poteva rivolgersi in infinite direzioni. In tempi meno bui, sui libri di geometria del ginnasio non si studiava che per un punto passano infinite rette? Dopodiché sono andati a grattare il davanzale da cui sarebbe partito il colpo e hanno annunciato trionfanti: residui di polvere da sparo, ecco la prova! Peccato che si trattasse invece di una particella di ferodo per freni, di cui l’aria della capitale pullula a causa del traffico. La segretaria Gabriella Alletto è stata interrogata 13 volte con metodi polizieschi per farle confessare d’aver visto in quell’aula gli assistenti Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Uno che si comporta così, se non è un pubblico ministero, viene indagato per violenza privata. Un Pm non può usare tecniche da commissario di pubblica sicurezza, anche se era il metodo usato da Antonio Di Pietro, che infatti è un ex poliziotto».

–Un sistema che ha fatto scuola.

«La galera come mezzo di pressione sui sospettati per estorcere confessioni. Le manette sono diventate un moderno strumento di tortura per acquisire prove che mancano e per costringere a parlare chi, per legge, avrebbe invece diritto a tacere».

–Che cosa pensa delle intercettazioni telefoniche che finiscono sui giornali?

«Non serve una nuova legge per vietare la barbarie della loro indebita pubblicazione. Quella esistente è perfetta, perché ordina ai Pm di scremare le intercettazioni utili all’indagine e di distruggere le altre. Tutto ciò che non riguarda l’indagato va coperto da omissis in fase di trascrizione. Nessuno lo fa: troppa fatica. Ci vorrebbe una sanzione penale per i Pm. Ma cane non mangia cane, almeno in Italia. In Germania, invece, esiste uno specifico reato. Rechtsverdrehung, si chiama. È lo stravolgimento del diritto da parte del giudice».

–Come mai la giustizia s’è ridotta così?

«Perché, anziché cercare la prova logica, preferisce le tesi fantasiose, precostituite. Le statistiche dimostrano invece che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale e che è assurdo andare in cerca di soluzioni da romanzo giallo. Lei ricorderà senz’altro il rasoio di Occam, dal nome del filosofo medievale Guglielmo di Occam».

–In un ragionamento tagliare tutto ciò che è inutile.

«Appunto. Le regole logiche da allora non sono cambiate. Non vi è alcun motivo per complicare ciò che è semplice. Il “cui prodest?” è risolutivo nel 50 per cento dei delitti. Chi aveva interesse a uccidere? O è stato il marito, o è stata la moglie, o è stato l’amante, o è stato il maggiordomo, vedi assassinio dell’Olgiata, confessato dopo 20 anni dal cameriere filippino Manuel Winston. Poi servono i riscontri, ovvio. In molti casi la risposta più banale è che proprio non si può sapere chi sia l’autore di un crimine. Quindi è insensato volerlo trovare per forza schiaffando in prigione i sospettati».

–Ma perché si commettono tanti errori nelle indagini?

«I giudici si affidano ai laboratori istituzionali e ne accettano in modo acritico i responsi. Nei rari casi in cui l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito, l’esperienza dimostra che l’accertamento iniziale era sbagliato. I medici i loro errori li nascondono sottoterra, i giudici in galera. Paradigmatico resta il caso di Ettore Grandi, diplomatico in Thailandia, accusato nel 1938 d’aver ucciso la moglie che invece si era suicidata. Venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e ben 18 perizie medico-legali inconcludenti».

–E si ritorna alla conclamata inettitudine dei periti.

«L’indagato innocente avrebbe più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base a delle perizie. E le risparmio l’aneddotica sulla voracità dei periti».

–No, no, non mi risparmi nulla.

«Vengono pagati per ogni singolo elemento esaminato. Ho visto un colonnello, incaricato di dire se 5.000 cartucce nuove fossero ancora utilizzabili dopo essere rimaste in un ambiente umido, considerare ognuna delle munizioni un reperto e chiedere 7.000 euro di compenso, che il Pm gli ha liquidato: non poteva spararne un caricatore? Ho visto un perito incaricato di accertare se mezzo container di kalashnikov nuovi, ancora imballati nella scatola di fabbrica, fossero proprio kalashnikov. I 700-800 fucili mitragliatori sono stati computati come altrettanti reperti. Parcella da centinaia di migliaia di euro. Per fortuna è stata bloccata prima del pagamento».

–In che modo se ne esce?

«Nel Regno Unito vi è il Forensic sciences service, soggetto a controllo parlamentare, che raccoglie i maggiori esperti in ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a oltre 60 Stati esteri. Rivolgiamoci a quello. Dispone di sette laboratori e impiega 2.500 persone, 1.600 delle quali sono scienziati di riconosciuta autorità a livello mondiale».

–E per le altre magagne?

«In Italia non esiste un testo che insegni come si conduce un interrogatorio. La regola fondamentale è che chi interroga non ponga mai domande che anticipino le risposte o che lascino intendere ciò che è noto al pubblico ministero o che forniscano all’arrestato dettagli sulle indagini. Guai se il magistrato fa una domanda lunga a cui l’inquisito deve rispondere con un sì o con un no. Una palese violazione di questa regola elementare s’è vista nel caso del delitto di Avetrana. Il primo interrogatorio di Michele Misseri non ha consentito di accertare un fico secco perché il Pm parlava molto più dello zio di Sarah Scazzi: bastava ascoltare gli scampoli di conversazione incredibilmente messi in onda dai telegiornali. Ci sarebbe molto da dire anche sulle autopsie».

–Ci provi.

«È ormai routine leggere che dopo un’autopsia ne viene disposta una seconda, e poi una terza, quando non si riesumano addirittura le salme sepolte da anni. Ciò dimostra solamente che il primo medico legale non era all’altezza. Io andavo di persona ad assistere agli esami autoptici, spesso ho dovuto tenere ferma la testa del morto mentre l’anatomopatologo eseguiva la craniotomia. Oggi ci sono Pm che non hanno mai visto un cadavere in vita loro».

–Ma in mezzo a questo mare di fanghiglia, lei com’è riuscito a fare il giudice per 42 anni, scusi?

«Mi consideri un pentito. E un corresponsabile. Anch’io ho abusato della carcerazione preventiva, ma l’ho fatto, se mai può essere un’attenuante, solo con i pregiudicati, mai con un cittadino perbene che rischiava di essere rovinato per sempre. Mi autoassolvo perché ho sempre lavorato per quattro. Almeno questo, tutti hanno dovuto riconoscerlo».

–Non è stato roso dal dubbio d’aver condannato un innocente?

«Una volta sì. Mi ero convinto che un impiegato delle Poste avesse fatto da basista in una rapina. Mi fidai troppo degli investigatori e lo tenni dentro per quattro-cinque mesi. Fu prosciolto dal tribunale».

–Gli chiese scusa?

«Non lo rividi più, sennò l’avrei fatto. Lo faccio adesso. Ma forse è già morto».

Intervistato sul Corriere della Sera da Indro Montanelli nel 1959, il giorno dopo essere andato in pensione, il presidente della Corte d’appello di Milano, Manlio Borrelli, padre dell’ex procuratore di Mani pulite, osservò che «in uno Stato bene ordinato, un giudice dovrebbe, in tutta la sua carriera e impegnandovi l’intera esistenza, studiare una causa sola e, dopo trenta o quarant’anni, concluderla con una dichiarazione d’incompetenza». «In Germania o in Francia non si parla mai di giustizia. Sa perché? Perché funziona bene. I magistrati sono oscuri funzionari dello Stato. Non fanno né gli eroi né gli agitatori di popolo. Nessuno conosce i loro nomi, nessuno li ha mai visti in faccia». Si dice che il giudice non dev’essere solo imparziale: deve anche apparirlo. Si farebbe processare da un suo collega che arriva in tribunale con Il Fatto Quotidiano sotto braccio? Cito questa testata perché di trovarne uno che legga Il Giornale non m’è mai capitato. «Ho smesso d’andare ai convegni di magistrati da quando, su 100 partecipanti, 80 si presentavano con La Repubblica e parlavano solo di politica. Tutti espertissimi di trame, nomine e carriere, tranne che di diritto».

–Quanti sono i giudici italiani dai quali si lascerebbe processare serenamente?

«Non più del 20 per cento. Il che collima con le leggi sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano almeno l’80 per cento dell’umanità, come documenta Gianfranco Livraghi nel suo saggio Il potere della stupidità».

–Perché ha aspettato il collocamento a riposo per denunciare tutto questo?

«A dire il vero l’ho sempre denunciato, fin dal 1970. Solo che potevo pubblicare i miei articoli unicamente sul mensile Diana Armi. Ha chiuso otto mesi fa».

LA MALAGIUSTIZIA E L’ODIO POLITICO. LA VICENDA DI GIULIO ANDREOTTI.

6 maggio 2013 muore Giulio Andreotti. Le frasi celebri di Giulio Andreotti:

- "Il potere logora chi non ce l'ha";

- "Nella sua semplicità popolare, il cittadino non sofisticato, passando davanti al Parlamento o ai ministeri, è talora indotto a porre il dubbio che sia proprio lì che si governa l'Italia";

- "Se fossi nato in un campo profughi del Libano forse sarei diventato anch'io un terrorista";

- "A parte le guerre puniche mi viene attribuito veramente di tutto";

- "L'umiltà è una virtù stupenda, ma non quando si esercita nella dichiarazione dei redditi";

- "Amo talmente la Germania che ne vorrei due";

- "I miei amici che facevano sport sono morti da tempo";

- "Aveva uno spiccato senso della famiglia, al punto che ne aveva due ed oltre";

- "I pazzi si distinguono in due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare le Ferrovie dello Stato";

- "Meglio tirare a campare che tirare le cuoia";

- "Essendo noi uomini medi le vie di mezzo sono per noi le più congeniali";

- "La cattiveria dei buoni è pericolosissima";

- "Non basta avere ragione, serve avere anche qualcuno che te la dia";

- "Assicuro la mia collega che tra un pranzo e l'altro non prenderò cibo" (a Franca Rame che stava facendo lo sciopero della fame);

- "Clericalismo? La confusione abituale tra quel che è di Cesare e quel di Dio";

Storia d'Italia e di Andreotti. Da De Gasperi a Caselli, racconti e fatti (divisi per decenni) del politico che ha fatto la storia del nostro paese, scrive Stefano Vespa su “Panorama”. Due persone hanno segnato più di altre la lunga vita di Giulio Andreotti: Alcide De Gasperi e Gian Carlo Caselli. L’accostamento può apparire eccessivo, eppure si stenta a trovare una sintesi diversa di 70 anni di storia italiana, anzi andreottiana, cominciata da giovanissimo sottosegretario dello statista dc nel Dopoguerra e conclusa con gli echi dei processi per mafia cui Andreotti è stato sottoposto dagli anni Novanta. Ma ogni decennio lo ha visto protagonista.

Dai Quaranta ai Sessanta. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio a 28 anni, nel 1946, e ministro per la prima volta a 36 anni, nel 1954, quando guidò il Viminale, Andreotti in quegli anni badò al suo collegio nel Frusinate e a costruire la sua corrente all’interno della Democrazia cristiana, corrente conservatrice e molto vicina al Vaticano. Gli anni Sessanta sono anche gli anni dello scandalo Sifar e del piano Solo, il tentato golpe del generale Giovanni De Lorenzo, scandalo che scoppiò mentre Andreotti era ministro della Difesa. E proprio dalla distruzione dei dossier del Sifar (il servizio segreto militare) nacque una delle tante polemiche che ha caratterizzato la sua vita, mentre continuavano le guerre sotterranee tra le correnti scudocrociate.

Settanta, gli anni di piombo. Un decennio terribile: gli anni di piombo, l’omicidio Moro, la morte di due Papi, il compromesso storico e il governo della “non sfiducia”, progenitore delle attuali “larghe intese”, mentre il mondo era dominato dalla Guerra fredda. Andreotti ha vissuto da protagonista quel periodo. Presidente del Consiglio per la prima volta nel 1972, ha dovuto confrontarsi (insieme con gli altri leader dc) con la costante ascesa del Partito comunista e con la contemporanea evoluzione della società, il cui simbolo è stato il referendum sul divorzio del 1974. La proposta di compromesso storico tra i due grandi partiti popolari, Dc e Pci, avanzata su Rinascita da Enrico Berlinguer subito dopo il golpe cileno del settembre 1973, e di cui ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario, avrebbe attraversato la politica italiana fino al luglio 1976. Caduto il governo Moro, dopo il grande successo del Pci alle elezioni politiche fu proprio Andreotti a presiedere nel luglio di quell’anno il primo governo della “non sfiducia”, un monocolore dc con l’appoggio esterno di quello che si definiva “arco costituzionale”: tutti (anche il Pci) tranne il Msi. E un filo strettissimo legò Andreotti alla tragedia Moro. Dopo la caduta di quel governo, fu proprio Aldo Moro a tessere la tela di nuove “larghe intese” e certamente non fu un caso che venne rapito il 16 marzo, mentre stava andando a Montecitorio per la fiducia che un altro governo Andreotti avrebbe, comunque, di lì a poco ottenuto ancora una volta con l’astensione del Pci. Erano gli anni della “strategia dei due forni”, una delle “invenzioni” andreottiane: la Dc, era la tesi, doveva alternativamente scegliere di accordarsi con il Pci o con Psi a seconda delle convenienze del momento. Tesi che, ovviamente, non piacque molto a Bettino Craxi, dal 1976 segretario socialista.

Ottanta, gli anni del Caf. Quel camper è passato alla storia. Durante il congresso del Psi nel gennaio 1981 Bettino Craxi e Arnaldo Forlani stilarono appunto il “patto del camper” da cui nacque il pentapartito (che univa anche Psdi, Pli e Pri) grazie al quale i partiti laici entravano nell’alternanza di governo. Andreotti “benedì” l’accordo che sancì la nascita del Caf, acronimo dei cognomi dei tre leader. Quelli furono però anche anni difficili sul fronte internazionale, molto prima della caduta del Muro di Berlino. Andreotti era ministro degli Esteri quando ci fu la crisi di Sigonella con gli Stati Uniti nella quale il premier, Bettino Craxi, com’è noto mostrò il polso di ferro impedendo agli americani di arrestare sul territorio italiano i dirottatori dell’Achille Lauro. Se fu Craxi il personaggio centrale di quelle convulse ore, Andreotti, che ne condivise le scelte, è stato alcune volte criticato per una politica estera considerata troppo filoaraba. In un’intervista l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini disse che in realtà era nello stesso tempo filoisraeliano: la sostanza stava nella posizione geostrategica della Penisola, collocata tra “l’acqua santa e l’acqua salata” come spiegò negli anni successivi lo stesso Andreotti con la consueta ironia.

Novanta, dal sogno Quirinale ai processi. Gli anni Novanta erano cominciati bene perché nel 1991 Andreotti fu nominato senatore a vita. Ma l’anno successivo cambiò tutto: mentre cominciava Mani pulite (che non l’ha mai sfiorato), coltivò il sogno della presidenza della Repubblica sperando di succedere a Francesco Cossiga, dimessosi alla fine di aprile. La notizia della strage di Capaci, con la morte di Giovanni Falcone e della moglie Francesca Morvillo, lo raggiunse nel suo studio. Lo videro impallidire e capì che non sarebbe mai andato al Quirinale. Mandò i suoi collaboratori più stretti dai vertici del Pds: il sottosegretario Nino Cristofori avvertì Claudio Petruccioli, braccio destro di Achille Occhetto, e il portavoce Stefano Andreani si recò da Luciano Violante. “L’attentato è stato fatto per bloccarmi” fece dire Andreotti. Dei processi per mafia si continuerà a scrivere per anni. Gian Carlo Caselli, oggi procuratore di Torino, si insediò a Palermo il 15 gennaio 1993, proprio il giorno in cui fu arrestato Totò Riina. E nei mesi immediatamente successivi la procura di Palermo cominciò a indagare su Andreotti per i suoi presunti rapporti con Cosa nostra. Tra feroci polemiche e incredulità e dopo un’assoluzione in primo grado nell’ottobre 1999, Andreotti fu condannato in appello per associazione per delinquere fino al 1980, reato ormai prescritto, mentre fu confermata l’assoluzione per gli anni successivi. Caselli aveva lasciato la procura di Palermo nel luglio 1999, pochi mesi prima dell’assoluzione di Andreotti. Molti videro nella scelta la consapevolezza che anni di indagini e di veleni non avrebbero prodotto il risultato sperato (dalla procura), anche se ovviamente Caselli ha sempre negato. Andreotti fu poi assolto anche dall’accusa di omicidio del giornalista Mino Pecorella: la Cassazione nel 2002 annullò senza rinvio la condanna in appello, confermando l’assoluzione in primo grado. Nella ventennale guerra tra politica e giustizia, però, l’inchiesta palermitana è una pietra miliare: da un lato una procura convinta di aver trovato il “terzo livello”, i capi politici della mafia; dall’altro un imputato modello incredulo, ma rispettoso della giustizia. Certamente i riconosciuti contatti fino al 1980 confermano un modo di fare politica che dimostrava una sottovalutazione del fenomeno mafioso. Nello stesso tempo, insistere sul bacio a Riina è stata a sua volta la prova di voler credere a qualunque episodio pur di poter brandire una condanna. Molto politica, prima che giudiziaria. Gli ultimi anni. Le assoluzioni, arrivate “in vita” come da lui auspicato, lo hanno fatto tornare ai suoi studi e alla politica. Non quella attiva, ma quella parlamentare. Sempre presente in aula e nella “sua” commissione Esteri del Senato, dove ascoltava e veniva ascoltato con attenzione. La sua vita andrà ancora studiata a fondo, se si vorrà davvero capire l’Italia.

Ospite della puntata di lunedì 6 maggio 2013, di Un giorno da pecora, programma radiofonico in onda su Radio 2, è stato Vittorio Sgarbi, l'irriverente polemista che ha fatto del turpiloquio un marchio di fabbrica. Su Giulio Andreotti, scomparso proprio oggi, dice: "Sono stato il primo a difendere Andreotti dai magistrati, non lo riceveva più nessuno a parte il Vaticano", rivela. Riguardo le accuse di mafia che spesso hanno lambito Andreotti, il critico d'arte afferma: "La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Per tacitare l'irruento Sgarbi, il conduttore Claudio Sabelli Fioretti ha invitato in trasmissione anche la mamma, l'87enne Rina Cavallini, l'unica a riuscire a zittire Sgarbi, che la ascolta in religioso silenzio. Sul rapporto con la madre confida: "Mia madre pensava fossi stupido perché fino a due anni non parlavo. Poi, quando ho iniziato...". Quindi spiega il motivo dei suoi sbrocchi in televisione: "Mi incazzo quando il mio interlocutore fa ragionamenti illogici o stupidi".

L'immortale distrutto dai pm e ucciso dall'Italia dell'odio. L'inchiesta di Palermo per collusioni mafiose fu un processo politico mascherato: fu abbandonato da tutti quelli che erano certi della sua condanna. E i forcaioli non lo lasciano riposare in pace neppure nel giorno della scomparsa, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Giulio Andreotti è morto due volte: una biologicamente il 6 maggio 2013; l'altra, moralmente e politicamente, vent'anni prima il 27 marzo 1993. Fu allora infatti che una azione violenta lo travolse mascherando da regolare indagine giudiziaria una contrapposizione etica e ideologica. Andreotti è il simbolo dell'Italia che non trova pace e verità neanche nel giorno della scomparsa di un uomo di 94 anni. Sono di ieri sera le accuse vergognose di quella parte di Paese che ha approfittato della sua morte per colpirlo ancora, per rilanciare pettegolezzi infamanti, frutto di una perversione fanatica paragonabile a quella che negli stessi giorni del 1993 sconvolgeva l'Algeria. Accosto due situazioni così lontane, di entrambe le quali fui testimone attivo, perché nel 1994, presidente della commissione Cultura della Camera dei deputati, vennero a trovarmi l'ambasciatore e alcuni esponenti politici «laici» dell'Algeria mostrandomi fotografie raccapriccianti di violenze e stragi con madri e bambini uccisi con efferata crudeltà, teste e arti mozzi, sventramenti: uno scenario di guerra. Non mi risultavano conflitti in Algeria e chiesi ragioni di tanta violenza. Mi fu spiegato che si trattava di un «regolamento dei conti» fra musulmani e musulmani, tra fanatici religiosi e osservanti moderati ancora legati alla tolleranza derivata dagli anni dell'occupazione francese. La matrice della violenza era chiara. Dopo l'indipendenza il ripristino delle tradizioni aveva determinato una riabilitazione religiosa attraverso alcuni maestri inviati dall'Iran a insegnare le leggi del Corano nelle Madraze. I bambini educati in quelle scuole a una concezione religiosa integra e pura sarebbero diventati, una volta adulti, titolari di un rigore e delle conseguenti azioni punitive contro i non abbastanza osservanti. Perché faccio questo parallelo? Perché, gli anni della contestazione studentesca, a partire dal 1968, e ancor prima con la denuncia delle «trame» del Palazzo da parte di Pier Paolo Pasolini, avevano fatto crescere una generazione convinta di dover cambiare il mondo e di dover abbattere i santuari, fra i quali la Democrazia cristiana e i suoi inossidabili esponenti. Da questo clima derivò, ovviamente, l'assassinio di Aldo Moro (ma già allora l'obbiettivo doveva essere il meglio protetto Andreotti) attraverso un vero e proprio processo alla Democrazia cristiana da parte delle Brigate Rosse. Forme estreme, violente, ma radicate nella convinzione che il potere politico fosse dietro qualunque misfatto: stragi di Stato, mafia, servizi segreti, P2. Con la P2, colossale invenzione di un magistrato, senza un solo condannato (sarebbe stato difficile, essendovi fra gli iscritti, il generale Dalla Chiesa, Roberto Gervaso, Maurizio Costanzo, Alighiero Noschese, per le comiche finali), cominciò l'interventismo giudiziario, per riconoscere i metodi del quale dovrebbe essere letta nelle scuole la sentenza di Cassazione che proscioglie tutti gli imputati dall'accusa di associazione segreta e da ogni altra responsabilità penalmente rilevante. L'inchiesta fu così rumorosa che ancora oggi «piduista» è ritenuta un'ingiuria. E, con tangentopoli e la fine di Craxi, arrivò anche il momento di Andreotti, che non poteva essere colpito per corruzione o per finanziamenti illeciti. Così, con perfetto coordinamento, l'azione partì da Palermo. Andreotti, come avviene nelle rivoluzioni, fu accusato di tutto: di associazione mafiosa e di assassinio. Quelle accuse che ieri hanno imperversato per tutta la giornata: internet e soprattutto i social network hanno vomitato odio ripescando le storie di quegli anni senza possibilità di contraddittorio e dando per verità assodate le congetture dei magistrati. Giornali come il Fatto Quotidiano, rappresentanti dell'Italia giustiziera, hanno parlato del processo distorcendo la verità. Fa ridere che si parli tanto di pacificazione politica per gli ultimi vent'anni quando Andreotti è vittima persino da morto del contrario della pace, cioè dell'odio. Quello di Palermo non era un processo letterario, non era un processo alla storia, ma un vero e proprio processo penale. Quello che non era cambiato era Caselli, il pubblico ministero, che, come tutti noi, da studente all'università, da militante di partito, aveva sempre visto Andreotti come Belzebù, come il «grande vecchio», e non poteva lasciarsi sfuggire l'occasione di poterlo processare veramente, da magistrato. La mafia voleva far pagare ad Andreotti la indisponibilità di intercorsa trattativa dopo anni, per tutti i partiti, di implicazioni e di sostegni elettorali. Ma perché solo ad Andreotti e non ai tanti altri rappresentanti politici? Il processo allo Stato doveva essere esemplare, non diversamente da quello rivoluzionario che portò alla morte di Moro. Ma questa volta non erano le Brigate Rosse, era un vero e proprio tribunale della Repubblica con pubblici ministeri e giudici veri. E di cosa dibattevano come prova regina? Del bacio tra Andreotti e Riina a casa di uno dei Salvo. Intanto, tutto appariva a me irrituale e irregolare. Ogni giorno, con pochissimi altri (uno dei quali il coraggioso Lino Iannuzzi), notavo incongruenze e contraddizioni. Perché Andreotti doveva essere processato a Palermo come capo corrente di un partito quando tutta l'attività politica si era svolta a Roma e il suo collegio elettorale era stato in Ciociaria? Dopo essere stato bruciato dal Parlamento come presidente della Repubblica, fu indagato dalla magistratura a Perugia per l'omicidio Pecorelli e a Palermo per associazione mafiosa. Per dieci anni si difese, essendo di fatto degradato da deputato a imputato, e perdendo ogni ruolo politico. In quegli anni fu abbandonato da tutti che erano certi, indipendentemente dalla colpa, della sua condanna. Ma la condanna è il processo stesso. Andreotti era diventato un appestato, non meritevole di alcuna continuità intellettuale o politica. Andreotti era il «Male». In certi momenti, quando smontavo nella mia trasmissione «Sgarbi quotidiani» alcune ridicole accuse care a Caselli, come quella di essersi recato in visita a un mafioso, a Terrasini, alla guida di una Panda (lui che probabilmente non aveva patente), mi sembrava che ogni limite fosse superato, e pure il senso del ridicolo. Ma mi sbagliavo: tutto era maledettamente vero. Alla fine fu assolto. Ma la formula non poteva essere più ambigua per non penalizzare il suo accusatore. Così si inventò che i reati contestati a Andreotti fino al 1980 erano prescritti, e lui risultava assolto soltanto per quelli che gli erano stato attribuiti dall'80 al '92. Una assoluzione salomonica per non sconfessare il grande accusatore. Ma ingiusta e insensata. Perché ciò che è prescritto non può essere considerato reato, in assenza di quella verità giudiziaria che si definisce soltanto con il dibattimento che, a evidenza, a reati prescritti, non vi fu. E intanto Andreotti assolto, con riserva, era già morto. E oggi nel coro di quelli che lo rimpiangono e lo onorano mancano le scuse e il pentimento di quelli che lo avevano accusato fantasiosamente e ingiustamente in nome della lotta politica. Quindi non della giustizia.

Il paradiso può attendere, aveva detto a metà ottobre citando il famoso “Heaven can wait” di Warren Beatty e Buck Henry, scrive Paolo Guzzanti su “Panorama”. Ma stavolta il cielo si è stancato di aspettare e non ha concesso proroghe. E così, dopo Francesco Cossiga che a confronto è morto giovane, il grande Giulio, il divo Giulio, l’uomo più sospettato e più esaltato della politica italiana, l’enigmatico, l’astuto, quello di cui Craxi diceva “tutte le volpi finiscono in pellicceria”, ha sgombrato il campo della storia viva, per andare ad abitar d’ora in più nella storia stampata, filmata, certificata, ma non più viva. Non c’è niente di peggio quando muore un personaggio importante, di un cronista che comincia con l’avvertire che “io lo conoscevo bene”. Ma il fatto è che io lo conoscevo veramente bene e lui mi conosceva altrettanto bene e non ci piacevamo moltissimo. L’ultima grande performance Andreotti l’ha infatti prodotta sul piccolo proscenio della Commissione parlamentare d’inchiesta Mitrokhin di cui sono stato per quattro anni il presidente e lui, Giulio, per quattro anni un commissario assiduo, puntiglioso, provocatorio, divertente, odioso, sempre dalla parte della Russia sovietica e dunque anche in quell’occasione beniamino dei comunisti che nella commissione Mitrokhin si proponevano il compito di ostacolare in ogni modo e impedire ridicolizzando, che si arrivasse a trovare la verità sugli agenti sovietici in Italia, intendendosi per agenti non le spie, ma proprio coloro che agivano come agenti di influenza. Andreotti era lì, pronto alla rievocazione, pronto alla battuta, pronto a sabotare con armi sottilissime tutto il lavoro costruttivo che facevamo. L’ex ministro degli esteri di Gheddafi mi disse a Tripoli durante una pausa dei nostri lavori durante l’incontro con la Commissione Esteri: “Se c’è un uomo che noi in Italia abbiamo sempre adorato, veramente adorato oltre che rispettato, è il vostro Giulio Andreotti, che dio lo protegga e lo benedica”. Pensavo si riferisse soltanto al notissimo e in qualche caso sfacciato atteggiamento filo arabo del senatore a vita, ma non si trattava soltanto di questo: “Lui era qui con noi quella sera in cui a Mosca annunciarono la fine dell’Unione Sovietica e ammainarono la bandiera rossa dal Cremlino. Noi piangevamo, eravamo commossi e anche disperati. Andreotti era terreo, traumatizzato. Poi disse: da adesso il mondo sarà molto diverso e non sarà certamente migliore perché sarà un mondo americano”. Questa sua affermazione fa un po’ il paio con quella dei tempi in cui, caduto il muro di Berlino, si prospettava la riunificazione tedesca, disse: “Io amo talmente i tedeschi che di Germanie ne vorrei sempre almeno due”. Il suo credo politico era quello del debito pubblico senza troppi freni e navigare a vista, usando buon senso e una certa sfacciataggine unita a cinismo. Se fu riconosciuto colpevole di aver intrattenuto rapporti di reciproco rispetto e qualcosa di più con la mafia almeno per un certo periodo, ciò ha senso: Andreotti rispettava i poteri costituiti e la mafia era un antico marchio di fabbrica di potere costituito. E poi, come disse in un’altra circostanza “è sempre meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Ricordo personale: la madre di mia madre e la madre di Giulio, Rosa Andreotti, erano molto amiche perché avevano entrambe avuto i loro figli al Collegio degli Orfani in via degli Orfani. La loro amicizia si estese ai figli: mia madre, mio zio e lui, Giulio, anche perché vivevano tutti nella stessa magnifica strada, via Parione nel quartiere Parione di Roma, alle spalle di piazza Navona. Mia nonna mi raccontava che Rosa Andreotti parlando del figlio bambino diceva: “Questo figlio non è normale, non somiglia agli altri bambini. Ha qualcosa dentro di sé che non capisco, che nessuno capisce. O sarà disperato o diventerà qualcuno”. Mia madre mi raccontava che il piccolo Giulio evitava tutti i giochi che impegnavano il fisico, come correre, e aveva sempre un taccuino in tasca per fare il giornalista. Così un paio di volte l’anno capitava a casa nostra per un caffè e io diffidavo moltissimo di questa presenza e speravo che se ne andasse presto perché ero un tipico adolescente di sinistra e Andreotti sembrava già allora il devoto Satana che poi è stato dipinto. Se uno scorre le foto della sua vita vede che è stato un uomo attentissimo alla vita cinematografica, amico stretto di Federico Fellini il quale lo considerava una parte essenziale del paesaggio italiano, ma anche in senso positivo. Frequentava le attrici, gli attori, i set cinematografici, aveva i capelli nerissimi imbrillantinati e pettinati all’indietro come Rodolfo Valentino e benché avesse la gobba, aveva anche un suo charme, un certo sex appeal. Era un uomo di destra all’inizio della carriera (il politico più longevo, con più incarichi di governo, una eterna carriera parlamentare) e veniva dalla nidiata di Alcide de Gasperi che lo volle giovanissimo sottosegretario nel pieno della guerra fredda, con un’Italia che sapeva di polvere e macerie e che era tutta da ricostruire, ma che già godeva, si industriava, costruiva e attraversava il boom economico, la magica crescita che proiettò il Paese dalla preistoria della guerra al XX secolo dell’industria, dell’arte, del reddito, della Seicento Fiat e delle autostrade, della commedia all’italiana, del cinema leggero e un po’ ignorante, e Andreotti era sempre ovunque. Poi lui chiuse personalmente la sua guerra fredda e diventò lentamente ma con costanza il divo dei comunisti italiani. Condivideva con Cossiga questa passione per gli ex nemici: i comunisti, compresi quelli russi, erano per lui, per loro, gente carismatica, muta, pesante, importante, spartana e allo stesso tempo ricca per le grandi risorse minerarie dell’allora Unione Sovietica. Cominciò così la marcia di avvicinamento di Andreotti al Pci di Enrico Berlinguer e i due insieme vararono la bozza di quel patto politico rischiosissimo che poi si è chiamato “compromesso storico” e sul cui altare Aldo Moro ha lasciato la pelle. La storia del Compromesso storico è la storia stessa di Andreotti. Aldo Moro accettò di aprire in piena guerra fredda ai comunisti, contando su un accordo di massima con gli americani. I termini di questo accordo sono stati pubblicati da Maurizio Molinari e Paolo Mastrolilli per Laterza nel settembre del 2005 e consiste in una raccolta di documenti fondamentali che mostra come gli Stati Uniti fossero estremamente e positivamente interessati al Compromesso storico, purché il Pci si sganciasse una volta per tutte dall’Urss, rompesse con il dovuto clamore accettando la prevedibile scissione, ed entrasse a pieno titolo nel novero dei partiti democratici italiani indispensabili per il ricambio della classe dirigente. E’ importante ricordarlo perché poi è stata fatta passare la vulgata secondo cui Moro voleva fare il compromesso storico con Berlinguer, ma la Cia lo fece rapire da brigatisti rossi controllati da Langley, Virginia, per far fallire l’eroico progetto. Secondo il progetto originale invece, di cui Andreotti fu un notaio e non l’unico, Moro doveva diventare presidente della Repubblica dopo Giovanni Leone e garantire dal Quirinale l’intera operazione. Andreotti sarebbe diventato il presidente del Consiglio del primo governo sostenuto in Parlamento del Patito comunista e a quel primo passo avrebbe dovuto far seguito il taglio del cordone ombelicale con Mosca e un secondo governo, benedetto anche dai Paesi della Nato, con ministri comunisti. L’attacco di via Fani, la prigionia interrogatorio e l’esecuzione di Aldo Moro, misero fine al progetto. Al Quirinale andò Sandro Pertini, ma Andreotti decise di resistere sulla vecchia linea e di dare comunque vita con i comunisti al nuovo governo con il loro appoggio determinante e ufficiale. Questo esperimento nacque nel sangue e visse poco e male. I comunisti erano molto spaventati da quel che era successo e non vollero tagliare con Mosca, dove i dirigenti del Pci seguitarono a ritirare ogni anno un gigantesco finanziamento illegale che drogava la politica italiana, anche perché costituiva un alibi per tutti coloro che in Italia erano disposti a commettere illeciti con la scusa di finanziare il proprio partito. Poi i comunisti decisero di chiudere la partita e si ritirarono definitivamente. Ma Giulio Andreotti non mollò. La mia impressione (molto più di una impressione) è che sia lui che Cossiga fecero non soltanto il possibile, ma specialmente l’impossibile per salvare la vita a Moro accettando accordi che poi saltarono perché la controparte era decisa a liquidare l’ostaggio e lo fece. Quegli eventi non sono mai stati ben chiariti e io penso che la devastazione della Commissione Mitrokhin di cui Andreotti fu parte attiva controllando strettamente ogni fase dell’inchiesta, fosse dovuta proprio al fatto che eravamo arrivato al nocciolo della questione. Andreotti lo sapeva, lo temeva e non per caso il suo amico Cossiga lo volle nominare a sorpresa senatore a vita per neutralizzarlo e promuoverlo su uno scranno dal quale non avrebbe più fatto politica. Il processo di Palermo per i pretesi rapporti con Cosa Nostra fu una sorta di corollario di quelle vicende. Andreotti si lasciò processare docilmente, scrisse molti libri sostenendo che doveva pagarsi gli avvocati, fra cui il professor Coppi, per difendersi e fu sempre lì, a Palermo, pienamente a disposizione su quei banchi, come lo era stato davanti a me per quattro anni nella Commissione Mitrokhin. Difendeva un passato, certamente ha difeso fino alla morte con Cossiga e come Cossiga il segreto su ciò che realmente accadde durante i cento giorni del rapimento Moro ed ebbe modo di sviluppare sempre la sua politica filo araba, diventando così la bestia nera degli israeliani. Lo andai a trovare più volte nel suo studio in piazza San Lorenzo in Lucina, dove andava ogni mattina prestissimo. Lì riceveva giornalisti, politici, industriali, gente di cultura e gente decisamente lontana dalla cultura. Io penso che sapesse qualcosa in più, qualcosa che anche io ho sospettato e di cui ho scritto molto, sulle vere ragioni che possono aver fatto scattare la decisione di uccidere Falcone quando non era più un nemico sul campo della mafia, ma un alto burocrate romano del ministero di Grazia e Giustizia. Quando il mio amico Giancarlo Lehner annunciò l’intenzione di voler scrivere della collaborazione di Falcone con i giudici russi, il procuratore generale Stepankov in particolare, per indagare sul tesoro del Kgb e del Pcus portato in Italia per essere riciclato sotto la protezione di alte figure della finanza, Andreotti lo mandò a chiamare e gli ricordò di avere lui stesso, come ministro degli esteri, inviato dei fonogrammi a Mosca per facilitare gli incontri segreti di Falcone. Gli disse che per lui avrebbe recuperato quei fonogrammi che avrebbero costituito la prova scritta di quel che stava facendo Falcone quando fu eliminato. Lo richiamò qualche giorno dopo per dirgli: “Alla Farnesina mi dicono che hanno perso quei documenti. Ora, alla Farnesina non hanno mai perso nulla e mai si perde nulla. Lo prenda come un messaggio: lasci perdere la sua inchiesta e passi ad altro, sarà più salutare per lei”.

"I miei 11 anni di imputato per mafia". Un'intervista rivelatrice al sette volte presidente del Consiglio dopo l'assoluzione del 2004 rilasciata a  Maurizio Tortorella e pubblicata su Panorama del 21 ottobre 2004. Tremilaottocentoquarantadue giorni: tanto è durata la vicenda giudiziaria di Giulio Andreotti, senatore a vita, sette volte presidente del Consiglio, accusato d'omicidio a Perugia e d'associazione mafiosa a Palermo. Il 15 ottobre la Cassazione lo ha liberato definitivamente per la seconda volta: a 84 anni, 11 dei quali trascorsi da imputato, Andreotti non è né il mandante dell'assassinio del giornalista Mino Pecorelli, né il sodale dei mafiosi siciliani. Anche dopo l'assoluzione, però, le polemiche non si sono placatew. Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo e magistrato simbolo del processo palermitano ad Andreotti, insiste: «È stato mafioso» scrive sulla Stampa, assicurando che la Cassazione ha «confermato che fino al 1980 l'imputato ha commesso il reato di associazione con i boss dell'epoca». Franco Coppi e Giulia Bongiorno, i due penalisti del senatore, gli rispondono che «è oggettivamente impossibile prevedere che cosa scriverà la Cassazione: non ci sono le motivazioni. Ma il procuratore generale della Cassazione ha chiesto di modificare proprio quel punto della sentenza d'appello». Lui, Andreotti, sul tema non parla. Il giorno dell'assoluzione si è detto felice d'essere arrivato vivo alla fine dei suoi processi. Poi non ha aggiunto molto. Panorama lo ha intervistato in esclusiva.

Vuole fare un bilancio esistenziale dei suoi due processi?

«Li ho vissuti con amara sorpresa, anche per il modo ambiguo con cui è nato il secondo, quello di Palermo. Ma, ringraziando Dio, ho resistito.»

Perché crede di essere stato sottoposto a questo calvario giudiziario?

«Forse ero da troppo tempo ballerina di prima fila e c'era chi voleva cambiare del tutto lo spettacolo.»

Lei ha parlato di un «mandante occulto»: chi è? S'è accennato ad ambienti americani: è partito tutto oltreoceano? O pensa a suoi avversari politici in Italia?

«Un mandante occulto: che vi sia ciascun lo dice... con quel che segue. Qualche venatura d'oltreoceano c'è, ma non governativa. C'è un pentito, o meglio, spero che lo sia, a doppio servizio.»

Di quale pentito parla?

«Francesco Marino Mannoia: collabora con la giustizia italiana e con quella americana e mi incuriosisce. Quanto agli Stati Uniti, però, ho avuto in processo la testimonianza molto gratificante di tre ambasciatori degli Stati Uniti: Maxwell Rabb, Peter Secchia e Vernon Walters. E questo è più che sufficiente.»

Per il suo processo palermitano lei ha attribuito qualche responsabilità a Luciano Violante. Conferma?

«Certamente fu lui a dare corso a una telefonata anonima, investendo il tribunale di Palermo che non c'entrava niente. Ma non porto rancore a nessuno. La Scrittura dice: «Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva».»

Dopo l'assoluzione lei ha dichiarato: «Qualcuno, da oggi, dormirà un po' meno tranquillo». A chi si riferiva? Ai pm di Palermo? Ai mafiosi pentiti che l'hanno accusata? O al «mandante occulto»?

«Lasciamo perdere. Lo strano di questa vicenda è la sua prefabbricazione: nella sentenza di rinvio a giudizio a Palermo si dice: «Dopo due udienze». Ma l'udienza fu una sola. Avevano preparato prima il modulo?»

Cosa direbbe al suo primo accusatore, Tommaso Buscetta, se fosse vivo?

«Buscetta non mi attribuì mai il delitto Pecorelli: è stata una montatura altrui. Comunque, Dio l'abbia in gloria.»

Nell'assoluzione resta la macchia della prescrizione per i suoi presunti collegamenti mafiosi fino alla primavera del 1980. Spera che le motivazioni possano portare qualche sorpresa positiva per lei?

«Certamente lo spero. Quel che mi ha colpito di più, in Cassazione, sono state le parole del procuratore generale, Mauro Iacoviello. Abituato da anni a pm che si schieravano sempre a sostegno dell'ipotesi accusatoria, sono rimasto favorevolmente impressionato da un rappresentante dell'accusa che invece l'ha demolita pezzo per pezzo, chiedendo addirittura il rigetto del ricorso dei suoi colleghi pm. Ma Iacoviello ha anche attaccato proprio la parte della sentenza d'appello relativa alla prescrizione, in cui si ritiene provato l'incontro alla tenuta di caccia.»

Lei parla del famoso, presunto incontro tra lei e il boss Stefano Bontate nella sua tenuta di caccia nel Catanese?

«Sì. Il pentito Angelo Siino aveva indicato la data dell'incontro tra fine giugno e inizio luglio 1979. Io ho dimostrato la mia impossibilità di essere in Sicilia in quel periodo: ero in Giappone e in Russia. Il tribunale m'ha dato ragione. In appello i pm hanno detto che Siino s'era sbagliato. Già questo mi sembra piuttosto anomalo come argomento: se il pentito viene smentito, che senso ha dire che ha sbagliato solo le date? Ma comunque i miei avvocati hanno chiesto di produrre tutti i documenti diretti a provare dove mi trovassi in tutte le altre possibili date diverse da quelle indicate da Siino. Ero presidente del Consiglio e quindi potevo agevolmente ricostruire i miei impegni. La documentazione non è stata accettata, ma la sentenza d'appello afferma che l'incontro potrebbe essere avvenuto in un altro momento. Cioè in una data in cui avrei potuto dimostrare che ero altrove. E per questo il procuratore generale ha parlato di violazione di diritto di difesa.»

Caselli, però, sostiene che la Cassazione ha «confermato l'accusa di un Andreotti mafioso fino al 1980».

«Non voglio rispondergli. Per me il processo è finito. Ho cose molto più serie da fare. L'assoluzione ha smentito oltre 40 pentiti.»

Questo risultato dovrebbe indurre qualche riflessione sul loro impiego?

«Sì: maggiore prudenza. E anche un po' più di risparmio di denaro pubblico. Del resto, già la Corte d'appello di Palermo, assolvendomi, ha scritto che i pentiti, contro di me, potrebbero essere stati mossi «da antipatia politica, dal particolarissimo interesse accusatorio degli inquirenti o dal cinico perseguimento di benefici personali». E nessuna delle tre ipotesi mi pare meritevole.»

Lei ha mai provato a fare un calcolo di quanto, in questi 11 anni, sia costata l'attività giudiziaria contro l'imputato Andreotti?

«Il calcolo è impossibile, e come contribuente mi preoccupa. Non lo facciano più.»

LA MAFIA DEI RAGAZZINI.

Ora la mafia arruola i ragazzini, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”.

Da Gela a Napoli, nel nostro Sud i baby killer sono l'ultima leva criminale dei clan. La manovalanza per rapine, estorsioni, spaccio di droga. E sono pronti a tutto, anche a uccidere. Viaggio nel mondo dei minorenni a mano armata. Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riuscire un fior di birbone». Nel 1878 Giovanni Verga cominciava così il suo racconto sui "carusi", mandati a morire nelle miniere siciliane. Oggi nella stessa zona dell'isola altri "carusi" vengono mandati al massacro dalle organizzazioni criminali: le microspie li hanno registrati mentre provano Beretta e Kalashnikov, commentando con competenza le caratteristiche delle loro armi. Sono l'ultima leva delle cosche: minorenni arruolati sempre più spesso dai padrini di Gela, del Nisseno, di Secondigliano e del Gargano. Finora i clan li avevano relegati a compiti secondari: postini della droga e vedette dei covi.

Negli ultimi anni invece stanno diventando bambini soldato: hanno la pistola, rapinano, incassano il pizzo, difendono il territorio. E sono pronti a uccidere. Un filmato agghiacciante, ripreso tre mesi fa dalle telecamere nascoste a Scampia, mostra i guardiani degli "Scissionisti" mentre impugnano revolver troppo grandi per le loro mani acerbe. In Puglia ci sono squadroni di sicari disposti a tutto: «Sono kamikaze! Ragazzini che... che non ci pensano», si vantava uno dei capi dei Telegrafo, storica famiglia barese. Il boss voleva gettarli allo sbaraglio per sparare contro la pattuglia di carabinieri che aveva scoperto il nascondiglio dell'arsenale del clan. Nel Gargano si insegna ai sedicenni a fare fuoco «sugli sbirri». A Napoli invece ci sono batterie di guaglioni che spianano le armi per prendere Rolex, portafogli e iPhone: alcuni sono stati accusati per l'omicidio di un vigilante, a cui hanno tolto il revolver. Non si tratta di cani sciolti: portano rispetto a chi comanda e sono "a disposizione" della camorra. Quelli che osano alzare la testa finiscono male: Ciro Fontanarossa, 17 anni, è stato assassinato con sette pallottole nel centro di Napoli, un ragazzo ucciso come un boss. E il problema continua a crescere in ogni regione, senza che la giustizia minorile abbia organici e risorse per la repressione dei reati, mentre la questione richiederebbe una mobilitazione di tutte le istituzioni. Nei primi tre mesi di quest'anno 1.094 under diciotto sono stati fermati o arrestati, finendo nei centri di prima accoglienza, nelle comunità o nei penitenziari minorili: oltre il 60 per cento è di nazionalità italiana.

Sono accusati soprattutto di furti, rapine, estorsioni e spaccio. Ma anche di omicidio volontario. Nella fascia di Sicilia che va da Caltanissetta a Gela la mafia arruola minorenni da almeno due decenni. E' l'onda lunga di quella guerra che fece nascere un'organizzazione rivale di Cosa nostra, la Stidda, ispirata ai modelli delle gang sudamericane. Lì la cultura dell'omertà, del sopruso e del rifiuto dello Stato è più profonda: è facile per i bambini crescere secondo i codici mafiosi. E fare troppo in fretta il salto di qualità, stringendo un'arma in pugno. Sono la manovalanza perfetta, che non attira l'attenzione delle polizie ed è disposta a tutto pur di conquistare la stima dei "capisquadra". Se vengono catturati, i minorenni se la cavano con la comunità o pene di gran lunga inferiori a quelle degli adulti. Roberto Scarpinato, che fino allo scorso mese è stato procuratore generale a Caltanissetta, ha lanciato l'allarme durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario: «Mentre a causa della mancanza di risorse centinaia di giovani vengono abbandonati a se stessi, la criminalità organizzata allarga le braccia, arruolando un numero sempre crescente di minorenni incaricati di eseguire atti di intimidazione, estorsioni, omicidi, spaccio di droga ed altri reati che presentano per i maggiorenni un elevato rischio penale». E' lo stesso Scarpinato a ricostruire le tappe dell'educazione criminale: «Gli uomini delle cosche selezionano i minori più violenti e capaci, e li pongono sotto la protezione di un padrino, incaricato del loro apprendistato.

L'iniziazione viene in genere avviata con l'incarico di eseguire incendi e altre intimidazioni. Prosegue con il coinvolgimento nelle estorsioni. In questi casi il maggiorenne si reca dai soggetti da ricattare accompagnato dai minori, in modo da fare comprendere alla vittima che saranno questi ultimi a riscuotere le rate del pizzo».

L'ultimo passaggio sono le esecuzioni, con l'addestramento a sparare per uccidere: «Il distretto di Caltanissetta detiene il triste record di minorenni incriminati per reati di mafia, tra i quali anche decine di omicidi». Proprio il figlio di un boss della Stidda, Marco, ha descritto la vita quotidiana di un baby killer nisseno. Ha dichiarato di avere eliminato un avversario, giovanissimo, quando aveva solo quindici anni: lo impiccò come ritorsione per avere rapinato e ferito la moglie di un altro capo. Prima lo appese al cappio e poi si aggrappò alle gambe per soffocarlo, quindi gli piantò un chiodo in testa per essere sicuro che fosse morto. Infine, con l'aiuto dei complici, lo seppellì nella calce viva. Nella guerra di mafia, tanti piccoli picciotti hanno tentato di riempire i vuoti aperti nei ranghi dei clan da sicari e retate. Un'avventura che per molti di loro si è chiusa nella vecchia cava di pietra alla periferia di Gela, trasformata nel cimitero dei mafiosi ragazzini. Per farne sparire i corpi li infilavano in pile di copertoni e poi appiccavano il fuoco, che lentamente divorava tutto: vite bruciate prima ancora di arrivare alla maggiore età. I processi per questi fatti si sono aperti negli ultimi mesi a Caltanissetta, dove per i minorenni c'è un solo pm, Simona Filoni, che porta avanti questi giudizi assieme a centinaia di altri fascicoli. Poche settimane fa si è aperto il dibattimento più sconvolgente: imputati Ettore e Fortunato, due ragazzi accusati di strage. Gli abitanti di un condominio li avevano rimproverati perché spacciavano droga davanti all'edificio. E loro, ancora diciassettenni, hanno tentato di ucciderli tutti. Sono entrati in un appartamento, rovesciando benzina sui mobili e sul pavimento, e lo hanno incendiato. Prima di fuggire hanno bloccato il portone dello stabile con una spranga di ferro, in modo da intrappolare i residenti. Sul muro hanno scritto con lo spray: "Chi è qui, è morto". Le fiamme si sono estese a diversi piani, ma alcuni degli abitanti sono riusciti a scardinare la porta quando il fumo stava già soffocando anziani e bambini. Non è stata una bravata: hanno intercettato Fortunato mentre parlava con il suo capo chiamandolo«padrino», telefonate che mostrano la totale adesione ai metodi degli uomini d'onore. Oltre ai "carusi" arruolati da Stidda e Cosa nostra, nel nisseno si stanno anche formando baby gang autonome. La mentalità è la stessa. Durante gli interrogatori rivolgono sguardi sprezzanti agli investigatori: «Non sono un infame, non faccio nomi». Solo davanti ai genitori nei loro occhi compare un tratto di vergogna, senza però che si arrivi al pentimento. Nello scorso dicembre tre sedicenni hanno assaltato una villa: uno ha massacrato di botte la proprietaria. Quando lo hanno arrestato, ha preferito il carcere alla collaborazione. Un altro quindicenne ha svuotato una tanica di benzina davanti alla saracinesca di un panificio. Ma le fiamme lo hanno avvolto, trasformandolo in una torcia umana. In ospedale, nonostante le ustioni e la prospettiva della cella, non ha voluto rivelare chi fosse il mandante. Per queste azioni i "carusi" ricevono cento euro. E' la tariffa standard nel nisseno per ingaggiare una squadra di ragazzini, da usare per le intimidazioni, le rapine o le consegne di armi. Uno degli ultimi collaboratori di giustizia, Francesco Vella, ex sicario della mafia gelese, ha spiegato ai pm che quando era minorenne non «aveva bisogno di soldi»: «La mia famiglia era ricca». Ma è diventato un delinquente perché «avevo il mito del clan degli Emmanuello. Il regalo più bello è stato a 14 anni quando mi hanno dato la mia prima pistola». Sono gli ex bambini soldato, arrestati da adulti, a raccontare episodi terribili vissuti nell'adolescenza. Una vera scuola di ferocia: «Una sera andammo a casa di un uomo che era sospettato di un attentato vicino alla casa del boss Emmanuello. Lo legammo ad una sedia e, dopo essere stato interrogato dal boss, iniziammo a strangolarlo con una corda. Mentre stava per soffocare, Emmanuello ordinò a noi ragazzini presenti di colpire la vittima con schiaffi sulla faccia, fino a quando è morto. Poi il suo cadavere è stato "offeso": ci hanno fatto urinare sul corpo». A Gela l'ultimo omicidio che coinvolge un minorenne risale al 7 dicembre scorso. La vittima è un imprenditore, Francesco Martines, 38 anni, ucciso a colpi di pistola. Per questo delitto è indagato un sedicenne che ha dichiarato di avere premuto il grilletto: «Mio padre non c'entra nulla. Voleva solo coprirmi», ha detto al sostituto procuratore Simona Filoni. La ricostruzione è ancora al vaglio degli inquirenti. Il giovane sostiene che il padre gli aveva consegnato una pistola calibro 9 prima di incontrare l'imprenditore: «Custodiscila tu. Se le cose vanno male, dammela».

La vittima è salita in auto con l'uomo e il figlio, ma poco dopo avrebbe iniziato a schiaffeggiare il padre. A quel punto il sedicenne avrebbe preso la pistola che nascondeva sotto il giubbotto e fatto fuoco, colpendo l'imprenditore alla nuca. Il minorenne ha dichiarato: «Mio padre voleva assumersi la responsabilità, ma sono stato io.

Dopo il delitto si è fatto consegnare la pistola e mi ha detto: "Cosa hai fatto? Ti sei consumato tutta la vita!"». Certo, Milano non è Gela. E non ci sono casi di omicidi commessi da minorenni. Ma le baby gang sono una realtà attiva anche nelle periferie del Nord: gruppi composti da figli di immigrati e anche bande di italiani. Che offrono alle famiglie mafiose l'occasione per reclutare braccia a basso costo. Anche in Lombardia ci sono figure emergenti. Come il ragazzino milanese che si fa chiamare "il Vallanzasca" dagli altri membri della gang di quartiere, nella zona di Quarto Oggiaro dove trent'anni fa spopolava "René". Prima di compiere 14 anni ha messo a segno almeno una decina tra rapine e furti di auto o motorini. Una volta la volante lo ha intercettato mentre fuggiva alla guida di una vettura rubata. Dopo un inseguimento gli agenti lo hanno bloccato ma sono intervenuti i suoi genitori, entrambi pregiudicati, che lo hanno fatto fuggire. Solo quando ha raggiunto i 14 anni, nello scorso settembre, il giudice ha ordinato l'arresto: ha scritto che ha una «naturale disinvoltura e propensione all'attività delittuosa» e rappresenta«un pericolo elevatissimo e concreto per la collettività». "Il Vallanzasca" ha cercato di scappare dagli agenti, salendo su un cornicione e infilandosi nell'appartamento di una coppia di anziani, dove è stato infine bloccato: ora è in una comunità. Nei sobborghi di Milano non ci sono solo gang di giovani d'origine asiatica o sudamericana. La polizia ne ha segnalate alcune formate da studenti, nati in famiglie italiane senza problemi economici, con la passione per la palestra. Per ora si limitano ad aggredire i loro coetanei, usando le mani per farsi consegnare catenine e telefonini. Una delinquenza metropolitana, con genitori del ceto medio spesso separati e disattenti. Ma che subisce il fascino delle storie di malavita descritte dalle fiction e sogna di comprarsi "il ferro". I magistrati che analizzano questi comportamenti parlano di reati espressione di "malessere del benessere". Passare dalla bravata al crimine è facile. Come i tre studenti di Pontassieve (Firenze) che un mese fa hanno distribuito un volantino ai negozianti chiedendo il pizzo: vi avevano stampato frasi attribuite a Raffaele Cutolo nel film "Il Camorrista". Ma la serie tv che ha colpito di più l'immaginario degli adolescenti è "Romanzo Criminale", forse perché narra proprio dell'ascesa di una squadra di ragazzini. A Vibo Valentia il Libanese e il Freddo sono diventati gli eroi di una baby gang che voleva diventare cosca: aveva investito il bottino dei furti nella droga, cominciando a spacciare. La polizia li ha arrestati prima che la loro attività provocasse la reazione della 'ndrangheta. Anche nel Gargano delle faide i pistoleri della Magliana avevano ispirato i piani di un circolo di minorenni. Età tra i 15 e i 17, una canzone come grido di battaglia: "E' tutta mia la città". Nel loro mirino c'era Manfredonia. Si ritiene che avessero già realizzato quattro omicidi, usando armi giocattolo da soft air modificate per sparare veri proiettili. E volevano spodestare il clan locale ammazzandone il capo: avevano progettato di chiedergli un incontro per tributare rispetto e trasformarlo invece in un'imboscata. Ma quei quattro delitti "senza autorizzazione" avevano preoccupato anche i mafiosi pugliesi che stavano cercando di scovare gli esecutori. Solo l'intervento della polizia ha impedito la strage.

«Avevano la determinazione per farsi largo, hanno ucciso senza esitare e forse sarebbero potuti essere arruolati dai boss. Questi ragazzi sono malati di malavita, affascinati dalla vita criminale»,spiega il capo della squadra mobile di Foggia, Alfredo Fabbrocini:«Il fascino criminale in questo caso non arriva dalla famiglia, perché i genitori sono impiegati che non hanno nulla a che vedere con i clan». Per Fabbrocini «ci sono quattordicenni e quindicenni che si drogano ed eseguono rapine, anche con armi giocattolo. Dopo il colpo tornano felici nel gruppo di amici che li accolgono con gli applausi. Ma per quanto si atteggiassero da boss erano sempre dei ragazzini: a uno di loro la mamma ha scoperto una pistola in casa e l'ha buttata nella spazzatura, mentre ad un altro gliel'hanno rubata». I futuri camorristi fanno pratica assaltando i coetanei: calano in centro dai paesoni inglobati nell'hinterland napoletano o dai quartieri popolari e rapinano i "chiattilli", i figli di papà benestanti. Non si limitano a prendere smartphone e scooter: picchiano le vittime per il gusto di sentirsi potenti. I clan ingaggiano i più determinati di loro come corrieri della droga, per incassare le estorsioni o come sentinelle dello spaccio. La differenze è che oggi queste baby reclute sono passate dal coltello al revolver. Lo scorso gennaio un poliziotto ha rischiato la vita per cercare di bloccare due ragazzini che avevano rubato una mini car. L'agente si è aggrappato alla vettura e i minorenni lo hanno trascinato per metri e metri. Poi hanno cercato di stringerlo contro un muro. Il tredicenne accanto al guidatore ha urlato: «Accidimmolo a 'sta guardia... (uccidiamo questo poliziotto)». Gli episodi di microcriminalità aumentano ogni settimana. Secondo Margherita Dini Ciacci, presidente del comitato Campania dell'Unicef, la pressione delle baby gang è cresciuta a Napoli del 3 per cento negli ultimi sei mesi. E a preoccupare è la progressiva diminuzione dell'età dei protagonisti: i più piccoli hanno tra i 10 e i 13 anni. Tutti pronti a ingrossare le fila della camorra. Il procuratore generale Vittorio Martusciello denuncia «la sempre maggiore adesione dei minori ad organizzazioni criminali». Un fenomeno«che si alimenta a causa del degrado socio-culturale, bassa scolarizzazione, indigenza, mancanza di sbocchi, condizionamento connesso alla pubblicità ispirata a ideologia consumistica, prospettiva di facili guadagni, cultura dell'illegalità favorita dalla mancanza di senso delle istituzioni, appartenenza a gruppi familiari affiliati alla camorra». A Sud, i minorenni che prendono le armi sono quasi sempre figli del degrado. E solo la scuola può salvarli, offrendo un'alternativa ai modelli fatti di violenza e di morte.

ILLEGALITA’, VIOLENZA ED ABUSI. MA VIETATO PUNIRE I POLIZIOTTI.

Dal G8 di Genova al caso Aldrovandi. Condannati per aver picchiato, spacciato, persino ucciso. Ma poi tornati in servizio. Sono decine gli agenti accusati di vessazioni rimasti senza sanzioni, scrive Arianna Giunti su  “L’Espresso”. La 'Diaz' di Genova dopo l'irruzione della poliziaCondannati per aver massacrato manifestanti inermi, per avere torturato detenuti, per aver spacciato droga, persino per aver ucciso. Eppure ancora in servizio, con il compito di far rispettare quelle stesse leggi che loro hanno infranto. La vicenda di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto per le percosse di quattro agenti, ha riaperto il dibattito sull'inefficacia dei regolamenti che sanzionano il comportamento dei pubblici ufficiali. Anche i poliziotti riconosciuti colpevoli dalla Cassazione per quel pestaggio letale potranno tornare a indossare l'uniforme. Non è l'unico caso.

"L'Espresso" ha esaminato una lunga serie di procedimenti contro uomini delle forze dell'ordine che non sono stati radiati, nonostante fossero imputati o condannati per episodi gravissimi: vicende da prima pagina, come il G8 di Genova, o storie dimenticate, come la persona con problemi psichici picchiata a morte a Trieste. Mancano statistiche ufficiali, ma gli unici dati disponibili permettono di capire l'importanza della questione: solo negli ultimi dieci mesi 228 tra agenti, carabinieri, finanzieri e guardie penitenziarie sono finiti sotto inchiesta. Per l'esattezza 105 sono stati indagati, 73 arrestati e 42 a giudizio nei tribunali. Sul loro destino pesa la lentezza dei processi, che spesso determina la prescrizione dei reati senza che le commissioni interne dei corpi intervengano per punire i fatti comunque accertati. E, d'altro canto, brucia vita e carriere di chi attende la sentenza per anni e anni. Ma in tantissime situazioni, i protagonisti vengono sospesi per periodi minimi oppure sono i tribunali amministrativi a revocare i provvedimenti. Certo, la legge è uguale per tutti e la presunzione di innocenza non è in discussione. Proprio l'importanza dei compiti affidati alle forze dell'ordine però richiede norme più chiare di quelle attuali per tutelare la fiducia nelle istituzioni e il lavoro di chi mette a repentaglio la propria vita per difendere la legge. E rischia invece di trovarsi schierato al fianco di chi l'ha violata.

G8 SENZA CONSEGUENZE. Il blitz nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel luglio del 2001 resta una pagina nera nella storia della Repubblica. Il verdetto della Cassazione per il massacro di oltre sessanta manifestanti inermi è arrivato dopo 12 anni. Venticinque condanne hanno decapitato i vertici della polizia, prevedendo però l'interdizione dai pubblici uffici solo per i prossimi cinque anni. Altri nove dirigenti sono stati riconosciuti responsabili di lesioni personali continuate ma il reato è stato dichiarato prescritto. E restano in servizio. Sono quelli che nella notte della Diaz comandavano i celerini del primo reparto mobile di Roma. Il vicequestore aggiunto Michelangelo Fournier, che definì il blitz nella scuola una «macelleria messicana», oggi lavora al vertice della Direzione centrale antidroga: la condanna a due anni in primo grado nel suo caso si è prescritta già in appello. Gli altri otto sono stati trasferiti in uffici o commissariati di zona: a nove mesi dalla sentenza definitiva, la commissione interna non ha ancora valutato le loro responsabilità disciplinari.

PESTAGGIO CANCELLATO. Nel marzo 2001 gli scontri del Global Forum di Napoli si sono trasformati nella prova generale delle violenze genovesi. Dieci poliziotti sono stati accusati di avere selvaggiamente picchiato e sequestrato 85 manifestanti, rinchiusi nella caserma Raniero. Quando la magistratura ordinò di arrestare gli agenti accusati per le brutalità, una catena umana formata dai loro colleghi sbarrò l'accesso alla questura. Oggi c'è una sola certezza: nessuno è stato punito. Merito della lentezza della giustizia e dell'inerzia delle commissioni disciplinari. I reati di violenza privata, lesioni, falso e abuso d'ufficio sono stati prescritti in primo grado. Il tempo ha cancellato anche l'imputazione più grave di sequestro: lo ha stabilito la Corte d'appello, che si è pronunciata solo nello scorso gennaio dopo ben dodici anni. Un pessimo esempio per tutte le istituzioni.

MORTE A TRIESTE. Ci sono agenti che però restano in servizio anche quando condannati in via definitiva per omicidio. Lo dimostra il caso di Riccardo Rasman, 34 anni. Figlio di istriani di lingua slava, l'uomo aveva subito feroci atti di nonnismo durante la leva militare, che avevano acuito la sua sindrome schizofrenica paranoide: era terrorizzato dalle divise. In una sera dell'ottobre 2006 Rasman ha festeggiato l'assunzione come netturbino lanciando petardi sul pianerottolo del condominio. Quando ha visto arrivare gli agenti si è rannicchiato sul letto, senza aprirgli. I poliziotti hanno sfondato la porta e si sono lanciati su di lui, un colosso pesante 120 chili e alto un metro e 85. I paramedici del 118 lo troveranno con le manette ai polsi, le mani dietro la schiena, fil di ferro alle caviglie, ferite e segni di «imbavagliamento con blocco totale o parziale della bocca».Proprio questo imbavagliamento, unito alla pressione con la quale gli agenti, per immobilizzarlo, gli premono con le ginocchia sul tronco, gli provoca una veloce asfissia e la morte. «Era martoriato di botte sul viso, gli avevano rotto lo zigomo, aveva sangue che usciva dalle orecchie, dal naso, dalla bocca», ricorda oggi la sorella Giuliana Rasman. Ci sono voluti sei anni per accertare la verità. La Cassazione ha condannato a sei mesi per omicidio colposo tre agenti della volante. Secondo i giudici, i poliziotti sapevano che Rasman era in cura in un centro psichiatrico e per questo avrebbero dovuto chiamare subito un'ambulanza. Oggi, liberi con la condizionale, vestono ancora la divisa. «Sono tutti in servizio, ci mancherebbe altro», conferma a "l'Espresso" il loro avvocato, Paolo Pacileo. La famiglia Rasman, attraverso il legale Claudio Defilippi, ha chiesto le scuse ufficiali del ministero dell'Interno. Mai arrivate.

ARRESTO LETALE. Ci sono decessi drammatici che si assomigliano. E fanno emergere tutta l'inadeguatezza delle forze dell'ordine nel gestire l'arresto di persone in stato di alterazione mentale: una situazione frequente quando bisogna avere a che fare con ubriachi, drogati o disabili psichici. Lo sottolinea la sentenza d'Appello che condanna per omicidio colposo nove agenti di Napoli che nel 2003 hanno provocato la morte per asfissia di Sandro Esposito, 26 anni. Esposito era un parà della Folgore, veterano delle missioni all'estero: durante una licenza, sotto l'effetto della cocaina sale su un capannone e urla. Intervengono diverse volanti e i poliziotti lo immobilizzano. Ma mentre tentano di caricarlo in auto, il parà scappa. Così lo colpiscono con calci e pugni alla testa, utilizzando anche un oggetto contundente, e lo stendono a terra sull'asfalto premendogli le ginocchia contro il petto fino a farlo morire asfissiato. In primo grado i poliziotti vengono condannati per omicidio preterintenzionale. In appello il reato si trasforma in omicidio colposo, e le parole dei giudici, pur riconoscendo la volontà di non uccidere, sono impietose verso l'intero corpo di polizia: «Ci troviamo di fronte a un difetto di addestramento, non risulta infatti che il ministero dell'Interno abbia mai compilato, come invece è avvenuto con il Dipartimento della Giustizia negli Stati Uniti, un protocollo per il trattamento dei soggetti in stato di delirio cocainico». Due dei nove agenti sono stati espulsi dalla polizia, gli altri non hanno avuto conseguenze. Per sei di loro, la pena a 4 anni di carcere è stata ridotta dalla Cassazione a un anno e sei mesi, con immediata libertà condizionale. Per un altro è scattata la prescrizione. All'epoca dei fatti vennero sospesi per un solo mese, poi sono tornati in servizio e ancora oggi indossano l'uniforme. I genitori del ragazzo, assistiti dall'avvocato Monica Mandico, continuano ad aspettare il risarcimento stabilito dai giudici. Finora dal ministero dell'Interno hanno ricevuto solo il conto da pagare per la rottura del finestrino di una delle volanti su cui fu caricato a forza loro figlio.

TORTURATORI AD ASTI. Un verdetto paradossale nel gennaio 2012 ha salvato dalla condanna quattro guardie carcerarie del penitenziario di Asti. Erano accusate di aver trattato quattro detenuti come prigionieri di un lager, picchiandoli, privandoli di cibo e acqua, lasciandoli nudi per giorni interi in pieno inverno in celle senza vetri e finestre, arrivando persino a strappare di netto il codino di capelli a uno di loro. I fatti risalgono al 2004, ma sono emersi solo sette anni dopo. Una "piccola Abu Ghraib italiana", come è stata definita durante il processo: «Entravano nelle nostre celle dopo le dieci di sera», raccontano a verbale i detenuti «ci prendevano a botte continuamente per non farci addormentare. Io mi chiudevo come un riccio, ma loro continuavano, puntuali, ogni notte». I giudici del Tribunale di Asti ritengono che si tratti di tortura, un reato che non esiste nel nostro codice penale. E quindi sono state inflitte solo pene esigue, per abuso di autorità e lesioni personali: oggi sono già prescritte. Due degli agenti, responsabili dei fatti più gravi, sono stati radiati lo scorso gennaio. Per gli altri due sono arrivate sospensioni di 4 e 6 mesi. Dopodiché torneranno in servizio.

A GUARDIA DI CUCCHI. La verità processuale è ancora tutta da scrivere nella vicenda di Stefano Cucchi, la morte di un geometra romano di 31 anni diventata simbolo dell'abuso di potere. Il 15 ottobre 2009 Stefano viene sorpreso con alcuni grammi di hashish, cocaina e antiepilettici e recluso a Regina Coeli. Quel giorno, hanno detto i suoi familiari, non aveva alcun trauma fisico e pesava solo 43 chili. Già durante il processo ha difficoltà a camminare, gli occhi sono cerchiati da lividi neri e ha lesioni ovunque. Dopo la condanna per direttissima torna in carcere, le sue condizioni peggiorano e viene ricoverato. Il 22 ottobre 2009 muore in ospedale. Da allora comincia una sfida a colpi di referti, perizie, ipotesi investigative. «Ci devono ancora spiegare chi ha provocato a Stefano quelle lesioni alle vertebre, al torace, alla schiena, alla mandibola. Vogliono farci credere che se l'è fatte da solo, cadendo. E quante volte sarebbe caduto?», tuona l'avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, lo stesso che assiste anche la mamma di Federico Aldrovandi. Tra gli imputati in attesa della sentenza di primo grado ci sono anche tre guardie carcerarie accusate di aver provocato le lesioni. Per loro non risultano esserci state sospensioni e sono attualmente in servizio. «Ma non più a diretto contatto con i detenuti»,precisa il loro avvocato Diego Perugini.

RECIDIVO. L'assenza di regole certe fa cadere anche la paura delle sanzioni. E ci sono casi in cui i poliziotti, non sospesi dopo la condanna, tornano a infrangere la legge. A Milano nel giugno 2007 Luciano Pasqualetti con due colleghi, Massimiliano De Cesco e Andrea Chicarella, arresta un uomo peruviano accusato di rissa aggravata. Lo straniero viene portato in un bagno della Questura e massacrato di botte. Il giorno dopo il pestaggio si ripete, stavolta sotto l'obiettivo di una telecamera: a colpirlo è De Cesco, Chicarella lo tiene fermo, mentre Pasqualetti guarda e non interviene. Qualche mese prima De Cesco era stato protagonista di un caso finito su tutti i giornali: aveva arrestato con modi violenti un altro immigrato e il gip Clementina Forleo, testimone casuale, era intervenuta per bloccarlo. Dopo il pestaggio del peruviano, Pasqualetti patteggia otto mesi ma resta in servizio. L'unico provvedimento è il trasferimento alla Questura di Genova. Dove lo arrestano di nuovo, lo scorso gennaio, per aver regalato informazioni preziose ad alcuni pregiudicati grazie alla possibilità di accedere alla banca dati del ministero. Dalle indagini emerge inoltre che il poliziotto spacciava cocaina.

DROGA DI SCORTA. Il dilagare degli stupefacenti nella società italiana riguarda anche le caserme delle forze dell'ordine. Nel 2009 quattro agenti del Servizio Scorte di Milano sono stati condannati in Cassazione per aver rivenduto la droga che loro stessi sequestravano agli spacciatori. Dopo la sospensione provvisoria, tre di loro sono stati reintegrati, anche se in un altro reparto. Un capitolo a parte meritano invece i consumatori in divisa. I poliziotti sotto l'effetto di cocaina non sono un caso raro: secondo il regolamento vengono sospesi da sei mesi a un anno. Poi però c'è il rientro automatico in servizio, dopo un unico test antidroga che non viene più ripetuto. Tanto che spesso - dalla stessa polizia - viene sollevata la necessità di introdurre analisi periodiche di controllo.

IL GENERALE E LA POLTRONA . Molte volte per i carabinieri l'applicazione del codice militare permette provvedimenti interni molto più rapidi e risolutivi: come nel caso dei marescialli arrestati per i ricatti emersi con lo scandalo dell'allora governatore del Lazio Piero Marrazzo, tutti immediatamente sospesi per cinque anni. Eppure il caso più discusso di uomini rimasti in divisa nonostante accuse pesantissime resta quello del generale Giampaolo Ganzer. Un ufficiale dal curriculum eccezionale, dalla lotta antiterrorismo con Carlo Alberto Dalla Chiesa allo smantellamento della mafia del Brenta, fino alla guida del Ros. Poi l'incriminazione per associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso per la gestione di un'operazione coperta. Nel 2010 i giudici di Brescia lo hanno condannato a 14 anni definendolo «un traditore per smisurata ambizione». La sentenza ha scosso i vertici dell'Arma, ma Ganzer è rimasto al suo posto fino al giorno della pensione, nello scorso luglio. E questo nonostante il regolamento militare preveda la sospensione in caso di condanna non definitiva per peculato, uno dei reati contestati al generale.

STUPRO IN CASERMA. A volte, poi, anche quando la decisione dell'autorità sembra irrevocabile, è il Tar che rimette tutto in discussione. Come è successo a uno dei carabinieri accusati dello stupro di una donna nella caserma del Quadraro a Roma, arrestata nel 2011 per un furto. La donna denuncia di essere stata violentata nella camera di sicurezza. «Mi hanno offerto un panino, mi hanno fatta bere, poi sono cominciate le violenze»,mette a verbale. L'Arma ha immediatamente destituito i tre militari coinvolti. Ma uno di loro ha fatto ricorso al Tribunale amministrativo: cacciandolo in quel modo - questa la sua tesi - il ministero si sarebbe macchiato di eccesso di potere senza dare al carabiniere la possibilità di difendersi dall'accusa. I giudici gli hanno dato ragione ed è stato reintegrato. Ora sarà necessario un nuovo procedimento disciplinare. A dimostrazione di quanto sia urgente varare regole certe ed efficaci.

LE PRIMEDONNE DELL’ANTIMAFIA.

«Una persona che ha la coscienza pulita, a cosa può andare incontro? Io nell'insediarmi al Senato ho parlato di casa trasparente, e la mia nuova funzione istituzionale veniva sporcata, opacizzata da queste parole che è difficile contrastare nella loro genericità». Queste le parole pronunciate dal neo presidente del Senato, Pietro Grasso, durante la trasmissione «Piazzapulita» su La7 di lunedì 25 marzo 2013 interamente dedicata alle «risposte» di Grasso a Marco Travaglio. «Sentendo le parole di Travaglio ho capito che quello era l'inizio di qualcosa che sarebbe continuato - ha detto Grasso - Venivano strumentalizzate cose passate della mia carriera per attaccare il presidente del Senato, utilizzando tutto quello che da una vita mi sono sentito contestare». «Non si possono estrapolare fatti singoli per sporcare la credibilità di una persona - ha proseguito Grasso rispondendo alle domande del giornalista Corrado Formigli -. Nella Procura di Palermo si diceva ci fossero veleni, ma in realtà c'era una dialettica interna sulle indagini. Mi è stato contestato di aver archiviato l'indagine su Schifani, ma dagli atti si può vedere che un'indagine sulla stessa persona era stata archiviata anche da Caselli, così come è avvenuto nel 2012». Grasso ha risposto anche alle accuse di Travaglio di essere stato nominato procuratore sulla base di una legge incostituzionale fatta per affondare Giancarlo Caselli. «C'è stato un momento in cui il Csm avrebbe potuto deliberare prima che la legge Castelli fosse promulgata - ha detto Grasso - C'è una ricostruzione che ha bisogno di essere rivisitata ci sono due livelli: il primo è quello di una legge che ho sempre riconosciuto contro Caselli, fatta per bloccare Caselli, ma c'è stato un momento in cui il Csm avrebbe potuto deliberare sui vertici antimafia prima che l'ordinamento dell'allora Guardasigilli Castelli fosse promulgato». Tra le accuse di Travaglio a Grasso anche quella di non aver firmato l'appello per il processo Andreotti. «Io ero stato testimone in quel processo - ha detto Grasso - Ero stato sentito in istruttoria proprio da Scarpinato ed essendo diventato testimone la mia firma sull'appello avrebbe impedito la chiamata come testimone nel successivo grado di giudizio». «L'accusa di poter essere colluso con il potere, di cercare il contatto, di fare l'inciucio è la cosa che mi ha fatto più male ha detto ancora Grasso - Di aver ottenuto leggi a mio favore: io non ho mai richiesto niente a nessuno e nessuno ha chiesto mai niente a me». L'ex capo dell'Antimafia ha quindi parlato anche dei «processi gogna». «Lavorare in questo modo è tra l'altro incostituzionale - ha detto il presidente del Senato - Ci sono stati molti processi spettacolari che hanno portato ad assoluzioni. Ma non faccio nomi, non sarebbe elegante...». La polemica col vicedirettore del «Fatto» era nata durante il consueto intervento di Travaglio a «Servizio Pubblico» il giovedì precedente in cui aveva ricostruito le vicende relative alla nomina di Grasso a procuratore nazionale Antimafia, una nomina «segnata» - secondo Travaglio - da tre leggi votate dalla maggioranza di centrodestra che hanno fermato la candidatura a quell'incarico di Gian Carlo Caselli. L'ex procuratore nazionale antimafia ha spiegato anche di essersi deciso ad intervenire perché le parole usate dal vicedirettore del Fatto avevano avuto sulla moglie lo stesso effetto delle minacce ricevute negli anni '80 contro il figlio in occasione del maxiprocesso contro la mafia. «Sentendo le parole di Travaglio ho capito che quello era l'inizio di qualcosa che sarebbe continuato - ha spiegato Grasso - Venivano strumentalizzate cose passate della mia carriera per attaccare il presidente del Senato, utilizzando tutto quello che da una vita mi sono sentito contestare. Io non ho mai reagito perchè ho sempre voluto tenere unita la magistratura. Per me era quasi doveroso sopportare tutto senza reagire, non ho mai minacciato una querela, ma una cosa è la libertà di critica, un'altra è una comunicazione che non informa e sporca soltanto». L'ex procuratore nazionale antimafia ha risposto poi ad una domanda sulla condanna in secondo grado di Marcello Dell'Utri. «Una condanna di un imputato un magistrato non la può considerare una vittoria o una sconfitta – dice - Quello che deve fare riflettere - aggiunge - è che le indagini sono iniziate nel '94 e ancora non si ha una risposta definitiva della giustizia, è un fatto drammatico per il Paese. Io non credo che Dell'Utri scappi ma è precauzione elementare quella dell'arresto - ha precisato ancora Grasso, dicendosi però "meravigliato" - che la notizia sia stata diffusa dalle agenzie di stampa prima ancora dell'eventuale notifica all'imputato». Nel merito poi del suo ruolo all'antimafia, sui presunti contrasti con i Pm, sui cambiamenti fatti nel pool che si occupava della lotta alla mafia, Grasso è stato lapidario: «L'accusa che mi brucia di più è che io abbia fatto inciuci con il potere per avere delle leggi a mio favore». E ha ricordato che la rotazione dei Pm nelle direzioni investigative antimafia è una disposizione "insormontabile" del Csm. «Provai a chiedere una proroga per i pubblici ministeri che operavano a Palermo, ma ricevetti risposte negative dal Consiglio superiore della Magistratura. Chi è che non fa errori? - aggiunge Grasso - certo, ne ho fatti anche io, come quello di non aver preso posizione prima su cose di cui ora mi accusano. Ma non è che si possano imputare tutti gli errori al procuratore. Io mi prendo le mie responsabilità ma non è possibile. E' difficile che io mi imbestialisca - prosegue - ma l'accusa peggiore è quella di poter essere colluso con il potere. Io inciuci con il potere? E' stata terribile l'accusa di aver ottenuto delle leggi a mio favore - sottolinea Grasso - Questa è l'accusa che mi brucia di più. Io non ho ottenuto niente. Ottenere significa richiedere. Io non ho mai chiesto niente a nessuno e per questo nessuno ha mai potuto chiedere niente a me». Così ha commentato la normativa introdotta dal centrodestra che gli ha aperto la strada alla guida della Procura nazionale antimafia, eliminando dalla contesa Giancarlo Caselli. Per quanto riguarda la trattativa Stato-mafia, Grasso ha detto esplicitamente: «Io valuto i fatti. La cosa peggiore è avere delle intuizioni e non poterle provare. Ma sino a quando non ho le prove, io non parlo e non ne parlerò neanche stasera. La trattativa comporta una conclusione con un accordo. Questo forse deve essere ancora pienamente dimostrato. Sono convinto che bisogna cercare la verità, che dobbiamo fare di tutto per trovare la verità. Però forse ci sono ancora cose da scoprire più grosse che non una trattativa che ponga al centro il 41 bis. Forse ci sono ancora cose più gravi da scoprire». Grasso ha anche risposto all'accusa di Travaglio di aver "auspicato" una medaglia antimafia per Silvio Berlusconi. Il presidente del Senato ha ribadito che il governo Berlusconi, a cui partecipava anche Maroni come ministro dell'Interno, aveva fatto alcune cose positive per la lotta alle cosche. «Ma non tutte quelle che avevamo chiesto. Tant'è vero che appena entrato in Senato ho depositato proposte di legge sul conflitto d'interessi, sulla corruzione e sul falso in bilancio. Se qualcuno - come è avvenuto nella trasmissione La Zanzara - mi chiedeva se alcune cose positive per la lotta alla mafia erano state fatte dal governo Berlusconi, non potevo non rispondere che sì. Ho sempre avuto l'onestà intellettuale di riconoscere le azioni positive degli altri. Ma noi chiedevamo anche altre norme che il governo Berlusconi non ha fatto, come sull'antiriciclaggio. La medaglia l'hanno detta loro, riferendosi direttamente alle norme per il sequestro dei beni mafiosi. io ho solo aggiunto “per questa cosa, ma solo per questa”, sì, era giusto. Se si dice una cosa positiva su qualcuno che in questo momento non ha l'appoggio plebiscitario dell'opinione pubblica, - ha concluso Grasso - immediatamente c'è chi paventa un “inciucio". Quello di Grasso è stato un lungo confronto con il conduttore Corrado Formigli, ma non con Marco Travaglio che ha deciso di non andare, motivando la scelta con parole molto dure ed offensive. Piazzapulita, ha spiegato, è "una delle poche trasmissioni in cui io non metterei mai piede per ragioni igieniche".

E’ andato su tutte le furie, il Procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, per quello che definisce il «lunghissimo monologo» in tv del neo presidente del Senato Pietro Grasso, suo successore nel 1999 al vertice della Procura di Palermo. Secondo Caselli, l’ex collega «si è prodotto in allusioni suggestive, con il risultato di prospettare in maniera distorta vari fatti e circostanze afferenti la mia attività di magistrato». Insomma l’ennesima puntata dei veleni di Palermo, nella quale si ritaglia un ruolo anche Massimo Ciancimino, il figlio minore del famoso don Vito, a giudizio per calunnia nel processo sulla trattativa Stato-mafia: «Grasso? Ha beneficiato di tante situazioni, non ha mai toccato i poteri forti». Il comportamento di Grasso, spiega Caselli in una lettera al Csm (in cui chiede di essere «adeguatamente tutelato») è «profondamente lesivo dei miei diritti e della mia immagine, in particolare là dove si insinua che il mio operato sarebbe stato caratterizzato dalla tendenza a promuovere e gestire processi che diventano gogne pubbliche, ma restano senza esiti». «Mentre tutta la mia esperienza professionale — aggiunge il magistrato — si è sempre e soltanto ispirata all’osservanza della legge, al rispetto dei presupposti in fatto e in diritto necessari per poter intervenire e alla rigorosa valutazione della prova». «Segnalo — conclude Caselli — che il comportamento in oggetto risulta, sempre a mio giudizio, ancor più delegittimante nei miei confronti perché tenuto nel giorno stesso in cui veniva pronunziata dalla Corte d’appello di Palermo sentenza di condanna nei confronti di Marcello Dell’Utri, relativa a procedimento avviato dalla Procura quando il sottoscritto ne era a capo». Grasso si è soffermato in particolare su due momenti in cui la sua strada ha incrociato quella di Caselli. Per esempio nel 2005, quando l’attuale numero uno di Palazzo Madama fu nominato dal Csm procuratore nazionale antimafia. Con un emendamento del centrodestra alla riforma dell’ordinamento giudiziario, Caselli fu escluso dalla corsa alla Dna per superamento dei limiti di età. «Dicono che ho ottenuto delle leggi a mio favore: io non ho ottenuto niente — ha detto Grasso —. Ottenere significa richiedere. E io non ho mai chiesto niente a nessuno e per questo nessuno ha mai potuto chiedere niente a me. Caselli se la deve prendere con quei colleghi del Csm che hanno impedito che lui potesse essere nominato». L’altra vicenda risale al 1992, quando, ha ricordato Grasso, «si era creata una situazione pressoché simile» per la nomina a procuratore di Palermo. «Lui (Caselli) non aveva fatto un giorno da pm, aveva grande esperienza sul terrorismo, ma quasi nessuna sulla mafia. Diventa procuratore perché serviva qualcuno che venisse da fuori. Io non ho fatto nulla, pur avendo la possibilità di fare ricorso».

Caselli contro Grasso. La glaciazione dell'antimafia, scrive Gaetano Savatteri. Caselli contro Grasso. Travaglio contro Grasso. Grasso contro tutti. Gaetano Savatteri, inviato del Tg5, che ha raccontato molte volte l'incandescenza della Procura di Palermo, continua la collaborazione con Livesicilia. E ci svela tutto. L’ultima era dell’antimafia è quella della glaciazione. Una cappa di gelo, segnata da sospetti, accuse e polemiche, che anima i dibattiti televisivi e giornalistici, ma che finisce per ricacciare successi, vittorie e conquiste – giudiziarie e sociali – in un perenne l’altro ieri. L’ultimo episodio che vede Marco Travaglio contro Piero Grasso, Piero Grasso contro Marco Travaglio e ora Giancarlo Caselli contro Piero Grasso, segna l’accanimento senza fine sopra una ferita che non si è rimarginata, ma che è rimasta aperta, solo perché si è incancrenita alle basse temperature di uno scontro nato dentro la procura di Palermo e vecchio di quasi un ventennio. La ricostruzione di questo dissidio interno alla magistratura più impegnata nella battaglia a Cosa Nostra sarebbe lunga e difficile. Per riassumere, basta dire che la prima frattura si registra all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, quando un gruppo di magistrati sigla una lettera contro l’allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco: gli elenchi di chi firmò quella lettera e di chi invece non la firmò evidenziano nel 1992 la spaccatura che già serpeggiava negli uffici giudiziari della procura più esposta d’Italia. Da allora in poi, nonostante le dichiarazioni pubbliche, i momenti di tregua – e un momento di tregua fu il passaggio di consegne tra Giancarlo Caselli e Piero Grasso alla guida della procura palermitana – la storia delle indagini, delle inchieste e della politica giudiziaria degli uffici inquirenti da allora è stata disseminata di scontri tra gruppi, cordate e fazioni. Scontri “metodologici”, si dice, ma dietro i quali ciascuno ha avuto il tempo di consolidare sospetti e avversità verso e contro i propri colleghi della porta a fianco. In questi ultimi giorni, dopo l’attacco a Piero Grasso di Marco Travaglio - il quale ha ripetuto nella trasmissione “Servizio pubblico” cose che già da tempo scrive e dice – e con la reazione forse un po’ troppo istintiva di Grasso di telefonare in diretta e chiedere un confronto televisivo, la ferita si è riaperta. Anzi, ha mostrato di non essere mai chiusa. E così si è svelata la glaciazione dell’antimafia. Sono riaffiorate nel dibattito pubblico, ad esempio, storie che risalgono al 1999 (l’appello contro la sentenza di assoluzione nel processo di primo grado a Giulio Andreotti), al 2005 (la nomina di Grasso alla procura nazionale antimafia, con l’esclusione di Giancarlo Caselli in seguito a leggi contra personam, poi dichiarate incostituzionali), in un rigurgito di memoria mai condivisa, mai pacificata, mai risolta. Ora, non c’è dubbio che la memoria sia un bene prezioso. E quindi i fatti non vanno accantonati né dimenticati. Ma qui siamo oltre la semplice esposizione dei fatti. Qui siamo di fronte a irriducibili e inconciliabili interpretazioni dei fatti, e per giunta di fatti spesso complessi che riguardano procedure, leggi, norme, regolamenti. Lo scontro Travaglio-Grasso, ad esempio, è difficile che abbia smosso qualcuno dei protagonisti dalla propria lettura dei fatti. E la lunga ricostruzione che i contendenti hanno esposto, (e di cui sono prevedibili nuove puntate), è difficile che abbia portato allo spettatore di “Servizio pubblico” e di “Piazza pulita” elementi tali da diradare del tutto i dubbi, a meno di non avere un approccio partigiano a questi argomenti. Semmai, lo sforzo di molti spettatori, compresi quelli che per mestiere o per passione hanno seguito in questi anni le dinamiche interne della procura di Palermo, è stato quello di non piombare dentro una vertigine che comprime i fatti, li riduce a slogan, li frantuma in una serie di sospetti e domande e interrogativi ai quali è complicato dare risposte definitive. L’elezione di Grasso a presidente del Senato ha dato più ampia platea a uno scontro interno alla procura che già era emerso con la contrapposizione tra le candidature di Antonio Ingroia e di Piero Grasso in due formazioni politiche antagoniste. Adesso, la ferita dell’antimafia, profonda e inguaribile, ha avuto ribalta nazionale come mai prima d’ora. Non è una polemica che può trovare approdo. E dopo la lettera di Giancarlo Caselli al Csm e la prossima replica annunciata di Marco Travaglio nel programma di Michele Santoro, si profilano nuovi sviluppi. Lo scenario che ne viene fuori, drammaticamente, continua ad essere quello di un’antimafia che in venti e più anni ha saputo scavare trincee profonde dentro il proprio stesso fronte. Un’antimafia asserragliata in uno scontro di posizione, nel quale un giorno qualcuno guadagna un metro per perderlo il giorno dopo. Nel frattempo, alcuni magistrati hanno scelto la politica, altri hanno lasciato Palermo, altri hanno lasciato la magistratura. Ma la glaciazione non tiene conto nemmeno di questo. Anzi, ripropone ciascun protagonista di ieri e dell’altro ieri immobilizzato nell’atteggiamento in cui è stato raffigurato o in quello in cui vuole raffigurarsi. L’ascesa di Grasso alla seconda carica dello Stato carica tutto questo di maggiore enfasi, di un’eco sempre maggiore. L’Italia è cambiata e sta cambiando; anche la Sicilia è cambiata e sta cambiando, soprattutto grazie agli ultimi vent’anni di antimafia. Ma il mondo dell’antimafia che appare in tv e sui giornali sembra rimasto sotto i ghiacci a parlare di un passato che torna sempre uguale. Come un’ossessione. Come una trappola del tempo.

Grasso-Caselli, zuffa tra primedonne, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. Amati no, non si sono mai amati, al di là dei sorrisi di facciata in occasione delle manifestazioni antimafia. Troppo prime donne, entrambi. Troppo simili come formazione, e infatti si sono contesi la Procura nazionale antimafia. Troppo diversi, nel profondo, come magistrati: l'uno, Gian Carlo Caselli, procuratore capo nella Palermo ferita del dopo stragi del '92, il padre dei processi per mafia alla politica, per tutti quello contro Giulio Andreotti, il processo del secolo finito in flop, imbastiti per lo più con le dichiarazioni dei pentiti; l'altro, Pietro Grasso, già giudice a latere del primo maxi processo a Cosa nostra, clamoroso quanto quello al divo Giulio, procuratore a Palermo subito dopo Caselli, prudente e legato alla scuola del vecchio amico Giovanni Falcone tutta riscontri e prove, che i pentiti servono sì, ma senza prove poi i processi si perdono e Grasso no, non ama perdere. Cova già da una quindicina d'anni lo scontro di oggi. E invece, con una virulenza che fa il paio solo con la guerra istituzionale divampata qualche mese fa tra il Quirinale e la procura di Palermo, la rissa esplode ora, a scoppio ritardato: Grasso non è più magistrato ma presidente del Senato; Caselli è procuratore, della sua Torino. Lo spettacolo che va in scena non è tra i migliori. Da un lato il neo presidente del Senato, che per difendersi dalle accuse di Marco Travaglio, in tv, a Piazza Pulita, spara sugli insuccessi della giustizia spettacolo dei processi politici. Dall'altro il procuratore di Torino, che si riconosce nell'identikit e denuncia la seconda carica dello Stato al Csm, chiedendo al vicepresidente Michele Vietti, di intervenire a sua tutela. Et voilà, lo scontro è servito. Oggi viaggia tra Roma e Torino ma virtualmente abita a Palermo, in quel Palazzo di Giustizia ribattezzato Palazzo dei Veleni sin dai tempi di Giovanni Falcone. A Palermo Grasso, dopo Caselli, non ha avuto vita facile. I «caselliani» non hanno mai potuto soffrire la sua prudenza, il suo «no» ai teoremi senza prove. Un esempio? La vicenda Cuffaro, nel 2004: Grasso fu attaccato perché non volle accusare l'allora governatore di concorso esterno in associazione mafiosa ma di favoreggiamento aggravato. Risultato pratico: dal «concorso esterno» Cuffaro è stato assolto, ma è in carcere a scontare la pena definitiva per favoreggiamento. È, in fondo, la filosofia che Grasso illustra in tv. «Questo tipo di processi, dice a proposito dei dibattimenti politici, citando uno dei suoi maestri, il padre del pool antimafia, Antonino Caponnetto, è sbagliato perché seppur spettacolari sono quelli che portano alle controriforme contro i magistrati, con ritorsioni che danneggiano il funzionamento della giustizia. Pensare a inchieste come una gogna pubblica, efficace perché distrugge una carriera politica, è una deviazione della funzione delle indagini. È anticostituzionale perché la Costituzione dà il potere al magistrato di indagare in funzione del processo». Processi da gogna pubblica? Quali sono, chiede Corrado Formigli. «Ci sono stati, replica Grasso, dei processi che hanno certamente portato all'arresto di imputati che poi sono finiti con assoluzioni. Ma non mi va di fare dei nomi che tra l'altro tutti sanno e conoscono. Non sarebbe elegante...». Il nome non viene fatto. Ma Caselli si riconosce, eccome se si riconosce. «Il presidente del Senato Pietro Grasso, denuncia al Csm, si è prodotto in un lunghissimo monologo contenente accuse e allusioni suggestive, con il risultato di prospettare in maniera distorta vari fatti e circostanze afferenti la mia attività di magistrato. Segnalo che il comportamento risulta ancor più delegittimante nei miei confronti per il fatto di essere stato tenuto nel giorno stesso in cui veniva pronunziata dalla Corte d'appello di Palermo sentenza di condanna nei confronti di Marcello Dell'Utri, sentenza relativa a procedimento avviato dalla procura di Palermo quando il sottoscritto ne era a capo». Di qui la richiesta «di essere adeguatamente tutelato». La lettera, fa sapere il Csm, non è ancora arrivata. Dovrà essere vagliata dal Comitato di presidenza e poi assegnata a una Commissione. Ma questa è la settimana di Pasqua, i lavori sono fermi. Se ne riparlerà ad aprile. E sarà una primavera calda, tra Palazzo Madama e Palazzo dei Marescialli.

Il «duello» Travaglio-Grasso, nel caso, sarebbe solo l’eco lontana di scontro vecchio e soprattutto risolto. L’ha già vinto Grasso, anni fa, ma non contro Travaglio che è solo un tardivo portavoce: contro le vedove caselliane che a partire dal 1999 sono state sconfessate nella politica e nei tribunali, scrive Filippo Facci. Si parla di un’area a cui Ottaviano Del Turco, da presidente dell’Antimafia, nel 2003, attribuì la velleità di «rileggere tutte le vicende del dopoguerra come un unico disegno criminale dentro a cui stanno bombe, terrorismo, brigate rosse, mafia, gladiatori, la Cia, e naturalmente, da ultimo, Berlusconi che si aggira con valigette piene di bombe al tritolo». Pietro Grasso, invece, in un’intervista sempre del 2003, parlò di «persone identificabili in una determinata area culturale e politica che si è sempre distinta per l’aggressività e il cinismo con cui attacca chi non condivide una certa visione della giustizia e dei problemi connessi. Neppure Giovanni Falcone si salvò da questi schizzi di fango». L’area culturale e politica, a Palermo e nei vari avamposti, è perlopiù quella di Magistratura democratica e della varia «antimafia piagnens». Di essa Marco Travaglio è divenuto notoriamente il doberman – non da solo – e perciò e ha sempre avversato colleghi più moderati come lo stesso Grasso o Giuseppe Pignatone, ora procuratore capo a Roma e altro nemico storico di Ingroia. Ora c’è un noto epilogo politico, diciamo: la scelta del Pd di respingere al mittente ogni avance politica di Antonio Ingroia, preferendogli Grasso, non è stata indolore; tantomeno lo è stata la decisione del Pd di difendere Giorgio Napolitano quando il contrasto procedurale tra la procura di Palermo e il Quirinale si fece dirompente. L’esito, per ora, è che Pietro Grasso (detto Piero) è stato eletto ed è già presidente del Senato, col rischio che diventasse addirittura premier; Ingroia, invece, non è neppure stato eletto, la sua Rivoluzione civile ha fatto un bagno, e lui rischia di trasferirsi ad Aosta a indagare sui clan della Fontina. Il veleno di Travaglio contro Grasso, dunque, è roba vecchia ma ridipinta di fresco rancore. È il fiele degli sconfitti, ma nondimeno – sprechiamo l’espressione – una resa dei conti culturale. Pietro Grasso è di Licata. A 14 anni giocò nella Bagicalupo allenata dal 17enne Marcello Dell’Utri e questo è il tratto più malizioso che lo riguarda. Era già magistrato a 24 anni (un «plasmoniano», si diceva all’epoca) e si ritrovò subito a rischiare la pelle nel giudicare il maxiprocesso a Cosa Nostra: 400 boss in un dibattimento istruito dal pool di Falcone e Borsellino. Lui scrisse le motivazioni (8000 pagine) aiutato da uno stormo di giovani uditori tra i quali c’era Antonio Ingroia. Fu consulente della commissione Antimafia e vicecapo agli Affari penali ancora con Falcone. Poi, dopo anni alla Procura nazionale antimafia con Pierluigi Vigna – periodo in cui progettarono di ucciderlo – nel 1999 fu nominato Procuratore capo a Palermo e andò a rappresentare una netta discontinuità con Giancarlo Caselli e i vari Ingroia di complemento. Secondo Travaglio, ciò coincise con una «normalizzazione» della procura. Il che è vero. Grasso, che era della corrente di Movimento per la giustizia (quella di Falcone) fece fuori i caselliani uno alla volta. Tra questi, fermandosi ai cognomi: Lo Forte, Scarpinato, Principato, Teresi, Imbergamo, Musso, Paci, Serra, Ingroia eccetera. Si parla di pm che gestirono processi anche fumosissimi (come il mitico «sistemi criminali», dedito a «massoneria, politica e imprenditoria deviate», affidato da Caselli a Scarpinato nel 1993, roba da far sembrare la «trattativa» un capolavoro di linearità) la maggior parte dei quali sarebbero tutti finiti in nulla. Grasso, in un’intervista dell’agosto 2000, parlò esplicitamente di processi caselliani «capaci di ottenere condanne solo sulla stampa». Altri, più di parte come il forzista Enzò Fragalà, citarono la «gestione strumentale dei pentiti, spese pazze e inutili, le enormi risorse pubbliche messe in campo al fine di costruire e portare avanti teoremi politico-giudiziari finiti come sappiamo, senza peraltro che i geometri abbiamo dovuto scontare alcunché per gli errori commessi». Ho citato un forzista ma è stata una visione condivisa anche a sinistra. Grasso, come suo vice, ripescò Giuseppe Pignatone, che a suo tempo aveva lasciato la procura all’arrivo di Caselli; un moderato anche lui (corrente Unicost) che tra i cronisti era popolare come poteva esserlo uno che aveva mandato ad arrestare i giornalisti Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, con l’accusa di peculato. Due pentiti come Brusca e Cancemi lo chiamarono in causa tre volte, ma altrettante la sua posizione fu archiviata. Tuttavia per Travaglio (e Ingroia) ancor oggi è come nominare il demonio: e al tentativo di «mascariarlo», il vice-Ingroia ha dedicato pagine intere. Una grave colpa di Pignatone fu certamente quella di diventare vice di Grasso al posto dei vari caselliani Alfredo Morvillo, Anna Palma o Sergio Lari. Normalizzazione: nel senso che normale, prima, non era niente. Grasso lavorò con avocazioni, redistribuzioni, monitoraggi, non volle la responsabilità degli insuccessi di Caselli (Andreotti, Musotto, Canale, Di Caprio, Mori, Rostagno, Carnevale, Mannino, stragi, ecc.) e prese di mira certe toghe superstar: ma piano, sinuosamente, alla democristiana. Fece un fondo così ai magistrati che si lagnavano perché la scorta gli era stata ridotta, ad altri tolse la seconda auto o i piantoni fuori casa (roba che in Sicilia fa status) e alcuni li fece addirittura lavorare, fottendosene di gerarchie non scritte come quelle che volevano Lo Forte e Scarpinato come grandi pensatori. Torna in mente una proposta di Ingroia e Scarpinato da loro messa nero su bianco su Micromega del 2003: «Sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale… Nella nuova Costituzione europea bisogna porre il problema degli interventi politici e istituzionali, compreso, come estrema ratio, il commissariamento europeo nei confronti degli Stati membri». Ora saranno contenti, data l’aria che tira. Una circolare del Csm del 1993, comunque, prevedeva che i pm dalla Dda (Direzione Distrettuale Antimafia) scadessero dopo otto anni, ma Lo Forte e Scarpinato pretendevano che la faccenda non li riguardasse perché loro erano procuratori aggiunti. L’ebbe vinta Grasso. Anche Ingroia e Gioacchino Natoli, estromessi allo scadere degli otto anni, riformularono domanda dopo tre: ma Grasso, appigliandosi a un parere del Csm, riuscì a prolungare la loro esclusione per sei lunghi anni. Grasso ebbe la meglio su Scarpinato e Lo Forte – più Ingroia – anche nel suggerire che a Totò Cuffaro, anziché il solito concorso esterno in associazione mafiosa, fosse contestato il favoreggiamento: ed ebbe ragione lui, com’è noto. Si può immaginare, insomma, quanto Ingroia e company amassero e amino Grasso. I caselliani, già ai tempi, scatenarono l’apocalisse e Ingroia lo fece nel suo modo consueto: «Non è una lite tra primedonne», disse, «come non lo furono quelle tra Falcone e i suoi avversari negli anni Ottanta». Mentre Scarpinato, su Micromega, lamentava che stavano estromettendo «quei magistrati che nella procura di Caselli avevano condotto le inchieste più delicate su mafia e politica». Il problema è che Pietro Grasso aveva le regole dalla sua e poco gli importava della sacralità antimafia di questo o quello. Quando tolse a Lo Forte e Scarpinato le inchieste che stavano seguendo, nel luglio 2003, la decisione era già stata avallata dal Csm: ma i due sostituti, secondo Grasso, pretendevano che lui aggirasse la decisione: lo raccontò in un’intervista alla Stampa. Per il resto è vero: Grasso, nel 2000, non controfirmò l’Appello contro Andreotti, che era stato assolto: e non mise neppure il visto di presa visione. Lui naturalmente ha sempre spiegato di non aver sottoscritto il ricorso come conseguenza della «piena autonomia dei sostituti di udienza», e ha detto che la vera ragione è che lui sarebbe stato testimone nel processo d’Appello: ma sa di paraculata. Non ne voleva la responsabilità. Anche perché, in effetti, non era sua. È pure vero che nel 2002, Grasso, nascose ai caselliani la gestione del pentito Nino Giuffrè. Ne aveva diritto. Ascoltò il pentito per tre mesi e ciò portò ad arresti che stroncarono una malavita fattiva e reale nella zona delle Madonie: questo anziché accreditare, da subito, oscuri scenari sulla storia d’Italia. Grasso lo fece anche perché aveva bisogno di verificare l’affidabilità di Giuffrè e di garantire per la sua sicurezza familiare. La vicenda finì al Csm che deliberò così: «Come ha spiegato il dottor Grasso, si è verificata un’incomprensione dovuta alla mancata comunicazione al dott. Lo Forte delle ragioni di prudenza per le possibili fughe di notizie a causa delle costante e pressante presenza di giornalisti negli uffici della procura». In lingua italiana: i verbali di Giuffrè non erano stati mostrati a Lo Forte per evitare fughe di notizie. Un’accusa indiretta e beffarda. Grasso ribadì il concetto sul Corriere della Sera: se non ci sono state fughe di notizie – disse – è perché non ho mostrato i verbali ai pm né a nessuno. Travaglio invece la metterà così: «Muoiono così la filosofia e la prassi del pool, fondate sulla libera circolazione delle informazioni e sulla fiducia reciproca… cala una pietra tombale sulle conquiste di Falcone e Borselino». Erano calate solo le fughe di notizie. Dopodiché certo: Pietro Grasso, detto Piero, fu nominato procuratore nazionale antimafia. E Caselli no. Il terzo governo Berlusconi, con un emendamento, mise fuori gioco Caselli per sopraggiunti limiti di età. Non fece una legge apposita, ne fece tre: una delle quali – dopo che Grasso era già stato eletto – fu giudicata illegittima dalla Corte costituzionale. Tuttavia nessuno può dire che Caselli, senza quella legge, avrebbe vinto: in ogni caso gli sarebbe servito l’appoggio del Csm, che avrebbe potuto benissimo preferirgli Grasso. È quello che ha sostenuto in un’intervista all’Ansa, lunedì, il pm palermitano Giuseppe Fici, che all’epoca era al Csm e visse i fatti in prima persona: «Confermo il convincimento, mio e di tutto il consiglio, che Grasso avrebbe prevalso su Caselli anche senza l’intervento della maggioranza parlamentare. Convincimento fondato sulla proiezione dei voti espressi in Commissione: in favore di Grasso si erano pronunciati il laico di centrodestra e i togati di Unicost e Magistratura Indipendente, con una prospettiva di almeno 14 voti sicuri». Grasso peraltro ne ebbe 18, di voti, con cinque astensioni. Sull’ambiguità di Grasso come personaggio «politico», detto questo, si potrebbero scrivere pagine intere. Nel maggio 2010 dichiarò che la mafia aveva «inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»: e in molti vi lessero un riferimento a Forza Italia. Poco tempo dopo dichiarò che il centrodestra aveva introdotto leggi eccellenti sulla mafia e che il governo Berlusconi era da premio. Aggiunse pure che Ingroia «fa politica utilizzando la sua funzione. È sbagliato, ma per la politica è tagliato». Aveva ragione, ma figurarsi il Travaglio del giorno dopo: «Ingroia è uno dei pm che indagano sulle trattative Stato-mafia, che quando Grasso era procuratore a Palermo erano tabù, e che coinvolsero anche la Banda Berlusconi». Subdolo come suo solito. Persino Massimo Ciancimino, ex cocco di Ingroia e Travaglio, tentò di sputtanare Grasso: e in effetti mancava. Non c’è riuscito Ciancimino e non c’è riuscito nessuno. Non ci riuscirà Travaglio. Resta divertente è che un tratto di Grasso ritenuto imperdonabile, secondo quanto ha scritto Travaglio, è una sua sostanziale impunità nel dire le stesse cose di Ingroia senza suscitare vespai; si trovano dichiarazioni di Grasso contro le leggi governative in tema di giustizia, contro la riforma dei pentiti, contro ogni ipotesi di riforma giudiziaria e antimafia. «Grasso», ha scritto Travaglio, «gode di una straordinaria libertà di parola, può dire ciò che vuole senza che gli piova addosso non solo un’azione disciplinare, ma nemmeno un attacco dei pasdaran berlusconiani… ha il raro privilegio di potersi permettere qualsiasi critica alla politica, senza che nessuno batta ciglio». È vero. Si chiama autorevolezza, o qualcosa del genere. Se da magistrato non ce l’hai, tuttavia, puoi lagnartene in televisione a mezzo Travaglio.

A proposito di Dell’Utri. La condanna di Marcello Dell’Utri (Palermo, 1941) da parte della Corte di Appello di Palermo, dopo l’annullamento di una precedente condanna della Corte di Cassazione, coincide con il ritiro del più grande amico e compagno di avventura di Silvio Berlusconi dell’attività politica e parlamentare. Bisogna ricordare, infatti, che Dell’Utri, divenuto negli anni Ottanta presidente e amministratore prima di Publitalia, quindi amministratore delegato del gruppo Fininvest, è stato nel 1993 il fondatore di Forza Italia con l’imprenditore di Arcore e dal 1996 è deputato al parlamento nazionale, tre anni dopo è parlamentare europeo e, dal 2001 fino al 2013, senatore della repubblica del PDL. Una carriera politica di tutto rispetto “nobilitata” – si fa per dire – dall’attività di raccoglitore di libri antichi e bibliofilo (che l’ex direttore sportivo di piccole squadre, come quella del quartiere Tiburtino-Casal Bruciato del Centro internazionale per la gioventù lavoratrice gestito dall’Opus Dei) svolge con continuità nel ventennio populista a Milano e a Palermo presiedendo biblioteche e circoli culturali (come la commissione per la Biblioteca del Senato) e cercando di intervenire nei dibattiti nazionali. «Non sono contento, non posso esserlo - ha spiegato ancora Dell'Utri ai cronisti - ma sono tranquillo. Del resto le cose non le posso cambiare io. Aspetto le prossime puntate di questo romanzo criminale che non poteva finire qui. La vita va avanti, c'è la trattativa e il resto. Il romanzo continua». E già. Perché comunque si concluda in Cassazione questo processo, spiega Mariateresa Conti su “Il Giornale”, c'è un altro dibattimento, sempre a Palermo, che incombe (inizia a maggio 2013) e che muove i primi passi, quello sulla presunta trattativa Stato-mafia che vede l'ex senatore Pdl tra gli imputati. Tecnicamente, la sentenza, non ha fatto altro che ridefinire la condanna seguendo le indicazioni date dalla Cassazione, che aveva giudicato scarsamente motivata la condanna per il periodo compreso tra il 1978 e il 1982, quando Dell'Utri lasciò Berlusconi per andare a lavorare con Filippo Alberto Rapisarda. Non solo. Pur senza scardinare alla radice il castello accusatorio - così come era sembrato a caldo quando la Suprema corte aveva annullato, perché le considerazioni del pg sulla mancanza di prove e sul reato di concorso esterno erano state tranchant - la Cassazione, per il periodo dal 1982 al 1992, pur ritenendo dimostrati contatti tra Dell'Utri e i clan, aveva chiesto di dimostrare che ci fosse l'intenzione di aiutare la mafia. Si dovranno leggere le nuove motivazioni, ma vista la durezza della condanna - ai 7 anni si aggiunge il pagamento delle spese legali alle parti civili - è evidente che i giudici ritengano di aver trovato una soluzione. Del resto, sui rapporti con Vittorio Mangano (accusato di mafia e morto durante il processo di primo grado), il famoso «stalliere» portato da Dell'Utri ad Arcore per proteggere Silvio Berlusconi che temeva il sequestro di familiari, Dell'Utri non ha mai fatto marcia indietro. Ancora ieri, nelle dichiarazioni spontanee rese poco prima che i giudici si ritirassero in camera di consiglio ha ribadito: «Non ho mai aiutato la mafia ma ho aiutato soltanto a Milano Vittorio Mangano, che era una persona per bene».

TRATTATIVA STATO-MAFIA. Processo allo Stato.

Trattativa Stato-Mafia: perché Calogero Mannino è stato assolto. Un'altra batosta per i pm di Palermo: l'ex ministro "non ha commesso il fatto", scrive Anna Germoni su “Panorama” il 4 novembre 2015. Altra batosta per i pm di Palermo: oggi il giudice Marina Pitruzzella ha chiuso il processo-stralcio abbreviato sulla presunta trattativa tra Stato e mafia che aveva come unico imputato l'ex ministro Dc Calogero Mannino, accusato di minaccia a corpo politico dello Stato. Gli altri imputati, ex ufficiali del Ros, politici e capi mafia, vengono invece processati con rito ordinario dalla Corte d'assise di Palermo. Era stato l’ex ministro democristiano a chiedere il processo abbreviato. L’assoluzione di Mannino, che la giudice Pitruzzella ha stabilito non aver commesso il fatto, arriva in realtà dopo ben 23 mesi di processo: secondo i pm (che avevano chiesto una condanna a 9 anni di reclusione) l’ex ministro, temendo per la sua incolumità, nel 1992 avrebbe fatto pressioni sui carabinieri del Ros perché avviassero un "dialogo" con i clan. È dal 2006 che i pm palermitani conducono inchieste “matrioska” sui Ros dei carabinieri e sulla presunta trattativa tra boss mafiosi e uomini dello Stato. I giudici finora non hanno mai creduto alle loro accuse. La Procura ha inanellato una serie d’insuccessi: prima con l’assoluzione per il favoreggiamento mafioso per la mancata perquisizione del covo di Riina, a carico del prefetto Mario Mori e del capitano Sergio De Caprio, finita con un’assoluzione divenuta irrevocabile nel luglio 2006. Poi è venuta l’assoluzione in primo grado per gli ex ufficiali dell’Arma, Mario Mori e Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento mafioso per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, nell’ottobre del 1999 a Mezzojuso (ora il processo è davanti alla corte d’Appello del capoluogo siciliano). E proprio da quest’ultima inchiesta clone, è nato uno dei più grandi e controversi processi nella storia italiana (oltre un milione e mezzo di atti depositati nell’inchiesta), quella della presunta trattativa tra i capimafia e alcuni uomini di Stato, accusati di minaccia a un corpo politico dello Stato, per esser scesi a patti con Cosa nostra, in cambio di un alleggerimento del sistema carcerario duro (il cosiddetto 41 bis) durante la stagione delle bombe del 1992-93. Sul banco degli imputati, i boss sanguinari Salvatore Riina, Antonio Cinà, Leoluca Bagarella, insieme agli ex ministri, Nicola Mancino (accusato di falsa testimonianza ai pm) e Mannino, ai generali Mario Mori e Antonio Subranni, all’ex colonello dell’Arma Giuseppe De Donno, al senatore Marcello Dell’Utri e al superteste Massimo Ciancimino, che ha guai giudiziari in molti Palazzi di giustizia italiani. “I processi penali non sono i luoghi più adatti a ricostruire la Storia. Si fanno con i fatti e per accertare precise condotte penali”. Così si è espresso l’avvocato Nino Caleca, uno dei legali, assieme a Marcello Montalbano dell'ex ministro Mannino. “Andremo avanti, ci opporremo alla sentenza di assoluzione” ha commentando il pm Antonino Di Matteo, titolare dell’inchiesta. Più caute invece le parole del procuratore capo Francesco Lo Voi: “Valuteremo se impugnare la sentenza dopo averne letto le motivazioni”. Segno di una presa di posizione più avveduta, e forse di qualche dissenso all’interno della stessa Procura.

Mannino contro tutti. Dai pm al giornalista "guitto", scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 04 Novembre 2015 su “Live Sicilia”. Più che un'intervista è uno sfogo. Sono durissime le parole dell'ex ministro Dc subito dopo l'assoluzione al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Mannino contro Di Matteo: "Ha fatto condannare innocenti". Calogero Mannino chiede un po' di tempo per riordinare le idee. Per metabolizzare la notizia dell'assoluzione. Poi, scende dalla sua abitazione e attacca a testa bassa. Ce l'ha con i pubblici ministeri. È chiaro fin da subito: “Io spero che sia stata scritta la parola fine. Certamente è stata scritta su questo atto con una decisione coraggiosa che conferma il mio convincimento. Ho sempre avuto fiducia nella giustizia, non nei pm che rappresentano l'accusa, molte volte in maniera ostinatamente pregiudiziale".

Sta dicendo che da parte della Procura ci sarebbe stato un accanimento nei suoi confronti?

"Non capisco perché lei parla di Procura della Repubblica, dovrebbe parlare di alcuni pubblici ministeri. Allora le dico di sì, c'è stato decisamente un accanimento. La tesi dell'accusa è fantasiosa, l'abbiamo dimostrato. Leggete l'atto di rinvio a giudizio del Gup, lo stesso Morosini (Piergiorgio Morosini, ndr) si poneva il problema delle prove e affidava ai pm l'incarico di dimostrarle. Non avevano prove, perché non ci sono fatti. In questa vicenda io sto da un'altra parte, ho sempre servito lo Stato e la Repubblica con lealtà. Senza la mia azione politica non ci sarebbero stati due fatti importantissimi: il sostegno politico all'iter complesso e travagliato del maxi processo e quello che ha portato Giovanni Falcone alla direzione generale degli Affari penali. Fu una scelta non personale ma di tutto il governo Andreotti, che fece propria la strategia di Falcone".

Cos'è stato allora, un processo politico?

"No, tranne Ingroia che poi è fuggito, questi pm non hanno una dimensione politica, hanno dimostrato di avere delle debolezze, qualcuno per altro è assuefatto alla ostinazione accusatoria. Di Matteo è il pm che ha fatto condannare persone innocenti a Caltanissetta. E nessuno gli chiede conto e ragione di ciò, forse con la sua ostinazione voleva ripetere l'errore. I pm si sono dimostrati privi del senso comune, pensare che potessi condizionare tutti è ridicolo".

Se accanimento c'è davvero stato, lei si sarà chiesto il perché?

"Questa domanda va rivolta ai pm. La funzione dell'accusa non è esercitarsi liberamente, ma valutare se sono state trovato prove o meno".

Lei è considerato l'ispiratore dei contatti fra ufficiali dei carabinieri e Cosa nostra. In pratica avrebbe dato il via alla Trattativa.

"È ridicolo. Chi conosce l'Arma dei carabinieri sa che è fedele nei secoli".

La sua assoluzione rischia di minare il processo ancora in corso in Corte d'assise?

"È una valutazione che non intendo fare. Per quel che mi riguarda sono stato assolto per non avere compiuto il fatto. Sono esterno ed estraneo ad ogni possibile Trattativa".

La Trattativa ci fu o no?

"Ne dubito. Ci sono stati carabinieri che hanno fatto il loro mestiere".

La Procura dice che impugnerà la sentenza?

"Male. In realtà non è la Procura ma un pm. Ha già annunciato che farà appello (il riferimento è ad Antonino Di Matteo, mentre il procuratore Francesco Lo Voi ha detto che prima bisognerà leggere le motivazioni per valutare cosa fare, ndr). È la prova dell'ostinazione che dovrebbe essere spiegata da questo pm (Di Matteo, contattato dall'Ansa, ha replicato che “non può rispondere alle dichiarazioni di un imputato).

Mannino si sente, dunque, vittima della giustizia?

"Non della giustizia, ma vittima di alcuni pm che continuano la seguire la linea politica a loto impartita a cavallo dagli anni Novanta".

Impartita da chi?

"In quella fase dalla convergenza di interesse fra una parte del Partito comunista e una parte della magistratura".

Nella vicenda Trattativa sono stati coinvolti diversi politici. C'è stata pure la deposizione in aula dell'allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Cosa ne pensa?

"È stato penoso. Si è portato Napolitano in un'aula giudiziaria senza avere riguardo per l'immagine dell'Italia nel mondo. Mantengo non pochi rapporti con rappresentanti di molti paesi e so benissimo che ha pesato negativamente. Ma questo non interessa a questi pm. A loro interessava lo spettacolo che un guitto ha fatto in alcune sale cinematografiche in cui impartiva loro gli indirizzi relativi al processo".

Scusi, chi sarebbe il guitto?

"Un suo collega, un giornalista. (Tra i cronisti c'è chi fa il nome di Marco Travaglio). Me lo sta dicendo lei, non confermo e non smentisco (sorride ndr)".

È pensabile che un processo così delicato sia stato impostato su quello che lei definisce un guitto?

"No, ci ha fatto qualche libro e ci ha guadagnato un po' di soldi".

In questi tre anni ha mantenuto la fiducia nella giustizia?

"Ero sicuro della mia innocenza e poi vi sono moltissimi giudici, i più, che sono limpidi e sereni".

Oggi come si sente?

"Sono contento soprattutto per mio figlio e per i mie nipoti. In questa vicenda non c'è spazio per un contributo dell'immaginazione. Nel 1991 l'esplosione della rabbia di Cosa nostra si è trovata coincidente con interessi politici interni al paese ed esterni che volevano la fine della Dc. È un dato di fatto, un obiettivo realizzato".

I 13 secondi di Marina Petruzzella. Il giudice che ha assolto Mannino. Chi è il magistrato che ha processato l'ex ministro Dc. Con la sentenza ha travolto anni di indagini sulla trattativa Stato-mafia. E dire che al processo dei processi è approdata per caso. Con la fama di castigatrice. Da Il Foglio del 6 novembre 2015 oggi in edicola. Le sono bastati tredici secondi per travolgere anni di indagini. Giusto il tempo necessario per leggere il dispositivo della sentenza con cui ha assolto Calogero Mannino. Poi, il giudice Marina Petruzzella ha abbandonato la scena. Non sarà mica stato per evitare le telecamere? Il dubbio è legittimo, visto che il giudice non era passata dalla sala trucco. E neppure dal parrucchiere. Non che la sua pettinatura fosse in disordine, per carità. Ma di certo la messa in piega non era fresca di giornata. Lei è fatta così, dice chi la conosce bene. Niente apparenza. Non ama i riflettori, ma scrive parecchio. Allora è davvero finita nel posto sbagliato. Perché quello sulla trattativa Stato-mafia, sia nella costola manniniana che nel troncone principale, è stato, è e continuerà ad essere roba da riflettori televisivi, libri, paginate di giornali e chi più ne ha più ne metta. Faceva quasi tenerezza - nel senso buono del termine - questo giudice minuto al suo ingresso in aula. Lei da sola, con il cancelliere accanto, e di fronte l'antimafia corazzata dei pubblici ministeri, gli occhi vigili delle scorte, gli obiettivi di fotografi e cineoperatori, i taccuini dei giornalisti e dei calligrafi, e i tenutari di agende rosse. Una piccola formica al cospetto di un branco di leoni. Dovrà farsene una ragione: da oggi, dopo 24 anni in magistratura, Marina Petruzzella sarà soprattutto il giudice che ha demolito il cuore dell'inchiesta sulla Trattativa. E dire che al processo dei processi è approdata per caso. Il titolare era il Gup Piergiorgio Morosini che, però, dopo avere rinviato a giudizio gli altri imputati chiese di astenersi dal giudicare Mannino perché, disse, aveva già fatto attività istruttoria. Dunque, era in qualche entrato nel merito delle accuse. Ottenne così l'astensione. Il fascicolo fu assegnato a Petruzzella che era stata designata giudice supplente qualora si fosse verificato un qualsiasi impedimento di Morosini. Siamo certi che Mannino, appresa la notizia, fece gli scongiuri per scacciare la cattiva sorte e i brutti pensieri. La Petruzzella ha fama di castigatrice. Di giudice dalla condanna facile secondo alcuni, di magistrato rigoroso secondo altri. Al Palazzo di giustizia di Palermo c'è arrivata nel 1996, dopo avere lavorato a Bergamo nei primi cinque anni di carriera. Dal 2004 è all'ufficio del giudice per le indagini preliminari. O meglio era, visto che il processo Mannino è l'ultimo che ha celebrato da Gup. Si è già insediata in Corte d'assise. Avrebbe dovuto coabitare con Silvana Saguto se quest'ultima non fosse stata sospesa dal Csm per la brutta, bruttissima storia della mala gestio delle misure di prevenzione palermitane. Slegata dagli interessi correntizi che zavorrano la magistratura, riservata e con la stanza piena di fascicoli e libri, Marina Petruzzella non ha perso occasione per dare dimostrazione di polso e fermezza. Ha bacchettato la Procura rispendendo al mittente richieste di archiviazione, imponendo proroghe di indagini e ordinando imputazioni coatte. È sui reati ambientali e contro la pubblica amministrazione che ha costruito una grande competenza. Quasi vent'anni vissuti a Palermo e manco una sua fotografia in archivio. Tranne uno scatto “rubato”, non ce ne voglia, in ufficio mentre ci dice, all'indomani dell'assoluzione di Mannino, che non ha nulla da dire e deve lavorare. Immaginiamo anche per scrivere, entro i 90 giorni di tempo che si è presa, le motivazioni della sentenza con cui ha travolto, più che un'impostazione accusatoria, un monumento dell'antimafia edificato dai pubblici ministeri e fortificato con le comparsate televisive, gli articoli sui giornali, le rassegne teatrali, le pellicole da cinematografo e le fiaccolate con cui si è tentato di marcare il confine fra i buoni e i cattivi, tra trattativisti e i negazionisti. Pensare che tutto ciò sia finito è pura illusione, nonostante l'assoluzione di Mannino sia un colpo mortale alla tesi dei pm Teresi, Di Matteo, Del Bene e Tartaglia poiché spazza via la parte fondante dell'impianto accusatorio. Secondo i pm, Mannino è stato l'iniziatore del presunto ma scelleratissimo patto fra boss e uomini delle Istituzioni. È stato Mannino, temendo per la sua vita dopo l'assassinio di Salvo Lima, a chiedere agli ufficiali dei carabinieri di trattare con Totò Riina per evitare che i boss gli facessero la pelle. È stato Mannino ad attirarsi la collera dei capimafia che da lui si sentirono traditi quando la Cassazione rese definitiva una sfilza di ergastoli. Ora il Gup Petruzzella ci dice che Mannino non ha commesso nulla di tutto ciò. Non è stato l'ispiratore della Trattativa. È finita? Manco per idea. Innanzitutto ci sono il processo principale ancora in piedi e l'inchiesta bis con la quale si ipotizza che il dialogo segreto con i mafiosi non sia stato condotto solo da politici e carabinieri, già sotto processo, ma pure da uomini dei servizi segreti in un contesto più generale di di attacco allo Stato. E poi c'è la formula con cui Mannino è stato assolto, quella del 530 prevista quando “la prova manca, è insufficiente o contraddittoria”. Uno spiraglio per tutti, per i pubblici ministeri che impugneranno la sentenza (Di Matteo è certo, il procuratore Lo Voi prima vuole leggere le motivazioni), per i salottieri delle tivvù e gli scrittori di libri.

Ventuno anni dopo il tritolo di Capaci e via D'Amelio, sul banco degli imputati, insieme alla politica e a vertici di Cosa nostra, c'è finito anche lo Stato. Processerà se stesso, a partire dal 27 maggio 2013, scrive Fabrizio Colarieti. Qualcuno lo ha paragonato al processo Andreotti, quando per la prima volta il sospetto che la politica, quella con la "p" maiuscola, fosse collusa con la mafia finì dentro un'aula di tribunale. Ventuno anni dopo il tritolo di Capaci e via D'Amelio, sul banco degli imputati, insieme alla politica e a vertici di Cosa nostra, c'è finito anche lo Stato. Processerà se stesso, a partire dal 27 maggio, il giorno in cui, secondo il gup Piergiorgio Morosini, quattro boss mafiosi, due politici, tre ufficiali dell'Arma dei carabinieri e un ambiguo testimone dovranno rispondere di fronte alla giustizia di aver preso parte, con ruoli differenti, alla presunta trattativa Stato-Mafia. E' uno dei capitoli più oscuri della storia del nostro Paese. Secondo i magistrati di Palermo - che dopo quattro anni di indagini hanno chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio di tutti gli indagati oggi imputati in attesa di giudizio dinanzi alla prima Corte d'Assise di Palermo - per fermare le stragi, tra il 1992 e il 1994, lo Stato scese a patti con Cosa nostra. Facendo avvicinare i vertici della cupola palermitana dagli emissari del Ros dei carabinieri con in tasca il benestare della politica a trattare una resa militare, sedendosi a un tavolo che era già sporco di sangue. Quello del giudice Paolo Borsellino, che dello scellerato dialogo in corso tra i carabinieri e i colonnelli di Riina era venuto certamente a conoscenza poco prima della sua morte, e di Giovanni Falcone, il magistrato che aveva osato sfidare la piovra convincendo don Masino Buscetta a parlare e che da anni sosteneva l'esistenza di un "terzo livello". Questo, in estrema sintesi, è il teorema a cui ha creduto il gup Morosini rinviando a giudizio 10 dei 12 indagati dell'inchiesta avviata dai pm Antonio Ingroia, Lia Sava, Antonino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. I boss Salvatore Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e Giovanni Brusca dovranno rispondere di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. Stessa accusa anche per tre ufficiali dell'Arma dei carabinieri, i generali Mario Mori e Antonio Subranni, e il colonnello Giuseppe De Donno, e per il senatore del Pdl, Marcello Dell'Utri. Falsa testimonianza è invece l'accusa rivolta nei confronti dell'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino. Massimo Ciancimino, testimone chiave dell'inchiesta e figlio dell'ex sindaco di Palermo, Vito, dovrà rispondere di concorso in associazione mafiosa e calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia di Stato, Gianni De Gennaro. Manca solo lui, Zu Binu Provenzano, la cui posizione è stata stralciata perché l'ex padrino di Corleone, secondo una perizia ordinata dal tribunale, non sarebbe più in grado di comparire in aula a causa di una grave demenza senile. Nelle 34 pagine del decreto di rinvio a giudizio firmato il 7 marzo dal giudice palermitano Piergiorgio Morosini c'è un sunto delle 300mila scritte dal pool di Palermo per riannodare i fili di una storia che parte dall'omicidio del leader della Dc siciliana, Salvo Lima (12 marzo 1992). Il delitto, da cui tutto ebbe inizio, che secondo i magistrati «fu la risposta di Cosa nostra allo Stato che, dopo la sentenza di Cassazione del maxiprocesso, aveva messo in crisi la credenza d'impunita  dei boss, condizione essenziale per la sopravvivenza dell'organizzazione stessa». Dunque la genesi della trattativa - scrivono i pm della procura di Palermo nell'ultima memoria trasmessa al gup il 5 novembre scorso - combacerebbe con la nascita del programma stragista con cui i corleonesi volevano «ristrutturare radicalmente ed in modo irreversibile e violento il rapporto con la politica». Prima di quel "papello", con le condizioni per fermare le stragi, che secondo gli inquirenti passò dalle mani di Totò u curtu a quelle degli uomini del Ros, la mafia subì colpi durissimi che la procura riassume in tre punti: «l'arresto di numerosissimi uomini d'onore; le prime collaborazioni con la giustizia di Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno, Antonino Calderone e Francesco Marino Mannoia; il rinvio a giudizio prima, e la condanna in primo grado poi di tantissimi mafiosi, alla fine di un processo caricato di grande significato politico-simbolico». Tra le carte dell'inchiesta sulla trattativa ci sono, poi, due frasi, che per gli inquirenti assumono un importante valore simbolico. La prima la pronuncia Toto Riina, fare la guerra allo Stato per poi fare la pace». Per la procura di Palermo si tratta di «un modo rozzo di esprimere la ragione dello stragismo mafioso all'ombra dello spirito della trattativa». L'altra è pronunciata da un altro dei dieci imputati di questo processo, Leoluca Bagarella: «In futuro non dobbiamo piu  correre il rischio che i politici possano voltarci le spalle». Parole che rappresentano, sempre secondo gli inquirenti, l'obiettivo strategico di Cosa nostra e cioè «costruire le premesse per un nuovo rapporto con la politica, perché fosse Cosa Nostra ad esprimere direttamente le scelte politiche attraverso i suoi uomini, senza alcuna mediazione. Annullare la politica ed i politici tradizionali per favorire l'ingresso della mafia in politica, tout court». A gestire la trattativa, scrivono i pm del pool di Palermo nella memoria inviata al gup Morosini, per Cosa nostra fu Riina in persona, per lo Stato furono gli ufficiali del Ros (Subranni, Mori e De Donno) «a loro volta investiti dal livello politico (ed in particolare dal sen. Calogero Mannino, all'epoca Ministro in carica ed esponente politico siciliano di grande spicco), che contattarono Vito Ciancimino - a sua volta in rapporti con Salvatore Riina per il tramite di Antonino Cinà - nel 1992, nel pieno dispiegarsi della strategia stragista ». Una trattativa «unitaria, omogenea e coerente» che nel tempo - fino al 1994 - subi  «molteplici adattamenti», cambiò «interlocutori e attori da una parte e dall'altra », fino a quando «le ultime pressioni minacciose finalizzate ad acquisire benefici e assicurazioni hanno ottenuto le risposte attese». Cosa nostra avviò una vera e propria «campagna del terrore contro il ceto politico dirigente dell'epoca al fine di ottenere i benefici e i vantaggi che furono poco dopo specificati nel papello di richieste che Riina fece pervenire ai vertici governativi». La mafia, scrivono i magistrati di Palermo, arrivò a minacciare lo Stato attraverso uomini politici «cerniera, cinghie di trasmissione»: Calogero Mannino prima (che sarà giudicato con il rito abbreviato dal prossimo 20 marzo) e Marcello Dell'Utri dopo. Mannino e Dell'Utri, così come i tre alti ufficiali dell'Arma imputati in questo processo, per la procura, e per il gup che ne ha sposato l'impianto accusatorio, fornirono «un consapevole contributo alla realizzazione della minaccia, con condotte atipiche di sostegno alle condotte tipiche che si sono risolte nell'avere svolto il ruolo di consapevoli mediatori fra i mafiosi e la parte sottoposta a minaccia, quasi fossero gli intermediari di un'estorsione». Il "dialogo", scrive infine Morosini, «avrebbe avuto ad oggetto la disponibilità a trattare sulla concessione di benefìci penitenziari e sull'intervento penale in cambio della cessazione degli attentati». Manca all'appello chi agì nell'ombra. Il giudice Morosini, motivando il rinvio a giudizio, dedica un paragrafo all'analisi di uno scenario parallelo alla trattativa che contiene ancora molte zone d'ombra. E' il ruolo dell'intelligence deviata e il tentativo di destabilizzare il Paese da parte di «consorterie di diversa estrazione interessate a "sfruttare" la crisi politico-istituzionale italiana e ad acuirla con "azioni destabilizzanti"». «Dall'esame delle fonti - scrive il giudice - si ricavano elementi a sostegno di una ipotesi di esistenza di un progetto eversivo dell'ordine costituzionale, da perseguire attraverso una serie di attentati aventi per obiettivo vittime innocenti e alte cariche dello Stato, rivendicati dalla Falange Annata, compiuti con l'utilizzo di materiale bellico proveniente dai paesi dell'est dell'Europa». Una strategia del terrore nata dalla saldatura di Cosa nostra con entità di «diversa estrazione», favorita dalla mediazione di «uomini cerniera» tra crimine organizzato, eversione nera, ambienti deviati dei servizi di sicurezza e della massoneria.

Da aggiungere ancora, a proposito, che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sarà ascoltato come testimone nel nuovo processo per la strage di via D'Amelio in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta, scrive Sky tg24. Il Borsellino Quater, questo il nome del procedimento che riguarda un nuovo filone di inchiesta aperto in seguito alle rivelazioni di Spatuzza, si è aperto il 22 marzo 2013, davanti alla Corte d'Assise di Caltanissetta. I giudici siciliani, convocando il capo dello Stato, hanno dunque accolto la richiesta avanzata dall'avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, il fratello del giudice, che si è costituito parte civile. Napolitano, però, come stabilito dalla Corte d'Assise, non potrà essere sentito sulle intercettazioni telefoniche registrate tra lui e l'ex presidente del Senato Nicola Mancino. Per la morte del magistrato e degli uomini di scorta sono già stati condannati con il rito abbreviato a 15, 10 e 12 anni Gaspare Spatuzza, Fabio Tranchina e Salvatore Candura. Imputati i boss Vittorio Tutino, Salvo Madonia e Calogero Pulci, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino, i tre falsi pentiti autori del depistaggio costato l'ergastolo a sette innocenti. La Procura ha inoltre illustrato la sua lista testi che prevede l'esame di 300 tra pentiti, politici, investigatori e familiari delle vittime. Secondo l'avvocato Fabio Repici, Napolitano, che all'epoca della strage era presidente della Camera, proprio per il suo ruolo "era un osservatore privilegiato di quanto avveniva nei palazzi del potere". Per questo, sostiene il legale di Salvatore Borsellino, il presidente della Repubblica va sentito anche sulla base di quanto il capo dello Stato ha scritto in una lettera alla figlia dell'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. "Il capo dello Stato - ha sottolineato l'avvocato - ha detto di avere accompagnato Scalfaro nei momenti decisivi nel tragico biennio delle stragi di mafia". Il capo dello Stato, in sintesi, verrà sentito su quanto a sua eventuale conoscenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, sulla sostituzione alla guida del ministero dell'Interno, nel 92, di Vincenzo Scotti con Nicola Mancino e sulle difficoltà che incontrò in Parlamento, nel '92, la conversione del decreto legge sul carcere duro. Sono diversi i nomi eccellenti fra politici, esponenti delle forze dell'ordine, uomini d'onore e collaboratori di giustizia di vecchio stampo, nella lista dei testi presentata dall'accusa nel nuovo processo, denominato Borsellino quater. La Procura ha presentato una lista composta da circa 300 testimoni. Altri testi di rilievo sono Carlo Azeglio Ciampi, Luciano Violante e lo stesso Nicola Mancino. La Procura ha chiesto di ascoltare anche il Generale dei Carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno e l'avvocato Gioacchino Genchi. Fra i collaboratori di giustizia spiccano i nomi di Giovanni Brusca, Gaspare Spatuzza, Antonino Giuffré ma anche Ciro Vara, Leonardo Messina. In aula saranno chiamati anche Totò Riina e Massimo Ciancimino. "Con questo processo - ha dichiarato il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari - si vuole fare luce sulla strage di via D'Amelio. Borsellino venne ucciso per essersi opposto alla trattativa Stato-mafia e il progetto omicidiario subì un'accelerazione perché Borsellino si oppose. Sarà anche un processo impegnativo, che mira a svelare il giallo sull'agenda rossa che il magistrato teneva sempre con sè".

Ed ancora. Mario Mori e Mario Obinu sono i due carabinieri del Ros finiti a processo per “favoreggiamento aggravato alla mafia“, scrive “Blitz Quotidiano”. Il pm Nino Di Matteo ha parlato, durante la sua requisitoria, di “inaccettabili omissioni in nome di un’inconfessabile ragione di Stato”. Il pm Di Matteo ha anche accusato l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino di aver tentato di “inquinare le prove”. Il mancato arresto di Bernardo Provenzano nel fallito blitz a Mezzojuso, Palermo, del 31 ottobre del 1995 è per Di Matteo solo uno dei pezzi della complessa storia dei rapporti tra lo Stato e la mafia, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Sullo sfondo della trattativa, il pm Di Matteo ha iniziato la requisitoria del processo ai carabinieri del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, per favoreggiamento aggravato alla mafia, collocando i due militari tra coloro i quali ”obbedendo a indirizzi di politica criminale per contrastare la deriva stragista, hanno ritenuto di trovare un rimedio assecondando la prevalenza dell’ala moderata della mafia, quella refrattaria alla strategia di contrapposizione frontale allo Stato realizzata con omicidi eccellenti ed eclatanti. Era necessario per questo garantire la latitanza a Provenzano”. Cinque anni e oltre settanta udienze di un procedimento penale che lo stesso pm ha definito ”drammatico” hanno portato lo Stato a processare se stesso, a partire dalle dichiarazioni del colonnello Michele Riccio, che secondo l’accusa dimostrerebbero le responsabilità dei suoi superiori, Mori e Obinu, nel fallito blitz, fino a quelle di Massimo Ciancimino che hanno ”fatto tornare la memoria a tanti personaggi che quella storia l’hanno vissuta”. Non sono mancati, ha spiegato il pm, i ”tentativi di strumentale inquinamento della prova” a partire dalle telefonate tra l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino e il consigliere del presidente della Repubblica Loris D’Ambrosio: ”Questo è il processo nel quale Mancino ha palesato di non tenere in conto l’autonomia del vostro giudizio, cercando conforto nelle più alte cariche dello Stato”. Tracciato il contesto, il pm è partito dai primi passi dell’indagine che ha portato al processo: le dichiarazioni del confidente Luigi Ilardo, mafioso della famiglia di Caltanissetta e confidente di Riccio, che indicò al colonnello il luogo di un incontro che sarebbe avvenuto a Mezzojuso con Binu Provenzano. Il pm ha spiegato: “Quella di Ilardo è una storia davvero unica nel panorama criminale del nostro Paese, per certi versi incredibile. Fu ucciso a maggio 1996, cinque giorni prima del suo interrogatorio formale davanti alle autorità giudiziarie che lo avrebbe fatto diventare collaboratore. Un epilogo tragico e avvolto nel mistero. In quel momento le sue rivelazioni avrebbero portato alla consacrazione dal punto di vista giudiziario di quei rapporti che vedevano protagonista anche Marcello Dell’Utri e la formazione del partito Forza Italia. Nel 1995 si poteva scardinare quel sistema provenzaniano che dominò invece incontrastato le strategie del potere mafioso in Sicilia. Si poteva aprire la porta alla verità. La chiave, invece, è stata gettata lontano”. In questo scenario, Mori ha giocato un ruolo da protagonista mettendo in pratica, secondo l’accusa, la ”strategia della confusione”, atta a ”intorbidire le acque e allontanare la magistratura dalla verità”.

AGENDA ROSSA DI BORSELLINO. PROCESSO ALLO STATO: IL PROCESSO MANCATO.

C’é stato il rinvio a giudizio del processo “attentato al corpo politico dello stato” – e qui si legge la testimonianza commovente di Salvatore Borsellino. «Sono da poco rientrato da Palermo. Devo ancora riprendermi dalla profonda emozione che ho provato ieri nel sentire leggere dal Gup Piergiorgio Morosini il dispositivo di rinvio a giudizio per i dieci imputati del processo per “attentato al corpo politico dello Stato”, quello che da ieri potremo chiamare, a pieno titolo, processo per la “trattativa Stato-mafia”. Non di tratta più di “fantomatica trattativa”, di “presunta trattativa” di “pretesa trattativa”. Da ora in poi c’è una sentenza di rinvio a giudizio che rende anacronistico, improprio, deviante, l’uso di questi aggettivi. Da ora in poi si potrà e si dovrà parlare soltanto di “trattativa Stato-mafia”, quella trattativa che è stata la causa scatenante dell’accelerazione dell’assassinio di Paolo Borsellino. Da ora in poi tutti avremo modo di seguire la fase dibattimentale di un processo che, secondo il dispositivo di rinvio a giudizio non si svolgerà davanti a un semplice tribunale ma davanti alla Corte D’Assise, ci saranno quindi dei giudici popolari che, in rappresentanza del popolo italiano, affiancheranno i due giudici togati. Ad essere giudicati, sedendo per la prima volta fianco a fianco sui banchi degli imputati, saranno 4 appartenenti alla mafia e 5 uomini delle Istituzioni oltre al figlio di un mafioso che compare nel processo nella doppia veste di testimone e di imputato. Lo Stato processa se stesso, diventa realtà quello che Leonardo Sciascia giudicava impossibile e il rapporto quantitativo è addirittura prevalente per gli uomini di Stato rispetto ai criminali mafiosi, anche se l’ex ministro Mancino è, per il momento, accusato soltanto di falsa testimonianza.

Da anni aspettavo questo momento, da quando leggendo sulla agenda grigia di Paolo, nel foglio relativo al 1° luglio, annotato il nome di Mancino e sapendo come Mancino avesse sempre negato di averlo incontrato, avevo cominciato a chiedermi quale potesse essere il motivo di una così incredibile amnesia. E avevo cominciato a pensare che potesse essere dovuto al fatto che in quell’incontro fosse avvenuto qualcosa di estremamente grave, l’ingiunzione a Paolo di fermare le sue indagini sull’assassinio di Giovanni Falcone perché lo Stato aveva deciso di trattare con l’antistato.

Da quel giorno cominciai pervicacemente a contestare a Mancino questa circostanza e questa prova testimoniale postuma di Paolo che certificava inequivocabilmente che quell’incontro negato era invece realmente avvenuto. La sola risposta di Mancino era stata la reiterata esibizione di un planning settimanale nel quale, nella colonna del 1° luglio, non c’era annotato alcun appuntamento con Paolo, come se questo potesse rappresentare una prova del fatto che l’incontro non fosse mai avvenuto. Peccato che in quel planning c’erano, per quella settimana, riempite soltanto due o tre righe, come se potesse essere credibile che l’attività di un ministro appena insediato nella sua carica potesse ridursi a due annotazioni in tutta una settimana. E poi di planning Mancino ne deve possedere una collezione, gelosamente custodite, come si è visto in una recente intervista televisiva, in un cassetto che ha aperto davanti all’operatore che lo riprendeva, se è vero che Giuseppe Ayala ha affermato prima di avere visto un’agenda di Mancino in cui quell’incontro era riportato per poi smentire se stesso il giorno dopo dicendo che nell’agenda a lui mostrata da Mancino non era annotato, per il 1° luglio, alcun appuntamento. A fronte delle mie reiterate contestazioni, soprattutto sul fatto che Mancino non poteva pretendere che fosse credibile cha al 1 luglio del ’92 potesse non conoscere, come asseriva, la fisionomia di Paolo Borsellino, ho sempre ricevuto da parte sua soltanto delle sprezzanti affermazioni come di chi crede di essere al di sopra di ogni sospetto e di ogni giudizio e ho appreso di recente, da quanto reso pubblico sulle intercettazioni cui è stato sottoposto in qualità di indagato in questo processo, che alla fine lo stesso si era determinato a presentare querela nei miei confronti e per questo chiedeva aiuto a chi potesse facilitargli questo compito. E’ forse per la tensione dovuta all’attesa di una sentenza che per me, per i pm, per la verità, per la giustizia, è insieme un punto di arrivo e un nuovo punto di partenza, per il pensiero che adesso potrà essere fatta giustizia anche delle definizioni di “pazzo”, di “caso umano”, di “esaltato” che mi sono state affibbiate in questi anni, che non ho sentito pronunciare dal Gup Morosini, tra i nomi dei rinviati a giudizio, il nome da me più atteso, il nome di Nicola Mancino. Quel Nicola Mancino, imputato in questo processo, del quale, nonostante lo abbia più volte incontrato nel corso delle udienze preliminari e gli sia stato seduto a pochi metri di distanza, sugli stessi banchi, nell’aula bunker del carcere dell’Ucciardone a Palermo, dove arrivava con la sua auto blu e con la sua scorta, non sono mai riuscito a incontrare lo sguardo. Ho dovuto risentire la registrazione dell’udienza per sentirlo finalmente quel nome, mescolato a quello dei mafiosi imputati per la “trattativa” e immediatamente dopo il nome di un condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Li elenco nell’ordine, uno dopo l’altro, come li ho ascoltati più e più volte, ogni volta con la stessa emozione: Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Massimo Ciancimino, Antonio Cinà, Giuseppe De Donno, Marcello Dell’Utri, Nicola Mancino, Mario Mori, Salvatore Riina, Antonio Subranni. Mancano due nomi, il nome di Calogero Mannino, perché ha scelto il rito abbreviato e sarà giudicato in uno stralcio di questo processo e quello di Bernardo Provenzano perché una perizia lo ha dichiarato in condizioni mentali che non gli consentono di partecipare, per il momento, a un processo. Spero non si tratti di un caso simile a quello di Bruno Contrada che venne dichiarato quasi in punto di morte, in uno stato incompatibile con quello della detenzione nel carcere militare dove avrebbe dovuto scontare la sua pena e che riacquistò invece improvvisamente la salute quando quella provvidenziale perizia gli permise di finire di scontare la sua condanna nella sua casa, a Palermo, a pochi passi dalla casa della mia sorella maggiore. Che invece, lei sì, è morta da pochi mesi a causa di un tumore, mentre Contrada ha riacquistato a tal punto le forze e la salute da permettergli di frequentare i salotti televisivi e di andare in giro per l’Italia a presentare il suo ultimo libro. C’era accanto a me, durante la lettura dell’udienza, unico imputato presente, Massimo Ciancimino. Pochi minuti prima mi aveva detto che era lì perché, caso anomalo per un imputato, sperava di ascoltare una sentenza di rinvio a giudizio, perché questo avrebbe significato che il processo poteva andare avanti. Dopo la lettura della sentenza l’ho visto li, vicino a me, esultava anche lui come dall’altro lato, vicino a me, gioiva Federica, una mia compagna del Movimento delle Agende Rosse, parte civile in questo processo, che aveva voluto venire apposta da Roma per starmi vicino in un momento così importante. Come gioivano intorno a me tanti altri che, come noi, vedevano in questa sentenza un grande passo avanti sulla strada della Giustizia e della Verità. Ho avuto l’istinto di abbracciarlo e lo ho fatto. Questo mio gesto mi è stato già contestato da alcuni organi di informazione, gli stessi che in altre occasioni hanno ospitato articoli di chi si dichiara sicuro che mio fratello, seppure da morto, sarebbe disgustato da certi miei comportamenti. Gli stessi che mi definiscono “di professione fratello di Paolo Borsellino”, peraltro non a torto dato che io stesso ho sempre sostenuto di fare ancora, a 70 anni non uno ma due lavori, il primo, quello di ingegnere elettronico, lo faccio per vivere, l’altro, quello che mi porta ad andare in tutta Italia per tenere viva la memoria di Paolo, per incontrare tanti giovani nei cui cuori sono custoditi i pezzi di mio fratello, lo faccio per non morire, E per non far morire la mia, la nostra speranza. Senza Massimo Ciancimino, senza che lui, per primo,dalla parte di chi l’aveva vissuto dall’interno come corriere del padre, parlasse della “trattativa”, del “papello”, questa sarebbe ancora “presunta”, ancora “fantomatica”.  Senza la sua collaborazione questo processo forse non sarebbe neppure iniziato. Io ho abbracciato Massimo Ciancimino testimone in questo processo, ho abbracciato il testimone Massimo Ciancimino che, se pure nella contraddittorietà della sua collaborazione, ha fatto sì che tanti uomini delle istituzioni che sono stati partecipi di una scellerata congiura del silenzio e che non siedono, ancora, sul banco degli imputati, riacquistassero, dopo venti anni, almeno una parte delle loro memorie sepolte e, forse, dei loro rimorsi.

Non ho abbracciato Massimo Ciancimino imputato.  Quello, se verrà ritenuto colpevole nel corso di un processo che finalmente, e in parte anche grazie a lui, potrà avere luogo, sarà la Giustizia a giudicarlo.»

Ecco la traduzione del mio articolo pubblicato il 16 febbraio 2013 nel Tagesanzeiger-Magazin in Svizzera, scrive Petra Reski che su Antimafia 2000 chiama Il processo italiano.

Perché Paolo Borsellino doveva morire? E come sparì la sua agenda? Venti anni dopo il massacro lo Stato e la Mafia si trovano per la prima volta in un’aula di tribunale. Il giorno, il suo giorno, è freddo e piovoso. Un vento temporalesco soffia forte sugli striscioni dei dimostranti, su “Ai vivi dobbiamo rispetto, ai morti solo la verità”, su “Uniti contro la Mafia”, sulle cravatte degli avvocati, i berretti dei poliziotti e la giacca blu scuro di Salvatore Borsellino – che assomiglia così tanto al suo fratello assassinato, che la gente di Palermo trasale quando lo vede. Salvatore Borsellino ha 70 anni. Vive a Milano, è ingegnere informatico in pensione e parte civile nel processo che dovrebbe fornire informazioni importanti sul retroscena dell’assassinio di suo fratello Paolo, il magistrato antimafia che fu assassinato dalla mafia il 19 luglio 1992, 57 giorni dopo il suo amico e collega Giovanni Falcone. “Lo stato processa sé stesso” titolano i giornali: in quel giorno, il 30 Ottobre 2012, lo stato italiano siede per la prima volta nella sua storia sul banco degli imputati insieme alla mafia. Durante quattro anni, cinque magistrati hanno indagato i retroscena della trattativa tra rappresentanti dello stato e la mafia: al fine di rinunciare ad ulteriori violenze, sarebbe stata garantita alla Mafia non soltanto la fine dei procedimenti penali, ma anche supporto politico. Tre politici italiani e tre carabinieri di alto grado sono accusati a Palermo di avere trattato con cinque boss mafiosi. I tre politici sono: il senatore Marcello Dell’Utri, già condannato in secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa, braccio destro, uomo di fiducia e figura chiave della ascesa politica di Silvio Berlusconi; l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, come anche l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino. Numerosi indizi provano il fatto che Paolo Borsellino venne a conoscenza della trattativa in corso, ad essa si oppose e per questo dovette morire. Dov’è l’Agenda Rossa? Quando Salvatore Borsellino attraversa il parcheggio del carcere Pagliarelli e oltrepassa la porta d’acciaio del braccio di massima sicurezza, alcuni manifestanti scandiscono “Resistenza, resistenza” impugnando in alto quaderni rossi decorati con fiocchi nei colori nazionali italiani, sui quali c’e’ scritto “Paolo Borsellino. L’agenda rossa”. Questo giorno rappresenta una vittoria dell’Italia onesta, di quella Italia che vuole decifrare il passato per capire il presente, esclama Salvatore Borsellino ai microfoni dei giornalisti, finché viene spinto avanti verso l’aula bunker del tribunale. L’ex ministro Nicola Mancino, un uomo alto con un cappotto di trench, con la faccia arrossata si fa strada verso la sala del tribunale attraverso la calca dei giornalisti. Salvatore Borsellino cerca il suo sguardo. Vuole guardarlo negli occhi, almeno questo. Ma Mancino evita il contatto. I manifestanti davanti al carcere sono arrivati da ogni parte d’Italia per l’apertura del processo, alcuni sedendo anche dodici ore in un autobus, per stare qui in piedi sotto la pioggia a scandire “Fuori la mafia dallo stato”. Tutti appartengono al movimento antimafia chiamato “Agende Rosse”: l’agenda rossa di Paolo Borsellino è diventata il simbolo della lotta contro l’alleanza malefica tra mafia e politica, da quando il magistrato insieme con le sue cinque guardie del corpo è stato fatto saltare in aria per mezzo di un‘autobomba in Via D’Amelio a Palermo, davanti alla casa di sua madre. L’agenda rossa, dalla quale Paolo Borsellino non si separava mai e nella quale notava incontri ed osservazioni, è sparita dal giorno dell’attentato, sebbene la valigetta da lavoro sia stata ritrovata intatta sul sedile posteriore della sua auto, ed anche la batteria di riserva del suo telefonino è rimasta al suo interno perfettamente intatta.

Gli attivisti del movimento “Agende Rosse” non credono all‘idea romantica della forza guaritrice della cultura, come se si potesse sconfiggere la mafia come una debolezza di ortografia, ma cercano l’agenda rossa insieme a Salvatore Borsellino e con questa anche la verità. Condividono la consapevolezza che il segreto della sopravvivenza della mafia sta sopratutto nel rapporto di simbiosi con la politica. E’ stato Paolo Borsellino a dire: “Politica e mafia sono due poteri che controllano lo stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”. Una dichiarazione che nemmeno oggi i partiti affermati sentono volentieri. Tanto più che le loro fondamenta cominciano a sgretolarsi: dietro le spalle dei politici è cresciuto in rete un ampio movimento di opposizione, il “Movimento 5 Stelle”, un movimento che lotta contro le polveri sottili come contro la presenza in parlamento dei condannati in via definitiva, contro la mafia e contro la privatizzazione dell’acqua. I sondaggi per e prossime elezioni lo danno ad una percentuale del 20 per cento – ragione per cui i partiti tradizionali scoprono tutti allo stesso momento appena prima delle elezioni la cosiddetta “questione morale”, e affermano di volere presentare solo candidati senza condanne penali. I giovani italiani sono disgustati dal cinismo della attuale classe politica – vogliono risposte. Per esempio da Giuseppe Ayala, un ex collega di Paolo Borsellino, che era andato in politica per il Partito Democratico. Quando Borsellino è stato ucciso, Ayala fu il primo ad arrivare sul luogo del delitto. Fece aprire con forza la porta dell’auto di Paolo Borsellino e prese la sua valigetta di lavoro. C’è perfino la foto di un carabiniere che ha in mano la valigetta, e la porta via dal rottame dell’auto ancora in fumo, per poi più tardi non voler più ricordarsi, a chi avrebbe dato la stessa valigetta. Il carabiniere più tardi dovrà rispondere della sue responsabilità di fronte alla giustizia, ma sarà assolto. Ayala fornisce sette versioni differenti sullo svolgimento dei fatti. Quando una giovane ragazza del movimento 5 stelle lo interroga sulle sue versioni contraddittorie, Ayala dice alludendo alla ricerca di verità di Salvatore Borsellino: “Anche Abele aveva un fratello”.

I retroscena mai chiariti della trattativa tra mafia e stato galleggiano da due decenni sull’Italia come una nuvola velenosa. L’esistenza della trattativa è stata già accertata da una sentenza a Firenze, ma la classe politica anche oggi non è interessata ad un chiarimento completo, che potrebbe costare in voti alle prossime elezioni. Molti italiani si indignano quando vengono a sapere che l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino ha chiamato al telefono il Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, per fare mettere in riga urgentemente i magistrati di Palermo. Mancino non vuole assolutamente essere interrogato dai magistrati a Palermo. Il consulente giuridico del Presidente tranquillizza Mancino: stia calmo perchè può essere sicuro che il Presidente si prenderà a cuore il suo problema e si impegnerà per lui. E sarebbe fatto di tutto affinché i magistrati palermitani non riescano a raggiungere nulla. Appena ciò viene reso pubblico, Salvatore Borsellino chiede al Presidente della Repubblica di rendere noto il contenuto delle sue telefonate. Questo però non è soltanto rigorosamente negato, ma diventa oggetto di una ulteriore querela: il Presidente in malafede (non il telefono di Napolitano era sotto controllo, bensì quello dell’ex inistro dell’interno) incolpa il magistrati di Palermo di averlo ascoltato illegalmente. I partiti cercano di salvare il salvabile e si esprimono contro il processo. Antonio Ingroia, procuratore aggiunto dell’indagine sulla trattativa stato-mafia, un ex discepolo di Paolo Borsellino, viene accusato di “antipolitica”. Finchè aveva portato avanti i processi contro il braccio destro di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, Ingroia veniva celebrato come eroe dalla stampa di sinistra, ma da quando il Presidente Napolitano, l’ultimo stilita della sinistra è finito per puro caso nel mirino dei magistrati, regna buona armonia tra la stampa di sinistra e quella di Berlusconi: nel 95% dei media italiani si parla solo dei magistrati fanatici e pieni di sé. Ingroia verrà abbandonato persino da Magistratura Democratica. Per proteggere il processo, Ingroia decide di lasciare la responsabilità del processo, dopo la chiusura della fase delle indagini, e di andare in Guatemala, con un incarico antimafia affidatogli dalle Nazioni Unite. Ma a dicembre ci sarà un altra svolta sorprendente : Ingroia fonda un Partito che si chiama “Rivoluzione Civile”, ed entra in campagna elettorale. Secondo i sondaggi, il suo partito raggiungerà rapidamente il 5% dei consensi. Con stupore Salvatore Borsellino osserva come tanti politici, giornalisti e giudici improvvisamente si sentono chiamati a rappresentare l’eredità del suo fratello assassinato. Sopratutto per affermare che Paolo Borsellino sicuramente non avrebbe apprezzato nè l’impegno di suo fratello, nè quello dei magistrati. Dai parenti delle vittime di mafia ci si aspetta sempre che sopportino il loro dolore in silenzio e che non si oppongano nemmeno quando il loro nome viene usato da falsi amici. La vedova di Paolo Borsellino, Agnese, ed i suoi tre figli, sono stati a lungo in silenzio. Però hanno reagito con sdegno, quando l’ex-agente dei servizi segreti Bruno Contrada, condannato per concorso esterno per associazione mafiosa, affermava di essere stato un amico di Paolo Borsellino. In tribunale la vedova di Borsellino ripetè quello che suo marito le disse appena prima di essere ammazzato: “Ho capito tutto. Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno. Ma quelli che avranno voluto la mia morte, saranno altri”. Per dieci anni Salvatore Borsellino è rimasto in silenzio. Nei primi cinque anni dopo l’attentato si è anche impegnato per diffondere il messaggio di suo fratello: andò nelle scuole e nelle università, e provò con questo a consolarsi, a credere che suo fratello aveva dopotutto raggiunto qualcosa, anche se non da vivo, da morto. E’ stata la madre che ha spinto i fratelli, a fare di tutto per preservare l’eredità del figlio assassinato: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene” aveva sempre detto Paolo Borsellino. Era convinto che la mafia non poteva essere vinta solo attraverso la repressione. La lotta deve essere un movimento culturale e morale, portato avanti dai giovani italiani: “Generazioni che sono sensibili al profumo della libertà e disgustati dal puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza e di conseguenza, della complicità”. Ma quando nel 1997, la madre morí per Salvatore è come se si fosse dissolto un legame. Come se non ci fosse più corrente. Salvatore Borsellino non partecipa più né alle commemorazioni per suo fratello e per Giovanni Falcone, né alle discussioni dell’antimafia. Non mette più’ piede in Sicilia. E vede come tutto collimi al meglio. Per la mafia e per la politica. Sente i proclami di politici di destra come di sinistra, che bisogna finalmente smettere di tormentarsi con questi affari di mafia del passato. Non ci sono più né fiaccolate né lenzuoli bianchi, sui quali c’era scritto “Basta con la mafia”. La normalità, lodata da tanti politici, è il merito del padrino Bernardo Provenzano, che sà che Cosa Nostra può sopravvivere solo se non si mette contro lo stato, bensì se striscia di nuovo in esso. L’anno 1992 è stato un anno fatidico. Per la politica italiana. E per la mafia. Le consolidate certezze erano state spazzate via. Dopo la caduta del muro di Berlino la DC aveva perso lo spettro del comunismo ed i comunisti i soldi da Mosca. A Milano era in corso l’indagine Mani Pulite, che rase al suolo non soltanto i socialisti ed i democristiani, ma tutto il sistema dei partiti italiani. Numerosi politici ed industriali vennero arrestati. La mafia non aveva più un interlocutore politico. A gennaio 1992, le sentenze del maxiprocesso di Falcone e Borsellino vengono confermate in ultimo grado di giudizio, e non cancellate come la mafia avrebbe voluto. Per la prima volta il mito dell’invincibilità della mafia è distrutto. Venne raggiunto un punto di svolta. A marzo 1992 la mafia uccide per la prima volta uno dei suoi protettori: Salvo Lima, l’ex sindaco DC di Palermo, governatore in Sicilia e luogotenente del presidente del consiglio Andreotti. Lima fu colpito da due killer, davanti all’Hotel Palace di Mondello. L’assassinio avrebbe dovuto essere un promemoria per Andreotti: per decenni il sostegno della la mafia gli era stato ripagato con voti elettorali, ma questa volta era mancato al suo dovere, non riuscendo ad annullare le sentenze del maxiprocesso. Dopo l’assassinio di Salvo Lima, molti politici democristiani erano terrorizzati di finire come Lima e facevano di tutto per salvare la propria pelle. Già quattro anni dopo gli attentati alcuni pentiti rivelarono trattative tra i boss ed alti politici e funzionari italiani, e l’esistenza di una lista con dodici richieste, chiamata “papello”, attraverso il quale i mafiosi avrebbero offerto la fine degli atti terroristici e voti ai partiti. Le richieste andavano dalla revisione delle sentenze del maxiprocesso, la fine della confisca dei beni mafiosi, la fine del carcere duro al regime 41 bis e dell’utilizzo dei pentiti. Ed esse vennero, come qualsiasi attento lettore di giornale può testimoniare, tutte soddisfatte. Non solo dal governo Berlusconi, ma anche da quello di centrosinistra. Più avanti un giovane magistrato comincia ad indagare sui mandanti segreti degli attentati mafiosi , tra i quali Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, che vengono sospettati di “concorso in strage”. Le indagini vennero archiviate. Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia e braccio destro di Berlusconi, viene però condannato per concorso esterno in associazione mafiosa a sette anni di carcere. Il primo processo contro Marcello Dell’Utri non viene seguito però da alcuna televisione e da quasi nessun giornale. La mafia è scomparsa dalle notizie. Nell’anno 2007 Salvatore Borsellino compie un pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Vuole fare la strada con suo fratello. Prima di partire, si fa rilasciare due credenziali: una per sé ed una per Paolo. Questa credenziale permette ad i pellegrini di pernottare e di ricevere il certificato dal pellegrinaggio. Quando Salvatore Borsellino presenta la sua credenziale assieme a quella del fratello morto, le persone attorno cominciarono a piangere. Dopo il suo ritorno, decide di rompere il suo silenzio. Adesso non è più la speranza che lo spinge. Ma la rabbia. Alle commemorazioni in Via D’Amelio il giorno della morte di suo fratello non sopporta più di vedere i politici. Per lui è come guardare in faccia gli assassini che tornano sul luogo del delitto per essere sicuri che la vittima è veramente morta. Quando vede che il segretario del partito di Berlusconi vuole deporre una corona di fiori, gli suggerisce di riprendersela e di metterla sulla tomba di Vittorio Mangano, il boss mafioso che visse nella villa di Berlusconi ed il quale viene descritto sia da Berlusconi che da Marcello Dell’Utri come “eroe” perché rimase in silenzio fino alla morte. Essendo un ingegnere informatico in pensione, Salvatore Borsellino vive nella rete. Ha letto gli atti investigativi, le dichiarazioni dei pentiti e degli ex-colleghi di Paolo, legge sentenze, articoli, protocolli che rafforzano i suoi sospetti che suo fratello era venuto a conoscenza dell’esistenza della trattativa tra lo stato e la mafia, alla quale si era opposto. Nell’anno 2007 esce il libro “L’agenda rossa di Paolo Borsellino”, nel quale due giornalisti siciliani dimostrano minuziosamente come la mafia compì l’attentato seguendo gli ordini dei servizi segreti deviati, ragione per cui l’agenda rossa doveva sparire. Poco dopo Salvatore Borsellino pubblica sul suo sito 19luglio1992.com una lettera aperta dal titolo “Un massacro di stato”: chiede, perché non ci fosse un divieto di sosta davanti alla casa della madre, nonostante si sapesse che Paolo Borsellino andava dalla madre tre volte a settimana. Chiede perché le inchieste sui mandati segreti degli attentati di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vennero archiviate. Perchè le indagini attorno i servizi segreti sono state archiviate. Perché l’ex ministro degli interni Nicola Mancino non si vuole più ricordare di aver incontrato Paolo poco prima del suo assassinio. Perché lo ha chiamato due giorni prima della sua morte incoraggiandolo ad un incontro con due capi della polizia, uno dei quali un capo dei servizi segreti che verrà più tardi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa; un incontro che, come detto da un testimone, agitò Paolo Borsellino così tanto da non notare di aver acceso due sigarette nello stesso momento. “In questa intervista si trova sicuramente la chiave per la strage di Via D’Amelio” scrive Salvatore Borsellino. Il giorno della commemorazione del 2008 è diverso. Insieme a Salvatore Borsellino ci sono migliaia di giovani venuti da tutta Italia a Via D’Amelio a Palermo, per condividere la sua rabbia. Tengono in mano l’agenda rossa con il nome di Paolo Borsellino e fanno una marcia sul Monte Pellegrino, fino al Castel Utveggio, l’ex sede dei servizi segreti a Palermo. Tornano ogni anno e saranno sempre più numerosi. Lentamente la luce penetra l’oscurità. Nell’anno 2008 la Procura di Palermo comincia le indagini sulla “Trattativa”, il negoziato tra lo stato e la mafia. Grazie alle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, la sentenza contro gli stragisti mafiosi di Via d’Amelio deve essere rivista: alcuni pentiti mentivano e hanno fatto dichiarazioni false su pressione del Capo della Polizia. Parte la richiesta per la revisione del processo.

Il collaboratore di giustizia Spatuzza viene ascoltato nel processo di secondo grado contro il confidente di Berlusconi, Marcello Dell’Utri. Descrive quanto euforici erano stati i boss, dopo che attraverso Dell’Utri si erano assicurati un collegamento con Berlusconi: la trattativa tra Stato e Mafia sarebbe andata finalmente a buon fine, il paese intero sarebbe in mano loro, grazie ad un compaesano siciliano e “quello di Canale 5″, appunto, Berlusconi. Ed anche Massimo Ciancimino comincia a testimoniare. È il figlio del mafioso Don Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo. Massimo Ciancimino accompagnò il padre in tutte le sue azioni, fu il suo segretario e messaggero. Portava messaggi per suo padre, ai boss e alti funzionari dello stato, e testimonia ora riguardo i negoziati con carabinieri di altro rango al quale suo padre partecipò con la speranza di ricevere per il suo impegno uno sconto di pena per la condanna penale sovrastante. Don Vito aveva organizzato l’arresto del boss Toto Riina nel 1993. Riina era una specie di parafulmine per la trattativa tra stato e mafia, il suo arresto doveva tranquillizzare gli italiani: Vedete lo stato italiano non è ancora sconfitto! Subito dopo però fu arrestato anche Don Vito Ciancimino. Era diventato ormai superfluo, essendo democristiano incarnava il vecchio sistema dei partiti, rappresentava più il regno dei morti che il futuro. Ed è a questo punto che continua la strategia del terrore: nell’estate 1993 seguivano ulteriori attentati, Cosa Nostra mise bombe a Firenze in Via dei Georgofili, vicino agli Uffizi; a Roma, di fronte alla chiesa di San Giorgio al Velabro; a Milano in Via Palestro, non lontano dalla Galleria di Arte Moderna. Nello stesso momento comincia una nuova fase di trattativa con lo stato, con il braccio destro di Silvio Berlusconi e fondatore di Forza Italia, ed oggi Senatore Marcello Dell’Utri. Un siciliano. Sarebbe stato prescelto da Cosa Nostra, perché avrebbe già investito con successo soldi per il boss Stefano Bontade nelle società Fininvest, di proprietà di Silvio Berlusconi. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ebbero Dell’Utri già nel mirino delle indagini, come testa di ponte della mafia nel Nord-Italia. Nell’ultima intervista di Paolo Borsellino prima del suo assassinio parla di Vittorio Mangano, il mafioso, che viveva su raccomandazione di Marcello Dell’Utri nella villa di Berlusconi come cosiddetto stalliere. Una villa nella quale non c’erano cavalli, ma piuttosto tanti interessi da curare. Anche se a Massimo Ciancimino viene rinfacciato sempre di fornire dichiarazioni col contagocce e di mantenere il silenzio attorno ad alcuni importanti agenti segreti coinvolti, le sue dichiarazioni trovano riscontri con quelle dei pentiti, e spinge numerosi personaggi a rompere il loro decennale silenzio. Improvvisamente torna la memoria perfino all’ex presidente della commissione parlamentare antimafia, ad un‘alta funzionaria del ministero della giustizia ed al ministro della giustizia del tempo, Claudio Martelli, i quali ricordano di essere venuti a conoscenza dell’esistenza della trattativa subito dopo l’attentato a Giovanni Falcone. L’ex ministro della giustizia dichiara di aver mostrato le sue perplessità al ministro degli interni del tempo, Nicola Mancino, chiedendo come fosse stato possibile per un funzionario della polizia avere l’idea di trattare con la mafia senza informare la direzione nazionale antimafia.

L’ex ministro dell’interno Mancino nega però imperturbabilmente di aver saputo dell’esistenza della trattativa tra stato e mafia. Dopodiché viene accusato di falsa testimonianza dalla procura di Palermo, il suo telefono viene messo sotto controllo, perché sospettato di mettersi d’accordo sulle dichiarazioni da fare con altri sospettati. Attorno all’utilizzo delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino si accende una guerra di religione. La Procura ed anche Salvatore Borsellino verranno duramente criticati. Paolo Borsellino si girerebbe nella tomba, se sapesse che suo fratello ha dato credito alle dichiarazioni del figlio di Don Vito Ciancimino, dice il figlio di un altro magistrato ucciso dalla mafia. “Purtroppo mio fratello non può girarsi nella tomba”, dice Salvatore Borsellino, “perché è stato fatto a pezzi”. Ogni volta che Salvatore Borsellino torna a Palermo, cerca di ritrovare la sua infanzia. La trova nei cubetti di porfido delle strade del centro storico, nel tufo dei palazzi e nella terra rossa di Palermo che profuma di Africa quando piove. Quando Salvatore Borsellino cammina nelle strade, la gente va da lui, gli stringe la mano e lo guarda, come se fosse un fantasma. I fratelli Borsellino sono cresciuti non lontani da piazza Magione, nel quartiere popolare chiamato Kalsa, dove giocavano in mezzo a tisici palazzi barocchi, decadute residenze nobili e rovine della guerra. Fino a poco tempo fa si poteva qui guardare Palermo fino in fondo alla faringe: c’erano case sfondate come crani dal tempo dei bombardamenti alleati del 1943. Oggi, grazie a fondi europei le rovine sono state di nuovo ricostruite, i palazzi rinnovati di fresco, e dove prima c’erano negozi di ceramisti e arrotini, ci sono ora bed&breakfast e lounges. Su di un lato di piazza Magione si trova ancora oggi la scuola di entrambi i fratelli. E dove prima c’era la farmacia gestita dai Borsellino, volano ancora scintille, un fabbro ha il suo negozio, ma tra poco lo abbandonerà. Salvatore Borsellino vuole creare un punto di incontro che porti il nome di suo fratello. Salvatore, appena finiti gli studi, andò a vivere a Milano. Non sopportava di vedere come durante gli anni settanta la mafia aveva devastato la faccia di Palermo con gigantesche speculazioni edilizie che vennero chiamate “il sacco di Palermo”. Da un giorno all’altro vennero rasi al suolo palazzi nobili e ville in stile Liberty insieme con i loro giardini a labirinto, archi e fontane, e sullo stesso terreno la mafia costruì casermoni di cemento. Il lavoro lo trovavano solo quelli che avevano i “santi in paradiso”, cioè qualcuno che poteva fare un favore, che poi in seguito doveva essere ricompensato a sua volta con un altro favore. Paolo Borsellino desiderava che il fratello piccolo tornasse dalla sua famiglia a Palermo, era preoccupato poiché il fratello aveva rinunciato ad un posto fisso per andare a Milano a fondare una società di informatica. Quando si telefonavano, Paolo domandava al fratello: “Totò, perché non torni a Palermo?” e lo rimproverava di non amare abbastanza la sua città natale. Le ultime ferie che i due fratelli trascorsero insieme, furono quelle del natale 1991/92. Si incontrarono in Trentino, anche se poi Paolo dovette partire prima del dovuto: durante la notte di San Silvestro ci fu una strage di mafia. Dopo che la mafia nel maggio 1992 uccise Giovanni Falcone, sua moglie e tre guardie del corpo, Paolo Borsellino lavorava giorno e notte. Voleva sapere perché il suo amico doveva morire. Sebbene non avesse alcun incarico per quella indagine, interrogò testimoni oculari, colleghi, poliziotti, carabinieri e testimoni, andò a Roma a discutere con il ministero e registrò tutto nella sua agenda. Sapeva di non avere più’ molto tempo: “Il tritolo per me è già arrivato” confidava ai colleghi. Ognuno in famiglia, sua moglie, i figli, ed anche Salvatore che viveva a Milano, percepivano il pericolo nel quale Paolo si muoveva. Quando due giorni prima della sua morte parlò l’ultima volta con lui, Salvatore provò a convincere il suo fratello più’ grande ad andare via da Palermo. “Se resti, ti uccidono”, dice Salvatore. “Tu sei scappato da Palermo. Ma io non scappo”, risponde Paolo.

Il giorno della prima udienza del processo sulla trattativa Salvatore Borsellino siede in un bar a Mondello. Da poco ha comprato una casa qui, perché Mondello sembra sempre essere quella degli anni cinquanta, quando lui arrivò con il fratello e facevano passeggiate insieme fino al faro, la bicicletta sulla spalla. “Per me è come se avessi mantenuto una promessa”, dice Salvatore Borsellino, “sono tornato”.

Facciamo un passo indietro. Negli anni Settanta le mafie sono molto “attive” nel campo dei sequestri di persona, con una particolare predilezione verso gli imprenditori (e relative famiglie) del Nord. Secondo le accuse rivolte a Marcello Dell'Utri (confermate dalle sentenze che l'hanno visto fin qui condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), l'arrivo di Vittorio Mangano ad Arcore nel 1974, sarebbe da ascrivere (tra le altre cose) alla protezione garantita da Cosa Nostra all'allora giovane imprenditore Silvio Berlusconi. Un pentito, considerato attendibile dai magistrati (Francesco Di Carlo, boss di Altofonte), riferisce anche di un incontro avvenuto sempre nel 1974 fra Berlusconi, Dell'Utri e Stefano Bontate, all'epoca numero uno di Cosa Nostra. Ora, dai verbali che saranno pubblicati il 5 aprile 2013 dal Corriere della Calabria, spunta fuori un'altra storia che si incrocia con quella fin qui raccontata. Negli anni Settanta la 'ndrangheta voleva rapire il futuro Presidente del Consiglio, ma venne “stoppata” dal decisivo intervento di Bontate. Intervento appoggiato da Paolo De Stefano, a capo dell'omonima famiglia di 'ndrangheta. Si parla forse del clan più potente della criminalità organizzata calabrese fra gli anni Settanta e Ottanta, quelli del “boom” dei sequestri di persona, i cui “proventi” saranno investiti nel traffico internazionale di cocaina. Anni in cui la 'ndrangheta si trasforma e inizia a uscire dai confini calabresi, stringendo i primi legami con la politica e la massoneria, per costruire l'impero che tutti oggi conoscono. Nell'articolo, firmato dal direttore del settimanale Paolo Pollichieni - è scritto in una nota diffusa dal settimanale - si evidenzia che quel patto siglato tra calabresi e siciliani fu mal digerito da alcune cosche e provocò una frattura al vertice della 'ndrangheta, che ebbe pesanti ripercussioni negli anni successivi. Per impedire il sequestro del Cavaliere, si mise in moto anche la massoneria deviata e a Milano si svolse un importante incontro che servì a saldare l'accordo con i siciliani".

Di questo però già “La Repubblica” il 12 agosto 1984 scrisse: "LA 'NDRANGHETA VOLEVA RAPIRE BERLUSCONI." C'era un piano per rapire il finanziere Silvio Berlusconi. Lo avevano elaborato e discusso i capi della cosca Ruga-Musitano-Aquilino (quella cui sarebbe collegato don Giovanni Stilo, il sacerdote di Africo in carcere per associazione a delinquere di tipo mafioso). Era stata fissata pure la cifra del riscatto: venti miliardi, non una lira in meno. Un grosso affare, che doveva impegnare praticamente tutti i quarantotto membri della banda e mobilitare tutte le varie "succursali" dell'anonima sequestri della zona ionica reggina. Del progettato rapimento del proprietario di "Canale 5", ha dettagliatamente parlato ai giudici di Locri Franco Brunero, trentasei anni, il rapinatore di San Maurizio Canavese, che faceva parte della banda ma poi ha deciso di collaborare con la giustizia e che, con le sue ricche rivelazioni, ha messo nei guai don Stilo, affermando, anche nel confronto diretto con il sacerdote di Africo, di averlo visto ad un vertice di mafia. Anzi, ha aggiunto che don Stilo in quell'occasione disse di poter intervenire, con il pagamento di trecento milioni da versare a un alto prelato e a un giudice di Cassazione, per far rivedere la sentenza che condannava definitivamente il boss Cosimo Ruga per il sequestro dell'industriale torinese Mario Ceretto. Brunero è diventato per i magistrati locresi una fonte di notizie molto importante, e l'ordinanza di rinvio a giudizio della cosca Ruga firmata dal giudice istruttore Jelasi ne è una prima conferma. Ma Brunero, che ha spiegato tutti i segreti dell' anonima sequestri della zona ionica reggina e ha arricchito di particolari inediti episodi già parzialmente noti ai magistrati inquirenti, non è il solo "pentito" ad aver parlato di don Stilo con il dottor Ezio Arcadi il quale ha fatto arrestare il sacerdote-faccendiero. Ieri don Stilo se n'è stato tranquillo nel carcere di Locri. Il dottor Arcadi ha sospeso infatti per ora gli interrogatori. "Ci sono molte carte da guardare e da organizzare prima di proseguire, penso lunedì, con le contestazioni a don Stilo", ha spiegato il giudice. L'indagine istruttoria, che si prevede avrà tempi lungi, dovrebbe comunque essere a una svolta, anche perchè voluminosi nuovi dossier sono arrivati al magistrato che aveva richiesto atti istruttori a varie questure italiane. Dopo la pausa e dopo il nuovo interrogatorio di domani si prevede comunque che il difensore di don Stilo, l'avvocato Michele Murdaca, inoltrerà le sue richieste immediate per la libertà o per gli arresti domiciliari del proprio assistito. Nel frattempo, il giudice Arcadi dovrebbe avviare un' indagine parallela sull' istituto "Serena Juventus" di cui don Stilo è fondatore e preside. C' è il sospetto (secondo qualcuno le carte del magistrato sono più che sufficienti per dimostrarlo) che nell' istituto "Serena Juventus" siano state commesse irregolarità quanto meno nel "dispensare" diplomi a persone, provenienti da molte parti del paese, senza che ne avessero titoli e meriti. Ma è un' indagine alla quale il magistrato almeno inizialmente potrà dedicarsi molto poco: le vicende di mafia hanno la precedenza.

“Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino Dalla strage di Capaci a via D'Amelio”. Di strage in mistero. Un libro, tra i tanti, di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo. Un carabiniere avanza spedito nell'arena insanguinata di via D'Amelio. Il capitano Giovanni Arcangioli regge in mano la borsa in cuoio di Borsellino. Scavalca brandelli di carne e pozzanghere rosse. Scansa i mattoni caduti a terra come coriandoli. Lo sguardo è distaccato. E' concentrato su quello che deve fare. Un fotografo riesce a immortalare quell'immagine. Anche le telecamera di due Telegiornali nazionali riprendono la scena. Ma in pochi istanti Arcangioli si allontana da via D'Amelio. Scompare dalla visuale di qualsiasi apparecchiatura fotografica e di video riprese. Inizia così il mistero della sparizione dell'agenda rossa del magistrato appena assassinato. Quell'agenda che Paolo Borsellino portava sempre con sé all'interno della valigetta tenuta in mano da Arcangioli. Poco dopo lo scoppio dell'autobomba il primo ad arrivare sul posto è Giuseppe Ayala che abita a 200 metri di distanza. Si avvicina al punto dell'esplosione di via D'Amelio, riconosce per terra Paolo Borsellino. Dopo lo choc iniziale si guarda intorno. Con lui ci sono solo gli uomini della sua scorta. Subito dopo arriva la prima pattuglia di polizia e i vigili del fuoco. In mezzo a quel delirio Ayala si accosta alla macchina del giudice, al suo interno vede la sua borsa. Un agente della sua scorta, l'appuntato dei carabinieri Rosario Farinella, si fa aiutare da un vigile del fuoco per aprire la portiera posteriore sinistra della Croma del giudice. L'esplosione ha incastrato le lamiere, ma dopo un paio di tentativi si riesce finalmente ad aprire. L'appuntato Farinella prende la valigia di Borsellino e la porge all'ex Pm. «Io personalmente ho prelevato la borsa dall'auto – dichiara Farinella agli investigatori – e avevo voluto consegnarla al dr. Ayala. Questi però mi disse che non poteva prendere la borsa in quanto non più magistrato, per cui io gli chiesi che cosa dovevo farne. Lui mi rispose di tenerla qualche attimo in modo da individuare qualcuno delle Forze dell'Ordine a cui affidarla. Unitamente a lui ed al mio collega ci siamo allontanati dall'auto dirigendoci verso il cratere provocato dall'esplosione, mentre io reggevo sempre la borsa». «Dopo pochissimi minuti – ricorda l'appuntato dei carabinieri – non più di 5-7, lo stesso Ayala chiamò un uomo in abiti civili che si trovava poco distante e che mi indicò come ufficiale o funzionario di polizia, dicendomi di consegnargli la borsa. Allo stesso, il dr. Ayala spiegava che si trattava della borsa del dr. Borsellino e che l'avevamo prelevata dalla sua macchina […]; l'uomo che ha preso la borsa non l'ha aperta, almeno in nostra presenza; ricordo che appena prese la borsa, lo stesso si è allontanato dirigendosi verso l'uscita di Via D'Amelio, ma non ho visto dove è andato a metterla». Quello che avviene subito dopo in quella via è un buco nero degno della Spectre di Bondiana memoria. Arcangioli si allontana dal cratere di via D'Amelio con la valigetta in mano. E' questione di minuti e la borsa ricompare di nuovo nel sedile posteriore della Croma di Borsellino. In via D'Amelio sono sopraggiunti nel frattempo il commissario Paolo Fassari (I Dirigente della Polizia di Stato, Funzionario reperibile per la Squadra Mobile di Palermo in assenza del dirigente Arnaldo La Barbera) e l'assistente capo di Polizia, Francesco Paolo Maggi. Dopo aver espletato alcune attività investigative Francesco Maggi si avvicina alla Croma di Borsellino. La portiera posteriore sinistra è aperta. Sul sedile posteriore è appoggiata la valigetta di Borsellino. Lo stesso Maggi racconterà di averla prelevata dall'auto, di averla portata in questura e su indicazione di Fassari. Verso le ore 18,30 la borsa è nell'ufficio del dirigente della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera. Ma nella valigetta non verrà ritrovata l'agenda rossa. Si ripetono così i lugubri «canoni» della maggior parte degli «omicidi eccellenti». Alle personalità uccise viene trafugato un oggetto personale ritenuto compromettente per i mandanti di quell'omicidio. Non ha importanza che si tratti di un diario, di un'agenda o di un  video. Non deve rimanere alcuna traccia del lavoro della vittima. Non deve rimanere memoria delle sue analisi, dei suoi riscontri o delle sue deduzioni. L'oggetto trafugato deve finire nelle mani di chi potrà eventualmente usarlo come arma di ricatto verso terzi. Una metodologia palesemente al di fuori dalle mere logiche di vendetta di Cosa Nostra nei confronti dei propri nemici. Il mistero che ruota attorno alla scomparsa dell'agenda rossa di  Borsellino si impregna così di quei «sistemi criminali» che sono alla base dello stragismo nel nostro Paese. Le «menti raffinatissime» che ordinano di fare sparire l'agenda del magistrato temono che tra quelle pagine vi sia la prova delle sue conoscenze di quel «gioco grande» che aveva individuato. La forza dirompente dell'integrità morale di Paolo Borsellino, unita alla sua straordinaria professionalità sono in assoluto i fattori destabilizzanti per quelle entità esterne a Cosa Nostra. Una serie di convergenze di interessi tra Cosa Nostra e centri para-istituzionali si intersecano indissolubilmente quel 19 luglio 1992. E la storia è tutta da riscrivere.

Sono stato al convegno di Bari del 3 aprile 2009, organizzato da una associazione di avvocati di Bari per la presentazione del libro di Giuseppe Ayala intitolato: “Chi ha paura muore ogni giorno”, scrive Michele Imperio. Ho assistito a un convegno pirotecnico. Perché dico questo? Perché io questo libro di Ayala ancora non l’ho letto. Però l’ho sfogliato. E già posso dirvi che esso contiene delle informazioni che tu quando le leggi salti sulla sedia. Ve ne cito una: A un certo punto Giuseppe Ayala riferisce che prima del noto Consiglio della Magistratura che bocciò la nomina di Giovanni Falcone a capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo e che di fatto diede l’avvio alla chiusura dell’esperienza magica del maxiprocesso contro Cosa Nostra, il giudice Giancarlo Caselli gli telefonò quasi piangendo e gli disse che lui avrebbe votato per Falcone, ma non era riuscito a convincere gli altri magistrati iscritti a Magistratura Democratica a fare altrettanto, per cui questi avrebbero appoggiato e sostenuto il giudice Antonino Meli. Tutti ricordano come andò: Antonino Meli vinse, divenne lui capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo e sciolse il pool antimafia e riportò il livello del contrasto dello Stato contro la mafia ai tempi de "la mafia non so se ci sia". Allora puntualizziamo alcuni concetti: già da allora Magistratura Democratica (la potente consorteria dei magistrati di sinistra) si era spaccata in due correnti (l’una D.S. – Caselli) l’altra che aderiva alla Benemerita (ossia l’ex sinistra democristiana). Quindi fu la Benemerita che andò a svegliare di notte questo Meli per invitarlo a presentare il giorno dopo (ultimo termine utile) la candidatura a capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo onde evitare che Falcone diventasse capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo. Lo stesso Ayala si è lamentato che il quotidiano “Repubblica” non ha mai recensito questo suo libro, non ne ha mai parlato, non ne vuole parlare. E tuttavia ha detto: “Repubblica rimane sempre il mio giornale di riferimento”.……..Mha……..Senonché nel mentre si parlava del più e del meno in relazione a vicende che riguardavano l’attività del noto pool di magistrati antimafia di Palermo, Salvatore Borsellino, fratello del defunto Paolo, ha lanciato in aula una bomba. Premetto che il 1° luglio 1992 Paolo Borsellino stava interrogando nella sede della Dia di Roma il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo. A un certo punto ne viene interrotto da Vincenzo Parisi, (capo della polizia)  il quale, spacciandosi per il ministro Nicola Mancino o servendosi del ministro Nicola Mancino, lo convoca d’urgenza al Ministero degli Interni ove per circa un’ora avrà con lui un incontro drammatico e burrascoso. Premetto ancora che il 16 e il 17 luglio 1992 Paolo Borsellino interroga ancora Gaspare Mutolo, che si propone di interrogare nuovamente lunedì 20 luglio 1992. Ebbene Vincenzo Parisi lo viene a sapere. Piomba a Palermo con l’aereo il 16 luglio sera e rimane a Palermo fino al 21 luglio 1992, giorno dei funerali di Paolo Borsellino, che viene barbaramente assassinato il 19 luglio 1992. «Dovete sapere – dice a un certo punto del convegno Salvatore Borsellino - che mio fratello Paolo dopo il 1° luglio 1992 chiese varie volte al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta di essere ascoltato come testimone per riferire circostanze decisive per l'accertamento della verità della strage di Capaci in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, ma questi, il Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, si rifiutò di ascoltarlo.» Al che Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato: “Eh si! In effetti c’è anche questa!”.

Le indagini sulla sparizione dell'agenda rossa del giudice Paolo si stanno arricchendo di importanti novità, anche in video. Attualmente la ricostruzione dei fatti della Procura della repubblica di Caltanisetta segue questa linea: c'era sul posto una persona non identificata (un uomo di età apparente tra i 40 e i 50 anni, fortemente stempiato, vestito elegantemente presumibilmente un fiduciario dei servizi, un contractor slegato da un’ufficiale appartenenza agli apparati di sicurezza”) il quale avrebbe per primo preso la valigetta, per poi riporla nella macchina del giudice. Solo dopo la valigetta, ormai vuota del suo contenuto, sarebbe stata consegnata da Ayala Giuseppe a Giovanni Arcangioli, e dopo questo momento venne fatta la “famosa” fotografia di Arcangioli con la valigetta di Borsellino nella mano destra. La Procura di Caltanisetta sta valutando di riascoltare Ayala Giuseppe e Roberto Farinella membro della sua scorta, il quale nelle prime indagini fece queste importanti dichiarazioni supportate da quelle di una altro poliziotto: “Aperta la macchina del giudice, ho preso la sua borsa. Dopo 5-7 minuti Ayala chiamò un uomo in abiti civili che mi indicò come ufficiale o funzionario di polizia. Questi prese la borsa senza aprirla e si è allontanato”. La Procura della Repubblica di Caltanisetta oltre Ayala e Farinella vuole ascoltare anche “un oscuro manovale dei servizi”, che in seguito lavorò con Ayala stesso, tal Campesi Roberto (inspiegabilmente sul luogo della strage, pur non avendo alcun ruolo “istituzionale”). E infine vuole riascoltare un altro poliziotto quello che riscontra Roberto Farinella il quale pure era presente sul luogo della strage e che ha dichiarato: "Non riesco a ricordare se l'uomo non identificato mi abbia chiesto qualcosa in merito alla borsa o se io l’ho visto con la borsa in mano... Di sicuro ho chiesto chi fosse per essere interessato alla borsa del giudice, e lui mi ha risposto di appartenere ai Servizi Segreti”. Il poliziotto, riascoltato di recente, ha fornito ulteriori delucidazioni, tuttavia non ci è dato conoscere i nuovi dettagli: il verbale del nuovo interrogatorio è top secret. Il fine di queste ulteriori indagini è quello di trarre informazioni sull’identità di tutti i personaggi fotografati o ripresi dalle telecamere nei momenti successivi alla strage, presenti in via d’Amelio, soprattutto tra le 17 e le 17 e 30, il lasso di tempo in cui si configura la sparizione dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino. Il legale di Arcangioli Diego Perugini ha sempre invitato all’identificazione di tutti gli elementi sulla scena del delitto di via d’Amelio, fin dal 2008. Perugini è sembrato soddisfatto di come stanno procedendo le indagini, visto che lui ha sempre parlato di “presenze sul luogo della strage di soggetti che, all’epoca dei fatti, avevano un rilevante ruolo istituzionale, ma che non appaiono in alcun atto di indagine alla cui luce, anzi, se ne dovrebbe dedurre che non fossero presenti sul luogo”. Il problema di Ayala Giuseppe Magistrato in servizio presso la Corte di Appello de L'Aquila è che lui dice cose molto diverse da quelle che dice il suo uomo di scorta Roberto Farinella e il poliziotto. Sopratutto del misterioso uomo in abiti civili che ha preso per primo la borsa dietro sua direttiva non parla mai. Ayala Giuseppe infatti viene sentito una prima volta soltanto l’8 aprile del 1998, e neppure con riferimento alla strage ma nell’ambito di un filone di indagine sui mandanti occulti della strage stessa. Ed in quella occasione l’ex magistrato offre la sua prima versione dei fatti: arrivato dopo 10-15 min dall’esplosione in via D’Amelio (abitava a 150 metri, al residence Marbella), dopo avere constatato che era Paolo Borsellino l’obbiettivo dell’attentato, aveva visto un carabiniere in divisa aprire lo sportello posteriore della Croma e prendere una borsa con tracce di bruciacchiatura. L’ufficiale gliela vuole consegnare ma lui non è più un magistrato in servizio e quindi non può riceverla. Ayala Giuseppe invita quindi il carabiniere a trattenerla per consegnarla poi ai Magistrati. In sua presenza, precisa, quella borsa non è mai stata aperta. E che fine abbia fatto non lo sa, poichè si è disinteressato della vicenda. La sua versione cambia una prima volta il 13 settembre 2005, dopo l’interrogatorio di Giovanni Arcangioli. Arcangioli viene interrogato il 5 maggio del 2005 dopo la scoperta del filmato che lo ritrae con la borsa in mano e ammette subito di avere effettivamente preso la borsa di Paolo Borsellino. L’ha fatto - rivela - su richiesta di uno dei due Magistrati che aveva incontrato sul luogo della strage, Ayala Giuseppe e Vittorio Teresi. Sul posto Arcangioli incontra anche Alberto Di Pisa, magistrato di turno. Non solo: una volta presa la borsa, uno dei due magistrati l’aprì  e “constatammo che all’interno non c’era alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta2. Su richiesta di uno dei due magistrati, infine, Arcangioli ricorda di avere incaricato uno dei suoi collaboratori a depositare la borsa nell’auto di servizio “di uno dei due magistrati”. “Ma su quest’ultimo punto non è certo: si tratta di un ricordo molto labile e potrei essere impreciso2, non sa “se poi veramente ciò è avvenuto in tali termini”. Ma non è soltanto quest’ultimo ricordo ad apparire confuso: Vittorio Teresi dirà di essere arrivato in via D’Amelio un’ora e mezzo dopo, Alberto Di Pisa, che non era magistrato di turno, in via D’Amelio non è mai venuto. Risentito dopo la deposizione di Arcangioli Ayala Giuseppe cambia una prima volta versione: Non c’è più un carabiniere che apre lo sportello posteriore sinistro, ma l’ex magistrato ricorda di averlo visto già aperto, e di avere preso egli stesso la borsa bruciacchiata poggiata sul sedile posteriore e di averla affidata ad un ufficiale dei cc in divisa “meno giovane di Giovanni Arcangioli”. Anche in questo caso Ayala Giouseppe ribadisce di non avere mai aperto la borsa per verificarne il contenuto. Senonchè le due versioni (quella di Arcangioli e quella di Ayala) sono chiaramente in contrasto tra loro e allora la Procura chiama a deporre Ayala Giuseppe per una terza volta. E in quest’occasione l’ex magistrato si fa aiutare nel ricordo da un giornalista presente sul luogo della strage, l’inviato del Corriere della Sera Felice Cavallaro. In quest’ultima versione, confermata dal giornalista, Ayala Giuseppe vede prelevare da una persona in borghese (è certo che non fosse in divisa) la borsa dallo sportello posteriore sinistro e gliela consegna. Lui, magistrato non in servizio, non può tenerla e la gira ad un ufficiale dei cc in divisa. “Il tutto dura 30 secondi, forse 1 minuto”, ripete Ayala Giuseppe. Senonchè la sua versione continua a restare incompatibile con quella di Arcangioli e la Procura, quello stesso giorno, mette i due a confronto. In questa sede Giovanni Arcangioli aggiunge qualche dettaglio: “per esortazione di qualcuno che non ricordo (credo fosse Ayala Giuseppe) ho preso la borsa dal pianale post sinistro sono andato nel lato opposto di via D’Amelio, ho aperto la borsa, non c’era nulla di interessante, e ho rimesso (o fatto rimettere) la borsa nel sedile posteriore. Il tutto alla presenza di Ayala. C’era anche un ufficiale cc? Non ricordo”. E Ayala Giuseppe infine ribadisce: “non conoscevo Arcangioli e oggi lo vedo per la prima volta”. In conclusione ormai l'arcano è chiarito: la borsa con l'agenda in un primo tempo l'ha presa Ayala Giuseppe , il quale ha dato disposizione al suo uomo della scorta Roberto Farinella di consegnarla all'uomo in abiti civili dei Servizi Segreti, dicendo che costui in realtà era della Polizia. Però poi l'altro poliziotto ha accertato che era dei Servizi Segreti. Questi ha svuotato la borsa e l'ha riposta all'interno della vettura di Paolo Borsellino. Poi lo stesso Giuseppe Ayala ha rifilato la borsa vuota a Giovanni Arcangioli giovane e inesperto Carabiniere dicendolo di vedere se dentro c'era un'agenda. Arcangioli ha portato poi la borsa in ufficio. Qui semmai ha incontrato Alberto Di Pisa e Vittorio Teresi e probabilmente anche Mario Mori. Quando le citate persone hanno visto che la borsa era vuota e hanno sentito il racconto di Arcangioli, hanno intuito il tranello e Giovanni Arcangioli o chi per lui, per non stilare un rapporto in cui avrebbe dovuto dire che la borsa era incredibilmente vuota (che se la portava a fare Borsellino appresso una borsa se questa era vuota?) l'ha rimessa sul sedile posteriore della macchina da dove era stata presa. Quindi il responsabile della sparizione dell'agenda rossa di Paolo Borsellino è Ayala Giuseppe? Ayala Giuseppe era diventato da poco parlamentare del Partito Repubblicano, di cui era garante a Palermo Aristide Gunnella e leader nazionale Lamalfa Giorgio. Gunnella era grande amico del giudice Domenico Signorino, suicidatosi misteriosamente a Palermo pochi mesi dopo la morte di Paolo Borsellino. Ayala Giuseppe aveva ricevuto la promessa che avrebbe dovuto fare il Ministro di Grazia e Giustizia nel governo Prodi (ma più probabilmente nel mai nato governo Martelli) Poi Prodi - come si sa - offrì la carica al suo avvocato Giovanni Maria Flik. Ma su Ayala Giuseppe ci sono altri problemi. Da quando era diventato parlamentare, tutti i fine settimana Giuseppe Ayala tornava a Palermo con il volo del Sisde di Giovanni Falcone. Il 23 maggio non volle tornare e volle restare a Roma. Sappiamo da poco che già quattro giorni dopo l'eccidio di Giovanni Falcone e della scorta, i Servizi cominciarono a preparare l'assassinio di Paolo Borsellino, accelerato dopo l'interrogatorio di Gaspare Mutolo espletato il 17 luglio 1992 e che Borsellino si riproponeva di continuare il 20 luglio 1992. Quindi probabilmente nella borsa oltre l'agenda rossa c'erano anche questi verbali. Dopo la sentenza sul maxi-processo Ayala Giuseppe aveva telefonato a Giovanni Falcone per complimentarsi che le sue ipotesi investigative sul maxi-processo erano state confermate anche dalla Corte di Cassazione. Falcone riferì che rimase turbato e perplesso per quella telefonata. La sentenza confermativa del maxi-processo era stata propiziata da Claudio Martelli, al quale Scalfaro aveva promesso il premierato se lui fosse diventato Presidente della Repubblica. Magistrati puliti. Dell’Utri aveva già esternato qua e là in difesa di Grasso: “È equilibrato, un uomo di Stato. Lui sa chi sono io… Grasso è brava persona, sono contento per la sua elezione a presidente del Senato… Non è un magistrato fanatico come Ingroia”. E già nel 2004 gli aveva dipinto un impareggiabile ritratto umano: “Grasso, quando era giovane, giocava a calcio nella mia squadra, la Bacigalupo, ed era famoso perché a fine partita usciva sempre pulito dal campo: anche quando c’era il fango, lui riusciva sempre a non schizzarsi…”.

LA MAFIA DELLE PADRINE.

Mafia, è l'ora delle padrine, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Dalla Sicilia alla Campania, le cosche sono sempre di più in mano alle donne, che rimpiazzano mariti e fratelli finiti in cella. Dalle più giovani, come Ilenia Bellocco, detta 'Velenia' per la sua durezza, alle ultra cinquantenni come Angela Ferraro. Che comandano sempre di più, come dimostrano inchieste e condanne. Anche in questo caso, papa Francesco ha sorpreso tutti. Due settimane fa in piazza San Pietro, celebrando la beatificazione di don Pino Puglisi, il sacerdote assassinato da Cosa nostra nel 1993, ha usato una parola nuova: «Preghiamo perché questi mafiosi e queste mafiose si convertano». Mafiose, appunto. Il volto emergente delle cosche: donne che non sono più gregarie o semplici "messaggeri" dei mariti o familiari, ma hanno assunto la guida dei clan gestendoli in modo autonomo. Si sono emancipate nella gerarchia criminale, con una ferocia spesso superiore agli uomini. A Napoli un pentito ha descritto le gesta della «tragicatora»: una lady camorra la cui identità è ancora nascosta fra le indagini riservate, «che mette le tragedie, che dice sempre bisogna uccidere, bisogna fare i morti». Accade ovunque, in Sicilia, in Calabria, in Campania e in Puglia: alla regia delle cosche ci sono signore giovani o mature, ma tutte ugualmente spietate. A inizio anno nelle carceri di massima sicurezza risultavano già rinchiuse 133 donne accusate di associazione mafiosa. Gran parte di loro avrebbe ricoperto ruoli direttivi nelle cosche, rimpiazzando mariti e fratelli finiti in cella. E il numero delle "padrine" continua a crescere, di pari passo con le retate che in alcuni casi, in passato, per un tacito accordo con gli investigatori le hanno risparmiate. Ne hanno parlato pure alcuni collaboratori di giustizia, ricostruendo gli accordi stretti anni fa con la promessa di «rispettare donne e bambini» pur di arrivare alla cattura del ricercato.

Nel reggino poche settimane fa è stata arrestata Ilenia Bellocco, che aveva preso lo scettro del marito recluso: era al settimo mese di gravidanza, ma non c'era nulla di femminile nella durezza con cui dominava la 'ndrina. A soli ventitrè anni viene considerata padrona di una fetta della piana di Gioia Tauro intorno a Rosarno. Lì suo padre Umberto Bellocco, detto "Assu i mazzi" (asso di bastoni), ha fondato l'omonima cosca. Che si è rafforzata grazie al suo matrimonio con Giuseppe Pesce, designato reggente di Rosarno dopo l'arresto di suo fratello Ciccio Pesce. Una scelta condivisa dalla ragazza, conscia che quelle nozze avrebbero portato in dote un'indiscussa autorità criminale e una ricca quota degli appalti della Salerno-Reggio Calabria. Anche Giuseppe Pesce dopo quasi tre anni di fuga si è piegato alla pressione dei carabinieri del Ros e del comando provinciale di Reggio Calabria che lo cercavano mettendo a ferro e fuoco la zona della Piana: lo scorso mese si è costituito ai militari dell'Arma, arrendendosi. Ma durante la latitanza è stata Ilenia a mandare avanti la famiglia: trasmetteva gli ordini, incassava i soldi delle estorsioni e dei traffici. Soprannominata "Velenia" da chi per anni l'ha seguita e ascoltata durante le indagini, ha un carattere acido e spigoloso che spesso si esprime in un turpiloquio grondante bestemmie, tale da sbalordire persino gli investigatori abituati ai peggiori sicari. E' un trattore che travolge tutti, si muove con consapevole determinazione, fiera del cognome che porta. E anche del soprannome, visto che il giorno delle nozze ai suoi mille ospiti ha offerto come bomboniera un cobra in lalique con occhi in pietre preziose. Ilenia, nessun reddito denunciato al Fisco, ha un tenore di vita principesco, con uno shopping illimitato di abiti griffati, smartphone e tablet di ultima generazione, senza disdegnare massaggi e trattamenti estetici. Tutti gli uomini del clan hanno un grande rispetto per "Velenia" e tutti eseguono senza fiatare gli ordini che la giovane impartisce.

Brancaccio è un quartiere di Palermo, che dista solamente tre chilometri dal municipio di Palazzo delle Aquile, dove Cosa nostra difende con il terrore la sovranità. E lì sopra ogni mafioso c'era lei, Nunzia Graviano, 44 anni, la "Picciridda", sorella dei tre boss Giuseppe, Filippo e Benedetto Graviano. Nel quartiere fino allo scorso anno la famiglia incassava 66 mila euro al mese affittando appartamenti, uffici e capannoni. Altre somme arrivavano dalle attività commerciali, intestate a prestanome, comprese alcune stazioni di rifornimento: un tesoro finito sotto sequestro grazie alla "cantata" dell'ultimo pentito di rango, Fabio Tranchina. La "picciridda" è la manager della famiglia: è stata già arrestata e condannata due volte, l'ultima due mesi fa con una pena di otto anni. Al momento del primo arresto, la "Picciridda", appena trentenne, si era da poco trasferita in Francia, con tutta la famiglia, la mamma Vincenza, e le cognate Rosalia Galdi e Francesca Buttitta: prima a Nizza e poi a Golfe Juan, secondo gli ordini di scuderia dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, in carcere dal '94. Ordini secchi, che non ammettono discussioni. Per allontanarsi da Palermo e investire all'estero capitali illegalmente ottenuti e proteggere i due nipoti, entrambi di nome Michele, nati nel '97 con la tecnica dell'inseminazione artificiale nell'esclusiva clinica Saint-Georges di Nizza. Ma, soprattutto, perché la "douce France" doveva diventare il paese dove spostare il patrimonio accumulato in anni di affari mafiosi. Il piano venne però disturbato dall'arresto di Nunzia, che dopo aver scontato la pena a quattro anni si è trasferita a Roma: lì, dove ha proseguito l'attività di famiglia e dove è stata nuovamente arrestata e condannata. Dalla capitale Nunzia ha spostato la sua residenza assieme alla madre e continuava a gestire gli affari di Brancaccio tentando di non esporsi. Quando però aveva bisogno di raccogliere denaro o trasmettere "comande" ai picciotti, questi partivano da Palermo in auto e si presentavano di notte nella casa romana della Graviano. Summit brevissimi, mai più di diciotto minuti, per poi rientrare di corsa in Sicilia. E' potente Nunzia Graviano. E dalle intercettazioni della Squadra mobile di Palermo emerge lo spessore criminale e la forza intimidatoria che esercita sugli uomini del clan. Dopo l'arresto dei fratelli aveva detto agli affiliati: «Qui ormai ci sono io».

Nelle intercettazioni si mostra feroce e sfoggia con orgoglio la sua mentalità 'ndranghetista. Angela Ferraro ha 50 anni ed è una calabrese con una marcia in più rispetto alle altre donne coinvolte nelle indagini. E' la madre della collaboratrice di giustizia Giusy Pesce, e di Francesco e Marina, entrambi accusati di mafia. Suo marito è il boss Salvatore Pesce, detto "Ù babbu", ed è sorella di Giuseppe Ferraro, anche lui affiliato. Una famiglia di tutto rispetto. Nel processo "All Inside" i giudici di Palmi ad aprile hanno condannato Angela Ferraro a 13 anni e mezzo di carcere, mentre alla figlia Marina sono stati inflitti 12 anni e dieci mesi. Alla lettura della sentenza in un processo così importante che riguardava i clan spietati che comandano nella Piana di Gioia Tauro, per la prima volta in Calabria accanto ai pm Cerreti e Pantano e al capo della procura di Reggio, Cafiero de Raho, sono stati presenti tutti i vertici delle forze dell'ordine: un modo per dimostrare agli imputati che lo Stato è unito nella lotta alla 'ndrangheta. In questa gerarchia mafiosa Angela Ferraro ha una posizione speciale: non è una supplente. Ha lo stesso rango degli uomini: interloquisce "alla pari" con il fratello che è un boss di rilievo, si occupa di racket a Milano e gestisce il traffico di droga fra il capoluogo lombardo e la Calabria. La donna decide le estorsioni senza chiedere le autorizzazioni ai maschi della 'ndrina ed entra nelle discussioni del clan come se avesse i gradi di generale: nessuno della famiglia si scandalizza, anzi, le portano rispetto. Dice la sua anche nei progetti di morte, in particolare contro la cugina, Rosa Ferraro. Ed è sempre lei la promotrice del tentativo di corruzione in Cassazione di un giudice attraverso un avvocato, per pilotare un processo in cui sono imputati uomini della cosca. La forza di Angela Ferraro deriva dal fatto che è la moglie del boss Pesce, ma ancor di più perché è la sorella di Giuseppe Ferraro. Invece sua figlia, Marina Pesce, 30 anni, è "ambasciatrice" dei padrini: smistava messaggi e direttive ai vari affiliati. Conosce i segreti della famiglia e ne favorisce l'espansione. Detenuta da tre anni, il giorno della sentenza è rimasta dietro le sbarre della cella di sicurezza, seduta accanto alla mamma, piangendo a dirotto durante la lettura del dispositivo durata quasi un'ora. Quando il giudice ha pronunciato la sua condanna si è alzata con le lacrime agli occhi ed ha iniziato a sbattere la testa contro le pareti, soffocando a denti stretti il dolore per la pena ricevuta. In tutto le donne imputate nel processo "All Inside" erano tredici: sette sono state condannate fra cui le giovanissime Maria Stanganelli, moglie di Ciccio Pesce "Testuni", e la sorella di quest'ultimo Maria Grazia Pesce, entrambe a sette anni; per altre due il reato è stato dichiarato prescritto. Ma un verdetto più pesante potrebbe colpire Teresa Gallico, 65 anni: il pm della Direzione antimafia reggina Giovanni Musarò ha chiesto di punirla con 27 anni di cella. Teresa ha preso il posto dei fratelli detenuti al vertice della cosca Gallico e ripete spesso che lei doveva «nascere maschio»: va a riscuotere direttamente il pizzo, partecipa agli incontri con i rappresentanti di altre famiglie per decidere delitti e strategie. E di questo atteggiamento Teresa va fiera, tanto che in carcere, a colloquio con il fratello, si vanta delle sue azioni criminali e dice: «Sono come te».

In Campania le signore di camorra hanno un modello antico, Rosetta Cutolo, sorella e ombra di don Raffaele nell'epopea sanguinaria degli anni Ottanta. Adesso la imitano in tante. Il trionfo delle quote rosa a mano armata è stato evidenziato dal presidente della Corte d'Appello, Antonio Bonajuto, nell'inaugurazione dell'anno giudiziario: «L'assenza dei capi ha prodotto anche un'insolita successione all'interno della famiglia camorrista, non solo in favore dei giovani, ma anche e soprattutto delle donne che, senza alcuna remora e spavaldamente imponendo un'ormai raggiunta parità di genere, assumono il comando del clan». Lo fanno «gestendo piazze di spaccio, favorendo ricercati e latitanti e, incuranti della vita breve che promettono ai figli, votati a finire i propri giorni in carcere o nella tomba, assicurando la continuità dell'impresa familiare alimentandone ogni potenzialità criminale».

Nello scorso novembre 2012 i carabinieri di Torre Annunziata in un'inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Rosario Cantelmo ne hanno arrestate dodici: di fatto, la cupola dei clan Falanga e Di Gioia. Dure negli affari - trattano con i marsigliesi l'acquisto di partite di cocaina in Spagna - e nella violenza, pronte a minacciare altre donne e persino bambini. Come quando affrontano la moglie di un pentito: «Deve dire che ritratta tutto quanto, al massimo si fa un anno, siamo più amici di prima. Nessuno gli fa male... Altrimenti il boss rompe il cu... a tutti quanti loro, cominciando da te». Queste lady di ferro campane stanno facendo scuola. Alcune hanno impugnato le armi, presentandosi con il mitra a tracolla al posto della borsetta. Altre ragazze terribili sono alla testa di bande giovanili, che rubano e rapinano: comandano a bacchetta gli scugnizzi minorenni. La promessa di un'escalation molto prossima.

IL RISVOLTO DELLA MEDAGLIA. DONNE DI MAFIA E DONNE CONTRO LA MAFIA.

Così comandano le donne dei boss della 'ndrangheta. Trattano l’acquisto di armi, proteggono i loro uomini durante la latitanza, trasmettono ordini e investono capitali. Come rivela l'inchiesta di Panorama, le signore delle cosche calabresi entrano a pieno titolo nel business criminale, scrive Paola Ciccioli su “Panorama”. La ‘ndrangheta ha cambiato pelle e dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria parte un’offensiva senza precedenti. L’obiettivo è colpire quel reticolo parentale che ha consentito alle cosche calabresi di diventare "la componente più pericolosa della criminalità organizzata in Italia", come documentato nell’ultimo rapporto dei servizi segreti. Sotto tiro le complicità familiari, a cominciare da quelle che le donne assicurano ai boss latitanti. "Le donne non sono solo consapevoli, ma condividono appieno il disegno mafioso e partecipano alla realizzazione del programma criminale" afferma Natina Pratticò, il giudice delle indagini preliminari che, tra i 51 provvedimenti restrittivi emessi per la strage del 15 agosto a Duisburg, in Germania, ha firmato 8 misure cautelari per altrettante donne accusate di associazione mafiosa o favoreggiamento. Sono madri, mogli, figlie, sorelle, cognate degli ‘ndranghetisti che sono state filmate e intercettate mentre trasferiscono i latitanti, trattano l’acquisto di kalashnikov, chiedono durante i colloqui con i mariti detenuti dove sono nascoste le armi. "La moglie del boss latitante è l’alter ego del capo, ne assume di fatto il posto. Non si possono più fare indagini moderne trascurando l’altra metà del cielo" dice a Panorama  il sostituto procuratore Giuseppe Lombardo. Dall’ufficio del giovane magistrato sono anche partite due richieste al Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria per far decadere dalla potestà genitoriale sia Maria Morabito, moglie del numero uno della ‘ndrangheta Pasquale Condello arrestato il 18 febbraio, sia Margherita Tegano, compagna del latitante Domenico Condello, tuttora latitante. Il provvedimento, senza precedenti, porta le firme anche del procuratore aggiunto Salvatore Boemi e dal sostituto Domenico Galletta. Nelle campagne di Rosarno, il 16 febbraio del 2005, i carabinieri scoprirono il rifugio di Gregorio Bellocchio, allora tra i 30 più pericolosi ricercati d’Italia. Dal rifugio, scavato sotto un albero, al momento dello sparo dei lacrimogeni uscì gridando la moglie del boss, Teresa Cacciola, che sotto i vestiti aveva nascosto dei documenti da portare in salvo.

Il futuro della ‘ndrangheta? È nelle mani delle donne, scrive Maria Cristina Origlia. Le donne possono rompere gli schemi, interrompere la tradizione e salvare i propri figli, ma a costo di sofferenze inaudite. È il momento di aiutarle con leggi migliori e una mobilitazione collettiva più forte. Ne parliamo con Bianca Stancanelli, giornalista e scrittrice di storie di mafia. Si fa fatica ad accettare che in Italia una donna possa essere rapita, torturata e sciolta nell’acido da sei uomini, tra cui l’ex compagno. Eppure è successo, a Milano il 24 novembre 2011. È la storia di Lea Garofalo, intrisa di ’ndrangheta dalla nascita alla morte. Sorella di un boss crotonese, compagna di un affiliato, nel 2005 diventa testimone di giustizia, ma la decisione di rinunciare nel 2009 al programma di protezione per poter vedere la figlia le sarà fatale. Ed è proprio la figlia Denise, ventenne, a dare seguito al suo atto di coraggio, denunciando il padre. La sentenza, emessa il 30 marzo 2012 le ha reso giustizia: sei ergastoli a tutti e sei gli imputati. Un gruppo di coetanee, del tutto sconosciute a Denise, hanno sentito spontaneamente il dovere di mobilitarsi per farle sentire la loro solidarietà. Forse è questa la strada da seguire per non lasciare sole donne come noi, nate in terra di ’ndrangheta, predestinate a una vita di brutalità e soprusi? Ne parliamo con Bianca Stancanelli, giornalista e scrittrice di storie di mafia, politica e migrazioni, autrice, tra gli altri, del libro A testa alta - Don Giuseppe Puglisi, storia di un eroe solitario, che ha aperto la seconda edizione di Trame - Festival dei libri sulle mafie, con un incontro dedicato al coraggio delle donne.

Qual è il ruolo delle donne nell’ndrangheta?

«Un ruolo fondamentale. L’ha dichiarato Giuseppina Pesce, una collaboratrice di giustizia, figlia di una famiglia potente di Rosarno, non più di qualche settimana fa. Si è presentata a Rebibbia, nell’aula bunker e ha raccontato al tribunale che le donne fanno sopravvivere l’ndrangheta. Sono loro a fungere da raccordo fondamentale tra gli uomini e il resto della famiglia, soprattutto quando questi uomini finiscono in carcere».

In che modo?

«Giuseppina Pesce racconta che quando suo padre o altri uomini erano reclusi, sia lei che sua madre che sua sorella facevano da staffetta per portare messaggi dall’interno del carcere all’esterno ed erano preposte a raccogliere i soldi delle estorsioni e a trasmetterli a chi di dovere».

I legami di sangue vincono su tutto?

«Tra le organizzazioni criminali di stampo mafioso, la ’ndrangheta è la più chiusa, perché la “famiglia mafiosa” coincide spesso con la famiglia di sangue, il che rende complicatissima la ribellione interna. Eppure, il numero – per quanto stiamo parlano di cifre ridotte - di collaboratrici di giustizia e di donne che hanno rotto il legame di sangue con la ’ndrangheta non ha paragone con le altre organizzazioni. Giuseppina Pesce è una di queste: dopo aver servito la famiglia, in nome dei suoi tre figli decide di rompere il vincolo e di testimoniare».

Che cosa spinge queste donne a ribellarsi?

«Il primo elemento sono senz’altro i figli. Stiamo parlando di donne che si sposano e hanno figli in giovane, se non giovanissima, età. È il caso di Giuseppina Pesce, ma anche di Maria Concetta Cacciola, che si è tolta la vita lo scorso 20 agosto, ingerendo acido muriatico. Nipote di un boss di Rosarno, si sposa a soli 13 anni sperando di fuggire al suo destino. Nel maggio 2011 decide di parlare ed entra nel programma testimoni, ma non resiste lontana dai tre figli e ricade nelle braccia della famiglia, che la porterà alla morte».

Quindi, il ruolo dei figli è ambivalente?

«I figli da elemento di ribellione si trasformano in elemento di debolezza nel momento in cui queste donne ne vengono allontanate dal programma di protezione testimoni. La Pesce, a un certo punto, fa una parziale marcia indietro rispetto alle dichiarazioni rilasciate e si saprà poi che l’incertezza è dovuta alla figlia maggiore in disaccordo con la sua scelta di collaborare con la giustizia. Nel caso di Maria Concetta Cacciola è stato fatto molto di peggio, perché i figli sono stati praticamente sequestrati dalla famiglia paterna e utilizzati contro di lei. Tant’è che la sua collaborazione è stata segnata da molte marce indietro. Quando torna a casa, viene costretta a incidere su un nastro la ritrattazione di tutte le sue dichiarazioni e poi si uccide. A quel punto finalmente è scoppiata la polemica: perché è stato offerto un programma di protezione a questa donna senza includere anche figli e si è lasciato che fossero spietatamente usati contro di lei?»

Ci sono anche altri motivi di ribellione?

«Un altro elemento comune delle storie di donne che hanno deciso poi di rivolgersi alla magistratura è che la loro storia nell’ndrangheta è pesantemente segnata dalla violenza. Questo fa molto effetto. Ho letto uno studio di Renate Sebiert, una sociologa bravissima che insegna in quel di Cosenza, che racconta come spesso queste donne siano esposte a una grande violenza fisica e, talvolta, anche sessuale. Sono donne che fuggono da inferni domestici per noi difficili da immaginare».

Crede che sia in atto un cambiamento in seno all’’ndrangheta?

«Non sarei così ottimista. Sulla ’ndrangheta e sulla Calabria grava un grandissimo silenzio. La scrittrice Angela Bubba, nel recente libro Malinati, racconta la condizione dei ragazzi cresciuti in Calabria come una condizione di morte, tornando insistentemente sulla cappa di silenzio che avvolge la società calabrese. Questa disattenzione della società nazionale nei confronti della ‘ndrangheta rende difficile un processo di emancipazione, che si manifesta solo in percorsi individuali. Oltretutto, non dimentichiamoci che stare dentro l’organizzazione consente grandi vantaggi di status, ad esempio, e di economie. Tutto sommato, ai ragazzi che crescono in questa cultura vischiosa, potente e poco contrastata viene offerto un livello di vita che difficilmente troverebbero fuori, soprattutto in una regione acciaccata come la Calabria, oltretutto in una fase di crisi come questa. Molto si può fare, certo, ma non credo che al momento vi sia una decorsa ribellione di massa».

Di chi è in definitiva la responsabilità di questa situazione?

«Credo che vi sia una responsabilità collettiva di tutta la società italiana, che non si rende conto della pazzia di consegnare le maggiori regioni meridionali in mano a una forma di dittatura criminale, che ha un peso economico rilevantissimo e necessariamente ha un peso politico e istituzionale altrettanto elevato. Perché quando le mafie traggono ricavi per circa 160 miliardi all’anno, è evidente che acquisiscono un potere enorme. Ed è evidente una delle ragioni della debolezza italiana sta proprio nel non aggredire con forza queste organizzazioni criminali, che tolgono linfa all’economia e alla società. Quindi direi che la responsabilità è collettiva. Si è visto meglio nel caso siciliano. Ogni volta che c’è stata una grande mobilitazione della società civile nazionale, si sono raggiunti importanti risultati. La reazione all’omicidio Dalla Chiesa ha portato al maxiprocesso contro Cosa Nostra, come la reazione alle stragi del ’92-’93 ha avuto un impatto enorme sugli anni successivi. Ma non è possibile che sia necessario il sangue degli eroi perché ci si convinca che è necessaria una mobilitazione collettiva».

Festival a favore della legalità, come Trame, servono a qualcosa?

«Portano consapevolezza e anche una forma di allegria e gioia nel partecipare a dibattiti, a eventi culturali, a incontri con gli scrittori e i protagonisti della lotta alla criminalità. Il Festival Trame, già l’anno scorso e anche quest’anno nella sua seconda edizione, ha portato a Lamezia Terme tanto rumore. Cosa che le mafie rifuggono, perché hanno bisogno di silenzio e oscurità per poter fare i loro affari, come hanno bisogno della disperazione sociale per poter tenere le persone sotto il loro dominio, che è un dominio militare che controlla economia, politica e spesso, purtroppo, anche le istituzioni. L’irrompere di migliaia di persone in terra di ‘ndrangheta significa che i calabresi non si sentono più soli ed è già tanto».

'Fimmine ribelli', il libro di Lirio Abbate. Nel libro di Lirio Abbate le storie di numerose ragazze calabresi non più disposte a piegarsi ai codici mafiosi e che hanno pagato un prezzo carissimo per la scelta di rompere con le famiglie e collaborare con le istituzioni. Donne uccise dalle loro famiglie perché hanno tradito l'onore. Donne a cui già prima della morte era stato impedito vivere: spinte alle nozze a quindici anni, e poi recluse in casa, senza mai potere uscire da sole. Ma è la loro ribellione ad avere provocato la rivoluzione più importante nella lotta alla 'ndrangheta, l'organizzazione criminale più potente del mondo occidentale. Hanno svelato agli investigatori le regole interne ai clan e creato una crepa nella fortezza di omertà che le protegge: un esempio che si è subito rivelato contagioso. In "Fimmine ribelli", in libreria per Rizzoli, l'inviato de l'Espresso Lirio Abbate racconta "come le donne salveranno il paese dalla 'ndrangheta". Abbate, da anni sotto scorta per le minacce di Cosa nostra, infonde nel rigore della documentazione il senso tragico dei destini di numerose ragazze calabresi, non più disposte a piegarsi ai codici mafiosi e che hanno pagato un prezzo carissimo per la scelta di rompere con le famiglie e collaborare con le istituzioni. E allo stesso tempo genitori che spingono fra le braccia di boss latitanti le proprie figlie, facendole diventare le amanti del "califfo", per ottenere un riconoscimento sociale.

“La mia ‘ndrangheta”: la storia di Rosy e il ricordo della faida di San Luca. Rosy Canale nel 2004 è stata ridotta in fin di vita per non essersi piegata ai clan che volevano fare del suo locale il quartier generale dello spaccio di cocaina. Il libro, scritto insieme alla cronista Emanuela Zuccalà, vuole riabilitare la Calabria dalla demonizzazione mediatica: "Non è solo una terra maledetta, ma un terreno fertile in cui possono nascere nuove idee", scrive Micol Sarfatti  su “Il Fatto Quotidiano”. San Luca è un borgo antico, un pugno di case bianche arroccate tra i monti della Locride. Era il paese di Corrado Alvaro, il poeta che scriveva: “La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che essere onesti sia inutile”. Ma è anche la roccaforte della ‘ndrangheta, della faida tra i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari, quella della strage di Duisburg, Germania, del 15 agosto 2007. Sei uomini uccisi nell’ultimo atto di una guerra tra ‘ndrine, cominciata nel 1991. La mente dell’agguato è Giovanni Strangio: voleva vendicare la cugina Maria, moglie del boss Gianluca Nirta, uccisa la notte di Natale del 2006. Le immagini di quei corpi crivellati fanno il giro del mondo e rimbalzano anche dal televisore di una donna che ha conosciuto la ‘ndrangheta da vicino. Si chiama Rosy Canale e nel 2004 è stata ridotta in fin di vita per non essersi piegata ai clan di Reggio Calabria, che volevano fare del suo locale il quartier generale dello spaccio di cocaina. Si sta riprendendo dopo una lunga convalescenza e vorrebbe abbandonare quella terra amata e allo stesso tempo matrigna. Il massacro le fa cambiare idea. Decide di andare a San Luca, perché “se un seme riesce a germogliare nella roccia, allora può farlo ovunque”. Si trasferisce lì e, grazie alla vincita di un bando, comincia un corso di disegno per i bambini. Poi apre una ludoteca all’interno di un bene confiscato, un laboratorio di ricamo e una piccola fabbrica di saponi in cui impiegare le donne del posto, quasi tutte disoccupate. Il 27 gennaio 2008 nasce il Movimento Donne di San Luca. Oggi Rosy racconta la sua esperienza in un libro, scritto a quattro mani con la giornalista Emanuela Zuccalà (scarica alcune pagine del volume). Presentato anche a Milano l’11 novembre durante il Festival dei Beni confiscati alle mafie, si intitola “La mia ‘ndrangheta” (Ed. Paoline) e racconta la storia di questa donna coraggiosa, senza dimenticare il resoconto della faida di San Luca. “E’ stato un lavoro lungo – racconta Zuccalà – io e Rosy abbiamo unito lo sguardo personale a quello più distaccato della giornalista che vuole raccontare, con il massimo rispetto, i fatti e le donne di San Luca”. Tra queste spicca Teresa Strangio, madre di Francesco Giorgi e sorella di Sebastiano Strangio, uccisi a Duisburg. “Si è presentata al funerale dei suoi cari vestita di bianco, ha perdonato gli assassini e poco dopo la strage ha celebrato il matrimonio della figlia. Teresa sfugge a qualunque classificazione, non ha molta cultura, ma è una vera rivoluzionaria. E’ l’alter ego di Rosy”, dice Emanuela.

A San Luca non c’è donna che non abbia avuto a che fare con la ‘ndrangheta. Qualcuna ha perso il padre o il marito, qualcun’altra il figlio o il fratello. Anche chi non ha vittime in famiglia, ha vissuto consapevolmente in condizioni modeste per non essersi mai immischiata “con i sequestri o con la farina (la cocaina, ndr). “Il movimento – racconta Emanuela – ha scoperto talenti straordinari, a lungo rimasti inespressi”. L’iniziativa di Rosy ha riacceso la speranza, ma ora ci sono molte difficoltà, mancano i fondi e il sostegno delle Istituzioni, locali e nazionali. “’La mia ‘ndrangheta’ vuole riabilitare San Luca dalla demonizzazione mediatica. La Calabria non è solo una terra maledetta, ma un terreno fertile in cui possono nascere nuove idee – spiega la giornalista – Abbiamo voluto trasmettere una immagine coerente della ‘ndrangheta. Per qualcuno è ancora un’organizzazione criminale di pastori, ma in realtà è una rete potentissima con una testa e molte braccia, anche all’estero. I boss viaggiano e usano la tecnologia. Anche le donne ora hanno ruoli più attivi”. Nel luglio 2011, durante il processo Fehida, la Corte d’Assise di Locri ha condannato all’ergastolo per la strage di Duisburg Giovanni Strangio, Gianluca Nirta, Giuseppe e Francesco Nirta, Sebastiano Romeo, Francesco Pelle, Francesco e Sebastiano Vottari. Ci sono state anche tre condanne minori e tre assoluzioni. “Il nostro libro – precisa Emanuela – non assolve e non condanna, è una storia, vera, che vuole lanciare un messaggio di speranza, al di là di tutti gli stereotipi”.

Inchiesta sulle donne testimoni di giustizia nella ‘ndrangheta. Le donne testimoni di giustizia nella ‘ndrangheta: una novità nel panorama delle collaborazioni nella malavita organizzata. I casi di suicidio. Il ruolo dello stato nel sistema di protezione dei testimoni e dei collaboratori, scrive Maria Fabbricatore.

TESTIMONIARE LA ‘NDRANGHETA

Morire ingoiando acido muriatico. I minuti sono pochi per sentire i tessuti della pelle che si accasciano intorno ad un cuore già spezzato dalla fatica di non poter scegliere della propria vita. Pochi minuti per rivedere la propria esistenza fatta di privazioni, di acconsentire al dolore, alla scia di sangue che sporca la propria casa anche se fatta di marmi di prima qualità o di piscine a tre livelli e di serate innaffiate da champagne di duemila euro a bottiglia. Poi però c’è il pavimento da pulire dal sangue, le mura della propria anima da scrostare dalle maledizioni della propria famiglia. Pochi minuti bastano per morire bruciati dall’acido muriatico e una vita per decidere di essere liberi. Maria Concetta Cacciola moglie, figlia, nipote dei boss della ‘ndrangheta di Rosarno si è uccisa così, forse indotta dalla condizione in cui si trovava, forse dagli obblighi del ruolo da cui non si poteva sottrarre. Una donna di ‘drangheta. Cresciuta a pane e malaffare, spaccio di droga, omicidi, sangue. Decide di sottrarsi a tutto questo e di raccontare la propria ’ndrina ai magistrati della Dda di Reggio iniziando il percorso del testimone di giustizia. La stessa decisione presa da Tita Buccafusca moglie di Pantaleone Mancuso boss della ‘ndangheta del vibonese, anche lei decisa a uscire dall’inferno collaborando con i magistrati. Anche lei ha pensato all’acido solforico per uccidersi. E la sua morte, inascoltata, ha finito per riempire con due righe d’inchiostro i verbali dei magistrati di Reggio di fine collaborazione per suicidio. Un altro caso più eclatante e terribile è stato quello di Lea Garofalo, della quale si celebra in questi giorni il processo contro il marito Cosco. Rapita nel centro di Milano, uccisa in un capannone e poi sciolta in cinquanta litri di acido in un terreno vicino Monza. Nel nord ricco e inquinato dalla mano della ‘ndrangheta, l’organizzazione criminale più potente e ricca con diramazioni in Europa, Nord America, Canada e Australia in contatto costante con la “casa madre reggina”. La Lombardia è un vero e proprio feudo che è in parte indipendente, ma che mantiene rapporti stretti e dalla quale dipende per le scelte strategiche.

DONNE DI ‘NDRANGHETA. LA PRIMA “CAPA” NEI CASALESI

Chi sono oggi le donne della criminalità organizzata, cosa sono diventate, hanno un ruolo attivo, lo hanno mai avuto?

Le donne nell’organizzazione tradizionale, dei casalesi o della ‘ndrangheta ionica più tradizionali rispetto a quella tirrenica o a quelle del napoletano considerate più “cittadine” non hanno mai contato granché. Hanno avuto sempre quel ruolo molto ancillare che al massimo poteva tradursi in un favoreggiamento e non sono mai state rese troppo partecipi della vita dell’organizzazione, degli affari e dei soldi, né mai hanno chiesto di partecipare perché hanno sempre accettato il ruolo di mogli, madri. Infatti le collaboratrici di giustizia nel mondo casalese sono le amanti, le compagne. Un esempio è Angela Barra, la compagna di Francesco Bidognetti (anni ’90), e più di recente la Carrino, ugualmente compagna dell’altro Domenico Bidognetti. Secondo il Sostituto Procuratore della Dna, Carlo Caponcello:“La mia esperienza trentennale mi fa pensare alle donne come le grandi assenti dai processi. Anche se il codice etico delle organizzazioni, che non ne prevede la presenza, è un tabù superato. Infatti le donne partecipano agli affari da quando è aumentato il potere economico delle cosche". Il motivo del grande vuoto nelle collaborazioni femminili di questi anni è da ricercare anche nel fatto che la ‘ndrina è la famiglia, è un legame di sangue, potente. Le donne e il loro rapporto ancestrale con i congiunti, fratelli, padri, mariti è evidentemente un elemento imprescindibile dal quale non ci si può sottrarre per comprendere il motivo dell’eccezionalità delle collaborazioni degli ultimi anni. Le ipotesi sulle motivazioni possono essere diverse: “le donne che si pentono sono donne bistrattate”, secondo Caponcello, “non hanno potuto esercitare quel ruolo, che per esempio nella famiglia siciliana, è molto più forte: il ruolo matriarcale, mentre in Calabria il ruolo matriarcale è meno riconosciuto, e poi un'evoluzione di tipo culturale, la possibilità di informarsi per dare ai propri figli una vita diversa”. Resta comunque un fatto episodico. Ma Giuseppina Pesce, appartenente ad una delle cosche più ricche e potenti di Rosarno, è un esempio importante. Arrestata nell’ambito del procedimento “All inside”, decide di passare dalla parte della giustizia iniziando a collaborare con gli inquirenti, poi ci ripensa, finendo anche in carcere per violazione degli arresti domiciliari. Infine ritorna a collaborare dopo aver avuto la certezza di avere con se i figli. E riduttivo il termine “coraggiosa” per Giuseppina Pesce, molte altre donne non hanno saputo dimostrare tutta quella forza: ha accusato il marito, il padre, il fratello, e fatto arrestare molti ‘ndranghetisti. Non è facile per una donna di ‘ndangheta, appartenente ad una famiglia così potente in quella città, diciamocelo pure: ha dell’incredibile. Giuseppe Pignatone (Procuratore di Reggio Calabria) afferma, ad esempio, come molto elevata, da un punto di vista numerico, la presenza di cinquecento ‘ndranghetisti solo a Rosarno. In un intercettazione un affiliato di una cosca, Umberto Bellocco, dice: “Rosarno è nostra e deve essere per sempre nostra…se no non è di nessuno”. E’ vero che le donne sul piano decisionale non contano, non in queste zone, ascoltano silenziose, molto spesso complici. Ma quando si pentono, poi parlano e mandano in galera. Ma le cose cambiano. Le nuove generazioni di donne hanno un ruolo di ascesa nelle gerarchie delle organizzazioni mafiose. Le giovani sembrano aver abbandonato quel ruolo relegato all’angolo del focolare: studiano, lavorano, si informano. Scalzano figure maschili nelle organizzazioni, che un tempo sarebbe stato impossibile immaginare. Rimanendo nell’ambito dei casalesi, possiamo citare la figlia di Carmine Schiavone -che è stato il primo pentito di spicco dei casalesi- le cui dichiarazioni hanno poi portato a Spartacus e a tutti gli altri processi. Rosaria Schiavone per la quale adesso si sta facendo un processo presso la corte di Latina, figlia di boss che ha respirato l’aria della famiglia dominante, non solo non ha seguito la scelta del padre di pentirsi, anzi lo ha rinnegato pubblicamente. “I collaboratori di questa sub-organizzazione che si era costituita sul litorale romano, ne parlano invece come di una capa,- dice Barbara Sargenti Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, già componente della DDA di Napoli - è la prima volta che ci viene proposta (una definizione di questo tipo), in quel caso noi abbiamo un ruolo di Rosaria Schiavone di assoluta capa, i collaboratori ti dicono, dottorè la dentro la vera camorrista è lei non il marito”.

DENISE GAROFALO FIGLIA CORAGGIOSA. IL SISTEMA DI PROTEZIONE

Vissuta sempre in un sistema di protezione da quando è nata. Una vita in fuga prima con la madre, ora sola. Denise collabora con le forze inquirenti nel processo contro il padre Carlo Cosco, imputato per sequestro di persona, omicidio e scioglimento nell’acido del cadavere. Enza Rando, responsabile dell’ufficio legale di Libera e avvocato della ragazza che si è costituita parte civile al processo: “Lea era il suo punto di riferimento, la sua mamma, il suo papà insomma la sua famiglia, ci vuole grande forza per affrontare un processo così delicato, si è costituita parte civile contro il padre”. Denise avrebbe dovuto testimoniare, dopo la nomina del nuovo Presidente succeduto a Grisolia dopo la convocazione da parte del Ministro della Giustizia, ma le è stato per fortuna risparmiato, rendendola sicuramente più serena. Lea Garofalo aveva abbandonato il sistema di protezione, e non è un caso isolato. Capita molto spesso che il testimone o il collaboratore (chi commette reato di mafia) ad un certo punto voglia staccarsi dal sistema di protezione. I motivi sono diversi e complicati, legati certamente alle storie personali, ma accomunati da un senso di sfiducia. Andare nel sistema di protezione significa affidare la propria sicurezza completamente nelle mani di altre persone che devono avere la fiducia e correttezza totale. Enza Rando: “Bisogna capire che la quotidianità è mimetizzata completamente, diventano molto importanti la formazione e la professionalità di chi ti prende in custodia, perché in una persona si mette in moto tutto: testa, cuore, emozioni, quindi bisogna che ci siano davvero dall’altro lato una grande preparazione. Quando togli ad una persona il presente, il futuro e il passato ci sono dei momenti in cui hanno bisogno di un supporto psicologico importantissimo, sia nella fase di transizione quando ancora si è nella fase di protezione, sia dopo quando ne esci. Lea in questo sistema ha conosciuto persone perbene con cui si trovava meglio, e altre con le quali non si è trovata bene e poi ad un certo punto era convinta che il suo vecchio compagno la braccava e quindi ha dovuto cambiare 5 0 6 località in tre o quattro anni. E’ chiaro che ci sono momenti di sconforto, e in questo caso le istituzioni non hanno un apparato veramente forte”. Lo stato offre ai collaboratori e ai testimoni di giustizia (ovvio dipende dai casi), una economia fortemente limitata. E si esce dopo il percorso di “fine rapporto”, dal programma di protezione previa capitalizzazione. Cioè gli si dà un aiuto economico e dopo aver concluso gli impegni dibattimentali, dopo che il ruolo del collaboratore si è esaurito, oltre a dargli una casa (media), gli si dà una sorta di stipendio, che è commisurato ai canoni Istat, ed è quindi uno stipendio all’osso a cui questi non sono abituati. Barbara Sargenti “noi abbiamo delle sollecitazioni dalla commissione centrale che decide sull’ammissione del programma di protezione: la volontà dei testimoni è quella di uscire e anche quella dello stato è quella di farli andare via, perché mano a mano che si va avanti il numero dei collaboratori aumenta”.

LA ‘NDRANGHETA NON DIMENTICA

Angela Napoli parlamentare, membro della Commissione Antimafia e della II Commissione (Giustizia) nella passata legislatura, veramente impegnata nella lotta antimafia. La donna all’interno della cosca ha, anche secondo la Napoli, un ruolo più attivo rispetto al passato. Finita la fase ancillare, ha un ruolo di “capa”, in questo contesto c’è da valutare la voglia di alcune donne di parlare come Giuseppina Pesce, o la moglie di Mancuso, noto boss del vibonese. “Sono tutte giovani donne che hanno recepito la necessità di uscire da quella cultura soprattutto di salvaguardare il futuro e il riscatto dei propri figli”. Le donne che si pentono, hanno assunto con coraggio questo ruolo, ma non c’è un attenzione forte da parte della magistratura e delle forze dell’ordine nel senso che se ne usano, ma non le tutelano fino in fondo. Si sottovaluta la sicurezza. I familiari di queste persone non dimenticano. “La ‘ndrangheta, le mafie tutte non perdonano, figuriamoci la ‘ndrangheta che è un legame di sangue indissolubile. Per un uomo di ‘ndrangheta è probabilmente la cosa peggiore essere accusato dalla propria moglie o dalla propria sorella o dalla figlia. E’ vero che molti rinunciano alla tutela, ma è altrettanto vero che lo stato dovrebbe non accettare questa richiesta, dovrebbe garantire la sicurezza, e non abbandonare. Come successe per Lea Garofalo”. Lo stato non può chiamarsi fuori, ma deve essere degno di farsi garante, perché questa situazione non incoraggia “La garanzia di sicurezza, su una donna come Giuseppina Pesce, dovrebbe essere vita natural durante”. Lo stato non può nascondersi dietro il fatto che i collaboratori aumentano e che quindi diventano un spesa: “Ma i testimoni non sono tanti si aggirano tra le ottanta e le novanta unità in tutt’Italia, nella ‘ndrangheta sono ancora di meno…”. Il pentitismo femminile scardina quegli elementi che danno stabilità alla ‘ndrangheta che è il familismo, il vincolo d’onore, di sangue. Queste donne rifiutano di fatto questo modello. “C’è però una peculiarità sono le giovani donne che si pentono, - dice Doris Lo Moro (parlamentare del PD e sindaco di Lamezia dal ‘93 al 2001)- perché le donne anziane, le loro madri non accettano la loro ribellione. Se andiamo alla lettura degli atti nel caso di Lea Garofalo, la figlia, la sorella che testimoniano sono tutte giovani donne che dimostrano un coraggio esemplare. Una figlia che accusa suo padre, il suo sangue è un atto d’amore e di civiltà di cui la Calabria dovrebbe essere orgogliosa”. La battaglia che portano avanti sia Doris Lo Moro, Angela Napoli, Sonia Alfano e tanti altri firmatari della mozione riguardo al diverso trattamento dei “testimoni di giustizia che non sono collaboratori di giustizia”, i quali non hanno mai partecipato all’organizzazione mafiosa, ma hanno soltanto testimoniato contro le attività criminali e per questo si sentono abbandonati in attesa di avere dallo stato non solo la protezione, ma persino un lavoro per poter vivere.

Donne che odiano la 'ndrangheta, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”.

Uccise dalle loro famiglie perché hanno tradito l'onore. Vendute ai boss. O prigioniere di famiglie criminali. Che trovano la forza di ribellarsi. E collaborare con i giudici. Un libro le racconta. Ma cosa aspetti ad andare a trovarlo? Vai, prima che ci vadano le altre!». A pronunciare queste parole è il padre di Valentina R., preoccupato che la figlia si lasci sfuggire l'occasione d'oro della vita, e altre ne approfittino al posto suo. Valentina ha ventidue anni, è una bella ragazza, e probabilmente non ha alcuna voglia di assecondare il padre e accodarsi alla fila di quelle che si concedono notte dopo notte a uno dei più pericolosi boss della 'ndrangheta. Lui, il boss, è Francesco Pesce, detto Ciccio 'u Testuni, e vive da mesi sepolto in un bunker. E' latitante, e impartisce ordini alla 'ndrina dei Pesce, che con quella dei Bellocco controlla la città di Rosarno. Ciccio 'u Testuni adora le donne, e tutti lo sanno. Dunque perché non approfittarne? In questa fetta di Calabria dove la disoccupazione nel secondo trimestre del 2012 sfiorava il 20 per cento, conoscere l'uomo giusto può rivelarsi assai vantaggioso. Quando ho domandato ad alcuni abitanti di Rosarno perché un padre arrivi al punto di dare la figlia in pasto a un criminale mi hanno risposto: «Ma perché è un affare!».E' un modo pure questo di fare investimenti, di piazzare un bene al miglior offerente: perché è così che questi padri considerano le proprie figlie, merce di scambio. Se poi la ragazza le sue carte le gioca bene e riesce a entrare nelle grazie del boss diventando la sua favorita ufficiale, il ritorno per la famiglia non si misura più solo in termini economici, ma anche di prestigio sociale... Le donne sono un'ossessione per Ciccio Pesce, le cerca in modo seriale, quasi compulsivo, e con quelle che predilige è assai premuroso... A gestire il traffico delle ragazze è un suo favoreggiatore, Danilo D'Amico, che prende le ordinazioni e conduce le prescelte al califfo. Si incontrano nei posti più disparati, anche davanti al cimitero. Tra le varie donne che entrano nel suo entourage c'è forse anche Rosa Stagnitti, la ragazza di Taurianova che ha partecipato al "Grande Fratello 5" insieme al marito Alfio Dessì e che è al momento accusata di favoreggiamento aggravato dalle modalità mafiose nei confronti di Pesce,  Maria Concetta ha poco più di trent'anni, è nata a Rosarno e la sua è una famiglia di 'ndrangheta. Il padre, Michele Cacciola, è cognato del boss Gregorio Bellocco e vanta trascorsi criminali di tutto rispetto. E' stato più volte in carcere e il figlio Giuseppe, fratello di Maria Concetta, segue con successo le sue orme. Ha collezionato denunce per mafia, usura, riciclaggio, traffico di armi, e si è fatto anche lui qualche soggiorno in galera. Maria Concetta subisce fin da ragazzina il peso di regole rigide e soffocanti. Chiusa in casa, controllata a vista, conduce una vita da reclusa e vagheggia una libertà che le appare a portata di mano quando un ragazzo del paese, Salvatore Figliuzzi, comincia a corteggiarla. Lei ha 13 anni ma per i genitori non ci sono problemi, basta che tutto avvenga secondo le regole: così, dopo l'immancabile fuitina, quando lei compie sedici anni vengono celebrate le nozze. Purtroppo però il sogno di felicità di questa sposa bambina viene presto scalzato dalla realtà. Non ama il marito e scopre che neppure lui ama lei: l'ha sposata solo per entrare nel circolo mafioso della sua famiglia...Ha già pensato di andarsene, di farsi ospitare da qualche amica che abita al Nord, e più di una volta è andata in agenzia a comprare il biglietto per il viaggio, ma all'ultimo momento ha cambiato idea. Per paura. Perché i suoi familiari sarebbero capaci di fare del male a chiunque la aiutasse, e lei non vuole che altre persone ci vadano di mezzo. Il percorso della collaborazione con la giustizia inizia da qui. Maria Concetta Cacciola ha cose molto scottanti da raccontare, come dimostra ai magistrati della Dda che la ascoltano nei giorni successivi alla sua richiesta di aiuto ai carabinieri, ed è disposta a farlo in cambio di protezione. Ormai ha fatto la sua scelta, basta solo aspettare il momento opportuno per scappare di casa. Finalmente nel suo orizzonte asfittico si è aperto uno squarcio di luce, la prospettiva di una vita autonoma. E questa volta non si tratta di un'illusione: Giusy Pesce ha fatto questa scelta prima di lei ed è riuscita a salvarsi non solo la pelle ma anche a crearsi un'esistenza nuova accanto all'uomo che ama. Sarà difficile, si ritroverà tutti contro, ma già adesso è così, in fondo, sono tutti contro di lei. C'è un unico pensiero a trattenerla, a smorzare la sua determinazione: i suoi figli. Li adora, ma non può portarli con sé e così decide di lasciarli alla persona che ama di più, che sente vicina, che sa che se ne prenderà cura come farebbe lei stessa: Anna Rosalba Lazzaro, sua madre. «Non so da dove si inizia e non trovo le parole a giustificare questo mio gesto» le scrive nella lettera con cui le dice addio. «Mamma tu sei mamma e solo tu puoi capire una figlia... so il dolore che ti sto provocando, e spiegandoti tutto almeno ti darai una spiegazione a tutto... Quante volte volevo parlare con te e per non darti un dolore non riuscivo. Mascheravo tutto il dolore e lo giravo in aggressività, e purtroppo non potevo sfogarmi e me la prendevo con la persona che volevo più bene... eri tu e per questo ti affido i miei figli, dove non ce l'ho fatta io so che puoi... ma di un'unica cosa ti supplico, non fare l'errore mio... a loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a tredici anni sposata per avere un po' di libertà... credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita. Ti supplico, non fare l'errore a loro che hai fatto con me...». Ma cosa aspetti ad andare a trovarlo? Vai, prima che ci vadano le altre!». A pronunciare queste parole è il padre di Valentina R., preoccupato che la figlia si lasci sfuggire l'occasione d'oro della vita, e altre ne approfittino al posto suo. Valentina ha ventidue anni, è una bella ragazza, e probabilmente non ha alcuna voglia di assecondare il padre e accodarsi alla fila di quelle che si concedono notte dopo notte a uno dei più pericolosi boss della 'ndrangheta. Lui, il boss, è Francesco Pesce, detto Ciccio 'u Testuni, e vive da mesi sepolto in un bunker. E' latitante, e impartisce ordini alla 'ndrina dei Pesce, che con quella dei Bellocco controlla la città di Rosarno. Ciccio 'u Testuni adora le donne, e tutti lo sanno. Dunque perché non approfittarne? In questa fetta di Calabria dove la disoccupazione nel secondo trimestre del 2012 sfiorava il 20 per cento, conoscere l'uomo giusto può rivelarsi assai vantaggioso. Quando ho domandato ad alcuni abitanti di Rosarno perché un padre arrivi al punto di dare la figlia in pasto a un criminale mi hanno risposto: «Ma perché è un affare!». E' un modo pure questo di fare investimenti, di piazzare un bene al miglior offerente: perché è così che questi padri considerano le proprie figlie, merce di scambio. Se poi la ragazza le sue carte le gioca bene e riesce a entrare nelle grazie del boss diventando la sua favorita ufficiale, il ritorno per la famiglia non si misura più solo in termini economici, ma anche di prestigio sociale... Le donne sono un'ossessione per Ciccio Pesce, le cerca in modo seriale, quasi compulsivo, e con quelle che predilige è assai premuroso... A gestire il traffico delle ragazze è un suo favoreggiatore, Danilo D'Amico, che prende le ordinazioni e conduce le prescelte al califfo. Si incontrano nei posti più disparati, anche davanti al cimitero. Tra le varie donne che entrano nel suo entourage c'è forse anche Rosa Stagnitti, la ragazza di Taurianova che ha partecipato al "Grande Fratello 5" insieme al marito Alfio Dessì e che è al momento accusata di favoreggiamento aggravato dalle modalità mafiose nei confronti di Pesce... Maria Concetta ha poco più di trent'anni, è nata a Rosarno e la sua è una famiglia di 'ndrangheta. Il padre, Michele Cacciola, è cognato del boss Gregorio Bellocco e vanta trascorsi criminali di tutto rispetto. E' stato più volte in carcere e il figlio Giuseppe, fratello di Maria Concetta, segue con successo le sue orme. Ha collezionato denunce per mafia, usura, riciclaggio, traffico di armi, e si è fatto anche lui qualche soggiorno in galera. Maria Concetta subisce fin da ragazzina il peso di regole rigide e soffocanti. Chiusa in casa, controllata a vista, conduce una vita da reclusa e vagheggia una libertà che le appare a portata di mano quando un ragazzo del paese, Salvatore Figliuzzi, comincia a corteggiarla. Lei ha 13 anni ma per i genitori non ci sono problemi, basta che tutto avvenga secondo le regole: così, dopo l'immancabile fuitina, quando lei compie sedici anni vengono celebrate le nozze. Purtroppo però il sogno di felicità di questa sposa bambina viene presto scalzato dalla realtà. Non ama il marito e scopre che neppure lui ama lei: l'ha sposata solo per entrare nel circolo mafioso della sua famiglia...

Ha già pensato di andarsene, di farsi ospitare da qualche amica che abita al Nord, e più di una volta è andata in agenzia a comprare il biglietto per il viaggio, ma all'ultimo momento ha cambiato idea. Per paura. Perché i suoi familiari sarebbero capaci di fare del male a chiunque la aiutasse, e lei non vuole che altre persone ci vadano di mezzo. Il percorso della collaborazione con la giustizia inizia da qui. Maria Concetta Cacciola ha cose molto scottanti da raccontare, come dimostra ai magistrati della Dda che la ascoltano nei giorni successivi alla sua richiesta di aiuto ai carabinieri, ed è disposta a farlo in cambio di protezione. Ormai ha fatto la sua scelta, basta solo aspettare il momento opportuno per scappare di casa. Finalmente nel suo orizzonte asfittico si è aperto uno squarcio di luce, la prospettiva di una vita autonoma. E questa volta non si tratta di un'illusione: Giusy Pesce ha fatto questa scelta prima di lei ed è riuscita a salvarsi non solo la pelle ma anche a crearsi un'esistenza nuova accanto all'uomo che ama. Sarà difficile, si ritroverà tutti contro, ma già adesso è così, in fondo, sono tutti contro di lei. C'è un unico pensiero a trattenerla, a smorzare la sua determinazione: i suoi figli. Li adora, ma non può portarli con sé e così decide di lasciarli alla persona che ama di più, che sente vicina, che sa che se ne prenderà cura come farebbe lei stessa: Anna Rosalba Lazzaro, sua madre. «Non so da dove si inizia e non trovo le parole a giustificare questo mio gesto» le scrive nella lettera con cui le dice addio. «Mamma tu sei mamma e solo tu puoi capire una figlia... so il dolore che ti sto provocando, e spiegandoti tutto almeno ti darai una spiegazione a tutto... Quante volte volevo parlare con te e per non darti un dolore non riuscivo. Mascheravo tutto il dolore e lo giravo in aggressività, e purtroppo non potevo sfogarmi e me la prendevo con la persona che volevo più bene... eri tu e per questo ti affido i miei figli, dove non ce l'ho fatta io so che puoi... ma di un'unica cosa ti supplico, non fare l'errore mio... a loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a tredici anni sposata per avere un po' di libertà... credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita. Ti supplico, non fare l'errore a loro che hai fatto con me...».

Calabria, la strage delle donne, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. La 'ndrangheta uccide decine di mogli, sorelle, figlie. Per punire il tradimento. In nome di un codice barbaro che sembrava cancellato. In esclusiva la verità su un fenomeno drammatico e oscuro. E' una strage, coperta dall'omertà e dall'indifferenza: 20 donne assassinate, nella sola Piana di Gioia Tauro. Vittime di una brutalità antica, che ha cambiato volto ma resta identica nella sua ferocia atavica: il delitto d'onore. Sì, nel Ventunesimo secolo esiste ancora. Come nel remoto Afghanistan dei talebani, anche in Calabria resiste il codice più feroce, che punisce con la morte il tradimento femminile. La 'ndrangheta ignora la modernità, anzi la trasforma in una colpa. Adesso non ammazza soltanto chi ha una vera relazione, ma persino le ragazze che fanno amicizia sul Web: chattare, intrecciare legami virtuali basta a scatenare la sentenza definitiva. E il matrimonio è indissolubile oltre la morte: la vedova di un affiliato non può rifarsi una vita, riscoprire l'amore. Il clan non lo tollera: pretende che l'onta venga lavata dagli stessi familiari. Figli, padri, fratelli si trasformano in esecutori. Spesso nascondono la verità simulando il suicidio, ma il messaggio di vendetta è chiaro: condiviso da molti nei paesi dove comandano le cosche. I parenti assassini sfoggiano fierezza e orgoglio: lavano con il sangue del loro sangue la vergogna da cui si sentivano macchiati e riconquistano il rispetto della comunità. Adesso alcune giovani coraggiose hanno sfidato questa gabbia di orrore. Sanno di non avere scampo, sanno che per amore sarebbero andate incontro alla morte. Altre donne, magistrati dello Stato, come Alessandra Cerreti, le hanno convinte a collaborare garantendo protezione. Così a queste rivelazioni il procuratore aggiunto antimafia di Reggio Calabria, Michele Prestipino, sta riaprendo le indagini su una ventina di casi, archiviati come suicidio o rimasti senza colpevoli. Tutti delitti d'onore, tutti con lo stesso movente. «La donna che tradisce o disonora la famiglia deve essere punita con la morte», ha detto ai giudici di Palmi poche settimane fa Giuseppina Pesce. Ha trentatre anni, un cognome importante nella Piana di Gioia Tauro e una memoria che sta mettendo in crisi il gotha del potere criminale. I Pesce sono uno dei clan storici di questa valle ai piedi dell'Aspromonte, terra fertile di agrumeti e ulivi secolari dove negli anni Settanta fu costruito un colossale polo siderurgico, inutile cattedrale d'acciaio, con un porto che ha fatto da terminale a qualunque traffico: un sistema che ha arricchito la dinastia mafiosa più potente di Calabria. Lei è nata e cresciuta in quel mondo: il padre e lo zio sono i boss della zona, autorità indiscusse. Il percorso di collaborazione è complicato, tortuoso, sofferto, così com' è stata la sua vita. Conosce il marito ad appena 14 anni, lui ne ha 22. Rimane incinta a 15 anni, il primo di tre figli, e per "riparare" agli occhi del paese deve ricorrere alla "fuitina". Appena maggiorenne si sposa ed entra a pieno titolo nella casata che domina Rosarno, 15 mila anime, tanti, tantissimi omicidi e un'economia interamente nelle mani delle cosche. La quotidianità di Giuseppina è a contatto con killer, esattori del racket, narcotrafficanti. Suo marito è un giovane con aspirazioni criminali e si sente in diritto di trattarla come una bestia. «Mi picchiava perché mi ribellavo, perché dicevo le cose che pensavo, e lui per farmi stare zitta mi aggrediva». Dopo esitazioni e ripensamenti, decide di fidarsi del pm antimafia Cerreti: le racconta sedici anni di botte e segregazioni. Riferisce retroscena mafiosi e storie di altre donne, massacrate perché ritenute traditrici. Quello che doveva essere il suo destino. Dopo tanta brutalità, Giuseppina conosce un uomo gentile, che le dedica attenzioni. Riscopre la gioia, si sente ancora ragazza, è pronta a tutto pur di vivere con lui. Ma sa che il clan non la perdonerà. A salvarla è l'arresto, con l'accusa di aver partecipato agli affari della cosca. «Mi avrebbero ucciso, perché le donne che tradiscono vengono uccise. E' una legge. Ed è successo tante volte in passato, perché qui, in Calabria, ragionano così. Hanno questa mentalità». Davanti ai magistrati ricostruisce fatti concreti: donne fatte sparire, i loro amanti assassinati. Riapre un caso degli anni Ottanta che molti a Rosarno vogliono dimenticare: il dramma di sua cugina Annunziata Pesce, figlia dell'altro boss del paese. In questo caso, addirittura un doppio oltraggio: vuole lasciare il marito per fuggire con un carabiniere di cui si è innamorata. Un'onta inaccettabile, che viola tutti i codici della 'ndrangheta. Annunziata viene prelevata a forza da due persone mentre cammina nel viale principale, in pieno giorno. La caricano su un'auto, che sfreccia via: nessuno ne saprà più nulla. Il carabiniere è trasferito, la scomparsa della donna totalmente dimenticata. Ma la cugina ricorda quello che dicevano in casa e lo mette a verbale: Annunziata è stata ammazzata dai suoi fratelli e il cadavere fatto sparire. Oggi i pm stanno indagando su parecchie vicende simili, molte delle quali coperte dal segreto investigativo. Le nuove istruttorie fanno luce sulla versione aggiornata del delitto d'onore, lontano dalle commedie anni Sessanta, come "Divorzio all'italiana" interpretato da Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli. Fino al 1981 la legge riconosceva il valore sociale dell'onore e concedeva le attenuanti a chi ammazzava per difendere la reputazione. Poi la norma è stata abolita. Salvo che nei feudi delle mafie. Lì si scopre che la fedeltà è per sempre. La formula "finché morte non vi separi" non vale per la 'ndrangheta. Nel 2007, sempre a Rosarno, Domenica Legato viene trovata agonizzante sotto la sua abitazione e smette di respirare poco dopo il ricovero. Era vedova da alcuni anni, il figlio ha sostenuto che si era gettata dal balcone: un suicidio. Ora alcuni pentiti offrono un'altra verità: è stata uccisa perché frequentava un uomo. E il clan non tollerava l'offesa al ricordo del marito. Una perizia dei carabinieri del Ris ha accertato, come aveva scritto il medico legale, che sulle mani di Domenica c'erano numerosi tagli: come se prima di buttarsi o di venire spinta giù, avesse tentato di parare i colpi sferrati con un coltello. Anche l'uomo che lei amava è stato poi trovato morto. Ma non è l'unico caso di vedova uccisa per onore postumo. Nel 1994 i sicari calabresi si sono spostati da Rosarno fino a Genova. E qui hanno eliminato Maria Teresa Gallucci, una bella quarantenne, vedova di un muratore deceduto mentre ristrutturava la casa dei boss Pesce. Molti anni dopo la morte del marito, con i due figli già grandi, inizia una relazione con un commerciante del suo paese. Il clan non approva. Prima prendono di mira l'uomo. Gli sparano una raffica sui genitali, morirà dopo lunga sofferenza. Maria Teresa capisce di essere in pericolo. Va a Genova, ospite della sorella, e si barrica in casa, terrorizzata. Una fuga inutile. I sicari irrompono nell'appartamento, uccidono lei, l'anziana madre e una sua nipote di ventidue anni. Una carneficina. Gli investigatori pensano a un'azione della 'ndrangheta, a una vendetta trasversale. Ora si è scoperto che anche quello è stato un delitto d'onore: i killer non hanno lasciato testimoni. Bisogna essere fedeli anche ai morti. E lo si deve essere persino su Facebook. L'11 maggio 2011 Maria Concetta Cacciola si presenta ai carabinieri di Rosarno. Ha 31 anni, tre figli e un marito in cella da parecchio tempo con una condanna pesante per mafia. Dice che vogliono ucciderla e racconta una storia che ha dell'incredibile. Dice di avere una relazione su Internet con un altro uomo, un legame virtuale. Platonico. Ma qualcuno informa la sua famiglia con una lettera anonima e scoppia il dramma. Il padre la picchia violentemente e l'avverte: «Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni per tutta la vita». A questo punto i carabinieri la trasferiscono in una località protetta, è una testimone preziosa sulle attività della cosca. Solo lì, può finalmente conoscere e incontrare l'uomo dei suoi sogni telematici, ma solo in presenza della scorta. Da Rosarno arrivano pressioni per farla tornare a casa e ritrattare. In paese, tra l'altro, sono rimasti i suoi figli. La convincono con l'inganno. Lei spera di recuperare i bambini e poi scappare, chiedendo ancora l'aiuto delle istituzioni. Invece il 20 agosto 2011 Maria Concetta viene trovata agonizzante dai genitori: ha ingoiato acido muriatico, muore poche ore dopo. La famiglia sostiene che si è suicidata. I pm accusano padre, madre, fratello per le pressioni e i maltrattamenti con cui l'hanno spinta a ritrattare. E seguono la pista dell'omicidio. In procura fascicoli come questo vengono riaperti. Decine di storie che arrivano da tutto il Reggino. Anche Simona Napoli sei mesi fa si è salvata correndo dai carabinieri. In caserma ha detto che il padre aveva appena ucciso il suo amante: «La prossima vittima sarò io». Lei ha solo 25 anni, una figlia e un matrimonio in pezzi. Invece con Fabrizio Pioli si sente rinascere: è una ragazza innamorata, se ne frega delle regole del paese. «Mio padre mi ha picchiato più volte. Mi ha minacciato: se avessi conosciuto un altro, avrebbe preferito una figlia morta che "disonorata"». Anche loro si erano conosciuti su Facebook. Fabrizio, 31 anni, ha intenzioni serie. Non vuole nascondersi. Ma quando si presenta a casa di Simona, il padre si infuria: lo insegue, lo uccide e fa sparire il corpo assieme al fratello della ragazza. Anche la madre è stata arrestata per complicità. «Troppo disonorevole e inaccettabile è stata infatti la visita fatta dalla vittima a Simona Napoli, coniugata e madre di un bambino piccolo, fino all'interno addirittura dell'abitazione, troppo disonorevole ed inaccettabile la diffusione di quella notizia nel piccolo e arretrato paese di Melicucco, che avrebbe gettato un'onta sull'intera famiglia Napoli, "stimata e di rispetto"», così descrive la vicenda il pm di Palmi , Giulia Pantano:«L'accettazione di quella mancanza di rispetto sarebbe stata percepita dai cittadini di Melicucco come manifestazione di debolezza da parte di una famiglia "rispettabile" e l'avrebbe esposta a ludibrio pubblico». Ora Simona è sotto protezione. Ma sa che per lei non ci sarà tregua: «Sono una morta che cammina». Le donne in Calabria cercano coraggio.

Quelle 157 donne uccise dai padrini. Le cosche sono 'maschie', rivendicano regole ataviche, disprezzano l'emancipazione femminile. E così si allunga l'elenco raccapricciante di donne ammazzate, scrive “L’Espresso”. C'è ancora chi crede alle leggende sui codici d'onore. Alle dicerie popolari secondo cui "la mafia rispetta le donne e i bambini". No. La realtà è molto diversa. E se anche oggi sempre più spesso ci sono figure femminili al vertice dei clan, si tratta sempre di supplenti degli uomini detenuti. Perché le cosche sono "maschie" e disprezzano le donne, rivendicando regole ataviche che non ammettono l'emancipazione. E non risparmiano l'altro sesso. Lo dimostra il dossier realizzato dall'associazione "daSud" che censisce ben 157 storie di donne ammazzate da Cosa nostra, 'ndrangheta, camorra e Sacra corona unita. E' un elenco raccapricciante, che si apre con una ragazzina palermitana: Emanuela Sansone, 17 anni. Fu uccisa il 27 dicembre 1896, perché si sospettava che la madre avesse denunciato i picciotti che falsificavano bancanote. Graziella Campagna, stessa età, venne eliminata nel 1985: lavorava in una lavanderia e in una camicia da pulire aveva scoperto l'agendina di un latitante. Molte sono cadute sotto i colpi delle vendette trasversali, per trasmettere un messaggio di morte ai loro mariti: persino Carmela Minniti, consorte di Nitto Santapaola, è morta così. Altre sono state abbattute assieme ai loro compagni, per rendere ancora più plateale la ferocia delle esecuzioni: come Emanuela Setti Carraro, morta al fianco del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1982. Spesso i killer sbagliano bersaglio: nel napoletano la vita di tre minorenni è stata stroncata nelle mattanze di camorra. Si chiamavano Rosa Visone, 16 anni, Filomena Morlando, 17, e Annalisa Durante di soli 14 anni. Molte sono finite sotto le raffiche tirate nel mucchio, come le tre signore e la bambina rimaste sul prato di Portella della Ginestra. Drammatica la sorte di Rossella Casini, una bella studentessa fiorentina che nel 1981 si innamora di un ragazzo di Palmi coinvolto in una faida: lui si è salvato, lei no. Altre sono state trovate morte, con il sospetto che siano state indotte al suicidio: ad esempio, Santa Boccafusca, moglie di un boss calabrese. Ma la mafia riesce a uccidere con la disperazione: Rita Atria, cresciuta in una famiglia di boss, a 17 anni testimonia davanti a Paolo Borsellino e viene ripudiata dalla madre. Si ucciderà pochi giorni dopo la strage di via D'Amelio, prima di diventare maggiorenne. L'ultima storia che ha commosso l'Italia è quella di Lea Garofalo. Vedova, sorella e compagna di trafficanti, nel 2002 decide di testimoniare contro di loro. Vive sotto protezione ma nel 2009 la rapiscono e l'uccidono a 34 anni. Nel processo sono determinanti le testimonianze della figlia, che accusa suo padre e lo fa condannare per omicidio. Il segno che il coraggio delle donne di tutte le età non si fa piegare.

IL RISVOLTO DELLA MEDAGLIA. CHI STA DENTRO UNA VITA E CHI STA FUORI SENZA PAGARE FIO.

“Dentro una vita” è il racconto di 18 anni “carcere duro”. Privazioni, violenze, abusi, torture psicologiche e fisiche inflitte in base alle regole del «41 bis» (la legge che regolamenta il regime carcerario riservato a chi è accusato di reati di criminalità organizzata),  raccontate dal “numero due” della Sacra corona unita pugliese, Vincenzo Stranieri. La storia di un bullo di paese che diviene un boss: furti, rapine, sequestri di persona, attentati, rituali di affiliazione. Poi, nel 1984, l’arresto. Vincenzo Stranieri, detto «Stellina», non sta scontando ergastoli né condanne per omicidio. Nonostante tutto nessuno è in grado di dire quando tornerà libero. Dopo 25 anni di prigionia l’ex boss, quarantanovenne, è stanco. Non è un pentito, ma è certamente un uomo che sa di aver sbagliato: «Se mi si vuole dare una possibilità d’inserimento, dimostrerò che sono cambiato». Ma in Italia le cose vanno diversamente. “Al di là della costituzionalità o meno, e della necessità o meno di prevedere nel nostro ordinamento un regime carcerario differenziato, la sua applicazione in concreto è comunque inaccettabile. Costringere una persona per diciassette anni di fila in una gabbia di vetro e cemento, con poca luce e poca aria, senza cure e senza affetti, senza diritti e senza speranza, e prevedere che da questo regime si possa uscire solo tramite il pentimento o la morte, è indegno in un Paese civile. Ed è incredibile che – eccetto i Radicali – tutti, a destra e a sinistra, siano allineati e coperti con questo regime di 41 bis, e che nessuno veda nell’applicazione di condizioni così inumane e degradanti di detenzione, innanzitutto, il degrado del nostro senso di umanità e la fine del nostro stato di Diritto” (dalla prefazione al volume di Sergio D’Elia, segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino). L’autore è Nazareno Dinoi,  Giornalista, scrive di cronaca giudiziaria e nera per il ‘Corriere del Mezzogiorno’ della Puglia. Ha scoperto, portandola alla ribalta nazionale, un’oscura storia di violenze e abusi sui giovani detenuti del carcere minorile di Lecce da parte delle guardie carcerarie. Per quei fatti il Tribunale di Lecce non è riuscito a raggiungere una sentenza prosciogliendo tutti per prescrizione dei reati. Vive a Manduria (Taranto) e collabora con diverse testate, anche nazionali. Ha scritto ‘Anime senza nome’ (1999) e ‘Kompagno di sogni’ (2003). LE PRIME PAGINE DEL LIBRO….

Prologo

Quando ha varcato per la prima volta le porte di un carcere, l’11 febbraio del 1975, Vincenzo Stranieri non aveva ancora quindici anni. Un’impressionante sequenza di arresti e di scarcerazioni ha poi segnato la sua vita da uomo libero sino all’età di ventiquattro anni quando, il 7 giugno del 1984, le sicure si sono chiuse dietro di lui senza più riaprirsi. Oggi Vincenzo Stranieri di anni ne ha 49 e il suo conto con la giustizia è ancora aperto. Il boss manduriano che per la magistratura e i collaboratori di giustizia è stato il numero due della Sacra corona unita di Pino Rogoli, l’ex piastrellista di Mesagne divenuto capo della potente «quarta mafia» italiana, è ancora considerato uno dei 430 criminali più pericolosi e irriducibili d’Italia. Per questo è sottoposto al regime di carcere duro conosciuto come 41 bis. I reati per i quali è stato giudicato colpevole sono sequestro di persona, traffico di droga, detenzione di armi, estorsioni e associazione mafiosa. Minacce, danneggiamenti e violenza, invece, sono tutti reati che ha maturato durante la sua lunga vita di recluso indocile. Per ben sei volte ha distrutto la cella dove si trovava rinchiuso. Non è un ergastolano, non ha condanne per omicidio, ma nonostante tutto nessuno è ancora in grado di dire quando tornerà libero.

Il principio

A quindici anni Stranieri viveva già con una donna più grande di lui di cinque anni che mise incinta prestissimo. A diciotto anni aveva moglie, due figli (avuti quando era ancora minorenne) e un’attività criminale che rendeva abbastanza da permettergli un’esistenza più che agiata. Quanto gli costerà tutto quel successo, quel lusso, però, lo capirà in seguito ma senza pentimenti. Il super detenuto, infatti, pur dissociandosi, in seguito, dal crimine, si è quasi sempre dichiarato innocente. A sedici anni il primo figlio, Antonio, a diciassette un’altra bambina, Anna. A quell’epoca aveva messo da parte quattro condanne per un totale di sedici mesi da scontare, mentre un decimo della sua vita lo aveva passato in galera per furti e violenza aggravata. E dire che quando aveva ventidue anni, tra sconti di pena, detenzione già fatta, condoni e amnistie, il suo debito con la giustizia era sceso ad appena venticinque giorni di cella. Poco più di tre settimane dietro le sbarre e sarebbe stato un uomo libero. Ma quella vita portata all’eccesso non ammetteva soste. Così, una sera d’estate del 1984, fu arrestato per il rapimento della manduriana Anna Maria Fusco, figlia dell’imprenditore del vino, Antonio Fusco (protagonista, quest’ultimo, due anni dopo, dello scandalo del Primitivo avvelenato al metanolo).

Dentro una vita

Sulla soglia del mezzo secolo di vita, tre quarti dei quali passati in gabbia, spinto dal desiderio della figlia Anna che vuole raccontare al mondo la storia di un padre che non l’ha vista crescere, sposarsi, diventare mamma, il detenuto speciale ha deciso di raccontarsi. E lo fa nell’unica maniera possibile per uno nelle sue condizioni: impugnando la penna (fosse un uomo libero avrebbe acceso il computer) e tracciando linee d’inchiostro sulle pagine ingiallite di una grossa computisteria che conservava da tempo.

Racconto – I

Oggi, 28 aprile 2008, è lunedì e mi trovo rinchiuso nel carcere di Opera a Milano. Tante volte mi sono chiesto a cosa potesse servirmi questo quadernone che porto in giro da otto anni. Ora, improvvisamente, mi è chiaro: ne farò un libro, con l’aiuto del Buon Dio e della sua Gloria. Lo leggerà qualcuno? A volte i buoni consigli vengono ascoltati, altre volte no. Io dico che chi mi ascolterà diventerà bravo e andrà in Paradiso. Lo spunto per questo libro nasce dalla proposta di un mio nuovo amico, un giornalista del mio paese che personalmente non conosco. L’idea, però, è partita da una persona a me molto cara, mia figlia Anna, a cui voglio un bene dell’anima come ne voglio a mio figlio Antonio, a mia moglie Paola, ai miei nipoti, a mia nuora e mio genero. Anche per loro ho accettato di offrire questo contributo, spero utile. Nel raccontare la mia vita ometterò alcuni particolari, a volte anche i nomi. Cercherò di descrivere ciò che ho vissuto in questi quasi cinquant’anni di “non vita” in cui è accaduto di tutto. Cose belle poche. E tante cose brutte.

Quando, agli inizi del 2008, si fa convincere dalla figlia Anna a raccontare quella che lui stesso definisce la sua «non vita», Stranieri si trova rinchiuso nella sezione di massima sicurezza del carcere Opera di Milano. In quella città c’era stato più volte, da uomo libero e poi da latitante. Ed è da lì che inizia la sua memoria.

Racconto – II

Porcaccia miseria, sono passati 24 anni dall’ultimo arresto. Ad Opera a Milano, dove mi trovo adesso, c’ero già stato esattamente 24 anni fa e qualche mese. Sarà un caso? Proprio 24 anni fa mi trovavo in questa città, da latitante, ma libero. Mi cercavano per alcune rapine commesse nei comuni della provincia di Taranto. Mi presero qui a Milano e dopo pochi giorni mi trasferirono a Taranto per affrontare il processo che finì con il confronto con le mie stesse vittime che mi scagionarono. Fui rimesso in libertà a maggio del 1984 e il 7 giugno di quello stesso anno mi riarrestarono per il sequestro Fusco. Da allora non ho più lasciato questi luoghi infami. Le carceri le puoi dipingere come vuoi, puoi anche ricoprirle d’oro, ma restano pur sempre luoghi di sofferenza. Chi dice o crede il contrario si sbaglia enormemente, parola mia. Forse qualcuno mi dirà che il carcere deve per forza essere un luogo di sofferenza. Ha ragione, ma solo perché non è lui che soffre, ma soffrono altri. Vale bene la parola di Gesù che dice: «Ipocrita chi carica il peso sugli altri quando su di lui non sposterà nemmeno una piuma».

Conosciuto dagli inquirenti come «Stellina», per via della sagoma a cinque punte tatuata sulla fronte, Stranieri è stato ospite di tutte le principali carceri italiane dove ancora si trova sottoposto al regime riservato ai mafiosi più pericolosi e ai terroristi. Più della metà della sua vita l’ha trascorsa ininterrottamente rinchiuso. Non una detenzione semplice: da diciassette anni vive separato dal mondo da un vetro che gli impedisce qualsiasi contatto con l’esterno, anche di accarezzare i suoi parenti che lo vanno a trovare non più di una volta al mese. Durante i colloqui la sua voce è filtrata da un interfono per cui nessuno dei familiari, oggi, sarebbe in grado di riconoscerla dal vivo. I suoi figli, nel frattempo, sono diventati adulti e genitori. Il 23 maggio del 1992, diciassette anni dopo quel primo arresto nel minorile di Lecce, la sua permanenza carceraria fu irrimediabilmente e drammaticamente influenzata dall’attentato di Capaci, a Palermo, in cui il sicario di Totò Riina, Giovanni Brusca, azionò il telecomando che fece esplodere cinque quintali di tritolo uccidendo il capo della Superprocura nazionale antimafia, Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. La risposta dello Stato a quel terribile crimine, fu l’istituzione della «carcerazione di sicurezza» che prevedeva la cancellazione dei diritti per tutti i detenuti con condanne per reati di natura mafiosa. Stranieri, nel frattempo in carcere per il sequestro Fusco, era stato coinvolto nel primo maxi processo contro la Nuova camorra pugliese di Raffaele Cutolo e poi in quello sulla Sacra corona unita di Rogoli. In questi processi, istruiti prima dalla Procura di Bari e poi da quelle di Lecce e Brindisi, fu ritenuto colpevole di aver fatto parte di un’associazione organizzata e pertanto soggetto all’isolamento. Così, nell’estate del 1993, dopo nove anni di detenzione normale, l’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Claudio Martelli, firmò personalmente la lista dei primi 236 dannati da internare. In quell’elenco, oltre al manduriano Stranieri, c’erano Bernardo Brusca, Vito Buscemi, Salvatore Buccarella, Giuseppe Calò, Raffaele Cutolo, Nicola Di Salvo, Giacomo Gambino, Michele Greco, tutta la famiglia dei Madonia, Sebastiano Mesina, Franco Parisi, Antonio Perrone, Giuseppe Piromalli, Giuseppe Rogoli, Biagio Sciuto e tanti altri. I padrini, i capi bastoni e i gregari della mafiosità italiana, insomma, furono isolati in celle singole nel carcere dell’Asinara e sottoposti a regole rigidissime contenute nel nuovo ordinamento carcerario del 41 bis.

Racconto – III

Sono passati 24 anni e la mia vita è piena di ricordi. La memoria è l’unica macchina del tempo che viaggia alla velocità del pensiero. Con la mente puoi andare velocissimo, in un secondo puoi tornare a quando eri bambino, travalicare le frontiere dello spazio e del tempo. Grande cosa è la mente umana. Purché la si sappia controllare. Se la lasci troppo libera, quella, è come un leone che ti sbrana. A volte è meglio non pensare troppo. Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza ma ci ha dotati di un valore che è il libero arbitrio. È un valore troppo grande che deve essere usato a piccole dosi sennò sono dolori e sofferenze, come quelle che ho passato e sto passando io e tutte le persone che mi amano. Certo, ognuno può fare della sua vita quello che vuole. Da ragazzi si è onnipotenti. Uno crede di essere furbo, più furbo dei suoi genitori, dei nonni, di tutti quelli che lo hanno cresciuto. Loro ti dicono di stare attento, di non commettere errori e tu, a quell’età, sei infastidito di tante raccomandazioni. Inizia proprio lì la storia di tutto: in questo negare i consigli è racchiuso l’inizio della perdizione. Non ascolta oggi, non ascolta domani e sei fritto, per sempre. C’è poi chi nasce con una stella storta, come quella che mi son fatto tatuare sulla fronte. Succede così che quella stella te la porti per tutta la vita e sta a te decidere se deve continuare in quel modo o se è meglio mettere un freno a quella vita troppo di fretta. La mia è andata avanti così, per niente bene. Proprio per niente. Giorni fa ero sdraiato sul letto, guardavo di fronte il cancello chiuso, le sbarre alla finestra, cemento tutto intorno. Per quanto? Per 20 ore al giorno e per tanti anni. Bello, vero? Bello un cavolo! Non c’è niente di bello in un carcere, lo ripeto, tutto è sofferenza e non credete alle scemenze che vi raccontano sulla vita carceraria perché qui tutto è dolore. L’unico vantaggio di questa sofferenza è che ti fa crescere e puoi incontrare Dio. A me è successo. È nel dolore che ritrovi il Signore e ti avvicini a lui che è stato processato e condannato ingiustamente, portato a morire da innocente sulla croce dal potere di allora.

Venti ore al giorno a guardare il soffitto

Il detenuto in 41 bis non ha diritti. Può avere un solo colloquio al mese, con familiari o conviventi di grado diretto, della durata non superiore ad un’ora. In alternativa all’incontro visivo può avere una telefonata ogni trenta giorni. In questo caso, però, il parente deve recarsi nella sede dove è detenuto il congiunto e da lì telefonargli attraverso la rete interna. Ogni colloquio deve essere ascoltato e registrato. L’internato può godere di due ore d’aria al giorno più altre due di socialità (mensa, chiesa, palestra, biblioteca, cinema-tv). Per le restanti venti ore rimane da solo chiuso in cella. Nel 2009 un ulteriore inasprimento delle misure detentive speciali ha ridotto a due ore il tempo da trascorrere fuori dalla cella. Altre restrizioni nell’ora di aria che in gergo viene definita “passeggio”, vietano raggruppamenti superiori a quattro detenuti per volta. Essi non devono avere la stessa provenienza geografica. Il Ddl 733 convertito in legge il 22 luglio del 2009 (Pacchetto sulla sicurezza), ha inasprito ulteriormente le norme del 41 bis prevedendo l’internamento di tutti i detenuti con tale regime in un unico penitenziario situato su un’isola. La famiglia può inviargli due pacchi al mese, del peso non superiore ai dieci chili, più altre due spedizioni straordinarie all’anno (Natale, Pasqua), contenenti abiti, biancheria, indumenti intimi, calzature e cibo. Sono vietate persino le bevande gassate come l’aranciata. Tutto viene controllato dall’addetto alla censura: indumento per indumento, pezzo per pezzo, pagina per pagina. Anche i libri devono essere attentamente visionati e superare il controllo. Il colloquio si svolge attraverso un vetro e, di solito, con l’ausilio di un citofono. Tutta la corrispondenza in arrivo e in partenza è sottoposta a visione. Il fornellino scaldavivande è consentito solo durante il giorno. Il detenuto può ricevere somme limitate di denaro (attualmente sino a 500 euro mensili); è vietata l’organizzazione di attività culturali, ricreative e sportive; è impossibile la nomina e la partecipazione a rappresentanze dei detenuti come anche lo svolgimento di attività artigianali per proprio conto o per conto terzi. Gli ospiti delle sezioni del 41 bis non possono frequentare corsi scolastici, possono studiare solo per conto proprio e l’unico intermediario con i professori è un educatore. A queste limitazioni del decreto ministeriale, vanno aggiunte quelle imposte a discrezione del singolo direttore del carcere. Per i figli minori di 12 anni, inoltre, è consentito un solo colloquio visivo al mese senza vetro divisorio e per la durata non superiore ai 10 minuti. In Italia sono diffusi i casi di figli di detenuti in 41 bis che sono sottoposti a trattamenti psichiatrici. Quando fu istituito l’isolamento carcerario per i mafiosi, i due figli di Vincenzo Stranieri, Antonio e Anna, avevano già superato i dodici anni di età per cui ora non ricordano, se non vagamente, contatti diretti, pelle a pelle, con il padre. Il primogenito, caratterialmente più debole rispetto alla sorella, ha sviluppato e sta pagando questo distacco sino all’estremo limite della follia con continui ricoveri in reparti psichiatrici. Torniamo al 41 bis: naturalmente per chi vi è sottoposto la vita diventa un inferno. I segni di un inevitabile stress emotivo emergono dalle lettere che Vincenzo Stranieri invia costantemente alla famiglia. In una di queste, datata 13 marzo 2008, scrive alla figlia Anna.

“Ciao tesoro di papà, come stai? Spero bene di te Alex, Pier Paolo, Vincenzo, mamma, Shelly e tutti di casa. Ci avviciniamo alla Santa Pasqua del Signore che vi auguro di trascorrere serenamente e felicemente tutti in famiglia con la più viva speranza che la prossima la passiamo insieme, se il Buon Dio vuole. Ne sono passate 24 di Pasque, è forse pure l’ora di tornare a casa. (…) Papà, state appresso agli avvocati. Per i pacchi usate la posta celere. Dice che ci mette un giorno ad arrivare e vediamo… la prima volta mandate roba che non va a male salumi, formaggi, pane, capicollo, lo potete mettere pure sotto vuoto in cellofan o nelle buste tagliato a pezzi come facevate a Spoleto. - Parlando della prossima seduta in Tribunale del riesame che dovrà decidere la proroga del carcere duro, puntualmente riconfermata, scrive: “Speriamo vada bene. Dopo 16 anni forse è pure l’ora che cambi qualcosa in meglio perché di peggio abbiamo già visto di tutto. (…) Vi mando un bacione forte a te Alex, Pier Paolo, Vincenzo, mamma, Shelly, Antonio e Giusy e tutti di casa. Vi voglio un mondo di bene. Tuo papà Vincenzo”.

(Vincenzo Stranieri, carcere di massima sicurezza Opera a Milano)

Il bisogno d’interrompere quel tremendo isolamento compare in maniera ancora più evidente in una delle tante corrispondenze con il sottoscritto.

“Caro Nazareno, vedi se c’è qualcuno disposto ad offrirmi un lavoro per corrispondenza, un giornale, magari, o qualcos’altro e se vieni a trovarmi con qualche parlamentare vorrei discutere proprio di questo. Qua stiamo venti ore al giorno in cella a poltrire. Moltiplicato per 25 anni sono un’enormità, diciassette di 41 bis, per cosa poi? A loro dire per recidere i contatti con l’esterno, ma quanto meno ci diano il modo di non perdere pure la ragione: venti ore a guardare il soffitto, a cosa e a chi servono?”.

(Vincenzo Stranieri, carcere di massima sicurezza dell’Aquila, 16 marzo 2009)

Fin qui il racconto che parla di chi, dai benpensanti è indicato come un mafioso, detestabile e detestato. E la gente cosiddetta “perbene” cosa fa?

Il prezzo per la propria libertà è alto. Le ritorsioni non finiscono qui. Sono stato prontamente imputato a Potenza per diffamazione a mezzo stampa perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) ho riportato le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti: Magistratura che, in conflitto d’interessi, non si astiene dall’accusare e dal giudicare in processi, in cui si palesa la loro responsabilità inerente ad errori giudiziari; Forze dell’ordine che denunciano i reati e solo il 10% di questi si converte in procedimento penale.

Potenza ha reiteratamente archiviato ogni denuncia presentata contro gli abusi e le omissioni della Procura di Taranto, compresa quella inerente una richiesta di archiviazione in cui essa stessa era denunciata e nonostante le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito e nonostante gli articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.

La denuncia a Potenza è stata presentata da un Pubblico Ministero di Taranto, che ha chiesto l’archiviazione per un procedimento, in cui si era denunciato il fatto che presso il comune di Manduria non si rilasciavano legittime ricevute all’ufficio protocollo e che il comandante dei vigili urbani era vincitore del concorso da lui indetto, regolato e con funzioni di comandante pro tempore e di dirigente dell’ufficio del personale. La stessa procura di Taranto ha già cercato, non riuscendoci, di farmi condannare per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farmi condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il mio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione infondata, tant’è che il vero responsabile è stato accertato nel dibattimento che ne è seguito; ovvero di farmi condannare per lesione per essermi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirmi di presenziare all’udienza contro l’aggressore; ovvero farmi condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura e di un avvocato che vinceva le cause, in cui a giudicare era un suo ex praticante; ovvero di farmi condannare per aver denunciato che a Taranto i magistrati responsabili di errori giudiziari erano gli stessi ad avere, in conflitto d'interesse, la competenza sulla loro declaratoria.

Procedimenti a mio carico sempre con impedimento alla difesa.

Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta.

Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto.

Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro l’ex Giudice di Milano, Clementina Forleo. Da questa acclamata incompetenza territoriale il fascicolo è passato a Taranto. La procura di quel foro, reitera il sequestro dell’intero sito, in cui, alla pagina di Taranto vi era un corposo dossier sull’operato degli stessi uffici giudiziari. Da un conflitto d’interessi ad un altro.

Potenza, foro in cui non si è proceduto contro un giudice del tribunale di Manduria, sezione distaccata di Taranto, che pensava bene di dare un esito negativo a tutte le cause in cui compariva Giangrande Antonio, come imputato o come difensore di parte, nonostante le ampie prove dimostrassero il contrario.

Ma le ritorsioni non si fermano qui. A Santi Cosma e Damiano (LT) un Consigliere Comunale, adempiendo al suo dovere di vigilanza e controllo sulla legittimità degli atti amministrativi degli enti territoriali, con altri associati dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie del posto, ha presentato vari esposti alle autorità competenti laziali. Esposti circostanziati e provati. Da questa meritoria attività è conseguita una duplice Interrogazione Parlamentare e un intervento da parte del Direttore Regionale del Dipartimento del Territorio della Regione Lazio. Dalle risposte istituzionali è scaturita una vasta infiltrazione mafiosa e ripetute illegittimità perpetrate a danno del territorio locale e dei suoi abitanti, in particolare sul territorio del basso Lazio, in provincia di Latina, da qui la richiesta di scioglimento dei Consigli Comunali di Santi Cosma e Damiano e di Minturno. Pur palesandosi la fondatezza delle accuse e il diritto-dovere costituzionale di informare i cittadini, oltretutto riportando fedelmente il contenuto di atti pubblici sui siti associativi, la reazione è stata la presentazione di una denuncia per calunnia e diffamazione a danno del Consigliere Comunale e del Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande. Denuncia infondata in fatto e in diritto, ma per la quale la Procura di Roma si è dichiarata competente e pronta a procedere. Roma e non Latina o Taranto (foro del reato o dei presunti responsabili).

Da tutti questi tentativi, atti ad intimorire ed ad indurre alla tacitazione, nessuna condanna è scaturita. Anzi, molti procedimenti penali sono rimasti nel limbo, spesso fermi per anni per pretestuosi errori formali: insomma nel dibattimento non si voleva che uscisse la verità o che si presentasse istanza di ricusazione.

La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo su mia istanza ha aperto un procedimento (n. 11850/07) contro l'Italia, per l'insabbiamento di 15.520 (quindicimilacinquecentoventi) denunce penali e ricorsi amministrativi, alcune a carico di magistrati e avvocati per associazione mafiosa e voto di scambio mafioso. Si rileva non solo l'immenso numero di procedimenti, a cui nulla è conseguito, pur con obbligo di legge, ma, addirittura, spesso e volentieri, colui il quale si era investito della competenza a decidere sulla denuncia penale, era lo stesso soggetto ivi denunciato. Da qui scaturiva naturale richiesta di archiviazione, poi prontamente accolta. Ogni tentativo di coinvolgere le istituzioni italiane preposte ha conseguito ulteriore insabbiamento.

L’Associazione Contro Tutte le Mafie, ai sensi degli artt. 21 e 118, comma 4, Cost., svolge attività di interesse generale e di utilità pubblica di informazione, di denuncia e di proposta, sulla base del principio di sussidiarietà.

Nonostante ciò non percepisce alcun finanziamento, né affidamento dei beni confiscati alla mafia, né alcuno spazio mediatico: solo perché non è di sinistra.

Tutte le Tv locali non offrono spazi nei loro programmi di approfondimento, nonostante l’apporto di competenza e di audience.

Tutte le tv nazionali non si avvalgono degli spunti esclusivi sulle tematiche nazionali.

Ballarò di Rai tre, invia una troupe da Roma, per un servizio sui concorsi truccati: servizio mai andato in onda.

RAI 1 stravolge il palinsesto per censurare lo spazio dedicato ad una associazione riconosciuta dal Ministero dell’Interno e che combatte in prima linea tutte le mafie. 10 minuti, il programma dell’accesso, previsto il 23 novembre 2007 alle 10.40, non è andato in onda. Nessun avviso, o comunicato, o motivazione è pervenuto alla sede dell'associazione, nè da parte della RAI, nè dalla Commissione di Vigilanza.

Da qui l'interrogazione parlamentare del senatore Giovanni Russo Spena, per chiedere perché è stato censurato il servizio, ovvero perché si è inviata la troupe da Roma per un servizio mai trasmesso, con aggravio di costi per l’azienda RAI.

Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente colluso o codardo, non accetta di subire e di tacere.»

In data 2-3-4 marzo 2010, il servizio di Stefania Petix, inviata di Striscia La Notizia, per la prima volta in Italia ha sollevato il problema della destinazione clientelare dei beni confiscati alla mafia. In quel caso si evidenziava che a Palermo la destinazione a fini sociali dei beni confiscati era stata effettuata a favore di associazioni inesistenti o a fini di lucro. Inascoltata la “Associazione Contro Tutte le Mafie” da sempre ha denunciato che il fenomeno è nazionale. Si riscontra che l’associazione “Libera” ha un rapporto privilegiato con le strutture Prefettizie a scapito delle tantissime associazioni indipendenti che non fanno capo a quel coordinamento. In questo caso vi è silenzio assoluto delle Istituzioni e degli organi di stampa su un fatto gravissimo. Allo stesso sodalizio nazionale denominato “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto al n. 3/2006, è impedita l’iscrizione presso altre prefetture pur operando nel loro territorio, in virtù del Decreto del Ministero dell’Interno n. 220 del 24/10/2007, che prevede l’iscrizione delle associazioni antiracket solo ed esclusivamente presso le prefetture competenti sulla sede legale. In data 3 marzo 2010, anche grazie ad una legge regionale, denominata appunto “Libera il bene”, attraverso la quale la Regione Puglia si assume il 90% dell’onere economico delle spese per la ristrutturazione degli immobili, il commissario straordinario prefettizio di Manduria Giovanni D’Onofrio ha promosso ed ottenuto, con la firma del protocollo di intesa, la collaborazione della stessa associazione Libera (rappresentata da Davide Pati e Annamaria Bonifazi) e della Prefettura di Taranto (rappresentata dalla dott.ssa Distante), finalizzata all’analisi dei beni confiscati agli esponenti mafiosi di Manduria, al monitoraggio delle loro condizioni strutturali, alla verifica del possibile riutilizzo e alla progettazione per la trasformazione in centri di aggregazione o per altro uso (da stabilirsi). “Libera” è un coordinamento, non un’associazione, e come tale, in virtù del Decreto citato, non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, in quanto il coordinamento non ha la sede legale in quella città, ma in via IV Novembre, 98, Roma, per cui il protocollo d’intesa è nullo e la Prefettura di Taranto e il Comune di Manduria, dovrebbero collaborare con le associazioni con sede legale nella provincia di Taranto, e l’Associazione Contro Tutte le Mafie, ha la sede legale in Avetrana, 15 Km da Manduria. Se passa il principio che chiunque spenda il nome “Libera” possa essere iscritto e privilegiato dagli enti Prefettizi, è normale che in Italia si formi un monopolio illegale delle assegnazioni dei beni, specie se poi questa attività è sostenuta dai finanziamenti pubblici. E’ ancor più grave se poi i coordinamenti hanno sede presso la CGIL. In questo caso parrebbe un’espropriazione proletaria. Poi non si capisce come mai la Regione Puglia possa riconoscere finanziamenti solo a “Libera”, escludendo le altre associazioni indipendenti, specie se dopo tanta enfasi, dopo anni non è ancora stato istituito l’albo regionale delle associazioni antiracket, che dovrebbe legittimare gli stessi finanziamenti. Spero che questa denuncia pubblica sia approfondita, nell’interesse della collettività, delle associazioni antimafia indipendenti e della vera lotta alla mafia e cessi l’ostracismo a danno dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Per tutti questi fatti non si è aperto alcun procedimento d’ufficio da parte delle Autorità locali, né hanno avuto seguito le denunce penali presentate, le cui indagini erano delegate alle stesse Autorità.

Per questo, dopo aver pubblicato la richiesta di archiviazione sulla mia denuncia contro un sistema che poi in molti lo hanno definito mafioso, non posso non pubblicare qui di seguito quello che per fini tutelati dal diritto di cronaca e dal diritto di critica, oltre ad interessi puramente culturali ed artistici nel predisporre un’opera accademica di sociologia storica, non è altro che un lavoro letterario di risposta a quelle istituzioni che lasciano il cittadino alla mercé di un sistema corrotto ed in balia dei pregiudizi e dei luoghi comuni di chi, giornalista padano ed ignorante, non conosce vergogna. Divulgazione di atti pubblici od atti privati pubblicati, senza, altresì, avere alcun intento diffamatorio nei confronti dei soggetti indicati, dei quali si apprezza e si loda il coraggio di raccontare una verità che deve rompere tutte le omertà e le censure. Si solidarizza e si propagandano, inoltre, le sorti di chi, come me ha cercato nel torbido la verità, ma per me, quando io ho cercato le stesse verità ed avuto le stesse ritorsioni, non ha avuto identica pietà, schierandosi, di fatto, dalla parte dei carnefici, anziché dalla parte della vittima.

Fiducia ed imparzialità. Già, non ci sono prove, eppure si considera Sabrina e Cosima colpevoli del delitto di Sarah Scazzi. Invece per definire il comune di Manduria come mafioso ci sarebbero le prove, ma non per il Ministro Cancellieri, per la quale il Comune di Manduria (paese limitrofo ad Avetrana) non sarà sciolto per infiltrazioni mafiose così come si temeva e come avevano chiesto sia i tre commissari ministeriali che per sei mesi hanno tenuto sotto accertamento la macchina amministrativa, sia il prefetto di Taranto, Claudio Sammartino. Lo ha definitivamente stabilito il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, nel decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. «Dalla documentazione esaminata – si legge nel provvedimento del ministro – non emerge la concomitanza di elementi concreti, univoci e rilevanti tali da pregiudicare il funzionamento dei servizi ed i legittimi interessi della collettività, amministrata da un commissario straordinario sin dal 19 aprile 2012». L’atto ministeriale ripercorre l’iter dell’accertamento antimafia innescato dall’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Lecce  e dal decreto del prefetto di Taranto con il quale, il 29 marzo del 2011 istituiva la commissione d’indagine composta da due prefetti e dal maggiore della Guardia di Finanza, Giuseppe Dell’Anna. I tre commissari finirono il loro lavoro, durato sei mesi, proponendo lo scioglimento del Consiglio che, di fatto, si era autosciolto per il venir meno della maggioranza di centrodestra. Sulla scorta di quest’analisi, Il 4 novembre 2012,  anche il prefetto di Taranto inviava al ministro una sua relazione nella quale, scrive la Cancellieri, «venivano valutati gli elementi di cui all’articolo 134, comma 1 del decreto legislativo 18 agosto 2000, numero 267». Considerato tutto questo, il ministro ha comunque deciso che «non sussistono i presupposti per lo scioglimento o l’adozione di altri provvedimenti», stabilendo così la conclusione del procedimento.

E su come si combatte la mafia da queste parti ne dà notizia Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. L’udienza preliminare a carico dei 31 indagati dell’operazione Giano da parte dell’antimafia di Lecce che ha dato origine al sospetto di infiltrazione mafiosa nel comune di Manduria, si è chiusa con un colpo di scena. Il gup Carlo Cazzella ha stralciato la posizione dell’ingegnere comunale Antonio Pescatore dichiarandosi incompetente sul caso specifico e rinviando tutto alla Procura di Taranto. Secondo il giudice salentino, il reato contestato al dirigente comunale (avrebbe favorito una società controllata da elementi della sacra corona unita nella gestione dei parcheggi a pagamento) non è di competenza della direzione distrettuale antimafia ma della procura ordinaria. Resta a Lecce invece il giudizio a carico di tutti gli altri indagati tra cui imprenditori, esponenti della malavita locale e l’ex boss della Scu, Vincenzo Stranieri che ha partecipato all’udienza grazie ad un collegamento in videoconferenza da un carcere del centro Italia dove è recluso in regime di isolamento del 41 bis. La decisione del gup Cazzella di derubricare il reato di mafia all’ingegnere Pescatore (che a questo punto risponderebbe al massimo del solo abuso d’ufficio), pone buone speranze per il futuro amministrativo del comune finito sotto i riflettori del ministero i quali, come si sa, hanno proposto lo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Pescatore, infatti, è l’unico indagato che avrebbe potuto tessere il filo rosso capace di collegare la criminalità organizzata con le attività politica e amministrativa dell’ente. A meno che le indagini dei magistrati antimafia non abbiano nel frattempo individuato responsabilità dirette dei politici che al momento non risulterebbero indagati. Durante l’inchiesta ci sono stati momenti di tensione tra il giudice e Vincenzo Stranieri che si è lamentato per le parole pronunciate sul suo conto quando il magistrato pensava di non essere ancora collegato con il sistema. Le piaccia o no, lei mi deve ascoltare perché è un mio diritto, ha detto più o meno Stranieri che è apparso molto provato e abbattuto dal punto di vista fisico. L’operazione Giano ha portato il blitz scattato il 14 febbraio del 2011 che portò in carcere 16 persone e 2 agli arresti domiciliari, per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, concernenti armi ed esplosivi, attentati dinamitardi, tentato omicidio, rapina, estorsioni, traffico di sostanze stupefacenti e  spari in luogo pubblico. Tredici invece gli indagati a piede libero tra cui l’ingegnere Pescatore difeso dall’avvocato Raffaele Fistetti. Ma anche Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno” spiega bene l’ambiente. Niente revisione del processo. Francesco Cavallari è l’unico colpevole. La Corte d’Appello di Lecce ha rigettato l’istanza di revisione della sentenza con la quale il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato nel 1995 il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi con l’accusa di associazione mafiosa nei confronti dell’ex «re» della sanità privata pugliese imputato nell’ambito dell’operazione «Speranza». Tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui l’istanza di revisione del processo sulla base di quello che ai suoi difensori appare un paradosso: non può esistere un sodalizio mafioso con se stesso. Di diverso avviso il sostituto procuratore generale Antonio Maruccia che, al termine di una discussione durata due ore, ha chiesto fosse dichiarata l’inammissibilità dell’istanza. Ci sono volute altre cinque ore di camera di consiglio perché i giudici della Corte d’Appello di Lecce (presidente Giacomo Conte, relatore Nicola Lariccia) entrati nel merito, rigettassero l’istanza. «Tra quindici giorni leggeremo le motivazioni - dice l’avvocato Mario Malcangi che non si dà per vinto - ma certamente faremo ricorso per Cassazione. Sedici giudici (Tribunale di Bari, Corte d’Appello di Bari, Corte di Cassazione sia nel merito, sia sotto il profilo cautelare) hanno in un certo senso “perso” contro un solo giudice, quello che ha ratificato il patteggiamento». Se l’istanza fosse stata accolta, la condanna sarebbe stata immediatamente revocata, con tutte le conseguenze non solo sul piano penale, ma anche su quello civile. A partire dalla restituzione dei beni che furono confiscati a Cavallari.

Dalla stampa sono pubblicati gli atti processuali divenuti pubblici, da cui si rileva che Luigi De Magistris, ex sostituto Procuratore di Catanzaro e poi europarlamentare dell’IDV, è stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale di Salerno.

De Magistris sarebbe imputato per il "delitto p. e p. dall'art. 328 co 1° CP perché, quale sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed assegnatario del procedimento penale n.2552/05/Mod.21 a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO, omettendo di procedere alle indagini ordinate ai sensi dell'art.409 co. 4° CPP dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro in udienza camerale ex art. 409 CPP celebratasi il 16-10-2007 e disposta a seguito della sua richiesta di archiviazione del 12-3-2007, indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo e comunque nel termine dei sei mesi fissato dal GIP. In Catanzaro dall'aprile 2008 in poi".

Non si tratterebbe di un'omissione qualunque ma, di un'omissione di indagini che gli erano state ordinate da un GIP su collusione fra magistrati di Lecce e magistrati di Potenza con ipotesi delittuose gravissime che vanno dall'associazione per delinquere, all'estorsione, al favoreggiamento. Le indagini erano state ordinate dal GIP di Catanzaro al P.M. De Magistris a seguito di camera di consiglio disposta in virtù di opposizione alla richiesta di archiviazione.

In quella opposizione si profilavano ipotesi delittuose gravi a carico di alcuni magistrati di Lecce e di Potenza ed era del seguente tenore: "… Al cospetto di notitia criminis di siffatta evidenza, l’ill.mo Giudice dovrebbe imporre, a sommesso parere dell’umile deducente, l’imputazione coatta per i reati di favoreggiamento, di associazione per delinquere o, quanto meno, di omissione di atti d’ufficio. Il deducente non può non chiedere, infine, in alternativa, le investigazioni a tutto campo per stroncare una volta per tutte quella che il deducente ritiene che sia una vera associazione per delinquere fra quei magistrati del Tribunale di Lecce che archiviano tutti i procedimenti penali a carico di……e quei magistrati della Corte di Appello di Potenza che archiviano, senza svolgere dovute ed approfondite indagini, procedimenti penali a carico dei suddetti magistrati che hanno un siffatto comportamento che il deducente ritiene “contra jus”. La legge penale dovrebbe essere uguale per tutti:….e per i magistrati. Se numerosi magistrati della Procura della Repubblica di Lecce hanno questo comportamento, che al deducente sembra criminoso, non vuol dire che i numerosi magistrati della Procura non debbano essere processati se essi non applicano la legge: un’intera Procura non forma un parlamento; un’intera Procura ha l’obbligo della tutela della legge. Sui fatti di sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di procedimenti penali a carico di …e dell’altrettanto sistematica archiviazione dei procedimenti penali a carico di quei magistrati che hanno consentito tali “facili” archiviazioni possono riferire".

Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.

"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."

Già, ma come si diventa magistrato o avvocato, ecc.?

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati "non idonei" e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Ciò nonostante il CSM ammettesse che i vincitori del concorso in magistratura non erano stati ritenuti idonei ad esercitare, li ritroviamo tutti lì, nelle aule giudiziarie, eventualmente anche a far danni o ad amministrare ingiustizia. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l'esame di ammissione all'albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un'agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Lo verifica la Guardia di finanza, dopo la soffiata di alcuni esclusi, su mandato della Procura della Repubblica di Catanzaro. Si apre un’indagine resa pubblica nell’estate 2000 da Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera», in cui si denunciano compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente » in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». Giuseppe Iannello, presidente dell’ordine forense di Catanzaro, smentisce tutto. Iannello non è uno qualunque ma un notabile dell’ente di categoria. È una vita che siede nel consiglio forense di Catanzaro, del quale per decenni rimane incontrastato presidente (lo sarà fino al 2012), spesso partecipando direttamente alle commissioni d’esame. Molto conosciuto in tribunale, consulente della Regione Calabria e storico socio del Lions club di Catanzaro, Iannello, che ha uno studio anche a Roma, leva la voce a difesa della procedura di accesso alla professione. Ma la candidata continua: «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio». L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Il clima è pesante e il consiglio dell’ordine calabrese protesta contro la «ferocia demolitrice della stampa» e la volontà di «aggredire tutta la città di Catanzaro». Lo scandalo dei 2295 compiti-fotocopia alza il velo su una prassi che molti conoscono. La sede d’esame della città calabrese è nota per l’altissimo numero di partecipanti e promossi: oltre il 90 per cento. Una marea che sbilancia l’intero numero di accessi nazionali. Non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e I veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito.

Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su "Il Giornale". Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l'unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d' appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell' Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall' ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c' erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l' appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell' inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? 

E SE TU DENUNCI LE INGIUSTIZIE DIVENTI MITOMANE O PAZZO. IL SISTEMA E LA MASSOMAFIA TI IMPONE: SUBISCI E TACI. LA STORIA DI FREDIANO MANZI E PIETRO PALAU GIOVANETTI.

FREDIANO MANZI UN GESTO ESTREMO CONTRO L'ABBANDONO DEGLI USURATI.

Si è dato fuoco, davanti alla sede milanese della Rai, Frediano Manzi, presidente dell’associazione SOS Racket e Usura. Un gesto disperato, estremo, compiuto per richiamare l’attenzione delle istituzioni sulle tante, troppe, vittime del pizzo, dei soldi prestati a strozzo. Attività monopolio della criminalità organizzata per la quale non esiste crisi. Manzi ha lasciato comunque una lettera in cui spiega le ragioni del gesto e avanzerebbe alcune richieste: “Una commissione d’inchiesta sul caso Ferrigno”; “rimozione del presidente del Fondo nazionale antiusura”. L’uomo avrebbe riportato ustioni di terzo grado su tutto il corpo, specie alla braccia e al torace. L’episodio è avvenuto poco dopo le 20.30 del 5 febbraio 2013 in corso Sempione. Dopo essersi cosparso il corpo di benzina il coordinatore di SOS Racket e Usura, secondo i giornalisti presenti, ha detto: “Tra 5 minuti mi do fuoco per tutte le vittime di usura. Addio”. Poi ha tirato fuori un accendino e si è dato fuoco. Ad intervenire per primo, mentre Manzi era avvolto dalle fiamme, è stato un autista del tram numero 19 che vedendo la scena è sceso dal mezzo pubblico con l’estintore e l’ha scaricato addosso a Manzi, che altrimenti rischiava davvero la morte o comunque conseguenze ancora peggiori di quelle in cui si trova adesso. L’autista ha raccontato: “Stavo transitando in corso Sempione quando ho visto le fiamme e istintivamente mi sono fermato. Poi ho capito che era un uomo e sono sceso con l’estintore e ho spento il fuoco che lo avvolgeva”. Il 4 gennaio 2013 Manzi si era già tagliato le vene denunciando di trovarsi in una situazione economica disperata e di aver dovuto chiudere due attività. Sotto minaccia da parte dalla criminalità organizzata (“per la ‘ndrangheta sono un morto che cammina”) a fine 2011 aveva scioccato tutti dicendo di aver commissionato due attentati a una della sue attività, un negozio di fiori. Perché? Per attirare l’attenzione su Sos Racket e Usura. Per questo finì indagato a Milano e Busto Arsizio e la sua credibilità, inevitabilmente, subì un duro colpo. Manzi aveva patteggiato un anno e otto mesi di reclusione dopo aver confessato di aver commissionato per 1.200 euro al pluripregiudicato Alberto Marcheselli un finto attentato a un suo chiosco di fiori a Parabiago, per poi denunciare che si trattava di un atto di intimidazione contro l'attività della sua associazione. Ciò non toglie che grazie all’attività dell’associazione da lui presieduta e alle sue denunce sono state aperte diverse inchieste, come nel 2010 quando a Milano erano state arrestate alcune persone per il racket sulle case popolari. Era stato sempre Manzi a sporgere denuncia contro l’ex prefetto di Napoli Carlo Ferrigno, che due anni fa per le accuse di millantato credito e prostituzione minorile ha patteggiato una pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione. Manzi aveva chiesto di parlare ai giornalisti che si occupavano del telegiornale e quando gli addetti alla portineria lo hanno invitato ad allontanarsi ha minacciato di darsi fuoco. Poco dopo, si è cosparso di liquido e ha dato corpo alla sua minaccia. L'uomo è stato soccorso da un tramviere dell'Atm. "Stavo transitando in corso Sempione quando ho visto le fiamme e istintivamente mi sono fermato", ha raccontato il soccorritore. "Poi ho capito che era un uomo e sono sceso con l'estintore e ho spento il fuoco che lo avvolgeva". Sul posto sono intervenuti i carabinieri, che si sono fatti consegnare la lettera lasciata da Manzi agli uscieri e che cominciava così: "Ho deciso di darmi fuoco per portare l'attenzione delle istituzioni su tutte le vittime dell'usura". Prima di cospargersi di benzina e appiccare le fiamme a se stesso con un accendino, Manzi ha consegnato alla tv di Stato una lettera in cui ribadisce il motivo del suo gesto, accompagnandolo con delle richieste, disperate tanto quanto lui. «Per le vittime dell’usura che nessuno aiuta», si legge nel foglio, scritto a mano. Poi alcune richieste, quelle degli ultimi 10 anni di lotte. «Una commissione d’inchiesta sul caso Ferrigno», o «rimozione del presidente del Fondo nazionale antiusura». In realtà Frediano Manzi da tempo versava in uno stato di profonda prostrazione, e aveva recentemente già tentato il suicidio tagliandosi le vene. Dopo i clamori seguiti alle importanti inchieste che le denunce della sua associazione (che negli anni è diventata un punto di riferimento per le vittime del racket) avevano fatto partire, nell’ambito non solo dell’usura ma dell’intreccio tra la criminalità organizzata e gli enti locali, lui stesso era scivolato nel baratro finendo a sua volta denunciato per aver simulato un attentato a uno dei suoi negozi di fiori. Così era inevitabilmente cominciato il declino della sua credibilità. Una situazione che, insieme ai suoi problemi economici e alle continue minacce della criminalità organizzata, lo avevano minato profondamente spingendolo ormai a una vita border line. Povero Frediano Manzi. Non sa che per essere finanziato e sostenuto basta santificare i magistrati ed essere di sinistra?

IN CARCERE PER AVER DIFESO LA GIUSTIZIA.

Lui non si chiama SALLUSTI... è PIETRO PALAU GIOVANETTI presidente di AVVOCATI SENZA FRONTIERE... sta per finire in carcere in ITALIA  per avere difeso i diritti dei cittadini... 

«Se potete vi prego di fare qualcosa è assurdo che mi mettano in carcere per avere denunciato la corruzione giudiziaria. Pensate che ieri abbiamo scoperto che la Procura Generale di Brescia ha omesso di trasmettere alla Cassazione il Ricorso per incidente di esecuzione che mi nega sia la prescrizione sia la continuazione sia l'errore di calcolo della pena residua. Lo Stato di diritto è morto....» Pietro Palau Giovannetti.

Tra le altre cose questo signore ha scritto sul suo sito questo pezzo.

QUANDO IL P.M. FA L'AVVOCATO DEGLI IMPUTATI: LO SCANDALOSO CASO MASTROGIOVANNI

Udienza 2 ottobre 2012, Vallo della Lucania. Per l'omicidio preterintenzionale di Francesco Mastrogiovanni, come prevedibile il P.M. Martuscelli ha chiesto di derubricare i reati più gravi, smontando l'impianto accusatorio del precedente P.M., Francesco Rotondo, "promosso" per impedirgli di concludere il processo, scrive “La Voce di Robin Hood”.

La Segreteria di Avvocati senza Frontiere, mentre è ancora in corso la requisitoria, rende noto che, a seguito della mancata astensione del P.M. Renato Martuscelli che ha ignorato la richiesta del difensore della Onlus Movimento per la Giustizia Robin Hood, costituita parte civile con l'Avv. Michele Capano del Foro di Salerno, ha inviato un circostanziato Esposto al C.S.M. e al Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Salerno per procedere in sede disciplinare nei confronti del P.M. Martuscelli e per valutare la rilevanza penale delle gravi e molteplici violazioni procedimentali che si sono verificate nell'ambito del processo in corso da oltre tre anni. Dopo aver sottoposto ad attenta disamina lo svolgimento del processo, nonché le attività svolte dalle parti, i legali dell'Associazione si sono resi conto dell'intollerabile assenza del P.M. che in spregio alle sue funzioni istituzionali ha assunto in maniera sfacciata, senza mezzi termini, la difesa degli imputati, cercando di minimizzare le gravi responsabilità degli stessi, rivolgendo, viceversa, le proprie attività d'accusa nei confronti della vittima, nel precipuo scopo di alleggerire le condotte dei medici e del personale ospedaliero, nonché delle stesse forze dell'Ordine che hanno eseguito con modalità illegittime, il brutale fermo di una persona assolutamente sana di mente e pacifica che implorava di non venire portato presso il lager psichiatrico del San Luca di Vallo della Lucania, preavvertendo con grande lucidità che sarebbe stato ucciso. A riguardo, i legali di Avvocati senza Frontiere hanno ricordato la pregressa attività persecutoria del P.M. nei confronti del maestro elementare Francesco Mastrogiovanni, quando il povero Mastrogiovanni era ancora in vita, sottoponendolo, ingiustamente, già anni orsono, alla misura della custodia cautelare per oltre 9 mesi, per fatti del tutto insussistenti di pretesa "resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale", dai quali l'odierna vittima è stata poi assolta con formula ampia dalla Corte d'Appello di Salerno, riconoscendo l'abuso da parte delle Forze dell'Ordine, e condanna dello Stato Italiano da parte della Corte Europea per i Diritti dell'Uomo di Strasburgo, per l'ingiusta detenzione.
L'esposto prosegue denunciando l'anomalo comportamento endoprocessuale e l'assoluta inerzia investigativa del P.M. Martuscelli, anche nel connesso procedimento R.G.N.R. 1799/09, nell'ambito del quale ha richiesto nelle scorse settimane l'archiviazione nei confronti dei medici che avevano disposto il TSO di Mastrogiovanni, risultando perciò evidentemente incompatibile e impensabile che potesse oggi sostenere la Pubblica Accusa, sostituendo l'originario P.M. che aveva svolto in maniera ineccepibile le indagini e disposto i rinvii a giudizio, venendo infine rimosso, mediante promozione: "promoveatur ut amoveatur" (noto brocardo latino, la cui traduzione è "sia promosso affinché sia rimosso", usato per esprimere la necessità di liberare un ruolo chiave dell'organigramma dalla persona che lo occupa, promuovendola ad un qualunque altro ruolo di rango superiore, quale unico mezzo per poterlo "legalmente" allontanare dalla posizione occupata, ritenuta scomoda agli interessi dei poteri dominanti). Ciò non bastando, anche le stesse condotte endoprocessuali tenute dal Dr. Martuscelli nel corso del dibattimento hanno rivelato la sua manifesta parzialità, animosità e acrimonia verso la persona del defunto Mastrogiovanni, nei cui confronti giungeva addirittura ad infierire con diffamanti e false insinuazioni, dipingendolo come pericoloso sovversivo, spingendo i testimoni ad esprimere valutazioni negative e del tutto inconferenti alla illegittima prolungata contenzione che ne ha provocato la morte. D'altro canto, il Martuscelli rivelava prevenzione e grave inimicizia, omettendo qualsiasi attività, quale rappresentante della Pubblica Accusa, neppure ravvisando la necessità di sollevare eccezione di inammissibilità circa l'ammissione della testimonianza della Dr.ssa Di Matteo, in quanto indagata nel parallelo procedimento connesso R.G.N.R. 1799/09, relativo al TSO, giungendo, infine, ad omettere di richiedere l'acquisizione del video integrale delle oltre 83 ore di tortura con mani e piedi legati, senza acqua nè cibo, da cui si poteva, altresì, accertare la presenza del primario che invece la difesa sosteneva in ferie.
Ragioni per cui prima di conoscere l'esito della requisitoria del P.M. che si è poi appreso aver richiesto la derubricazione dei reati più gravi, premonitoriamente il comunicato stampa di Avvocati senza Frontiere avanzava l'ipotesi che vi erano fondati motivi per ritenere che il Martuscelli avrebbe richiesto l'assoluzione del primario del lager psichiatrico e pene miti nei confronti dei terzi imputati aventi causa. In effetti, l'anomala Pubblica Accusa è andata ben oltre, ritenendo insussistente il reato di sequestro di persona, contestato in origine dal P.M. rimosso, a tutti i 18 imputati tra medici ed infermieri, ha fatto cadere l'imputazione di cui all'art. 586 c.p. (morte come conseguenza di altro delitto), sostenendo la mancanza dell'elemento doloso del delitto, chiedendo, infine, la derubricazione ad omicidio colposo. Attraverso tale capzioso percorso argomentativo, insultando il buon senso e l'intelligenza del popolo italiano che ha visto il video integrale dell'atroce agonia inflitta ad un uomo sano, libero e in pieno possesso della sue facoltà mentali, il P.M. Martuscelli, ritenendo la contenzione che ha provocato l'atroce morte della vittima, come "blanda e irrilevante", ovvero (sic!) un "atto medico dovuto", anzichè barbara tortura medievale, ha chiesto lievi pene comprese tra i due anni e i due anni e 7 mesi per il personale medico e sanitario in servizio la notte tra il 3 e il 4 agosto 2009. La difesa di Avvocati senza Frontiere anticipa che nella propria arringa richiederà anche ai sensi dell'art. 523 c.p.p., la visione del filmato integrale, sottolineando che, senza l'acquisizione agli atti di tale basilare prova, nessun giusto verdetto potrà scaturire all'esito del processo. E' da ritenersi infatti che l'anomalo P.M. non si mai neppure peritato di esaminare integralmente il filmato, in quanto ove avesse trovato il coraggio di farlo, posto di fronte alla consapevolezza dei fatti e a quali atroci sofferenze e' stata ininterottamente sottoposta la vittima di tali disumani trattamenti, definiti del tutto incoscientemente "atti medici dovuti" non avrebbe di certo avuto l'ardire di definire la contenzione praticata "blanda e irrilevante", nè tantomeno di coprire le ben più gravi responsabilità penali e sarebbe giunto a ben diverse ipotesi, contestando invece l'omicidio preterintenzionale.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Per il pubblico ministero decade dunque il capo d'imputazione principale contestato ai sanitari, e di conseguenza anche quello ad esso collegato, la morte come conseguenza di altro delitto. Martuscelli ha così derubricato quest'ultima imputazione, chiedendo invece la condanna per omicidio colposo dei soli medici e infermieri in servizio il 3 agosto del 2009, l'ultimo giorno di agonia del maestro cilentano (che muore alle 2 di notte del 4 agosto). Nel dettaglio: tre anni di reclusione per Michele Di Genio, il primario del reparto; due anni e sei mesi per Americo Mazza e Rocco Barone e due anni e sette mesi per Anna Ruberto (i tre medici in servizio quel giorno). Il pm ha contestato l'omicidio colposo anche ai sei infermieri in servizio il 3 agosto (Antonio De Vita, Antonio Tardio, Alfredo Gaudio, Antonio Luongo, Nicola Oricchio e Raffaele Russo), per i quali ha chiesto la condanna a due anni. In sostanza Martuscelli sostiene che chi era di turno l'ultimo giorno di vita di Mastrogiovanni avrebbe dovuto accorgersi del peggioramento delle sue condizioni. E che l'unica colpa penalmente rilevante dei sanitari di quel reparto sia questa. Viene invece confermata per tutti i medici l'accusa di falso in atto pubblico, per non aver registrato la contenzione sulla cartella clinica: Martuscelli ha chiesto condanne per un anno e due mesi di carcere (oltre che per i tre medici sopra citati, anche per Michele Della Pepa e Raffaele Basso), eccezion fatta per il primario Di Genio (la richiesta è di un anno e quattro mesi). Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla 'cattura' avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la 'storia sanitaria' di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto". Il processo continuerà il 16 ottobre, con l'arringa di Caterina Mastrogiovanni, l'avvocato dei familiari della vittima, e dei legali delle altre parti civili. A seguire ci saranno le arringhe dei difensori degli imputati, fino alla pronuncia della sentenza, prevista per il 30 ottobre.

CHI E’ PIETRO PALAU GIOVANNETTI.

Sono Pietro Palau Giovannetti, presidente del Movimento per la Giustizia Robin Hood e della rete "Avvocati senza Frontiere", nonché direttore responsabile del giornale on line www.lavocedirobinhood.it, Enti no profit che dirigo da oltre 25 anni, battendomi in prima persona per l'affermazione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e una giustizia pulita libera da mafie, partiti, logge massoniche e corruzione. Mi permetto di richiedere la solidarietà di tutti gli spiriti liberi e le persone oneste, perché tra qualche giorno sarò tratto ingiustamente in arresto, senza aver mai commesso alcun reato, se non quello che non può certo considerarsi tale, di aver denunciato, sin dai tempi di "mani pulite", la dilagante corruzione politico-giudiziaria e gli abusi nei confronti dei soggetti più deboli che non hanno mezzi o stuoli di avvocati prezzolati, in grado di condizionare le istituzioni, ostacolando il regolare corso della Giustizia. Se nei prossimi giorni il P.G. di Brescia riterrà di arrestarmi, sono pronto ad andare in carcere a testa alta, perché credo in una Legge molto più grande di quella umana, controllata da logiche perverse e dalle varie mafie che soffocano la legalità. Sono intimamente convinto che in uno «Stato-mafia», come quello in cui viviamo che imprigiona ingiustamente i deboli e lascia deliberatamente impuniti colletti bianchi, criminali politici e mafiosi, "anche una prigione sia un luogo adatto per un uomo giusto", come affermava Henry David Thoreau, grande pensatore del Rinascimento americano, il quale nel saggio "Disobbedienza civile", sosteneva tra l'altro che è ammissibile non rispettare le leggi quando esse vanno contro la coscienza e i diritti dell'uomo, ispirando cosi i primi movimenti di protesta e resistenza non violenta. A fronte del mio incessante impegno civile e lotta alla "massomafia", ho subito oltre 750 procedimenti penali, di cui ben 114 solo in Cassazione, con le accuse più disparate per pseudoreati di natura ideologica, scaturenti dalle mie stesse denunce, ritenute assurdamente "corpi di reato", o dagli articoli pubblicati sui siti web dell'Associazione. Procedimenti da cui sono sempre stato per lo più assolto, per manifesta infondatezza delle notizie di reato. Ma ciò nonostante, dal 1986, sono stato fatto continuamente oggetto di rinvii a giudizio e addirittura di ripetute richieste di perizie psichiatriche, come in uso nelle dittature dei Paesi dell'Est, costringendomi a difendermi, senza sosta, in ogni sede, per gran parte della mia vita. Solo attraverso una ferrea difesa e la mia fede nella vera Giustizia sono riuscito a contrastare questa impressionante mole di attività persecutorie che non trovano precedenti nella storia del diritto internazionale, anche tenuto conto dell'enorme dispendio di risorse pubbliche impiegate per l'istruzione di svariate migliaia di udienze e centinaia di procedimenti penali, privi di qualsiasi consistenza, rilevanza e interesse sociale. Per l'abnormità delle procedure adottate il mio caso richiama quello del pacifista nonviolento, Danilo Dolci, che dagli anni '50, in Sicilia, dedicò la sua vita alla causa degli ultimi, lottando per l'emancipazione dalla povertà e dall'ignoranza, venendo, come me, ingiustamente arrestato e condannato per reati di opinione dalla magistratura di regime dell'epoca, tutt'oggi, purtroppo, ancora, asservita agli interessi della politica e della "massomafia", cioè di quel regime occulto trasversale ai partiti che da oltre 150 anni governa il Paese. La sua condanna venne infatti scandalosamente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, seppure in sua difesa avessero testimoniato Premi Nobel ed intellettuali di fama mondiale del calibro di Carlo Levi, Erich Fromm, Norberto Bobbio, Elio Vittorini, Lucio Lombardo Radice, Padre David Turoldo, Don Zeno, etc., e l'arringa fosse stata pronunciata da Piero Calamandrei, tra i padri fondatori della nostra amata Costituzione. Oggi anch'io rischio il carcere, stante la definitività di alcune inique condanne per oltre 5 anni di reclusione, confermate dalla Cassazione per reati di pretesa "diffamazione, calunnia, oltraggio, resistenza", nei confronti di magistrati, avvocati e altri infedeli rappresentanti delle istituzioni, seppure, come riconosciuto dallo stesso Tribunale di Sorveglianza - che qui cito testualmente - i cosiddetti "precedenti penali" a me ascritti: "concernono sostanzialmente situazioni e contesti legati ad iniziative sociali quali quelle patrocinate dal Movimento per la Giustizia Robin Hood". Ma ciò nonostante mi vogliono mandare in galera dopo avermi perseguitato per oltre un quarto di secolo, neanche rappresentassi un pericolo pubblico! Le condanne inflittemi non colpiscono infatti un pericoloso delinquente, bensì un Human Rights Defender che, da oltre 25 anni, si adopera a tutela della legalità, denunciando gli abusi del potere e l'impunità di cui godono gli affiliati ai vari comitati d'affari e logge massoniche, che hanno occupato lo Stato, soffocando la democrazia, attraverso il controllo capillare delle istituzioni, dell'economia, dei media e della cultura, garantendosi in tal modo il «controllo sociale» e una forma di governo parallelo, che Ernst Fraenkel denominò "Doppio Stato". Cioè, la compresenza nell'assetto statuario di "normatività" e "discrezionalità", dove a fianco di un sistema apparentemente democratico, convive un ordine perverso, che applica, come ai tempi della Germania nazista, la discrezionalità sistematica nell'applicazione e nel rispetto delle leggi, allo scopo di intimidire, reprimere e sopprimere ogni forma di dissenso, perpetuando proprio grazie a questa autoreferenziale contraddizione di sistema, l'organizzazione del consenso e il dominio sui governati, dove le istituzioni sono invase da politici, pubblici amministratori e magistrati corrotti, in simbiosi con banchieri, massoni e mafiosi, mentre una parte sana ma minoritaria e priva di mezzi dello Stato e della Società civile, cerca di contrastarli, a rischio della propria stessa vita o di venire delegittimati, come fu per Falcone, Borsellino, Cordova, De Magistris, Ingroia e tanti altri fedeli servitori dello Stato. A riguardo, sin dagli anni '80, ho infatti inascoltatamente segnalato, anche con grandi manifesti, che la mafia aveva messo le mani sulla città, denunciando l'imperversante speculazione edilizia e gli abusi ambientali nei quartieri metropolitani milanesi, da parte dei vari comitati d'affari che, già da allora, all'ombra di illecite protezioni, spadroneggiavano impunemente, controllando il territorio e i gangli vitali delle istituzioni, attraverso quella che i P.M. di "mani pulite" definirono come "corruzione ambientale", senza poi però riuscire ad andare sino in fondo. Denunce, occorre ricordare, che hanno permesso alla Procura di Milano di portare alla luce massicci episodi di corruzione nella Guardia di Finanza e nella stessa magistratura, portando all'arresto, tra gli altri, del Generale Giuseppe Cerciello, e dell'allora insospettato Presidente del Tribunale di Milano, Diego Curtò, entrambi da me denunciati, sin dal 1989, venendo io, però, dapprima, incriminato per diffamazione e calunnia, nonché preso per "visionario", fino al loro arresto e alla definitiva condanna degli stessi per fatti di corruzione (quest'ultimo, come molti ricorderanno, in relazione alla megatangente Enimont e al lodo Mondadori). Il Movimento per la Giustizia Robin Hood, spezzando in parte l'azione ostruzionistica nei suoi confronti, ottenne poi il riconoscimento quale Onlus nella sezione civile del Registro del Volontariato della Regione Lombardia, con effetto retroattivo dal 1998, in forza di due sentenze del T.A.R., di cui una per obblighi di fare. Nonostante l'alto valore sociale di tali attività, come riconosciuto dallo stesso Tribunale di Sorveglianza, lo scorso 15/1/13, i giudici bresciani che avevano precedentemente sospeso il processo, rinviandolo a nuovo ruolo, in attesa dell'esito dei giudizi pendenti in Cassazione per incidente di esecuzione e avanti la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - che se accolti comportano la revisione automatica del processo "non equo" -, hanno invece cambiato indirizzo, riservandosi sulla revoca del mio affidamento ai Servizi Sociali, cosa che implicherà nei prossimi giorni l'obbligo di arresto per scontare una pena residua di 2 anni, 8 mesi, 17 giorni, dopo aver già espiato anni 1, mesi 5 e giorni 7 di reclusione, oltre ad 1 anno di Libertà controllata, neanche fossi un mafioso o un criminale, per un totale di ben oltre 5 anni di carcerazione! Taluni media falsamente garantisti quando si tratta di coprire i potenti, sicuramente cercheranno di gettare altro fango, insinuando ogni sorta di dubbio e calunnia nei miei confronti, a partire da il Giornale di Sallusti, che ho già avuto modo di denunciare per il contenuto diffamatorio dell'articolo: "Il nuovo eroe antipremier? E' in realtà un bancarottiere condannato per calunnia", articolo apparso in data 14/5/11, in occasione del processo Mills e del mio fermo illegale avanti al Tribunale di Milano, ad opera della Digos, che molti forse ricorderanno, avendo destato anche presso la stampa estera, notevole indignazione e scalpore per le modalità brutali e la manifesta ingiustizia. Voglio quindi si sappia che, al di là delle calunnie della stampa di regime, non ho mai subito alcuna definitiva condanna per reati societari come il padrone di Sallusti e che l'unica vera ragione dell'accanimento di settori deviati della magistratura nei miei confronti, risiede nel fatto che ho denunciato, per primo, l'esistenza di poteri esterni allo Stato, ovvero di un «Regime occulto», in grado di condizionare l'intero arco parlamentare, media, forze dell'ordine e organi giurisdizionali, sino alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, mettendo in luce il ruolo di subalternità delle mafie agli apparati dell'alta finanza e dello Stato e, quel che, sicuramente, più disturba, alla Massoneria internazionale, secondo la stessa prospettiva investigativa di Giovanni Falcone, che partendo dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta aveva capito, sin dal 1984, come la Massoneria rappresenti il «collante» dei vari poteri criminali con la politica, le istituzioni e i servizi segreti. Non credo perciò di meritare di andare in carcere per le mie denunce, come non lo meritava neppure Sallusti, seppure coltivasse ragioni diametralmente opposte alle mie, perché in un Paese veramente libero nessuno può venire incarcerato per le proprie idee. Grazie di cuore per la Vs. attenzione e per il Vs. sostegno nelle forme che più riterrete opportune.

Pietro Palau Giovanetti secondo “Il Giornale”. E meno male che Sallusti sa cosa vuol dire essere perseguito per reato di opinione. Le urla, «vergogna, vergogna», gli spintoni, la polizia che arriva e trascina via il contestatore: il tutto sotto gli obiettivi delle telecamere, che documentano in diretta l'ennesimo caso di repressione del dissenso. La scena accade davanti al tribunale di Milano, blindato dale forze dell'ordine per la nuova udienza a carico di Silvio Berlusconi. Protagonista della protesta solitaria, racconteranno le cronache e le telecronache, un avvocato: un professionista indignato per le malefatte del capo del governo, e deciso a manifestare il suo sostegno a Ilda Boccassini e ai suoi colleghi. Ma alle 15.36 di ieri pomeriggio un comunicato dell'Ordine degli avvocati milanesi costringe a rivedere la faccenda: «A seguito dei recenti fatti di cronaca divulgati in data 9 maggio 2011 in relazione allo svolgimento del processo Mills, in occasione del quale si è riferito di un contestatore, Pietro Palau Giovannetti, indicato dalla stampa come avvocato, si comunica che tale Pietro Palau Giovannetti non risulta iscritto negli elenchi professionali tenuti dal consiglio dell'Ordine degli avvocati di Milano». E quindi? Se non è un avvocato, come hanno scritto i giornali, chi è il signore alto e robusto che i carabinieri hanno trascinato via mentre urlava «vergognatevi buffoni» ai militanti del Pdl in attesa di Berlusconi sotto il tribunale? L'aspirante icona della sinistra (emulo di Pietro Ricca, che nel 2003 urlò «buffone» a Berlusconi in tribunale e su questo costruì una carriera) è in realtà un personaggio di cui le cronache giudiziarie si sono dovute occupare in più di un'occasione. Titolare di una piccola azienda di auto d'epoca, la Classic Cars, Palau finisce gambe all'aria all'inizio degli anni Novanta e viene inquisito per bancarotta fraudolenta. A quel punto si trasforma in un implacabile accusatore della magistratura che - a suo dire - lo avrebbe ingiustamente inquisito. Attraverso l'associazione «Robin Hood» di cui è presidente, segretario e unico militante lancia la sua crociata contro le malefatte dei giudici. Se la prende in particolare con il procuratore Francesco Saverio Borrelli, che accusa di malefatte di ogni genere: querelato dal capo di Mani Pulite, Palau viene condannato per calunnia. Ma non si arrende, anzi. E qui la faccenda si fa interessante. Il nome di Palau Giovannetti viene infatti citato in una intervista al Corriere, nel maggio 1997, dal pm Piercamillo Davigo. Si parla del misterioso «dossier Achille», un documento attribuito al Sisde in cui si ipotizzavano tra l'altro infiltrazioni ebraiche e massoniche nel pool Mani Pulite. Ed ecco cosa dice Davigo: «Per carità, io posso fare solo un'ipotesi. L'unica cosa che mi viene in mente è la valanga di denunce presentate da Pietro Palau Giovannetti... La conosce la sua storia? Quel signore abitava in uno stabile di un immobiliarista milanese, Virginio Battanta. Ricevuto lo sfratto, Palau lo ha denunciato. Poi, quando è finito sotto inchiesta per due fallimenti, ha cominciato a presentare esposti a Brescia contro i pm di Milano che, a suo dire, non avrebbero indagato. Di lì è nato un groviglio di inchieste a catena, con decine o forse centinaia di denunce incrociate, penso che ora se ne occupi Trento ma non escludo che prima o poi, passando da una Procura all'altra, finisca tutto a Trieste. Ecco, ricordo che una delle tante denunce di Palau fu indirizzata al procuratore Cordova (all'epoca procuratore di Palmi), che all'epoca era titolare della maxi-inchiesta sulle logge coperte. Che io ricordi, quella è l'unica denuncia che abbia mai ipotizzato infiltrazioni giudaico-massoniche, espressione forse usata in senso generico, approssimativo, tra i magistrati di questa Procura». Sono passati quattordici anni. E lunedì scorso il bancarottiere che allora accusava la Procura milanese di essere un covo di massoni riemerge all'improvviso, trasformandosi in «avvocato» e incarnando per mezza giornata la nuova icona del popolo filo-giudici.

Gabriella Nuzzi: Come si uccide un’inchiesta. Da Il Fatto Quotidiano del 6 Agosto 2010. "Ho scelto di percorrere in questi mesi la strada della riflessione e del silenzio. Non certo per timore, né per rassegnazione. L’esame introspettivo degli eventi consente di trovare soluzioni, le migliori possibili, per sé e per gli altri. Di fronte all’ingiustizia, e più di tutto se gli è inflitta, un magistrato, che sia davvero tale, non cerca vie di fuga, né comodi ripari. Perciò, ho continuato a credere nella magistratura e nel suo operato. La Grande Bugia della guerra tra le procure di Salerno e Catanzaro, creata ad arte per sottrarre a me e ai colleghi salernitani le inchieste sugli uffici giudiziari calabresi e privarci delle funzioni inquirenti, non può non trovare risposte giuridiche e giudiziarie. Macigni e ostacoli sulla verità. Quando il 2 dicembre 2008 furono eseguiti il sequestro probatorio del fascicolo “Why Not” e le perquisizioni ai magistrati che l’avevano gestito a colpi di stralci e archiviazioni, si accusarono i Pubblici ministeri salernitani di aver redatto provvedimenti “abnormi” ed eversivi, manifestando in tal modo “un’eccezionale mancanza di equilibrio, un’assoluta spregiudicatezza nell’esercizio delle funzioni ed un’assenza del senso delle istituzioni e del rispetto dell’Ordine giudiziario”. Con queste motivazioni, l’8 gennaio 2009, su proposta del capo dell’Ispettorato Arcibaldo Miller (coinvolto nello scandalo P3), il ministro della Giustizia Alfano richiese, in via d’urgenza, alla Sezione Disciplinare del Csm, presieduta da Nicola Mancino, l’applicazione di “misure cautelari” disciplinari nei miei confronti, del collega Verasani e del procuratore Apicella. Intervento preannunciato in Parlamento dal sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo (coinvolto nello scandalo P3) ai suoi amici di partito On.li Amedeo Laboccetta & C., che, in difesa dei calabresi, chiedevano la testa del dott. De Magistris e di noi altri suoi “sodali”. L’intero mondo politico-giudiziario, spalleggiato dalla grande “libera” stampa, che scatenò una tempesta mediatica, condannò la nostra scelta investigativa come un atto di “terrorismo giudiziario”, un attacco “senza precedenti” alle istituzioni democratiche, ispirato al perseguimento di fini personalistici e politici, di pericolosità tale da esigere una repressione esemplare e immediata. La Prima Commissione del Csm presieduta da Ugo Bergamo avviò il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, poi sospeso in attesa degli esiti disciplinari. L’Associazione Nazionale Magistrati accettò di buon grado l’epurazione, nell’illusione di una futura pace dei sensi. Dopo appena dieci giorni, con un processo da Santa Inquisizione, ci strapparono le funzioni inquirenti, allontanandoci dalla nostra Regione. Una cortina di silenzio e indifferenza s’innalzò intorno al “caso Salerno”. I magistrati calabresi inquisiti, autori del contro-sequestro del “Why Not”, instaurarono un procedimento penale a nostro carico e del dott. De Magistris, trasmettendolo poi alla Procura di Roma che, con l’Aggiunto Achille Toro (indagato sullo scandalo G8 Sardegna), si mise a investigare liberamente sulle nostre vite private, senza alcun fondamento. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione presiedute dal dott. Vincenzo Carbone (coinvolto nello scandalo P3) chiusero in gran fretta il capitolo disciplinare con una pronuncia sommaria, storico esempio di come sia possibile, in tema di etica giudiziaria, affermare tutto e il contrario di tutto. Si aprirono a nostro carico ulteriori procedimenti penali e disciplinari, branditi come clave, affinché ci sentissimo sotto perenne minaccia. Il 19 ottobre 2009, la stessa Sezione Disciplinare, su relazione dell’avv. Michele Saponara, accolse l’azione disciplinare promossa dal Procuratore generale della Cassazione Esposito, infliggendo a me e al collega Verasani la sanzione della perdita di anzianità (rispettivamente, sei e quattro mesi) e del trasferimento d’ufficio di sede e funzione. Non è stato facile resistere a tanta violenza morale. Una violenza frutto di arbitrio, che ha indecentemente calpestato ogni regola, senza arretrare neppure di fronte al riconoscimento giurisdizionale della legalità e necessità dei nostri comportamenti. La delegittimazione, l’isolamento, l’eliminazione sono metodi di distruzione mafio-massonici. E noi abbiamo pagato per aver osato far luce sulla massoneria politico-giudiziaria. Da allora, pazientemente, ho atteso che a parlare fossero i fatti. E i fatti, nel tempo, come tasselli di un incomprensibile puzzle, si stanno lentamente ricomponendo. Logge, cappucci e grandi vecchi. Alcuni di coloro che hanno concorso alla nostra epurazione pare avessero incontri con presunti appartenenti ad un’associazione segreta. Dunque, di fronte a innegabili evidenze, parlare oggi di consorterie massoniche interne anche agli apparati giudiziari non è più atto eversivo o scandaloso. Ampi dibattiti si sono aperti sulla “questione morale” delle nostre istituzioni. L’Associazione Nazionale Magistrati, rimembrando proprio la nostra vicenda, ha stigmatizzato la “caduta nel vuoto” delle sue richieste di rigore, gridate a gran voce. Sicché contro l’ennesima ipocrisia del “sistema” s’infrange oggi il mio silenzio. Mi rivolgo agli illustri attivisti del correntismo giudiziario, quelli che mai sono stati sfiorati da un dubbio o da un ripensamento, trovando superfluo finanche articolare il pensiero. Esprimano, nella loro purezza, e possibilmente con cognizione di causa, una posizione precisa su ciò che di illecito è stato compiuto ai nostri danni, sull’“etica” che l’avrebbe ispirato, sulle scandalose ingiustizie di un “sistema” che, ancora oggi, incredibilmente, avalla l’impunità, lasciando che i potenti, corrotti o collusi, continuino a rimanere ai loro posti o peggio, siano premiati. Non sono i loro rappresentanti più degni a spartirsi gli scranni del nostro “autogoverno”, a decidere nomine, promozioni, trasferimenti, punizioni disciplinari? O forse l’associazionismo sta dissociandosi da se stesso? Non vi sono oggi “questioni morali” che non lo fossero anche ieri. E allora occorre ripartire da zero, passando attraverso un profondo mea culpa. Questa pericolosa caduta libera di credibilità può arrestarsi soltanto con il ripristino del primato del Diritto e il ripudio definitivo delle logiche di appartenenza e protezionismo. Solo proponendosi tali obiettivi e scegliendo figure di guida autorevoli, per integrità, indipendenza e competenza, l’Ordine giudiziario può sperare in un autentico rinnovamento morale, nell’interesse supremo del popolo e della democrazia."

LE BORSE DEI SEGRETI TRAFUGATE DALLO STATO.

Dalla Chiesa, l'ultimo mistero. Un ufficiale dell' Arma trafugò le sue carte segrete. È destinata ad allungarsi la lista delle prove trafugate dopo gli omicidi eccellenti di Palermo. Da qualche settimana, la Procura indaga sulla scomparsa di una valigetta di pelle marrone appartenuta al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il prefetto di Palermo assassinato dai killer di Cosa nostra il 3 settembre 1983. Di quella borsa, nessun investigatore si era mai interessato: subito dopo l'eccidio di via Carini, il pool di Falcone e Borsellino si era concentrato su un altro mistero legato a Dalla Chiesa, la sparizione di alcune carte dalla cassaforte della residenza privata del prefetto. Poi, all'improvviso, nel settembre 2012, è stato recapitato un anonimo molto ben informato a casa del sostituto procuratore Nino Di Matteo, uno dei pm che indaga sulla trattativa mafia-Stato: in dodici pagine non si parla solo delle carte che alcuni carabinieri del Ros avrebbero portato via dal covo di Totò Riina, nel 1993, ma anche del mistero della borsa di Dalla Chiesa. Ecco cosa scrive l'anonimo nelle prime righe del testo, che ha ribattezzato "protocollo fantasma": «Un ufficiale dei carabinieri in servizio a Palermo si preoccupa di trafugare la valigetta di pelle marrone che conteneva documenti scottanti, soprattutto nomi scottanti riguardanti indagini che Dalla Chiesa sta cercando di svolgere da solo». Il figlio di Dalla Chiesa, Nando, la ricorda bene quella borsa: «Mio padre la portava sempre con sé» - dice a Salvo Palazzolo su “La Repubblica” - «Era una borsa senza manico, con la cerniera. Dopo l'omicidio, c'eravamo chiesti che fine avesse fatto. In tutti questi anni abbiamo pensato che fosse andata persa, nel trambusto di quei giorni. Evidentemente, non era così». Le parole del professore Dalla Chiesa confermano che l'ultimo anonimo di Palermo è davvero ben informato, perché di quella borsa nessuno ha mai parlato in inchieste giudiziarie o giornalistiche. L'anonimo racconta anche di un ufficio riservato che il generale Dalla Chiesa avrebbe avuto alla caserma di piazza Verdi, sede del comando provinciale dei carabinieri: «Era ubicato di fronte al nucleo comando del Rono», scrive, sottolineando che in quella stanza c' erano «faldoni, appunti e messaggi» riservati. Tutte carte che Dalla Chiesa avrebbe iniziato a raccogliere dopo il suo ritorno in Sicilia come prefetto. Adesso, i pm di Palermo vogliono dare un nome a chi ha scritto quell' anonimo, e per questa ragione negli ultimi giorni hanno chiesto alla Dia di convocare una decina fra ufficiali e sottufficiali dell'Arma citati nelle dodici pagine. A condurre le audizioni è un pool, di cui fanno parte i sostituti Di Matteo, Sava, Del Bene, Tartaglia e l'aggiunto Teresi. I magistrati sono sempre più convinti che l'anonimo sia stato scritto proprio da un carabiniere. E sperano che alla fine si faccia avanti. Anche l'allora giudice istruttore Giovanni Falcone cercava notizie su alcune indagini riservate svolte da Dalla Chiesa negli ultimi mesi della sua vita. Agli atti del maxi processo è rimasta una lettera indirizzata al «comandante generale dell'Arma dei carabinieri» e per conoscenza «all'onorevole ministro della Difesa» e «al ministro degli Interni». Protocollo riservato "n. 10/6 Ris". Il 20 maggio ' 83, Falcone convocò anche l'allora comandante generale Lorenzo Valditara, per ribadirgli la domanda. L'alto ufficiale disse che Dalla Chiesa era rimasto in contatto con i pm di Bologna, che indagavano sulla strage alla stazione. Quella domanda di Falcone è tornata di attualità.

Ricompare dopo 20 anni la borsa di Paolo Borsellino.

19 Luglio 1992. Muore ammazzato uno dei magistrati più impegnati nella storica lotta alla mafia: Paolo Borsellino. L’attentato ha lasciato ai posteri molti dubbi e perplessità, alimentando inevitabilmente molte teorie più o meno accreditate. Uno degli aspetti più controversi riguardano la famosa agenda rossa del suddetto magistrato, dove egli registrava tutti i suoi appunti; su quell’agenda sarebbero state appuntate note di rilevante entità, alcune riguardanti la presunta trattativa fra stato e mafia. Il libricino non verrà mai ritrovato dopo l’esplosione della macchina in Via D’Amelio. Ci sono però dei fatti documentati che lasciano spazio a numerosi quesiti: il colonnello dei carabinieri Giovanni Arcangioli è stato fotografato (inconsapevolmente) mentre prelevava dal luogo dell’attentato quella che sembrerebbe essere la borsa di Paolo Borsellino. Borsa che conteneva la famosa agenda rossa, e che riapparirà poche ore dopo la sua scomparsa sul sedile posteriore dei resti della macchina esplosa. Perché il colonnello dei carabinieri ha prelevato quella valigetta? Come mai è riapparsa poco dopo sul luogo del delitto? Del 17 Febbraio è la notizia della assoluzione di Giovanni Arcangiolini, che era stato accusato di furto e favoreggiamento a Cosa Nostra. Secondo l’accusa avrebbe sottratto l’agenda dal luogo dell’incidente per celare gli appunti del magistrato, in accordo con la mafia. Nonostante la documentazione fotografica e videografica il colonnello è stato dichiarato innocente, e il ricorso della Procura di Caltanissetta contro questa sentenza inammissibile. Il primo a gridare il proprio sdegno nei confronti della magistratura è Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, che dichiara: “sono ormai abituato a vederlo ripetutamente massacrato tutte le volte che è stata negata la giustizia per quella strage”, e ancora: “la giustizia in Italia ormai è marcia”. Uno degli eventi che più ha segnato l’Italia negli ultimi quindici anni, insieme a Tangentopoli, sta pericolosamente passando sotto il più “mafioso” silenzio mediatico; mentre su quotidiani e telegiornali si continua a parlare di ingiustizie locali di relativa importanza nazionale, si tace su avvenimenti che hanno travolto l’intera nazione e che continuano a suscitare perplessità. Il dubbio è che ci sia qualcosa da nascondere che implicherebbe lo svelamento di verità scomode per i vertici politici del nostro paese: oggi i tentativi della procura di Palermo di far luce sulla trattativa Stato e Mafia durante il periodo delle stragi - quando vennero deliberatamente revocate le condizioni di carcere duro per centinaia di boss mafiosi rinchiusi nel regime 41 bis - si scontrano con le reticenze e i silenzi dei massimi vertici del potere politico, a partire dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ricompare dopo vent’anni e diventerà un cimelio da osservare al «museo della legalità» aperto lo scorso 3 settembre presso la Legione dei carabinieri di Palermo la borsa del giudice Paolo Borsellino, scrive Felice Cavallaro su “Il Corriere della Sera”. Proprio la borsa sparita e ritrovata dopo la strage di via D’Amelio priva della famosa Agenda rossa, da allora introvabile. Si è scoperto che nel 1992 la vedova, Agnese Borsellino, la donò all’allora maresciallo Carmelo Canale, l’uomo ombra del magistrato che oggi, dopo tanti sospetti, processi e assoluzioni, la dona al museo nella Legione dove, dopo una sorta di «esilio» calabrese, adesso lavora col grado di maggiore. La foto della borsa, sforacchiata com’è dall’effetto bomba, campeggia sulla prima pagina di “S”, il magazine del gruppo I love Sicilia, dove viene raccontata la storia di questo prezioso cimelio finito nelle mani dell’ufficiale incriminato dalla Procura di Palermo e poi sempre assolto, nonostante venti pentiti abbiano tentato di trasformare Canale in un infido collaboratore del giudice ucciso meno di due mesi dopo il massacro di Giovanni Falcone. «Fu la signora Agnese Borsellino a donarla a mia figlia Manuela...», rivela Canale lasciando inquadrare al fotoreporter Luigi Sarullo il fronte della borsa devastato dall’esplosione, al contrario della parte posteriore e dell’interno, perfettamente intatti. Questo significa che doveva essere integra l’agenda rossa contenuta in uno degli scomparti con gli appunti di Paolo Borsellino, con i riferimenti ai filoni su mafia e appalti, a tangentopoli e ai contatti avuti nelle settimane precedente con fonti tedesche per contattare un pentito agrigentino. «Ancora prima degli ingiusti sospetti rovesciati sulla mia persona, nemmeno la magistratura di Caltanissetta volle ascoltarmi quando dicevo che l’agenda rossa i numeri di telefono delle persone contattate in quelle settimane, che le ragioni della strage andavano cercate nel filone mafia appalti, ma si cominciò a indagare su tutto questo troppo tempo dopo», rivela Canale allo scrittore Aldo Sarullo che ne raccolse il primo disappunto. E l’ufficiale rincara la dose oggi: «Il dottore Borsellino aveva perfino in pubblico che attendeva di essere interrogato su Capaci, sulle notizie che lui aveva in relazione agli appalti, ma i magistrati di Caltanissetta non lo convocarono mai. Non solo, ma invitò a cena una sera a casa sua uno dei sostituti che indagavano e non servì a nulla...». Si riaccendono così i riflettori su questa introvabile agenda della quale esiste una copia, come mostra Canale: «Eccone una uguale. ‘Agenda dei carabinieri 1992’. Quando lavoravamo a Marsala, il dottor Borsellino come procuratore, io come suo stretto collaboratore, ce ne regalarono due...». I sospetti più pesanti coinvolsero il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, inquisito dopo che erano state trovate delle foto in cui figurava a due passi dall’auto di Borsellino mentre si allontana dalla scena del delitto con la borsa in mano. Una vicenda giudiziaria chiusa con un proscioglimento. Nessuno ha mai spiegato come quella stessa borsa sia ricomparsa vuota, repertata dall’allora capo della Mobile Arnaldo La Barbera, consegnata agli uffici giudiziari e, dopo qualche tempo, restituita alla signora Borsellino e ai suoi figli, compreso Manfredi, oggi funzionario i polizia. L’odissea giudiziaria ha comunque incrinato i rapporti tra la famiglia e Canale. La signora Borsellino nel ‘92 aveva grande considerazione del maresciallo, a sua volta oggi triste nel ricordo di una tragedia privata: «Mia figlia Antonella era stata uccisa da un tumore e mia figlia Manuela veniva a trovarmi in ufficio a Marsala, all’uscita da scuola. Quando andavamo tutti via, Paolo Borsellino che aveva amato Antonella come un padre e stravedeva per Manuela la coinvolgeva: ‘Prendi tu la borsa’. E lei ci seguiva, con la scorta. Si, quella borsa di cui abbiamo poi tanto parlato la portava Manuela, fiera di essere utile...». La stessa che l’ufficiale è pronto a portare al piano terra della Legione dove il 3 settembre, nel trentesimo anniversario di un’altra devastante strage, quella del generale Dalla Chiesa, alla presenza della figlia Rita, è stato inaugurato un piccolo ma prezioso museo della legalità. Un dono oggi apprezzato da Manfredi Borsellino: «Mia madre donò quella borsa alla quale teneva soprattutto la piccola Manuela. Andammo a casa loro. La bimba la teneva in camera sua. Toccante. E l’idea di esporla al museo dei carabinieri è una gran cosa...». Un simbolo fra tanti cimeli, compresa l’altra «Agenda rossa 1992», gemella di quella introvabile, oggi ancora sulla scrivania del maggiore Canale.

LOTTA ALLA CRIMINALITA’. PARLIAMO DEI TESTIMONI DI GIUSTIZIA ABBANDONATI.

In fuga perenne dalla propria vita. Soli e dimenticati i testimoni di giustizia, scrive Federica Angeli su “La Repubblica”. Per la legge hanno diritto a protezione e a una vita decente. Il testimone di giustizia è una figura introdotta dalla legge 45 del 2001 che ha modificato la precedente disciplina relativa ai collaboratori di giustizia. Recita il testo della legge: "i testimoni di giustizia sono coloro che, senza aver fatto parte di organizzazioni criminali, anzi essendone a volte vittime, hanno sentito il dovere di testimoniare per ragioni di sensibilità istituzionale e rispetto delle esigenze della collettività, esponendo se stessi e le loro famiglie alle reazioni degli accusati e alle intimidazioni della delinquenza". I testimoni di giustizia, stabilisce la legge italiana, in cambio del loro sacrificio di vivere una vita fuori dalla propria vita, hanno una serie di diritti. Che sono: misure di protezione fino alla effettiva cessazione del pericolo per sé e per i familiari; misure di assistenza, anche oltre la cessazione della protezione, mirate a garantire un tenore di vita personale e familiare non inferiore a quello esistente prima dell'avvio del programma, fino a quando non riacquistano la possibilità di godere di un reddito proprio. E ancora: la capitalizzazione del costo dell'assistenza, in alternativa alla stessa. Se dipendenti pubblici hanno diritto al mantenimento del posto di lavoro, in aspettativa retribuita, presso l'amministrazione dello Stato al cui ruolo appartengono; alla corresponsione di una somma a titolo di mancato guadagno, concordata con la commissione, derivante dalla cessazione dell'attività lavorativa propria e dei familiari nella località di provenienza, sempre che non abbiano ricevuto un risarcimento al medesimo titolo. A mutui agevolati volti al completo reinserimento proprio e dei familiari nella vita economica e sociale. L'art.16-ter prevede, inoltre, che le misure di protezione siano mantenute fino alla effettiva cessazione del rischio. Inoltre "se lo speciale programma di protezione include il definitivo trasferimento in altra località, il testimone di giustizia ha diritto ad ottenere l'acquisizione dei beni immobili dei quali è proprietario al patrimonio dello Stato, dietro corresponsione dell'equivalente in denaro a prezzo di mercato". E allora perché più della metà dei 78 testimoni di giustizia italiana oggi sono dimenticati?

Sono 78 persone che, con le loro testimonianze hanno inchiodato pericolosi criminali legati alla malavita organizzata. Ma quando i processi finiscono lo Stato tende ad abbandonarli a se stessi. E, in periodo di crisi e di spending review, è anche peggio. C'è chi va avanti a fatica, chi ha paura e chi si è ridotto a vivere da clochard. Ora nasce un'associazione per difenderli. "Abbiamo assistito a un omicidio di malavita a Crotone: due uomini (zio e nipote) furono trucidati in strada davanti ai nostri occhi. Era il 1992. Io e mia sorella siamo andate a testimoniare, sapevamo molte cose dei mandanti, appartenenti a una pericolosissima 'ndrina. Gli assassini e i boss che li avevano ingaggiati per quel delitto sono finiti in carcere a vita, noi abbiamo testimoniato fino in Cassazione. Avevano detto che ci avrebbero acquistato casa, aiutato a trovare un lavoro. Invece dopo quattro anni ci hanno lasciato sole, con in mano solo dei finti documenti. Insieme alla nostra identità abbiamo perso la nostra vita". Giuliana e Maria sono due sorelle, due "testimoni di giustizia", così le ha bollate lo Stato con la legge del 2001. Due donne che hanno avuto il coraggio di mandare in carcere boss, pezzi grossi della malavita calabrese e che oggi sono completamente sole, abbandonate dalle istituzioni, tagliate fuori dalla società. Non sono le sole. Più della metà dei testimoni di giustizia italiani, a processi chiusi, si sono ritrovati nella stessa situazione. E ora vivono ai margini, dimenticati da tutti e col rischio che la malavita possa colpirli in ogni momento. Perché? Come e quando lo Stato li ha scaricati? Quanti sono i testimoni di giustizia in Italia che oggi si trovano nello stesso incubo di Giuliana e Maria? In Italia sono 78 in tutto i testimoni di giustizia: persone la cui testimonianza nelle aule dei tribunali è stata fondamentale per inchiodare il gotha della criminalità italiana. Uomini e donne che hanno scelto di far prevalere il senso di giustizia su tutto. Individui che per aver creduto nella magistratura e nello Stato hanno rinunciato alla loro città, alle loro amicizie, alla loro normalità. E ora, come se il prezzo pagato per quella scelta non fosse stato già abbastanza salato, quelle istituzioni alle quali si sono votati gli hanno girato le spalle. "Ci hanno detto: "lo Stato non vi può più mantenere, gli italiani non possono più pagare per voi. - prosegue la calabrese Giuliana - Se avessi saputo come sarebbero andate a finire le cose, mi sarei alleata con la mafia: loro almeno continuano a mantenere le famiglie di chi è in carcere". Parole dure, parole amare quelle di Giuliana, che ora vive in un paesino del centro Italia, senza la sua vera identità, senza una protezione, senza mezzi di sostentamento, tanto che da qualche settimana è senza elettricità nel suo piccolo appartamento perché da mesi ha smesso di pagare le bollette. Gaetano fu il testimone chiave nel maxi processo che inchiodò boss calabresi che avevano messo le mani sugli appalti per la costruzione delle autostrade nel sud. Un giro di tangenti milionario che impediva a qualsiasi ditta non collusa con l'organizzazione di avvicinarsi alla costruzione delle strade nel meridione. Da quattro anni vive in mezzo a una strada. Il ministero dell'Interno lo ha liquidato offrendogli un camper: questo il riconoscimento in cambio del suo sacrificio. "Avrebbero dovuto darmi il corrispettivo del valore del mio appartamento, visto che sono stato costretto a lasciare la mia città. Mentre il processo era in corso sono stato ospitato in un alloggio messo a disposizione dallo stato e poi... "Poi un giorno arriverà il tuo risarcimento economico", mi hanno promesso. Nel frattempo grazie a una colletta di alcuni poliziotti mi è stato dato un camper dove dormo. E quando, qualche giorno fa, il controllore del treno mi ha trovato senza biglietto e mi ha multato ho detto: "quando avrò il mio risarcimento dallo Stato giuro che pagherò la multa"". La spending review, da due anni a questa parte, ha tagliato via via tutti gli indennizzi destinati ai testimoni di giustizia, "in barba ai proclami anti mafia di cui tutta la politica italiana si riempie la bocca", denuncia Antonio Turri, presidente dell'associazione "I cittadini contro le mafie e la corruzione". Prosegue: "più della metà dei 78 testimoni di giustizia non ha più la protezione e le garanzie che lo Stato gli aveva promesso prima che iniziassero i processi. La lotta alle organizzazioni malavitose si fa soprattutto con i testimoni, ma con politiche di tagli di questo tipo non si fa altro che disincentivare la collaborazione. Gente con la vita rovinata è ora caduta nel baratro, completamente sola. E tutto per aver creduto in valori e in una solidarietà che nel nostro paese, a differenza di tutto il resto d'Europa dove sono previsti degli indennizzi, non esiste. Allora mi chiedo: chi da oggi, a fronte di questa situazione, affiderà per senso di giustizia la propria vita nelle mani dello Stato? È con congressi e proclami che si intende sconfiggere le mafie?". Per difendere i 78 testimoni di giustizia italiani, (il 4 febbraio 2013) è nata una nuova associazione nazionale "Testimoni di giustizia" presieduta da Ignazio Cutrò, l'imprenditore siciliano sottoposto a un programma speciale di protezione per aver denunciato i suoi estorsori che per sette anni lo torturarono con intimidazioni e minacce di ogni tipo per non essersi piegato alla legge del pizzo. Fu a seguito della sua denuncia e della sua testimonianza che venne avviata l'operazione "Face off" nella quale arrestarono i fratelli Luigi, Marcello e Maurizio Panepinto, condannati nel 2011 a un totale di 66 anni e mezzo di carcere. Il suo destino è diverso da quello degli altri testimoni di giustizia: nel 2012 infatti, grazie all'intervento della Regione Sicilia riprese la propria attività imprenditoriale, ottenendo un contratto con il Consorzio per le Autostrade Siciliane e ancora oggi è sotto tutela. Pietro Di Costa, imprenditore di Tropea, titolare dell'istituto di vigilanza Sycurpol, pure lui nome noto tra le vittime del racket, affiancherà alla presidenza dell'associazione Cutrò, così come Pietra Aiello, collaboratrice del giudice Borsellino, che di "Testimoni di giustizia" sarà la segretaria.

Le rinunce e le sfide dei testimoni di giustizia, scrive Antonella Lombardi sull’ANSA. Hanno lottato per anni contro le rinunce e le difficoltà  imposte dal loro status e adesso i testimoni di giustizia hanno dato vita a un'associazione nazionale per rompere la strategia dell'isolamento e della vergogna in cui sono invece costretti a vivere uomini e donne - coraggio, ha detto il neopresidente eletto Ignazio Cutrò. Oltre all'imprenditore antiracket dell'Agrigentino ci sono anche Giuseppe Carini, teste chiave nel processo contro i killer del sacerdote di Brancaccio don Pino Puglisi e, tra gli altri, Piera Aiello. ''Ho due vite che corrono parallele, da quando, una mattina, la morte mi è entrata in casa a soli 21 anni'', scrive la Aiello in 'Maledetta mafia', diario che racconta il suo percorso di liberazione: da donna mai sottomessa, con una sua etica incrollabile e fiduciosa nella legge, a testimone di giustizia. A lei Cosa Nostra ha ucciso prima il suocero e poi il marito, ma non ha tolto la forza di denunciare i boss della mafia trapanese, una scelta coraggiosa messa a dura prova dopo la scomparsa della giovanissima cognata, Rita Atria, suicida dopo la strage di via D'Amelio nella quale fu ucciso il magistrato Paolo Borsellino. Il suo libro ricostruisce anche le fragilità del sistema di protezione. ''Per sei anni non ho un'identità - scrive Piera Aiello - un codice fiscale, un conto in banca, un medico di base''. Aiello racconta inoltre come spesso al danno si aggiunga la beffa: Alcuni funzionari di Stato hanno equiparato i testimoni di giustizia a dei cancri di cui è difficile liberarsi. ''Tutti plaudono al gesto di coraggio civile, tutti elogiano i testimoni, ma purtroppo i fatti dimostrano il contrario'', ha detto Giuseppe Carini. ''Siamo con lo Stato e lo abbiamo dimostrato rinunciando a una vita normale - ha detto Cutrò - le vere vittime non siamo noi, ma le nostre famiglie. E' quindi necessario che anche lo Stato sia con noi''. Uno sradicamento, quello affrontato dai testimoni, che spesso somiglia a un esilio, come ha denunciato poco tempo fa un'altra testimone di giustizia, la calabrese Rosina Benvenuto che, insieme al marito, ha fatto condannare 'ndranghetisti della cosca Labate di Reggio: Uno dei miei figli non è voluto entrare nel programma di protezione, per cui secondo la legge non può avere rapporti con gli altri familiari. E' assurdo, mi sento un peso, tutta la mia famiglia è divisa''. ''Siamo 70 testimoni in tutta Italia, ci additano come piccoli carbonari, ma non abbiamo nulla da nascondere. Anzi, giorno per giorno paghiamo un prezzo troppo alto di sofferenze''. Cosi aveva detto Piera Aiello alla commissione europea antimafia in trasferta a Palermo. ''Stiamo riponendo la vita di 70 famiglie nelle vostre mani - ha aggiunto Aiello - io ho lottato per 23 anni contro gli uomini più disattenti dello Stato che ci hanno voltato le spalle. Adesso chiedo all'Europa di essere dalla nostra parte''. I loro sforzi sono ora riconosciuti, e con la nascita dell'associazione nazionale serviranno a mettere in collegamento tutti quei cittadini onesti che hanno avuto il coraggio di denunciare, testimoniando nelle aule dei tribunali o nelle altre sedi competenti i misfatti delle mafie. Dell'organismo direttivo dell'associazione faranno parte anche avvocati e giuristi di spessore nazionale. I testimoni di giustizia chiedono al ministero dell'Interno che vengano riconosciuti per sè e le proprie famiglie gli stessi diritti dei familiari delle vittime di mafia e del terrorismo, con una particolare attenzione al reintegro del posto di lavoro.

Ma non è tutto.

FREDIANO MANZI UN GESTO ESTREMO CONTRO L'ABBANDONO DEGLI USURATI.

Si è dato fuoco, davanti alla sede milanese della Rai, Frediano Manzi, presidente dell’associazione SOS Racket e Usura. Un gesto disperato, estremo, compiuto per richiamare l’attenzione delle istituzioni sulle tante, troppe, vittime del pizzo, dei soldi prestati a strozzo. Attività monopolio della criminalità organizzata per la quale non esiste crisi. Manzi ha lasciato comunque una lettera in cui spiega le ragioni del gesto e avanzerebbe alcune richieste: “Una commissione d’inchiesta sul caso Ferrigno”; “rimozione del presidente del Fondo nazionale antiusura”. L’uomo avrebbe riportato ustioni di terzo grado su tutto il corpo, specie alla braccia e al torace. L’episodio è avvenuto poco dopo le 20.30 del 5 febbraio 2013 in corso Sempione. Dopo essersi cosparso il corpo di benzina il coordinatore di SOS Racket e Usura, secondo i giornalisti presenti, ha detto: “Tra 5 minuti mi do fuoco per tutte le vittime di usura. Addio”. Poi ha tirato fuori un accendino e si è dato fuoco. Ad intervenire per primo, mentre Manzi era avvolto dalle fiamme, è stato un autista del tram numero 19 che vedendo la scena è sceso dal mezzo pubblico con l’estintore e l’ha scaricato addosso a Manzi, che altrimenti rischiava davvero la morte o comunque conseguenze ancora peggiori di quelle in cui si trova adesso. L’autista ha raccontato: “Stavo transitando in corso Sempione quando ho visto le fiamme e istintivamente mi sono fermato. Poi ho capito che era un uomo e sono sceso con l’estintore e ho spento il fuoco che lo avvolgeva”. Il 4 gennaio 2013 Manzi si era già tagliato le vene denunciando di trovarsi in una situazione economica disperata e di aver dovuto chiudere due attività. Sotto minaccia da parte dalla criminalità organizzata (“per la ‘ndrangheta sono un morto che cammina”) a fine 2011 aveva scioccato tutti dicendo di aver commissionato due attentati a una della sue attività, un negozio di fiori. Perché? Per attirare l’attenzione su Sos Racket e Usura. Per questo finì indagato a Milano e Busto Arsizio e la sua credibilità, inevitabilmente, subì un duro colpo. Manzi aveva patteggiato un anno e otto mesi di reclusione dopo aver confessato di aver commissionato per 1.200 euro al pluripregiudicato Alberto Marcheselli un finto attentato a un suo chiosco di fiori a Parabiago, per poi denunciare che si trattava di un atto di intimidazione contro l'attività della sua associazione. Ciò non toglie che grazie all’attività dell’associazione da lui presieduta e alle sue denunce sono state aperte diverse inchieste, come nel 2010 quando a Milano erano state arrestate alcune persone per il racket sulle case popolari. Era stato sempre Manzi a sporgere denuncia contro l’ex prefetto di Napoli Carlo Ferrigno, che due anni fa per le accuse di millantato credito e prostituzione minorile ha patteggiato una pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione. Manzi aveva chiesto di parlare ai giornalisti che si occupavano del telegiornale e quando gli addetti alla portineria lo hanno invitato ad allontanarsi ha minacciato di darsi fuoco. Poco dopo, si è cosparso di liquido e ha dato corpo alla sua minaccia. L'uomo è stato soccorso da un tramviere dell'Atm. "Stavo transitando in corso Sempione quando ho visto le fiamme e istintivamente mi sono fermato", ha raccontato il soccorritore. "Poi ho capito che era un uomo e sono sceso con l'estintore e ho spento il fuoco che lo avvolgeva". Sul posto sono intervenuti i carabinieri, che si sono fatti consegnare la lettera lasciata da Manzi agli uscieri e che cominciava così: "Ho deciso di darmi fuoco per portare l'attenzione delle istituzioni su tutte le vittime dell'usura". Prima di cospargersi di benzina e appiccare le fiamme a se stesso con un accendino, Manzi ha consegnato alla tv di Stato una lettera in cui ribadisce il motivo del suo gesto, accompagnandolo con delle richieste, disperate tanto quanto lui. «Per le vittime dell’usura che nessuno aiuta», si legge nel foglio, scritto a mano. Poi alcune richieste, quelle degli ultimi 10 anni di lotte. «Una commissione d’inchiesta sul caso Ferrigno», o «rimozione del presidente del Fondo nazionale antiusura». In realtà Frediano Manzi da tempo versava in uno stato di profonda prostrazione, e aveva recentemente già tentato il suicidio tagliandosi le vene. Dopo i clamori seguiti alle importanti inchieste che le denunce della sua associazione (che negli anni è diventata un punto di riferimento per le vittime del racket) avevano fatto partire, nell’ambito non solo dell’usura ma dell’intreccio tra la criminalità organizzata e gli enti locali, lui stesso era scivolato nel baratro finendo a sua volta denunciato per aver simulato un attentato a uno dei suoi negozi di fiori. Così era inevitabilmente cominciato il declino della sua credibilità. Una situazione che, insieme ai suoi problemi economici e alle continue minacce della criminalità organizzata, lo avevano minato profondamente spingendolo ormai a una vita border line. 

Povero Frediano Manzi. Non sa che per essere finanziato e sostenuto basta santificare i magistrati ed essere di sinistra?

IL RACKET DELLE PAGELLE AGLI HOTEL.

"Paga 500 euro oppure ti sputtano" Il racket delle pagelle agli hotel. Crescono le bande di aguzzini che sfruttano i siti di recensioni: tremila euro per dieci giudizi positivi. Federalberghi: "Quasi tutti hanno ricevuto richieste". Una pratica vergognosa diffusa ormai in tutto il Paese che mette gli albergatori davanti a un bivio: salire in graduatoria (pagando) o gli schizzi di fango? Giudizi positivi, ma taroccati, su alberghi e ristoranti, in cambio di denaro. Gli operatori del settore si sentono sotto ricatto: sono sempre di più le agenzie di consulenza vere o fasulle che, dietro pagamento, si offrono di pubblicare sul web commenti lusinghieri senza aver mai messo piede nell’hotel o nel locale recensito. L’operazione pubblicitaria ha un costo che va dai 500 euro per un singolo commento a cinque stelle, ai 3.000 per dieci giudizi di primo ordine, insomma, per un pacchetto completo. Questa pratica ormai diffusa in tutto il Paese mette di fronte gli albergatori ed i ristoratori italiani ad una scelta complicata: salire nelle graduatorie dei siti specializzati investendo di tanto in tanto una cifra tutto sommato abbordabile o declinare l’offerta col rischio concreto di precipitare nell’anonimato di internet. (...) "Paga 500 euro o ti sputtano". Su Libero di mercoledì 6 febbraio 2013, Alessandro Gonzato ci racconta del racket delle pagelle agli hotel. Crescono le bande di aguzzini che sfruttano i siti di recensioni. Le loro richieste? Tremila euro per dieci buoni giudici. Federalberghi conferma: "Quasi tutti gli albergatori hanno ricevuto richieste".

MAFIA. DA SINISTRA SCHIZZI DI FANGO SULLE REGIONI DEL SUD.

«Con tutto il rispetto per gli autori della fiction e per la libertà di pensiero e di espressione, respingiamo al mittente l’etichetta di una "Puglia mafiosa" e riteniamo a dir poco vergognoso che la Regione abbia speso soldi dei cittadini per un megaspot bugiardo che certo non contribuirà ad attrarre turismo, a migliorare l’immagine della Puglia, a sostenere la nostra economia». Lo afferma Il capogruppo del Pdl alla Regione Puglia, Rocco Palese, attaccando il presidente Vendola: «150mila euro. Tanto hanno speso inconsapevolmente i cittadini pugliesi – dice Palese – per vedere l’immagine di una Puglia "mafiosa" in prima serata e per sei serate su Raiuno nella fiction "Tutta la musica del cuore" ambientata a Monopoli, anche se nel film il Comune si chiama Montorso, forse proprio per evitare querele, cofinanziata da Apulia Film Commission, quindi dalla Regione Puglia, nel 2010 e in onda in prima serata su Raiuno». Secondo Palese, il finanziamento di Apulia Film Commission alla fiction è stato «il finanziamento più alto in assoluto concesso da Apc nel 2010». Nella fiction, nella quale - sottolinea Palese – sono ben riconoscibili luoghi della Puglia - «si fa continuo riferimento ad un territorio mafioso e al fatto che la scuola è una trincea contro il reclutamento dei giovani da parte della mafia. Si dà una immagine della Puglia assolutamente negativa e completamente falsa». «L'impatto - continua tra l’altro Palese – in effetti è alto, ma altamente devastante! Si infangano una intera comunità, quella di Monopoli, e tutta la Puglia. Ma qualcuno di Apc legge i copioni prima di concedere i finanziamenti? E, se sì, in base a che cosa si è ritenuto di investire soldi dei cittadini per dare l'immagine di una Puglia mafiosa in prima serata (e per ben sei puntate, quindi almeno 3 settimane) su Raiuno? Che ne dice il Presidente Vendola? È contento che oltre 5 milioni di italiani abbiano avuto questa immagine della Puglia e, in parte, pure a spese della Regione?».

A Scampia non ci stanno. Non vogliono più passare solo come il "quartiere di Gomorra". Quel film e quel libro di Roberto Saviano hanno leso l'immagine del quartiere partenopeo. Così ora Saviano è diventato uno da evitare. E il disappunto per lo scrittore viene mostrato con uno striscione durante un'iniziativa di Alfredo Giacometti, del Movimento lavoratori italiani, nell'incontro voluto dalla Muncipalità di Scampia per discutere il no alle riprese di Gomorra2. Lo striscione parla chiaro: "SCAMPIAmoci da Saviano".

IN TEMPI DI ELEZIONI: FARLOCCATE E VOTI DI SCAMBIO.

Ma la legge è uguale per tutti?

Elezioni 2013. Promessa di rimborso IMU fatta da Berlusconi. Solita promessa per accaparrarsi il voto dei creduloni italici? Per Monti è «un tentativo di corruzione, compra i voti». Per Bersani «demagogia». Secondo Vendola è la solita promessa del «Vanna Marichi» della politica. Il nuovo coniglio tirato fuori dal cilindro da Silvio Berlusconi è la restituzione agli italiani della gravosa Imu sulla prima casa. Una mossa che provoca la reazione rabbiosa dei competitori. Nel day after Mario Monti interviene di prima mattina in radio: «E’ un voto di scambio, ma anche un tentativo simpatico di corruzione: io ti compro il voto con dei soldi e i soldi sono dei cittadini», tuona dai microfoni di Rtl 102,5. Berlusconi vuole «comprare il voto degli italiani con i soldi degli italiani», aggiunge il premier uscente che ieri aveva definito Silvio «un incantatore di serpenti che non ha mai mantenuto le promesse». E conclude: «Quando sento un simpatico, molto simpatico, signore che dice che lui aveva lasciato i conti in ordine e io ho fatto disastro, un po’, perché mi sembra uno schiaffo ai sacrifici degli italiani, mi rattristo e a volte mi innervosisco. Ma non mi sono sentito toccato dalle accuse. Del resto, io sono ancora più imbecille perché ho dato attuazione ad aumenti di tasse in gran parte già decisi da lui». Più tardi il Professore interviene dai microfoni di La7 e rincara la dose: «C’è qualche elemento di usura».

A Porta a Porta del 5 febbraio 2013, il candidato per il PD Pietro GRASSO, già Procuratore di Palermo, ha dichiarato che basterebbe anche una sola denuncia da parte di un cittadino per attivare la Procura. Proponendo l’ennesimo condono tombale, potrebbe essere altresì configurabile l'ipotesi di istigazione all’evasione fiscale. Rimborso dell’IMU: Truffa o Voto di scambio? «Guardi, intanto il presidente Berlusconi ha inviato una lettera ai singoli elettori e forse non si è reso conto, ma proprio si va a cercare queste situazioni, che esiste un articolo del testo unico della legge elettorale che è l’art. 96 della legge del 57 che punisce chiunque offre o promette denaro, punisce con la pena da 1 a 4 anni e una multa da 400€ e punisce anche chi li riceve nel senso che è l’ipotesi tipica del voto di scambio elettorale, cioè che la nostra legge elettorale prevede. E quindi mi fa sorridere perché poi non mi stupirei se qualcuno presentasse un esposto. Mi fa sorridere questa… se qualcuno presentasse una denuncia o un esposto qualche magistrato sarebbe obbligato a valutare questa ipotesi perché esiste una legge che vieta che si offrano o promettano danaro o altre utilità in cambio del voto e punisce anche chi li riceve. È quindi questa la situazione che mi pare paradossale così come prospettata perché non è l’abolizione di una tassa, è una legge retroattiva che restituisce dei soldi e lo fa con una lettera diretta personalmente agli elettori. A me pare che sia una cosa assolutamente diversa da quelle leggi che si è generalmente abituati a vedere. Io quand’ero giovane studente la legge doveva essere erga omnes ed avere generalità ed astrattezza. In caso promettesse la restituzione non si capisce perché prima la mette e nel caso di Prodi con l’euro – tassa si sa già che è una tassa temporanea. Qui si tratta di una tassa che ha già raggiunto i suoi effetti, per cui è già entrata nel bilancio dello Stato; adesso si fa una legge retroattiva con cui si riprendono quei soldi e si restituiscono ai cittadini in cambio del consenso, o no? 

Art. 416 ter c.p. – La pena stabilita dall’art. 416 bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo art. 416 bis in cambio della erogazione di denaro». Il voto di scambio è il voto dato regolarmente da un elettore, ma non motivato da scelte politiche frutto di riflessioni sincere e disinteressate, bensì corrotto da qualche tornaconto ricevuto da parte di chi si candida o chi per lui.

Tranquilli, nessuno tra i 60 milioni di cittadini presenterà una sola denuncia. Sennò che Italiani buonisti e mafiosi saremmo?...

Elezioni 2013: Grasso, Monti e il voto di scambio, scrive Aldo Bianchini su “Il Quotidiano di Salerno”. Andando con ordine, anche se in politica è molto difficile, bisogna dire che il primo a sparare la cavolata più grossa è stato Pietro Grasso, già capo della “DNA” e attuale candidato al Parlamento nelle liste del PD; niente di che, con la sua mentalità da magistrato tutto gli è ancora possibile, anche il fatto di strumentalizzare le norme di legge che regolano il “voto di scambio”. Ma che il Presidente del Consiglio in carica, Mario Monti, cadesse subito nella trappola di eclatare la cavolata di Grasso è davvero troppo. Sarà anche una super balla gigante quella annunciata da Silvio Berlusconi per la restituzione dell’IMU ma siamo abituati alle sorprese del Cavaliere e, soprattutto, siamo abituati al fatto che quando dice di abolire qualcosa lo fa davvero. Nessuno si è lanciato così apertamente e maldestramente sulla via del cosiddetto “voto di scambio” come Monti a ruota di Grasso, neppure quotidiani nazionali come Il Corriere della Sera e La Repubblica. Bastava aspettare qualche ora per assistere a come Pietro Grasso, probabilmente ispirato dalle ”anime morte” del PD (appellativo che De Luca ama lanciare verso i vertici del suo partito), è subito rimasto solo ed allo scoperto per non fare la figura dell’incauto persecutore; macchè, il professore continua ad insistere ed anche il giorno dopo ritorna sull’argomento evocando addirittura le regalie di Achille Lauro ai suoi più che probabili elettori; tutto questo dopo che aveva promesso di non citare più il nome degli avversari in campagna elettorale. Peccato che fino a questo momento, ma il tempo è signore, nessun magistrato (milanese !!) ha avviato un procedimento giudiziario a carico di Silvio Berlusconi per “voto di scambio”, sarebbe davvero il toccasana per il Cavaliere che potrebbe guadagnare in un sol colpo quei pochi punti che gli mancano per l’insperata vittoria. Ma non è ancora detto, il tempo è signore dicevo prima e tutto può ancora accadere lungo le rive del “fiume Lambro” che con i suoi 130 km. di lunghezza porta le acque dell’Olona fino al Po’. Alle dichiarazioni di Mario Monti sono rimasto sinceramente perplesso e, pur comprendendo l’ignoranza del professore in materia di leggi che regolano il “voto di scambio”, assolutamente incredulo; con tanti consulenti ridursi a fare la mia stessa fine (umile giornalista di periferia) mi sembra un po’ troppo. Gli consiglio di leggere qualche volta questo giornale online, solo così forse capirebbe qualcosa in più su un argomento difficile e complesso che la magistratura ha usato e usa, spesso, in maniera non omogenea tra procura e procura. Come dimenticare, difatti, gli sfasci che l’accusa di “voto di scambio” ha determinato per la classe politica della prima repubblica agli inizi degli anni ’90 quando era sufficiente dire che un parlamentare aveva scritto una lettera di comunicazione ad un elettore per avviare l’accusa devastante di “voto di scambio”. Molti non ricordano come furono sequestrati e rastrellati gli archivi delle segreterie politiche di Paolo Cirino Pomicino, di Enzo Scotti, di Francesco De Lorenzo e di Giulio Di Donato; i primi tre ministri e l’ultimo addirittura vice segretario nazionale del PSI. Insomma sia Grasso ma soprattutto Monti dovrebbero andare a rileggere l’art. 86 del D.P.R. 570/1960 che regola il “REATO DI VOTO DI SCAMBIO”. Solo per la cronaca è necessario ribadire che il “voto di scambio” si realizza allorchè “taluno dà, offre o promette qualunque utilità” per ottenere il voto. Ebbene nessuna di queste ipotesi si concretizza nelle parole di Berlusconi che ha, invece, promesso la restituzione di quanto ingiustamente (sul piano squisitamente politico !!) versato da tutti quei cittadini che hanno già pagato la tassa denominata IMU (Imposta Municipale Unica) sugli immobili. In pratica Berlusconi non offre per avere ma promette di restituire ciò che è stato ingiustamente tolto. Insomma mi sembra davvero difficile ipotizzare il reato di voto di scambio, anche se come dicevo all’inizio il tempo è galantuomo e probabilmente il piacere a Berlusconi qualche magistrato comunque glielo farà, tanto c’è ancora tempo.

QUEI CAZZOTTI A FALCONE.

Due o tre cose che bisognerebbe sapere sul rapporto tra Falcone e Leoluca Orlando, scrive Anna Germoni su “Panorama”. L’ennesimo cazzotto a Giovanni Falcone. Nemmeno di fronte alla morte, si fermano gli attacchi e le polemiche. Si specula, si distorce, si spiega il suo nome per una manciata di voti. Perché non parlare di programmi, di piattaforme, di riforme, di contenuti del suo movimento? No, il leader di Rivoluzione Civile, Antonio Ingroia, non si arresta di fronte a nulla. Eppure di motivi per stare in silenzio ce ne sarebbero: come lo scontro Orlando-Falcone, che culminò con l’ennesimo calvario del giudice di doversi difendere davanti al Csm. E Leoluca Orlando è anche uno dei primi firmatari di quel movimento di Ingroia. E allora diventa imbarazzante, non ricordare la storia. Nell’agosto del 1989 inizia a collaborare con i magistrati il mafioso Giuseppe Pellegritti, fornendo preziose informazioni sull’omicidio del giornalista Giuseppe Fava rivelando al magistrato Libero Mancuso di essere a conoscenza, di fatti inediti sul ruolo del politico Salvo Lima negli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Mancuso informa subito Falcone, il quale interroga il pentito il 17 agosto. Il giudice si muove rapidamente e il 21 agosto parte una richiesta istruttoria dalla Procura di Palermo. Negli atti depositati, Falcone spiega che il pentito non sta dicendo la verità. Il giorno dopo, Pellegritti viene interrogato dalla Corte d’Assise d’Appello nel carcere di Alessandria, dove conferma il teorema su Lima mandante dell’omicidio Mattarella. Il 4 ottobre, Falcone dopo due mesi di indagini, appurando la sua totale inaffidabilità, firma un mandato di cattura per "calunnia continuata" contro Pellegritti. È una reazione dura ma necessaria. Subito si scatena la canea contro Giovanni Falcone. La versione corrente è che il magistrato vuole proteggere Andreotti e Lima, cioè il potere. Leoluca Orlando Cascio dichiara guerra a Falcone. E proprio da una puntata della trasmissione Sarmarcanda, condotta da Michele Santoro su Rai Tre, il 24 maggio 1990 il sindaco di Palermo lancia un’accusa gravissima: il pool ha una serie di omicidi eccellenti a Palermo e li tiene «chiusi dentro il cassetto». A questa denuncia si associano gli uomini del movimento La Rete: Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e Nando Dalla Chiesa. In particolare si fa riferimento a una serie di documenti, otto scatole sigillate negli uffici giudiziari e a un armadio pieno di carte, lasciato da Rocco Chinnici. Galasso, Mancuso e Orlando fanno esposto al Csm, l’11 settembre 1991. L’avvocato Giuseppe Zupo, avvocato di parte civile della famiglia Costa, recapita, sempre al civico del Palazzo dei Marescialli, due memorie, proprio su questi otto pacchi, sottolineando “il mancato esame… e di doveri trascurati”. Falcone ormai è sotto tiro. E anche i giornali intraprendono una battaglia di fuoco tra di loro. La Repubblica, del 20 maggio 1990, titola un’intervista di Silvana Mazzocchi a Falcone, con I nomi, altrimenti stia zitto…, dove il giudice replica:” Se il sindaco sa qualcosa faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma tutta la responsabilità di quello che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati…”. Il sindaco di Palermo ribatte attraverso L’Unità del 14 agosto 1991, a firma di Saverio Lodato, Indagate sui politici, i nomi ci sono. Per un anno Leoluca Orlando Cascio, come un martello pneumatico, bombarda Falcone con le stesse accuse. Lo fa con ogni mezzo: interviste su giornali, tv e conferenze stampa. Intercede anche Cossiga, ma il sindaco di Palermo non si placa. Il capo dello Stato allora il 16 agosto 1991 scrive una lettera al Guardasigilli Claudio Martelli e ne manda copia al presidente del Consiglio e al ministro dell’Interno affinché sulla “già nota teoria di Orlando”, “venga aperta un’inchiesta affidata all’autorità giudiziaria al di fuori della Sicilia”. (Leoluca Orlando Cascio, recentemente ha dichiarato di non pentirsi della polemica con Falcone e che “oggi dichiarerebbe le stesse cose”). Il Csm, dopo l’intervento di Cossiga, l’esposto di Galasso, Mancuso, Orlando e dell’avvocato Zupo, convoca Falcone. Ormai non si contano più le sue audizioni dentro al Palazzo dei Marescialli. E’ il 15 ottobre 1991 quando depone davanti al Csm, in un’udienza riservata. Ecco che cosa Falcone dichiara nel verbale (il n. 61): «Se c’è stata preoccupazione, da parte nostra, è stata proprio quella di non confondere le indagini della magistratura nella guerra santa alla mafia… Adesso non si parla di prove nel cassetto perché i cassetti sono stati svuotati. Essere costretto a scrivere all’Unità che non è certo carino scrivere – dopo che si presenta questo memoriale - Falcone preferì insabbiare tutto. Quando nel corso di una polemica vivacissima fra Orlando e altri, una giornalista mi chiese che cosa pensassi di Orlando, io ho detto “ma cosa vuole che possa rispondere di un amico”, ecco, dopo poche ore, tornato in sede, ho appreso quell’attacco riguardante le prove nei cassetti. Se vogliamo dirlo questo mandato di cattura non è piaciuto, perché dimostrava e dimostra che cosa? Che nonostante la presenza di un sindaco come Orlando la situazione degli appalti continuava a essere la stessa e Ciancimino continuava ad imperare, sottobanco, in queste vicende. Difatti sono stati arrestati non solo Ciancimino, ma anche Romolo Vaselli, e Romolo Vaselli è il factotum di Vito Ciancimino per quanto attiene alle attività imprenditoriali. Devo dire che, probabilmente, Orlando e i suoi amici hanno preso come un inammissibile affronto alla gestione dell’attività amministrativa del comune un mandato di cattura che, in realtà, si riferiva a una vicenda che riguardava episodi di corruzione molto seri, molto gravi, riguardanti la gestione del comune di Palermo.. la Cosi e la Sico (due imprese romane) durante la gestione Orlando… quegli stessi appalti che le imprese di Ciancimino si sono assicurati durante la gestione Orlando. La Cosi e la Sico, due imprese, che erano Cozzani e Silvestri che si trovavano a Palermo con tutte le attrezzature, materiale e con il personale umano di Romolo Vaselli, che è un istituzione a Palermo, il conte Vaselli”. Poi Falcone si sfoga: «Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo…Io sono in grado di resistere, ma altri colleghi un po’ meno. Io vorrei che vedeste che tipo di atmosfera c’è per adesso a Palermo». Questo diceva Falcone. Dopo la sua morte fu Ilda Boccassini, senza tanti giri di parole, a denunciare: “Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento”. E tocca citare Ilda Boccassini a proposito del suo amico Giovanni Falcone: «Non c'è stato uomo in Italia - disse a Giuseppe D'Avanzo nel 2002 - che abbia accumulato più sconfitte di Giovanni». Mortificato perfino nella corsa alla superprocura antimafia da lui stesso inventata. «Eppure - aggiungeva la Boccassini - le cattedrali e i convegni sono sempre affollati di amici che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattini o i burattinai di qualche indegna campagna di calunnie». Purtroppo, la lezione non è servita.

MAFIA = STATO.

Trattativa Stato-mafia: processo allo Stato.

imputati uomini delle istituzioni insieme ai boss mafiosi.

Un processo storico, è stato definito da molti, in quanto per la prima volta davanti al gup del Tribunale di Palermo Piergiorgio Morosini si trovano a rispondere insieme uomini di primo piano delle istituzioni e capimafia. L’accusa che la procura di Palermo muove a dieci dei dodici imputati è quella di aver esercitato minaccia ad un corpo politico dello Stato, il governo italiano, allo scopo di ottenere benefici per Cosa Nostra sotto il ricatto delle bombe. Cinque uomini dello Stato e cinque boss mafiosi rispondono di tale reato: l’ex ministro Calogero Mannino, il senatore Marcello Dell’Utri, i generali Mario Mori e Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno, tutti all’epoca ufficiali del ROS; insieme a loro i boss mafiosi Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà, Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano, quest’ultimo accusato anche di concorso nell’omicidio dell’europarlamentare Salvo Lima. Tra gli imputati ci sono inoltre l’ex ministro Nicola Mancino, indicato sia da Massimo Ciancimino che poi da Giovanni Brusca come terminale politico della trattativa, che risponde del reato di falsa testimonianza, mentre l’ultimo imputato, Massimo Ciancimino, nel processo riveste la doppia veste di imputato (per concorso esterno in associazione mafiosa per il ruolo di postino tra il padre e Provenzano da lui stesso raccontato ai pm e per calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro) e di teste chiave dell’accusa. Un processo storico abbiamo detto, ma anche un processo scomodo, un processo che in molti dentro lo Stato non vorrebbero, un processo a cui si arriva significativamente con un conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale contro la procura di Palermo ancora aperto, mentre tutti abbiamo assistito al clima sempre più forte di delegittimazione contro i magistrati della procura di Palermo da una parte, anche dall’interno della stessa magistratura, e il testimone chiave Massimo Ciancimino dall’altro.

Linea diretta. Il mistero delle telefonate di Napolitano al procuratore di Caltanissetta, scrive Adriana Stazio.

"La Corte costituzionale - informa la Consulta - in accoglimento del ricorso per conflitto proposto dal Presidente della Repubblica ha dichiarato che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza della documentazione relativa alle intercettazioni delle conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, captate nell'ambito del procedimento penale n. 11609/08 e neppure spettava di omettere di chiederne al giudice l'immediata distruzione ai sensi dell'articolo 271, 3 comma, c.p.p. e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti". La vicenda era nota da tempo. Nel maggio 2009 il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso aveva cercato di far applicare alla procura di Caltanissetta il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini affinché affiancasse i colleghi nisseni nelle nuove indagini sulla strage di via D’Amelio. Dal giugno dell’anno precedente infatti era iniziata la collaborazione di Gaspare Spatuzza. ’U Tignusu aveva messo in discussione la precedente ricostruzione della fase esecutiva della strage sancita dalle precedenti sentenze passate in giudicato e nello stesso tempo aveva fatto emergere così il depistaggio delle indagini attuato tramite personaggi come Scarantino e Candura, falsi pentiti costruiti in laboratorio secondo la definizione data da Roberto Scarpinato. La procura nissena si trovava così a dover indagare non solo sui nuovi scenari aperti da Spatuzza, ma, una volta acclarata la sua versione, anche sul depistaggio, per scoprire chi e perché aveva costretto anche con la tortura Scarantino ad autoaccusarsi della strage. Un’indagine che avrebbe potuto portare a coinvolgere uomini della polizia, dei servizi segreti, della magistratura inquirente. Ma c’era anche un altro fascicolo, ben più scottante, a Caltanissetta: quello sui mandanti esterni per concorso in strage aperto in seguito alle dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino ai pm nisseni nel gennaio e febbraio del 2008 (prima quindi che iniziasse la collaborazione di Spatuzza) quando la procura era ancora retta dal procuratore Roberto Di Natale. Proprio nel marzo 2009 la procura aveva ascoltato nuovamente il giovane Ciancimino che, da quando si era insediato il nuovo procuratore Sergio Lari nell’aprile dell’anno precedente, non era stato più convocato a Caltanissetta, mentre aveva continuato ad essere interrogato e a rispondere alle domande dei magistrati a Palermo, dove proprio grazie alle sue dichiarazioni, era stato aperto un altro fascicolo in merito alla trattativa tra Stato e Cosa Nostra di cui il figlio di Vito Ciancimino era stato testimone oculare. Un testimone che, oltre a rivoluzionare la cronologia e quindi il significato e peso della trattativa con il ROS collocandola prima e non dopo la strage di via D’Amelio, aveva fatto nomi importanti come quello dell’allora vicepresidente del CSM Nicola Mancino, che subito aveva annunciato querela. Di lì a poco, nel luglio 2009, sarebbe uscito sui giornali anche il nome di un altro pezzo da novanta, Luciano Violante, che invece preferì precipitarsi dai pm palermitani per dare la sua versione, folgorato dalle parole di Massimo Ciancimino che gli avevano improvvisamente fatto tornare la memoria. Ma è cronaca di questa estate come tale ritorno di memoria fosse quanto meno molto parziale. In questo clima si inserisce la proposta di Grasso inviata con una lettera al procuratore della Repubblica Lari. Proposta abbastanza singolare in effetti, visto che Boccassini si era già occupata di quelle indagini proprio nel ’92-’94, era stata la prima ad ascoltare Scarantino insieme al collega Petralia e ad Arnaldo La Barbera, era una testimone e protagonista di quelle indagini e il fatto che nel momento in cui aveva abbandonato l’inchiesta avesse espresso in forma scritta le sue perplessità sull’attendibilità del pentito non cambiavano questo dato di fatto che secondo la procura di Caltanissetta configurava un motivo di incompatibilità, costituiva un vizio di forma che avrebbe potuto addirittura dare motivi di nullità per la stessa indagine se eccepito un domani da qualche avvocato. La proposta di Grasso ricevette così un "no, grazie" da parte di Caltanissetta. Nel frattempo Ilda la rossa era stata convocata in qualità di testimone dai pm nisseni per raccontare quanto a sua conoscenza in merito al pentimento di Scarantino. La domanda sorge spontanea: perché Grasso cercò di inserire Ilda Boccassini nelle indagini? Abbiamo forse pochi elementi per avere una risposta certa. Possiamo però fare alcune considerazioni. La proposta cadde in concomitanza del parere inviato da Lari alla DNA in merito all’attendibilità del nuovo pentito Gaspare Spatuzza. Ricordiamo che, nel momento in cui ben undici anni dopo l’arresto aveva deciso di collaborare, folgorato sulla via di Damasco della conversione religiosa, l’ex killer di Brancaccio a metà marzo 2008 aveva richiesto espressamente di parlare con Piero Grasso, il quale ha sempre sostenuto la sua attendibilità. Ma la procura nissena mostrava di nutrire ancora dubbi, considerandolo solo in parte credibile. «Gli accertamenti fin qui svolti hanno consentito di trovare significativi elementi di riscontro rispetto a una parte delle dichiarazioni dello Spatuzza» scriveva Lari nel suo parere scritto, riferendosi soprattutto al furto della Fiat 126 utilizzata per la strage, aggiungendo però che accanto a riscontri positivi ce n’erano anche di negativi, evidenziando «imprecise dichiarazioni inerenti il momento storico in cui ebbe affidato l’incarico, su mandato del capo mandamento di Brancaccio Giuseppe Graviano, di procurare una autovettura Fiat» o come perizie svolte in locali indicati da Spatuzza avessero dato esito negativo rispetto alla presenza di polvere da sparo. Infine, aggiunge Lari, «le dichiarazioni sul ruolo di possibili mandanti esterni sembrano essere troppo generiche e non in grado di fornire utili sviluppi alle indagini». Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera il 30 agosto 2012, il tentativo di Grasso di applicare Ilda Boccassini prese proprio le mosse da queste originarie perplessità della procura di Caltanissetta sull’attendibilità di Gaspare Spatuzza, da queste iniziali divergenze tra la procura nissena e il procuratore nazionale. E, andando a rivedere i giornali dell’epoca, troviamo che tale interpretazione fu data già allora. «L’idea di Grasso e l’implicita risposta negativa confermano tuttavia come intorno alle dichiarazioni del neo-pentito di Brancaccio [...] non ci sia identità di vedute e unità di intenti.» scrive Giovanni Bianconi il 1 giugno 2009 sul Corriere della Sera. Una vicenda vecchia, chiusa, dimenticata nel susseguirsi delle notizie e degli eventi che inghiottiscono nell’oblio anche vicende ben più importanti. A riprenderla e riportarla alla memoria sono Nicola Biondo e Massimo Solani sull’Unità del 22 giugno scorso con un articolo dal titolo "Quando Grasso inviò la Boccassini", mentre il dibattito infuocato sulle telefonate di Mancino al Colle si concentra sulla rivelazione di Panorama dell’esistenza di telefonate intercettate tra Mancino e Napolitano in persona. Ma il vero scoop lo fa Lettera43.it, quotidiano online diretto da Paolo Madron, che a fine agosto pubblica una notizia bomba: nella primavera del 2009 Giorgio Napolitano in persona avrebbe telefonato al procuratore Lari per sponsorizzare la proposta di Grasso e sostenere l’applicazione di Ilda Boccassini alle indagini su via D’Amelio, fornendo - come fa notare Lettera43 - «un’altissima copertura istituzionale all’operazione voluta da Grasso». Copertura istituzionale sì, di fatto si sarebbe trattato di una pressione forte e illegittima sul capo della procura nissena. Re Giorgio avrebbe fatto questa presunta telefonata in quanto presidente della Repubblica, presidente del CSM o in nome di cosa? Nessuna norma prevede tale possibilità, la divisione tra i poteri dello Stato è uno dei capisaldi della nostra Costituzione e il presidente della Repubblica non può intromettersi in inchieste in corso né come capo dello Stato né come presidente del CSM. La notizia comincia a fare scalpore. Piomba nel pieno delle polemiche su altre telefonate di Giorgio Napolitano, quelle con l’ex vicepresidente del CSM Nicola Mancino, e sul conflitto di attribuzione presso la Corte Costituzionale sollevato dal capo dello Stato contro la procura di Palermo e in contemporanea con il falso scoop di Panorama sui presunti contenuti di tali telefonate. La fonte di Lettera43 rimane però anonima e il procuratore Lari si affretta a smentire tutto: «Un anno dopo l’inizio della collaborazione di Gaspare Spatuzza, il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso mi propose l’applicazione della Boccassini alle indagini sulla strage di via D’Amelio. Io risposi dicendo che, pur riconoscendo le grandi doti della collega, ritenevo inopportuna l’applicazione in quanto si era occupata già dell’inchiesta e avremmo dovuto sentirla come testimone. La cosa finì lì. Ma ci tengo a ribadire che né Napolitano né il suo staff si è mai occupato della vicenda». Anzi, afferma Lari, «da Napolitano ho ricevuto solo parole di incoraggiamento, sia in occasione delle commemorazioni, sia quando il presidente ha indicato gli organismi deputati a darci più mezzi per le indagini. E proprio le sue parole utilizzai per chiedere alla Dia più uomini per l’inchiesta.» La smentita del procuratore capo nisseno è netta: «Smentisco categoricamente di avere ricevuto pressioni dal Quirinale sull’applicazione della collega Boccassini a Caltanissetta e, in generale, sulle indagini relative alla ’trattativa’ condotte dal mio ufficio». Anche il procuratore aggiunto Nico Gozzo, come riportato dal Fatto Quotidiano, dà man forte al suo capo e smentisce a sua volta la notizia diramando una nota: «Nessun intervento vi è mai stato da parte del Presidente sulle indagini della Procura di Caltanissetta. Nessuna telefonata. Unico intervento fu, proprio all’inizio delle indagini, un pubblico intervento nel corso delle commemorazioni per l’anniversario della strage di Capaci, quando il Presidente Napolitano perorò un incremento delle unità investigative impiegate per le indagini sulle stragi, proprio sul presupposto della loro importanza. Incremento poi effettivamente avvenuto.» Attenzione alle parole dei due magistrati nisseni. Gozzo è categorico «nessun intervento vi è mai stato», il procuratore capo ancora più preciso: non si limita a smentire con forza la telefonata di Napolitano pro Boccassini, ma aggiunge «e, in generale, sulle indagini relative alla ’trattativa’ condotte dal mio ufficio». Sembra quasi mettere le mani avanti. Come mai? Forse perché quella non è l’unica telefonata che Lari avrebbe ricevuto dal presidente Napolitano di cui si è avuta notizia. Se ne parlò al processo Mori-Obinu in corso a Palermo che vede imputati i due ufficiali del ROS per la mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso nel 1995 e che ha finito inevitabilmente per intrecciarsi con l’indagine sulla trattativa. Il 10 maggio 2011 venne ascoltato il supertestimone della procura di Palermo Massimo Ciancimino, fermato dalla stessa procura appena tre settimane prima per un documento consegnato dal teste nel quale il nome di De Gennaro era risultato falsificato. Il testimone, rispondendo alle domanda del pm Nino Di Matteo, stava ricostruendo gli incontri con l’uomo appartenente agli apparati istituzionali e presumibilmente vicino ai servizi che si era presentato come vecchio amico del padre, Vito Ciancimino, e gli aveva consegnato il documento manomesso, la famosa cartolina con i nomi del quarto livello, insieme ad altri documenti che aveva detto di aver ricevuto a suo tempo proprio dal padre, compreso il documento che avrebbe provato la contraffazione della cartolina. Una trappola per incastrare e screditare il supertestimone che già aveva cominciato a raccontare quanto a sua conoscenza sul potente capo dei servizi segreti ed aveva identificato diversi uomini dei servizi? Difficile pensare ad una spiegazione diversa. Una vicenda rimasta ancora oscura, nonostante Massimo Ciancimino abbia fornito agli inquirenti le informazioni in suo possesso per identificare l’uomo e la procura abbia avviato un’indagine, tanto che al teste fu chiesto in aula di non fare il nome di questo mister X per ragioni di segreto investigativo. Una polpetta avvelenata che ha avuto i suoi effetti tossici anche se non letali, se la procura di Palermo, nonostante la vicenda sia come abbiamo detto ben lungi dall’essere chiarita, ha scelto, in un clima comunque non sereno di continui attacchi mediatici e indagini del Csm, di chiederne il rinvio a giudizio per il reato di calunnia ai danni di De Gennaro nello stesso processo sulla trattativa in cui lo stesso Ciancimino sarà il teste chiave dell’accusa. Torniamo a quella mattina del 10 maggio 2011. Grande attenzione mediatica c’è intorno all’aula del secondo piano di Palazzo di Giustizia dove si sta tenendo la deposizione di Massimo Ciancimino. Il testimone, come abbiamo detto, risponde alle tante domande del sostituto procuratore Nino Di Matteo, che vertono su vari argomenti, sta ricostruendo i suoi incontri con quello che per semplicità, non potendo farne il nome in dibattimento, viene ribattezzato come Mister X. Il dott. Di Matteo chiede: «Quando e dove avvengono gli ultimi incontri?». Il teste risponde: «Sempre al Cafè de Paris a Bologna. L’ultimo incontro è quando lui mi informa che c’era stata la telefonata personale di Napolitano al procuratore di... alla procura di Caltanissetta per la mia iscrizione per calunnia e anche sul fatto che la vicenda quella legata... di Verona delle intercettazioni uscite così veloci era stata tutta una manovra fatta da De Gennaro tramite lo SCO per delegittimarmi.» Nessuno si sofferma su quella frase riguardante Napolitano, né il pubblico ministero (che però ne era evidentemente già a conoscenza), né il presidente Fontana, né tanto meno gli avvocati degli imputati. Ma l’udienza viene registrata e trasmessa da Radio Radicale e i giornali (Repubblica.it, Corriere della Sera, Giornale di Sicilia e pochi altri) ne scrivono nelle cronache dell’udienza. La notizia però non fece scalpore, forse pochi colsero l’importanza della cosa, che tra l’altro si collegava ad altre indiscrezioni su pressioni istituzionali che sarebbero state fatte sulla procura di Caltanissetta per ottenere l’incriminazione di Massimo Ciancimino per il reato di calunnia ai danni di Gianni De Gennaro, cosa che di fatto avvenne improvvisamente il 6 dicembre 2010, quando, dopo giorni di voci sui giornali, a Massimo Ciancimino fu notificato in tarda serata un avviso di garanzia, ad oltre due mesi dall’interrogatorio che gli veniva contestato (svoltosi il 28 settembre). Senza ancora nessun documento risultato alterato. Con in più la contestazione del reato di calunnia anche ai danni di un altro uomo dei servizi segreti, Lorenzo Narracci (entrato in qualche modo e sempre uscito indenne un po’ in tutte le indagini riguardanti le stragi del ’92-’93), di vari episodi di rivelazione di segreto di ufficio e (cosa che a molti apparve singolare) di favoreggiamento al sig. Franco. L’annuncio fu clamoroso: non sentiremo più Ciancimino, abbiamo solo perso due anni di tempo. Per la prima volta le divergenze con la procura di Palermo, di cui da tempo si vociferava, venivano allo scoperto. Il tutto avveniva in una strana e singolare concomitanza con la pubblicazione di un articolo che ricostruiva in modo alquanto discutibile alcune intercettazioni ambientali dello stesso Ciancimino registrate appena pochi giorni prima ad opera della squadra mobile di Reggio Calabria di Renato Cortese, dello SCO diretto da Gilberto Caldarozzi e della procura reggina di Giuseppe Pignatone. Un’altra polpetta avvelenata, stavolta mediatica, per screditare e delegittimare il supertestimone agli occhi dell’opinione pubblica. L’effetto mediatico della doppia notizia fu enorme e devastante. Ci fu o non ci fu quella telefonata di re Giorgio a Lari? All’epoca, nonostante le notizie stampa ne avessero parlato e la cosa fosse emersa in un pubblico dibattimento, nessuno smentì, né dall’Alto Colle né dalla procura nissena. Oggi però, quando tutto appare dimenticato, Lari assicura: «mai nessuna telefonata da Napolitano.» Sarà. Intanto troppi misteri, troppe voci, troppe notizie soffocate si infittiscono intorno a queste indagini. Come dimenticare ad esempio le intercettazioni emerse nel giugno dello scorso anno (quindi circa un mese dopo la deposizione di Massimo Ciancimino al processo Mori) nell’ambito dell’inchiesta della procura di Napoli su Luigi Bisignani e la cosiddetta P4: intercettati ad ottobre 2010, il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro e il faccendiere piduista discutevano delle accuse di Massimo Ciancimino a De Gennaro e Narracci e di una riunione del Copasir presieduto da D’Alema in cui si doveva discutere di tali dichiarazioni. Ricordiamo che parliamo di indagini coperte da segreto, di verbali, quelli di Massimo Ciancimino, che erano stati secretati. Ascoltato dai pm il 23 febbraio 2011 Pecoraro ha spiegato quelle telefonate: «Io e il Bisignani facciamo riferimento alla vicenda inerente alle dichiarazioni del figlio di Ciancimino su De Gennaro e su Narracci, e cioe’ al fatto che il Ciancimino avesse detto che il signor Franco di cui si parlava nel noto papello era il mio amico Gianni De Gennaro; nella conversazione io dico al Bisignani di aver appreso che il Copasir avrebbe trattato e messo all’ordine del giorno tale argomento». Il prefetto ha poi dichiarato: «Quella era una chiacchierata tra amici. Io sono stato capo di gabinetto di De Gennaro e quello con Bisignani era uno sfogo. Ormai assistiamo a un impazzimento generale e, in quel caso, io non potevo accettare che si gettasse fango sulla figura di De Gennaro». Alla richiesta dei magistrati su come e da chi avesse saputo che il Copasir si sarebbe occupato delle dichiarazioni di Ciancimino su De Gennaro, Pecoraro risponde: «In questo momento non sono in condizione di dire da chi io abbia appreso della presunta iniziativa del Copasir». Quindi mentre le inchieste andavano avanti e Massimo Ciancimino continuava a rendere delicate dichiarazioni e consegnare documenti riguardanti De Gennaro ma anche altri uomini dei servizi segreti, il Copasir da una parte e Luigi Bisignani con il prefetto Pecoraro dall’altro affrontavano la questione, mentre sono emerse anche voci riguardanti riunioni a margine di un Consiglio dei ministri. L’impressione è che le dichiarazioni di Massimo Ciancimino su De Gennaro e il possibile coinvolgimento nell’inchiesta sulla trattativa di quello che all’epoca era il direttore del DIS, cioè il capo dei servizi segreti, abbiano provocato un terremoto all’interno degli apparati istituzionali e paraistituzionali. Queste voci, queste mezze notizie si accavallano con le documentate telefonate tra il consigliere di Napolitano Loris D’Ambrosio e Mancino, con la lettera del Quirinale al Procuratore Generale della Cassazione per chiedere un intervento sulla procura di Palermo, tutte cose che abbiamo letto sui giornali in questa rovente estate. Cose venute fuori per puro caso, perché Mancino era stato messo sotto intercettazione. Così come per puro caso sappiamo per certo che Napolitano ha parlato anche personalmente con Mancino almeno quattro volte e, se non possiamo conoscere il contenuto di quelle telefonate, a giudicare dalla reazione del Colle che ha ottenuto proprio in questi giorni un controverso e discusso verdetto favorevole da parte della Consulta al conflitto di attribuzione che aveva sollevato, possiamo ipotizzare che Napolitano abbia ragione di temere la fuoriuscita del contenuto di tali telefonate, che anche se non penalmente rilevanti potrebbero essere quantomeno imbarazzanti. Una sola certezza abbiamo: che le inchieste sui misteri del ’92-’93, sull’infame trattativa e sulle stragi che la accompagnarono hanno messo in fibrillazione i più alti livelli istituzionali del nostro Paese. E che ingerenze ci sono state. Anche ben prima delle telefonate di Mancino al Quirinale.

MAFIA E SPAGHETTI. L’ITALIANO VISTO DAGLI ALTRI. MAFIA ED IDEOLOGIE, AUTOLESIONISMO ALL’ITALIANA. DELLA SERIE: FACCIAMOCI DEL MALE.

«Quando non si ricorda il mio nome mi chiama "mafia" e quando non trova uno straccio si asciuga le mani nella mia maglietta».

Racconta Gabiele Macchi a “La Provincia di Varese”. Gabriele Macchi, varesino di 19 anni, è immigrato in Australia e lavora in un ristorante indiano, ma il triste marchio "made in Italy" non lo abbandona e fa infuriare i genitori. L'esperienza degli italiani all'estero non è sempre rose e fiori come quella che si sente raccontare da chi «ce l'ha fatta». Da chi ha attraversato le Alpi o l'oceano e fortunatamente ha trovato un lavoro che gli piace, con uno stipendio più che dignitoso e un luogo incantevole dove vivere senza sentire troppo la nostalgia dei familiari. A volte i nostri ragazzi, che vanno all'estero per avere di più, devono cominciare dal basso e sopportare quello che Gabriele racconta al padre, quando si sentono su skype. Il papà è Luca Macchi, presidente del consiglio provinciale di Varese, che ha affidato a Facebook il suo sfogo, dopo il racconto del figlio: «Quando ho sentito che il capo lo chiamava "mafia" non ho capito più niente». Gabriele è un ragazzo con la testa sulle spalle, che a 19 anni ha chiesto ai genitori di passare un anno sabbatica in Australia. «È partito con le migliori intenzioni e sta facendo lavori dignitosi con cui si mantiene - spiega Macchi - Niente a che vedere con la mafia. E poi mi dà un tremendo fastidio l'immagine dello schiavo che emerge dai racconti di mio figlio. Noi che in Italia ci impegniamo tanto per fare integrazione, per accogliere gli ultimi e i bisognosi, poi ci troviamo all'estero ad avere a che fare con persone di questo genere». Il titolare del ristorante dove lavora Gabriele, in questo caso. «E pensare che quando è partito sono stato io a fargli un sacco di raccomandazioni - aggiunge - Gli ho detto di rispettare tutti, di essere sempre gentile ed educato. Invece è lui ad essere maltrattato». Non tutte le brutte esperienze sono negative però. «Mi sono arrabbiato, ma credo che anche questo lo aiuterà a crescere e gli servirà da lezione».

A tutto questo il grande Leonardo Sciascia ha cercato di porre rimedio. E’ stato il primo a trattare l’argomento “mafia” come è lecito che venga trattato: una devianza criminale e criminogena di cui nessuno può essere distolto in un contesto astruso, essendo insita nel gene italico. I suoi scritti come pennellate di uno scrittore. Sulla carta l’immagine di una realtà storica da tutti osteggiata.

L’immagine riportata da un’artista senza animo e genio corrotto. La sua colpa, però, è stata quella di non essere fazioso o partigiano. Il vero antimafioso per antonomasia, quindi, è stato bistrattato ed emarginato da tutti coloro che pretendevano da lui di accusare il loro avversario politico di mafiosità.

Basta mafia e illuminismo, Sciascia è un vero poeta. Il volume che ne raccoglie la produzione narrativa dà la sua esatta dimensione di artista: nel lettore instilla dubbi, non certezze, scrive Bruno Giurato su “Il Giornale”. Oggetto tagliente, oscuro, pericoloso da maneggiare, Leonardo Sciascia. Da circa sessant'anni l'intelligenza italiana cerca di incasellarlo in una definizione: «illuminista», «scrittore civile», garantista a oltranza, o addirittura mitizzatore della mafia. E sono circa sessant'anni che i tentativi di definire (e farla finita con) lo scrittore di Racalmuto falliscono. Spesso con scorno di chi aveva polemizzato con lui: oggi, come notò Pierluigi Battista in un articolo sul Corriere del 2009, sarebbero in molti a dovergli chiedere scusa, cominciando da quelli che, al tempo della sua polemica con i cosiddetti «professionisti dell'antimafia», lo massacrarono: da Eugenio Scalfari che lo considerava esempio del tradimento degli intellettuali, al coordinamento antimafia che lo definì con le parole del boss de “Il giorno della civetta”: «un quaquaraquà». Per non parlare di chi se la prese a morte per il suo addio al Pci. Il fatto è che, a dispetto degli intellettuali più o meno organici, Sciascia con le prese di posizione ideologiche, se non politicamente strumentali, c'entra nulla. L'idea si rafforza leggendo l'edizione Adelphi delle opere, curata da Paolo Squillacioti: 2000 pagine per un volume dedicato allo Sciascia narratore, autore teatrale, poeta e traduttore di poesia. Seguiranno altri due volumoni, centrati, rispettivamente, sullo Sciascia pamphlettista e autore di «Inquisizioni» alla Borges, e sulla saggistica letteraria, storica, artistica, «civile». L'edizione adelphiana arriva dopo quella curata per Bompiani da Claude Ambroise, e comprende diversi scritti poco noti e dispersi. Ora, se è vero che in Sciascia non si dà narrazione senza saggistica e viceversa, far ruotare il prisma Sciascia in modo da metterne a fuoco il lato fictionist serve a svelare alcuni gangli poco considerati, ma fondamentali. Per esempio, appunto, lo Sciascia poeta. Fino al 1952 la poesia per Sciascia è stata «il grezzo della prosa», poi la produzione in versi si è andata rarefacendo. Lo scrittore di Racalmuto, oltre a scrivere poesie in proprio ha anche tradotto dall'inglese e dallo spagnolo: da Walt Whitman a García Lorca. Il volume curato da Squillacioti riporta, oltre a diverse traduzioni, una sezione di poesie disperse, tra cui l'inedita “L'ora” riporta tortore dal fiume, in cui il piglio quasi fauvista (è il giudizio di Pasolini sulla lirica sciasciana) cede all'inclinazione tragica: «e giungono improvvise/ un frullo d'ali che s'annoda alla botta dello schioppo/ la feroce allegria del nostro occhio/ del cuore per un attimo sospeso/ a un vertice di morte». Ed è ancora la vena pessimista che spicca in un articolo pubblicato nel 1981 su un numero dell'Espresso dedicato alla P2 di Licio Gelli, il Dialogo tra Candido e l'Inquisitore.

E attenzione, siamo di fronte a un confronto simbolico, i cui antecedenti ritroviamo in Voltaire e Dostoevskij: la fiducia nella razionalità del mondo (Candido) contro l'Inquisitore, che qui tesse un grande elogio del potere grigio, «il mio colore. Il colore che si addice all'invisibilità». E già che ci si trova in tema, il lettore può tornare a leggersi il racconto Candido. Un sogno fatto in Sicilia, e notare che rispetto all'originale di Voltaire (fulminante, quasi fumettistico, esempio di marketing filosofico-illuminista), l'autore siciliano sembra confezionare una parodia nera. A cominciare dal protagonista che avrebbe dovuto, nelle intenzioni del padre, chiamarsi non Candido ma Bruno, in onore del figlio scomparso di Mussolini. Rileggendo le novelle di Sciascia (classici come “Il contesto”, “Il consiglio d'Egitto” e soprattutto “A ciascuno il suo” e “Il giorno della civetta”) certe volte si ha la sensazione che l'autore abbia usato le forme narrative illuministe (brevi e documentate) per svuotarle dall'interno, realizzando un'osmosi fatale verso il noir umoristico. Risultato artistico straordinario e inquietante, ma abbastanza inutile per chi crede in una qualsivoglia ideologia «progressiva». Altrettanto irresistibile il realismo cinico del mafioso don Mariano Arena nel Giorno della civetta, secondo il quale l'umanità è «un bosco di corna (...) E sai chi se la spassa a passeggiare sulle corna? Primo (...) I preti; secondo: i politici, e tanto più dicono di essere col popolo tanto più gli calcano i piedi sulle corna; terzo: quelli come me». Ricordiamo che per pagine del genere Sciascia è stato accusato di avere mitizzato la mafia. E fu lo stesso Totò Riina, durante un'udienza di un processo, ad affermare che i mafiosi in carcere lo leggevano. Il fatto è che Sciascia si è permesso un lusso quasi inaudito in Italia. Non essendo né un chierico né un clericale-laico, non regala soluzioni, non elargisce consolazioni. I suoi libri rifilano il lavoro di sintesi alla coscienza, buona o cattiva, del lettore. Sciascia ha fatto quel che ha da fare qualsiasi vero artista: regalare dubbi, e paura, a futura memoria.

Perché dei nostri politicanti bisogna solo dubitarne in quanto LA MAFIA VIEN DALL’ALTO.

L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE.

Qui si vi presenta Don Ciotti, che agli occhi della gente, mediaticamente strabica, è il simbolo dell’antimafia militante e partigiana. Per tutti non è Leonardo Sciascia l’icona dell’antimafia, ma è un prete venuto dal nord. Si presenta con una sua intervista resa a Fabrizio Ravelli pubblicata su “La Repubblica”. Per fare corretta informazione bisogna che all’auto biografia si presenti il contraltare della biografia non autorizzata, ossia quello che su di lui dice chi ne conosce le più nascoste virtù o i più sordidi vizi. E’ importante conoscere colui il quale, di fatto, con la sua rete di associazioni e comitati che fanno capo a “Libera” e tutti vicini alla CGIL, ha il monopolio delle assegnazioni dei beni confiscati ai cosiddetti mafiosi, quindi un bene comune da condividere anche con chi non è di sinistra e non santifica i magistrati. Tra i tanti non appartenenti all’antimafia di regime troviamo il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul tema dell’antimafia truccata ha scritto un libro “Mafiopoli. La mafia vien dall’alto. L’Italia delle mafie che non ti aspetti”. Libro inserito nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Va giù pesante Antonio Margheriti “Mastino” con un suo articolo pubblicato su “Papalepapale”. Si prendono le distanze dal tono dissacrante e satirico, a volte sprezzante, ma non diffamatorio, ma si condivide il contenuto di fondo, per questo, per diritto di critica e di cronaca, è indubbio che non si può tacere quello che altri non dicono, specialmente se lo scritto è il contraltare ad una intervista che racconta una verità personale.

Don Ciotti, prete di lotta e di governo: "Ho cominciato sui treni dei disperati". Incontro di Frabrizio Ravelli con il fondatore di Libera: "Il vescovo mi disse: affido a Luigi una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada. Don Luigi Ciotti è uno di quei preti lottatori che non mollano mai, che trovi per strada e non in sacrestia, che dà del tu a tutti (anche nel primo incontro con l'avvocato Agnelli, che non fece una piega). Il Gruppo Abele lo conoscono tutti. La sua vita, un po' meno. Si incontrano una maestra nervosa, un medico disperato, un vescovo coraggioso, e tanti altri. Conta molto che Ciotti sia un montanaro.

Montanaro veneto, no?

«Sì sono nato a Pieve di Cadore nel '45, ed emigrato in Piemonte con mio padre, mia madre e le mie sorelle per la ragione che nel dopoguerra spinse migliaia e migliaia di persone ad andare a cercare altrove la dignità di lavoro, la speranza».

E te ne sei andato a cinque anni.

«Mi ricordo l'impatto traumatico con la città di Torino, perché mio padre aveva trovato lavoro ma non aveva trovato casa. E quindi la nostra casa è stata la baracca del cantiere del Politecnico di Torino. Mio padre lavorava nell'impresa che ha costruito la parte più vecchia. Quegli anni hanno segnato la mia vita insieme con la baracca, il cantiere, le facili etichette che la gente ti mette perché tu vivi dietro uno steccato. Un pensiero sempre sbrigativo, che generalizza, e che tuttora resta una delle ferite aperte. Mio padre era muratore, poi è diventato il capocantiere, il capomastro».

A Torino da immigrato che viveva in una baracca.

«Sì, la baracca del cantiere. Dignitosa. Una delle cose che mi ricorderò sempre come un avvenimento è di quando una volta all'anno andavamo a comprare la carta da zucchero, quella blu, poi con le asticelle di legno che papà tagliava dalle assi attaccarla al soffitto. Era festa, festa in famiglia. Certo, il gabinetto era una baracca all'esterno. Però ho alcuni dei ricordi belli della mia infanzia. Il padrino della cresima che ho fatto nella parrocchia lì vicino era il gruista, Paolo il gruista. Eri un po' coccolato dagli operai. Poi venne la drammatica sera, credo fosse proprio un tornado che buttò giù i 42 metri della Mole Antonelliana, fece saltare tutti i tetti della Grandi Motori, e ci portò via gran parte della baracca. Ricordo la mia mamma che ci teneva stretti, un po' disperata. Volò via un pezzo di tetto, e il gabinetto lì vicino, che era fatto di assi».

E com'eri tu, bambino della baracca?

«L'altro ricordo è quello legato alla mia esperienza scolastica in prima elementare. Io dovevo andare a scuola in quel territorio, nella zona ricca di Torino. E avvenne un fatto che mi ha segnato molto. Questa scuola, la Michele Coppino, aveva un regolamento: tutti con il grembiule. Mia madre andò dalla maestra a dire che non era in grado di comprare il grembiule e il fiocco per me, perché aveva dovuto comprarlo alle mie sorelle, e non c'erano soldi. Quindi disse: per un mese manderò mio figlio a scuola senza il grembiule. Sai, tu puoi essere povero ma dignitoso, la dignità di andare a dire: guardi, non ce la faccio. Quindi io mi son trovato a essere diverso, dentro una scuola dove tutti avevano questo benedetto grembiule e questo fiocco interminabile, e tutti che ti chiedevano come mai tu non avevi il grembiule. Tu ti senti diverso, ti senti etichettato, ti senti giudicato. Al punto che quando qualcuno mi chiedeva dove abitavo, io non dicevo che abitavo dietro quello steccato, ma in un palazzo».

Finisce che il diverso si ribella.

«Dopo venti giorni di prima elementare, e io che già mi sentivo diverso e in difficoltà, la maestra è arrivata a scuola quel giorno nervosa, magari aveva litigato col marito. E mentre in fondo alla classe i miei compagni ridevano e scherzavano, lei non se l'è presa con loro, ma se l'è presa con me, che ero il più vulnerabile, il più visibile, mi aveva anche messo al primo banco. E io devo averle detto: ma che cosa vuoi, non c'entro niente. Lei chissà cosa ha capito, e le è scappata un'espressione che per me è stata una ferita: ma cosa vuoi tu, montanaro? Detto quasi con disprezzo. I miei compagni tutti a ridere, e quindi mi sentivo ancora più umiliato da quella affermazione. Allora io ho tirato fuori il calamaio dal banco, uno di quei vecchi banchi di scuola, e gliel'ho tirato. L'ho colpita in pieno. Espulso subito dalla scuola, dopo venti giorni. Portato a casa da un bidello. Io non l'ho mai più incontrato, ma mi ricordo quella mano che mi portava a casa, e io piangevo perché sapevo di avere sbagliato e perché sapevo che mi aspettava una punizione, e mia madre me la diede sonora. Anche se anni dopo mia madre mi disse: Luigi, io lo sapevo che tu avevi difeso la nostra dignità, però non si fa a questo modo. Il vero problema venne quando i miei compagni uscirono di scuola alle 12,30 - io ero già espulso - e avevano qualcosa di nuovo da raccontare ai genitori o alla cameriera. Lo sai mamma cosa è successo oggi a scuola? Dimmi, cicci. Un nostro compagno ha tirato il calamaio alla maestra. Ah, povera maestra. E come si chiama quel compagno? Ciotti. Guai se ti vedo con quel compagno. Sono diventato il compagno cattivo».

Montanaro, e ribelle.

«Meno male che frequentavo la parrocchia. Andavo lì, eravamo un gruppetto, nella parrocchia di questo quartiere molto ricco di Torino. E' stato per me un momento importante, quando la tua vita viene segnata da quelle etichette. L'altro episodio che mi ha segnato è successivo, io dopo le medie andrò a scuola per prendere il diploma di radiotecnico, e lì avviene l'incontro con un signore su una panchina. Un disperato, che mi aveva colpito, perché io passando col tram lo vedevo sempre lì a leggere libri, sottolineando con una matita rossa e blu. Io avevo 17 anni, con gli entusiasmi e le fantasie di quell'età. Un giorno sono sceso dal tram, sono andato lì e gli ho detto: vuole che vada a prenderle un caffé? E lui niente. Torno alla carica: vuole un té? Lui zitto. Penso, sarà sordo, ma mi accorgo che non lo è. Era un medico, amato e stimato dalla gente, ed era successa una vicenda drammatica nella sua vita, che l'aveva portato su quella panchina. Era andato ubriaco in sala operatoria, e aveva provocato la morte di una donna, la moglie di un amico. Poi era uscito di testa, stava male. Però studiava ed era curioso. Dalla panchina lui vedeva dei ragazzi al bar di fronte, che entravano e uscivano - allora non c'era l'eroina - prendevano delle amfetamine, ci bevevano dei superalcolici e sballavano, facevano la bomba. Un giorno, quando alla fine nasce un rapporto fra me e lui, anche se stentato, mi dice: vedi, dovresti fare qualcosa per quei ragazzi. Lui era un uomo disperato e sofferente, morirà pochi mesi dopo. E io mi sono detto: questo incontro non sarà un incontro qualsiasi. Mi ha indicato una strada. Anche questo episodio ha lasciato un graffio nella mia vita».

E poi?

«Poi sono andato a vivere da solo. Ho fatto un gruppetto. Poi nasce il Gruppo Abele, che a Natale ha compiuto 45 anni. Io in seminario andrò dopo, avevo già il Gruppo Abele, avevo una storia dietro. Avevamo cominciato ad andare sui treni, dove i disperati senza casa dormivano: i treni arrivavano caldi. Ho pensato, caspita io incontro questa gente fuori, facciamo delle cose insieme, non li lascio soli. A volte la mattina eravamo così stanchi che il treno partiva, e ci trovavamo a Chivasso. Passavano i controllori, te la davi a gambe. Perché sai, se parli a tavolino non capisci questi mondi. E lì nasce la storia del Gruppo Abele, nasce sulla strada, poi le prime comunità, il lavoro al Ferrante Aporti, la casa di rieducazione del Buon Pastore. Le prime comunità in alternativa a quelle strutture. Una storia che è cresciuta, e che non è un Luigi Ciotti, è un noi: ho fatto questo perché l'ho fatto con altri. Io difendo questo noi, vuol dire che non è opera di navigatori solitari. E quando verrò ordinato sacerdote dal cardinale Michele Pellegrino, grande vescovo che si faceva chiamare padre, in una chiesa zeppa di mondo di strada, alla fine di quella celebrazione non volava una mosca, lui guardò tutti questi ragazzi e disse: Luigi è nato con voi, è cresciuto con voi, e io ve lo lascio. Però affido anche a lui una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada».

Michele Pellegrino, insigne grecista, vescovo coraggioso e innovatore.

«Lui veniva da noi. Ai nostri campi in montagna. Venne una volta e c'erano tutte le ragazze del mondo della prostituzione. Lui ascoltò e poi mi disse: quando hai una sera libera vieni a cena da me, tu mi hai aperto una finestra e io voglio capire di più questo mondo. Non giudicava, non semplificava, voleva capire. Un anno dopo andrà a celebrare il Natale con le prostitute del centro storico di Torino. Uno che non si è mai tirato indietro. E sarà lui quello che prenderà posizione quando il quotidiano La Stampa farà la grande campagna per ripulire la città dalle prostitute. La redazione si spaccò in due, per quella iniziativa di legge popolare. E lui fece quell'omelia nella notte di Natale, nel duomo di Torino, partendo dal Vangelo di Giovanni, e pose delle domande sulle cause, non solo sulle donne costrette a prostituirsi ma anche sui clienti, sulla prevenzione. Tu immagina un cardinale che fa questa omelia nel duomo, e si mette contro il quotidiano della città che raccoglieva firme. Pensa che venne Gina Lollobrigida con l'aereo per mettere la firma, e Claudio Villa il reuccio della canzone italiana. E poi la tenda di Porta Nuova, era il 1973, ti faccio vedere le foto con lui: disadattati e delinquenti non si nasce ma si diventa. Quando abbiamo preso posizione contro le carceri per minorenni, perché fossero solo l'extrema ratio, e si cercassero soluzioni diverse. Il Gruppo Abele cominciò un lavoro dentro le carceri, siamo andati dentro a vivere».

Dentro le carceri?

«Sì, a Roma al ministero c'era un direttore dell'Ufficio quarto, Umberto Radaelli, che ebbe l'intuizione e ci portò dentro. E dodici di noi hanno vissuto in carcere: fu la prima esperienza grande in Italia, di condivisione e di progetto dentro il carcere dei minorenni, qui al Ferrante Aporti. Poi a Roma qualcuno si agitò, fu costruita ad arte tutta una cosa per bloccare questa sperimentazione. Noi uscimmo facendo una denuncia, e Pellegrino verrà a quella denuncia del sistema, e con accuse false fummo messi sotto inchiesta col direttore, che fu sospeso. Noi uscimmo, ma dieci anni dopo quello diventò il grande progetto Ferrante Aporti. E una volta dimostrata la falsità delle accuse il direttore Antonio Salvatore fu promosso andò al Beccaria di Milano, e ne divenne il grande direttore. Ma la sua storia cominciò qui, con quell'atto di coraggio che abbiamo condiviso, con lui e con Umberto Radaelli».

Un momento indietro. Quando già c'era il Gruppo Abele sei andato in seminario.

«Sì, sono andato in seminario qui a Rivoli, uscivo ed entravo. Il cardinale Pellegrino capì che era un servizio per i poveri, per gli ultimi, per quelle fasce dimenticate. Il Gruppo Abele fu il primo in Italia ad aprire un centro droga sulla strada, trovando un gruppo di magistrati che avevano capito che la legge era un mostro giuridico. Noi ci siamo autodenunciati per aprire il centro droga. La legge stabiliva che tu dovevi denunciare, e le strade erano due: o il carcere o l'ospedale psichiatrico. Noi abbiamo aperto in via Giuseppe Verdi a Torino, giorno e notte, dove arrivava un sacco di gente anche per essere accudita, per mangiare e per dormire. Davamo i primi supporti in una città che negava l'esistenza di quel problema, che diceva fosse poca cosa. In due anni quattromila persone arrivarono, perché non c'era nulla, quindi si andavano ad aggrappare dove trovavano dei riferimenti. La città comincia a prendere coscienza, noi cominciamo a fare la battaglia politica per avere una legge diversa, che sfocerà nello sciopero della fame del '75 in piazza Solferino, che porterà il Parlamento italiano a far la legge con cui nascono i Sert, nascono i servizi. Pellegrino sarà presente in tutti questi momenti».

Poi quando succedono cose come la spedizione punitiva contro un campo rom ti cadono le braccia.

«Sì, io l'ho detto, sono stato lì. Mi sono stancato di sentir parlare di emergenze in questo Paese. Queste non sono emergenze, sono percorsi che si sono consolidati nel tempo. E se c'è uno sgombero da fare nel nostro Paese è lo sgombero dei pregiudizi, dell'ignoranza, della non conoscenza. Questo dei rom è un popolo che ha voglia di vivere, un popolo gioioso, un popolo poetico. Che dev'essere aiutato a poter vivere delle condizioni di legalità. Questi vivono la terra di nessuno. Non si può parlare di emergenza. Io mi arrabbio quando si scopre con un misto di sorpresa e di vergogna che la miseria, la segregazione, la discriminazione, la violenza sono un problema anche nostro. Qui a Torino è avvenuta un'aggressione razzista, spiace doverlo dire, una vendetta. Ci sono belle esperienze concrete che dimostrano come l'accoglienza e le regole possono mettersi insieme. Qui a Settimo, come a Reggio Calabria per la raccolta dei rifiuti. Noi ne abbiamo assunti alcuni: vai a rubare il rame, e allora vieni qui a lavorare il rame. Si guadagnano la pagnotta in maniera onesta».

A un certo punto hai cominciato a occuparti di terroristi che stavano in galera.

«Da me venne una figura stupenda, padre David Turoldo. E mi disse: dobbiamo fare qualche cosa per dare una mano a sbrogliare questa situazione, nel rispetto della legalità. Così ho accolto diversi di loro, alcuni sono ancora qui, a una condizione: che si mettessero in gioco, che lavorassero. Che ci fosse, nel rispetto dei percorsi della giustizia, un cambiamento dentro le persone. Il paradosso, se così si può dire, è che in questo settore lavorava come volontario il procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli. Coordinava un gruppo, e si trovava a lavorare con quelli che aveva mandato in galera. Cose che sono successe in questo Gruppo Abele. Come il fatto che oggi accompagniamo in grande silenzio storie di testimoni di giustizia, nella lotta alla criminalità e alle mafie».

E poi nella tua vita entra la mafia.

«E' stata una serie di tappe. A Torino è nato il coordinamento delle comunità di accoglienza. Poi quando scoppia il problema Aids nasce la Lila, la lega per la lotta all'Aids, e io sono stato il primo presidente. Dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, mi sono chiesto: noi continuiamo a dare una mano ai giovani vittime delle dipendenze, alle ragazze sfruttate dalla prostituzione, ma chi guadagna dietro a questi? E ti dici: continuiamo a stare sulla strada, a lavorare all'accoglienza, però il problema della mafia attraversa tutto il nostro Paese. E quindi nasce Libera, per mettere insieme tante esperienze, per creare un fermento sociale. Ci chiediamo: cos'è che bisogna portare via a questi signori, i mafiosi? Il denaro, i beni, era il sogno di Pio La Torre, ma lo ammazzeranno quattro mesi prima che si facesse la legge. Però quella confisca dei beni mafiosi, che non parlava ancora di uso sociale, non funzionava, così raccogliamo un milione di firme per una legge ad hoc. E oggi ci sono più di quattrocento associazioni in Italia che gestiscono questi beni e li utilizzano. Cooperative che sono partite autofinanziandosi, tirando la cinghia, andandosi a cercare i soldi da sole. Una storia meravigliosa nata dal basso, dalla gente stufa di essere mortificata. La vendita dei beni mafiosi può esistere, ma dev'essere l'eccezione, non un dogma. Così come ho sentito che ci sono delle proposte: vendiamoli tutti e diamo il ricavato allo Stato. No, perché è uno schiaffo per il mafioso vedere i giovani che arrivano sulla tua terra, quella terra con cui hai gestito il tuo potere, la tua forza. E che sia uno schiaffo si vede dagli attentati. Quest'estate ci hanno fatto fuori trentacinque ettari di grano. Hanno bruciato olivi secolari in terra di Calabria. Distrutto impianti in provincia di Latina. Tagliate le pompe dell'acqua in un altro territorio. Eppure si è andati avanti, non s'è mai fatto un passo indietro, s'è dato lavoro a tanti giovani. Oggi qualcuno vorrebbe impossessarsene, tutti i giorni leggiamo di confische di denaro che non si sa dove finisca. Secondo me quel denaro liquido deve servire per i testimoni di giustizia, e per il risarcimento alla vittime di mafia».

Che vita fai, ti tocca correre di qua e di là come una trottola?

«Abbastanza. Ma vivo qua nel gruppo, in questa ex-fabbrica. Poi c'è il gruppo che dà lavoro a seicento persone. La mia vita è qui: stare con la gente è per me la cosa più importante e fondamentale. Poi s'è creata una rete di comunità, il lavoro di strada, il drop-in, il settore culturale, la casa editrice, la rivista Narcomafie, un centro di documentazione e ricerca, la sede dell'università della strada per la formazione degli operatori. Qui c'è tutto il lavoro per le vie di fuga che facciamo per la tratta e la prostituzione, le ragazze vengono nascoste e reinserite, in luoghi protetti perché questi le cercano. Per me l'accoglienza è fondamentale, se viene meno il faccia a faccia con le persone perdi la vita. Poi c'è Libera».

Un'ultima cosa. In questo Paese si parla del volontariato, straordinario e meritevole, come di un alibi per chi non fa niente. Non ti manda in bestia?

«Lo dico da sempre, mi auguro che ci sia meno solidarietà e più giustizia. Non verrà mai meno l'attenzione agli altri, l'accoglienza, la relazione. Però noi non possiamo diventare i delegati a occuparsi dei poveri e degli ultimi. Noi continueremo a occuparcene, perché non abbiamo mai chiuso la porta in faccia a nessuno. Ma in questo Paese, oggi, il sociale è mortificato: chiudono cooperative, chiudono associazioni. E si dimentica che la solidarietà è indivisibile dalla giustizia, non si deve dare per carità quello che spetta alla gente per giustizia. Guai se diventiamo il tappabuchi. Abbiamo anche il dovere della denuncia seria e documentata, il dovere di chiedere conto alla politica. E se è lontana dalla strada, dai problemi della gente, dalla sua fatica, allora la politica è lontana dalla politica. C'è un problema di democrazia nel nostro Paese, è una democrazia pallida che non ha senso di responsabilità».

Posizione antitetica ed aspramente critica sul personaggio pubblico è quella di Antonio Margheriti “Mastino” che, nel suo articolo,  definisce Don Ciotti come il prete da marciapiede: don Ciotti. Dolce&(volta)Gabbana e antimafia delle chiacchiere. Sottotitolo: riflessioni cattoliche a partire dall’attentato di Brindisi.

L’articolo è diviso in Paragrafi:

Siamo tutti “addolorati” col culo degli altri;

Il figlioccio di Michele Pellegrino, il cardinale rosso;

Ladri benefattori e derubati ladri. Una storiella su don Ciotti;

Il Dolce&(volta)Gabbana della Chiesa: Ciotti, il cappellaio… ops… cappellano delle mode;

Il radical-ciottismo porta infine laddove dall’inizio era stabilito dovesse portare: alla religione civile;

Diffidate dei preti pieni di patacche;

La mosca sarcofaga;

Il silenzio se non ti “uccide”, ti evita molte figure di merda;

Ciotti grida “è mafia!”. Ma i giudici chiedono aiuto proprio alla mafia;

Se per l’inchiesta Jacini al Sud “tutto è Africa” per Ciotti “tutto è mafia”;

Ciotti si scusa: gli è scappata una parolaccia: ha citato Gesù;

Dio, il Grande Sconosciuto d’Occidente;

“Ho visto pezzetti di carne sparsi”. Ma l’ha colpito solo “un quaderno di educazione civica”;

Sostituire il Decalogo con la costituzione, il confessore col magistrato;

“Non importa chi è Dio, ma da che parte sta”. Il mancato leader socialista;

Quegli studenti che marciano per marinare la scuola lecitamente: senza fantasia, senza sincerità;

E’ politicamente scorretto dire “la mafia non esiste”, anche se è vero che non esiste;

La vera mafia che pretende omertà è quella del professionismo dell’antimafia delle chiacchiere;

Dio è lui, don Ciotti. E “Libera” è il suo corpo mistico, la sua chiesa.

SIAMO TUTTI “ADDOLORATI” COL CULO DEGLI ALTRI. I fatti di Brindisi, dunque. Ognuno dice la sua, stante il fatto che gli strascichi mediatici caricaturali di stragi e delitti sono una passionaccia arcitaliana: non chiedono di meglio i teledipendenti che fare tifoseria colpevolisti-innocentisti, scoprire alla fine chi è l’assassino come in un giallo della Christie. Tanto siamo tutti “addolorati” col culo degli altri. Solo che invece di sfogliare libri gialli, fanno zapping da talk-show in talk-show nella tv delle lacrime, dei sentimentalismi, del macabro, e, subito dopo, delle sganasciate di risate mignottesche con la caccia al chi ha scopato chi, chi s’è lasciato con chi, chi ha incornato chi.

Brindisi, dunque. Napolitano e Bersani dicono: “E’ terrorismo”. Don Ciotti: “E’ mafia”. Criminologo: “Forse squilibrato”. Complottisti professionisti: “Strage di Stato” (anche se tecnicamente neppure strage c’è stata). Procura: “Non sappiamo”. Tutti insieme in comune hanno una cosa: parlano senza sapere di che parlano… e come potrebbe essere diversamente dal momento che 5 minuti dopo avevano già tutti il loro teorema buono per ogni evenienza?! Ognuno cerca di trascinare cadaveri entro la propria specializzazione e contingenze immediate, se politiche tanto meglio. Non mi meraviglierò se presto interverrà Radio Radicale a dire: “Preti pedofili”. Dopo tanti castelli costruiti sul fango di lussuose teorie politico-criminologiche, si scoprirà (come si scoprirà!) che si tratta d’un semplice sfigato di mentecatto, certamente qualche disoccupato nevrotizzato dalla mancata assunzione al bidellaggio, qualche altro che ce l’ha in modo parossistico con l’agenzia delle entrate, qualcuno che ce l’ha col prospiciente tribunale che gli ha fatto perdere o non ha mai discusso la causa che gli stava a cuore; qualche “inventore” pazzo. La banalità del male! Ma certo non è di questo che voglio parlare, non si occupa di cronaca questo sito. È un pretesto per dire d’altro.

IL FIGLIOCCIO DI MICHELE PELLEGRINO, IL CARDINALE ROSSO. Don Ciotti ha fatto tutti i suoi studi da prete, se così posso chiamarli, nel lustro peggiore della storia della Chiesa: fra il ’68 e il ’72, anni di autodemolizione, autopersecuzione, autocontestazione della Chiesa. Anni pazzi. Soprattutto anni rivoluzionari: i seminari erano diventati, in quel lustro, covi di pazzissimi sediziosi dottrinali, bordelli teologici, fucina di rivoluzionari spompati, evirati e inutili persino ai rivoluzionari al caviale laici. Ininfluenti sul mondo, ma funestissimi dentro la Chiesa. Ecco, quei cinque anni maledetti, sono tutta la formazione di Ciotti: psicologicamente, retoricamente tuttora là è fermo, non s’è mai mosso; e spesso proprio questo suo modaiolo anacronismo è travisato, in un qui pro quo ridicolo, scambiandolo per avvenirismo, futurismo. In realtà, da quaranta anni, è uno spacciatore abusivo di ricette (“salvavita”, buone parimenti per la Chiesa e per la “società”) scadute. A complicare le cose per l’allora seminarista Ciottino intervenne il fatto che il suo seminario si trovava nella Torino operaista e laicista, e per giunta il suo cardinale era il vescovo più rosso della storia d’Italia: Michele Pellegrino. Tutte le fortune, poveraccio! E allora ti spieghi tante cose. Il cardinale rosso della Torino di quel tempo infame che vide nascere proprio nelle sue fabbriche i teorici e la manovalanza del terrorismo comunista, Michele Pellegrino, definì bonariamente il suo comiziante pretino, il giovane Luigi Ciotti, “prete da strada”, e aggiunse: “la strada sarà il tuo altare”. Una permuta a tutto vantaggio non si sa bene di chi, della Chiesa dubito. Se è vero come è vero che il programma ciottesco è questo: “Non si va per la strada ad insegnare ma ad apprendere”: affascinante come slogan, bellissimo, non v’è dubbio, ideologico anche; l’apice del buonismo delle “anime belle”, di quelle che s’innamorano dell’idea già bella impacchettata e infiocchettata a prescindere da quello che c’è dentro il pacco (in questo caso: il vuoto), ignorando trasognati e poeticanti la realtà, quel sano realismo che deve essere sempre il compagno di viaggio del cattolico. Sostituito in questo caso con un tanto al chilo di sociologismo vittimistico, piagnone e melodrammatico. Che suona sempre la stessa sinfonia dagli anni ’70: “Le colpe della società!”, qualsiasi cosa uno abbia fatto, “è colpa della società”. Anche se oggi ha mutato un po’ registro: qualsiasi cosa succeda, foss’anche il crollo di Wall Street, il Nostro dice che è “colpa della mafia”. Almanacco del “clima sociale mafioso” e, va da sé, “omertoso”.

Ciotti, l’uomo che “apprendeva dalla strada”, dunque, invece che insegnare la Strada, che poi sarebbe Cristo. Senza contare che Cristo non è andato per le strade del suo tempo ad “apprendere” ma a insegnare, appunto. La stessa cosa che avrebbe dovuto fare Ciotti, insegnare le cose del Maestro, che aveva infatti detto “non chiamate nessuno maestro”, neppure una strada, “perché uno solo è il Maestro”, cioè Lui; e poi aggiunse che siccome Lui “era la via, la verità, la vita…” ai suoi toccava andare “per le strade” ad annunciarlo, a “insegnare le cose del Padre mio”. Ma siccome Ciotti è capitato in epoca materialista (infatti ripropone il “Gesù rivoluzionario” tipico degli anni ’60 e dell’agnosticismo), le cose si sono ribaltate: strada e asfalto son diventati “maestri”, Cristo un semplice passante. E uno sconosciuto. Mentre invece era Lui la Strada. E la vita. La sola salvezza possibile. Non l’antropocentrismo ideologico del Nostro. Se c’è una cosa che dalla bocca di Ciotti non s’è mai sentita è questa: “E’ peccato”. Proprio non manda giù l’idea che il singolo possa avere dei peccati, delle colpe agli occhi di Dio e che possa pagare per queste; che ci sia un Giudice Supremo diverso dal pubblico ministero. È proprio l’idea di peccato individuale che gli è estranea. Il libero arbitrio gli va bene per tutto, lo applica a tutto, ne fa uso abbondante egli stesso, è tutto un arbitrio Ciotti; però nel peccato no, l’uomo-individuo non pecca secondo “libero arbitrio”: “è la società che pecca”… anzi no (ha abolito pure la parola “peccato”) commette “ingiustizie”; è la società “che è sbagliata”, in ogni caso “è colpa della società” (quella che non vota comunista, almeno). Mai si dica che l’individuo “ha sbagliato”, peggio di peggio poi “ha peccato”, “ha scelto” liberamente di peccare.

LADRI BENEFATTORI E DERUBATI LADRI. VI RACCONTO UNA STORIELLA (PARADOSSALE E SATIRICA) SU DON CIOTTI. Se ti entra un ladro in casa, ti svuota casa, ti bastona il nonno: è colpa tua, pezzo di merda!, merdaccia che bivacchi e ti abbeveri in questo cesso di società!, sei tu che hai ridotto quel “poveraccio”, quella “vittima della società” a entrarti in casa, derubarti di tutto, bastonarti il nonnetto magari pure reduce della RSI (e un po’, quindi, se lo meritava!) e andarsi poi a ubriacare con gli amici gaglioffi, ossia le “altre vittime”. Sai che c’è di nuovo? Te lo dice un don Ciotti, uno che impara dalla strada invece che insegnare la retta via a quelli che per strada, quella sbagliata, ci stanno: sei tu il ladro, sei tu il bastonatore di tuo nonno; dovresti vergognarti e chiedere scusa al ladro bastonatore di tuo nonno, e se proprio vuoi essere perfetto, purgarti del tuo “peccato sociale” (tale perché nella società ci vivi), dovresti rendere al ladro pure quello che non ti ha ancora rubato, perché il possederlo da parte tua è un “furto”, verso tutte le altre “vittime della società”. Ossia tutti gli altri ladri. Ovvero, sei tu, in fondo, che hai rubato in casa dei ladri… perdon… delle “vittime della società”. Non è manco più il tuo un “peccato sociale”. È proprio mafia! Sei un mafioso. Cornuto e mazziato, dunque. La domanda curiosa che ti fai su questa de-forma mentis clericale ferma a sociologismi radical anni ’70, è una: perché tali principi di “vittimismo” sociale validi per qualsiasi criminale (o detta alla cattolica: peccatore), non possono valere, a sentire Ciotti, anche per la criminalità organizzata, per i mafiosi, appunto? Non sono criminali e dunque “vittime” l’uno e gli altri, il ladro e il mafioso? Perché no? Del resto, secondo dottrina cattolica entrambi violano lo stesso Decalogo, entrambi altro non sono che peccatori… e in questo il cattolicesimo è molto “democratico”. Perché no, Ciottino-ino-ino? Io un sospetto lo avrei, me che sono di natura maligna (realista): la mafia ha fama di essere anticomunista; un tempo persino d’essere “democristiana”; poi – dicono gli ex sputtanatori di Falcone vivo, ossia la sinistra al caviale che da morto ne ha fatto bandiera – divenne “berlusconiana”. Ha fama, cioè, di farsela coi “potenti”. Tutte cose che il Ciotti dovrebbe avere in gran dispitto. Dovrebbe. Ma pure lui, Ciotti, a suo modo è un “potente”: la potenza oggi non è data più solo dai soldi e dalle poltrone, ma dalla visibilità mediatica e dal servilismo plaudente (e ipocrita) dell’establishment televisivo nei tuoi confronti. È o non è il Ciotti un nuovo potente, “intoccabile” da qualsiasi schermo o palco appaia, qualunque cosa dica (ché poi: dice sempre le stesse cose)? È vero o no che per diventare un “intoccabile televisivo” del genere devi essere messo a contratto dalla sinistra radical-chic che di quella fanghiglia è padrona gelosa? È o non è sempre sotto telecamera? È o non è sempre in compagnia di potenti, purché comunisti o almeno catto-comunisti? Non sono i suoi commensali abituali ormai?

IL DOLCE & (VOLTA)GABBANA DELLA CHIESA: DON CIOTTI. IL CAPPELLAIO… OPS… IL CAPPELLANO DELLE MODE.

 Fine anni ’60. Per via dell’anarchismo “antiautoritario” e “antirepressivo” del ’68, in quegli anni era di gran moda la questione “abolizione del carcere”, da sostituire (diceva l’ideologo radical-chic) con “pene alternative”. Subito Ciotti se ne appassiona e fonda gruppi alternativi al carcere minorile per il “recupero dei piccoli carcerati” che spesso avevano un curriculum criminale poco sotto quello di Riina. Erano “vittime della società”. E fu la prima moda che condivise il suo talamo: tanto di applausi mondani e dell’intellighenzia radical ne derivarono. Poi la moda “abolizionista” decadde e Ciotti passò ad altro.

Primi anni ’70. Anni di piombo. L’ultima moda erano l’operaismo (in genere aizzato dalla ricca, balorda, annoiata borghesia radical, come eccentricità d’alta società) e le più assurde “rivendicazioni sindacali”. Torino ne era il sanguinoso epicentro. Il Ciottino si beccò la passione degli “operai”. Fondò associazioni e s’incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Poi passarono di moda pure questi, e lui li abbandonò al loro destino, che era diventato terrorismo, nel frattempo.

Sul finire degli anni ’70. Dopo la sbornia anarcoide e marxista immaginaria del ’68, se ne ebbero i primi frutti fra quei giovincelli generosi “contestatori”: oltre al terrorismo portarono in Italia anche la “moda” e le abitudini “culinarie” dei figli dei fiori (oppiacei) d’oltreoceano: droga a colazione, pranzo e cena. Comparvero i primi tossici italiani, ex contestatori del sistema. L’ultimo Maritain, quello considerato “pessimista”, “e perciò rimosso”, scrive Messori, all’apparire di questo fenomeno fra la satolla (di pane e ideologie arruffone) gioventù d’Occidente, disse una cosa profonda e atroce, atroce perché vera, “profetica” direbbero i progressisti se non fosse null’altro che una constatazione: “Quel buco è il sacramento di Satana. E’ la cresima, è l’effusione dello spirito di una cultura che ha preso congedo dal Cristo per volgersi all’Ingannatore”. Tutte queste cose non disse e tantomeno pensò il Ciotti. Troppo affaccendato in chiacchiere, affari e presidenze pluripremiate, per pensare all’essenziale delle cose. L’affare era grosso, guadagnava ormai le prime pagine dei giornali, si facevano inchieste di grido, faceva notizia, insomma. Ciotti non se lo fece ripetere due volte: ci si buttò a capofitto, fondò associazioni, se ne incoronò presidente. I risultati sono dubbi, e più che altro contraddittori. Ossia al fondo c’era sempre e solo l’ideologia radical di Ciotti, il vero motore del suo chiacchierificio itinerante buonista e indignato speciale di professione; mentre tutto il resto era carrozzeria, pretesto e contorno, foglia di fico sulle vergogne. Illustrazioni di copertina del suo personale Capitale all’amatriciana. Leggo da una biografia del Nostro: “In quegli stessi anni, all’accoglienza delle persone in difficoltà l’Associazione comincia ad affiancare l’impegno culturale (con un centro studi, una casa editrice e l’“Università della strada”) e, in senso lato, politico, per costruire diritti e giustizia sociale, con mobilitazioni come quella che nel 1975 porta alla prima legge italiana non repressiva sull’uso di droghe, la 685”. Paraponziponzipò! Per aiutare i drogati, la prima cosa che questa anima bella propose, fu una “legge non repressiva” sull’uso di droghe. Pannella non avrebbe saputo fare di meglio. Come dire? Ci sono troppi malati di cancro ai polmoni in giro? Bene, abbassiamo il prezzo delle sigarette. I primi risultati di questo buonismo vittimista si videro un quinquennio dopo, quando in Italia scoppiò una vera pandemia di tossicodipendenza. Naturaliter: l’intellighenzia mondana e radical-chic, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ciotti era ormai una star. Sulla pelle di chi lo divenne non sappiamo.

Con il primo lustro degli anni ’80 venne dopo la sbornia di “comunismo” al sangue, la sbornia di consumismo alla puttanesca. Con questo dilagarono sì i vizi tipici dei nuovi sazi e indifferenti, alcol, gioco e droghe (come risultato ultimo delle prediche “libertarie” radical post-68) e ottenevano i galloni della cronaca i “drogati” e i loro “recuperatori”. Venne pure dell’altro, però: il clima euforico e orgiastico, il culto del sesso sfrenato e promiscuo, nel quale il massimo della gloria effimera, della sbornia e quindi dell’indecente capovolgimento del mondo la raggiunsero gli omosessuali, nuova rumorosa e attivissima setta pagana. Che nel cuore di Ciotti dovevano immediatamente avere il sopravvento sui drogati. Infatti, manco fece in tempo a scoppiare, facendo un boato immane su tutti i media del mondo, la peste del XX secolo, l’Aids, che subito Ciotti ne divenne un “appassionato”, un santo patrono, la ennesima “voce dei senza voce” (con tutte le categorie sociali alle quali crede di aver dato “voce”, potrebbe doppiare l’intero cast di un film colossal del cinema muto). Qui pure, come aveva dato “voce” a tutti gli altri: con le chiacchiere e i tour di chiacchiere in giro per l’Italia. A confermare i “senza voce” nel loro errore, e, se battevano la strada, a “prendere lezioni da loro invece che insegnare”, senza mai affrontare la scaturigine di quell’epidemia mortifera. Ossia il peccato, quello contronatura in questo caso, la sessuomania di massa, che proprio i modaioli maitre a penser radical-chic avevano predicato e propiziato dal ’68. I risultati ultimi ora erano sotto gli occhi di tutti: ma Ciotti vedeva solo questi, ignorando come sempre le cause prime: un gatto che si morde la coda. E al solito fondò associazioni e se ne incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, radical-chic, la stessa responsabile ideologica di questa strage, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte.

Poi viene il 1988. E diventa abortista. Se andaste a scovare le ciottate di quegli anni ne provereste brividi: posa il suo bacio bavoso su tutte le più infami mode ideologiche del tempo, indossa tutte le più spettrali, e melense al contempo, svergognate maschere dell’epoca, e diventa femminista, abortista, contraccettivista, divorzista. Ma sempre per “solidarietà umana”, è chiaro. Come i peggiori radicali, approfittando del dramma dell’Aids, fa sciacallaggio pro contraccezione, pro aborto, pro aborto selettivo: tutto questo, al solito, per “solidarietà”, per la “bella idea” dell’ideologo, per “buonismo”. Quella solidarietà, quella bella idea, quel buonismo che senza rimorso alcuno ora gli fanno sostenere il diritto di scelta per una donna di abortire un figlio malato; “per rispetto umano” verso i sieropositivi si mette a propugnare le più “umanitarie” teorie sull’aborto selettivo, che poi erano le stesse teorizzate e applicate dai nazisti (ché però quelli almeno ad un certo punto ebbero scrupoli, e si sottrassero: don Ciotti e gli abortisti no). Così così così arriva, con l’ambiguità tipica del Maligno che mescola la verità alla menzogna, ad ammettere che “abortire i bambini che potrebbero nascere sieropositivi è una possibilità che deve essere riconosciuta a una donna”. E poi naturalmente per “eliminare alla radice” il problema, cioè uccidere bambino e sieropositività, buttare bambino e acqua sporca. Ma non si rende conto che proprio la “radice”, proprio quella è il problema, non le fronde, la sieropositività: quella “radice” che questo prete vorrebbe “recidere” è la vita umana stessa, la maestà di Dio su di essa. Ma che prete è questo? Per chi lavora? Come fa a parlare così? Ah, non è affar suo dice lui, lui riconosce che v’è “una pluralità di vedute” e per non offenderne alcuna, non intende affermare quella della Chiesa. Che poi non è manco quella di Ciotti. Lui, intanto, “riconoscendo la pluralità di vedute” se ne sta in ogni organizzazione “umanitaria” fuori e radicale e abortista dentro: per dare “speranza”, pur nella “pluralità di vedute”. “Speranza” basata su cosa non è dato sapere. Il Nostro, racconta Luigi, un testimone di allora, “fece molte interviste pro contraccettivi e surrettiziamente pro aborto. Allora io scrissi ad Avvenire protestando: il direttore in persona mi onorò con una sua risposta in cui mi disse che ero inutilmente severo…”. Guardate, il discorso, giunti a questo punto, mi fa tanto schifo che lascio a voi la facoltà di approfondirlo cliccando sui ritagli di giornale del 1988 che l’amico Guido mi ha gentilmente mandato, sapendo che stavo affrontando questo articolo. Ma se proprio volete saperne di più sulle schifose prese di posizione su questi temi del Ciotti, nel fragore degli applausi delle sue platee di post-cristiani, post-comunisti, vetero-radicali, leggete online questo resoconto agghiacciante di Vittorio Agnoletto.

E siamo già a cavallo fra anni ’80 e ’90. Cominciò a scemare sui media l’interesse per drogati e sieropositivi, ed entrambi cominciavano a subire un “calo fisiologico”, che li rendeva ormai poco numerosi e perciò ancor meno appetibili. Dai media. Don Ciotti cercava altri stimoli mondani. Che infatti vennero sicuri come la morte. Iniziarono i primi flussi migratori, sino al botto scuro della nave che rovesciò miriadi di albanesi sulle coste di Brindisi. Che scappavano dai rottami di quel comunismo “nuovo” ossia “maoista” del quale proprio quelli come Ciotti & compagni radical-chic, qualche anno prima s’erano fatti cantori e sponsor, come “non plus ultra di civiltà” (era passata di moda la loro vecchia passione per l’Urss come paradiso terrestre e modello da imitare, anche per la Chiesa). Che ve lo dico a fa’? Ciotti subito andò in prima linea col suo solito armamentario chiacchierone: tour di convegni in giro a spiegarci quanto erano belli buoni e bravi i clandestini, e più ce n’erano meglio era; i soliti numeri verdi e telefoni amici, le solite leghe, associazioni e l’auto-incoronazione napoleonica del Ciotti a loro presidente-imperatore. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ma dopo un po’, pure questa “moda” buonista con relativa retorica dell’accoglienza a prescindere, che aveva saturato tutti i media, i pulpiti e la bocca dei Ciotti e dei Tonino Bello, cominciò a scemare. Specie quando si vide che questa stessa retorica altro non aveva prodotto che un’infornata pazzesca di criminalità organizzata che invase tutte le città e che ancora scuote e insanguina la pacifica penisola e la sicurezza dei troppo generosi italiani. Generosità che nel frattempo, giustamente, s’era trasformata in risentimento.

Sentendo puzza di bruciato, mancando ormai di stimoli e di visibilità, don Ciotti stava col dito umido per aria per captare che altra corrente modaiola spirasse. Uomo fortunato, e contraddittorio, la trovò subito bella e pronta.

Contraddittorio, sì. Se è vero che alle sue spalle ora si lasciava la moltiplicazione di pani e pesci dell’immigrazione clandestina indiscriminata e persino aizzata; ossia un dilagare di manovalanza criminale anche al servizio delle mafie. E proprio adesso il Don, proprio lui, sta per buttarsi anema e core nell’oceano mediatico della “lotta”, a forza di mitragliate di logorrea, “alle mafie e alla criminalità” organizzate. Contraddittorio… Ma tant’è! Lo dico con un sorriso: sembra che prima di imbracciare una nuova moda solidaristica, si premuri, negli anni che la precedono, di coltivarne la potenziale clientela con cui “solidarizzare”. Fateci caso: per un tot di anni, come ogni radical, predica per una presunta “buona” cosa, poi quella cosa accade davvero e puntualmente è un disastro, dunque da predicatore diventa infermiere dello stesso male che ha coltivato (in buona fede, spero). Un ideologo consumato!

E infatti siamo nel 1992. Salta in aria il giudice Falcone e poi Borsellino: ne deriva un immane e giusto clamore, non sempre sincero (e mai da dove te l’aspetti) da parte di troppi . È l’argomento di fine secolo. E qui Ciotti darà il meglio e dunque, alla fine, il peggio di sé. Fonda Libera, e inizia allora un chiacchiericcio che dura da vent’anni. Ma siccome spesso manca di pretesti per gridare “al lupo al lupo”, alla fine è diventato una specie di don Villa dell’antimafia delle chiacchiere: come don Villa vede massoneria dappertutto foss’anche in un circo equestre, alla stessa maniera il Nostro grida “è mafia è mafia”, anche dinanzi a un petardo natalizio. Purché se ne parli. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaude e molteplici volte lo premia. Ormai è un abbonato speciale.

IL RADICAL-CIOTTISMO PORTA INFINE LADDOVE DALL’INIZIO ERA STABILITO DOVESSE PORTARE: ALLA RELIGIONE CIVILE. Tuttavia nel nuovo millennio pure la mafiologia e la mafiopolite acuta da talk-show, l’antimafia delle chiacchiere, ha cominciato a scricchiolare, almeno nell’interesse dei media. Vuoi perché i successori di Falcone e Borsellino erano palesemente indegni e marchiati a sangue di ideologia radical-comunista, e la lotta alla mafia è rimasta tale solo sulla carta diventando invece nei fatti un gioco sporco al massacro di lobby togate estremiste ai danni di Berlusconi; vuoi anche perché il fenomeno mafioso, almeno in Sicilia, per così come lo abbiamo conosciuto sta mostrando un fisiologico calo di peso, un ridimensionamento e una trasformazione, essendo prossimo a diventare qualcosa d’altro, per ragioni che non sto qui a spiegare. E allora, stante tutte queste magre vacche mediatiche, Ciotti ha rimesso il dito per aria per capire dove tirava il vento giornalistico. E in men che non si dica… l’ha indovinato.

Porta laddove sin dalle origini era stabilito dovesse portare, perché era inscritto nel suo Dna, l’ideologia radical-ciottista, fatta passare per clericato “impegnato”. Alla religione civile. Al culto del dio Stato; al feticcio della Costituzione; all’estremismo legalista; alle liturgie politiche; alla sociologia come nuova teologia. All’ideologia che è alla base della fine della civiltà cristiana: quella sorta dalla Rivoluzione Francese. Con tutto il corollario trombone ma pericoloso che ne deriva: mondialismo, ecologismo, monetarismo, pacifismo da paci-finti, umanitarismo ateo e peloso, filantropismo rapace ed esibizionista. È scritto ne Il Nome della Rosa: “Il Diavolo sa dove va, e andando va sempre da dove è venuto”. Perciò le mode del mondo, ossia le ideologie, anche clericali, sono la Sua strada e il Suo arco trionfale. E il trionfo di chi ne viene a patti. Quei “falsi trionfi” dettati dalle mode, che sono lo spirito del mondo e lo spirito del mondo è Lucifero, e che hanno la forza di far perdere la testa ai saggi ai potenti ai preti. “Trionfi” contro i quali Gesù stesso ci metteva in guardia. Lo stesso Gesù che ripetutamente nei vangeli ci ammonisce a guardarci dalla “gloria del mondo”, perché è un inganno. Soprattutto perché non è questo il destino del cristiano; poiché, ha predetto il Signore, il suo destino vero sarà sempre, fino alla fine dei tempi, la persecuzione e il martirio, l’infamia e non gli onori del mondo. “Hanno perseguitato me: perseguiteranno anche voi. Ma io vi dico: beati voi quando a causa mia diranno di voi, mentendo, ogni sorta di male”. Da questo si può discernere fra il vero e il finto cristiano, fra il vero servo di Dio e il servo del Mondo, fra l’agnello e il lupo travestito da agnello.

DIFFIDATE DEI PRETI PIENI DI PATACCHE . Io l’ho per regola. Diffido sempre di quei (rari, va detto) cattolici che sono ospiti “d’onore” ovunque, travolti da applausi, specie da parte di chi più è lontano dalla Chiesa, dai suoi nemici più spietati talora; diffido dei preti invitati a tutte le trasmissioni e a tutti i convegni, premiati con ogni patacca e in ogni circostanza pacchiana. Lì qualcuno sta barando: la gloria del mondo ha per compagna la menzogna. E poi la “tristezza”, dice l’Ecclesiaste. Mi fido dei martiri e dei perseguitati, dei preti umiliati a causa della loro fede, di coloro che parlando delle cose sante suscitano scalpore, sdegno, rifiuto, oltraggio dal mondo. Non dei pavoni che fanno sempre la ruota nel giardino zoologico dei preti da baraccone per la gioia del documentarista e per arruffianarsi la sazia apostasia di questo mondo che prima si è fatto nemico e poi estraneo a Dio. Lo spirito del mondo, le mode ideologiche, sono un’attrazione irresistibile per Ciotti. Questo intendo dire quando ribatto al suo definirsi “prete di strada” con un “prete da marciapiede”. Badate, non sono così cretino da mendicare in giro querele che a questo punto sarei io stesso a consigliare alla parte “offesa”: non intendo dire che don Ciotti è una puttana o una persona di costumi equivoci (e anzi, da quel punto di vista lì – spero di non sbagliarmi – credo sia stato sempre pulito). Niente di tutto questo. Intendo dire proprio che sta sul marciapiede ad aspettare che passino le carrozze con a bordo le nuove mode ideologiche: andrà con quella che offre di più. “La gloria del mondo ha per compagna la tristezza”, dice l’Ecclesiaste, dunque. Al momento, però, il Nostro ci pare abbastanza su di giri. Lo è da 40 anni.

LA MOSCA SARCOFAGA . Stavo vedendo uno dei brutti film horror anni ’70 di Dario Argento. In uno, un tale, una specie di sbirro, alleva delle grosse mosche sarcofaghe, o meglio: la mosca sarcophaga carnaria. Ora, chi come me s’intende di medicina legale e fenomeni cadaverici, sa che questa strana mosca è affamata di cadaveri, ne è la principale cliente e devastatrice: ci depone sopra le sue larve. Ma soprattutto ha un fiuto infallibile nello scovarli. Ecco perché lo strano sbirro le allevava: liberandole e inseguendole, riusciva a ritrovare nei boschi i corpi degli assassinati. M’è saltato in mente don Ciotti: pure lui appena succede qualche plateale e misterioso fatto di sangue, da Roma in giù, non si sa come questo qui mezz’ora dopo è già sul posto. Naturalmente, subito dopo i fotografi. Più fulmineo delle mosche sarcofaghe. E, in tutto questo macello di Brindisi, non poteva che piombare come mosca sarcofaga sul luogo della tragedia, don Ciotti, con la sua “Carovana” carioca, di post-cattolici, post-comunisti, post-femministi, post-brigatisti, post-figli dei fiori, post-conciliaristi, post-preti, post-italiani, post-tutto. Il carro variopinto degli hobbisti dell’antimafia delle chiacchiere, con i loro slogan a misura unica, unisex e buoni per tutte le stagioni: per protestare indistintamente e con la stessa disinvoltura, a suon di chiacchiere, contro la mafia immaginaria, contro i terroristi, la guerra, la pena di morte, il carcere, il capitalismo, Berlusconi, il fascismo, l’antisemitismo, per la “pace” (da quando non c’è più l’Urss a invadere paesi inermi, almeno… da quei paci-finti che sono), l’acqua, il vino, la pagnotta, la patonza… per tutti, meno pene ai carcerati, più pene ai mafiosi, più pene e basta, più marce e meno messe (e forse, visto il senso della liturgia del Nostro, è pure meglio), più “strada” e meno altare. Ma la cosa che fa più ridere di questi professionisti del carnevale permanente e di questo post-prete, don Ciotti e i suoi fratelli e fratelle, è una in particolare. Che sinistramente schiamazzanti come avvoltoi piombano in tempo reale laddove sentono odor di carne bruciata, non importa se umana o da kebab o da arrosto di fiera della porchetta. È ininfluente. Loro imperterriti ci piombano addosso, la impugnano con gli artigli, la sollevano in aria sventolandola e qualunque cosa sia, foss’anche un gatto morto, a prescindere, si mettono isterici a gracchiare “è mafia!”; e via con gli stessi slogan, le stesse sentenze apocalittiche, le stesse soluzioni ideologiche, le stesse frasi ad effetto (lassativo), gli stessi cartelli appesi al collo usati per qualsiasi altro evento negli anni passati, magari contro Berlusconi: “E adesso uccideteci tutti!”, “La mafia uccide, il silenzio anche”, per tacer dei barattolini Manzoni-style con su scritto “La mafia è merda”.

IL SILENZIO SE NON TI “UCCIDE”, TI EVITA MOLTE FIGURE DI MERDA. Tuttavia, molte volte, il silenzio se non ti “uccide” ti evita molte figure di… merda, giacché siamo in tema. E non è un caso che appena il Ciotti ha saputo che c’era “carne sul fuoco” a Brindisi, non si sa come, in pochi minuti ci è atterrato su, gridando ai quattro venti: “Mafia! È mafia! La mafia uccide! Il silenzio pure! Venite allo scoperto mafiosi!”. Ancora si dovevano spegnere le fiamme, che lui già denunciava a tutti i microfoni “l’omertà” della popolazione brindisina che, appena sveglia e stordita com’era per il botto, non riusciva a capire manco cosa fosse successo. Anche quando già da subito a tutti era evidente che la Sacra Corona non c’entrava una mazza perché non erano cose che rientrassero nel suo stile quelle, né aveva la forza politica ed economica per osare tanto, il Nostro non ha desistito: non avendo da trent’anni altri slogan, passando solo questo il convento, essendo solo quello il suo repertorio circense, lo usa indiscriminatamente ad ogni replica e in ogni situazione: “Mafia purchessia!”. Però siccome il senso del ridicolo, infine, lo ha pure lui, ha annacquato dopo 24 ore il “sola Mafia” (variante del “Sola Scriptura” di Lutero) con “e anche la massoneria”. A quel punto non restava che ridere! Se non altro perché la prassi politicamente corretta e la filantropia pelosa di Ciotti, nel quale ogni residuo di Dio cristiano scompare nel solo umano, anzi, nel solo sociale, disciolto nell’acido della “società civile” insomma, altro non è che la quintessenza, la realizzazione pratica manu sacerdotali delle più viete teorie della più classica massoneria.

CIOTTI GRIDA “E’ MAFIA!”. MA I GIUDICI CHIEDONO AIUTO PROPRIO ALLA MAFIA. La situazione diventa ancora più paradossale se si pensa che la stessa (non sai se più stravagante o imprudente) magistratura pugliese, attraverso il procuratore Cataldo Motta, che – almeno dicono – essere il “massimo esperto di questo fenomeno criminale” (la Sacra Corona Unita), cioè  ha (papale papale) chiesto alla mafietta pugliese di “collaborare” in qualche modo con la giustizia per scovare gli attentatori. Non basta. Mentre il prete con la “carovana” ancora sbraita a destra e manca, “mafia… omertà… c’è la mafia e pure un poco di massoneria”, mentre avviene tutta questa pretesca ridicola sceneggiata, avviene pure un’altra cosa. Vi leggo dal giornale: “Raffaele Brandi, ritenuto uno dei capi più rappresentativi della frangia brindisina della Sacra Corona Unita, ha avvicinato il caposcorta del pm Milto de Nozza e gli ha comunicato non solo che la SCU non c’entra ma che si muove in parallelo alla giustizia. ‘Dite al procuratore che se li prendiamo noi gli attentatori, ce li mangiamo vivi, è questo il messaggio’”. E mò? Che dire? Mentre don Ciotti straparla di “mafie”, pure il capo della Sacra Corona Unita “cerca il colpevole”. E lo va a dire direttamente al capo della scorta del procuratore di Brindisi De Nozza. Oltre a notare che dinanzi ai teledrammi (che non sono mai il dramma vero) tutte le istituzioni dello Stato italiano, mafie comprese, sono unite; oltre a capire che tutti hanno capito che il colpevole deve essere un pazzo isolato che non conta una mazza; oltre tutto questo, viene da domandare una cosa, al caro Milto de Nozza in primis: a Brindisi esiste ancora il reato di associazione mafiosa? Siamo o non siamo qui in presenza di un capomafia reo-confesso? Non è per arrestare questi qui che gli paghiamo la scorta? E allora: perché è a piede libero il capomafia di Brindisi? Dunque, dinanzi a tutto questo, a questi professionisti, a questi acchiappafantasmi dell’antimafia delle chiacchiere, che precipitano ogni tragedia in farsa e in carnevale… ma come fai a no ride’?

SE PER L’INCHIESTA JACINI AL SUD “TUTTO È AFRICA” PER CIOTTI “TUTTO È MAFIA”. Ma don Ciotti non ride. Insiste. Celebra la messa – se così posso chiamarla – a Mesagne, presente il povero padre della vittima. Dal pulpito urla, sbraiti, tempeste di slogan antimafia; sussultano ammutoliti i tabernacoli e le incolpevoli sacre statue, al gracchiare del prete “da strada”, del cappellano degli acchiappafantasmi contro l’immaginaria “omertà” (a indagini in corso) del popolo brindisino. Anche ora che è chiaro non c’entri nulla la mafia, che anzi è oltremodo, oltre la legalità persino, collaborazionista; ora che tutti cominciano a vedere chiaro che di qualche psicopatico deve essersi trattato.

Mentre accade tutto questo ti chiedi cosa centri questo post-prete con Mesagne? E quell’omelia, se così posso chiamarla, col solito bollito misto riscaldato, che c’entra con Mesagne, Brindisi, Melissa? “La malattia da sconfiggere è l’indifferenza” dice il presidente di Libera, nella piazza di Mesagne dove ha fatto tappa la Carovana contro tutte le mafie, Berlusconi compreso, è chiaro. “La forza sta in chi si rialza, e noi ci rialzeremo”. “Il problema della criminalità, della mafia, della massoneria è un problema di tutti ed ecco perché la Carovana continuerà a ‘sgrattare’ le coscienze”. Poi ha invitato tutti a “non avere paura”: “Bisogna evitare che tutto diventi terrore, paura, è necessario reagire”. Mafia? Massoneria? Omertà? Ma cosa crede questo acchiappafantasmi che Mesagne sia El Salvador? Giacché è un torinese, come tutti i torinesi dabbene per quanto “da strada”, crede che da Roma in giù, tutto quello che si incontra, fosse anche un vigile urbano, tutto è mafia. Da vero epigono dell’altro nordico, Stefano Jacini, quello dell’Inchiesta meridionale famigerata e insolente, che andando al Sud era convinto di trovarci l’Africa, e tanto ne era convinto che standoci altro non vedeva che “Africa” davvero, e dopo esserci stato, tornando a Torino, scrisse nell’Inchiesta parlamentare: “E’ Africa! Anzi, no: l’Africa al confronto è fior di civiltà”. Sono invasati da strisciante razzismo tutto torinese e dai più vieti e spocchiosi pregiudizi sebbene spacciati per compassionevoli, e non se ne rendono conto. “Omertà” poi… Se c’è mai luogo dove si fa più chiasso intorno a ‘sta roba è proprio la Puglia! Basti pensare ai casi di Avetrana, dei fratellini di Gravina, della piccola Maria Geusa, solo per citare i più noti. “Omertà”, “indifferenza”, dice: se i brindisini davvero sapessero chi è il colpevole dell’attentato, lo andrebbero a prelevare e lo squarterebbero vivo. Persino la mafietta locale ha garantito farebbe lo stesso. Tutto ‘sto solito casino parolaio, tutte queste carovanate, per una tragedia provocata da nient’altro (a quanto pare) che un matto! Se vai da don Ciotti e gli dici, “sai chi è stato? Uno psicopatico”. Sapete cosa dirà don Ciotti, appena individua una telecamera? “E’ il clima mafioso che genera questa follia!”. È un po’ come i medici ciarlatani degli anni ’30, che per qualsiasi malattia, dalla febbre alla varicella al cancro maligno, prescrivevano sempre e solo una cura: una purghetta di olio di ricino. Così come pure, qualsiasi fossero i sintomi psicosomatici, la malattia che diagnosticavano aveva un solo nome: “esaurimento nervoso”. Così Don Ciotti, qualsiasi cosa accada, ovunque accada, in qualsiasi forma accada, anche un incidente stradale, ha una sola diagnosi: “mafia!”; e una sola cura: “antimafia!”… della chiacchiere. Che permettono di fare pubblicità in ogni caso alla sua florida e ricca creatura: l’associazione Libera.

CIOTTI SI SCUSA: GLI È SCAPPATA UNA PAROLACCIA: HA CITATO GESÙ.  Mi raccontava un mio amico veneto, Federico: “E’ venuto a parlare da noi don Ciotti. Sono andato a sentirlo per curiosità. Ha fatto un sacco di chiacchiere, ha detto un sacco di parole a getto continuo e a ruota libera, cose che poteva dire qualsiasi laico, laicista persino. Ad un certo punto si è bloccato, è sembrato vacillare, incerto e ha detto timidamente: ‘Vi chiedo scusa se mi permetto di citare per una volta una frase di Gesù’”. Lui, prete, si è scusato per essersi fatto scappare una frase di Gesù invece che di Gaetano Salvemini! Sì è scusato per l’eventuale equivoco e confusione che avrebbe potuto ingenerare nella folla di comunisti trinariciuti, arcobalenisti, pacifinti, cattolici adult(erat)i e post-cattolici adult(erin)i, dicendo qualcosa di cristiano, invece che, magari, di sociologia fatta in canonica; se ha citato Cristo, invece che, chessò, il Dalai Lama. La verità è che è un uomo e un prete nato vecchio, è il seminarista sessantottino di sempre, progressista ma non aggiornato: è fermo ad arrugginiti luoghi comuni e sulfurei schematismi ideologici degli anni ’70. Quella poltiglia di “buoni sentimenti” e “sensibilità sociali”, umori viscerali e sociologismi, classisti e al contempo umanitaristi, che, proprio in quegli anni, nella Chiesa si trasmutarono in apostasia, con i preti contestatori; nella politica, in proiettili, con i terroristi: i primi volevano “liberare” la Chiesa e la “coscienza individuale”, i secondi il “popolo” e la “coscienza operaia”. Gli uni demolirono mezza Chiesa, gli altri mezzo Stato. Nel sangue molto spesso. E infatti vedi che in alcune nazioni, i primi si unirono ai secondi: ne nacquero i preti guerriglieri. E chiamarono tutto questo “teologia della liberazione”. Oggi abbiamo Libera. Dice l’amico Francesco da Bari: “Mafioso e omertoso. Per Libera questi termini equivalgono ad eretico e scomunicato, laddove invece legalitario ha preso il posto di santo, e sull’ambone invece che le Scritture trovi il codice penale. Il Padre eterno non è il Giudice, è un semplice presidente di corte d’Assise”. Sì, è vero. Come è vero che nella sua logorrea incontenibile, in questi 40 anni, c’è una sola parola che Ciotti non ha mai usato: “Cristo”. Abbiamo visto: gli è scappata una sola volta e se n’è scusato. Ma è un’altra la parola che non gli è mai “scappata”, che proprio non riesce a pronunciare, gli si blocca in gola: “peccato”! E tutto quello che ne deriva: pentimento, penitenza, conversione. E pur di non pronunciarla mai ha sostituito la parola “peccato” con quella di “reato”, “peccatori” con “mafiosi”, “colpa” con “imputato”, “confessore” con “magistrato”, “penitenza” con “pena”, “comandamenti” con “codice penale”, “legge divina” con “costituzione”, “convertito” con “pentito o collaboratore di giustizia”. Per lui, fermo com’è agli schemi arrugginiti degli anni ’70, non esiste il peccato individuale, ma solo la “colpa sociale”. Per questo, per non dover usare la parola “peccato” si è messo a marciare, ha sostituito le messe con le marce, la Chiesa con Libera, la coscienza cristiana con la coscienza civile (ridotta a farsa pure questa). Ed è così che gli sfugge la vera madre di tutti gli eccessi, l’origine d’ogni male: il Peccato. Che egli ha abolito motu proprio. Come mi scrive un mio amico, Vincenzo, riferendosi sardonico al Nostro: “Ma che confessione… non c’è bisogno: basta una chiacchierata mentre sei in un corteo!”.

DIO, IL GRANDE SCONOSCIUTO D’OCCIDENTE. Proprio adesso ascoltavo le parole del Papa, su Cristo che in Occidente è diventato il “Grande Sconosciuto”. E ho pensato al Ciotti che chiede scusa perché gli è scappato di citare Gesù. Dice Benedetto XVI: “Tanti battezzati hanno smarrito identità e appartenenza: non conoscono i contenuti essenziali della fede (…). E mentre molti guardano dubbiosi alle verità insegnate dalla Chiesa, altri riducono il Regno di Dio ad alcuni grandi valori, che hanno certamente a che vedere con il Vangelo, ma che non riguardano ancora il nucleo centrale della fede cristiana. (…) Purtroppo, è proprio Dio a restare escluso dall’orizzonte di tante persone; e quando non incontra indifferenza, chiusura o rifiuto, il discorso su Dio lo si vuole comunque relegato nell’ambito soggettivo, ridotto a un fatto intimo e privato, marginalizzato dalla coscienza pubblica. Passa da questo abbandono, da questa mancata apertura al Trascendente, il cuore della crisi che ferisce l’Europa, che è crisi spirituale e morale: l’uomo pretende di avere un’identità compiuta semplicemente in se stesso. In questo contesto, come possiamo corrispondere alla responsabilità che ci è stata affidata dal Signore? (…) In un tempo nel quale Dio è diventato per molti il grande Sconosciuto e Gesù semplicemente un grande personaggio del passato, non ci sarà rilancio dell’azione missionaria senza il rinnovamento della qualità della nostra fede e della nostra preghiera; non saremo in grado di offrire risposte adeguate senza una nuova accoglienza del dono della Grazia; non sapremo conquistare gli uomini al Vangelo se non tornando noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio”.

“HO VISTO PEZZETTI DI CARNE SPARSI”. MA LO HA COLPITO SOLO “UN QUADERNO DI EDUCAZIONE CIVICA”. Due giorni dopo don Ciotti è a Cecina: essendo prete “da strada” batte tutti i marciapiedi della nazione. A parlare di se stesso. Dei suoi “secondo me”. Di fantasmi. Di carovane e associazioni acchiappafantasmi. Di Costituzione. Di tutto, meno che della sola cosa della quale dovrebbe parlare: di Cristo, del peccato, della conversione. Ho spesso informatori volontari, che mi si fanno vivi con notizie fresche che non ho richiesto ma che poi mi tornano sempre utili. Un amico di Cecina, infatti – dove il Ciotti è andato dopo Mesagne a “predicare” le meraviglie del costituzionalismo – mi manda un essenziale ed espressionista quadretto della situazione. Lascio a lui la parola. “Se ti interessa ieri il Ciotti ha raccontato un aneddoto sulla sua visita a Mesagne: ‘Ho chiesto alla scientifica di sorpassare l’area che avevano recintato, mi hanno fatto passare, sono rimasto impressionato dai pezzi di carne sparsi su tutto il piazzale, ma mi sono soffermato su un particolare: un quaderno scritto da una delle ragazze coinvolte nell’attentato, ho sfogliato le pagine ho trovato che avevano fatto una lezione sulla nostra Costituzione (aria commossa), sì, avete capito bene, avevano fatto lezione di educazione civica a scuola. È proprio da qui che il nostro paese deve ripartire‘. Standing ovation.” Chi ha ucciso, non ha violato l’apposito comandamento divino, no: ha violato la Costituzione; chi uccide non è un peccatore, ma un reo; non la dottrina, ma l’educazione civica. L’uomo si salva da sé attraverso le sue leggi e i suoi organigrammi, le sole cose che possano giudicare e salvare gli uomini. Dio è un attore impotente, e anzi, è giudicabile persino attraverso quelle stesse leggi. Se quelle leggi sono contro Dio, non sono sbagliate le leggi, è “sbagliato” o è stato “malinterpretato” Dio stesso. Cosa sta strisciando nelle vene di Ciotti, oltre al peccato di orgoglio, l’archetipo dei peccati, il primordiale, il primo che fu commesso e che ha lambito persino l’arcangelo Lucifero, precipitandolo dai cieli, e Adamo ed Eva, precipitandoli dal paradiso terrestre? Che cos’è a strisciare sibilante nelle sue vene se non il riemergere di antiche eresie, soprattutto gnostiche e pelagiane?

SOSTITUIRE IL DECALOGO CON LA COSTITUZIONE, IL CONFESSORE COL MAGISTRATO. Come avrete notato da voi stessi, non sembra particolarmente interessato ai “pezzetti di carne”: sono un dettaglio secondario ai suoi fini ideologici. Ciò che gli interessa è la Costituzione, il culto di quella carta giuridica che è il totem, il sancta sanctorum, il vitello d’oro dei nuovi pagani di oggi, i laicisti con corollario di post-preti “adulti” sino al punto di essere ormai anche post-cristiani. E qui viene fuori anche tutto il cinismo inconsapevole dell’ideologo. Erano un’occasione quei “pezzetti di carne” per riflettere e far riflettere sul Decalogo, sul peccato, la morte, gli assoluti. Ma no, gl’interessava impugnare il feticcio dell’ideologo, la “Carta”, la nuova Rivelazione: la Costituzione. Ossia una banalissima lezione scolastica di educazione civica in un istituto professionale, fatta alla meno peggio nell’ora prevista, immaginiamo nella totale catalessi degli studenti col pensiero rivolto alla campanella. Ma siccome il Nostro è un ideologo fermo agli anni ’70, non gli interessa la banale e demitizzante realtà dei fatti, il tran-tran quotidiano, le cose viste nella loro reale giusta misura, no: gli interessa la “bella idea”. E così nella sua testa dal capello sempre unto, quel quaderno di svogliati appunti della lezione di educazione civica, diventa una gran cosa, immagina studenti dall’acuto senso civico, novizi ardenti del neo-costituzionalismo pendenti dalle labbra dell’insegnante precario che gli annuncia le verità rivelate e le secrete cose che da quella Carta secernono. Immagina un popolo di giovani eroi, che, Costituzione alla mano, commossi e coraggiosi marciano invitti per tutta la nazione incontro alla Città del Sole, la nuova Gerusalemme della religione civile.

NON IMPORTA CHI È DIO, MA DA CHE PARTE STA”. IL MANCATO LEADER SOCIALISTA. L’amico di Cecina, infatti, aggiunge: “Riassunto della serata: Culto della Costituzione, dello Stato, della democrazia, della legalità (tranne che per la Bossi-Fini) e soprattutto della Scuola (statale, ca va sans dire); dice cose condivisibili (no alla mafia, all’illegalità) e mi parla male di Eminenze e sottolinea che senza lavoro non si è liberi. Parla con un certo carisma e ha ottime doti di recitazione e buona oratoria: sarebbe stato un ottimo leader del Partito Socialista Italiano. Slogan della serata: Non importa sapere chi è Dio ma da che parte sta, cantato da un menestrello napoletano con voce solista di un sacerdote toscano di Libera”. Non importa chi è Dio, ma da che parte sta. Naturalmente, non avendo più nessun connotato, essendo Uno Nessuno Centomila, amorfo e sfigurato come l’hanno fatto diventare questi qui, non può che stare da qualunque parte lo si voglia portare, “trascinato da tutte le parti secondo ogni nuovo vento di dottrina”, dirà il cardinale Ratzinger alle esequie di Wojtyla. Per questo don Ciotti lo sente sempre dalla sua. Il suo dio minore non è altri che il “secondo me”, la cui rivelazione è contenuta nella carta costituzionale, nuovo libro sacro. Egli ne è il cappellano. Non è un caso che l’ultima volta che l’ho incontrato, è stato davanti alla bara del sommo pontefice della religione fatta di carta… costituzionale: Oscar Luigi Scalfaro.

QUEGLI STUDENTI CHE MARCIANO PER MARINARE LA SCUOLA LECITAMENTE: SENZA FANTASIA, SENZA SINCERITÀ.  Vedo il tg e leggo l’Ansa a una settimana dalla tragedia di Brindisi. E noto con fastidio alcune cose. La prima è la canonicissima ennesima “marcia” all’italiana: la liturgia madre, la messa cantata del politicamente corretto di piazza, negli ultimi tempi. Che naturalmente si tiene nella città che ha dato i natali a me e a Melissa: Mesagne. Chi marcia sono gli studenti. E la prima cosa che ti domandi è se non sia (siamo realisti!) più un marinare la scuola e una scampagnata, per giunta illuminata da flash e telecamere. Basta fare un calcolo: una marcia che non significava niente e che pestava acqua nel mortaio, la si tiene un mattino di un giorno scolastico. Eppure potevano farla in un giorno festivo, o meglio ancora nel pomeriggio, quando le scuole son chiuse. E invece no. Quella marcia in cui dei brufoloni berciavano e blateravano di “mafia” senza una logica, un fondamento, e anzi con già pesanti indizi che la discolpavano del tutto, quella marcia lì priva di senso, un senso lo avrebbe avuto se il marciare avesse comportato anche un sacrificio: la mattina andare a scuola, il pomeriggio invece che andare in giro a cazzeggiare, impegnarlo per marciare. Così non è stato: dunque era, a mio avviso – ché studente brufolone pure io son stato, e ben le conosco queste babbiate – , un marinare la scuola. Con l’aggravante dell’ipocrisia. E del cinismo. Ma poi. Bastava guardare i loro slogan per capire che non erano sinceri: la solita roba usata da vent’anni in tutte le salse: “Io non ho paura”, “E adesso uccideteci tutti”, “La mafia è una montagna di merda”, “La mafia uccide, il silenzio pure” e bla bla bla. Slogan senza fantasia, solita frittata parolaia, solita minestra a merenda, pranzo e cena. Da qui t’accorgi che non erano sinceri: dalla mancanza di fantasia (oltre che dall’aver marinato la scuola). E’ quando le cose ti coinvolgono, le senti veramente, che la fantasia si scatena. Ma in questa stanca parata delle vanità? Questo usare a casaccio il solito repertorio ciottesco senza fare uno sforzo d’immaginazione, metterci del proprio, adattarlo al contesto, indica che non sapevano di che stessero parlando, che avvertivano l’artificiosità della situazione. Perché non erano sinceri. Sapevano bene che era tempesta in bicchier d’acqua, simulazione a uso e consumo dei media. Che di altro non si trattava che sindrome da marcite cronica, nella variante mediterranea di chiacchierite da antimafiosite mitomane.

È POLITICAMENTE SCORRETTO DIRE “LA MAFIA NON ESISTE”, ANCHE SE È VERO CHE NON ESISTE. Naturalmente, in questa marcia, c’era pure tutto il resto dell’armamentario giornalistico standard per i casi falsi o presunti di “mafia”. C’era pure in questa occasione un’altra volta don Ciotti a sbraitare nella Mesagne che mi ha visto nascere “contro la mafia”, “l’omertà”, “la gente che ha paura della mafia” e “tace”… e tace soprattutto perché di tutte quelle porcherie sopra elencate non ce n’è manco l’ombra, e quindi che deve dire? C’era pure l’immancabile altro classico della tv italiana, il solito giornalista imbecille e, direbbe Sgarbi, “raccomandato e rottinculo”, che accosta col microfono un povero vecchio che ignaro prende il sole davanti al BarSport a domandagli d’improvviso: “La mafia a Mesagne esiste?”. E quello cade dalle nuvole, ma avvertendo subliminalmente, dinanzi alla tirannia nazista del microfono sciacallo, che è politicamente scorretto dire che la mafia non c’è anche se è vero che non c’è, nell’imbarazzo tace, tanto se dicesse la verità, che la mafia a Mesagne non c’è non solo non sarebbe creduto, ma passerebbe pure per “omertoso”, forse “colluso” e certamente un poco “fascista”. E dalla sera alla mattina un contadino ottantenne che ha lavorato onestamente la terra per una vita, si troverebbe “uomo d’onore”; e infatti, l’altro vecchio, più spigliato, dice giustamente “io non l’ho mai vista”. Risultato: giornalista Rai grida ai quattro venti: “Aveva ragione don Ciotti, ecco la città mafiosa, la gente ha paura della mafia, l’omertà dilaga”. Retorica da antimafia delle chiacchiere. E che, chiacchierando chiacchierando, calunnia. Mesagne non è la prima vittima dei professionisti dell’antimafia delle chiacchiere: le sue vittime, più numerose ormai di quelle della mafia stessa, contano nomi sempre più eccellenti: da Andreotti a Berlusconi. Tutti, naturalmente, assolti con formula piena da tribunali non certo di destra. Mentre quelli che davvero torturarono in vita giudici come Falcone, per poi farselo “amico” appena saltato in aria, quelli non li processa nessuno, anzi, sono fra i massimi notabili dell’antimafia della chiacchiere: parlo per esempio di Leoluca Orlando, o anche del giornale la Repubblica. E infatti scopri che chi ha tentato di aiutare Falcone, con leggi durissime che la mafia l’hanno messa in crisi sino a spingerla a sparargli addosso e a passare allo stragismo terrorista pur di farsele abolire; che chi ha tentato di salvare per amicizia Falcone dall’orda infame, calunniatrice e vigliacca dei suoi colleghi magistrati rossi siciliani, sino a prospettarne la candidatura al Senato per la DC, per strapparlo a quell’ambiente avvelenato di futuri professionisti dell’antimafia delle chiacchiere e dei comizi, furono proprio due personaggi a loro volta perseguitati dai persecutori di Falcone: Andreotti e Calogero Mannino. Guardacaso gli stessi che poi i professionisti dell’antimafia dichiararono “mafiosi” e trascinarono, naturalmente senza una prova, in tribunale. Per sfregio, per odio ideologico. Guardacaso i soli (insieme a Martelli) su cui Falcone potè contare.

LA VERA MAFIA CHE PRETENDE OMERTÀ È QUELLA DEL PROFESSIONISMO DELL’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. Da oggi, quindi, per bolla pontificia di don Ciotti, sommo pontefice dell’antimafia delle chiacchiere, l’attentato di Brindisi è opera della mafia, e la Mesagne che diede i natali al Mastino, ossia a me, è città di mafia. E non lo sapevo. Per riflesso condizionato, quindi, occhio e croce dovrei essere mafioso pure io. Potrebbe essere. Ma voi ve lo immaginate un Mastino “omertoso”?! E proprio perché non sono né mafioso né omertoso, la dico tutta: l’unica mafia, l’unico atteggiamento mafioso e che pretende omertà qualunque cosa dica o faccia, è proprio il professionismo dell’antimafia delle chiacchiere, con tutte le su “Carovane” donciottesche. Dulcis in fundo, leggo l’Ansa del 29 maggio, attenti alle sottolineature: Marcia della legalità a Mesagne (Brindisi), il paese di Melissa Bassi. ”Melissa – ha detto Don Luigi Ciotti, presidente di Libera – è viva, anche se fisicamente non c’é più. Stamani al cimitero ho visto che qualcuno ha attaccato due pezzi di carta. C’era scritto: Melissa vive dentro di noi. Noi ci sentiamo un po’ tutti Melissa”. No, non è vero: i morti sono morti, morti per davvero per il mondo, fisicamente e prestissimo anche “dentro” tutti: solo i genitori si porteranno dentro un dolore che appartiene solitario allo scrigno del loro cuore. Tutto il resto sono chiacchiere. Se non sei una grande mistica, una grande leader, una maitre a penser, che ha segnato la storia, le cose stanno così: sei morta davvero. Mi fa schifo l’ipocrisia che dice le cose “che si devono dire” in determinate circostanze anche se non sono vere: l’ipocrisia sui morti, la menzogna invece della preghiera sparsa sui loro resti, sono sacrilegio e blasfemia.

DIO È LUI, DON CIOTTI. E “LIBERA” NE È IL SUO CORPO MISTICO, LA SUA CHIESA. Come vedete, Ciotti è capace di dire di tutto, persino cose tra il pagano e lo gnostico, purché abbastanza sentimentalistico e formato La Vita in Diretta; tutto, compreso che è “viva” e magari “dentro di noi”, anziché ammettere l’unica cosa che, da prete, avrebbe dovuto dire, la più semplice: “E’ morta, è risorta in Cristo, finalmente ha visto il Suo Santo Volto”. Non lo dice perché è fuori moda, perché in fondo non ci crede, perché se ne vergogna, perché in definitiva gli sembra irrilevante ai suoi fini. Soprattutto perché gli interessa il consenso dell’intellighenzia, delle platee, i galloni della cronaca. Gli applausi del mondo. E per ottenerli è necessaria l’apostasia silenziosa: che non consiste più (solo) nella negazione plateale delle verità cattoliche, quanto piuttosto nella rimozione discreta di Dio. Da ogni contesto. Dalla propria lingua, anzitutto. Perché Dio è lui, don Ciotti. E Libera ne è il suo corpo mistico, la sua chiesa. Costruita sulle sabbie mobili delle mode del mondo. Dello spirito del mondo, cioè. Che poi, come detto, è sempre Lucifero. Tra donchisciottismo e donciottismo non vedo la differenza: Don Chisciotte combatte contro tutti i mulini a vento, scambiati per mostri dalle braccia rotanti; don Ciotti pure, credendo però di combattere la mafia. Ho qui davanti a me Il Mercante di Venezia di Shakespeare. Lo sfoglio a caso e leggo, pensando immediatamente a Ciotti e a quelli come lui: “Le forme esteriori possono ingannare, sempre l’ornamento inganna il mondo. Nei processi, quale causa disonesta e corrotta che, sostenuta da una voce graziosa, non maschera il volto del male? Nella religione, quale colpa tanto maledetta che una fronte grave non la benedica e approvi usando un testo sacro, con una bella frase celando l’ignominia? Non c’è vizio elementare che non assuma qualche segno di virtù sulle sue parti esterne. Quanti codardi hanno cuori ingannevoli come gradini di sabbia, eppure portano sul mento la barba di Marte corrucciato e di Ercole, loro che, frugati dentro, hanno fegati bianchi come il latte. L’ornamento così, non è che l’insidiosa riva d’un mare periglioso, il velo sfarzoso che nasconde una bellezza barbarica: in una parola, la falsa verità che i tempi astuti indossano per intrappolare i più saggi”. Non a caso ho sotto gli occhi una frase rivelatrice di don Ciotti, a proposito della causa di beatificazione di Tonino Bello, suo omologo pugliese, con un curriculum simile: “Occorrono due miracoli per la beatificazione di don Tonino? Ci sono! Il primo è stato l’elezione di Vendola a governatore della Puglia; il secondo, la sua rielezione”. Non c’è niente da aggiungere.

Dopo il prete cosiddetto antimafia parliamo dello scrittore cosiddetto antimafia.

Prima di Gomorra. Saviano: "La rivoluzione va fatta col fucile" / l'audio di quando aveva 20 anni. Lotta armata, terrorismo e anni di piombo. L'intervento dell'autore di Gomorra a un convegno quando era studente universitario, scrive “Libero Quotidiano”. Pensare che oggi è il volto rassicurante della sinistra progressista: ieri era un filoterrorista marxista senza pietà che declamava: "La rivoluzione si fa con il fucile". Parliamo di Roberto Saviano, l'autore di Gomorra e coprotagonista con Fabio Fazio di Che tempo che fa. Ora siamo abituati a vederlo denunciare le ingiustizie nel mondo con prediche grondanti moralità, ma i suoi giovanili interventi in pubblico grondavano altro. Nel 2000, quando era uno studente universitario di 21 anni, Saviano prese la parola in un convegno dal titolo "Terrorismo ieri, oggi, domani?" presso la Federico II di Napoli. A un anno dall'omicidio (firmato Brigate Rosse) del giuslavorista Massimo D'Antona, il virgulto Saviano si lancia in una disanima degli anni di piombo il cui leit motiv è "la rivoluzione comunista in Italia è mancata per una questione di metodo". "I terroristi - diceva - hanno sbagliato semplicemente forma: la rivoluzione non si fa, si dirige. Loro hanno cercato come piccola cellula di individui isolati di generare un processo rivoluzionario non ancora maturo e quindi anche castrandolo". Dal momento che il convegno, cui partecipavano magistrati e cattedratici, poneva anche interrogativi sul futuro, Saviano concludeva il suo intervento con un auspicio: "Vorrei soltanto fosse focalizzato il problema sul capitalismo e sulle sue crisi che generano e genereranno rivoluzioni e di nuovo colpi di fucile nel futuro immediato”. Giovane rivoluzionario - Possiamo riascoltare il Saviano-pensiero grazie a Radio Radicale. Secondo il giovane Roberto, i terroristi “Erano parte sensibile di un grande movimento operaio che si sentiva tradito dal Pci, che aveva tradito con la sua scelta socialdemocratica le aspettative rivoluzionarie“. Gli anni di piombo sono dovuti qundi, stando al piccolo Saviano, a un naturale riequilibrarsi della lotta proletaria: "E così – prosegue – i terroristi prendono le armi per cercare in qualche modo portare avanti questo progetto che era stato tradito dal Pci”. Non era spaventato dalla scia di sangue e morte rimasta sull'asfalto: quella dei terroristi era autodifesa di classe. "Un magistrato, un poliziotto, un politico - argomentava - non fanno qualcosa di più lecito se parliamo di etica di quello che fa un rivoluzionario sparando. Certo non ho vissuto quegli anni ma non sto certo dalla parte della magistratura - incredibile a sentirsi oggi - non sto certo dalla parte di chi in qualche modo rivendica le radici democratiche di chi ha sconfitto il terrorismo". Il pranzo di gala - E' un combattente vero l'autore di Gomorra negli anni pre-Gomorra. “La rivoluzione - arringava la platea di studenti della sua età - è la modificazione dell'attuale stato di cose presenti diceva Marx, quindi si fa col fucile. La polizia era armata, chi faceva resistenza doveva armarsi”. L'origine dei problemi, in ogni caso, non era la repressione degli organi dello Stato: “Il problema – tagliava corto Saviano – rimane il capitalismo”.

Daniele Sepe scrive un rap anti Saviano: «È intoccabile più del Papa». Il musicista, «comunista» napoletano, accusa lo scrittore di non accettare il contraddittorio e di essere manovrato, scrive Antonio Fiore su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Roberto Saviano bugiardo e imbroglione, costruttore del proprio mito, showman interessato più al diritto d’autore che al dovere della verità: se il libro di Dal Lago era una critica all’«eroe di carta», Cronache di Napoli di Daniele Sepe è un attacco senza precedenti all’autore di Gomorra.

Sepe, ma perché ce l’ha tanto con Saviano? «Non c’è nessuna polemica verso di lui».

Alla faccia: nel suo testo gliene dice di tutti i colori. «Contesto innanzitutto il fatto che Saviano sia un esperto di mafia».

Nega che a partire dal libro di Saviano sia cambiata nell’opinione pubblica non solo nazionale la percezione del fenomeno camorra? «Ricordo una bellissima copertina di Der Spiegel negli anni Settanta, quella con la pistola sul piatto di spaghetti. Sin da allora la mafia faceva notizia».

Già, ma quella fu una trovata giornalistica, di costume. «E anche Gomorra è un libro di costume. Con dentro tante imprecisioni e inesattezze che nessuno si è però preso la briga di verificare».

La storia del container pieno di cinesi morti, va bene. Però Saviano le risponderebbe che... «Risponderebbe che il suo è un romanzo. D’accordo, anche Sciascia scriveva (straordinari) romanzi sulla mafia. Ma non mi risulta che fosse considerato un esperto di mafia».

Saviano, però, ha portato alla luce gli intrighi di un clan pericolosissimo eppure mediaticamente sottovalutato come quello dei casalesi. Almeno questo, glielo possiamo riconoscere? «Perché, oltre a quello dei conosciutissimi boss ha fatto mai qualche nome? Se lui sa che i casalesi fanno affari con i grandi della politica e della finanza, perché non ci dice chi sono? Oppure i casalesi il business li fanno con i cinesi morti? Dice di sapere tutto dello scandalo-rifiuti in Campania. Ma quali aziende ha denunciato? Nessuna. Per attaccare un politico - vedi il caso Cosentino - aspetta che i giudici tirino fuori le carte. Saviano è solo una bella cortina fumogena. Se devo informarmi su che cosa è la camorra, scelgo sempre il buon vecchio Napoli fine Novecento. Politici, camorristi, imprenditori di Francesco Barbagallo».

Da un uomo di sinistra, anzi di sinistra radicale, non si sente politicamente scorretto? «Da comunista dico: quando da decenni la politica è fatta da governi presieduti dagli editori di Saviano, e quando i provvedimenti finanziari si accaniscono sulla povera gente, sicuramente chi ci guadagna è la camorra. La povera gente qualcosa deve pur mangiare, e la legalità è una cosa bellissima, ma non si mangia. Il problema criminale, in Campania e in tutto il Sud, va analizzato tendendo conto che qui sono 20 anni che le aziende chiudono per favorirne altre al Nord, e che la malavita attecchisce per mancanza di alternative, non perché qui vivono scimmie malvagie dedite al cannibalismo».

Intanto Saviano, per aver lanciato la sua sfida ai clan, è costretto a vivere sotto scorta. Ma lei ha da ridire anche su questo.  «A me risulta che, a suo tempo, il capo della Mobile dette parere negativo alla concessione della scorta. E per avere espresso questo punto di vista è stato rimbrottato addirittura dal capo della Polizia. Ma allora io mi chiedo: in Italia non c’è solo Padre Pio tra gli intoccabili? Possibile che si possa criticare il Papa, e Saviano no? Che persino Berlusconi accetti il contraddittorio, e Saviano no? Perché non posso dirgli guaglio’, stai dicenno ’na strunzata?».

Forse perché incrinerebbe un fronte di solidarietà verso una persona minacciata di morte? «Ma chi minaccia Saviano, e perché? Da cittadino italiano avrei il diritto di saperlo: quali sono ’ste minacce? Le telefonate anonime? Non che la cosa mi scandalizzi: in Italia ci sono tante scorte inutili, una in più, una in meno...».

Ma lo sa che cose simili le ha dette Emilio Fede, uno con il quale non credo che lei sia in sintonia? «Fede è sotto scorta da 15 anni, però continuiamo a criticarlo. E invece Saviano no, è incriticabile?».

Lei comunque non si fa pregare: nel finale della canzone definisce Berlusconi il capo burattinaio che paga l’affitto a Saviano. «Non sono il capo dei servizi segreti e non ho prove da portare, anche se prendo atto che Saviano è sempre molto deferente verso il suo editore. Del caso Saviano io faccio un’analisi politica: ciò che sta accadendo intorno a questo autore è funzionale a una destra populista, in cui il fenomeno della camorra è ridotto alla cattiveria innata di ceti popolari dediti al malaffare e al loro desiderio di fare soldi il più in fretta possibile. Secondo questa analisi il problema si risolve con più 41 bis, con più esercito, più polizia come vuole Maroni, non a caso amatissimo da Saviano».

E ora come si aspetta che valuteranno a sinistra questa sua presa di posizione? «Ormai il savianismo è una religione. Credo che come minimo mi scorticheranno vivo».

Intimidazioni, ricatti, violenza sono le armi del mafioso. Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa una associazione, secondo l’art. 416 bis C.P., è quindi la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne deriva: ossia è quello che fa il potere in tutti i suoi gangli.

MAI DIRE REPUBBLICA. DEMOCRAZIA MAFIOSA. LA MAFIA ELETTORALE: TRUFFATORI E TRUFFATI.

Il “Porcellum e noi, scrive Mauro Scrobogna su “Il Post”. Tra ottobre e novembre 2012 il tema centrale del dibattito politico sembrava essere quello della legge elettorale: alla Commissione Affari costituzionali del Senato i partiti hanno discusso e litigato molto su come modificare quella attuale, oggetto di critiche da ogni direzione, compreso da chi la approvò. Poi sono arrivati dicembre e la crisi di governo annunciata: ci sarà tempo solo per approvare pochi provvedimenti oltre alla legge di stabilità e quasi certamente la legge elettorale non sarà tra questi, dato che non si è raggiunto un accordo tra i partiti. Si voterà ancora con il Porcellum, dunque, per la terza volta. La legge elettorale in vigore è il cosiddetto “Porcellum” (legge n. 270 del 21 dicembre 2005 o “legge Calderoli”): il soprannome venne dato dal politologo Giovanni Sartori in un articolo sul “Corriere della Sera” del primo novembre 2006 perché Calderoli stesso, primo firmatario della legge, la definì «una porcata» sei mesi dopo la sua approvazione. Approvazione complicata, tra l’altro, perché venne votata dalla sola maggioranza di centrodestra al governo e al momento del voto definitivo l’opposizione uscì dall’aula. Calderoli disse che era stata pensata appositamente per non far vincere con una maggioranza chiara il centrosinistra alle elezioni del 2006, come oggi confermano senza problemi in dibattiti e interviste molti esponenti del centrodestra allora al governo. Il ritorno al sistema proporzionale fu chiesto con insistenza soprattutto dall’UdC. Nelle intenzioni del centrodestra, alla nuova legge elettorale doveva accompagnarsi un’ampia riforma costituzionale in senso presidenziale e federale, gradita a Forza Italia, Alleanza Nazionale e alla Lega Nord, che venne però bocciata con un referendum del 2006. Il Porcellum invece è rimasto.

Le caratteristiche principali e il premio di maggioranza. Il Porcellum è un sistema proporzionale corretto. Nei suoi aspetti fondamentali, dà alla Camera un sostanzioso premio di maggioranza (55 per cento dei seggi, 340 deputati) alla coalizione di partiti o al partito che ottiene più voti delle altre su base nazionale, senza nessuna soglia percentuale da raggiungere e dunque potenzialmente anche a chi ha preso il 30 per cento o meno (naturalmente la coalizione o la lista deve aver superato le soglie di sbarramento necessarie a entrare in parlamento). Alle elezioni politiche del 2008, quelle che hanno determinato l’attuale parlamento e le seconde votate con il Porcellum dopo quelle del 2006, la coalizione PdL-Lega-MpA ottenne il premio di maggioranza con circa il 46 per cento dei voti, contro il 37 per cento di quella di centrosinistra. La logica del Porcellum è assegnare maggioranze molto solide alla Camera per aumentare la stabilità e la durata dei governi. Al Senato, invece, la legge assegna i voti su base regionale: il partito o la coalizione con più voti prende il 55 per cento dei seggi assegnati a quella regione. Questo meccanismo rende l’esito finale del voto molto più incerto. Lo squilibrio si vede molto bene dai risultati delle elezioni politiche del 2006: l’Unione di centrosinistra vinse di poche migliaia di voti a livello nazionale, ottenendo il 49,8 per cento circa contro il 49,7 della Casa delle Libertà, ma grazie al premio di maggioranza aveva ben 340 deputati contro 277. Al Senato, invece, l’Unione aveva una piccola maggioranza di tre senatori, pur avendo preso circa 200.000 voti in meno del centrodestra a livello nazionale (fu determinante il voto all’estero).

Le preferenze (che non ci sono). Con il Porcellum, l’elettore non esprime nessuna preferenza: cioè non scrive nessun nome sulla scheda e si limita a votare un simbolo, a cui è collegato una lista di candidati decisa dal partito. Questo è uno dei punti più importanti: l’unica cosa su cui tutte le forze politiche sembravano d’accordo era la reintroduzione di un meccanismo che permettesse agli elettori di scegliere direttamente il loro rappresentante, le preferenze o i collegi uninominali. Anche se con varie resistenze, soprattutto nel PD, il maggior accordo si trovava nella reintroduzione delle preferenze, che infatti era prevista nel progetto in discussione alla commissione parlamentare. Bisogna tenere presente che, nonostante molti esponenti politici ne parlino da mesi come della soluzione di tutti i problemi, anche le preferenze hanno i loro lati negativi e durante la Prima repubblica erano considerate l’origine di moltissime storture e clientelismi. Ma come vengono scelti i parlamentari con il Porcellum, in concreto? I seggi conquistati complessivamente alle elezioni sono distribuiti sulla base di grandi collegi elettorali (27 per tutto il territorio nazionale) in cui sono possibili candidature multiple: in ogni collegio, quindi, i partiti o le coalizioni presentano una lista di candidati “bloccata” e, nella pratica, con i primi nomi spesso uguali (alle elezioni del 2008, ad esempio, nelle liste del PdL alla Camera delle 27 circoscrizioni c’erano sempre al primo posto Silvio Berlusconi e al secondo Gianfranco Fini). I primi candidati di ogni lista, a seconda del numero dei voti presi nella circoscrizione, vanno in parlamento. Ci si può candidare in più circoscrizioni, chi viene eletto in più circoscrizioni decide per quale seggio optare liberando un posto dove si ritira. Prima delle elezioni, le coalizioni devono presentare il loro simbolo e indicare obbligatoriamente un programma e un “capo” della coalizione: la carica di presidente del Consiglio non compare, formalmente, dato che la sua nomina è fatta dal presidente della Repubblica. Dodici deputati e sei senatori sono eletti dalle persone con cittadinanza italiana residenti all’estero (altra novità introdotta dalla legge). Alle elezioni del 2013, per esempio ci troviamo il paradosso che a Taranto i tarantini non voteranno un loro conterraneo, ma gli verrà imposto dal PD di votare l'ex magistrato e parlamentare di lunghissimo corso, ossia la siciliana Anna Finocchiaro, il cui marito è accusato in Sicilia (a Catania) di abuso di ufficio e truffa aggravata.

Gli sbarramenti. Ci sono poi le soglie di sbarramento. Per ottenere seggi alla Camera, ogni coalizione deve ottenere almeno il 10 per cento dei voti su base nazionale; le liste che non fanno parte di una coalizione devono invece ottenere almeno il 4 per cento. Le liste che compongono una coalizione partecipano alla ripartizione dei seggi se hanno superato singolarmente il 2 per cento dei voti (oltre alla prima sotto questa soglia in ciascuna coalizione, la cosiddetta miglior perdente). Al Senato, invece, le soglie di sbarramento sono tutte a livello regionale: per le coalizioni è del 20 per cento, 3 per cento per le liste che compongono, 8 per cento per le liste non coalizzate e che fanno parte di coalizioni che non hanno raggiunto il 20 per cento.

Come si votava prima. In generale, la Costituzione italiana non dà indicazioni specifiche sulla legge elettorale, con l’eccezione dell’articolo 57 che prevede che il Senato sia eletto su base regionale. Per quasi cinquant’anni, dal 1946 al 1993, in Italia si è votato con la stessa legge elettorale, che era sostanzialmente un proporzionale puro, cioè assegnava i seggi in proporzione al numero di voti ottenuti, con le preferenze. Dato che nessun partito politico italiano ha mai preso, da solo, più del 50 per cento dei voti, nelle sedici elezioni politiche della storia repubblicana, il sistema ha avuto come conseguenza la necessità di formare coalizioni per avere la maggioranza dei seggi alla Camera e l’instabilità dei governi. Nel 1953, la legge elettorale venne modificata a maggioranza con la cosiddetta “legge truffa”, che fu al centro di feroci scontri politici (e di sedute molto agitate in parlamento). La nuova legge fu un tentativo di introdurre un premio di maggioranza per la coalizione che otteneva la maggioranza assoluta dei voti: ma la coalizione di governo che l’aveva votata, formata da Democrazia Cristiana, repubblicani, socialdemocratici e liberali, si fermò al 49,8 per cento dei voti e non ottenne il premio. La legge venne abrogata dopo pochi mesi e si tornò al vecchio proporzionale puro. Di cambiare la legge elettorale si ricominciò a parlare con qualche passo concreto a partire dagli anni Ottanta (una commissione parlamentare, la cosiddetta “commissione Bozzi”). Ma ci sono voluti Mani Pulite, la sparizione dei maggiori partiti della Prima Repubblica e due referendum nel 1991 e nel 1993 per arrivare alla modifica della prima legge elettorale. Nell’agosto 1993, infatti, venne approvato il Mattarellum (un altro soprannome inventato da Sartori, dal nome del suo proponente, l’ex ministro democristiano Sergio Mattarella): un sistema dai meccanismi piuttosto complicati ma che, come caratteristica fondamentale, assegnava i seggi per tre quarti con il maggioritario e per un quarto con il proporzionale (aveva poi uno strano e sbilanciato meccanismo per la tutela dei partiti minori, il famoso “scorporo”). Il Mattarellum è stato la legge elettorale per le elezioni del 1994, del 1996 e del 2001, prima della legge Calderoli.

La legge truffa del 1953. E oggi?  Riforma elettorale: una nuova “legge truffa”? Così scrive Carlo Cerioni. 21 gennaio 1953: la Camera dei Deputati italiana approva la legge n. 148, contenente norme di riforma della legge elettorale proporzionale in senso maggioritario. La legge elettorale della Repubblica italiana risaliva a pochi anni prima, poiché nel marzo 1946, con il Decreto legislativo luogotenenziale n. 74, era entrata in vigore la legge con cui si sarebbero tenute le elezioni del 2 giugno successivo, insieme al referendum istituzionale nel quale gli italiani avrebbero scelto tra repubblica e monarchia. Il sistema elettorale che quel decreto prevedeva era largamente proporzionalista, mentre la legge del 1953 introduceva il criterio maggioritario: il partito (o la coalizione) che avesse ottenuto almeno il 50% più 1 dei voti validi avrebbe avuto il 64,5% dei seggi, ovvero un premio di circa il 14,5%.  Come molti ricorderanno, la sinistra si oppose con forza alla legge del 1953, contestando al governo De Gasperi, che l’aveva proposta e sostenuta, non solo il contenuto della norma, ma anche il modo con cui essa era stata deliberata. Alla legge si oppose anche l’estrema destra (il Partito Nazionale Monarchico e il Movimento Sociale Italiano) e furono in forte imbarazzo con i propri partiti anche alcuni esponenti di formazioni moderate che sostenevano la normativa: Piero Calamandrei e Tristano Codignola, ad esempio, si opposero alla legge ed entrarono in conflitto con il Partito Socialista Democratico al quale appartenevano; per la stessa ragione Ferruccio Parri uscì dal Partito Repubblicano e insieme a Calamandrei fondò Unità Popolare, formazione politica che aveva lo scopo di avversare il nuovo sistema maggioritario. In effetti le modalità di approvazione della legge n. 148 furono al limite della correttezza istituzionale, se non proprio della legalità. Infatti, poiché alla Camera si discusse a lungo e si mostrarono in tutta la loro estensione i pareri contrari e i dubbi, al Senato il governo e l’Ufficio di Presidenza fecero in modo di accorciare il dibattito; poi, approfittando della festività della domenica delle Palme, in cui tradizionalmente i lavori venivano sospesi, si passò al voto con l’assenza di molti deputati e senatori, ottenendo così il varo della legge. La DC aveva bisogna che la norma venisse approvata in tempo per le elezioni del giugno seguente e, temendo una perdita di consensi dopo il periodo di governo centrista che durava dal 1948, intendeva presentarsi alle elezioni senza correre il rischio di perdere la guida assoluta dell’esecutivo. Fu Calamandrei, a quanto pare, ad usare per primo l’espressione “legge truffa” per riferirsi alla legge maggioritaria, alludendo con tale espressione al modo con cui era stata approvata, ma soprattutto al contenuto di essa: il principio maggioritario era considerato dall’illustre costituzionalista come un vulnus per la democrazia, un attacco al principio di rappresentanza, una minaccia per la libertà. Il PCI e il PSI si gettarono a corpo morto nella mobilitazione contro la legge, accusarono De Gasperi di aver attuato un colpo di Stato e di voler instaurare una dittatura ottenendo, attraverso il premio maggioritario, il controllo assoluto del Parlamento. Il rischio di tornare al ventennio fascista, secondo l’opposizione, era reale e imminente, perciò occorreva una fortissima mobilitazione contro il governo e contro la DC. La sinistra evocò lo spettro della legge Acerbo, quella che nelle elezioni del 1924 aveva consentito al Partito Fascista di vincere le elezioni, utilizzando anche la violenza e le intimidazioni in aggiunta al rilevante premio di maggioranza che quella norma consentiva (2/3 dei seggi al partito che raggiungeva il 25% dei suffragi). Così, la campagna elettorale del 1953 fu assai dura e i toni che vi si impiegarono furono da guerra civile: il PCI paventò il rischio della dittatura, la DC quello dell’anarchia. Ma le cose andarono diversamente: alle elezioni del 7-8 giugno la DC, alleata con il PSDI, il PRI, il PLI, il Partito sardo d’Azione e la Sudtiroler Volkspartei ottenne il 49,8% dei voti; la sola DC perse quasi il 9% dei suffragi rispetto al 1948; il PCI e il PSI aumentarono i loro voti portando in Parlamento 35 deputati in più rispetto al 1948; ma aumentarono anche i suffragi delle forze di estrema destra, i monarchici e il MSI. Nel complesso furono le forze moderate di centro e centro-sinistra ad uscire sconfitte; vinsero invece le forze estreme, sia di destra sia di sinistra. Ovviamente il premio di maggioranza non scattò, seppure solo per pochissimi voti (poco più di 50 mila). La DC, da partito di maggioranza assoluta qual era stato nel 1948, divenne partito di maggioranza relativa: perciò continuò a governare, ma da quel momento non poté più farlo da sola, bensì in coalizioni sempre più vaste e sempre più instabili. La volontà di De Gasperi di evitare, grazie alla legge maggioritaria, l’instabilità degli esecutivi naufragò completamente, obbligando la DC ad aprirsi ad alleanze con la destra monarchica e missina. La legge n. 148 venne poi abrogata nel 1954. Certo, oggi sappiamo che il fallimento della legge maggioritaria portò, dopo i conflitti generati dall’ingresso nella maggioranza del Msi e dei monarchici (dal 1957 al 1960), verso il centro-sinistra del 1962, quando il PSI entrò nell’esecutivo insieme alla DC. Ma la precarietà dei governi e la difficoltà a trovare compromessi tra i partiti da quel momento divennero la regola della politica nella prima Repubblica. La vicenda della legge truffa mi è venuta in mente ascoltando il dibattito sulla riforma elettorale. E’ il PD di Bersani, erede di quel PCI che nel 1953 si oppose alla legge maggioritaria, a chiedere a gran voce un sistema proporzionale con un forte correttivo in senso maggioritario. Cosa c’entra con la legge del 1953? Bé, valutate voi: allora il premio maggioritario che la legge 148 proponeva era del 14,5% a favore del partito che otteneva il 50% più uno dei voti validi; oggi il PD propone di attribuire la maggioranza assoluta a quel partito (o coalizione) che ottenga circa il 40% dei voti. Non solo: al partito che non dovesse raggiungere quella soglia, il PD propone di assegnare un “premietto” del 10%, sicché, se venisse accettata questa idea, con un terzo dei voti si potrebbe ottenere quasi la metà dei seggi! E pensare che la legge truffa è ancora oggi presentata, nelle opere degli storici di sinistra, come parte di una più vasta strategia della DC di “restringere le libertà civili […], rafforzare la legge e l’ordine, […] limitare i diritti degli estremisti”, strategia di cui “la legge elettorale fu l’elemento più importante”: così scrive Paul Ginsborg, storico di sinistra molto amato dagli intellettuali progressisti che frequentano gli Istituti di storia della Resistenza, nella sua Storia d’Italia 1943-1996. Famiglia, società, Stato (Torino, Einaudi, 1998, p. 168). Sia ben inteso: non vi è nulla di male nel cambiare opinione, né nell’affermare oggi quel che ieri veniva imputato ad altri come attacco alla democrazia. I tempi cambiano, le necessità della politica mutano con essi. Ma mi piacerebbe sentire qualche intellettuale di sinistra riconoscere che la proposta di De Gasperi non era un colpo di Stato, ma il tentativo, per usare le parole oggi utilizzate da Bersani, di garantire stabilità e “governabilità” ad un paese in preda a conati insurrezionali sia di estrema destra sia di estrema sinistra. Se questo riconoscimento vi fosse, allora potremmo dire che la nostra memoria storica sta cominciando ad essere condivisa e pacificata. Infine, trovato l’accordo sul nostro passato, occorrerebbe ricordare a quanti stanno discutendo la riforma elettorale che un eventuale premio di maggioranza si può dare solo al partito (o coalizione) che ha ottenuto un vasto consenso, almeno del 45-50%: altrimenti sì, che si potrebbe evocare lo spettro della legge Acerbo! Chi ha un quarto o un terzo dei voti validi non può attribuirsi la maggioranza assoluta dei seggi. Se così dovesse accadere, ricorderemmo la nuova legge elettorale come una rediviva “legge truffa”. Ma lo riconoscerebbero anche gli intellettuali di sinistra? Ne dubito.

E nel pantano malsano della politica ci sguazzano i magistrati, specialmente quelli che hanno goduto della ribalta mediatica per inchieste, fondate o meno, strumentali o meno, di sicuro appiglio sociale. Un autore attendibile, una nuova inchiesta, la storia infinita della trattativa che torna ad arricchirsi. Il Pm Antonino Di Matteo, da anni impegnato a chiarire i contorni del presunto accordo tra lo Stato italiano ed i vertici di Cosa Nostra, ha ricevuto un dossier anonimo di dodici pagine in cui vengono indicati nomi, cognomi, prove, luoghi e circostanze fino ad allora sconosciuti. E’ il quotidiano “La Repubblica” a parlarne, spiega che nella lettera in questione, senza mittente, si sostiene che il pool di magistrati palermitani che si occupano dell’inchiesta sarebbero addirittura spiati e che l’agenda rossa di Borsellino, su cui il giudice era solito annotare tutte le informazioni riguardo le indagini, sarebbe stata rubata da un carabiniere. Nello stesso testo si legge che la mattina del 15 gennaio 1993, poco prima della cattura di Totò Riina, qualcuno entrò nel covo del boss per ripulire l’archivio di ogni prova.

«Ogni Valutazione dovrebbe essere fatta sapendo esattamente di chi si sta parlando e quali indicazioni vengono fornite nello specifico, mentre nel testo pervenuto ancora non ci è stato detto niente – commenta lo storico e politologo Agostino Giovagnoli, contattato da Claudio Perlini, la cui intervista è pubblicata su “Il Sussidiario”. Agostino Giovagnoli. Politologo. Laureato in Filosofia presso l’Università di Roma “La Sapienza”, il prof. Agostino Giovagnoli è stato ricercatore a Bari dal 1982 e professore ordinario a Sassari dal 1987. Dal 1993 insegna “Storia contemporanea” presso l’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove è anche Direttore del Dipartimento di Scienze Storiche. Dal 1988 è coordinatore di un Dottorato di Ricerca in Storia sociale e religiosa. Si è principalmente occupato di storia dei rapporti tra Stato e Chiesa e dell’atteggiamento dei cattolici verso lo Stato unitario, a partire dalla ricostruzione delle trattative tra Pio IX e Cavour nel 1860-61 fino a giungere alle posizioni di Moro nella Prima Repubblica.  – Detto questo personalmente l’intera faccenda mi lascia perplesso.»

Come mai?

«Innanzitutto, riguardo il testo anonimo di cui si parla in queste ore, in base a quanto viene riferito, non si evince alcun elemento di novità. Il fatto che l’autore del documento sia a conoscenza di una serie di circostanze non è di per sé particolarmente significativo ed anche quanto annunciato riguardo la sparizione dell’agenda rossa di Borsellino, forse trafugata da un carabiniere, non rappresenta nulla di nuovo, visto che come sappiamo è già avvenuta un’indagine che si è conclusa con un proscioglimento. Le mie perplessità si spostano poi indietro nel tempo e nascono proprio intorno alla base di questa indagine sulla presunta trattativa che, a mio avviso, è molto discutibile.»

Su quali punti in particolare?

«I miei dubbi riguardano innanzitutto la presenza di un reato vero e proprio. Gli stessi giudici che hanno aperto l’inchiesta e indagato sula trattativa riconoscono infatti che in realtà non si configura alcun reato. Dunque mi chiedo: che cos’è questa trattativa tra Stato e mafia? Il fatto che alcune personalità istituzionali o politiche abbiano tenuto conto di un rischio di tipo terroristico è una valutazione su cui ovviamente si può esser ed’accordo o meno, ma francamente non vedo quale sia il reato. Credo, infatti, sia nella responsabilità di chi occupa certi ruoli valutare un determinato rischio e stiamo parlando di una stagione di morti, bombe ed attentati. C’è poi una seconda perplessità di fondo.»

Quale?

«Riguardo la competenza. Se effettivamente si tratta di un reato che ha coinvolto dei ministri, perché i giudici di Palermo non hanno rinviato il tutto al Tribunale dei Ministri ed aperto un procedimento contro chi era in carica all’epoca, come Mancino, che avrebbe commesso un reato nell’esercizio della sue funzioni? Poi, entrando nel merito, un terzo punto riguarda proprio Mancino.»

Iscritto nel registro degli indagati della Procura siciliana per il rato di falsa testimonianza…

«Esatto, e proprio perché la trattativa in sé non si configura come reato. Mancino ha solamente detto di non ricordare, cosa non vera secondo i giudici, che quindi lo hanno accusato di falsa testimonianza. La vicenda riguarda infatti il suo passaggio al Ministero dell’Interno quando il suo predecessore, Vincenzo Scotti, era già andato a quello degli Esteri nella complicata fase di formazione del nuovo governo. Su questo esistono decine di cronache politiche dell’epoca, giornali che concordemente hanno riferito come e perché fosse avvenuto quel passaggio di consegna quanto mai singolare, quindi si tratta di dare un’interpretazione dei fatti già molto conosciuta ed acclarata, ma senza motivazioni forti.»

Quindi?

«Qui nasce l’ennesima particolarità: i giudici si sono difesi da questa critica dicendo che la prova si costruisce nel processo e che quindi i documenti dell’epoca non sono rilevanti, o comunque, meno delle testimonianze. Questo va evidentemente contro ogni buon senso, visto che è chiaro che qualunque testimone è soggetto ai limiti della propria memoria, mentre i documenti, fino a prova contraria, sono certamente più attendibili. Insomma, tutte queste ragioni che ho elencato, a mio giudizio molto forti, confermano gli evidenti dubbi che aleggiano intorno a questa vicenda giudiziaria.»

Una domanda riguardo la configurazione del reato: come si può non vedere un reato nello scendere a patti con la mafia?

«Utilizziamo diversi esempi, dopo il rapimento del giudice Giovanni D’Urso (rapito dalle BR il 12 dicembre 1980 e liberato dopo 34 giorni di prigionia), si entrò in dialogo con una parte dei terroristi. Questo accade molto più di quanto noi immaginiamo, per esempio tutte le volte che volontari, giornalisti e cooperanti vengono rapiti in diverse parti del mondo. Ecco, in tutti questi casi lo Stato entra in qualche modo in contatto con dei terroristi e, probabilmente, paga diversi riscatti per salvare vite umane. Certo, possiamo anche discutere su tali scelte, ma credo sia un dovere dello Stato proteggere la vita dei propri cittadini e guai se non lo facesse. Poi come ho detto, è nell’ambito delle responsabilità di chi ha il potere decidere se compiere questi atti o meno.»

I risultati delle indagini della Commissione Antimafia lasciano ancora dubbi su quella stagione. Il presidente della Commissione antimafia, Beppe Pisanu, illustra le conclusioni dell'inchiesta."Stato-mafia, nessuna trattativa, ma intesa con uomini di Stato privi di mandato". E su Capaci: "La mafia ha avuto una consulenza tecnica per la strage?".  "Carabinieri e Ciancimino tentarono di imbastire la trattativa. E dopo l'assassinio Lima, politici siciliani potrebbero essersi attivati per indurre cosa nostra a desistere". In particolare Calogero Mannino, mentre Brusca e Ciancimino indicarono in Nicola Mancino il terminale della trattativa. "Posizioni da definire in sede giudiziaria". Ombre sugli attentati Falcone e Borsellino: "Cosa nostra non agì da sola". Non ci fu una vera trattativa tra Stato e mafia. I vertici istituzionali non sapevano. Ma ci furono servitori dello Stato che, pur privi di un mandato, ebbero contatti con pezzi di cosa nostra per giungere a un'intesa per fermare le stragi. E' quanto afferma Beppe Pisanu illustrando in Commissione antimafia le conclusioni dell'inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia e le stragi del '92-93. Evidenziate precise responsabilità nell'Arma dei carabinieri per convenienze strategiche, il sospetto che politici siciliani si siano attivati per favorire l'intesa spinti dalla paura di fare la fine di Salvo Lima. Ma si parla anche degli attentati a Falcone e Borsellino, tante ombre e una quasi certezza: cosa nostra non agì da sola.

«Sembra logico parlare, più che di una trattativa sul 41bis, di una tacita e parziale intesa tra parti in conflitto. Possiamo dire che ci fu almeno una trattativa tra uomini dello Stato privi di un mandato politico e uomini di Cosa nostra divisi tra loro, quindi privi anche loro di un mandato univoco e sovrano. Ci furono tra le due parti convergenze tattiche, ma strategie divergenti - spiega Pisanu - i carabinieri del Ros volevano far cessare le stragi, i mafiosi volevano svilupparle fino a piegare lo Stato. Piegarlo fino a qual punto? All'accettazione del papello o di qualche sua parte? A rigor di logica e a giudicare dai fatti, non si direbbe. Se "Cosa nostra" accettò una specie di trattativa a scalare, scendendo dal papello al più tenue contropapello e da questo al solo ridimensionamento del 41bis, mantenendo però alta la minaccia terrificante delle stragi, c'è da chiedersi se il suo reale obiettivo non fosse ben altro: e cioè il ripristino di quel regime di convivenza tra mafia e Stato che si era interrotto negli anni ottanta, dando luogo ad una controffensiva della magistratura, delle forze dell'ordine e della società civile che non aveva precedenti nella storia. Certo, l'obiettivo era ambizioso, ma il momento, come ho già detto, era propizio per la mafia e per tutti i nemici dello stato democratico. I Carabinieri e Vito Ciancimino - prosegua Pisanu nella sua analisi - hanno cercato di imbastire una specie di trattativa; cosa nostra li ha incoraggiati, ma senza abbandonare la linea stragista; lo Stato, in quanto tale, ossia nei suoi organi decisionali, non ha interloquito e ha risposto energicamente all'offensiva terroristico-criminale. Inoltre va detto che nessuno dei vertici istituzionali del tempo ha mai pensato di apporre il segreto di Stato su quelle vicende. I vertici istituzionali e politici del tempo, dal Presidente della Repubblica Scalfaro ai Presidenti del Consiglio Amato e Ciampi, hanno sempre affermato di non aver mai neppure sentito parlare di trattativa. Penso che non possiamo mettere in dubbio la loro parola e la loro fedeltà a Costituzione e a Stato di diritto. Rimane tuttavia il sospetto che, dopo l'uccisione dell'Onorevole Lima, uomini politici siciliani, minacciati di morte, si siano attivati per indurre 'cosa nostra' a desistere dai suoi propositi in cambio di concessioni da parte dello Stato. In particolare Calogero Mannino, ministro per il Mezzogiorno nella prima fase della trattativa (lasciò l'incarico nel giugno del 1992), avrebbe preso contatti al tal fine col Comandante del ROS Generale Subranni. Su Mannino pende ora una richiesta di rinvio a giudizio per il reato aggravato di minaccia a un corpo politico, amministrativo e giudiziario. Analoga richiesta, ma per un periodo diverso, pende su Marcello Dell'Utri. Occorre anche ricordare che Nicola Mancino, ministro dell'Interno dal giugno 1992 all'aprile 1994 è stato indicato, per sentito dire, dal pentito Brusca e da Massimo Ciancimino come il terminale politico della trattativa. Il primo lo indica stranamente associandolo al suo predecessore Rognoni che, peraltro, aveva lasciato il Ministero dell'Interno nel 1983, nove anni prima dei fatti al nostro esame; il secondo è un mentitore abituale. Ascoltato dall'Antimafia, Mancino è apparso a tratti esitante e perfino contraddittorio. La Procura di Palermo ne ha proposto il rinvio a giudizio per falsa testimonianza. Le posizioni degli ex ministri Mannino e Mancino sono ancora tutte da definire in sede giudiziaria: una semplice richiesta di rinvio a giudizio non può dare corpo alle ombre. E' doveroso aggiungere che l'On. Mannino è uscito con l'assoluzione piena da un precedente processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Formalmente la trattativa si concluse nel dicembre 1992 con l'arresto di Vito Ciancimino. Un mese dopo, il 15 gennaio 1993, fu arrestato il "capo dei capi" Totò Riina. Se i due arresti fossero riconducibili in qualche modo alla trattativa, quale sarebbe stata la contropartita di cosa nostra? La mancata perquisizione del covo di Riina e la garanzia di una tranquilla latitanza di Provenzano che, proprio per questo e per prenderne il posto, avrebbe venduto il suo capo? E alla fin fine, quale sarebbe stato il guadagno dell'astuto mediatore Vito Ciancimino? Allo stato attuale della nostra inchiesta, non abbiamo elementi per dare risposte plausibili», conclude Pisanu.

Il presidente della Commissione antimafia si concentra poi sull'attentato di Capaci che costò la vita a Giovanni Falcone, sollevando ulteriori interrogativi. «In quell'azione fu necessaria una speciale competenza tecnica per realizzare un innesco che evitasse l'uscita laterale dell'onda d'urto dell'esplosione e la concentrasse invece sotto la macchina di Falcone. Mi chiedo: 'cosa nostra' ebbe consulenze tecnologiche dall'esterno? Sulle scene degli attentati e delle stragi, abbiamo visto comparire, qua e là, figure rimaste sconosciute, presenze esterne: da dove venivano? Gruppi politico-terroristici come Falange Armata rivendicarono tempestivamente degli attentati di cosa nostra: come si spiega? Quanto all'attentato che uccide Paolo Borsellino, solo negli ultimi anni è stato scoperto il gigantesco depistaggio delle indagini su Via d'Amelio, depistaggio che ha lungamente resistito al tempo e a ben due processi: chi lo organizzò e perché furono lasciati cadere i sospetti che pure emersero fin dagli inizi?. Potrei continuare con domande analoghe - osserva Pisanu -. Ma queste mi bastano per dire che, a conclusione della nostra inchiesta, non si sono ancora dissipate molte delle ombre che avevo già intravisto nelle mie comunicazioni alla Commissione del 30 giugno 2010. Noi conosciamo - conclude Pisanu- le ragioni e le rivendicazioni che spinsero cosa nostra a progettare e a eseguire le stragi, ma è logico dubitare che agì e pensò da sola. Le stragi di mafia contribuirono ad avere effetti destabilizzanti dell'ordine democratico: se nel '92-93, come in altre fasi di transizione, si mise in opera una strategia della tensione, cosa nostra ne fece parte. In quegli anni cosa nostra fu parte, per istinto e per consapevole scelta, del torbido intreccio di forze illegali e illiberali che cercarono di orientare i fatti a loro specifico vantaggio. Perché indebolire lo Stato significava renderlo più duttile e più disponibile a scendere a patti. Oggi cosa nostra è ancora forte e temibile - rileva in presidente dell'antimafia - le sue armi tacciono, ma essa è presente nelle fibre della realtà siciliana e lì continua ad agire in profondità, distorcendo le regole dell'economia, le relazioni sociali e le decisioni politiche. Ma dobbiamo riconoscere che dagli anni '80 a oggi ha perso nettamente la sua sfida temeraria allo stato, perdendo inoltre prestigio nei confronti della 'ndrangheta e delle altre organizzazioni criminali internazionali, anche grazie al salasso continuo dei sequestri e delle confische dei beni».

"Stato-mafia, spiati i pm dell'inchiesta": il mistero del dossier che scuote Palermo. Una lettera anonima fatta arrivare a uno dei sostituti procuratori che si occupano dell'inchiesta sulla trattativa. Nella missiva, ricostruzioni considerate affidabili e accuse: "Un carabiniere rubò l'agenda rossa di Borsellino". Il "protocollo fantasma" afferma anche che fu nascosto l'archivio del covo di Riina, scrive Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. È una lettera anonima quella che sta aprendo un nuovo fronte d'indagine sulla trattativa fra Stato e mafia. Avverte i magistrati di Palermo che sono spiati, indica dove trovare altre prove del patto, fa i nomi di vecchi uomini politici che potrebbero sapere molto. E denuncia che l'agenda rossa di Borsellino è stata rubata "da un carabiniere". L'inchiesta giudiziaria più tormentata di questi mesi si sta ancora rimescolando e rovista adesso in quelle che l'anonimo definisce "catacombe di Stato". Le ultime inedite indicazioni sono in uno scritto che gli investigatori valutano come "attendibile", studiato e steso da qualcuno estremamente informato, uno "dal di dentro" sospettano i pubblici ministeri di Palermo che hanno ordinato accertamenti su tutti i punti segnalati dall'anonimo. Lui, definisce la sua lettera "un esposto". L'ha spedita il 18 settembre scorso a casa di Nino Di Matteo, uno dei sostituti procuratori che insieme ad Antonio Ingroia hanno cominciato l'indagine sulla trattativa. Sono dodici pagine con lo stemma della Repubblica italiana sul frontespizio. L'autore, alla sua lunga lettera ha attribuito - come nei documenti ufficiali - una sorta di numero di fascicolo. È in codice: "Protocollo fantasma". Se sia tutto vero ciò che scrive o al contrario un tentativo di depistaggio si scoprirà presto, di sicuro al momento i funzionari della Dia di Palermo e quelli di Roma stanno raccogliendo riscontri intorno ai "suggerimenti" dell'anonimo. Uno che sembra a conoscenza di tanti segreti, come se avesse partecipato personalmente ad alcune operazioni poliziesche o sotto copertura. Questi dodici fogli ricordano tanto quell'altra lettera senza firma arrivata fra la strage Falcone e la strage Borsellino nell'estate del 1992 (e recapitata a 39 indirizzi fra i quali il Quirinale, le redazioni dei quotidiani italiani, il Viminale), la prima carta in assoluto dove si faceva cenno a "un accordo" fra Stato e mafia. Annunciando avvenimenti poi accaduti. Come l'arresto del capo dei capi Totò Riina. Ma adesso vi raccontiamo cosa c'è esattamente nell'ultimo anonimo palermitano. Finisce con una frase misteriosa destinata al magistrato Di Matteo: "Tieni sempre in considerazione che sto lavorando con te, nelle tenebre". E annota subito dopo, in latino: "Impunitas semper ad deteriora invitat". L'impunità invita sempre a cose peggiori. Comincia invece con una cronistoria dei cadaveri eccellenti di Palermo: dall'omicidio del segretario del Pci siciliano Pio La Torre - il 30 aprile 1982 - fino alla mancata cattura di Bernardo Provenzano dell'ottobre 1995 nelle campagne di Mezzojuso, probabilmente per una soffiata. In mezzo le bombe di Capaci e di via D'Amelio. Poi si addentra nel particolare. Iniziando dai pm che indagano sulla trattativa. Li mette in guardia da "uomini delle Istituzioni" che li stanno sorvegliando. "Canalizzano tutte le informazioni che riescono ad avere sul vostro conto", scrive. E dice che li riversano "a Roma", in una non meglio identificata "centrale". Fra gli spioni - sostiene l'anonimo - anche alcuni magistrati. Di certo, strani movimenti si sono registrati a Palermo in queste settimane. Uno, a metà dicembre. Qualcuno è arrivato fin sul pianerottolo dell'abitazione del sostituto Di Matteo, lavorando dentro una cassetta elettrica. Se ne sono accorti i carabinieri della scorta. Nessuno nel condominio aveva disposto lavori nel palazzo, e in quel fine settimana il magistrato era fuori città. Un intruso sapeva anche questo. Torniamo all'anonimo. Spiega dove cercare nuove prove sul patto. Usa queste parole: "Ci sono catacombe all'interno dello Stato sepolte e ricoperte di cemento armato, ma alcune verità si possono ancora trovare". E specifica i luoghi. Segue una lista di nomi. Uomini politici della prima Repubblica, grandi e piccoli, tutti mai sfiorati fino ad ora dalle investigazioni sulla trattativa. Consiglia di seguire certe tracce, il suo linguaggio è quello di un "addetto ai lavori". Gli investigatori sono convinti che si tratti di qualcuno che, all'inizio degli anni '90, abbia lavorato in qualche reparto investigativo. Conosce minuziosamente alcune vicende. Come quella della cattura di Totò Riina, la mattina del 15 gennaio del 1993. Garantisce che il covo del boss, nel quartiere dell'Uditore, sia stato visitato da qualcuno prima della perquisizione del procuratore Caselli. E ripulito di un tesoro, l'archivio del capo dei capi di Cosa Nostra. "Nascosto a Palermo per qualche tempo e poi portato via", scrive ancora l'anonimo. E infine dice di sapere chi ha rubato dalla sua borsa l'agenda rossa di Paolo Borsellino, quella sulla quale il procuratore segnava tutto ciò che vedeva e sentiva dalla morte del suo amico Giovanni Falcone. "L'ha presa un carabiniere", giura l'autore della lettera. Già qualche anno fa un colonnello dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, era stato messo sotto accusa dai magistrati di Caltanissetta per avere trafugato l'agenda. L'ufficiale era stato fotografato, in via D'Amelio, con la borsa fra le mani. Ma aveva sempre sostenuto di non sapere nulla dell'agenda. Prosciolto dal giudice in fase d'indagine preliminare e prosciolto poi dalla Cassazione, il colonnello è uscito definitivamente dall'inchiesta. In questi ultimi mesi i pm di Caltanissetta (quelli che indagano sui massacri di Palermo) hanno però ricominciato a visionare un filmato del dopo strage, ricostruito con tutte le immagini ritrovate negli archivi televisivi. Cercano sempre l'uomo dell'agenda rossa. E sospettano sempre che sia uno degli apparati investigativi. La caccia è ripartita. Cosa aggiungere sull'ultimo anonimo? Le indagini, che sembravano solo aspettare il verdetto del giudice Piergiorgio Morosini sulla richiesta di rinvio a giudizio di quei 12 imputati eccellenti prevista per la fine del mese, hanno ricominciato ad agitarsi dopo le confessioni del misterioso personaggio senza volto. Uno che viene dal passato di Palermo.

Da che parte sta l’antimafia di regime si scopre ad ogni tornata elettorale. Elezioni legislative per il parlamento nell’anno 2013. Molti magistrati a sinistra. Tra i tanti scendono in piazza Antonio Ingroia e Pietro Grasso. Il primo titolare dell’inchiesta sulla trattativa Stato e mafia, il secondo, addirittura, procuratore nazionale antimafia. Ma con loro scendono in campo anche i vecchi veleni di Palermo, scrive Alfio Sciacca su “Il Corriere della Sera”.  L'uno viene indicato come possibile ministro della giustizia l'altro scende in campo addirittura per la presidenza del consiglio. Entrambi sono magistrati, entrambi siciliani, entrambi da anni in prima linea nella lotta alla mafia. Che avessero idee diverse su come contrastare Cosa nostra era noto, ma si è dovuto attendere che scendessero in politica perché il non detto e le frecciate sotto la toga diventassero scontro aperto su quel che è stato per anni il loro comune impegno antimafia. Col rischio, per niente remoto, che i veleni di Palermo ora si trasferiscano a Roma investendo partiti e movimenti che invece dovrebbero stare sullo stesso fronte. Con la conseguenza, ormai evidente, che la lotta alla mafia diventi un tema di campagna elettorale. E non per ribadire la necessità di un comune impegno ma solo per rivendicare che l'uno è stato più intransigente dell'altro se non addirittura per accusare l'avversario di aver ceduto alle lusinghe di Berlusconi. E così nei giorni della discesa in campo di Pietro Grasso e Antonio Ingroia fa un certo effetto sentire l'ex procuratore aggiunto di Palermo accusare il suo ex capo di essere si «un magistrato serio dal punto di vista professionale» ma di aver reso «dichiarazioni pubbliche sconcertanti come quella per la quale voleva dare un premio per la legalità al governo Berlusconi». Grasso - attacca ancora Ingroia - divenne Procuratore nazionale antimafia grazie al Cavaliere «in virtù di una legge con cui venne escluso Caselli, colpevole di aver fatto i processi sui rapporti tra mafia e politica». Per questo la scelta del Pd di candidarlo è «un segnale ambiguo... solo per usare un eufemismo». Quindi rincara la dose accusando il partito di Bersani di aver fatto «una politica antimafia a singhiozzo, che non ha mai avuto l'ambizione di eliminare la mafia». Se per il momento non risponde personalmente Grasso si incarica di farlo un altro ex magistrato siciliano, Anna Finocchiaro, che parla di un «attacco scomposto» nei confronti di Grasso. Segno, secondo la senatrice del Pd, di «debolezza culturale, ma anche il prodotto di anni in cui la politica è stata per molti solo uno strumento di affermazione personale, difesa dei propri interessi e a volte di mera celebrazione del proprio ego».

Niente male esprimere (ma solo ora che scende in politica!) una simile opinione su un magistrato che ha condotto alcune delle più delicate inchieste di mafia come quella sulla presunta trattativa con pezzi dello Stato. Non si sono mai amati Grasso e Ingroia ma il rispetto formale fino ad oggi ha evitato lo scontro frontale. Appartengono a due diverse correnti della magistratura: al «Movimento per la giustizia» il primo e a «Magistratura democratica» il secondo. Ma le divergenze risalgono soprattutto agli anni, a cavallo del 2000, in cui Piero Grasso succede a Giancarlo Caselli alla guida della più importante procura antimafia d'Italia. Palermo si spacca in due fazioni, i cosiddetti «caselliani», tra cui Ingroia e il procuratore generale a Caltanissetta Roberto Scarpinato, e un gruppo di altri magistrati più in sintonia con Grasso, come il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Tra i più accaniti oppositori di Grasso anche l'ex pm Massimo Russo, pure lui sceso in politica qualche anno fa come assessore della giunta del governatore siciliano Raffaele Lombardo. Di quella stagione rimane celebre l'accusa di Russo che definì il suo procuratore «un generale senza esercito». Alla base dei veleni di quegli anni un diverso approccio alle inchieste di mafia e soprattutto alle commistioni con politica e mondo delle imprese. Nel 2002 per una controversia sulla gestione del pentito Antonino Giuffrè Scarpinato minacciò addirittura di lasciare il pool antimafia dopo tensioni feroci al limite dello scontro fisico. «Caselliani» e «grassiani» si divisero ancora sulla gestione di molte altre inchieste e sulla circolazione delle informazioni all'interno dell'ufficio. E infine lo fecero al momento di scegliere come procedere nei confronti dell'ex governatore Totò Cuffaro: se accusarlo di favoreggiamento o di concorso esterno in associazione mafiosa. Così fino al 2005 quando Grasso arriva a Roma per guidare la Procura nazionale antimafia. Con gli anni e la distanza fisica tra Grasso e Ingroia era quanto meno tornato il bon ton istituzionale. Ma evidentemente era solo apparenza. E dire che entrambi ispirano il loro impegno in magistratura alla comune esperienza accanto a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Grasso fu il giudice a latere che più collaborò per il maxi-processo a Cosa Nostra istruito da Falcone e Borsellino, mentre Ingroia fu uno degli allievi prediletti di Paolo Borsellino. Un'eredità e un patrimonio che ora rischiano di diventare terreno di scontro in campagna elettorale. Sperando che almeno non vengano trascinati nella polemica anche i martiri della lotta alla mafia.

“Non basta essere imparziali, bisogna anche apparire tali”. Queste sono le basi dell’intervista di Guido Ruotolo su “La Stampa” a Michele Vietti.

Michele Vietti, vicepresidente del Csm, cosa pensa della candidatura del procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso?

«La candidatura di Grasso mi consente di chiarire il mio pensiero che da qualcuno è stato frainteso in occasione della candidatura di Ingroia».

Lei suggerì ai partiti di non candidare magistrati...

«Non ho fatto allora e non faccio adesso considerazioni di carattere personale riferite al singolo magistrato. Stimo Grasso che ha fatto per molto tempo un mestiere difficile con equilibrio e professionalità.

Ma il problema non sono Piero Grasso o Antonio Ingroia, o i meno noti Dambruoso e Amore, ma il tema di carattere generale dell’impegno in politica dei magistrati».

Candidarsi comunque è un vulnus alla terzietà dei giudici, alla credibilità dei pm?

«L’esercizio efficace della giurisdizione non dipende solo dal suo aspetto autoritario, cioè dall’essere un potere dello Stato che si avvale del suo apparato coercitivo. Questo è un carattere necessario ma non sufficiente. Perché la giustizia sia tale occorre che sia percepita dall’opinione pubblica come conforme ad un principio generale di equità. Ciò non vuol dire che il magistrato deve ricercare il consenso, ma neppure che può prescindere da una sintonia con il sentire comune. Dare ragione a chi ce l’ha o dare torto a chi ce l’ha deve rispondere ad un principio di prevedibilità che rende credibile chi esercita questo potere».

E cosa c’entra tutto questo con la scelta di un magistrato di candidarsi?

«Se vogliamo mantenere il nostro schema costituzionale che riconduce entrambe le figure - giudice e pm - alla stessa magistratura con le stesse garanzie, ne consegue che la condizione per una giustizia credibile è l’autorevolezza dei suoi rappresentanti e questa non può prescindere dall’imparzialità. Il capo dello stato ci ha più volte ricordato che il magistrato non deve solo essere ma anche apparire imparziale».

Essere imparziale può anche significare essere di parte ma non fazioso?

«Quando l’arbitro scende in campo si pone un problema non solo per la sua imparzialità nel passato ma anche per quella di tutti coloro che esercitano la medesima funzione. Come non collegare il circuito mediatico giudiziario da tutti deplorato con l’inevitabile effetto notorietà che attribuisce ai suoi protagonisti? E se la notorietà diventa requisito per la candidabilità come fugare nell’opinione pubblica il sospetto che tra l’iniziativa giudiziaria e la ricerca di notorietà non ci sia un nesso di causalità? Tutto questo è reso particolarmente delicato dal sistema politico bipolare in cui abbiamo vissuto negli ultimi venti anni il cui carattere di radicale contrapposizione rende ancor più evidente la natura di parzialità di una scelta di schieramento».

Nei fatti lei è contrario al magistrato che si impegna in politica. Ma questo non è un diritto costituzionale?

«Le mie sono ovviamente considerazioni di opportunità che non mettono in discussione la legittimità nè delle singole scelte nè del rispetto del principio costituzionale dell’esercizio dell’elettorato passivo da parte di chiunque. Tuttavia per il bene del sistema giudiziario credo siano considerazioni che non possono essere liquidate in modo semplicistico dicendo che il magistrato è un cittadino come tutti gli altri perché quando si tratta di difendere le garanzie e le prerogative tutti richiamiamo la peculiarità del suo ruolo».

Con la decisione di Ingroia di scendere in campo, lei invitò i partiti a non candidare i magistrati. E oggi?

«Dissi, consapevole della provocazione, che la soluzione più semplice sarebbe stata quella di trovare un accordo tra tutti i partiti per non candidare i magistrati. Più realisticamente mi auguro che nella prossima legislatura si affronti finalmente in modo organico la questione sia disciplinando in modo più rigido le incompatibilità, allontanando il più possibile nel tempo e nello spazio il candidato dal luogo di esercizio della sua funzione, sia prevedendo, come già ipotizzato nella proposta di legge Casson ed in altre, che il magistrato che “sale in politica” al termine della sua esperienza debba trovare collocazione in altra funzione per la pubblica amministrazione».

Sullo stesso tema si è espresso anche Luciano Violante, in un'intervista al Corriere della Sera. L'ex presidente della Camera, che nella scelta di politica di Grasso non vede nulla di male, per la scelta di dimettersi, critica invece Antonio Ingroia. "Se si candidasse commetterebbe un errore perchè ha in corso un’inchiesta delicata". È un "grande professionista", ma "ha avuto qualche cedimento al protagonismo".

Lo scandalo non è costituito dai magistrati che entrano in politica, scrive Arturo Diaconale su “L’Opinione”. Perché sono cittadini come tutti gli altri. Ed hanno il pieno diritto di manifestare liberamente le proprie opinioni e di sottoporle al giudizio del corpo elettorale. Lo scandalo è che i magistrati entrino in politica con il paracadute dell’aspettativa. Cioè con l’assicurazione che il giorno in cui decideranno di ritirarsi dall’agone politico per stanchezza, disillusione o per semplice mancata rielezione parlamentare, potranno tornare a vestire la toga come se nulla fosse successo. Ed, anzi, grazie al fatto che la carriera dei magistrati è automatica e procede per anzianità, ritrovarsi con una funzione, un ruolo ed, ovviamente, uno stipendio superiori a quelli lasciati a suo tempo per l’avventura politica. Si dirà che tutti i funzionari pubblici godono dell’aspettativa. E che i magistrati usufruiscono di un diritto acquisito che riguarda l’intera pubblica amministrazione e non può essere considerato come una sorta di privilegio distintivo della casta delle toghe. L’osservazione è giusta. Ma parziale. Non tiene conto della singolare pretesa dei normali cittadini di essere giudicati per le proprie azioni che rientrano nelle fattispecie dei codici penali e civili in maniera equanime. E non prende minimamente in considerazione il bizzarro timore degli stessi cittadini normali che un magistrato rientrato in carriera dopo un periodo trascorso come un esponente politico di parte possa inquisire e giudicare non in maniera equanime ma condizionata dall’esperienza consumata sui banchi parlamentari. Perché mai queste singolari pretese e questi bizzarri timori della stragrande maggioranza degli italiani debbono soggiacere di fronte al diritto acquisito dei magistrati e dei funzionari pubblici di godere dell’istituto dell’aspettativa che garantisce loro carriera, posti e stipendi? Nessuno è in grado di fornire una risposta credibile e di buon senso a questo interrogativo. L’unica concreta e realistica è che anche i magistrati tengono famiglia e non si capisce per quale curiosa ragione dovrebbero rinunciare al comodo paracadute offerto loro dalle norme per conservare ed accrescere la propria personale sicurezza economica e sociale. In questa considerazione non fa neppure capolino un qualsiasi accenno al tema della pubblica moralità. Che a quanto pare vale e deve valere per chiunque decida di interrompere il proprio mestiere per dedicare una fase della propria vita all’attività politica. Ma non vale e non può valere per chi fa il grande salto con garanzia di ritorno all’indietro dalla magistratura al Parlamento. Perché se si osa sollevare il tema della pubblica moralità nei confronti di chi tiene famiglia ammantata con la toga si rischia l’accusa di attentare alla indipendenza ed all’autonomia di quella particolare categoria della pubblica amministrazione che per misteriose ragioni costituzionali ha stipendi intoccabili anche dai tagli di spesa imposti dalla superiori ragioni morali della pubblica austerità. Sollevare la questione morale sul paracadute dell’aspettativa dei magistrati, invece, è assolutamente necessario. Perché se è impossibile modificare per legge il privilegio delle toghe si può e di deve almeno avviare una azione di pressione morale sui magistrati decisi a entrare in politica affinché decidano autonomamente di rinunciare ai privilegi che danneggiano la giustizia e la loro stessa credibilità. In fondo che ci vuole? Basta che invece di chiedere l’aspettativa rassegnino le dimissioni. Grasso, Ingroia, Dambruoso, date l’esempio!

Invece è chiaro il pensiero di Ilaria Cucchi su “Huffingtonpost”. Pensiero di una cittadina che ben conosce anche l’operato dei magistrati. «Come cittadina, prima di acquisire, per amore o per forza, dimestichezza con i processi e le aule di Giustizia, non avevo particolari idee su questa questione. Certamente l'entrata in politica di alcuni volti noti della Magistratura Italiana non ha mai costituito per il mio sentire un problema. Anzi... non vedevo proprio quale potesse essere il problema se qualche magistrato che aveva acquisito notorietà per la bontà ed efficacia con cui aveva svolto il proprio lavoro, avesse poi deciso di entrare in politica candidandosi per questo o quel partito. Certamente la politica non aveva a che rimetterci. Non ho mai condiviso i retro pensieri di coloro che queste scelte criticavano ed osteggiavano spesso con toni tali da tradire il timore per il prestigio e la pubblica considerazione che indubbiamente tali candidature suscitavano e raccoglievano, quasi come una sorta di timore concorrenziale in un ambito, quello politico, che sempre più dava l'idea di "dover" esser riservato ai cosiddetti addetti ai lavori: i professionisti della politica. Il fatto che questi Magistrati candidati avessero, prima della loro entrata in politica, perseguito o condannato numerosi esponenti della politica italiana, doveva costituire un problema per essa stessa e non certo per loro, che quantomeno potevano vantare un certificato penale immacolato ed una carriera alle spalle di tutto rispetto al servizio dello Stato. Qual era il problema? Il sospetto che si fossero impegnati in inchieste importanti e delicate, portate avanti con successo, per costruirsi un trampolino di lancio nel mondo politico poteva essere sufficiente per negare un diritto che dalla nostra Costituzione non può certo esser negato a nessuno? Ma quando a fare questo salto sono grandi imprenditori o grandi esponenti della finanza o del mondo bancario non meriterebbe quantomeno analogo sospetto e diffidenza? Oltretutto per costoro il problema del possibile condizionamento dell'attività politica da ragioni di interesse professionale od imprenditoriale rimane sempre attuale per tutta la loro permanenza in Parlamento. Oggi ho imparato a mie spese che il sacrosanto principio in base al quale la legge deve essere uguale per tutti non gode sempre di buona salute nelle nostre aule giudiziarie. Se così non fosse, non sentiremmo continuamente parlare del problema del rispetto dei diritti civili. Non solo, ma ora so che nei processi dove lo Stato deve metter in discussione se stesso, la politica intesa nel senso meno nobile del termine interviene in modo talvolta subdolo e silenzioso e talvolta in modo brutale e sfacciato con buona pace di coloro i quali da quei processi si aspettano giustizia. (Vincolo associativo e della condizione di soggezione e di omertà che ne deriva). Mi sono resa conto di quanta importanza dovrebbe viceversa avere in quelle aule la politica, quella nobile. Quale sarebbe per me quella nobile? Quella che è diretta espressione dei valori sanciti dalla nostra Costituzione. La legge è uguale per tutti, appunto, e tutti sono uguali di fronte alla legge, per esempio. Sembrano la stessa cosa ma così non è.

Sembrano scontati ma non lo sono assolutamente. Qualcuno ci è morto. Qualcun altro l'ha fatta franca. Allora dico oggi: ben vengano i magistrati in politica. Saranno meritevoli? Siano gli elettori a deciderlo. In politica tutti devono essere sotto i riflettori a disposizione del giudizio critico dei cittadini. Dimenticavo un altro valore, non ultimo ma assolutamente sacro: la libertà di stampa ed il diritto di critica.»

Già questi ultimi valori mai applicati: parli male del potere ti tacciono con le buone o con le cattive, o ti emarginano come hanno fatto con Leonardo Sciascia, antimafioso per antonomasia. E' se questa non è mafia (soggezione ed omertà)....allora cos'è!

LA MAFIA, COME MAI L'AVETE CONOSCIUTA E CONSIDERATA. LA MAFIA COME MAI L'AVETE STUDIATA.

UN'OPERA FUORI DAL CORO: ESTEMPORANEA. PERCHE' LA MAFIA TI ROVINA LA VITA, LO STATO TI DISTRUGGE LA SPERANZA.

Per rimembrare ed a futura memoria si presenta al mondo la composizione e l'elaborazione di un'opera di didattica e di ricerca senza influenze ideologiche, territoriali e temporali.

Opera di me medesimo, Antonio Giangrande, autore di decine di libri di inchiesta e di denuncia. Scrittore non omologato, quindi osteggiato da media ed istituzioni e per questo poco conosciuto.

La mia ricerca e la mia didattica, non per giudicare, ma per conoscere.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perché "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sé, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento verticale, criminale e vessatorio, di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso e non recedo mai dal dire: la mafia ti distrugge la vita, lo Stato ti uccide la speranza.

Io rappresento l’ “Associazione Contro Tutte le Mafie”,  un sodalizio nazionale al pari di “Libera” di Don Luigi Ciotti, e come scrittore scrivo e parlo di mafiosità, essendo il sottoscritto un saggista di sociologia storica letto in tutto il mondo e con 40 opere all’attivo. Scrivo e parlo come e più di Roberto Saviano. Per gli effetti di ciò sono conosciuto e stimato in tutto il mondo, pur travalicando gli ostacoli mediatici posti dall’informazione censoria che tutela il potere imperante ed il pensiero ideologico sinistroide dominante.

La nostra attività e solidarietà alle vittime del “Sistema mafioso” si concretizza nel raccontare la verità censurata in video ed in testi.

Da presidente nazionale di una associazione antimafia è una vergogna non essere invitati ad alcuna celebrazione istituzionale o scolastica dedicata ai martiri della mafia: tra cui Falcone e Borsellino. Questo pur essendo io il massimo esperto della materia. Questo succede perché io non seguo la logica nazionale delle celebrazioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, specialmente fatta da chi ne ha causato la morte. L’ostracismo c’è perché non mi sottometto a questa antimafia e non mi associo alla liturgia di questa antimafia che poi è forse solo propaganda e speculazione. Si farebbe cosa nobile, invece, svelare la verità sulla morte di Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa e gli altri e disincentivare tutti quei comportamenti socio mafiosi che inquinano la società italiana. Come si farebbe onore alla verità svelare chi e come paga l’ambaradan di carovane e carovanieri. In riferimento all’attentato di Brindisi ed a tutte le manifestazioni di esaltazione di un certo modo di fare antimafia di parte e di facciata, denuncio l’ipocrisia di qualcuno che suggestiona e manipola la mente dei giovani per indurli ad adottare comportamenti miranti a promuovere una verità distorta su chi e come fa antimafia. Brindisi e Mesagne e l’intero Salento sono diventate tutto d’un tratto terra di mafia e di mafiosi per giovare agli interessi di questa antimafia e per gli effetti sono diventate palco promozionale per carovane e carovanieri proveniente da ogni dove, da cui io prendo assolutamente le distanze. Mesagne e Brindisi e tutto il Salento non hanno bisogno di striscioni in sparute manifestazioni o di omelie religiose per fare ciò che deve essere fatto: sia in campo istituzionale, sia in campo sociale. Gli studenti, con la mente vergine ed aperta, non devono essere influenzati da falsi pedagoghi catto-comunisti, sostenuti da sindacati e movimenti di sinistra, che inducono a falsi convincimenti di tipo ideologico. La lotta alla mafia è un’altra cosa: è conoscenza senza censura ed omertà, scevra da giudizi preconcetti.

Tutti dicono a tutti cosa fare, cosa studiare, come e dove informarsi. I ragazzi, che sono i primi destinatari di consigli interessati, non cadano nel tranello di elevarsi a maestrini e di dire anche loro agli altri cosa devono fare. Dato che gli altri sono anche loro stessi, sanno bene cosa devono fare. Per questo chiedo che si lasci ai ragazzi la libertà di informarsi in modo asettico e di far testimoniare a loro una realtà che solo essi stanno vivendo.

I ragazzi non deleghino ai media approssimativi, voltagabbana ed ipocriti il racconto della verità. Lo facciano direttamente loro ragazzi, protagonisti delle vicende della vita. Così come io faccio ne rendicontare quanto io vedo e sento.

Il mio aiuto può concretizzarsi nell’offrire l’opportunità ad uno studente, ad una classe, o all’intero istituto scolastico di scrivere un libro su quanto veramente accade in riferimento ad un accadimento, ma con la piega sociologica: ossia, raccontare con i loro occhi la vicenda inserita in un contesto sociale, mediatico, istituzionale-giudiziario, che vada oltre l’ambito locale. Così come io ho fatto con la vicenda di Sarah Scazzi, avendo rendicontato da avetranese. Affinchè in fatti di cronaca riportati dalla stampa non sia vittima tutta la comunità o l’ambiente sociale coinvolto. Nessuno deve essere giudicato da chi viene paracadutato con i suoi pregiudizi ed i suoi luoghi comuni. Se gli altri non ci rappresentano, ci rappresentiamo da soli, senza censure ed omertà. I media raccontano la cronaca: noi tutti insieme facciamola diventare storia senza tempo e senza spazio. Io mi impegno a divulgare in tutto il mondo l’elaborato scritto dagli studenti, eventualmente con l’aiuto dei docenti, attraverso i miei siti, e, se del caso pubblicarlo come E-Book sui portali internazionali.

Antonio Giangrande 

 

LA MAFIA CHE NON TI ASPETTI: COSCHE LOCALI; CASTE; LOBBIES E MASSONERIE DEVIATE.

L'associazione per delinquere di tipo mafioso è una fattispecie di reato prevista dal Codice Penale italiano, all'art. 416 bis e all'art. 416 ter, e quindi all'interno del V Titolo della Seconda Parte del codice stesso, ossia nella parte disciplinante i Delitti contro l’ordine pubblico.

Fino al 1982 per far fronte ai delitti di mafia si faceva ricorso all'art. 416 (associazione per delinquere), ma tale fattispecie è ben presto risultata inefficace di fronte alla vastità e alle dimensioni del fenomeno mafia. Tra le finalità perseguite dai soggetti uniti dal vincolo associativo ve ne erano anche di lecite, e ciò costituì il più grande limite all'applicazione dell'art. 416.

Il 19 settembre 1982 l’uccisione del Generale Dalla Chiesa e la immediatamente successiva reazione di sdegno da parte dell’opinione pubblica, portò lo Stato, nel giro di 20 giorni, a formulare l'art. 416 bis, dando così la propria risposta al grave fatto di sangue e perseguendo l'obiettivo di porre freno al problema mafia.

La nuova fattispecie prevede l'individuazione dei mezzi e degli obbiettivi in presenza dei quali siamo di fronte ad una associazione di tipo mafioso. Il legislatore per la prima volta nel 1982 dà una definizione del concetto di mafia.

Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa una associazione è la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di che ne deriva.

Gli obiettivi sono:

·            il compimento di delitti

·            acquisire il controllo o la gestione di

o              attività economiche

o              concessioni

o              autorizzazioni

o              appalti o altri servizi pubblici

·            procurare profitto o vantaggio a se o a altri

·            limitare il libero esercizio del diritto di voto

·            procurare a se o ad altri voti durante le consultazioni elettorali

Gli ultimi due obiettivi sono stati inseriti nel 1992 nell'ambito delle misure adottate a seguito delle stragi di Capaci (attentato a Giovanni Falcone) e di Via D’Amelio (attentato a Paolo Borsellino).

Il 416 bis dispone inoltre la confisca dei beni, nonché l'applicabilità di tale fattispecie anche nell'ipotesi di Camorra o di altre associazioni riconducibili a quelle di tipo mafioso, comunque localmente denominate.

Ad un’attenta lettura della legge, essa non discrimina le attività devianti di lobby, caste e sodalizi istituzionali, ma per questi soggetti detentori del potere vale l’impunità e l’immunità. Al contrario, quando un soggetto al loro interno viene emarginato, per il medesimo scatta il reato che non è reato. Il Concorso esterno in associazione di tipo mafioso o Concorso esterno in associazione mafiosa, sono delle espressioni per indicare un particolare comportamento delittuoso non definito in sede legislativa. Alla carenza di definizione in sede legislativa formale è stato supplito con elementi di prassi giudiziaria. Ossia: la Magistratura si sostituisce al Parlamento.

LA MAFIA è una presenza discreta e silenziosa, che cerca di evitare i clamori della cronaca con lo spargimento di sangue. Ma la mafia c’è ed incombe pericolosamente sulla vita sociale e democratica dell’Italia, anche se di essa, per omertà dei media, non vi è adeguata consapevolezza nei cittadini e nelle istituzioni. C’è “la mafia bianca”, sodalizio massonico delle lobby e delle caste, insinuata nelle istituzioni e nei poteri dello Stato, che si attiva direttamente per influenzare le scelte e la gestione della cosa pubblica. Poi c’è “la mafia nera”, la criminalità organizzata comune che non ha cessato di mettere in discussione l’autorità dello Stato e continua la cura dei suoi tradizionali interessi: dal traffico di stupefacenti e di clandestini all’usura e al racket delle estorsioni, fino allo sfruttamento della prostituzione e del gioco d'azzardo. Entrambe le mafie, cosa ancora più grave, tentano di mettere le mani sulla gestione degli appalti pubblici finanziati da fondi nazionali od europei, insinuandosi nelle pieghe della vita politica e amministrativa, come dimostrano alcune indagini della magistratura su ipotesi di rapporti illeciti di taluni rappresentanti della pubblica amministrazione e del mondo dell’imprenditoria e della stessa magistratura con esponenti della criminalità organizzata, in vicende dal rilevante profilo economico e finanziate con i soldi dei cittadini.

La Mafia è un animale a quattro zampe. Lo sostengono le organizzazioni cosiddette criminali e mafiose di stampo locale; le Lobbies, le Caste e le massonerie deviate. Si vuol incutere nelle mente che mafiose, invece, lo siano solo le canoniche organizzazioni: Stidda e Cosa Nostra; ‘Ndrangheta; Sacra Corona Unita; Basilischi; Camorra; Banda Magliana; Mala del Brenta. A queste si aggiungono le mafie internazionali: russe, cinesi, ecc. Le più pericolose invece sono quelle entità istituzionali; subdole ed ingorde, che sotto la parvenza di legalità e forti del potere di cui godono si garantiscono impunità ed immunità.

FIDARSI DI CHI?

Come detto in riferimento alle Caste ed alle Lobbies ed altresì alla Massoneria deviata, definite gambe della mafia insieme ai sodalizi criminali locali di cui si parla in altre inchieste ed in altri libri, anche, per la delicatezza delle questioni, in separata sede analiticamente si parla dei legulei (come si diventa, chi e cosa e sono i magistrati e gli avvocati) e si analizza l’operato delle Forze dell’Ordine. In questa sede si fa accenno a quanto prettamente è legato alla tematica in studio ed in approfondimento. Il paragrafo affronta le questioni istituzionali attinenti l'operato delle istituzioni politiche, amministrative e giudiziarie. Gli scontri tra poteri, le omertà, i coinvolgimenti, le coperture, i comportamenti opachi, minano dalla base la credibilità interna ed internazionale del sistema Italia. E qualcuno lo deve pur dire e scrivere.

I pm di Palermo: il Presidente della Repubblica non è un re.

​Un’«immunità assoluta» può essere ipotizzata per il capo dello Stato «solo se, contraddicendo i principi dello Stato democratico-costituzionale, gli si riconoscesse una totale irresponsabilità giuridica anche per i reati extrafunzionali». E una tale «irresponsabilità finirebbe per coincidere con la qualifica di "inviolabile" che caratterizza il sovrano nelle monarchie ancorché limitate». È quanto si legge nell’atto di costituzione in giudizio depositato alla cancelleria della Corte Costituzionale dai pm di Palermo, nell’ambito del conflitto tra poteri che li vede opposti al Quirinale per le intercettazioni che coinvolgono il presidente Napolitano.

Napolitano: «Insinuati sospetti su di me, sulle stragi voglio l'autentica verità». Tutta la stampa ne parla, compreso “Il Messaggero”. Lo scambio di lettere tra il Presidente e il suo più stretto collaboratore, D'Ambrosio, scomparso a luglio 2012: «Attaccano lei per colpire me». Poi duro intervento a Scandicci.

«L'affetto e la stima che le ho dimostrato in questi anni restano intangibili, neppure sfiorati dai tentativi di colpire lei per colpire me». Così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si rivolgeva il 19 giugno 2012 al suo consigliere giuridico e più stretto collaboratore, Loris D'Ambrosio, scomparso lo scorso 26 luglio all'età di 64 anni, a causa di un infarto. Era appena scoppiato il caso Mancino. La lettera è pubblicata in un volume di scritti del Presidente sulla giustizia presentato all'inaugurazione della nuova scuola della Magistratura di Scandicci, vicino Firenze. «Le sue condotte sono state ineccepibili - scriveva Napolitano - e assolutamente obiettiva e puntuale è la sua denuncia dei comportamenti perversi e calunniosi - funzionali a un esercizio distorto del proprio ruolo - di quanti, magistrati giornalisti o politici, non esitano a prendere per bersaglio anche lei e me». «Si è tentato di mescolare la mia richiesta di conflitto di attribuzione - ha detto Napolitano nel suo lungo discorso sulla giustizia a Scandicci - con il travagliato percorso delle indagini giudiziarie, insinuando nel modo più gratuito il sospetto di interferenze da parte della Presidenza della Repubblica». «Il conflitto di attribuzione presso la Consulta è stata una decisione obbligata per chi abbia giurato davanti al Parlamento di osservare lealmente la Costituzione» ha ribadito il Presidente, sottolineando che la sua decisione è stata ispirata «a trasparenza e coerenza». «Considero un imperativo e un dovere comune - ha sottolineato Napolitano - giungere alla definizione dell'autentica verità sulla strage di via d'Amelio, sull'assassinio di Paolo Borsellino, procedendo su solide basi di indagine a fugare ogni ombra e a sanzionare ogni colpa che possano aver pesato su quei tragici eventi e sul successivo sviamento delle indagini e delle relative conclusioni processuali». «I magistrati sono chiamati ad un controllo della legalità, anche pubblica, e lo devono portare avanti con quella assoluta imparzialità e quel senso della misura che sono il miglior presidio della sua autorità e indipendenza» ha sottolineato il Presidente. «Bisogna collegare l'autonomia e l'indipendenza della magistratura a imperiose necessità di riforma e rinnovata efficienza del sistema giustizia» ha detto Napolitano. «La politica e la giustizia - ha sottolineato il Presidente - i protagonisti e ancor più le istituzioni rappresentative, dell'una e dell'altra, non possono percepirsi ed esprimersi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco, anzichè uniti in una comune responsabilità istituzionale».

«Il conflitto con la Procura del capoluogo siciliano - ha detto Napolitano - volto a sciogliere una delicata questione di rilievo costituzionale, non offusca in alcun modo il massimo apprezzamento e sostegno sempre espresso dalla presidenza della Repubblica per tutti gli uffici e i magistrati antimafia che, a partire da Palermo, hanno portato avanti con fermezza la lotta contro la mafia». «Non ho mai esercitato pressioni o ingerenze che, anche minimamente potessero tendere a favorire il senatore Mancino» scriveva D'Ambrosio a Napolitano il 18 giugno 2012. «Ho sempre detto che le criticità ed i contrasti nei procedimenti sulle stragi non giovano al buon andamento di indagini che imporrebbero, per la loro complessità, delicatezza e portata, strategie unitarie, convergenti e condivise oltre che il ripudio di metodi investigativi non rigorosi»: così D'Ambrosio parlava delle indagini sulle stragi di mafia con il Presidente nello scorso giugno. D'Ambrosio, nella lettera, premette di essersi comportato con i magistrati «con lo stesso rispetto» che ha ispirato tutti i suoi comportamenti. Ma ha aggiunto che proprio la delicatezza delle indagini richiede «il ripudio di metodi investigativi non rigorosi, o almeno non sufficientemente rigorosi nella ricerca delle prove e nella loro verifica di affidabilità».

Nella missiva a Napolitano, datata 18 giugno 2012, e resa pubblica oggi a Scandicci a margine dell'inaugurazione della nuova Scuola per i magistrati alla presenza dello stesso capo dello Stato, si sottolineava anche la necessità «dell'abiura di approcci disinvolti» da parte di alcuni magistrati, «non di rado più attenti agli effetti mediatici che alla finalità di giustizia». Sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia in tanti sono d'accordo nell'affermare che esistono «gravi contrasti» tra le diverse Procure che stanno indagando. E' quanto scriveva Loris D'Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale, in una lettera al presidente Napolitano il 18 giugno 2012.

Il consigliere, poi deceduto, citava a sostegno di questa tesi il procuratore generale della Cassazione, quello antimafia, il Csm e la Commissione parlamentare antimafia. D'Ambrosio scriveva a Napolitano che era opinione diffusa che «le criticità ed i contrasti esistono e sono gravi, ma che a essi non si riesce a porre rimedio». «Mi ha turbato leggere nei resoconti di un'audizione all'Antimafia le dichiarazioni di chi ammette che - aggiungeva D'Ambrosio - della cosiddetta trattativa Stato-mafia uffici giudiziari danno interpretazioni diversificate e spesso confliggenti, ma che ciò è fisiologicamente irrimediabile. Come se fosse la stessa cosa - notava lo stretto collaboratore del Presidente - trattare lo stesso soggetto da imputato o da testimone o parte offesa, da fonte attendibile o da pericoloso e interessato depistatore».

MAFIOPOLI

Quella lettera tenuta segreta. In una lettera del 2003 finora segreta l'atto d'accusa del pm Chelazzi. Sul tg5 del 18 ottobre 2012 si parla di Gabriele Chelazzi e della sua emarginazione. Dieci anni prima il PM di Firenze Gabriele Chelazzi aveva scoperto tutto su sui cedimenti e ricatti della mafia ai tempi del governo di centro sinistra guidato da Ciampi e delle bombe di Cosa nostra del 1992/1993, le mosse del ministro Conso, le manovre del Presidente Scalfaro.

Poche ore prima di morire stroncato da un infarto a 59 anni nella notte tra il 16 e il 17 aprile 2003 Chelazzi scrisse una lettera finora tenuta nascosta. Un atto di accusa gravissimo. «Da oltre 2 anni - denuncia Chelazzi - mi trovo a lavorare da solo su una vicenda che ha a che fare con “qualcosa”come sette fatti di strage compiuti dalla più pericolosa organizzazione criminale europea.»

Giornalista: «com’è spuntata fuori questa lettera?»

On. Amedeo Laboccetta, membro PDL Commissione Antimafia: «Mah, nelle scorse settimane ho scritto una lettera al Procuratore capo di Firenze Quattrocchi, che mi ha informato che questo documento esisteva, ma che era agli atti già della Commissione antimafia, questa lettera esiste ma è segreta. Nella lettera indirizzata all’allora Procuratore capo di Firenze Iannucci il Pm accusa i magistrati assegnatari insieme a lui del procedimento di usare il loro ruolo solo per sbirciare a piacimento negli atti, insomma per controllarlo. Ora si chiede che intervenga il Presidente della commissione antimafia Pisanu. Invito Pisanu a darne pubblicità, non può rimanere segreta, è una denuncia, anche perché è scritta da un uomo addolorato, amareggiato. Due giorni prima di scrivere la lettera e di morire, Chelazzi apprese che era stata organizzata una riunione di magistrati per valutare il suo lavoro, l’ultimo atto per delegittimarlo. Io credo che quest’uomo sia morto per il dolore. Gli italiani devono sapere il lavoro che ha fatto Chelazzi, che è stato un grande magistrato.»

«Il Vice Procuratore Nazionale Antimafia Gabriele Chelazzi poco prima di morire scrisse una lettera. Lo abbiamo sempre saputo tutti - dice Giovanna Maggiani Chelli, Presidente associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili - Negli anni spesso abbiamo chiesto il contenuto della lettera, oggi sappiamo che è stata segretata e che è stata conservata nei cassetti della Commissione Antimafia, lo ha detto il TG5 delle 20 del 18 ottobre 2012. Perché è stata secretata? Da chi? Gabriele Chelazzi lavorava alle indagini relative ai passaggi da 41bis a carcere normale prima di morire, questo non è un segreto, lo dicono chiaramente gli atti archiviati nel 2002 relativi al fascicolo così detto “Inzerillo”, dove stanno verbali come quello del Prof. Conso che ebbe a dire al Magistrato Chelazzi, “Guardi che io sono per il 41 bis”. Siamo sconcertati davanti ai “segreti”, davanti alla classifica segreto, non ci sono segreti sulle stragi. Si dice. Da anni ce lo ripetono. Però, se fra “segreto di stato” e segretare un documento c’è differenza, infatti il “segreto di Stato” è posto sugli argomenti e sull’argomento stragi non c’è, segretare una lettera come quella di Chelazzi non vuol forse dire mettere il segreto sulle stragi del 1993? Perché se Chelazzi ha scritto una lettera tanto drammatica come il TG5 ci ha lasciato intravvedere, una ragione ci deve essere stata, e in quel momento Gabriele Chelazzi indagava sulla trattativa Stato-mafia.

Ne abbiamo il diritto: vogliamo a questo punto conoscere il contenuto della lettera del magistrato Gabriele Chelazzi finita in Commissione Antimafia, abbiamo sempre detestato le Commissioni per le stragi del 1993 e non a torto pare. Siamo i parenti dei morti di via dei Georgofili, riteniamo vergognoso che il contenuto della lettera di Gabriele Chelazzi non sia a nostra conoscenza, ma di persone delle quali non abbiamo nessuna fiducia, visto che conservano nei cassetti documenti “secretati” che potrebbero far più luce sulla morte dei nostri figli. Quanto meno capire leggendo quella lettera, le probabili divergenze in Procura a Firenze, mentre noi aspettavamo verità e giustizia e non ci sentivamo affatto di aver dato “un mandato altrettanto capriccioso conferitomi dalle ambizioni di terzi” come leggiamo stamani nei quotidiani; frase quella scritta dal giudice Chelazzi che ci fa riflettere e pensare che forse eravamo nei suoi pensieri nel momento più duro della sua vita.»

Stragi del '93, così fermarono l'anti-Ingroia, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La solitudine del magistrato. Raccontata in una lettera drammatica scritta poche ore prima di morire. Gabriele Chelazzi, magistrato dell'antimafia fiorentina distaccato sul fronte delle stragi, si sente abbandonato dai colleghi e così il 16 aprile 2003 racconta tutta la sua amarezza al capo dell'ufficio Ubaldo Nannucci. Quella notte viene stroncato da un infarto. Ora quel documento, ritrovato dall'onorevole Amedeo Laboccetta, diventa pubblico. Come un testamento che costringe a riflettere; dietro le quinte di indagini sotto i riflettori dei media si consumano incomprensioni, scontri, l'emarginazione di professionalità impegnate sulla prima linea della lotta alla criminalità. «Come le ho segnalato - spiega Chelazzi - è con estremo disagio che da circa due anni mi trovo a lavorare da solo su una vicenda come quella in questione»: una vicenda, ricorda il magistrato, che «ha a che fare con sette stragi». Le bombe, terrificanti, degli Uffizi, di Milano, e di Roma, le bombe del '93, le bombe piazzate dai mafiosi per costringere lo Stato al dialogo, a una sorta di patto scellerato. Dieci morti, decine di feriti, un danno incalcolabile al nostro patrimonio artistico. Per quelle carneficine viene processato e condannato all'ergastolo un gruppo di mafiosi, a cominciare da Totò Riina. Il capo di Cosa nostra ha fatto avere alle istituzioni il famoso papello con tutta una serie di richieste. Chelazzi deve perlustrare proprio quel terreno scivolosissimo, la cosiddetta zona grigia, a cavallo delle istituzioni. Dà la caccia ai mandanti, sempre evocati e mai messi a fuoco. Una ricerca in qualche modo decisiva per la tenuta della democrazia.

Ma il pm scopre di «lavorare da solo (con tutti i rischi del caso, da quello di sbagliare a quello di esporre la pelle a eventualità non propriamente gratificanti)». Insomma, Chelazzi si ritrova senza i supporti necessari, anzi senza nemmeno l'aiuto minimo da parte dei colleghi. E' deluso e disilluso. E descrive il suo stato d'animo a Nannucci: «A proposito dello scetticismo non nego che ripetutamente mi è parso di cogliervi addirittura un retropensiero secondo il quale il mio impegno in questo lavoro al contempo dipenderebbe da un mio capriccioso accanimento e da un mandato altrettanto capriccioso conferitomi dalle ambizioni di terzi». Non è così, perché Chelazzi ha imboccato la pista della trattativa fra Stato e mafia. Ma ci sono indagini che non catturano l'opinione pubblica, forse perché si muovono su sentieri non ortodossi: Chelazzi guarda a destra - a Dell'Utri, a Berlusconi, a tutta la presunta misteriologia legata alla nascita della Fininvest - ma nello stesso tempo apre altri fronti, a 360 gradi, senza indossare il paraocchi del conformismo giudiziario e intuisce manovre insospettabili che poi porteranno verso i «padri della patri»: i Conso, i Mancino e i tecnici del governo Ciampi. In qualche modo, e senza volerne fare a posteriori una bandiera, Chelazzi è alternativo a Ingroia. Il 16 aprile la lettera è pronta. Chelazzi non fa nemmeno in tempo a spedirla perché muore la notte successiva a 59 anni. Il testo viene ritrovato sul suo tavolo e consegnato a Nannucci nei giorni seguenti. È un documento storico che fotografa quel che può accadere in un ufficio importante. E come un'indagine delicatissima possa finire sul binario morto dell'indifferenza. Ora quelle carte riemergono grazie all'impegno di Laboccetta che le ha cercate prima alla procura di Firenze poi alla Commissione antimafia. «Lo hanno abbandonato al suo destino - racconta Laboccetta - e proprio mentre squarciava il velo di una trattativa inconfessabile che solo oggi comprendiamo».

Ora, a nove anni dal suo sacrificio.

Ma già dal 2003 Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”  scriveva sull’emarginazione subita da Chelazzi. L'ultimo atto dell'inchiesta sulle stragi di mafia del 1993 condotta dal pm Gabriele Chelazzi è stata una lettera, indirizzata al procuratore di Firenze. Una missiva che il magistrato della Direzione nazionale antimafia ha scritto poche ore prima di morire, colpito da un infarto nella notte tra il 16 e il 17 aprile scorsi, e non ha fatto in tempo a spedire. Chi s'è occupato di mettere ordine tra le sue carte l'ha trovata sul tavolo e l'ha fatta recapitare al destinatario, il dottor Ubaldo Nannucci, capo della Procura fiorentina. A lui Chelazzi aveva deciso di rivelare la propria amarezza per la sensazione di solitudine che provava lavorando a quell'indagine delicata e complicata. Il procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna aveva «applicato» Chelazzi all'ufficio di Firenze, titolare dell'indagine sui «mandanti a volto coperto» delle bombe scoppiate a Firenze, Milano e Roma tra la primavera e l'estate del 1993: dieci morti e decine di feriti per i quali un gruppo di mafiosi, da Riina in giù, è stato condannato all'ergastolo. Secondo la giustizia italiana sono gli esecutori materiali di quelle stragi, ma il lavoro degli inquirenti continua nel tentativo di smascherare eventuali ispiratori di quegli attentati «esterni» a Cosa Nostra. A tirare le fila dell'inchiesta era proprio Chelazzi, che prima di morire ha messo nero su bianco il disappunto per quella che riteneva un'insufficiente attenzione da parte della Procura di Firenze a ciò che stava emergendo all'indagine, un supporto inadeguato rispetto a quello che secondo lui meritavano gli accertamenti in corso. I termini di legge per l'inchiesta stanno per scadere (bisognerà chiudere entro i primi di giugno), e nel registro degli indagati compare solo il nome dell'ex senatore democristiano Vincenzo Inzerillo, già condannato in primo grado a otto anni di carcere per concorso in associazione mafiosa. Ora su di lui pende l'ipotesi più grave di concorso in strage. Alcuni pentiti, tra i quali Giovanni Brusca, hanno infatti rivelato i contatti dell'ex parlamentare con Cosa Nostra - in particolare la famiglia Graviano di Brancaccio - proprio nel 1993, quando la mafia tentò di far ammorbidire le leggi contro i boss varate dopo le stragi del 1992. Le bombe dell'anno successivo sono state più volte definite «bombe del dialogo», per indurre la controparte a trattare con Cosa Nostra e rivedere certe norme, a cominciare dall'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario che sancisce il «carcere duro» per gli uomini delle cosche. Inzerillo è stato interrogato nei giorni scorsi dal procuratore aggiunto di Firenze Fleury e dai pm Nicolosi e Crimi, i titolari dell'inchiesta divenuti «eredi» di Chelazzi. In alcune interviste il super-procuratore antimafia Vigna ha anticipato l'idea di «una talpa..., un canale di fuoriuscita di notizie riservate» dallo Stato verso la mafia, nel periodo in cui si decise di prorogare il «41 bis».

Di questo si occupava Chelazzi, che ha compiuto accertamenti al ministero della Giustizia spulciando carte e ascoltando testimoni. E si occupava dell'eventuale «trattativa» tra rappresentanti delle istituzioni e rappresentati di Cosa Nostra in quel periodo, sulla falsariga di ciò che si è ipotizzato per l'anno precedente, a cavallo delle stragi del '92. Allora, hanno raccontato alcuni collaboratori giustizia, Totò Riina redasse un «papello» (pezzo di carta) con le proprie richieste per interrompere gli attentati; nel '93, con Riina in carcere, ci avrebbe provato qualcun altro. Nell'ipotesi dell' accusa l'ex senatore Inzerillo sarebbe coinvolto in questa operazione di dialogo a distanza tra mafia e Stato. Per verificare questa e altre possibilità Chelazzi ha interrogato diverse persone, e aveva in programma di interrogarne ancora. Pochi giorni prima di morire, insieme al pm Nicolosi, ascoltò come testimone il prefetto Mario Mori, già comandante del Ros dei carabinieri e oggi direttore del Sisde. Gli ha chiesto dei suoi rapporti e dei suoi ripetuti incontri nel 1993 con il giornalista Giovanni Pepi, condirettore del Giornale di Sicilia. Pepi fu indicato da Riina, durante una pubblica dichiarazione fatta dieci anni fa nel corso di un processo, come l'unico giornalista al quale avrebbe potuto concedere un'intervista. Niente di strano secondo Pepi che già allora chiarì il senso della frase del boss. Ma, come ha rivelato ancora Vigna nelle interviste, Chelazzi aveva intenzione di approfondire il senso di quella frase di Riina. Da Pepi non ha fatto in tempo ad andare, mentre da Mori il magistrato dell'Antimafia ha avuto la spiegazione di un normale rapporto d'amicizia. «Conosco Pepi da almeno dieci anni - ha detto il direttore del Sisde -, mi è stato presentato come persona dabbene, abbiamo avuto e abbiamo normali frequentazioni tra amici. In ogni caso non ho mai condotto "trattative" con chicchessia». Pepi si mostra stupito di essere stato chiamato in causa, spiega che tutto si poteva verificare dieci anni fa ed è a disposizione per chiarire qualunque cosa ancora oggi. Anche la vicenda raccontata dal pentito Angelo Siino, che in un verbale ha detto di averlo visto «intrattenersi cordialmente» con il «geometra di Cosa Nostra» Giuseppe Lipari - l'ex-insospettabile che gestiva i beni di Riina e Provenzano, il quale ha tentato di collaborare con la giustizia ma è stato «respinto» dalla procura di Palermo - al matrimonio della figlia di Lipari. Tutto risale a quando Lipari non era ancora stato scoperto come mafioso e - ricorda oggi Pepi - «sua figlia era una collaboratrice del Giornale di Sicilia. Sono andato al suo matrimonio, salutai lei, ma non ho mai conosciuto suo padre». Visti i tempi stretti per concludere l'indagine, è possibile che Chelazzi volesse chiedere uno «stralcio» per chiudere l'inchiesta su Inzerillo e proseguire gli accertamenti «contro ignoti». Perché c' era da appurare, ad esempio, il movente della fallita strage dell'ottobre ' 93 allo stadio Olimpico di Roma rivelata da alcuni pentiti. Un attentato nel quale dovevano morire molti carabinieri, si disse, e l'ipotesi è che fosse la risposta ordinata dall'ala dura di Cosa Nostra per il fallimento della presunta «trattativa» con lo Stato. Supposizioni e teorie suffragate da qualche indizio ma difficili da verificare; indagini delicate che potevano apparire fumose a chi non le «viveva» dall'interno. Forse questo temeva Gabriele Chelazzi, quando decise di scrivere quella lettera nella quale traspaiono il disappunto e la solitudine di un magistrato che credeva nel suo lavoro, morto prima di poterlo concludere.

Il compianto Vigna difensore del Ros, con buona pace del compianto Gabriele Chelazzi scrive Sonia Alfano sul suo Blog.

Leggendo le motivazioni della sentenza con cui i giudici di Milano hanno condannato per traffico internazionale di droga il Generale Giampaolo Ganzer, comandante del Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei Carabinieri, viene spontaneo chiedersi in che Paese viviamo e se usciremo mai dalla palude nella quale hanno cercato (e cercano!) di farci affogare. Secondo i giudici dell’ottava sezione penale di Milano, presieduta da Luigi Caiazzo, il generale “non ha minimamente esitato a dar corso a operazioni antidroga basate su un metodo di lavoro assolutamente contrario alla legge, ripromettendosi dalle stesse risultati d’immagine straordinari per se stesso e per il suo reparto”. Il comandante del Ros inoltre “’ha tradito, per interesse personale, tutti i suoi doveri, e fra gli altri quello di rispettare e far rispettare le leggi dello Stato”. Secondo i giudici Ganzer ha una “preoccupante personalità” e sarebbe capace di “commettere anche gravissimi reati per raggiungere gli obiettivi ai quali è spinto dalla sua smisurata ambizione”. In un Paese normale Ganzer avrebbe dato le dimissioni e si sarebbe ritirato a vita privata in un eremo, ben lontano da quella società civile che si aspetterebbe, almeno dai vertici delle forze dell’ordine, onestà e sicurezza. Ci aspettavamo la difesa d’ufficio degli esponenti del PdL, che ormai non provano il benchè minimo imbarazzo nel benedire i loro amici, specialmente se si tratta di acclarati delinquenti e malfattori. Quello che invece non ci aspettavamo di certo sono le incredibili dichiarazioni di un ex magistrato come Pier Luigi Vigna, che dal 1997 al 2005 è stato addirittura Procuratore nazionale antimafia.

Vigna, prendendo pubblicamente le difese di Ganzer, ha sottolineato “la sua correttezza estrema in tutti gli episodi”, e ha ricordato che da pm seguì con lui “il primo caso di immissione di droga in Italia da parte di agenti infiltrati”. L’ex procuratore ha poi spiegato che Ganzer è, per lui, “un collega leale che in vent’anni ha sempre dimostrato alta professionalità e un atteggiamento ineccepibile”. Così facendo, non solo l’ex magistrato ha tentato di delegittimare i magistrati milanesi e perfino di screditare una sentenza di condanna. Ha fatto di peggio, ha preso moralmente le distanze dall’indimenticato pubblico ministero Gabriele Chelazzi, che sul Ros e su quanto fatto da quel reparto nella trattativa tra Stato e Cosa nostra ha indagato, nell’isolamento tipico di chi vuole combattere il marcio, negli ultimi giorni della sua vita.

Per chiarire ulteriormente quanto scritto dai giudici milanesi pubblico l’articolo uscito sul sito web di Repubblica il 27 dicembre 2010:

Il generale Giampaolo Ganzer “non si è fatto scrupolo di accordarsi” con “pericolosissimi trafficanti”. Lo scrivono i giudici di Milano nelle motivazioni della condanna a 14 anni per il comandante del Ros nel processo per presunte irregolarità nelle operazioni antidroga. “Il generale Gianpaolo Ganzer non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità. Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge”, scrivono i giudici del Tribunale, spiegando perché il 12 luglio scorso condannarono il capo del Ros dei carabinieri per traffico internazionale di droga in riferimento a operazioni sotto copertura. Secondo i giudici dell’ottava sezione penale di Milano, presieduta da Luigi Caiazzo, il generale ”non ha minimamente esitato (…) a dar corso” a operazioni antidroga ”basate su un metodo di lavoro assolutamente contrario alla legge, ripromettendosi dalle stesse risultati d’immagine straordinari per se stesso e per il suo reparto”. Il comandante dei Ros inoltre ”ha tradito, per interesse personale, tutti i suoi doveri, e fra gli altri quello di rispettare e far rispettare le leggi dello Stato”. I giudici oltre a Ganzer, avevano condannato altre 13 persone – a pene variabili dai 18 anni in giù – tra cui anche il generale Mauro Obinu e altri ex sottufficiali dell’Arma. L’accusa aveva chiesto per Ganzer 27 anni di carcere, ma i giudici lo avevano assolto dall’accusa contestata dalla Procura di associazione per delinquere e lo avevano condannato per episodi singoli di traffico internazionale di stupefacenti. Preoccupante personalità. Il generale Giampaolo Ganzer ha una "preoccupante personalità" capace ”di commettere anche gravissimi reati per raggiungere gli obiettivi ai quali è spinto dalla sua smisurata ambizione”, spiegano ancora i giudici. Nel motivare la mancata concessione a Ganzer delle attenuanti generiche, il collegio scrive che le stesse attenuanti non possono essere riconosciute ”non solo per l’estrema gravità dei fatti, avendo consentito che numerosi trafficanti (…) fossero messi in condizioni di vendere la droga in Italia con la collaborazione dei militari e intascarne i proventi, con la garanzia dell’assoluta impunità, ma anche per la preoccupante personalità dell’imputato, capace di commettere anche gravissimi reati”. Nei panni di un distratto burocrate. Colpisce, si legge ancora nelle motivazioni, “nel comportamento processuale di Ganzer (…) che abbia preso le distanze da tutte le persone che, con il suo incoraggiamento, avevano commesso i fatti in contestazione”. Il generale, secondo i giudici, si è trincerato “sempre dietro la non conoscenza e la mancata (e sleale) informazione da parte dei suoi sottoposti”. Così, si legge ancora, per “sfuggire alle gravissime responsabilità” ha “preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti”. Non c’è reato di associazione. Non si ravvisa, secondo i giudici, il reato di associazione per delinquere: “Non si ravvisa negli imputati l’intento di partecipare in modo stabile e permanente ad un programma comprendente la realizzazione di una serie indeterminata di reati, ma soltanto l’intenzione di eseguire alcune operazioni” che, tra le altre cose, avrebbero consentito loro di dare “lustro, davanti ai propri superiori e all’opinione pubblica, al corpo di appartenenza”, scrivono i giudici per i quali “l’esistenza di reiterate deviazioni nell’ambito del Ros, ad opera di appartenenti al suddetto Raggruppamento” non è “sufficiente ad integrare” il reato associativo “in mancanza di un vincolo stabile tra gli imputati e della creazione da parte degli stessi di una seppur minima struttura finalizzata al raggiungimento di fini illeciti e criminosi”. Il fatto che, spiegano i giudici, “si siano utilizzate le strutture dell’Arma dei Carabinieri realizza certamente un gravissimo abuso dei poteri e una gravissima violazione dei doveri che incombevano sugli imputati (…), ma non consente in alcun modo di identificare la struttura di un lecito servizio (ossia la struttura stessa del Ros, ndr) nella struttura dell’associazione”. Non vi è stata, si legge ancora,”neanche una suddivisione dei ruoli tra gli imputati, diversa da quella esistente nell’ambito militare e in qualche modo funzionale alla commissione dei delitti di cui trattasi, e pertanto neppure sotto questo aspetto può dirsi che gli imputati abbiano costituito una autonoma struttura funzionale all’attuazione di un programma criminoso”. Ganzer: “Non commento le sentenze”. ”Non commento le sentenze, sono un uomo delle istituzioni e lo sono sempre stato. Il mio unico commento è quello fatto in sede processuale, con i motivi d’appello”, ha detto comandante del Reparto operativo dei carabinieri, rispondendo a chi gli chiedeva un commento sulle motivazioni della sentenza dei giudici di Milano.

Gli effetti di tanto marasma sta nelle parole di Bruno Contrada.

Contrada contro tutti. L'intervista di Rosamaria Gunnella su “L’Opinione”. Afferma di non aver mai nutrito sentimenti di odio e di vendetta nei confronti di alcuno; sostiene di sentirsi, più che un capro espiatorio, un obiettivo facile da colpire per coprire le inefficienze di un sistema. Si augura che la verità sulla sua vicenda sia ristabilita, perché «io non ho commesso i fatti che mi sono stati attribuiti». Si è sempre sentito un uomo dello stato, anche quando era in carcere, «perché se dovessi rinnegare questo attaccamento dovrei dichiarare il fallimento della mia vita». Bruno Contrada, condannato a dieci anni di reclusione con l’accusa infamante di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo averne scontati otto dei quali quattro ai domiciliari per le sue condizioni di salute, parla finalmente da uomo libero. Un «uomo legato alle istituzioni», come continua a definirsi, che non ha nessun sassolino da togliersi dalle scarpe ma indosserebbe volentieri gli scarponi dei fanti della Prima guerra mondiale con 48 chiodi per dare, metaforicamente, un calcio a qualcuno.

Chi ha voluto colpire Bruno Contrada?

Innanzitutto quel nugolo di avanzi da galera (17 i “pentiti” che lo hanno accusato), i peggiori criminali della mafia siciliana, killer, autori di delitti efferati. Giovanni Brusca, per esempio, cioè colui che azionò il telecomando che uccise il giudice Falcone, o Giuseppe, Pino Marchese, condannato all’ergastolo, poi a trent’anni e autore di stragi e di decine di omicidi, tra cui uno particolarmente cruento: uccise un suo compagno di cella all’Ucciardone a colpi di bistecchiera. Tommaso Buscetta, conosciuto per le sue imprese criminali e per la notorietà che gli ha dato “il pentitismo”.

E poi?

Diciamo, che al nugolo di questi pendagli da forca se n’è accodato un altro. Individui appartenenti anche alle istituzioni, alla polizia che per rancori, giustificati o non, o anche per antipatia personale, mi hanno accusato. D’altronde chi svolge una determinata attività come la mia oltre a crearsi amici fraterni si fa anche tanti nemici.

Persone che hanno colto il momento per scagliarsi addosso ad un corpo ormai per terra sanguinante. Mai nessuno di loro prima del mio arresto aveva detto una sola parola su di me. E nonostante tutto questo non serbo odio o rancore verso nessuno. Voglio solo che si ristabilisca la verità. Non ho bisogno di nient’altro che di questo.

La sua vicenda giudiziaria potrebbe essere lo spunto per riportare all’attenzione il dibattito sui collaboratori di giustizia?

Il pentitismo in Italia, da più di vent’anni a questa parte, è un fenomeno di una complessità enorme, sul piano umano, sociale, giudiziario (sia nell’applicazione pratica che nella utilizzazione dei processi) e su quello della dottrina giuridica. È un fenomeno che è stato esaminato, criticato, esaltato, dibattuto da persone qualificate, insigni giuristi, sociologi e da cultori di varie scienze umane. Io ritengo che l’utilizzazione da parte dello stato di criminali, di collaboratori di giustizia, di pentiti, non nel senso etico della parola ma secondo motivi di opportunità e convenienza, cioè per sottrarsi a lunghe detenzioni o all’ergastolo e avere benefici pecuniari, è sempre un segno di debolezza dello stato. Voglio dire che quando lo stato per un complesso di motivi non riesce, con i mezzi tradizionali, a debellare un fenomeno criminale così grave allora ricorre a compromessi del genere, cioè all’utilizzazione di uomini che, per raggiungere i risultati di cui ho parlato, sono disposti a dare la loro collaborazione in cambio di benefici. Se i mezzi fossero stati sufficienti, e a mio avviso non lo erano, lo stato non avrebbe avuto bisogno di ricorrere al “pentitismo”.

Quindi il problema non sta nella legge che istituisce i collaboratori di giustizia?

Riconosco che i pentiti hanno dato un notevole contributo alla lotta contro la mafia. Hanno dato la possibilità di scoprire delitti, di inchiodarne i mandanti e gli esecutori, di arrestare latitanti e tenere in galera i maggiori esponenti della mafia. Il vero problema è la gestione dei collaboratori di giustizia. I pentiti sono come un’arma che di per sé non è né positiva né negativa. Può essere usata per la difesa della patria, della società, della propria vita e di quella di altri, ma può servire anche per compiere omicidi, rapine a mano armata. È a secondo di chi la usa e come viene utilizzata che l’arma diventa positiva o negativa. È necessario, quindi, che i pentiti vengano gestiti con la massima attenzione, scrupolosità e coscienza. E l’opera di investigazione nella ricerca dei riscontri deve essere ancora più approfondita soprattutto quando le accuse sono rivolte a uomini che hanno combattuto questi criminali, denunciandoli, arrestandoli e diventando così i loro nemici atavici: i poliziotti, tra i quali io. Difatti, tra i pentiti che mi hanno accusato, dando l’impulso per imbastire il mastodontico processo a mio carico, ce n’erano molti che io avevo perseguito in ogni modo.

Una vicenda processuale alquanto complessa, la sua. Ma perché questa ostinazione nei suoi confronti?

La mia vicenda giudiziaria deve essere contestualizzata negli anni in cui è avvenuta. Un momento in cui bisognava dimostrare molte verità ma anche teoremi, cioè di un’inefficienza dell’azione repressiva e preventiva dello stato nei confronti della mafia da parte della politica, della magistratura, delle forze dell’ordine ma anche della gente comune che si disinteressava a questo fenomeno. Solo negli anni successivi è sorto il consenso generale. Si è voluto sostenere questo teorema. È vero che nel corso di decenni, lo stato, e parlo della politica, ha sottovalutato il fenomeno della mafia.

In alcuni periodi, anche con una certa giustificazione: c’era un’altra grande emergenza che metteva in pericolo la struttura dello stato, il terrorismo. Tutte le attenzioni erano rivolte a fronteggiare l’eversione, quando la mafia veniva ancora considerata un fenomeno localizzato in Sicilia e che non interessava l’intero apparato statale.

Quindi, si può dire che lei è stato un capro espiatorio di un sistema?
Io mi sono trovato in mezzo a tutto questo, al teorema dell’inefficienza dello stato nel suo complesso. Per tutti gli incarichi che avevo ricoperto nella lotta contro la criminalità organizzata e la mafia avevo, come dire, il “physique du role”, ero la persona adatta su cui appuntare queste accuse come responsabile di indubbie deficienze, mancanze dovute al sistema sociale e legislativo dell’epoca. Bisogna considerare che in quegli anni non avevamo i mezzi giuridici e materiali che sono subentrati nei periodi successivi. E, lo riconosco, forse eravamo anche impreparati ad affrontare un fenomeno di così terribile impatto sulla vita del nostro paese. Come del resto non eravamo pronti nei primi anni del terrorismo eversivo contro il quale man man ci si è attrezzati.

Cosa ne pensa del ricorso straordinario pendente in Cassazione contro la decisione con la quale la seconda sezione della Corte ha respinto l’istanza di revisione del suo processo?

La mia opinione è che la Cassazione non ritorna mai sui suoi passi. Ringrazio il mio avvocato, il dottor Lipera, che apprezzo per la sua tenacia, per il suo volere fare il possibile e anche l’impossibile, ma considero le sentenze della Cassazione come pietre sepolcrali. E come ho scritto nella copertina di un faldone che racchiude tutti i miei ricorsi: io non voglio essere Lazzaro e il mio avvocato non è Gesù.

Domani uscirà un libro-intervista “La mia prigione”, scritto insieme alla giornalista Letizia Leviti in cui lei ripercorre la sua ventennale vicenda giudiziaria. Un bisogno di raccontarsi, di fare conoscere le sue opinioni o cos’altro?

Non ho la presunzione di ritenere che questo libro possa fare rivedere o revisionare il processo. Ma credo che possa dare un contributo alla conoscenza della verità, a dirimere dei dubbi. Certo non a convincere coloro che, per partito preso o per teoremi, sono i miei detrattori, ma per lo meno a tentare di far sorgere in loro qualche dubbio. Ho voluto dare delle spiegazioni, raccontare la mia vicenda e la mia enorme sofferenza di questi ultimi venti anni tra processi, tribunali, ricorsi. Una sofferenza che continua ancora adesso, nonostante io sia libero. Una sofferenza morale, quella della perdita di tutto quello che è stato lo scopo di una vita.

Non può mancare nemmeno la testimonianza di chi ha visto sciolto il proprio consiglio comunale per infiltrazione mafiosa. Come per Reggio Calabria, primo capoluogo di provincia ad essere sciolto per infiltrazione mafiosa. Reggio Calabria c’è puzza di marcio. Ma anche di bruciato. (Ogni riferimento a fatti o persone reali non è puramente casuale, ed è basato su dati di fatto. Poi ognuno può fare lo struzzo, se vuole), scrive Giovanni Pecora su “Agorà Magazine”. Fermo restando che una cosa è la città di Reggio Calabria, altra cosa è l’Amministrazione comunale pro tempore, se una commissione d’accesso ha rilevato gli elementi per sciogliere il consiglio comunale per "contiguità mafiosa", ed il Ministero dell’Interno ha ritenuto validi e gravi questi elementi, attivando le procedure per lo scioglimento ed il Commissariamento del Comune di Reggio Calabria, sarebbe assurdo pensare ad una follia istituzionale, ad una immotivata ingiustizia. Evidentemente qualcosa di marcio ci deve essere, al di là di ogni ragionevole dubbio. MA...Un grande, enorme, gigantesco "MA..." è davanti agli occhi di tutti, reggini e non reggini: se è vero, come certamente sarà vero (magari al di là delle sue effettive responsabilità personali), che nell’Amministrazione del Sindaco Arena c’era "contiguità con la mafia", e nessuno ha motivo di negarlo, perchè invece negare che a Reggio - e fuori Reggio - opera attivamente da anni una lobby politico-giornalistica che ha avuto - ed ha - ruolo di opposizione politica in città ed in regione? Perchè negare l’evidenza? Per ingenuità certamente, da parte di alcuni amici in buona fede, ma anche per enormi e lunghissime "code di paglia" da parte di chi in questa lobby c’è dentro fino al collo. Perchè - e se non lo sapete ve lo dico io - a Reggio Calabria non solo la mafia era contigua all’Amministrazione comunale, ma anche occulti ed inquietanti "poteri forti" sono dietro un manipolo di giornalisti, reggini e non reggini, che hanno avuto la forza economica, politica e mediatica di mettere in piedi una vera e propria fabbrica di dossier (non inchieste, dossier) che sono diventati via via articoli e libri vomitati dappertutto, insieme alla costruzione di una macchina giornalistica del fango in moto 24 ore su 24 contro il Presidente della Regione Calabria Peppe Scopelliti e tutto ciò che tocca, fosse anche l’acquasantiera del Duomo di Reggio. Una lobby di pressione mediatica e politica asfissiante, fatta da sedicenti giornalisti privi di scrupoli, in qualche caso addirittura pregiudicati, pluriquerelati ed imputati per diffamazione, gente che ha fatto del manganello mediatico e della lupara a nove colonne il loro mestiere e la loro fortuna economica. Altro che paladini della legalità, che ci fa ridere amaramente il solo pensarlo! Mi piacerebbe tanto incontrare a quattr’occhi Roberto Natale, il segretario della Federazione nazionale della stampa, che ieri li ha difesi a spada tratta, e vorrei vedere cosa direbbe dopo "le carte" che gli potrei facilmente mostrare per dirgli chi sono i suoi protetti, tanto da farlo arrossire se lo ha fatto in buona fede. Perchè, cari amici, se a Reggio c’è puzza di marcio, intorno al marcio c’è tanta, tanta PUZZA DI BRUCIATO.

A Reggio lo Stato ha effettuato un’azione preventiva di legalità, impedendo che si passasse potenzialmente dalla contiguità al controllo diretto della mafia nell’Amministrazione comunale. Bene.

Ma se non fermerà gli artigli di una ben precisa, anche se parzialmente invisibile nella sua reale composizione, lobby politico-affaristico-giornalistica che già si protendono sulla città, l’avrà solo fatta morire di una morte diversa.

Comuni contro Saviano: «Noi sciolti per mafia ma sono dati vecchi».

Ondata di reazioni in provincia di Bari dopo l’elencazione in tv dei 210 Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose dal 1991. Tutto parte dall’esposizione presentata lunedì sera su RaiTre - nel corso della trasmissione «Che tempo che fa del lunedì» condotta da Fabio Fazio - dallo scrittore e giornalista Roberto Saviano, diventato famoso come «testimonial» antimafia con il suo libro «Gomorra». La reazione comune è che non è giusto indicare come città mafiose comunità che si sono «ripulite» da tale onta.

GIOIA DEL COLLE: FATTI VECCHI E FU UN ERRORE - Il consiglio comunale della città federiciana fu sciolto nel settembre 1993. Ora accostare ancora una volta il nome della città alla parola mafia ha fatto infuriare molti cittadini. Vito Ludovico, capogruppo Pd: «Gioia subì l’affronto di ricevere questo marchio infame che non meritava. Gli addetti ai lavori sanno come si svolsero i fatti, Gioia non c’entrava nulla con la mafia. Il commento di Saviano è assolutamente fuori posto; accostare Gioia a Reggio Calabria è come parlare di una cosa che non esiste». «Il capo dello Stato assunse quel provvedimento in maniera sbagliata rispetto alla realtà - aggiunge Johnny Mastrangelo, capogruppo Pdl in consiglio comunale - ma alla fine nessuno rimase coinvolto e nessuno è mai stato condannato per reati di mafia». In città la rabbia corre anche su Facebook.

DA TERLIZZI: LE COSE SONO CAMBIATE - L’eco lontana di misfatti accaduti vent’anni fa torna a far rabbrividire i terlizzesi. Era il 1993 quando il Consiglio comunale venne sciolto per mafia. «Mi si è riaperta una ferita quando ho saputo che nella trasmissione “Che tempo che fa” è stato rievocato un fatto infausto e dolorosissimo come quello accaduto quasi vent’anni fa», commenta il sindaco Ninni Gemmato. «Ma penso, anzi ne sono certo - sottolinea - che in questo tempo svariate cose siano cambiate. Il tempo trascorso ci sta riconsegnando eventi di diversa natura che hanno contribuito a riscattare la nostra città. Da allora ci sono state cinque tornate elettorali in cui i cittadini hanno avuto modo di esprimersi in maniera spontanea e democratica, generando un normale ricambio della classe dirigente. Abbiamo mostrato di saper reinstaurare un circolo virtuoso, di saperci rialzare e ricostruire. Per cui - conclude Gemmato - oggi ci addolora venire ancora ricordati, in una trasmissione di carattere nazionale, come un paese dove in passato si verificò un fatto riprovevole».

DA MODUGNO: ACCUSE ARCHIVIATE - «La necessità di fare audience e spettacolo non può giustificare il fatto di gettare fango su una intera comunità – ha assunto le difese di Modugno, il sindaco Mimmo Gatti - viene citato uno scioglimento frettoloso di consiglio comunale avvenuto nel 1993 e al quale non seguirono riscontri di alcun tipo né condanne, ma solo archiviazioni. E lo Stato che fa? Invece di chiedere scusa per l’errore ne fa un altro attraverso le sue emittenti televisive – ha concluso Gatti -: Modugno è sdegnata con la Rai».

«MONOPOLI ATTENDE I GIUDIZI» - «I fatti cui Saviano ha fatto riferimento nella trasmissione di RaiTre si riferiscono al 1994. Saviano fa bene a sottolineare i Consigli Comunali sciolti per infiltrazioni mafiose, ma sbaglia quando nel citarli non spiega in quanti Comuni si è giunti ad accertare i reati e i responsabili. Nel caso specifico di Monopoli, a distanza di quasi vent'anni siamo ancora in attesa di giudizio che alla gente onesta e seria pesa assai di più dell’accusa» dichiara il sindaco di Monopoli Emilio Romani.

«TRANI SCIOLTO PER MAFIA? FU INGIUSTIZIA» Non ho visto la trasmissione, ma prendo atto del fatto che anche Trani sia stata nominata da Saviano. Ma un conto è una mera elencazione di comuni, un altro è la cronaca di quello che è accaduto». Questo il commento del vice sindaco di Trani, Peppino Di Marzio, alla citazione televisiva, fra le altre, della città di cui, nel 1993, era primo cittadino quando il consiglio comunale fu sciolto per infiltrazioni mafiose. Una ferita aperta che, ventuno anni dopo, ancora non si è rimarginata. «I fatti – chiarisce Di Marzio -, nella loro evoluzione processuale, ci dicono che quel decreto scellerato, richiesto dall’allora prefetto Catenacci e firmato dall’allora ministro dell’interno Mancino, non ha trovato alcun riscontro. Tutti i processi penali e civili nati da quel provvedimento si sono conclusi con un nulla di fatto, escludendo collusioni di alcun tipo. Piuttosto, da lì Trani avrebbe subito un danno sia d’immagine, sia, soprattutto, economico perché prima fu tagliata fuori da importanti finanziamenti, poi dovette pagare lautamente le parcelle degli avvocati che difesero gli amministratori dell’epoca: miliardi di lire buttati via per un improvvido decreto di scioglimento promosso da un prefetto che, poi, sappiamo tutti com’è andato a finire». Hanno collaborato alle interviste ai comuni sciolti per mafia Valentino Sgaramella, Giuseppe Cantatore, Saverio Fragassi, Eustachio Cazzorla, Nico Aurora su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Siamo un Paese di figli e figliastri scrive Michele Ainis su “L’Espresso”.

Giustissimo prendersela con gli scandali della politica. Ma il problema è che l'Italia è divisa in due: chi è privilegiato (per conoscenze, relazioni familiari, corporazioni etc) e chi invece è abbandonato a se stesso. Scandali, sprechi, sciali. E privilegi di stampo feudale, come no. Dei politici, della loro dolce vita, ne abbiamo gli occhi pieni. E continuiamo a sgranarli ogni mattina, basta aprire un quotidiano. C'è un rischio però, anche se a enunciarlo rischi a tua volta i pomodori. Il rischio di trasformare le malefatte di Lusi o di Fiorito in un lavacro collettivo, che monda ogni peccato. I nostri, non i loro. Perché non è vero che da un lato c'è la casta, dall'altro la società dei casti. Non è vero che il furto di denaro pubblico avvenga unicamente per mano dei partiti: ce lo dicono i numeri dell'elusione fiscale, del lavoro nero, degli abusi edilizi. E soprattutto non è vero che i privilegiati siano soltanto loro. Nell'Italia delle corporazioni ormai lo siamo tutti. LE PROVE? Cominciamo dalla pappatoia delle regioni, dove i consiglieri pappano a spese dell'erario. Ma il personale burocratico non sta certo a digiuno. In Trentino i dirigenti ottengono mutui a tasso zero. In Emilia vanno in bus con uno sconto dell'85 per cento sul biglietto. In Sicilia hanno diritto a un sussidio per il matrimonio, alla colonia estiva per i figli, perfino al contributo per le pompe funebri. Senza dire dei benefit che toccano in sorte ai dipendenti delle assemblee parlamentari: quelli del Senato intascano pure la sedicesima, alla Camera uno stenografo può guadagnare più del capo dello Stato (259 mila euro lordi l'anno contro 239 mila). E gli altri? Ce n'è per tutti, anche per chi timbra il cartellino fuori dal Palazzo. I bancari lasciano il posto in eredità alla prole (almeno il 20 per cento del turnover nelle banche si svolge attraverso una staffetta tra padri e figli). Le mogli dei ferrovieri salgono in treno gratis. Gli assicuratori ci infliggono le polizze più salate d'Europa (il premio Rc auto costa il doppio rispetto alla Francia e alla Germania). I sindacalisti vengono esentati dai contributi pensionistici. I tassisti si proteggono con il numero chiuso. Al pari dei farmacisti e dei notai, che oltretutto sono creature anfibie: funzione pubblica, guadagni privati (il sigillo notarile vale 327 mila euro l'anno). Come i medici ospedalieri, ai quali s'applica l'intra moenia extramuraria: un pasticcio semantico, prima che giuridico. In pratica, devolvono il 6,5 per cento del loro fatturato all'ospedale e vanno ad operare nelle cliniche di lusso. D'altronde ciascuno ha il proprio lusso, e se lo tiene stretto. Ai dipendenti della Siae tocca un'"indennità di penna". Ai servizi segreti un'"indennità di silenzio". Agli avvocati dello Stato una "propina" (55 milioni nel 2011). I diplomatici all'estero incassano uno stipendio doppio. Come i giudici amministrativi distaccati presso i ministeri (in media 300 mila euro l'anno). I professori universitari hanno diritto alla vacanza permanente (l'impegno annuale è di 350 ore). I giornalisti entrano nei musei senza pagare.

Chi è impiegato all'Enel fruisce d'uno sconto sulla bolletta della luce. I docenti di religione hanno una busta paga più pesante rispetto a chi insegna geografia. E c'è poi il santuario degli ordini professionali, lascito imperituro del fascismo. C'è una barriera all'accesso che protegge avvocati, architetti, commercialisti, veterinari, ingegneri. C'è il mantello dell'indipendenza che si traduce in irresponsabilità per i pm (le sanzioni disciplinari colpiscono lo 0,3 per cento della categoria). C'è una selva di privilegi processuali in favore delle banche (possono chiedere un decreto ingiuntivo in base al solo estratto conto), di privilegi fiscali per i petrolieri (pagano royalty del 4 per cento contro l'80 in Norvegia o in Russia). C'è la mammella degli aiuti di Stato (30 miliardi l'anno), da cui succhiano le imprese siderurgiche non meno di quelle cinematografiche (1,5 milioni a "L'allenatore nel pallone 2"). Sì, è esattamente questa la nostra condizione. Siamo un popolo di privilegiati e discriminati, di figli e figliastri. Senza eguaglianza, senza giustizia, senza libertà. E non basterà il faccione di Fiorito, non basterà quest'esorcismo collettivo che stiamo intonando a squarciagola, a farci ritrovare l'innocenza.

Se la Casta è dentro di noi scrive Ignazio Marino su “L’Espresso”.

«Io faccio il senatore e so per esperienza che quando le persone si rivolgono a uno di noi è sempre per chiedere un aiuto personale, una promozione, un favore. E' questa la cultura che alimenta i privilegi e uccide il merito». Non possiamo continuare a tollerare una situazione in cui il finanziamento della ricerca non è assegnato in modo concorrenziale, in cui i posti non sempre sono distribuiti in base al merito, in cui difficilmente i ricercatori possono accedere alle sovvenzioni o ai programmi di ricerca oltre confine e da cui ampie zone d'Europa restano escluse». Sono le parole di Máire Geoghegan-Quinn, commissaria europea alla ricerca e all'innovazione, che chiede di abbattere le barriere tra gli Stati per realizzare uno spazio europeo della ricerca. Uno spazio in cui l'unico giudice sia il merito e che sia misurabile, come sosteneva anche Michael Young, che nel 1958 coniò il neologismo "meritocrazia". Agli appelli pressanti, che arrivano anche dall'Europa, l'Italia continua a rispondere con la sua cultura anti-merito. Si inizia con la scuola, dove copiare il compito del compagno è tollerato e non è considerato un fatto riprovevole. Anzi, lo sciocco è chi non copia. E si continua per tutta la vita quando, nonostante l'odio contro la casta, ci si rivolge a un politico per chiedere una raccomandazione, un posto di lavoro, una promozione, un trasferimento, per saltare la lista d'attesa in ospedale. Lo dico per esperienza personale: purtroppo è raro che le persone mi cerchino per presentarmi un progetto in cui credono mentre è più comune la richiesta di un aiuto personale, e quando rispondo che l'unica raccomandazione che mi sento di fare è chiedere a ogni commissione di scegliere il migliore, leggo delusione negli occhi del mio interlocutore, non apprezzamento.

Questa mentalità è così diffusa che fa sì che la nostra società sia profondamente diseguale e soffra di una scarsissima mobilità sociale proprio per la mancanza di cultura del merito che non permette ai migliori di correre, e magari vincere, quella gara verso l'alto, qualunque sia la loro base sociale di partenza. La conseguenza è visibile anche nel fatto che l'Italia da anni ormai rimane saldamente ancorata agli ultimi posti nelle classifiche internazionali per efficienza, qualità dei servizi, stima nei dipendenti pubblici. Il merito, infatti, non serve solo al singolo individuo quale giusto e doveroso riconoscimento dell'impegno e delle sue capacità personali ma è fondamentale per fare funzionare meglio l'intero sistema. Il settore dell'aeronautica rappresenta un valido esempio: ogni pilota d'aereo possiede un log-book, un libretto sul quale vengono annotati i dettagli di ogni volo, gli errori, i rischi, le manovre giuste, in pratica tutta la storia professionale. Su quella base si valutano le qualità del singolo pilota ma si studiano anche i punti deboli e gli elementi di fragilità del sistema. E così non solo si correggono ma si prevengono gli errori. Perché non immaginare un sistema simile anche per la sanità? Se per esempio si potesse conoscere tutto ciò che un medico ha fatto dal suo primo giorno in ospedale, quelle informazioni diventerebbero un biglietto da visita importantissimo, ma anche un elemento di valutazione, trasparente e oggettivo, per la sua carriera e più in generale per l'efficienza e la sicurezza del servizio sanitario. La cultura del merito non si può imporre per decreto e quando il governo sostiene che la spending review servirà a rendere più efficiente l'amministrazione pubblica dice una bugia, perché servirà solo a fare cassa. Per incidere sull'efficienza e per premiare i migliori servono tempo e strategia, iniziando con la raccolta dei dati e con la loro analisi. E poi serve una motivazione intrinseca, che non è data dalla prospettiva di un aumento di stipendio o da uno scatto di carriera ma dalla convinzione che ogni sforzo personale possa avere un effetto positivo su tutti. E' così ambizioso iniziare a considerare la parola merito non come un insulto? O smettere di pensare che sia una prerogativa esclusiva del mondo anglosassone? E' vero, la cultura del merito non ce l'abbiamo nel sangue ma dobbiamo infonderla nelle nostre vene, soprattutto in quelle dei giovani affinché non si sentano predestinati a non cambiare mai.

Ecco perchè il cittadino, per egoismo personale, vende la sua anima al diavolo.

PARLIAMO DI VOTO DI SCAMBIO: Il mercato degli eletti

Così è il titolo dell’inchiesta di Piero Colaprico, Riccardo Di Gricoli ed Andrea Punzo su “La Repubblica”. Lo scacchiere degli uomini d'onore. Da nord a sud il controllo delle urne. In una Regione su due le Procure indagano su presunte compravendite di pacchetti di voti da parte della malavita organizzata. Da il caso di Nicola Cosentino in Campania fino agli scandali in Liguria passando attraverso l'operazione Minotauro in Piemonte. Dal cellulare al trucco delle schede, tutti i modi per pilotare il voto. Cambiano i sistemi elettorali e le organizzazioni rivedono il modo per condizionarne i risultati. L'elettore che vuole vendere la sua preferenza sa già a chi rivolgersi e quali tecniche usare. Non solo la foto con il telefonino ma anche lo scambio della scheda già compilata.

La lunga mano dei boss sul voto nell'Italia delle elezioni inquinate. Metà delle regioni conta almeno un caso di voto di scambio. Negli ultimi due anni il numero di inchieste su politici eletti grazie all'appoggio dei clan è cresciuto in maniera esponenziale. E aumentano i comuni sciolti per mafia, soprattutto al nord. Una Regione su due conta almeno un caso di compravendita di voti. Dal 2010 a oggi il numero di inchieste su politici arrivati nelle stanze del potere grazie all'appoggio dei clan è cresciuto in maniera esponenziale. Nelle borgate dei grandi centri come nei paesi più piccoli, spesso ai margini della cronaca. Senza contare i comuni sciolti per infiltrazioni mafiose: oltre 200 dal '91. La mappa dell'Italia è costellata da scandali che ruotano attorno al voto di scambio. Da Milano a Casal di Principe, da Ventimiglia a Torino, il Paese è una gigantesca scacchiera dove i calcoli a tavolino dei boss permettono di consegnare le chiavi dei palazzi istituzionali a "uomini fidati". A politici conniventi del clan di turno, che diventano così appendici delle cosche nei luoghi della democrazia del Paese. Rispetto a qualche anno fa, è il nord ad aver compiuto il balzo in avanti più significativo. Piemonte, Lombardia e Liguria, un tempo triangolo industriale e motore del Paese, si sono trasformate nei presìdi delle 'ndrine, il cui controllo territoriale passa anche dalla vendita di migliaia di voti. Un voto costa 50 euro. Ma può arrivare anche a 80 o 100. A seconda della Regione o delle condizioni dettate dai vertici della criminalità locale. In cambio di una semplice "x" che segni una preferenza, alcuni possono arrivare a offrire un panino, un pasto caldo oppure il pagamento di una bolletta. Sono le schede elettorali sporche di mafia. Migliaia di voti in cambio di migliaia di euro. Pratica che ha compromesso sul territorio nazionale decine e decine di assessori, consiglieri e ex presidenti di Regione. E che, in numerosi casi, li ha costretti a concedere favori su favori, strozzati dalla loro stessa voglia di potere.

Il voto di scambio si può raccontare attraverso tre storie. Eccole.

Operazione Minotauro. È il 6 giugno 2011. A Volpiano, cittadina di 15 mila abitanti in provincia di Torino, si riunisce il nuovo Consiglio comunale. È la prima seduta dopo le elezioni e sulla poltrona di sindaco esordisce Emanuele De Zuanne (lista civica). Aprono i lavori. Si susseguono gli interventi. I presenti, oggi, ne ricordano uno più di altri: "Con i soldi pubblici bisogna saper osare. Spenderli, ma senza rubare". Qualche applauso, ma anche fischi. L'oratore, secondo eletto dopo il Sindaco con il 33% dei voti, è Nevio Coral, già sindaco di Leinì (piccolo centro a due passi dal capoluogo piemontese), imprenditore di successo e politico molto noto nella zona. Due giorni dopo, la mattina dell'8 giugno, scatta a Torino e provincia l'Operazione Minotauro, la più vasta azione anti 'ndrangheta nella storia del Piemonte: 191 persone iscritte nel registro degli indagati, 141 i mandati di custodia cautelare spiccati dal gip, sequestri preventivi di beni per un valore di oltre 117 milioni di euro. Associazione a delinquere di stampo mafioso, detenzione illegale di armi, traffico di stupefacenti, gioco d'azzardo, riciclaggio sono solo alcuni dei reati contestati. Tra gli arrestati c'è un solo politico: Nevio Coral. Lo stesso che due giorni prima invocava un uso onesto del denaro pubblico. Il discorso di Volpiano diventa così l'ultimo atto politico di un uomo costretto a difendersi da una doppia infamante accusa: concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. "La criminalità organizzata - scrive il prefetto di Torino Alberto Di Pace nella relazione consegnata al Ministro Anna Maria Cancellieri il 29 febbraio - sarebbe arrivata a infiltrarsi tra le maglie dell'ente comunale (e non solo) realizzando un fattivo concorso nella gestione deviata della cosa pubblica". L'uomo chiave, il tramite tra lo Stato e il malaffare sarebbe sempre lui: Nevio Coral. Intrattiene rapporti con affiliati e pluripregiudicati come Vincenzo Argirò, originario di Locri classe 1957, residente a Caselle Torinese. I due vengono più volte intercettati, al telefono parlano come chi si conosce da tempo: "Bisogna proprio dire che i vecchi amici si trovano sempre" dice Coral al presunto boss. Si danno appuntamento nel ristorante dell'albergo Verdina a Volpiano, proprietà del figlio di Coral, Claudio. È il 18 maggio del 2009, Nevio cerca voti per l'altro figlio Ivano, all'epoca candidato alla Provincia di Torino. Una cena tra amici, una riunione per spartirsi il territorio. Garantiscono voti nella zona di Leinì, Volpiano e Borgaro Torinese. In cambio Coral promette loro lavoro: "Quando le strade si fanno - dice intercettato dai Carabinieri - i lavori si fanno, gli appalti vanno avanti... e innanzitutto prendiamo uno, lo mettiamo in Comune, l'altro lo mettiamo nel consiglio, l'altro lo mettiamo in una proloco...". Ivano Coral, già sindaco, verrà da lì a poco eletto anche consigliere provinciale.

'Ndrangheta a Ponente. Biglietti da visita di alcuni esponenti politici locali, carte su misteriosi giri d'affari Italia-Germania-Stati Uniti-Emirati Arabi, oltre ad alcune lettere di un padre ergastolano. Quello che nel giugno 2011 gli agenti della Dda trovarono a casa di Michele Ciricosta , boss del "locale" (come si chiamano le 'ndrine) di Ventimiglia della 'ndrangheta, sembrava un vero e proprio "arsenale"malavitoso. Non armi ma contatti, relazioni, numeri di telefono. Durante la perquisizione un particolare colpì più di tutti i Carabinieri: una scritta dietro un santino elettorale: "E' andata tutto bene", firmato Alessio Saso (Pdl). Consigliere regionale della Ligura eletto un anno prima con oltre 6330 preferenze. Secondo la Dda di Genova, mille di quei voti sarebbero arrivati proprio grazie alla "collaborazione" della 'ndrangheta e in particolare di Domenico Gangemi, professione verduriere, capo del "locale" di Genova. Per far arrivare le preferenze a Saso, mise in moto appunto la 'ndrina di Ventimiglia. Ossia Ciricosta. "Le intercettazioni del telefono di Gangemi - si legge nelle oltre 200 pagine di ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip Nadia Magrini - consentivano di registrare già nel mese di novembre 2009 le telefonate con il consigliere regionale. Il primo contatto telefonico tra l'amministratore locale e il 'capo bastonè avveniva il 28 novembre e lasciava chiaramente intendere una loro pregressa conoscenza". Dai tabulati telefonici emerge un rapporto stretto tra Gangemi e Saso. Si sentono più volte. Prima delle elezioni il consigliere regionale ha un unico obiettivo, rassicurare il suo interlocutore: "Io sono una persona seria.. sono una persona che anche dopo ci si può contare... se uno mi chiede un lavoro, mi chiede un finanziamento... do anche quello... eh... io sono sempre rimasto in buoni rapporti con tutti". Non è solo su Genova che le mafie allungano i loro tentacoli in cerca di agganci politici. Secondo la relazione della Divisione distrettuale antimafia "a Ventimiglia, al confine con la Francia, esiste una "camera di controllo" della 'ndrangheta calabrese". Nel febbraio scorso, il Consiglio dei Ministri decideva per lo scioglimento del comune di confine. Infiltrazione mafiosa, l'accusa. Secondo le indagini si era trasformata in una roccaforte di quelle famiglie mafiose, 'ndrangheta in primis, che avevano trovato un comodo e redditizio rifugio per fare gli affari loro. Anche grazie alla politica. Ventimiglia non è sola però. Perché proprio un anno prima simile sorte era toccata a Bordighera. Dalle indagini svolte dai carabinieri del Comando Provinciale di Imperia erano emerse pressioni sul sindaco e su alcuni assessori per ottenere l'apertura di una sala giochi ed altri favori.

L'urna è Cosa Nostra. "È inutile che viene per cercare voti perché voti non ce n'è più per Raffaele... quello che ho fatto io quando lui è salito per la prima volta... e siccome io ho rischiato la vita e la galera per lui...". A parlare è il boss di Palagonia (Catania) Rosario Di Dio. Dall'altra parte del telefono c'è Salvo Politino, attuale direttore della Confesercenti etnea. Un suo amico. Il Raffaele di cui si fa riferimento, invece è - ritiene la Procura - Raffaele Lombardo, presidente dimissionario della Regione Sicilia, accusato insieme al fratello Angelo (deputato nazionale Mpa) di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio aggravato. L'oggetto della telefonata, secondo le ricostruzioni dei pm, sarebbero dei presunti favori elettorali fatti al governatore. "Le intercettazioni - si legge negli atti del pool di Catania - hanno dimostrato l'esistenza di rapporti diretti tra Di Dio Rosario, uomo d'onore ed esponente di primissimo piano dell'associazione criminale Santapaola, e Lombardo Raffaele". L'ex presidente si è sempre difeso, rimbalzando le accuse. Ha ammesso di aver incontrato mafiosi, presunti o acclarati, ma allo stesso tempo ha parlato di contatti fortuiti e occasionali, nati da conoscenze politiche. Attualmente sono due i fascicoli "paralleli" nati da stralci dell'inchiesta "Iblis" su Raffaele e Angelo Lombardo, con reati in qualche modo assimilabili: voto di scambio e reato elettorale aggravato dall'avere favorito l'associazione mafiosa. Per questo l'ipotesi accreditata, da fonti dell'accusa e della difesa, è che le due inchieste vengano riunite in un solo processo, ma questo, con molta probabilità, comporterà un allungamento dei tempi dell'udienza preliminare. La motivazione che ha portato ad aggiungere l'aggravante mafiosa è che "nel rione di Agrigento o di Catania si sarebbe esercitato un potere intimidatorio di massa, una sorta di voto di opinione mafioso, non rivolgendo la richiesta di voto a tizio o a caio, ma un clima di intimidazione per cui si sapeva che si sarebbe dovuto votare Lombardo, e nessuno avrebbe fiatato". Nei giorni scorsi è iniziata l'udienza preliminare davanti al Gip di Catania, Marina Rizza, sulla richiesta di rinvio a giudizio coattiva dell'ex governatore Lombardo.

La Procura di Catania ha depositato i verbali con le dichiarazioni dell'ex assessore regionale Marco Venturi e di un nuovo collaboratore di giustizia, Giuseppe Mirabile. Nel suo verbale, Venturi ricostruirebbe le "anomalie nelle convocazioni delle riunioni di Giunta" nella stesura dei verbali e quello che definisce il "sistema clientelare" di Raffaele Lombardo.

Dai voti facili ai business milionari. "Così la regione si è venduta ai clan". Nelle carte dell'inchiesta su Zambetti il patto stato-mafia-politica-affari. Intercettato il boss Eugenio Costantino confida "I sindaci qui sono tutti amici nostri...tutti di destra! Non ce n'è uno che non abbiamo aiutato a vincere". Uno è Eugenio Costantino, e cioè "l'elegantone", il faccendiere legato ai clan, quello che con le sue leggerezze ha distrutto l'assessore regionale Mimmo Zambetti e azzerato la giunta di Roberto Formigoni. L'altro si chiama Vincenzo Evolo, taglia extralarge, mani come pale, ritenuto il soldato del recupero crediti, il "cattivo". È il marzo del 2011, Ilda Boccassini è diventata il procuratore aggiunto antimafia, insieme con Giuseppe Pignatone Lombardia, Roma e Calabria, ha arrestato centinaia di persone, tra cui medici, magi-strati, politici, è la zona grigia che per la prima volta comincia a venire stanata. Da dove spunta un assessore che a sessant'anni paga 200 mila euro per i voti della 'ndrangheta? E dove ha preso quei contanti? I carabinieri del comando provinciale di Milano e il pubblico ministero Paolo D'Amico si sono mossi nel totale segreto per non dare scampo agli indagati. Sono stati sequestrati solo ieri i computer di Enrica Papetti, la segretaria fidatissima di Zambetti per sedici anni.

Il faccendiere della 'ndrangheta la descrive così: "Fa tutto lei, tutti gli imbrogli (...) quella è proprio complice in tutto ". Un dettaglio inedito arriva persino dalla Milano da bere. Erano gli anni '80, Pepè Onorato e Mimmo Teti erano i boss "dei calabresi" (allora si diceva semplicemente così), e un brigadiere fa un controllo in un night. Identifica i clienti: spuntano Teti e il futuro assessore Zambetti. L'avvocato dice che Zambetti è stato in fondo un po' superficiale, ma anche nel maggio 2009 rispunta il nome dell'assessore. Lo fanno due calabresi finiti travolti da altre indagini: "Vedi se organizzi una quindicina di giovanotti che andiamo a Cinisello e ci prendiamo un aperitivo che c'è Zambetti (...) roba di elezioni, ma non devono votare niente, andiamo solo lì per presenza, passo con il pullman e li prendo". La campagna elettorale della 'ndrangheta ha però sempre e solo uno scopo primario: "Zambetti ce l'abbiamo in pugno, gli facciamo un culo così". Zambetti si mette a disposizione con favori che fa e appalti che promette. E così diventa più che legittimo domandarsi: da quanto tempo "lavorano" come portavoti questi clan che si muovono alla grande tra Nord e Sud? Eugenio Costantino parla con suo padre del boss Pino D'Agostino, e gli dice, papale papale: "Con Scopelliti in Calabria, hai visto come ha fatto? Sono andati là, li hanno pagati, ed hanno comprato i voti. Se non paghi i voti non vinci!.. Pure Pino è stato due mesi l'anno scorso con la pol...", cioè con la politica, per Giuseppe Scopelliti, pdl. È lo stesso Scopelliti che ieri parlava a favore del sindaco di Reggio Calabria, comune "chiuso" per 'ndrangheta. Più le si leggono, più le si ascoltano, queste clamorose, anzi spaventose intercettazioni diciamo di ultima generazione, più emerge al Nord un salto di mentalità. Tanto da parte della 'ndrangheta, più moderna, anche se ancoratissima alle tradizioni. Tanto - attenzione - da parte degli imprenditori. Ne devono ascoltare presto sessanta, e di questi, la metà non ha radici al sud. Eppure, hanno pagato e pagano i boss per varie ragioni e non li hanno mai denunciato. Mai. Solo per paura? C'è infatti da riconsiderare grazie al lavoro svolto in strada il concetto sin qui noto di infiltrazione. Esempio perfetto è la vicenda dell'ultimo arrestato, il ristoratore cremonese Valentino Gisana.

Gisana subisce un tentativo di estorsione, va dalla polizia e fa una denuncia generica, ma consegna a uomini della 'ndrangheta il telefonino dei ricattatori. E così tra il gigantesco Vincenzo Evolo e gli altri gangster ci si annusa, ci si capisce e Gisana non deve più pagare l'esoso pizzo. Ma "qualche cosa bisogna pagare, il tempo che hanno perso", gli dicono in sintesi. E Gisana paga. Poi gli impongono di assumere un cameriere, e ok, assunto. A quel punto Gisana, che vanta un credito nei confronti di un debitore che però non si fa trovare, domanda agli "amici" calabresi se lo aiutano loro. E così la "macchina da guerra" del clan si muove, ma Gisana alla fine si sfoga con un amico: "Troppa gente che mi pressa, adesso quelli lì (e cioè i ricattatori) non mi hanno rotto più i coglioni, ma adesso io ho paura che (i "calabresi") mi mettono sotto (...) lo "Zio" mi manda gli altri, cambiami l'assegno, cambiami l'assegno (...) per me è una storia infinita". È, nel suo orrore, una frase bellissima. Una frase-chiave. La giriamo a un vecchio maresciallo che spiega: "Questi cominciano perché uno gli dà fastidio, chiedono aiuto, funziona, poi hanno bisogno di prestiti, o di recuperare i crediti, e quando i boss li mettono sotto, che cosa devono fare? Vengono qui a raccontarci che hanno cominciato loro questa catena?". Più di tante sociologie, vale dunque quest'indagine: sono gli imprenditori del Nord che adesso vanno a cercare i boss di riferimento? Sia gli imprenditori sia i politici diventano però presto come "un pacchetto", che viene passato da mano mafiosa a mano mafiosa, tanto non si può ribellare nessuno: "Hai visto quel "pisciaturu" di Zambetti come ha pagato. Ehh, lo facevamo saltare in aria. Si è messo a piangere, ohh, davanti a me a zio Pino". Il 5 maggio del 2011, l'"elegantone " fa a bordo della sua Bmw imbottita di microfoni come un'emittente radiofonica una specie di piccola mappa: "Magenta, Sedriano, Vittuone, Corbetta, anche che noi qui, dato che diamo una mano a tutti nella politica, allora conosciamo tutti. I sindaci qua sono tutti amici nostri... tutti di destra! I sindaci di questi paesi non ce ne è uno che non conosciamo, in qualche modo l'abbiamo aiutato noi a vincere ", dice Costantino. Come ottengono questi voti i boss? Perché nell'ordinanza viene usato l'aggettivo "coercitivo"? "Una volta - spiegano in via Moscova - votavi come ti diceva il boss perché ti faceva paura, ora lo voti perché dice: "Ci guadagniamo tutti". La coercizione sta nel fatto che chi vota sa perfettamente che chi chiede è legato alla mafia calabrese". In effetti, nelle intercettazioni del chirurgo Marco Scalambra, arrestato, si sente citare spesso la "lobby dei calabresi". Lobby? sono clan, ma l'unico voto a forza di mazzate viene estorto a due truffatori. Hanno "zanzato" il calabrese sbagliato, e finiscono per cedere soldi e diamanti dopo con un sequestro di persona. Si salvano, ma "Vi diremo per chi votare". Ecco perché la procura antimafia dichiara apertis verbis che in Lombardia oggi abbiamo "il prodotto di un perfetto ed autorevole coordinamento di un'unica struttura organizzata, insediatasi, ed ormai radicatasi, anche nella provincia di Milano". Più chiaro di così, ed è proprio il caso di dirlo, si muore.

Ammazzati.

Tra fiumi di denaro e politici "cavallucci", il sistema Camorra per controllare il voto. "I candidati sono come cavalli, persone su cui puntare per farli arrivare al Comune, alla Provincia, al Parlamento, al Senato, al Governo" Il racconto di Maurizio Prestieri, il boss di Secondigliano che ha deciso di collaborare con la giustizia e da allora vive sotto protezione. Pubblichiamo un articolo di Roberto Saviano sul voto di scambio uscito su Repubblica nel febbraio del 2011. Più la gente si allontana dalla politica, più sente che sono tutti uguali e tutti incapaci più noi riusciamo a comprare voti. E noi puntavamo sul rinnovamento degli amministratori locali.

Abbiamo fatto eleggere quello che all'epoca fu il più giovane sindaco italiano: Alfredo Cicala sindaco di Melito. Uscirono mille articoli su di lui, il giovane sindaco della Margherita, dicevano. Ma era un uomo nostro". È l'ultimo colloquio con Maurizio Prestieri, il boss di Secondigliano che ha deciso di collaborare con la giustizia e da allora vive sotto protezione. E la storia che racconta, quella del sindaco di Melito, è una storia tragicamente comune in Campania.

Cicala, dopo il trionfo e qualche anno in carica, finisce in carcere, arrestato per associazione a delinquere di stampo camorristico: gli vengono sequestrati beni per 90 milioni di euro. Una somma enorme per un sindaco di un paeso, impensabile poter guadagnare in breve tempo una cifra così grande e impensabile poter essere proprietario di interi agglomerati condominiali del suo territorio senza che dietro ci fossero i capitali dei clan. In questo caso sono i soldi del narcotraffico dei Di Lauro-Prestieri. Ma Cicala non è uno qualunque: prima dell'arresto fa due carriere parallele, in politica e nel clan. Diventa membro del direttivo provinciale della Margherita e secondo le indagini riesce ad influenzare anche l'elezione successiva della giunta Di Gennaro, poi sciolta per infiltrazione mafiosa. Chiamato dai camorristi "ò sindaco" è l'unico politico a poter presenziare alle riunioni dei boss. Naturalmente partecipa a diverse manifestazioni per la legalità contro la camorra e i camorristi (soprattutto contro le famiglie nemiche del suo clan).

Insomma: la personalità perfetta per coprire affari e governare un territorio. L'inchiesta "Nemesi" della Dda di Napoli che indaga sul sistema elettorale a Melito descrive il clima del territorio come "la Chicago degli anni '30". Cicala diventa il candidato dei clan per sconfiggere Bernardino Tuccillo, candidato sindaco da un altro pezzo del centrosinistra. Tuccillo è stimato, ascoltato, risoluto, è stato sindaco e la camorra cerca di boicottarlo in tutti i modi. Ha i mezzi per farlo. "Alcuni candidati - ha raccontato Tuccillo - venivano da me piangendo, supplicandomi di stracciare i moduli con l'accettazione delle loro candidature. Altri, pallidi e impauriti, mi comunicavano che avevano dovuto far candidare le proprie mogli nello schieramento avversario". Una mattina trovò i manifesti a lutto che annunciavano la sua scomparsa affissi per tutta la città di Melito. Capì che era l'ultimo avviso. Come molti altri amministratori per bene campani Tuccillo fu lasciato solo dalla politica nazionale.

Ora nel Pd locale ci sono molti membri che sostennero e collaborarono con Alfredo Cicala. Prestieri conosce bene la politica campana. "Per i politici durante la campagna elettorale la camorra diventa roba onesta, come un'istituzione senza la quale non puoi fare niente. Io mi ero fatto uno studio. Uno studio elegante, avevo comperato antiquariato costoso, pezzi antichi d'archeologia, quadri importanti in gallerie dove andavano tutti i grandi manager italiani per arredare le loro case. E la tappezzeria l'avevo fatta con le stoffe comprate dai decoratori che stavano tappezzando il teatro La Fenice di Venezia. In questo studio ricevevo le persone. Davo consigli, mi prendevo i nomi per le assunzioni da far fare ai nostri politici. Raccoglievo le lamentele delle persone. Se avevi un problema lo risolvevi nel mio studio, non certo andando dai sindacati, dagli inesistenti sportelli al Comune. Anche in questo la camorra è più efficiente. Ha una burocrazia dinamica". Maurizio Prestieri in realtà viveva sempre meno a Napoli sempre più tra la Slovenia, l'Ucraina e la Spagna. Ma non quando c'era il voto alle porte. Durante la campagna elettorale era necessaria la presenza del capo in zona. "Io provengo da una famiglia che votava Partito comunista, mio padre era un onestissimo lavoratore e quand'ero piccolo mi portava a tutte le manifestazioni, io mi ricordo i comizi di Berlinguer, le bandiere rosse, i pugni chiusi in cielo. Ma poi siamo diventati tutti berlusconiani, tutti. Il mio clan ha sempre appoggiato prima Forza Italia, e poi il Popolo delle Libertà. Non so com'è avvenuto il cambiamento, ma è stato naturale stare con chi vuole far fare i soldi e ti toglie tutti i problemi e le regole di mezzo". Prestieri sa esattamente come si porta avanti una campagna elettorale. Dalle mie parti i camorristi chiamano i politici "i cavallucci" : sono solo persone su cui puntare per farli arrivare al Comune, alla Provincia, al Parlamento, al Senato, al Governo. "Io una volta ho fatto anche il presidente di seggio, 11 anni fa. Noi facciamo campagna elettorale a seggi aperti, quando è vietato, non solo per convincere e comprare quelli che ancora non hanno votato, ma per farci vedere dalle persone che vanno a votare, come a dire: vi controlliamo. A volte facevamo circolare la voce che in alcuni seggi mettevamo le telecamere: era una fesseria, ma le persone si intimorivano e non si facevano comprare da altri politici o convincere da qualche discorso". La campagna elettorale è lunga ma i clan riescono a gestirla con l'intimidazione da una parte e il consenso ottenuto con un semplice scambio. "Io me li andavo a prendere uno per uno. Ho portato vecchiette inferme in braccio al seggio pur di farle votare. Nessuno l'aveva mai fatto. Garantivo che i seggi negli ospedali funzionassero, pagavamo la spesa alle famiglie povere, le bollette ai pensionati, la prima mesata di fitto per le giovani coppie. Dovevano tutti votare per noi e li compravamo con poco. Organizzavo le gite con i pulmini per andare a votare. I clan di Secondigliano pagano 50 euro a voto e spesso corrompendo il presidente di seggio capisci più o meno se qualche famiglia, dieci quindici persone, si è venduta a un altro. Facevamo sentire la gente importante con un panino e una bolletta pagati. Se la democrazia è far partecipare la gente, noi siamo la democrazia perché andiamo da tutti. Poi questi ci votano e noi facciamo i cazzi nostri. Appalti, piazze di spaccio, cemento, investimenti. Questo è il business". Oggi Prestieri è quasi disgustato quando parla di queste cose, sente di aver giocato con l'anima delle persone, ed è una cosa che ti sporca dentro. E per la politica italiana ha un disprezzo totale, come tutti i camorristi. Gli chiedo se aveva sempre e solo appoggiato i politici di una parte. Prestieri sorride: "Noi sì, a parte piccole eccezioni locali, come a Melito, ma la camorra si divide le zone e così si divide anche i politici. Ci scontravamo ogni volta con i Moccia che hanno sempre sostenuto il centrosinistra. Noi festeggiavamo alle elezioni politiche quando vinceva Berlusconi e loro festeggiavano alle comunali o regionali quando vincevano Bassolino e compagnia. Napoli città è sempre stata di sinistra, e a noi ci faceva pure comodo, tutti quelli di estrema sinistra che a piazza Bellini o davanti all'Orientale fumavano hascisc e erba, o si compravano coca ci finanziavano. Libertà, libertà contro il potere dicevano, contro il capitalismo e poi il fumo e la coca a tonnellate la compravano. Quindi quelli votavano pure a sinistra ma poi i loro soldi noi li usavamo per sostenere i nostri candidati del centrodestra". Gli chiedo se ha mai incontrato politici di centrosinistra. "No, mai ma sono certo che il clan Moccia assieme ai Licciardi appoggia il centrosinistra, perché erano nostri rivali e quindi ne parlavamo continuamente tra noi e anche con loro della spartizione dei politici. Noi ce la prendevamo con loro quando vinceva la sinistra, perché significava che per loro erano più affari, più appalti, più soldi, meno controllo". E politici di centrodestra, mai incontrati? "Sì certo, io sono stato per anni e anni un attivista di Forza Italia e poi del Pdl. Ho incontrato una delle personalità più importanti del Partito delle Libertà in Campania. Non posso fare il nome perché c'è il segreto istruttorio, ma mi ricordo che nel marzo del 2001, pochi mesi prima delle elezioni, questa persona, seguita da una marea di gente, si fermò in Piazza della Libertà sotto casa mia. Ero affacciato al balcone, godendomi lo spettacolo della folla che lo seguiva (tutta opera nostra che avevamo spinto la gente ad acclamarlo), e questo politico, incurante perfino delle forze dell'ordine che lo scortavano, incominciò a salutarmi lanciando baci a scena aperta. Scesi e andai a salutarlo, ci abbracciammo e baciammo come parenti, mentre la folla acclamava questa scena. Questa cosa mi piaceva perché non si vergognava di venire sotto la casa di un boss a chiedere voti e mi considerava un uomo di potere con cui dover parlare. Sapeva benissimo chi ero e cosa facevo. Ero stato già in galera avevo avuto due fratelli uccisi in una strage. Era nel mio quartiere, chiunque fosse di Napoli sapeva con chi aveva a che fare quando aveva a che fare con me. Nel mio studio, invece, venne in quel periodo un noto ginecologo, una delle star della fecondazione artificiale in Italia. Quando si voleva candidare a sindaco venne ad offrirmi 150 milioni di lire in cambio di sostegno. Non potetti accettare poiché il clan già aveva già scelto un altro cavallo". I politici sanno come ricambiare. Le strategie dipendono da che grado di coinvolgimento c'è con il clan. Se si è una diretta emanazione, non ci sarà appalto che non sarà dato ad imprese amiche. Se il clan invece ha dato solo un "appoggio esterno", il politico ricambierà con assessori in posti chiave. Poi ci sono i politici che devono mantenere le distanze e quindi si limitano ad evitare il contrasto, a costruire zone franche o a generare eterni cantieri per foraggiare il clan e dargli il contentino. "Io mi sono sempre sentito amico della politica napoletana del centrodestra. Per più di dieci anni ho avuto persino il permesso dei disabili avuto perché ero un sostenitore attivo del Pdl. In gergo di camorra quel pass noi lo chiamiamo il mongoloide. Con quello parcheggiavo dove volevo, quando c'erano le domeniche ecologiche giravo per tutta Napoli deserta. Bellissimo". Padrone della coca, padrone della politica negli enti locali, il clan Di Lauro - Prestieri diventa sempre più ricco, trova nuovi ambiti di investimento: dalla Cina dove entra nel mercato del falso agli investimenti nella finanza. C'era il problema di gestire i soldi, riciclarli, investirli. "Enzo, uno dei figli di Paolo Di Lauro col computer ci sapeva fare e spostava in un attimo soldi da una parte all'altra. E mi stupii una volta che c'era una nostra riunione, loro parlarono di acquistare un pacchetto di azioni della Microsoft. Loro avevano un uomo in Svizzera, Pietro Virgilio, che gli faceva da collettore con le banche. Senza banche svizzere noi non saremmo esistiti". Ma in realtà è proprio l'ascesa la causa della caduta. Tutto sembra mutare quando arriva l'attenzione nazionale su di loro, e arriva perché il clan ormai viaggia sempre di più, tra la Svizzera, la Spagna, l'Ucraina e Di Lauro affida tutto ai figli. Questi tolgono autonomia ai dirigenti, ai capizona, che il padre considerava come liberi imprenditori. I figli gli tolgono capitali e decisioni e li mettono a stipendio. Si scindono. E scoppia una guerra feroce, un massacro in cui ci sono anche quattro morti al giorno. "Io lo dico sempre: non dovevamo essere Vip, ma Vipl". Vipl? Chiedo. E cioè? "Si laL sta per Local". Very Important Person, Local! L'importante è essere importanti solo nel recinto. "Il danno più grave che avete fatto scrivendo dei camorristi è che gli avete dato troppa luce. Questoè stato il guaio. Se sei un Vipl a Scampia puoi sparare, vendere cocaina, mettere paura, avere il bar fico di tua proprietà, le femmine che ti guardano perché metti paura: insomma sei uno efficiente. Ma se mi metti sotto la luce di tutt'Italia il rischio è che la notorietà nazionale mi incrina quella locale, perché per l'Italia risulto un criminale e basta. L'attenzione mi sputtana, dice che sono uno violento uno che fa affari sporchi e costringono pure magistrati e poliziotti ad agire velocemente, e non ci sono più mazzette che ti difendono". Prestieri ha deciso di collaborare, però non parla di sé come di un pentito, ma come di un soldato che ha tradito il suo esercito. "No, non sono un pentito, sarebbe troppo facile cancellare così quello che ho fatto, oggi sono solo una divisa sporca della camorra". Ma il peso di quello che ha fatto lo sente. "Le morti innocenti che faceva il mio gruppo mi sono rimaste dentro. Soprattutto una. C'era un ragazzo che dava fastidio a dei nostri imprenditori, gli imponeva assunzioni, gli rubava il cemento. Dovevamo ucciderlo ma non sapevamo il nome. Solo dove abitava. Così uno che conosceva la sua faccia si apposta sotto casa con due killer. Doveva stringere la mano alla vittima: quello era il segnale. Passa un'ora niente, passano due niente, esce poi un ragazzo, prende e stringe la mano al nostro uomo, al che i killer sparano subito ma questo urla "nunnn'è iss, nunn'è iss, non è lui!!" Inutile. Non solo è morto, ma poi tutti hanno detto che quel ragazzo era un camorrista, perché la camorra non sbaglia mai. Solo noi sapevamo che non c'entrava nulla. Noi e la madre che si sgolava a ripetere che suo figlio era innocente. Nessuno a Napoli le ha mai creduto. Io moralmente mi impegnerò nei prossimi mesi a fare giustizia di questo ragazzo, nei processi". Chiunque entra in un'organizzazione criminale sa il suo destino. Carcere e morte. Ma Prestieri odia il carcere. Non è un boss abituato a vivere in un tugurio da latitante, sempre nascosto, sempre blindato. È abituato alla bella vita. E probabilmente anche questo lo spinge a collaborare con la giustizia. "Il carcere è durissimo. In Italia soprattutto. Noi tutti speravamo di essere detenuti in Spagna. Lì una volta al mese, se ti comporti bene, puoi stare con una donna, poi ci sono palestre, attività nel carcere. Se mi dici dieci anni in Spagna o cinque a Poggioreale, ti dico dieci in Spagna". Così come il carcere di Santa Maria Capua Veterea Caserta l'hanno costruito le imprese dei casalesi anche il carcere di Secondigliano l'hanno costruito le imprese dei clan di Secondigliano. "Ce lo fecero visitare prima che il cantiere fosse consegnato. E ci scherzavamo. O' cinese qui finisci tu. O' Sicco su questa cella c'è già il tuo nome.

Visitammo il carcere dove ognuno di noi poi sarebbe finito. Ho fatto più di dieci anni di galera, e mai un giorno mi sono fatto il letto.

Quando sei un capo della mafia italiana in qualsiasi carcere ti mandano, c'è sempre qualcuno che ti rifà il letto, ti cucina, ti fa le unghie e la barba. In carcere quando non sei nessuno è dura. Ma alla fine tutti stiamo male in galera e tutti abbiamo paura. Io ho visto con i miei occhi Vallanzasca, che era un mito giusto perché al nord uomini mafiosi non li conoscono, quasi baciare le mani alle guardie.

Poverino, faceva una vita di merda totale in galera, era totalmente succube delle guardie. E io mi dicevo, questo è il mitico Vallanzasca di cui tutti avevano paura? Che si mette sull'attenti e mani dietro la schiena appena passa un secondino? Dopo dieci anni di galera in verità sei un agnellino, tutti tremiamo se sentiamo che stanno venendo i GOM, (gruppi operativi mobili) che quando qualcosa non va in carcere arrivano a mazziare". Faccio l'ultima domanda, ed è la solita domanda che nei talk show pongono agli ex criminali. Ridendo faccio il verso "Cosa direbbe ad un ragazzino che vuole diventare camorrista?" Prestieri ride anche lui ma in maniera amara. "Io non posso insegnare nientea nessuno. Sono tantii motivi per cui uno diventa camorrista, e tra questi la miseria spesso è solo un alibi. Ho la mia vita, la mia tragedia, i miei disastri, la mia famiglia da difendere, le mie colpe da scontare. Sono felice solo di una cosa, che i miei figli sono universitari, lontani da questo mondo, persone perbene. L'unica cosa pulita della mia vita".

QUANDO LA MAFIA SIAMO NOI.

Sfatiamo i luoghi comuni e per farlo vi si invita a leggere questa rappresentazione ironica di Ettore Zanza. Quando ero piccolo, pur di parlare di un dramma amoroso a un coetaneo, ma non facendo la figura del mollaccione, generalmente si diceva “un mio amico ha un problema”. Si attuava questa sorta di tranfert a cui non credeva nessuno. Nè chi lo faceva che non avrebbe ingannato un bradipo rincitrullito, nè chi lo ascoltava, che già pregustava divertito il problema “dell’amico”. Ora anche io ho “un amico che ha un problema”. Lo faccio per proteggere gli innocenti. E' palermitano, di quelli che come il dente del giudizio è stato estratto dalla sua sede naturale e sbattuto da un’altra parte in cui si trova bene tanto quanto un Emù al Polo. Questo “mio amico” ha ascoltato imbelle (non nel senso di imbecille del film tre uomini e una gamba), una lunga lamentela di una turista che era appena tornata da Palermo.

Questa signora riferisce che vi si era recata con piacere.

Rimanendone però delusa. Il mio amico per suo carattere anglosassone tenente alla diplomazia, già non riesce a mettere la parola “delusione” accanto alla sua città natale. Visto che praticamente non guarderà mai nessuna donna con gli stessi occhi con cui guarda la sua città. Purtroppo l’orazione contra-Palermo, non si è esaurita solo nel termine “delusione” di per sè bastevole.

La turista che evidentemente ha la stessa flessibilità di una scarpa di granito ha proseguito. Qui apriamo una parentesi. Il mio amico vive in un posto che non è casa sua, ogni tanto, alcuni spiritosoni ironizzano sulle sue origini con argomentazioni tanto divertenti quanto originali. Mafia, lupara, coppola, accento palermitano, minchia. Mai sentite, ci si chiede quale umorista le abbia partorite battute con questi elementi. E così un minimo di pregiudizio quando iniziano questi discorsi gli piglia, d’amblè. La turista, evidentemente ignorando i suoi occhi di bragia che avrebbero fatto cacare sotto perfino Caronte, ha proseguito con una serie di esclamazioni con accessorio di cosa non andava a Palermo quando c’era stata in visita. “Eh, ma qui strillano tutti”; “Eh ma c’è traffico”; “Eh ma è sporca”; “Eh ma c’è la mafia, tocca stare attenti”; “Eh ma c’è caldo”; “Eh ma si sentono odori strani ovunque”; Il mio amico ha pazientemente sorriso. Dopo di che, riposto ogni oggetto che potesse fungergli da arma impropria, ha cercato di spiegare una ardita teoria. Meglio che passare a vie di fatto. Ed ha affrontato punto per punto le critiche della avventata. È vero strilliamo tutti, ma è un modo di amarsi, ci vogliamo talmente bene che ce lo dimostriamo strillando. Siamo gente fragile, abbiamo paura del silenzio. Per cui abbiamo bisogno sempre di sentire suoni familiari. Noi strilliamo anche da vicino, le nostre mamme strillavano dalle finestre per chiamarci, anche se eravamo a pochi millimetri. Traffico? Il traffico è socializzare, la mattina gridare “cornuto” a quello che ti taglia la strada e poi augurare disgrazie fino alla settima generazione serve a capirsi, a riflettere, a fare nuove conoscenze. Zuckerberg prima di inventare Facebook, per capire le dinamiche della socializzazione rimaneva incastrato apposta nel traffico di Viale Regione Siciliana. Esiste un progetto ardito per rendere Palermo sporca apposta. Il Presidente della Regione stanzia fondi perchè NON si raccolga l’immondizia. Ambiamo a diventare patrimonio dell’UNESCO. Solo uno sciocco non capirebbe il motivo. Anzi il duplice motivo. Per prima cosa Palermo è talmente bella che se fosse anche pulita nessuno se ne andrebbe mai. Tutti se ne innamorerebbero e noi non sapremmo dove metterli. Allora seminiamo qualche bruttura qua e là. Si chiama tecnica del “però”. Chi viene ne ammira le bellezze, ne resta affascinato e poi osserva che è sporca. Ed esclama Palermo è bella, però..e va via confortato e convinto che anche tutta questa bellezza ha un neo che la rende imperfetta. Tanti ignorano che comunque l’immondizia viene lasciata apposta in cumuli creativi. Piero Manzoni, eclettico artista, nel 1961 depositò le proprie feci in vari barattoli numerati e in edizione limitata (mica poteva cacare ad libitum) denominati “merda d’artista” ognuno di essi ha un valore inestimabile. Noi abbiamo creato la “munnizza d’artista”. Ogni sacchetto è progressivamente numerato e collocato in punti strategici (ovunque..più strategico di così..) appositamente. Ogni tanto c’è pure qualche vandalo che dà fuoco a queste preziose opere d’arte. La mafia? Si è vero c’è la mafia. Ma dove vive la turista improvvida hanno appena sciolto non si sa quanti comuni per infiltrazione mafiosa. E non parliamo della Campania o della Calabria, la turista abita molto, molto più su. Posti in cui durante gli anni di piombo a Palermo, si facevano allegramente affari illeciti senza colpo ferire. Da noi la mafia sparava e nel profondo vattelapesca lucrava. E lucra. Ma ovviamente la pigrizia fa prima a creare un luogo comune che scatenare creatività riflessione e fantasia. C’è caldo. Si c’è caldo, questa si demolisce facile. Quando in altre parti cominciano a colare le stalattiti di ghiaccio dal naso, da noi si va ancora al mare. Ma certo, che stupido, noi siamo tutto il giorno in giro a non fare nulla. Potrebbe scattare il bonus dell’ennesimo luogo comune. E poi nessuno aveva avvertito la poveretta che c’era caldo? Oppure lei all’agenzia di viaggio aveva detto “Stoccolma” e invece hanno capito “Palermo”? E si è trovata suo malgrado in una città così strana? Gli odori, sono il nostro modo di nutrirci. Noi ci nutriamo prima con le nasche (narici) e poi con la bocca, da noi non sei mai a dieta, se lo sei rischi amicizie e dignità. Se il colesterolo è alto non ti azzardare a dirlo a casa. Nascondi le analisi. Se dici che stai male e devi mangiare in bianco, significa minimo che devi mettere tanta ricotta sopra al pane con la milza (cibo digeribilissimo comodamente in una settimana o due di metabolismo e rischiando parte del fegato per superlavoro..) fino a renderlo di quel colore lì. I cannoli sono armi improprie. La cassata dolce eutanasia glicemica, le brioches con gelato o granita sono due passi sotto l’orgasmo se fatte bene. Per non parlare di tutto ciò che si sprigiona dai mercati e dai venditori di Stigghiole, che altro non sono che budella di agnello. I figli per vaccinarsi a tutte le malattie passate presenti e future vengono portati dallo stigghiolaro di fiducia appena svezzati. Se non addirittura macinando dentro le prime pappe la pietanza. L’odore di cibo, di città, anche i fetori, ci dicono che siamo a casa. In ogni caso il mio amico mi riferisce che la blasfema abbia ordinato bresaola trovandosi in centro storico della città pieno di cibo di quella risma. E con questo credo che scatti contro di lei la scomunica a divinis. Forse il mio amico ha esagerato. Forse Palermo non va difesa con questo vigore. Ha un sacco di storture. E se qualcosa va male in altri posti, garantito che in Sicilia va peggio. Forse la lamentante pensava davvero di essere a Stoccolma. Però mi risulta che da Stoccolma ci vengano apposta a Palermo, trovandola bella nonostante tutto. Forse il mio amico è troppo innamorato della sua città perchè non ci vive e gli manca.

Forse, però c’è qualcosa che succede se ti adatti a questa terra. O se ci vivi. Ti dona un’aura diversa. Percepisci qualcosa che non avevi. A volte devi non far caso, a volte devi accettare che certi sfregi verranno sempre fatti a questo capolavoro di città, ma se accetti tutto questo, da abitante, da turista che sa cosa lo aspetta.

Palermo ti ripaga e te la fa pagare. Ti ripaga perchè ti dona una euforia, una sensazione di sghiacciamento delle ossa uno stare con il naso all’insù a guardare un cielo che non troverai mai da nessuna parte di quel colore, e bellezze di luoghi e multietnicità da farti credere di essere in una città che si fonde in una casbah. Ti dà gioia. Comunque. Per poco. Te la fa pagare perchè se vai via, da nativo, o da turista che l’ha amata, quella gioia non la porti con te.

La lasci in albergo, la dimentichi all’ultimo bar, la molli davanti al porto, alla stazione, ovunque. La gioia che dà questa città, quel poco che riesce a elargire umanamente anche a chi ci vive è tanto intenso che lo tiene con sè, non divide. E sei costretto a tornare.

Altrimenti se non l’hai capita e amata, mangerai bresaola a Stoccolma e non ti mancherà. Adesso scusate, al mio amico la sua città manca tanto, credo stia piangendo, vado a consolarlo.

Comunque per far capire l’ambiente e le circostanze su cui dileggiano le varie firme di stampa e tv e per chiudere la bocca a chi si destreggia tra ingiurie e diffamazioni gratuite basta la risposta delle istituzioni. «La Puglia e il Salento non sono diverse dalle altre zone di Italia, il Lazio, Roma Capitale, la Lombardia. Il Salento non è terra di sedimentate infiltrazioni mafiose». È questa la prima risposta data alla platea e all’intervistatore al capo della Polizia, Antonio Manganelli, ospite d’onore nella serata di venerdì 11 agosto 2012 a Miggiano (LE) della rassegna «Miggianosilibra», organizzata dall’assessorato comunale alla Cultura e patrocinata da Regione Puglia e Provincia di Lecce. Un evento d’eccezione con in prima fila il prefetto, Giuliana Perrotta, e il questore di Lecce, Vincenzo Carella e quello di Brindisi, Alfonso Terribile, autorità militari, consiglieri regionali, la vicepresidente della Provincia, Simona Manca e numerosi sindaci. Camicia bianca e jeans, accompagnato dalla moglie con la quale sta trascorrendo nel Salento alcuni gironi di relax, il prefetto Manganelli, come raccontato da Giuseppe Martella della Gazzetta del Mezzogiorno è arrivato nel piccolo centro del Capo di Leuca poco dopo le 20. Ad attenderlo, il procuratore capo della Dda, Cataldo Motta. Tra loro un colloquio fitto che dura una manciata di minuti, prima che Motta saluti e vada via. Prima dell’inizio dell’intervista, curata dal giornalista Rosario Tornesello, il capo della Polizia si intrattiene con funzionari e autorità. «Molti dei colleghi che sono presenti qui stasera – dirà nel corso della serata Manganelli – sono stati con me nel corso della mia carriera quasi quarantennale e vissuta in larga misura per strada. Con loro ho consumato le notti durante sfiancanti appostamenti, con loro ho condiviso la paura». Investigatori eccellenti li definisce il prefetto Manganelli, anche se alla domanda del giornalista che gli chiede se qualcuno di loro potrebbe lavorare con lui a Roma, risponde: «Stanno bene qui, lavorano in maniera ottima e conquistano ogni giorno risultati importanti, al centro dei miei frequenti contatti telefonici col procuratore Motta». È innamorato del Salento «territorio di frontiera e accoglienza che ha saputo mettere in vetrina le sue peculiarità», di quel Salento che pochi mesi fa è stato ferito a morte dal vile attento dinanzi alla scuola «Morvillo Falcone» di Brindisi. Nelle ore successive all’esplosione, il capo della Polizia fu uno dei pochi a parlare del possibile gesto di un folle. Da navigato investigatore ricostruisce: «Il nostro lavoro spesso procede per esclusione. Esclusa la pista mafiosa. Cosa nostra colpisce per raggiungere obiettivi e non lascia la Sicilia per un atto dimostrativo dinanzi a una scuola di Puglia. Escluso il terrorismo rosso e l’anarco-insurrezionalismo. Gli anarchici colpiscono per poi rivendicare e spiegare e nell’omicidio di una povera studentessa non c’è nulla da spiegare. O si era di fronte a una cellula eversiva, oppure a un folle, come alla fine le indagini hanno dimostrato». Contrario a qualsiasi patto tra Stato e mafia «anche se bisogna distinguere tra i vari livelli di accordi, come quello che può insistere tra un investigatore e un criminale che decida di vuotare il sacco», Manganelli non si sottrae quando gli chiedono cosa ha provato a chiedere scusa per i casi Aldovrandi e G8 di Genova. «Quando si ha fiducia nella magistratura e nei pronunciamenti che essa presenta, condividendoli o meno, e nel momento in cui ci si trova dinanzi a sentenze definitive, è d’obbligo chiedere scusa e non nascondersi dietro un dito».

Detto questo: dai luoghi comuni passiamo alla realtà. La Mafia d’Impresa. Il controllo delle organizzazioni mafiose sullo scenario culturale, politico ed economico italiano rappresenta uno dei problemi più profondi e dolorosi che lo Stato si sia mai trovato ad affrontare,per questo ritengo che non si possa parlare di mafia senza citare questo argomento basilare. Numerosi sono gli scandali che da tempo coinvolgono aziende italiane, dal Nord al Sud: il 27 Aprile 2010 sono stati arrestati i vertici della "Calcestruzzi Spa" di Bergamo. L'accusa è quella di aver siglato un patto di ferro con la mafia per conquistare il mercato siciliano, costruendo opere pericolose perchè fatte con calcestruzzo impoverito (con minore quantità di cemento). L'azienda cedeva alla mafia grande parte dei profitti realizzati frodando appunto, in questo modo, i clienti. L'operazione ha interessato Sicilia, Lombardia, Lazio e Abruzzo delineando così una rete potente di criminalità organizzata che abbraccia l'intero paese. Un altro esempio: lo scorso dicembre 2011 quattro imprenditori sono stati arrestati nell'ambito di un'inchiesta della direzione distrettuale antimafia de L'Aquila, che riguarda infiltrazioni mafiose nella ricostruzione privata post-terremoto. Si tratta d'imprenditori legati alla 'Ndrangheta, accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso. Come questi vi sono purtroppo numerosi casi che ci mostrano come in tutto il territorio italiano sempre più imprese siano coinvolte in affari mafiosi. Vi sono certamente enormi responsabilità politiche alla base di questo, responsabilità che non hanno ancora permesso di spezzare questo forte legame tra mafia e grande burocrazia; è necessario ed urgente, per cercare di estirpare questa piaga, partire da chi non denuncia, da chi fa affari nell'ombra, facendo finta di non riconoscere i mafiosi (diventando egli stesso uno di loro). Le cattive gestioni, quelle indifferenti al fenomeno, omertose, danneggiano principalmente i propri lavoratori oltre all'intera società. Credo sia necessario che in questo ambito ci sia quindi più Responsabilità sociale d'impresa. Le aziende dovrebbero informarsi REALMENTE, non fermarsi a livello superficiale, sulla trasparenza ed onestà delle persone fisiche e giuridiche con cui entrano in contatto, isolando in questo modo le imprese poco limpide. E' sicuramente un percorso difficile da seguire ma credo che, senza voler cadere in retoriche, solo se ogni cittadino si schiera sostanzialmente e non solo formalmente dalla parte della legalità si possa sperare di arginare e quindi eliminare il fenomeno mafioso.

Analizzato il rapporto mafia-impresa va da sè che è indispensabile parlare del rapporto tra la mafia e le amministrazioni locali. "La mafia si trova bene in Comune", scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Mafia: in 21 anni sciolti 214 Comuni. Indagine dell'Espresso su infiltrazioni nei municipi.

Ventidue solo 7 mesi nell'anno 2012, quattro di questi nelle regioni settentrionali. Il primato tra le coalizioni di centrodestra. Dal 1991 a oggi sono 214 i Comuni in Italia sciolti per il contagio della criminalità organizzata. Dal Sud al Nord del Paese, 22 soltanto nei primi 7 mesi del 2012, quattro di questi nelle regioni settentrionali dove la 'ndrangheta è protagonista assoluta. L'ultimo al nord è Rivarolo Canavese, al Sud San Cipriano D'Aversa. E' quanto emerge da un'analisi fatta dall'Espresso, che sarà pubblicata nel numero del settimanale. «A oggi - riferisce l'Espresso - i Comuni gestiti da commissari prefettizi sono 35, 16 dei quali solo in Calabria. Il resto è spalmato a macchia di leopardo tra Sicilia, Campania, Liguria e Piemonte. Il primato, secondo i dati forniti da l'Espresso, spetta alle giunte guidate da coalizioni di centrodestra e da liste civiche». Le commissioni d'accesso al lavoro in tutta Italia sono al momento 9: tutte al Sud, da quando a fine luglio 2012 hanno lasciato gli uffici del municipio di Chivasso, in Piemonte, che attende la decisione del ministro Anna Maria Cancellieri. «Il caso più clamoroso - secondo l'Espresso - è quello di Reggio Calabria, che potrebbe entrare nella lista nera del Viminale come il primo capoluogo di provincia a essere sciolto per mafia». La relazione di circa 400 pagine redatta degli ispettori dopo l'accesso, durato 6 mesi, è sul tavolo del ministro. Sotto la lente le passate legislature quando l'attuale governatore della Regione Calabria era sindaco della città. Rischia grosso Golfo Aranci, piccolo comune della Sardegna (che non conta Comuni sciolti per mafia), dove una imprenditore di Cosa nostra ha lavorato in cantieri pubblici per anni, frequentando, secondo quanto dice l'Espresso, anche un assessore. Il caso è all'attenzione degli investigatori. Il senatore Luigi De Sena, sentito dal settimanale, è certo: «Quando uno stesso comune viene sciolto per due o tre volte cosa abbiamo ottenuto?». Per questo ha proposto un emendamento al testo unico degli Enti locali con cui chiede il licenziamento senza preavviso dei dipendenti che risultano collusi con i clan. «Convinto - riferisce l'Espresso - che non è solo l'apparato politico il problema, ma anche quello burocratico». Sono 214 le amministrazioni sciolte per infiltrazioni delle cosche. E la prossima potrebbe essere addirittura Reggio Calabria. Ma i casi aumentano anche al nord. Mentre la legge per combattere il fenomeno si è arenata.

L'ultimo caso potrebbe diventare anche il più clamoroso. Da fine luglio 2012 sulla scrivania del ministro dell'Interno c'è un dossier sul Comune di Reggio Calabria di oltre 400 pagine, coperte dal segreto assoluto. Una radiografia dell'infiltrazione della 'ndrangheta nell'attività dell'amministrazione cittadina, frutto di sei mesi di lavoro degli ispettori del Viminale: nel mirino soprattutto le due stagioni del sindaco Giuseppe Scopelliti, oggi governatore della Regione. E adesso su questa base il ministro Anna Maria Cancellieri dovrà decidere se commissariare o meno per la prima volta un capoluogo di provincia. Dal 1991 a oggi i Comuni sciolti in tutta Italia per il contagio della criminalità organizzata sono stati 214, dal Sud remoto al profondo Nord: 22 soltanto nell'ultimo anno. La mappa di una democrazia che viene attaccata dal basso, contaminando l'istituzione a contatto diretto con gli elettori. Fu uno shock nazionale a far nascere la legge per lo scioglimento delle amministrazioni infiltrate. Nel maggio 1991 a Taurianova, un paesone del Reggino, ammazzano un boss ed ex consigliere dc seduto nel negozio del barbiere. Per vendetta i suoi uomini uccidono quattro rivali: uno dei nemici viene decapitato, poi nella strada principale sparano sulla testa, facendola rimbalzare nell'imitazione di un film western. Su impulso dell'allora guardasigilli Claudio Martelli, il penultimo parlamento della Prima Repubblica approvò la normativa per combattere la collusione tra clan e enti locali. Una reazione potente, anche se forse tardiva: all'inizio degli anni Ottanta per due volte il presidente Sandro Pertini era intervenuto personalmente per fare piazza pulita di situazioni scandalose, come il centro irpino di Quindici - dove c'era stata una battaglia tra camorristi in municipio - e Limbadi, epicentro vibonese di una faida senza quartiere dove fu eletto a sindaco un super boss latitante. Da allora in media ogni anno sono state mandate a casa dieci amministrazioni civiche. La prima al Nord è stata nel 1996 Bardonecchia, diventata feudo di una famiglia calabrese, che grazie alla copertura degli uffici comunali ha costruito fiumi di villette nella montagna piemontese. Secondo i dati di Legautonomie Calabria il triste primato spetta alle giunte guidate da coalizioni di centrodestra e da liste civiche, spesso ispirate direttamente dalle cosche per potere irrompere nella stanza dei bottoni senza venire a patti con i partiti nazionali. Ma nell'ultimo periodo gli interventi del Viminale si stanno intensificando anche sopra il Po. Uno degli ultimi centri colpiti dallo scioglimento è Rivarolo Canavese, 12 mila abitanti e un tessuto produttivo ancora ricco alle porte di Torino. Qui i boss possono contare sull'appoggio di insospettabili imprenditori attivi nella vita politica locale che per raccogliere un pugno di voti non hanno esitato a rivolgersi a "don" Giorgio De Masi e "don" Peppe Catalano, mammasantissima calabresi nella cerchia torinese. I patriarchi non fanno niente per nulla. I sub appalti delle piccole e delle grandi opere, per esempio, erano al centro dei colloqui intrattenuti dai sindaci nel centrale bar Italia di Torino. Lì si ritrovavano figure d'ogni tipo. Uomini d'onore ma anche assessori regionali e candidati al Parlamento europeo, perché è a Bruxelles «che si decidono le grandi opere». E i consiglieri comunali, arbitri dei piani regolatori che trasformano i terreni in tesori. Un crocevia di interessi trasversali, come piace ai padrini del terzo millennio.

L'indagine Minotauro della Procura antimafia di Torino ha svelato le collusioni. E in poco più di due mesi, tra marzo e maggio 2012, gli ispettori della prefettura hanno messo alla porta giunta e consiglio comunale di Rivarolo e di un altro centro, Leinì. Identiche le motivazioni: la 'ndrangheta ne avrebbe condizionato le scelte. I clan reggini sono protagonisti assoluti anche in provincia di Imperia. Lì alla fine degli anni Sessanta si è trasferita una comunità di emigrati calabresi, che si sono integrati nella società ligure. Ma come spesso accade, tra tanti lavoratori si sono inseriti anche gli emissari del clan, particolarmente interessati a sfruttare i vantaggi della frontiera con la Francia e il mercato edilizio, intrecciando rapporti con i rappresentanti dei municipi. Per decenni la questione è stata ignorata. Poi in pochi mesi, a cavallo tra il 2011 e il 2012, prima Bordighera e poi Ventimiglia hanno pagato il prezzo della collusioni di qualche assessore spregiudicato. Lo scambio di favori tra boss, assessori, consiglieri o dirigenti comunali, non tratta solo di cemento. La torta è fatta anche di contratti per l'igiene pubblica, la cura del verde pubblico e le licenze per gestire sale da gioco. La legge è stata modificata nel 2009 su impulso dell'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni, con il pacchetto sicurezza del governo Berlusconi. Le nuove regole dovevano potenziarne l'applicazione, permettendo non solo di licenziare i consiglieri eletti ma anche i funzionari collusi. Allo stesso tempo però hanno introdotto vincoli più rigorosi per documentare i sospetti: l'obbligo per gli ispettori di rilevare «concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti tra singoli amministratori e la criminalità organizzata». Il numero di provvedimenti decisi dal Viminale non è diminuito, ma si sono moltiplicati i ricorsi al Tar, che finisce per revocarli quasi tutti.

Perché l'interpretazione delle regole non considera che siano sufficienti vicende come quelle di sindaci-medici che nel tempo libero curano boss latitanti, di primi cittadini fraterni amici dei padrini, di assessori fratelli di ergastolani e consiglieri comunali affiliati alla 'ndrangheta. E gli annullamenti creano situazioni paradossali, con il ritorno sulla poltrona di figure screditate e soprattutto una lunga paralisi di ogni attività dei municipi. A oggi i Comuni gestiti dai commissari prefettizi sono 35. Solo in Calabria sono 16, il resto è spalmato a macchia di leopardo tra Sicilia, Campania, Liguria e Piemonte. E c'è un altro problema, più volte sottolineato dagli esperti: spesso il commissariamento si trasforma solo in una parentesi tra due amministrazioni colluse. Senza un'azione sociale, che bonifichi il territorio dal dominio del clan, la rimozione delle giunte rischia di essere inutile. In alcuni casi, inoltre, i commissari a cui viene affidata la guida dei Comuni per un periodo da dodici a ventiquattro mesi non hanno alcuna esperienza di gestione. Finora ci sono stati consigli sciolti per tre volte (in Campania Casal di Principe e Casapesenna, cuore dell'impero casalese), altri per due volte (in Sicilia Niscemi, in Calabria Gioia Tauro). Il segno dei limiti di questa misura: non basta il commissario per sradicare il consenso dei padrini, che fanno del controllo del territorio il fulcro del loro potere. Chiosa Luigi De Sena, senatore e vicepresidente della Commissione antimafia:«Quando uno stesso Comune viene sciolto più volte che cosa abbiamo ottenuto? Nulla».

De Sena è stato anche vicecapo della polizia e superprefetto a Reggio Calabria, nominato dal governo Prodi all'indomani dell'omicidio di Francesco Fortugno, il numero due della Regione Calabria assassinato nel seggio delle primarie dell'Ulivo: «Sarebbe maggiormente efficace se ai sindaci che manifestano difficoltà gestionali venissero affiancati dei funzionari prefettizi che li sostengano, daremmo un messaggio forte: lo Stato è al fianco degli amministratori che resistono». Oltre ai sindaci in difficoltà ci sono però quelli che vengono a patti con i clan. E dipendenti o funzionari affiliati alle cosche. Personaggi contro i quali "un tutor" prefettizio non avrebbe poteri. Ma De Sena ritiene che vada soprattutto rafforzato il contrasto all'infiltrazione nell'apparato burocratico ed è tra i firmatari di un emendamento al testo unico degli Enti locali che prevede il licenziamento senza preavviso del dipendente colluso.

Le commissioni di accesso al lavoro in tutta Italia al momento sono nove. Tutte al Sud, da quando a fine luglio gli ispettori hanno lasciato gli uffici di Chivasso: una missione decisa dopo che Bruno Trunfio, vicesegretario Udc e coordinatore della campagna elettorale, il padre e il fratello sono stati arrestati con l'accusa di essere affiliati di rango della 'ndrangheta piemontese. A Chivasso grazie al boom dei centristi il sindaco di centrosinistra aveva vinto le elezioni: gli investigatori ritengono però che questo successo sia stato realizzato grazie al sostegno dei boss, che puntavano a mettere piede negli affari degli assessorati e dell'unica partecipata del Comune piemontese. Bruno Trunfio non è un neofita della politica. I primi passi li ha mossi con il centrodestra: era assessore ai Lavori pubblici nella giunta guidata dall'ex sindaco e oggi senatore Pdl Andrea Fluttero. Se venisse sciolto Chivasso, sarebbe per il Piemonte il terzo Comune commissariato per mafia in un anno: il segno di quanto si sia spinta al Nord la marcia della criminalità. Ma il verdetto più importante riguarda Reggio Calabria, che con 190 mila abitanti potrebbe segnare un nuovo record nella lista nera del Viminale. Gli esperti della commissione di accesso hanno lavorato da fine gennaio al 13 luglio 2012: sei mesi in cui hanno passato al setaccio migliaia di documenti su appalti, consulenze, delibere. Ai sospetti di condizionamento mafioso, si aggiunge l'enorme buco finanziario: secondo la Corte dei Conti è di 170 milioni di euro. Al centro degli accertamenti ci sono le due gestioni dell'ex sindaco Giuseppe Scopelliti, attuale governatore Pdl della Regione. Su Scopelliti e tre revisori del bilancio municipale pende già una richiesta di processo per falso e abuso d'ufficio: l'accusa riguarda un ammanco di oltre 87 milioni, accumulato tra il 2008 e il 2010. Una storia segnata dalla morte di Orsola Fallara, ex dirigente del settore Bilancio, che si è tolta la vita ingerendo acido muriatico. La commissione d'accesso si è però concentrata sulle relazioni pericolose che avrebbero portato le 'ndrine in Comune. A partire dalla società Multiservizi Spa, a maggioranza pubblica: secondo la Procura antimafia di Reggio Calabria era affare del clan Tegano. E la prefettura l'ha sciolta il 3 luglio con un provvedimento in cui evidenzia «collegamenti personali, economici e familiari fra alcuni componenti della compagine sociale ed elementi di sodalizi malavitosi». Reggio è una città complicata. Il nero non è mai nero, sfuma sempre al grigio. I rapporti con servizi segreti, affaristi e massoni sono pane quotidiano per gli 'ndranghetisti locali. Giovanni Zumbo è un commercialista noto in città, amministratore di beni sequestrati alle 'ndrine e referente degli 007 dei servizi, che allo stesso tempo sussurrava ai boss notizie riservate sulle indagini.

Godeva di stima nelle stanze comunali. E alla sorella e alla moglie di Zumbo, in società con il fratello di un pregiudicato, il Comune ha affidato la gestione del centro sportivo Parco Caserta. Presidente in carica della società, come ha verificato "l'Espresso", è lo stesso Giovanni Zumbo. Ancora oggi, nonostante le indagini e gli arresti, le loro società continuano a gestire la struttura. Il municipio pare il cuore di un intreccio di affari oscuri. Ci sono processi sul voto di scambio; le telefonate tra padrini e assessori dell'era Scopelliti; gli arresti di quattro tra ex e attuali consiglieri comunali (l'ultimo a fine luglio) e persino della suocera di Luigi Tuccio, assessore ll'Urbanistica e vicinissimo al governatore della Calabria, che avrebbe favorito la latitanza del capobastone Pasquale Condello.

Tutti elementi che la commissione ha valutato e che sono finiti nella relazione finale arrivata sul tavolo del ministro Cancellieri.

Ecco, lo Stato, il grande assente di questo libro. Ma non lo Stato come è inteso dai politicanti in campagna elettorale o dai meridionali che chiacchierando al bar ne denunciano l’assenza, quasi a giustificare ogni accaduto. Lo Stato inteso come Istituzioni a sostegno, come sponda, come interlocutore credibile su cui contare. Eppure esso appare, lo Stato, delle nostre inchieste come il convitato di pietra se non il nemico che dichiara guerra a chi ha voglia d’intraprendere. Diventando cosi un limite enorme per lo sviluppo ma anche per la lotta alla criminalità, perché come dice il dr Antonio Giangrande, scrittore dissidente e presidente del’Associazione Contro Tutte le Mafie: “prima ancora di convincere le persone a non stare con la Camorra, la ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, bisogna poterli convincere che stare con lo Stato conviene”. Oggi cosa non semplice.

MAFIA: DOPPIO GIOCO TRA POLITICA, INFORMAZIONE E MAGISTRATURA.

MA A CHI VOGLIONO PRENDERE IN GIRO?

Antonio Di Pietro attacca. Ancora. Tira in ballo l'ex "nemico" Bettino Craxi per disegnare il volto di un capo dello Stato diverso: «Io ricordo un altro Napolitano - racconta in un'intervista al settimanale Oggi - quello descritto dall'imputato Bettino Craxi nell'interrogatorio formale che rese nel 1993 durante una pubblica udienza del processo Enimont». «Craxi - continua l'ex pm di Mani pulite - descriveva Napolitano, allora esponente di spicco del Pci nonché presidente della Camera, come un uomo molto attento al sistema della cosiddetta Prima Repubblica, specie coltivando i suoi rapporti con Mosca». Ricorda, il leader Idv, che in quell'interrogatorio Craxi accusò se stesso e altri di finanziamento illecito ai partiti. E chiede - non si capisce bene a chi, visto che era lui il pm - se non ci siano stati due pesi e due misure. Fonti del Quirinale ribattono: «Di Pietro ricorre a nuovi, assurdi artifizi provocatori nel quotidiano crescendo di un'aggressiva polemica personale contro il presidente della Repubblica». Un altolà.

Inascoltato però. «A coloro che si qualificano come "fonti del Quirinale" - dice l'ex pm - consiglio di vedere il filmato su youtube e di risentire dal vivo le dichiarazioni rese da Craxi. In particolare, quel che riferì in merito al sistema di finanziamento ai partiti ai tempi della Prima Repubblica e come questo sistema coinvolgesse tutti, compreso il Pci dell'onorevole Napolitano, ovviamente per fatti già all'epoca non aventi rilevanza penale, a causa del tempo trascorso e delle modalità di attuazione». Qualcuno si sfila. «Non so come si possa andare avanti così, come si fa a dare ragione a Craxi?», chiede il senatore Idv "dissidente" Elio Lannutti. Antonio Borghesi, vicepresidente dei deputati, difende Tonino: «Se ha fatto quelle dichiarazioni avrà dei riscontri».

Era l'Italiano più amato dagli italiani e dai giornali, che hanno sorvolato su un fatto: il Quirinale è l'istituzione più faraonica e costosa del mondo. Racconta Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Uno spreco di denaro pubblico che Napolitano non ha provato neppure a scalfire, chiuso nella sua torre d'avorio. Poi è arrivata la questione delle telefonate intercettate per aiutare il vecchio amico Mancino nell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia.

E ora l'attacco frontale di Di Pietro, che a 20 anni da Mani Pulite si sveglia e ricorda come anche il Pci di Napolitano, come raccontò all'epoca Craxi, fosse finanziato illegalmente da Mosca. Siamo alla farsa. L'ex pm portato in politica dagli ex comunisti, dei quali è stato ex alleato di ferro, riabilita il suo ex rivale Craxi per dare del ladro tangentaro al suo ex idolo Napolitano. Il quale si infuria e minaccia tremenda vendetta come nella migliore tradizione comunista. La verità è questa: Di Pietro dice il vero, non c'è ombra di dubbio. Il bello è che il vero lo dice anche Napolitano, e cioè che Di Pietro è solo un opportunista che usa le verità, giudiziarie e non, a suo esclusivo vantaggio. Insomma, una lotta tra due personaggi tristi che prima usciranno di scena, con i loro segreti inconfessabili e con la loro insopportabile retorica, meglio sarà per tutti.

Le intercettazioni non sono più sempre belle e pure. Contrordine da Repubblica scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Il direttore de "la Repubblica" dice che a volte un sano bavaglio è meglio. Per esempio per difendere uno che sta dalla "nostra parte", come Napolitano. su Repubblica il direttore, Ezio Mauro, prende posizione sulla polemica tra Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebesky sulla questione Quirinale-intercettazioni. La querelle è scoppiata alcune settimane prima, quando Scalfari (a sorpresa) ha preso posizione a favore di Giorgio Napolitano, a suo dire indebitamente intercettato dalla procura di Palermo impegnata nell’inchiesta sulla trattativa fra Stato e Cosa nostra dei primi anni Novanta. Il fondatore di Repubblica ha successivamente spalleggiato il capo dello Stato, quando questi ha fatto ricorso alla Corte costituzionale sollevando un conflitto di attribuzione e chiedendo che si pronunci sulla possibilità che una procura possa intercettare il Quirinale, anche indirettamente. Il caso si è infiammato perché Zagrebelski, costituzionalista e opinionista di Repubblica, ha attaccato frontalmente Scalfari (e in qualche misura Napolitano) e gli ha dato torto su tutta la linea. La diatriba è sorprendente per Repubblica, da sempre favorevole alle intercettazioni-a-prescindere: ricorderete la lunga e insistita campagna dei post-it gialli contro la presunta «legge bavaglio», che cercava inutilmente di porre un argine alla divulgazione dei nastri. Che cosa dice, oggi, Mauro? Fondamentalmente due cose: uno, che il Quirinale ha tutto il diritto di rivolgersi alla Corte costituzionale (ma che nelle scarpe di Napolitano lui non l’avrebbe fatto per ragioni di "opportunità"); due, che ci sono momenti storici e situazioni nelle quali è "interesse di tutti che certe conversazioni non vengano divulgate". E Mauro si spiega meglio con le parole che seguono: "Quante telefonate avrà dovuto fare il capo dello Stato nelle due settimane che hanno preceduto le dimissioni di Silvio Berlusconi da palazzo Chigi? Quante conversazioni avrà avuto, quando le cancellerie europee non parlavano più con il governo, i mercati impazzivano, il paese era allo sbando senza una guida esecutiva e molti di noi temevano il colpo di coda del Caimano? Se queste conversazioni – che hanno necessariamente preceduto e preparato l’epilogo istituzionale di 20 anni di berlusconismo – fossero diventate pubbliche, quell’esito sarebbe stato più facile o sarebbe al contrario precipitato nelle polemiche di parte più infuocate, fino a rivelarsi impossibile?". Ecco. La citazione dell’editoriale del direttore di Repubblica è lunga, ma merita di essere proposta per intero alla lettura (e all’archivio storico). Perché, nascosta dietro una vernice di senso istituzionale falso come i soldi del Monopoli, contiene uno degli esempi più lampanti e sconfortanti della "doppia verità" che da troppo tempo corrode e corrompe la sinistra italiana. Traduco in parole semplici il pensiero di Mauro: ragazzi, non sempre sapere la verità è utile; non sempre deve diventare norma lo slogan "intercettateci tutti", così amato dal popolo dei giustizialisti e dai lettori di Repubblica, perché ci sono casi nei quali un po’ di sano bavaglio potrebbe convenire alla causa. Inoltre, smettetela di attaccare Napolitano, perché è stato lui a liberarci da Berlusconi.

L'Italietta dei club dei tromboni scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. L'Italia salottiera e intellettuale, a differenza di quella reale che ha ben altri problemi, si sta appassionando e avvitando attorno alla presunta trattativa tra Stato e mafia che sarebbe avvenuta agli inizi degli anni Novanta, quando Cosa nostra compiva stragi praticamente a giorni alterni. Delle indagini su questo presunto misfatto si sarebbe occupato anche il presidente Napolitano, che ignaro di essere intercettato, pare abbia rassicurato l'ex ministro Mancino, uno dei tanti coinvolti, e indagati, nella vicenda. Apriti cielo. A differenza di quanto accadde sulle intercettazioni illegali di Berlusconi, mezza sinistra si è schierata a difesa del diritto di Napolitano a non essere spiato, mentre il solito clubbino di forcaioli (Di Pietro, Procure varie, Travaglio e altri) non vede l'ora di mettere Napolitano alla gogna. Sulla vicenda stanno litigando anche dentro il quotidiano La Repubblica: da una parte il fondatore Scalfari, che difende il Colle sperando di avere in cambio il seggio di senatore a vita ancora vacante, dall'altra tale Zagrebelsky, ex presidente della Corte Costituzionale, noto più per le sue comparsate tv da Gad Lerner che per altro. Su questa fondamentale questione, è intervenuto anche il direttore di La Repubblica, Ezio Mauro, con un articolo di una pagina intera, manco fosse la ricetta risolutiva della crisi economica. Verrebbe da dire chi se ne frega di quello che pensano questi tre vecchi arnesi che si sentono gli dei del Paese quando sono invece retorici tromboni autoreferenziali. È che tra le righe della lenzuolata di Mauro emerge finalmente la verità: dietro questa ridicola sceneggiata non c'è la voglia di capire cosa successe. Anche perché la faccenda è indicibile ma chiara: lo Stato giustamente trattò con la mafia - come si fa abitualmente con i rapinatori barricati in banca o in caso di sequestri di persona - per bloccare le stragi e chi lo fece meriterebbe un encomio (in breve tempo tutti i boss, a partire da Riina, vennero arrestati, la violenza finì e il carcere duro venne addirittura potenziato). No, a Mauro interessa tirare dentro nella questione Berlusconi, nonostante quattro sentenze abbiano sancito che con la mafia l'ex premier non ha mai avuto a che fare. Hanno paura che ancora una volta il loro disegno di portare la sinistra al governo si inceppi sul ritorno in campo di Berlusconi o sulla testardaggine di Napolitano a insistere coi tecnici. Per questo, e non per sete di verità, il capo dello Stato è finito sotto schiaffo. Ha intralciato i sogni della banda Zagrebelsky & C. Altro che mafia, mafiosi sono i salotti e i giornali che stanno tritando lui oltre che Berlusconi.

Questo bel documentario “Doppio Gioco”, realizzato da RAI e Magnolia, andato in onda anni fa su Rai3, ricostruisce l’indagine dei Carabinieri del R.O.S. che, fra gli altri, portò a processo e fino alla condanna definitiva Totò Cuffaro, l’ex presidente della Regione Sicilia. E’ un documento molto interessante per parecchi aspetti che, oltre a contenere moltissime intercettazioni e filmati originali, mostra come la mafia è in grado di insinuarsi nella società civile. Ma nonostante ciò, e pur essendo un eccellente prodotto televisivo, pare dimenticato. Qualche nota e precisazione personale: nell’indagine, come vedrete, il Maresciallo della GdF nella DIA di Palermo Giuseppe “Pippo” Ciuro ha un ruolo centrale, e sia Travaglio che Ingroia non sono assolutamente citati, giustamente secondo me, perchè non hanno alcun ruolo, o quasi, nell’indagine. Ma ciò non toglie che Ciuro abbia procurato non poco imbarazzo ad entrambi, visto che, tanto per capirne ruolo e livello, era con Ingroia a Roma durante gli interrogatori a Berlusconi. Infatti, proprio mentre si svolgevano queste indagini, Pippo Ciuro era ancora il braccio destro di Ingroia (in Procura li chiamavano “i puri e ciuri”) e trascorreva le ferie assieme a Travaglio e Ingroia al Golden Hill di Trabia. Però, per Travaglio, Ciuro è solo una “talpina“, eppure curiosamente perde il lume della ragione se gli si ricorda la vicenda e come si è fatto menare per il naso. Ed è sempre in quella indagine che venne intercettata e registrata la telefonata fra Ingroia e Michele Ajello (mafioso di Bagheria, protetto da Provenzano personalmente), nella quale “il Professore” (Ingroia) discorreva tranquillamente di tramezzi e piastrelle, perchè Ajello si occupava anche della ristrutturazione della casa del padre di Ingroia, pagata in parte con soldi del finanziamento per il terremoto del Belice del 1968! Era il 2003, e ancora giravano soldi del finanziamento per un terremoto di 35 anni prima? Certo, è tutto legale, non c’è alcun illecito, ma siamo sicuri sia altrettanto morale usufruirne, a maggior ragione per uno che va in giro a fare la morale agli altri? Fate questa domanda a Ingroia, poi vediamo se e come risponde. Tornando ai contenuti, c’è un altro aspetto di non poco conto che va sottolineato. Ciuro, come vedrete, si preoccupava di indagare per poi informare Ajello, anche dell’ attività dello S.C.O. che, come dice al Maresciallo Giorgio Riolo (l’altra talpa), “… perchè questi li piazzano senza dire niente a nessuno…” (microspie e telecamere). E’ secondo me un passaggio importante, perchè, come vedrete alla fine, quando le informazioni circolano in una catena di comando sempre più lunga, è più probabile che le stesse ritornino agli indagati.

Infatti, e purtroppo, la talpa che ha informato Cuffaro a Roma dello stato delle indagini non è ancora stata individuata. Infine, l’annotazione più importante: quest’indagine ha permesso di abbattere i costi dell’assistenza sanitaria in Sicilia “… con un risparmio per le casse regionali di molti, molti milioni di euro…” (Michele Prestipino - Sostituto Procuratore). La ricaduta diretta e immediata di quest’indagine sui conti pubblici è quindi stata immediata e consistente, a riprova che le intercettazioni sono fondamentali nella lotta al crimine.

“Una domanda va posta al capo dello Stato. Per quale motivo non tira fuori le conversazioni telefoniche tra il Quirinale e Mancino e non ne consente la pubblicazione? E non contengono nulla di peccaminoso, vale la pena di renderle pubbliche, e festa finita”. A scriverlo è Vittorio Feltri in un commento che parte dalla prima pagina del Giornale dal titolo “E ora fuori le telefonate del Colle”. Il ragionamento del direttore editoriale del Giornale secondo “Il Fatto Quotidiano” è questo: perché, se non c’è niente da nascondere, Giorgio Napolitano fa di tutto “nel voler nascondere a ogni costo, anche quello del ridicolo, i dialoghi tra il suo (defunto) consulente legale, Loris D’Ambrosio, e Mancino”? L’articolo di Feltri ricostruisce l’intera vicenda della presunta trattativa Stato-mafia alla quale, precisa, lui non crede. Feltri supera i dubbi sulla trattativa e supera anche le controversie sul fatto che i pm di Palermo potessero o no intercettare le telefonate tra il presidente della Repubblica e l’ex ministro dell’Interno.

Tuttavia Feltri segnala che “il capo dello Stato, indignato, ricorre contro la Procura.

Sostiene che l’istituzione va tutelata. Occorre riservatezza. Giusto. Tuteliamola. Ma perché in analoga circostanza l’istituzione Palazzo Chigi fu, invece, sfregiata?”. Il direttore del Giornale arriva a difendere perfino il sostituto procuratore Antonio Ingroia (“Promosso e rimosso: destinazione Guatemala. Lontano dagli occhi, lontano dai glutei”) e il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro, reo (per sinistra e destra) di aver attaccato Napolitano: “A Tonino si possono rimproverare tante cose, non questa”. Perché anche chi, dalle file del centrodestra, ha polemizzato dicendo che Di Pietro avrebbe potuto piuttosto agire “contro di lui (Napolitano) e non soltanto contro il povero Bettino che viceversa ha pagato per tutti, mentre il Pci fu salvato da Mani Pulite”. “E’ molto antipatico – prosegue Feltri – che Napolitano sia tanto seccato per le intercettazioni (non distrutte) che lo riguardano, e indifferente per quelle relative a Berlusconi, servite ad esporre questi alla berlina. Poco elegante e per nulla corretto sotto il profilo etico-istituzionale”. “Pazienza – conclude il commento – Bisogna abituarsi a tutto, anche all’ostracismo inflitto a Di Pietro, colpevole di aver detto – in ritardo – la verità. Chi tocca il Quirinale non muore, ma è condannato all’isolamento. La sinistra non perdona”.

Ma sì, pubblichiamo tutto, chi se ne frega dice Filippo Facci su “Libero Quotidiano” e su “Il Post”: quindi anche i dialoghi telefonici della mia portinaia e quelli del presidente della Repubblica. Costituzione, rilevanza penale? Chi se ne frega, forse aveva ragione l’amico e collega Gianni Barbacetto (che scrive sul Fatto Quotidiano) quando disse a Omnibus, su La7, che «trovo benemerito raccontare che cosa dicono i politici quando pensano di non essere ascoltati, a me del piano penale non importa nulla, a me interessano i fatti, io sono per un uso non giudiziario anche del piano penale. Le persone che si telefonano raccontano loro stessi, in diretta, è quindi evidente che non c’è nulla da accertare». Vale per i politici e vale per tutti i personaggi pubblici, quindi anche per i magistrati, quindi anche per Antonio Ingroia. Un valido contributo a cotanta trasparenza potrebbe quindi risultare dalla pubblicazione, ora e qui, di un brogliaccio del 2003 in cui i carabinieri del Nucleo operativo di Palermo annotarono degli appunti circa alcune telefonate intercettate: accadeva, per la precisione, il 28 febbraio del 2003 alle ore 9.36; gli attori del caso erano due, anzi tre. Uno è Michele Aiello, mafioso di Bagheria, ex re delle cliniche e primo contribuente siciliano, protetto personalmente da Bernardo Provenzano e successivamente arrestato e condannato. Un altro è il poliziotto Giuseppe «Pippo» Ciuro, strettissimo collaboratore di Ingroia e suo vicino di scrivania e compagno di vacanze, l’uomo che il 26 novembre del 2002 varcò il portone di Palazzo Chigi per interrogare Silvio Berlusconi (assieme a Ingroia, ovvio) ma che pure, il 4 novembre successivo, sarà arrestato e condannato per favoreggiamento del citato Aiello. Il terzo attore, a cui Pippo Ciuro passa la cornetta per parlare proprio con Aiello, si chiama Antonio Ingroia che pure i presenti chiamano «’u professore». E di che parlano? Parlano di lavori edili che erano in corso a Calatafimi, provincia di Trapani, appunto «in una casa di ’u Professore», lavori che «per ora sono fermi perché vuol farli fare a persone di sua fiducia». Ingroia e il protetto di Provenzano parlano di mattonelle, di tramezzi, di muri, di colori, di tempi di consegna, di un primo conto dopo che il padre – il padre di Ingroia, proprietario della masseria di Calatafimi – ha ricevuto un finanziamento agevolato dalla legge sul terremoto del Belice. Sì, il Belice, nel 2003: ancora giravano soldi per un terremoto di 35 anni prima, cose molto siciliane, chissà Ingroia che ne pensa. Alla fine della telefonata comunque Aiello rassicurava il pm: tranquillo professore, ci pensiamo noi. Ecco: i rischi delle intercettazioni sono tutti qui. Sono nella malizia, infinita, che può ritagliarsi attorno a un episodio del genere, roba che qualche giornale o partito nemico potrebbe montare e rimontare per mesi. Senza magari precisare, sempre e con chiarezza, che non solo nella vicenda non v’è la minima rilevanza penale riguardante Ingroia: ma lo stesso Ingroia, nel momento della telefonata, era già al corrente dell’indagine che alcuni suoi colleghi conducevano su Aiello e Ciuro, tanto che il «professore» fu invitato a far finta di niente.

Un doppio gioco incrociato. Pippo Ciuro, prima di essere scoperto dai pm (Giuseppe Pignatone, Maurizio De Lucia, Michele Prestipino e Nino Di Matteo) aveva procurato all’amico Ingroia un’impresa che appunto ristrutturasse il casolare paterno a Calatafimi: e l’impresa scelta da Ciuro fu proprio quella di Aiello. Del resto, all’epoca, Ciuro era ancora il braccio destro di Ingroia (in Procura li chiamavano «puri e ciuri») e al mare avevano i villini affiancati, laddove per un’estate si affaccerà anche l’incolpevole Marco Travaglio che era legato a entrambi (a Ciuro e a Ingroia) ma che a ricordargli l’episodio, ogni volta, perde il lume della ragione. Dal canto suo anche Michele Aiello, sino all’arresto, era uno che – dirà Ciuro in un colloquio con Libero, cioè con me – «i signori magistrati ci sono andati a cena, si sono fatti costruire le case, e quando lui aveva bisogno, correvano». Ma tutta questa faccenda – l’episodio, la telefonata, il casolare, i finanziamenti per il terremoto del Belice – rimarranno confinati a uno scritto come questo: come è giusto, e come tuttavia non è accaduto per altri personaggi o per altre vicende pompate per mesi, benché oggi ne sia rimasto poco o nulla. Un nulla però inutilmente trasparente.

IL PROBLEMA DELLE CATTIVE FREQUENTAZIONI.

Scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Io, Travaglio e la mafia. Parla Pippo Ciuro, condannato per favoreggiamento e compagno di vacanze siciliane del re dei manettari. Lui è quello delle «cattive frequentazioni» addebitate a Marco Travaglio, quello con cui divise una vacanza in Sicilia prima che l’arrestassero e poi condannassero per favoreggiamento. Non l’hanno condannato per mafia, però l’uomo che avrebbe favorito si chiama Michele Aiello, ex re delle cliniche, e lui sì, è stato condannato come prestanome di Bernardo Provenzano. È il maresciallo della Finanza Giuseppe Ciuro, detto Pippo: lui e il pm Antonio Ingroia, nei primi anni Duemila, dividevano la stanza dell’ufficio al secondo piano del palazzo di giustizia palermitano. Fu lui a indagare su Marcello Dell’Utri e sui finanziamenti Fininvest, fu lui che il 26 novembre 2002 compartecipò all’interrogatorio di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi dopo aver vergato un’informativa sul Cavaliere, e fu lui, pure, a deporre al processo Dell’Utri e a sostenere che un nipote di Tommaso Buscetta fosse stato socio di Fininvest. Ai tempi girava sotto scorta. E che destino, ora: addivenire a celebrità per via di un paio di vacanzine con Marco Travaglio, anzi «Marco», quel bravo ragazzo torinese che nel marzo 2001 aveva combinato un pasticcio alla trasmissione «Satyricon» di Daniele Luttazzi: Marcolino aveva rispolverato le accuse rivolte a Berlusconi e Dell’Utri quali «mandanti esterni» della strage di Capaci, anche se la Procura di Caltanissetta aveva fatto richiesta d’archiviazione un mese prima della trasmissione. E chi fornì il materiale per «L’odore dei soldi», che pure oggi è spazzatura?

Tutta farina di Ciuro. Pippo aveva fatto il suo lavoro, Travaglio stava facendo il suo. Io faccio il mio, e incontro Pippo Ciuro per puro caso: anche se non è un caso se sono a Palermo a passeggiare con un amico avvocato. È Ciuro a riconoscermi, mi dice addirittura che uno dei suoi figli mi legge sempre. E si chiacchiera. Non so neppure come arriviamo a parlare del generale Mario Mori e del Capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio, l’uomo che arrestò Totò Riina.

«Sono due grandi, io lo so perché ho fatto le indagini, quindi lo so».

E allora perché li hanno messi in mezzo?

«La verità posso dirtela? È che volevano fottere Ingroia e Caselli, e io sono l’anello più piccolo di tutto questo marchingegno».

Non capisco neanche bene di che parla, ma questa non è un’intervista, Ciuro non ne rilascia mai. Questo è un colloquio rubato e registrato in piedi, per strada, alle 16 e 41 del 17 marzo.

Ingroia e Caselli però t'hanno mollato.

«Quando succede un casino del genere, e tu vieni messo all’angolo, prendi solo cazzotti. Se sei bravo esci alle lunghe, e io col passare del tempo ne sono sicuro che salterà fuori la verità. Ne sono veramente convinto... quand’era ora di andare a testimoniare, però, minchia, Pippo Ciuro andava bene per tutti... o quando c’era da andare a fare le cose più sporche, nel senso di andare a fare le indagini più complicate... Mi spedivano ovunque, in piena indagine sul covo di Riina, a sentire tutti... con ampia delega... ci sono i verbali...».

E perché ti avrebbero fatto fuori?

«Hanno voluto eliminarmi per qualcosa che devo aver fatto in buona fede, anzi ottima... non lo so, guarda, non l’ho ancora capito dopo 7 anni, te lo giuro sulla tomba dei miei genitori».

Pippo Ciuro fu arrestato il 4 novembre 2003 per concorso esterno in associazione mafiosa più altri reati: con lui un altro maresciallo, Giorgio Riolo. I due furono accusati d’aver sistematicamente informato delle indagini il citato Michele Aiello, anch’egli arrestato, ex primo contribuente siciliano, fondatore e patron della mitica clinica Santa Teresa a Bagheria dove fu curato anche Bernardo Provenzano. Ciuro, che sino a tre mesi prima era in vacanza con Travaglio e Ingroia, sarà definito «figura estremamente compromessa col sistema criminale» prima di essere condannato in Appello a 4 anni e 8 mesi per favoreggiamento e violazione di segreti informatici. Le accuse più gravi sono cadute tutte. L’indagine era stata condotta dai pm Giuseppe Pignatone, Maurizio De Lucia, Michele Prestipino e Nino Di Matteo.

«Di Matteo... allora ti confido una cosa: nell’estate 2002 e 2003 c’era pure lui lì a farsi le vacanze. Non dormiva lì, ma veniva a mangiare a casa mia insieme a Ingroia e a Travaglio e a tutti gli altri... e faceva le indagini contro di me. Tanto per farti capire che bell’ambiente siamo».

Ma anche Ingroia, in vacanza con te, sapeva che eri indagato?

«No, Ingroia non è vero che lo sapeva».

L’ha scritto Travaglio: «Seppi da Ingroia che lui era al corrente delle indagini su Ciuro fin da prima dell’estate, ma che, d’intesa con il procuratore capo, aveva dovuto continuare a comportarsi con lui come se nulla fosse, per non destare sospetti».

«No, Ingroia non lo sapeva. Sai quando gliel’hanno detto? Tra luglio e agosto... vatti a vedere le carte. Andiamoci a pigliare un caffè».

Fa un freddo poco palermitano. Si chiacchiera di tutto un po’.

Appiccicarti l’amicizia con Aiello può essere servito a qualcuno?

«Michele Aiello, sino a quando è successo quello che è successo, era uno che i signori magistrati ci sono andati a cena, si sono fatti costruire le case, e quando lui aveva bisogno correvano. Ma non solo loro».

Gli accenno di quando Ingroia, che Ciuro chiamava «il Professore» o «il dottore», si fece ristrutturare da Aiello un vecchio casolare del padre, a Calatafimi. Ingroia ne parlò al telefono con Aiello il 28 febbraio 2003, ore 9.36: discorsi su mattonelle, tramezzi e colori.

Ingroia e D’Aiello cenarono anche assieme. Imbarazzante. Una vicenda poco approfondita, mi pare.

«E te lo sei chiesto perché? Ma non soltanto per la faccenda della casa di Ingroia, che è una minchiata. Il dottore Di Pisa: la casa gliel’ha costruita Aiello, gliel'ha ristrutturata... e ha pagato... anche a Paolo Giudice, oggi procuratore aggiunto, persona perbenissimo.... La domanda allora è: ma scusate, come vi rivolgete a uno, Aiello, che già dal 1996 compariva nei pizzini di Toto Riina? Ma nessuno niente sapeva?».

I magistrati credevano l’Aiello mafioso fosse un altro, un omonimo di Caltanissetta.

«E intanto l’altro, quello coimputato con me, continuava fare la sua vita normale... ma tu l’hai vista mai la realtà che aveva costruito?»

Un centro medico all'avanguardia. Frequentato da tutti, magistrati compresi.

«La gente non aveva davvero bisogno di andare al Nord... vai a vederla adesso, la clinica, l’hanno distrutta... che schifo. La vuoi fare una bella indagine a Palermo? Allora vedi tutti i sequestri giudiziari in mano a chi sono... sempre gli stessi... Altro che Ciuro che faceva le ferie con Travaglio. Che poi, di quei giorni lì, sbagliano tutti l’anno.

Giuseppe D’Avanzo ha scritto su Repubblica che nel 2002 io e Travaglio abbiamo fatto le vacanze insieme: ma Travaglio era all’Hotel Torre Artale, a Trabia, e io al residence Golden Hill... lui certo, è venuto ospite invitato da me, a pranzo o a cena, ma al Golden Hill in vacanza ci è venuto l’anno dopo, una decina di giorni in cui ci saremo visti in tutto tre volte, anche perché io la mattina me ne andavo a lavorare regolarmente come Ingroia, che era lì. Certo, eravamo tutti nello stesso residence e poi magari la sera ci vedevamo».

Più tardi, Pippo Ciuro mi invierà la querela che sporse contro D’Avanzo dopo l’articolo del 14 maggio 2008, quando mise in mezzo Travaglio e scrisse che il maresciallo aveva rivelato segreti utili a favorire la latitanza di Provenzano. E questo, in effetti, risulta falso.

Nella querela, poi, si definisce pure falso che «il mafioso Aiello, per il tramite del suo complice Ciuro, avrebbe pagato il soggiorno a Trabia del Travaglio». Ipotesi che, va ripetuto, nessuno su Libero o sul Giornale ha mai scritto o minimamente creduto, e tantomeno ha scagliato contro Travaglio ad Annozero: epperò Marcolino non ha fatto che difendersi da un’accusa che nessuno, appunto, a parte D’Avanzo, gli aveva mai rivolto.

Ed è giunto a scrivere, Travaglio, che dei colleghi come Maurizio Belpietro o Nicola Porro «sguazzano nella merda».

Allora la faccenda delle ferie pagate è una balla.

«È una minchiata di quelle grosse».

E perché l’avvocato di D’Aiello l’ha confermata?

«Ma no, ha smentito tutto».

Quando?

«Non mi ricordo, ma ha smentito. Ma poi: se c’era il regime di amministrazione controllata, come avrebbe potuto l’hotel emettere due fatture? Una l’ha esibita Travaglio, pagata con carta di credito, mi pare 5600 euro...».

Lascia stare. Una sola cosa mi ha sempre incuriosito: perché a Torre Artale Travaglio ha speso quella cifra mentre l’anno dopo, al residence con voi per dieci giorni, solo mille euro per quattro persone? Non è un po’ poco?

«Ma no, costa così. Torre Artale costava tanto perché è a cinque stelle».

Solo mille euro. Interessante.

«È un’oasi di pace, dovresti venirci».

Pippo Ciuro mi parla a lungo del suo caso giudiziario, mi svela retroscena inquietanti e risvolti anche intimi, familiari. Questo è un colloquio rubato e perciò non ne parlerò: quando vorrà, lo farà lui.

«Se io esplodo ne ho per tutti, altro che bomba atomica. Qualcuno mi ha anche chiesto: siccome conoscevi i cazzi di tutti, perché non ti sei difeso attaccando? Ma io mi devo difendere solo per quello di cui sono accusato. La mia salvezza è che da questo D’Aiello io non ho mai preso neanche una lira... la prima volta che sento Marco però glielo voglio dire: la vogliamo organizzare una bella trasmissione? Però si dovrebbero scagliare contro certi giudici...».

Sì, buonanotte. Ma il rapporto con Travaglio è rimasto buono? Vi siete più sentiti?

«No, non... forse una volta sola».

Si chiacchiera ancora del suo caso, di ristoranti, di cannoli, di cassate, di giornalisti.

«Io li rispetto molto, i giornalisti. Me li ricordo che venivano sempre lì, che uscivano tutte le notizie sottobanco... perché escono tutte di lì, eh? È inutile ci prendiamo per il culo».

Si parla di intercettazioni. Dell’inchiesta di Trani.

«Ma per favore, ma quali talpe... ma da dove volete che uscissero le notizie, scusa?

Guarda, se volessero non avrebbero bisogno di intervenire sulle intercettazioni: basta che nel decreto scrivi chi sono i responsabili delle intercettazioni, come si faceva una volta. I nostri capitani o colonnelli ci dicevano: tu e tu siete responsabili delle intercettazioni. Facevano un ordine di servizio. E se usciva una notizia ti facevano un culo così. Caso strano, le intercettazioni non uscivano mai... C’erano tuoi colleghi che mi mandavano i pezzi e mi chiedevano: sono giusti? A una donna, una cretina sgrammaticata, glielo riscrissi tutto... È una categoria, la tua... Quando ho testimoniato al processo Dell’Utri, minchia, ce ne fosse stato uno che ha scritto le cose per come erano andate...».

E i magistrati?

«Hanno bisogno delle prime pagine, sennò non possono vivere... stanno male».

Tu davi le notizie a Travaglio?

«No, assolutamente... a me nessuno mi ha mai usato. Quando lui voleva qualcosa telefonava a Ingroia. Comunque diglielo, al tuo direttore: state tranquilli, Travaglio non mi frequentava... Io poi, per voi, non sono un nemico, tu magari mi consideri un nemico, ma anzi... io compravo Libero, Il Giornale...».

Ecco perché ti hanno messo dentro. Sono prove a carico.

In questa querelle entra a gamba tesa anche la questione delle associazioni dei consumatori. Anche lì una farsa; un trucco. Questo per dimostrare che mai nulla è come appare, perché è tutto un bluff. Inganno, ma anche un'estorsione a danno dello Stato e quindi dei cittadini e di quelle associazioni non schierate che non sono tutelate come per esempio "L'associazione Contro Tutte le Mafie", il cui presidente, lo scrittore dissidente Antonio Giangrande, non solo non è finanziato, ma è anche perseguitato per quello che scrive. Secondo Carmelo Caruso su “Panorama” le chiamano “L’altro sindacato”, il braccio armato dei consumatori. Più forti dei sindacati, di fatto rami che fanno riferimento a organizzazioni di categoria, a dirigenti di partito, in altri casi addirittura ricevono aiuti dalla case farmaceutiche oltre a quelli di Stato sotto forma di progetti. Adesso, però, anche le associazioni dei consumatori rischiano di perdere quei finanziamenti che ne hanno permesso la crescita e in qualche caso la proliferazione. 18 in Italia, tutte accreditate al Cncu, il Consiglio nazionale dei consumatori che fa capo al ministero dello Sviluppo Economico, ma quante saranno alla fine le vere, quelle che davvero hanno più di trentamila iscritti certificati, ovvero la soglia imposta per legge? L’idea che circola nei corridoi del ministero porterebbe a una drastica riduzione oltre a favorire le più consistenti in termini di tesserati. Una polemica, quella tra associazioni, che da sempre le ha coinvolte e viste configgere. Insomma, le associazioni difendono i consumatori e se sì, a che prezzo?All’inizio fu Unione nazionale dei consumatori, la più antica tra le associazione nata nel 1950, ma il vero anno che sancisce l’importanza di queste lobby a difesa del cittadino è il 1998 quando con la legge n°281 vengono annoverate come associazioni da parte del ministero dello Sviluppo Economico. Dai rincari delle compagnie assicurative, ai monopoli telefonici, lotte che le associazioni hanno ingaggiato e che hanno portato ad una sentenza storica, quella del 2003, quando il Codacons riuscì a far pagare alle compagnie assicurative una multa che ha fatto scuola. Ed è proprio il 2003 che ne cambia l’aspetto e l’approviggionamento di risorse. Un fiume di denaro, ottenuto dalle multe, che l’Antitrust decide di girare e destinare alle iniziative volte a informare il consumatore, un sistema che è stato copiato perfino nei paesi europei. Così dalle iniziali 10 associazioni del 1993 si sale a 15 fino ad arrivare a 18 attuali: Acu, Adiconsum, Adoc, Adusbef, Altroconsumo, Assoconsum, Assoutenti, Ctcu, Cittadinanza attiva, Codacons, Codici, Confconsumatori, Federconsumatori, La casa del consumatore, Lega consumatori, Movimento Consumatori, Movimento difesa del cittadino, Unione nazionale del consumatore, ultima la Confconsumatori. Che c’entrano dunque i sindacati come Cgil, Cisl e Uil e i partiti? In realtà sono proprio le sigle confederali e i politici a stare dietro le più considerevoli associazioni dei consumatori, come Adiconsum (Cisl), Adoc (Uil), Federconsumatori (Cgil), che possono ottenere il 5 per mille facilmente grazie alla presenza dei Caf di zona e foraggiarsi. Questo solo per citare le associazioni vicine ai sindacati, ma altre sono vicine anche a case farmaceutiche come Cittadinanza Attiva o ai partiti, qualche esempio: AssoConsum è gestita da ex dirigenti di Forza Italia mentre il Movimento Consumatori da uomini di sinistra. E’ tra queste che si ritagliano uno spazio Altroconsumo (più di trecentomila iscritti) e la Codacons una delle più agguerrite tra le associazioni e sono proprio queste’ultime, infine, quelle che si danno battaglia a colpi di iscritti. Perché? Subito spiegato. Per ottenere i finanziamenti a pesare sono loro, i tesserati, e la soglia viene quasi tutta superata per un soffio fatta eccezione per Centro Tutela Consumatori Utenti, un’associazione che dispone di una deroga in quanto presente in Trentino Alto Adige, regione a statuto speciale. Pochi anni fa si sono dati battaglia perfino di fronte ai giudici, il Codacons che accusava Altroconsumo di non avere iscritti, ma solo abbonati alla propria rivista, e viceversa. La fetta da spartire, dopo la scelta dell’Antitrust, infatti cresce, fa gola a tutti, e comincia ad affiancarsi all’iniziale sostentamento delle associazioni, niente più che semplici aggregazioni finanziate con una quota annuale. Dal 2003 al 2007 le 18 associazioni si dividono una quota consistente di denaro: 47,7 milioni e 38 milioni nel 2010. Parte direttamente dallo Stato, parte invece attraverso le Regioni. Tanto basta per farne nascere altre come la Assoconsum, Casa del Consumatore e la Confconsumatori, solo le ultime. E chi controlla se gli iscritti siano veri o no? In pratica dovrebbe essere il ministero, peccato che non sempre lo faccia, o almeno lo faccia in pochi casi dice il leader di AltroConsumo, Paolo Martinello, che un’ispezione l’ha ricevuta pochi anni fa. “Il ministero finora ha controllato poco – dice Martinello – ben vengano quindi regole più selettive. In molti casi sono autodichiarazioni. Bisognerebbe chiedere gli elenchi”. Una forza quella di Altroconsumo che deriva anche dalla rivista che edita e dai servizi che offre. “Non ci finanziamo solo con i progetti, offriamo servizi”, risponde ancora il segretario. Già perché in realtà dopo il 2010 l’Antitrust non ha girato più risorse, dopo che Giulio Tremonti ha deciso di stornare i fondi e destinarli alle emergenze. Tanto che il Codacons per sopperire ai mancati proventi ha dovuto inventarsi un telefono a pagamento. Ciò non toglie che le associazioni accreditate abbiano potuto usufruire dei finanziamenti delle regioni e dalla Ue. Oggi, l’idea di ridurne il numero, anticipata dal Corriere e che fa infuriare Carlo Rienzi del Codacons: “Questa è una manovra politica, vogliono uccidere le associazioni come quelle nostre, quelle presenti sul territorio. Il Corriere ha iniziato una campagna per distruggerci. Tutto a favore delle associazioni legate ai sindacati e alle riviste. Cercano di spostare tutto sugli iscritti, ma a contare dovrebbe essere l’attività svolta”. Una manovra per accontentare i sindacati paventa Rienzi e che rischierebbe di veder scomparire le più piccole, ma non per questo meno rilevanti. In realtà una controversia dunque tra ministro e associazioni, multe e denaro, consumatori e consumati, dove di mezzo ci sta la politica arbitro sceso con una squadra. E i consumatori spettatori sugli spalti.

Comunque per far capire l’ambiente e le circostanze su cui dileggiano le varie firme di stampa e tv e per chiudere la bocca a chi si destreggia tra ingiurie e diffamazioni gratuite basta la risposta delle istituzioni. «La Puglia e il Salento non sono diverse dalle altre zone di Italia, il Lazio, Roma Capitale, la Lombardia. Il Salento non è terra di sedimentate infiltrazioni mafiose». È questa la prima risposta data alla platea e all’intervistatore al capo della Polizia, Antonio Manganelli, ospite d’onore nella serata di venerdì 11 agosto 2012 a Miggiano (LE) della rassegna «Miggianosilibra», organizzata dall’assessorato comunale alla Cultura e patrocinata da Regione Puglia e Provincia di Lecce. Un evento d’eccezione con in prima fila il prefetto, Giuliana Perrotta, e il questore di Lecce, Vincenzo Carella e quello di Brindisi, Alfonso Terribile, autorità militari, consiglieri regionali, la vicepresidente della Provincia, Simona Manca e numerosi sindaci. Camicia bianca e jeans, accompagnato dalla moglie con la quale sta trascorrendo nel Salento alcuni gironi di relax, il prefetto Manganelli, come raccontato da Giuseppe Martella della Gazzetta del Mezzogiorno) è arrivato nel piccolo centro del Capo di Leuca poco dopo le 20. Ad attenderlo, il procuratore capo della Dda, Cataldo Motta. Tra loro un colloquio fitto che dura una manciata di minuti, prima che Motta saluti e vada via. Prima dell’inizio dell’intervista, curata dal giornalista Rosario Tornesello, il capo della Polizia si intrattiene con funzionari e autorità. «Molti dei colleghi che sono presenti qui stasera – dirà nel corso della serata Manganelli – sono stati con me nel corso della mia carriera quasi quarantennale e vissuta in larga misura per strada. Con loro ho consumato le notti durante sfiancanti appostamenti, con loro ho condiviso la paura». Investigatori eccellenti li definisce il prefetto Manganelli, anche se alla domanda del giornalista che gli chiede se qualcuno di loro potrebbe lavorare con lui a Roma, risponde: «Stanno bene qui, lavorano in maniera ottima e conquistano ogni giorno risultati importanti, al centro dei miei frequenti contatti telefonici col procuratore Motta». È innamorato del Salento «territorio di frontiera e accoglienza che ha saputo mettere in vetrina le sue peculiarità», di quel Salento che pochi mesi fa è stato ferito a morte dal vile attento dinanzi alla scuola «Morvillo Falcone» di Brindisi. Nelle ore successive all’esplosione, il capo della Polizia fu uno dei pochi a parlare del possibile gesto di un folle. Da navigato investigatore ricostruisce: «Il nostro lavoro spesso procede per esclusione. Esclusa la pista mafiosa.

Cosa nostra colpisce per raggiungere obiettivi e non lascia la Sicilia per un atto dimostrativo dinanzi a una scuola di Puglia. Escluso il terrorismo rosso e l’anarco-insurrezionalismo. Gli anarchici colpiscono per poi rivendicare e spiegare e nell’omicidio di una povera studentessa non c’è nulla da spiegare. O si era di fronte a una cellula eversiva, oppure a un folle, come alla fine le indagini hanno dimostrato». Contrario a qualsiasi patto tra Stato e mafia «anche se bisogna distinguere tra i vari livelli di accordi, come quello che può insistere tra un investigatore e un criminale che decida di vuotare il sacco», Manganelli non si sottrae quando gli chiedono cosa ha provato a chiedere scusa per i casi Aldovrandi e G8 di Genova. «Quando si ha fiducia nella magistratura e nei pronunciamenti che essa presenta, condividendoli o meno, e nel momento in cui ci si trova dinanzi a sentenze definitive, è d’obbligo chiedere scusa e non nascondersi dietro un dito». 

I MAGISTRATI, MEGLIO DI CHI?

Trattativa Stato-mafia, rinviati a giudizio 12 indagati. I pm di Palermo hanno firmato la richiesta di rinvio a giudizio dei 12 indagati per la presunta trattativa Stato-mafia. Tra i rinviati a giudizio ci sono l’ex presidente del Senato e del CSM, Nicola Mancino, l’ex ministro Calogero Mannino, capi mafia, ufficiali dell’Arma e Massimo Ciancimino. La richiesta di rinvio a giudizio firmata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai pm Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene è stata vistata ma non firmata dal procuratore Messineo, una sottigliezza tecnica che potrebbe celare una non totale condivisione delle conclusioni cui sono giunti i magistrati titolari del fascicolo. Nel dettaglio, tra i rinviati a giudizio ci sono i capimafia Totò Riina, Giovanni Brusca, Nino Cinà, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano; il figlio dell’ex sindaco Vito Ciancimino, Massimo; il generale dei carabinieri, Mario Mori; l’ex capitano dell’Arma, Giuseppe De Donno; l’ex capo del Ros, Antonio Subranni; Nicola Mancino; il senatore del Pdl, Marcello Dell’Utri e l’ex ministro Calogero Mannino. Gli imputati sono accusati a vario titolo di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato e concorso in associazione mafiosa. Mancino risponde di falsa testimonianza e Ciancimino, oltre che di concorso in associazione mafiosa, di calunnia.

Già. E poi? Lo scrive “Il Fatto Quotidiano” e lo riporta Giuseppe Pipitone su “Live Sicilia”. La Cassazione apre un fascicolo sulla Procura di Palermo. Un’intervista rilasciata senza permesso e il principio della riservatezza sulle indagini violato. È questa l’accusa contenuta nel fascicolo aperto dalla procura generale della Cassazione contro la Procura di Palermo. Il procuratore generale Gianfranco Ciani ha incaricato il suo sostituto Mario Fresa di verificare se il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo e il sostituto Nino Di Matteo abbiano o meno violato il principio di riservatezza sulle indagini. Oggetto dell’offensiva dell’organo inquirente ermellino contro i pm di Palermo che indagano sulla Trattativa Stato – mafia sono le telefonate intercettate tra l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, finora mai trascritte o diffuse. Il Quirinale aveva sollevato un conflitto d’attribuzione davanti la Corte Costituzionale contro la procura palermitana. Al centro dell’indagine preliminare del sostituto pg Fresa c’è soprattutto l’intervista rilasciata da Di Matteo al quotidiano La Repubblica il 22 giugno scorso, pochi giorni dopo che era stata rivelata dai giornali l’esistenza di quelle chiamate di Mancino con il Quirinale, e nel periodo immediatamente successivo alla chiusura dell’indagine sulla trattativa. Alla giornalista che gli chiede di quelle telefonate (la cui esistenza era stata rivelata poco prima da Panorama), Di Matteo risponde cauto: “Negli atti depositati non c’è traccia di conversazioni con il capo dello Stato e ciò vuol dire che non sono minimamente rilevanti”.

Tanto era bastato però, perché Eugenio Scalfari si scagliasse contro i pm palermitani. L’8 luglio scorso in un editoriale il fondatore di Repubblica faceva esplicito riferimento al “Procuratore generale della Cassazione che ha la vigilanza sul corretto esercizio della giurisdizione e detiene l’iniziativa di eventuali procedimenti”. Il 29 luglio poi affondava il colpo su Di Matteo: “ Ricordo che la notizia dell’intercettazione indiretta del presidente della Repubblica era stata data addirittura da uno dei quattro procuratori in un’intervista al nostro giornale”. Di Matteo e Messineo, sentiti dal Fatto Quotidiano, si sono detti tranquilli. “Se la notizia (dell’indagine preliminare) fosse vera, si tratterebbe di un fatto riservato, sul quale non posso dire nulla”, ha specificato il procuratore capo di Palermo.

Adesso il sostituto pg Fresa dovrà verificare se Messineo abbia o meno autorizzato il suo sostituto a rilasciare interviste, e se in quelle risposte date a Repubblica Di Matteo abbia o meno violato la riservatezza delle indagini. In caso contrario partirebbe il procedimento disciplinare davanti al Csm. Lo stesso rischio che corre il procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato, incriminato per la sua lettera a Paolo Borsellino, letta in occasione del ventesimo anniversario della strage di via d’Amelio.

Invece i magistrati che fanno? Ha raggiunto ormai quota 400 la raccolta di firme promossa dal pm di Modena Franco Imperato e i giudici Francesco Messina, tribunale di Trani, e Cristina Bertotti, tribunale di Vicenza, per chiedere al Csm il ritiro dell'azione disciplinare contro Roberto Scarpinato. Il 26 luglio 2012 l'Associazione nazionale magistrati aveva espresso "sorpresa e preoccupazione" per l'iniziativa del Consiglio superiore della magistratura sull'apertura di una pratica per il trasferimento d'ufficio del pg di Caltanissetta Roberto Scarpinato in seguito alle parole pronunciate durante il discorso per la commemorazione del giudice Paolo Borsellino il 19 luglio a Palermo. Così è partita una raccolta di firme telematica per sottoscrivere un appello in difesa del procuratore generale.

GLI EROI E L'OMERTA' DELLA CASTA, il pensiero di Carlo Priolo su “L’Opinione. Così ha tuonato il famoso pubblico ministero Scarpinato a Palermo il 19 luglio 2012: «Occorre lavorare perché lo Stato diventi più credibile. Più trascorrono gli anni più è imbarazzante partecipare a queste commemorazioni. Stringe il cuore a vedere persone, le cui vite emanano quel puzzo di compromesso morale che tu Paolo tanto aborrivi. Se fosse possibile verrebbe da chiedere a queste persone di farci la grazia di stare a casa il 19 luglio, di tacere perché le loro parole sanno di una retorica stantia e sono gusci vuoti». Il dottor Roberto Scarpinato, procuratore generale presso la Corte d’appello di Caltanissetta, intervenendo dal palco allestito per le celebrazioni per il ventesimo anniversario della strage di via D’Amelio, ha letto una lunga lettera dedicata al giudice antimafia Paolo Borsellino. «Noi abbiamo raccolto il tuo vessillo - ha concluso il magistrato antimafia rivolgendosi idealmente al giudice Borsellino - perché non finisse sotto le macerie dove volevano seppellirlo quanti trattavano la resa dello stato a Cosa nostra mentre il tuo sangue era ancora fresco».

Con lo stesso giustificato ardore il magistrato Scarpinato dovrebbe parlarci dei suoi colleghi che agiscono in una zona grigia con la mafia e ‘ndrangheta (sono solo i politici ad essere collusi con la criminalità organizzata?), di quelli corrotti che si fanno pagare per emettere una sentenza favorevole, di quelli che tramano contro lo Stato, di quelli che trattano con pezzi deviati delle Istituzioni, di quelli finti che poi tracimano in politica. La categoria, come i sondaggi denunziano, non è credibile per dare lezioni. Fate un bel mea culpa ed aprite gli armadi. Siate severi prima con voi stessi e spietati con quelli appartenenti alla vostra categoria che forse delinquono. Quando vi si chiede di rispondere, come gli altri dei vostri errori, di pagare per le vostre responsabilità, di essere sanzionati quando non siete capaci di assolvere alla vostra funzione non rispondete con il solito ritornello che non si può delegittimare la magistratura. Vi delegittimate da soli. Un lungo elenco di diversamente onesti a partire dall’inchiesta mani pulite ha cadenzato i titoli dei giornali (anche solo per un giorno, trattandosi di magistrati). Corruzione, concussione, vendita delle sentenze, falso in atti giudiziari, giudici tributari arrestati, un vero e proprio mercato delle sentenze. Csm, 1.282 giudici sotto processo; privilegi dei giudici: mille permessi in sei mesi. La giustizia è in crisi, ma per i magistrati abbondano consulenze e incarichi. Pagati extra e ben retribuiti. Il paradosso: un giudice lumaca pagato per insegnare a sveltire i processi. E’ concesso di arrotondare anche a chi ha procedimenti disciplinari in corso. Perché in questo caso la casta di appartenenza si chiude come una sorta di falange impenetrabile, che si autoassolve e si autoconserva. L’elenco completo l’eccellentissimo signor magistrato lo conosce meglio di me e dovrebbe sapere, come sa, che quello che è emerso è solo la punta dell’iceberg. Le parole che l’alto magistrato, forse spinto dall’emozione della circostanza, ha pronunciato segnalano una principesca lontananza dalla effettività, una orgogliosa considerazione del proprio operato personale, pensando erroneamente che tutti gli altri appartenenti alla categoria si siano comportati allo stesso modo. Una pia distorsione del mondo reale, un modo errato di concepire tutti gli appartenenti alla magistratura quali uomini probi, incorruttibili, eroicamente votati al servizio della giustizia. Una posizione ieratica al di sopra del dolore e della gioia del mondo. Beatissimo signor magistrato trovi in sé l’equilibrio della dea Giustizia per poter parlare ai molti con parole di saggezza e comprensione, altrimenti taccia e si limiti a svolgere il suo difficile lavoro. Perché la gente pensa e parla con le parole di coloro che si pongono come esempio, come maestri. Bertolt Brecht: «Tu che sei una guida tale sei perché dubitasti delle guide». Purtroppo, a fronte della conclamata “notte della Giustizia”, fate sentire la vostra invadente voce solo per condannare quelli di una parte, per assolvere quelli dell’altra, per essere inflessibili e zelanti nel difendere alcuni che delinquono e poco accorti ai diritti delle vittime.

Invece di discettare sulla separazione delle carriere, sulla abolizione della progressione automatica, sulla delegittimazione della magistratura, dovreste essere impegnati a rimuovere il volto opaco della giustizia, a ristabilire la fiducia dei cittadini in una giustizia sfigurata, polverizzata, azzerata da decenni di fallimenti, condanne vergognose, processi finiti nel nulla, di inutili convegni, dibattiti, relazioni, documenti, programmi. Sugli schermi appare il volto ieratico del pm Caselli che ci ripropone la granitica impunità dei magistrati e la loro proverbiale infallibilità, che ci delizia con l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, con il rifiuto della separazione delle carriere (30 anni di chiacchiere), con l’obbligatorietà dell’azione penale, stigmatizzando gli attacchi che subiscono i magistrati, unico presidio dello stato di diritto, ignorando che i magistrati capaci lo sono per virtù propria, perché tali sarebbero in ogni campo, come lo sono quelli incapaci, per impreparazione o inettitudine. Al pubblico non interessano i santuari intoccabili della magistratura, le interne vicende della istituzione giudiziaria, la passione delle correnti, le scalate per gli incarichi. Il paese vorrebbe vedere i padroni della giustizia tutti i giorni in prima linea per organizzare una amministrazione della giustizia efficace, efficiente, giusta. Dieci milioni di processi pendenti, venti milioni di cittadini in attesa di giustizia. Dalla attesa colerà il sangue e anche qualcosa di più immondo. E mi chiedo se le celebrazioni, così come organizzate, serviranno a migliorare la credibilità della magistratura italiana. La mia risposta è netta: no. Servirà soltanto a rendere più infernale la bolgia che stiamo vivendo. Bisognerebbe che i magistrati si dessero un po’ meno arie e imparassero ad essere un po’ più veri secondo una misura meno meschina dell’umano. I magistrati eroi morti ammazzati per la causa della giustizia sono un potente alibi per proteggere, assolvere, perdonare, quella moltitudine di magistrati che dovrebbero essere cacciati dalla magistratura dagli stessi magistrati, che diversamente erigono un muro di omertà e malcerta difesa per non delegittimare la categoria, conseguendo un risultato esattamente contrario all’obiettivo. Vi delegittimate da soli. I 20 milioni di cittadini che aspettano giustizia, non vi amano e non vi stimano, sono sfiduciati e delusi.

Un'altra verità viene da Angelo Jannone (Ros): "La verità sulla trattativa Stato-Mafia". L’ex colonnello del Ros racconta a Giacomo Amadori su “Panorama” cosa accadde davvero in Sicilia in quegli anni. Intercettazioni scottanti, magistrati partigiani, ma soprattutto una chiave di lettura sorprendente sulla presunta trattativa Stato-Mafia. Non mancano certo i retroscena su alcuni dei grandi temi dell’attualità giudiziaria nel libro «Eroi silenziosi», scritto dall’ex colonnello del Ros Angelo Jannone, per anni in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata in Calabria e Sicilia. A partire da quando, giovane capitano, sbarcò a Corleone, nella patria di Totò Riina. Un episodio non secondario, visto che proprio quelle indagini avviate da Jannone, contribuirono qualche anno dopo all'arresto del Capo dei capi di Cosa nostra. In «Eroi silenziosi», sottolinea l’autore, però, il protagonista non è chi scrive, ma tutti i carabinieri, i marescialli, i poliziotti ed i magistrati e persino mafiosi, confidenti e faccendieri. Non sempre, anzi quasi mai, noti alle cronache, descritti senza retorica e fuori dai soliti cliché, ma nella loro profonda umanità. Jannone descrive anche le difficoltà delle indagini, i mezzi di fortuna, le auto private utilizzate per i pedinamenti. Quelle storie che nelle fiction non si raccontano mai.

Si scopre così come siano stati approntati i prototipi delle odierne microspie (le prime collegate direttamente agli impianti telefonici) e avviate le indagini su Riina. Tra le pagine emerge anche l'isolamento a cui viene condannato da parte dei suoi stessi colleghi un magistrato come Giovanni Falcone che, rammenta l'autore, «aveva un solo credo: il rispetto della legge, anche quando applicarla poteva essere impopolare».

Jannone, partiamo dall’argomento forse di maggiore attualità: la presunta trattativa tra Stato e mafia per evitare le stragi e gli omicidi dei politici agli inizi degli anni ’90. Lei non sembra credere all’ipotesi di un coinvolgimento del suo ex comandante del Ros, il generale Mario Mori. Non è che il suo giudizio è influenzato dalla vecchia amicizia? Forse. Sa com'è i sentimenti d'affetto incidono (ride). Ma paradossalmente voglio sperare che il quadro accusatorio che si sta costruendo intorno a Mori sia basato su prove granitiche e ineccepibili. Solo in questo caso non perderei la fiducia in uno Stato che indaga, minandone l’onorabilità, con incredibile zelo su alcuni dei suoi migliori e più fedeli servitori. Purtroppo ho motivo di pensare - analizzando atti e fatti disponibili anche su Internet- che gli si stia confezionando un abito sartoriale su misura e che queste misure siano state prese fuori dalle aule, magari facendo una inconsapevole cortesia a Cosa Nostra. E poi ci sono i fatti.

Quali? Ad esempio l'inchiesta Mafia-appalti, all'origine di molti mali del Ros. Anche il boss pentito Giovanni Brusca agli esordi della sua collaborazione aveva dichiarato che delle indagini di Giovanni Falcone preoccupava soprattutto il suo interesse per le commesse pubbliche controllate da Cosa nostra.

Se non erro ne parla nel suo libro...Ricordo che nel ‘94, quando Mori mi volle al Ros intendeva inviarmi a Palermo ove ero richiesto dalla Procura per riprendere le indagini sui rapporti mafia e massoneria e mi disse «non mi dica di no, già i rapporti con la Procura di Palermo sono tesi, sa com'è, l'inchiesta Mafia-appalti a molti non è piaciuta». Forse a troppi. Quel fascicolo minava il core business della Piovra ed i suoi rapporti con grandi imprese e politica.

Nel libro si parla spesso dell’importanza per le sue inchieste delle intercettazioni realizzate in modo artigianale. Che cosa pensa dell’uso che ne fanno oggi magistrati, investigatori e anche i giornalisti? Non possono essere i cronisti a farsi carico del problema e autocensurarsi. Non è neppure un problema di norme. Che esistono. Purtroppo a volte ne viene stravolta l’interpretazioni in nome di una troppo sbandierata e mal intesa «legalità». E così ci si dimentica troppo spesso invece dell’etica e del buon senso. Alla ricerca del sensazionalismo e della ribalta mediatica. In passato, quando gli investigatori investigavano ed i pm controllavano la correttezza del loro operato, i primi capivano da soli se, ad esempio, alcune conversazioni non avevano nulla a che vedere con l'obiettivo dell'indagine. E si annotava semplicemente «non pertinente». Il problema veniva così risolto alla radice, scongiurando il rischio che finissero sui giornali conversazioni piccanti, ma senza valenza processuale.

E perché oggi invece tutte le conversazioni diventano «pertinenti» e quindi pubblicabili? Non escludo che a volte ciò avvenga per la malizia di alcuni magistrati inquirenti che lasciano trascrivere o dispongono che venga trascritto tutto nelle informative, sapendo perfettamente che ci sarà un momento in cui quegli atti diventeranno pubblici.

Secondo lei perché è venuta meno la funzione di controllo di molti inquirenti? Forse perché vi è un’eccessiva commistione tra media e ambienti giudiziari. Un sintomo? informative della polizia giudiziaria e atti processuali mutuano termini giornalistici come «inquietanti» o «pezzi deviati» o «rumors». Una volta si soppesavano le singole parole contenute negli atti processuali, per non metterne a rischio la credibilità. Ciò che si scriveva era la fotografia fedele di quanto le indagini portavano alla luce. Oggi le informative e le ordinanze sembrano scritte per un copia e incolla sui giornali. I capiredattori devono solo scegliere un titolo ad effetto. Ma a volte anche quello è un bel «virgolettato» estrapolato dalle carte giudiziarie.

Di chi è la colpa? Le faccio io una domanda: lei si immagina magistrati come Falcone o Paolo Borsellino a scrivere una prefazione ad un libro scritto da un giornalista, che anticipa un'inchiesta giudiziaria di quello stesso pm?

A chi si riferisce? Al procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia che ha scritto la prefazione del libro «La Trattativa», di Maurizio Torrealta, per esempio. Ma anche a quei pubblici ministeri promotori di siti Internet a difesa della credibilità dei testimoni che utilizzano per le loro inchieste.

In questo secondo caso di chi parla? Qui dovrei darle una risposta forse troppo articolata. Preferisco sottolineare che ci sono uomini accusati sul nulla e che chi li accusa viene protetto in tutte le sedi, anche quelle in quelle non istituzionali, persino sul web. Per carità, il mondo è bello perché è vario, ma allora non ci deve sorprendere che la terzietà dei magistrati venga talvolta messa in discussione. Che senso allora continuare ad avere nel codice norme ipocrite che prevedano, ad esempio, che il «pm svolga indagini a favore dell'indagato»?

Nel suo libro rivela come le intercettazioni non sempre abbiano lo stesso peso... Direi che le indagini non sempre hanno lo stesso peso. Le faccio un esempio. Dalle ambientali commissionate da Falcone a casa delle sorelle di Leoluca Bagarella a Corleone saltarono fuori i nomi di due magistrati. A loro i famigliari di Bagarella avrebbero dovuto rivolgersi, attraverso Giovanni Brusca o Francesco Madonia, per far ottenere dei benefici al congiunto, appena scarcerato, ma con il divieto di soggiorno in Sicilia. Quelle conversazioni furono trasmesse per competenza alla procura di Caltanissetta, ma nell’imminenza della partenza di Falcone per Roma, fui convocato da un magistrato della città nissena che mi chiese un avvallo per tenere sottochiave quel fascicolo, «per non compromettere le ricerche di Riina» mi disse. Per rispetto delle gerarchia e della funzione, da buon carabiniere, gli risposi che il pubblico ministero era lui e che quindi avrebbe dovuto fare quello che riteneva in coscienza più opportuno. Su quelle conversazioni non ci fu nessuno sviluppo investigativo. Perché secondo lei? Vorrei evitare i giudizi personali, ma se confronto questo episodio con casi in cui eccellenti investigatori, ma anche politici di primo piano, sono stati infangati e lo sono tutt’oggi per dichiarazioni generiche di pentiti o di testimoni di giustizia, c’è di che sconfortarsi.

Un popolo vittima di pregiudizi frutto di retaggio culturale o un popolo vittima di auto fustigazione ed autocommiserazione? Prendiamo per esempio quanto raccontato da Matteo Sacchi su “Il Giornale”, quotidiano notoriamente antimeridionalista. Parole scomode da un viaggio scomodo. Una cronaca feroce dei mali del Sud Italia, che non fa sconti. La comprensibile rabbia di chi non vuol vedersi raccontare così. E lo scrittore che, per amor di verità decide di non scusarsi: «Se volete fare come gli struzzi, affar vostro». Ecco la vicenda quasi dimenticata che riemerge oggi grazie alla pubblicazione, sul Quotidiano della Calabria, di una lettera inedita di Pier Paolo Pasolini, datata 1 ottobre 1959. Era indirizzata all'ufficiale sanitario del comune di Paola (Cosenza) Pasquale Nicolini. Era stato Nicolini a mandare per primo una missiva a Pasolini. Sulla rivista "Successo" era stato da poco pubblicato La lunga strada di sabbia, un reportage on the road compiuto da Pasolini a bordo di una Fiat 1100 lungo la costa calabrese. Parlando di Cutro (città nella quale anni dopo lo scrittore girò alcune scene del Vangelo secondo Matteo), Pasolini scriveva: «è veramente il paese dei banditi, come si vede in certi film western. Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge, dalla cultura del nostro mondo». Dopo l'uscita del reportage, Nicolini, «un medico - scrive il Quotidiano della Calabria - che considerava la sua professione una missione» inviò una lettera all'intellettuale per capire come mai il suo giudizio fosse così duro. Ecco la risposta sino ad oggi rimasta sconosciuta: «I banditi mi sono molto simpatici. Quindi da parte mia non c'era la minima intenzione di offendere i calabresi e Cutro. Comunque, non so tirare pietosi veli sulla realtà: e anche se i banditi li avessi odiati non avrei potuto fare a meno di dire che Cutro è una zona pericolosa, ancora in parte fuori legge: tanto è vero che i calabresi stessi, della zona, consigliano di non passare per quelle famose dune giallastre durante la notte. Quanto alla miseria, non vedo perché ci sia da vergognarsene. Non è colpa vostra se siete poveri ma dei governi che si sono succeduti da secoli, fino a questo compreso. E quanto ai ladri, infine: non mi riferivo particolarmente alla Calabria, ma a tutto il sud. Sono stato derubato tre volte: a Catania, Taranto e Brindisi». E ancora: «Questi sono dati della vostra realtà... Mi dispiace dell'equivoco: non si tiene mai abbastanza conto del vostro complesso di inferiorità, della vostra psicologia patologica... Tutto ciò è storicamente e socialmente giustificato. E io non vi consiglierei di cercare consolazioni in un passato idealizzato e definitivamente remoto: l'unico modo per consolarsi è lottare, e per lottare bisogna guardare in faccia la realtà». Ma a risentirsi non fu solo Nicolini. A rileggere le cronache del tempo si scopre che il comune di Cutro presentò querela alla Procura di Milano: «la reputazione, l'onore, il decoro, la dignità delle laboriose popolazioni di Cutro sono stati evidentemente e gravemente calpestati... le dune gialle, altro termine africano usato da Pasolini, sono punteggiate da centinaia di case linde, policrome, gaie... Cutro... guadagna il pane col sudore della propria fronte, e non scrivendo articoli diffamatori...». E le polemiche aumentarono d'intensità quando poi, proprio quell'anno, Pasolini vinse il premio Crotone (la giuria, composta tra gli altri da Bassani, Gadda, Moravia, Ugaretti e Repaci aveva assegnato il premio a Pasolini per il romanzo "Una vita violenta"). Insomma Pasolini, amandolo, vedeva il Sud com'era. Ma il Sud allora non aveva voglia di sentirselo dire. Oggi?

"Molti anni fa, per noi cronisti arrivati dal nord la Sicilia era sempre fonte di sorprese. Pensavamo di conoscere tutto della mafia e invece non sapevamo nulla. Infatti si scopriva che Cosa nostra stava dovunque, anche dentro i palazzi del potere. E rendeva quasi impossibile la vita e il lavoro di chi faceva il sindaco di città decisive. Sia pure in modo diverso, costoro erano dei cristi in croce, ma spesso felici di essere crocefissi. Appartenevano tutti alla Balena democristiana come il primo cittadino di Palermo che incontrai nel settembre 1969. Si chiamava Franco Spagnolo, 49 anni, già intendente di finanza, un monarchico poi diventato diccì. Un uomo seduto sulla poltrona di Palazzo delle Aquile da appena undici mesi e forse già pentito di aver conquistato quell’incarico", racconta Giampaolo Pansa su "Libero". Ed è proprio nel ricordo di quanto accadeva decenni fa che Pansa, tra corsi e ricorsi storici, trova una chiave ai disastri della Sicilia di oggi: la Palermo di 40 anni fa è lo specchio del disastro odierno. Debiti milionari, sperpero di soldi pubblici, esercito di assunti nullafacenti: le ferite del capoluogo non si sono rimarginate, infettando la Sicilia intera.

Già, Palermo di 40 anni fa. Ma l'Italia di 40 anni fa è come l'Italia di oggi?

Dopo le polemiche ecco l'attacco frontale di Giorgio Napolitano contro i giudici di Palermo. Il Capo dello Stato ha infatti posto la sua firma al decreto con cui affida all'Avvocatura dello Stato l'incarico di sollevare il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Il Quirinale, in buona sostanza, si scaglia contro le toghe di Palermo, nello specifico contro il pm Antonio Ingroia, in relazione alla vicenda delle telefonate intercettate tra il consigliere del presidente per gli Affari giuridici, Loris D'Ambrosio, e l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino. La questione è sempre quella relativa alla presunta trattativa tra Stato e mafia negli anni 90. Nel corso dell'attività di intercettazione, secondo quanto si è appreso, ci sarebbero state un paio di telefonate tra Mancino e il presidente della Repubblica, comunicazioni che teoricamente avrebbero dovuto essere distrutte, un provvedimento che però il procuratore del capoluogo siciliano Francesco Messineo non ha ancora disposto. A questo punto a giudicare sul conflitto sarà la Corte Costituzionale. Sorprende però la veemenza della risposta di Giorgio Napolitano, sempre schierato in prima linea nella difesa delle intercettazioni come mezzo di indagine, in particolare nei giorni di quella che veniva chiamata "legge bavaglio", proposta dall'esecutivo Berlusconi, e che mirava a riorganizzare lo smodato ricorso alle intercettazioni telefoniche. La presa di posizione del Capo dello Stato viene spiegata in un comunicato stampa diffuso proprio dal Quirinale: "Alla determinazione di sollevare il conflitto, il presidente Napolitano è pervenuto ritenendo dovere del presidente della Repubblica, secondo l'insegnamento di Luigi Einaudi, evitare si pongano nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell'occorso, precedenti grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce".

Saltando da palo in frasca non si può non andare da un comunista ad un altro. Il ricordo di Falcone e Borsellino. Il nuovo incarico all'Onu. Il governo tecnico e la lotta alla criminalità. Antonio Ingroia, al centro delle polemiche sulle intercettazioni nell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, ha incontrato i ragazzi di Pdci e Prc che a Otranto hanno organizzato la loro festa-campeggio. Per parlare di lotta alla mafia, naturalmente da comunista. E anche di politica, naturalmente da comunista. Insieme a Orazio Licandro, ex deputato siciliano del Pdci e componente della commissione Antimafia. Ingroia ha ricordato il proprio passato nel centro Peppino Impastato, da giovane studente "impegnato" e poi gli esordi da magistrato con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mentre Licandro ha raccontato le peripezie dell'ultimo incontro col magistrato: "Qualche settimana fa ci incontrammo mezz'ora a Roma davanti a Montecitorio. La piazza era blindata, si approvava la riforma Fornero. Appena rientrai nella camera d'albergo proprio lì davanti scoprii che mi avevano rubato il pc e le chiavette, che strano...". Il Magistrato ha rilasciato un'intervista a Matteo Pucciarelli su “La Repubblica”:

Procuratore, la scelta di accettare l'offerta Onu per un anno di lavoro in Guatemala è una scelta legata alle polemiche sulla trattativa Stato-mafia? Perché solo poco tempo fa aveva negato la notizia di un suo eventuale e momentaneo abbandono della procura di Palermo. «Da diversi mesi curo rapporti di lavoro con il centro America. La proposta mi era stata fatta qualche mese fa, ma avevo chiesto tempo per concludere le indagini sulla trattativa tra Stato e mafia. L'antimafia si può e si deve sviluppare sempre più a livello globale e un incarico del genere può aiutarmi a sviluppare maggiori competenze e a coordinare meglio le indagini tra diversi paesi. Non nego ci sia una componente personale in questa scelta, nel senso che cambiare ogni tanto fa bene ed è stimolante. E sono cosciente che forse lasciare l'Italia per un po' possa allentare la pressione su Palermo, vista la campagna di stampa che ci ha investito soprattutto negli ultimi tempi e che rischia di mettere in cattiva luce le indagini finora svolte dal mio ufficio. Poi devo fare una constatazione amara: all'estero si è più apprezzati».

Due giorni fa Pierferdinando Casini ha detto che non si farebbe giudicare da lei. Si sente delegittimato da queste valutazioni? «Mi sono sentito offeso, questo sì. Anche se sono abituato ormai. Casini ripete a pappagallo le frasi dei Cicchitto e dei Gasparri e in passato ha detto anche di peggio sulle nostre indagini. Tra l'altro non sa di cosa parla, perché sono un pm e non un giudice. Siamo a un livello di imbarbarimento altissimo: in altre democrazie i politici non si permettono di esprimere giudizi di questo genere su chi fa solo il proprio lavoro cercando la verità su vicende oscure della nostra storia».

Gian Carlo Caselli ha parlato di una guerra in atto contro la procura di Palermo. Ha spiegato che attaccano lei per puntare al lavoro di tutto il pool. L'iniziativa del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con il ricorso alla Consulta sulle intercettazioni indirette che lo riguardano e che voi avete fatto, rientra in questa guerra? «No, Napolitano ha agito secondo le prerogative che gli spettano. Allo stesso tempo sono convinto di aver agito secondo le norme. Qualche commentatore ha spiegato che c'erano delle ragione di opportunità che dovevamo considerare, ma nel nostro lavoro non può esistere un criterio discrezionale su ciò che è opportuno o meno, così facendo entreremmo in un campo pericoloso: il principio di uguaglianza davanti alla legge comporta il fatto che un magistrato agisca secondo la legge, senza fare altre valutazioni e senza favorire nessuno. Sono rammaricato per lo scontro istituzionale. Però le parole di Napolitano sulla trattativa Stato-mafia e sulla necessità di scoprire la verità mi hanno fatto molto piacere e le sottoscrivo in pieno».

Ma c'è qualche possibilità che queste intercettazioni diventino mai di dominio pubblico? Cioè che finiscano sui giornali? "Mi dispiace deluderla (sorride) ma no, sono irrilevanti e verranno distrutte».

Berlusconi ha annunciato la sua candidatura a presidente del Consiglio, per la sesta volta. L'ex premier ripete spesso che il lavoro svolto dal suo governo contro la mafia non ha eguali. È così? «Per prima cosa dobbiamo ricordare che la mafia non è in ginocchio come si vorrebbe far credere. Anzi. L'epicentro della criminalità organizzata adesso è la Lombardia e gli intrecci col mondo economico sono quanto mai forti e intricati. Rilevo comunque che durante gli anni del centrodestra la legislazione antimafia è stata smantellata passo dopo passo. Ci sono stati dei risultati dal punto di vista repressivo, ma il merito è stato delle forze dell'ordine: non si capisce perché l'arresto di un latitante debba essere un trofeo da esporre per un governo. Vorrei aggiungere: doppio merito per le forze dell'ordine, perché in questi anni le risorse sono state tagliate a più riprese. Certe uscite sono assai propagandistiche».

Da quando si è instaurato il governo tecnico si sono fatti dei passi avanti nella lotta alla mafia? «Sì. Si è rasserenato il clima, si è rinunciato alle controriforme più ostili verso la magistratura. E anche la riforma delle circoscrizioni giuridiche mi pare un ottimo provvedimento. Poi non mi aspetto certamente grandi rivoluzioni, questo governo è pur sempre sostenuto da chi c'era prima. Per il futuro, il grande lavoro da fare è accorciare i tempi del processo e allungare la prescrizione, visto che finora per non essere giudicati si punta sempre a far saltare i procedimenti».

E per quanto riguarda le intercettazioni? «Se ne può certamente parlare, soprattutto per quanto riguarda la privacy, cioè l'uscita sui giornali di trascrizioni che c'entrano poco con le indagini. A patto che il dialogo sia costruttivo e che non si cavalchino strumentalmente casi come quello legato al presidente della Repubblica».

Giovedì si commemorava la strage di via D'Amelio. La sorella di Maria Falcone ha pronunciato queste parole: "Ingroia non sa cosa si prova ad essere Falcone. Ingroia deve capire che ha alle spalle tutta una società che lo appoggia. Mio fratello non l'aveva". Cosa ne pensa di queste parole? «È vero che Falcone subì un isolamento peggiore, in generale. Però le difficoltà che incontriamo nei rapporti con le istituzioni politiche sono simili a quelle che trovò Falcone. Ed è vero che l'antimafia oggi sia molto più forte di allora, ma non bisogna scordare la presenza forte e diffuso dell'altra Italia, quella delle convivenze, connivenze e contiguità con il mondo criminale».

Prima il congresso, poi qui con i giovani. Quando Fantozzi fece questa domanda al capo supremo della ditta tremò la terra: ma non sarà mica che lei è comunista? «La formula "mi avvalgo della facoltà di non rispondere" si può utilizzare? Sento di avere il diritto e il dovere di intervenire anche pubblicamente in difesa della Costituzione. Chi lo fa in Italia viene automaticamente bollato come "comunista". Io mi reputo semplicemente consapevole. Se poi pensare con la propria testa significa dirsi comunista, allora sì, in questo senso sono comunista». (Licandro è lì, alla domanda sul come vedrebbe un futuro in politica del magistrato scherza: "Ma qui o in Guatemala?". Poi risponde seriamente: "Di sicuro una persona come Ingroia la voterei volentieri, ma è una scelta che eventualmente farà lui. Se poi in futuro facesse questo passo e magari nel partito che dico io ne sarei molto felice").

Ma perché tanto scalpore sulle intercettazioni? Secondo Pierangelo Maurizio su “Libero Quotidiano”, però, le informative della Polizia al governo dimostrano con evidenza lampante che la trattativa c'è stata. No, non c’era bisogno delle intercettazioni effettuate di rimbalzo dalla procura di Palermo anche sulle utenze del Quirinale, e del Presidente Napolitano, per avere certezze sulla trattativa tra Stato e mafia ai tempi delle bombe targate Cosa nostra nell’estate del ’93. E questa volta la trattativa va scritta senza virgolette e senza l’aggettivo presunta. Perché apertamente si parla di trattativa, poco dopo le stragi di Milano e di Roma avvenute nella notte tra il 27 e il 28 luglio ’93. Ne parla in un’ampia nota il 10 agosto ’93 l’allora direttore della Dia, la Direzione investigativa antimafia, Gianni De Gennaro, futuro capo della polizia e attuale sottosegretario con delega ai servizi segreti nel governo Monti. La relazione di De Gennaro a leggerla oggi colpisce per l’acutezza e l’ampiezza dell’analisi, per la ricchezza di informazioni ottenute anche come «informazioni fiduciarie» (da informatori? pentiti? infiltrati?). Colpisce anche per la differenza con gli altri rapporti di quell’agosto. Nell’estate in cui lo Stato era in guerra e sembrava in ginocchio i resoconti degli altri organi investigativi – quello del Cesis, ad esempio, l’organo di coordinamento dei servizi – oltre a cercare di mettere insieme le tessere del ricatto mettono tutti, al massimo, in stretta relazione il 41 bis, il carcere duro, e le cinque bombe esplose dal maggio al luglio ’93 (tre a Roma, una Firenze e una a Milano). La Dia si spinge decisamente più in là. Il documento lascia un po’ in secondo piano il 41 bis e traccia uno scenario di continuità tra le stragi del ’92 (stragi di Capaci e di Via D’Amelio), risposta alle condanne del maxiprocesso, e le bombe del ’93 (ma questa continuità è tutta da dimostrare). Dice che se la mano è di Cosa nostra si intravede l’intervento di «altre forze criminali in grado di elaborare quei sofisticati progetti», tanto più che chi ha pianificato quella campagna di attentati «dimostra una dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione» oltre che «la capacità di sondare gli ambienti politici» e i segnali che arrivano da lì. Tira in ballo la massoneria. Annota che, dall’omicidio Lima, Cosa nostra ha rotto con i referenti politici tradizionali e «ha iniziato, forse, a ricercare nuovi interlocutori…». Ecco, questo «forse» è la matrice di tutte le inchieste che dal ’96, prendendo lo spunto dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca, avvia la Procura di Palermo guardando verso Berlusconi, Forza Italia e il centrodestra. Ma c’è da chiedersi, dopo vent’anni di silenzi e/o bugie, se la direzione giusta in cui cercare sia per caso quella opposta. Ma quello che qui interessa è la parola «trattativa», spuntata nell’agosto ’93. Ecco il passo della nota della Dia: dalle pesanti restrizioni della vita carceraria «è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado di indurre le Istituzioni ad una tacita trattativa». Non è un’ipotesi, il «dialogo» tra Stato e boss è in atto. L’«appunto De Gennaro» viene inviato al ministro dell’Interno Nicola Mancino (anzi, un’annotazione a mano sulla prima pagina precisa «consegnato a mano al signor Ministro 11/9/1993»). È difficile capire come Mancino possa ripetere da anni di non aver mai sentito parlare di trattativa. Ma l’appunto da Mancino viene trasmesso anche al presidente della Commissione antimafia, Luciano Violante, su sua richiesta, il 14 settembre ’93. De Gennaro il 10 agosto ha scritto anche testualmente: «Partendo da tali premesse è chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla “stagione delle bombe”…». Quando, di lì a tre mesi, il ministro Conso «in sofferta solitudine» lasciò cadere il carcere duro per centinaia di mafiosi, i destinatari di questo appunto che cosa avranno pensato? E che cosa hanno fatto per ostacolare e denunciare il cedimento dello Stato (che evidentemente era già nell’aria ad agosto)? Ma Violante, sempre il 14 settembre ’93, chiede (chi lo informa?) e ottiene anche la nota sugli attentati predisposta l’8 settembre dallo Sco, il Servizio centrale operativo, sempre della polizia. Lo Sco addirittura scrive di una «trattativa» (questa volta vengono messe le virgolette), «per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa nostra anche canali istituzionali». Anche in questo caso si fa riferimento a fonti confidenziali. A questo punto il presidente dell’Antimafia, Violante, è colui, per tabulas, che ha sotto gli occhi la situazione completa. Perché nel dicembre del ’93, sempre su sua richiesta, riceve dal ministro Conso altra posta. È «l’appunto» con cui Adalberto Capriotti, neo direttore del Dap (Dipartimento amministrazione carceraria), spiega per filo e per segno come vengono lasciati decadere centinaia di 41 bis. Tre le ipotesi. O Violante chiedeva note che poi non leggeva. Oppure chiedeva note che poi cancellava. Oppure chiedeva note che poi chiudeva in un cassetto in attesa che il popolo fosse pronto per la lettura.

Una domanda si pone Giovanni Fasanella su “Panorama”: Paolo Borsellino fu assassinato perché era contrario alla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, secondo l’ipotesi al centro della nuova inchiesta siciliana, o piuttosto perché intendeva proseguire l’indagine di Giovanni Falcone e dei Ros su mafia e appalti? E chi fu a “tradirlo”: l’allora comandante del Ros generale Antonio Subranni, secondo l’accusa un «punciuto», un affiliato a Cosa nostra, o piuttosto chi non lo avvertì che la mafia aveva deciso di assassinarlo? Le risposte a queste due domande è possibile trovarle a partire dalle stesse carte dei magistrati siciliani. Basta leggerle con attenzione, ricostruendo ciò che accadde tra il 19 giugno e il 19 luglio 1992, nell’ultimo mese di vita di Borsellino. Ecco.

19 giugno. Il generale Subranni e il suo più stretto collaboratore, colonnello Mario Mori, ricevono da una fonte confidenziale la notizia che Cosa nostra ha intenzione di assassinare Borsellino e altri personaggi: il ministro socialista della Difesa Salvo Andò, il parlamentare democristiano Calogero Mannino, due ufficiali dei carabinieri, Umberto Sinico e Carmelo Canale. Subranni e Mori informano immediatamente Borsellino attraverso due ufficiali del Ros: il maggiore Felice Ierfone e lo stesso capitano Sinico. Lo stesso giorno, il generale Subranni invia un rapporto al comando generale dell’Arma, invitandolo ad avvertire subito anche i ministeri della Difesa, dell’Interno e della Giustizia, perché a loro volta allertino le autorità competenti, cioè la procura di Palermo.

25 giugno. Borsellino incontra Mori e il capitano Giuseppe De Donno, invitandoli a proseguire l’inchiesta su mafia e appalti che Falcone aveva avviato prima di lasciare Palermo per trasferirsi a Roma (morirà nella strage di Capaci il 23 maggio 1992).

26-27 giugno. Borsellino è a Giovinazzo, in provincia di Bari. Partecipa a un convegno di Magistratura indipendente, la corrente di cui fa parte. In quell’occasione, incontra Diego Cavaliero, un suo amico, che lo vede preoccupato e gli domanda se qualcosa non va. Ma il giudice ma non gli dice nulla.

28 giugno. All’aeroporto di Fiumicino, Borsellino incontra Liliana Ferraro, direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, la quale gli riferisce che De Donno è passato a salutarla e le ha parlato del tentativo del Ros di contattare Vito Ciancimino per convicenrlo a collaborare ed avere una fonte di altissimo livello dentro la famiglia dei “corleonesi”. Il giudice «ne prende atto senza commento», dice la Ferraro. In quella stessa occasione, all’aeroporto di Roma, Borsellino incontra anche il ministro della Difesa Salvo Andò, il quale gli dice delle minacce di Cosa nostra. E’ una delle prove che il Comando generale dell’Arma ha avvertito il governo.

1 luglio. Borsellino interroga Gaspare Mutolo, il quale ha chiesto espressamente di parlare con lui. Il boss gli rivela che Bruno Contrada e il pm Domenico Signorino, che era amico di Borsellino, «sono collusi». Signorino si suiciderà qualche mese più tardi sparandosi un colpo di pistola alla tempia.

1 luglio. Nel pomeriggio, Borsellino è al Viminale per l’insediamento del nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino. Ci sono anche Contrada, il capo della Polizia Vincenzo Parisi ed altri magistrati. «Ma non è contento?», gli chiederà dopo Mutolo. «No, perché ho visto Contrada», risponderà il magistrato.

15-16 luglio. Borsellino ha incontrato nuovamente Parisi e un suo collaboratore, il Prefetto Luigi Rossi. E in quei due giorni ha due appuntamenti importanti. A colazione vede il superpoliziotto Gianni De Gennaro. E cena, vede l’onorevole socialdemocratico Carlo Vizzini e due colleghi magistrati siciliani, Gioacchino Natoli e Guido Lo Forte.

17 luglio. Borsellino telefona al procuratore della Repubblica di Palermo Piero Giammanco ed ha con lui un confronto durissimo in cui lo accusa di non averlo avvertito delle minacce di Cosa nostra, secondo la testimonianza della moglie di Borsellino ai procuratori Antonio Ingoia e Nino Di Matteo.

19 luglio. Borsellino viene assassinato in via D’Amelio, a Palermo. In tutti quegli incontri, alcuni anche di carattere istituzionali, nessuno, tranne Andò, gli aveva detto una sola parola sul pericolo che Borsellino correva. Nè lui aveva mai parlato di trattativa Stato-mafia, ma sempre e solo di inchiesta su mafia e appalti. Una domanda è d’obbligo: se avesse saputo della trattativa, un magistrato come Borsellino se ne sarebbe rimasto con le mani in mano o avrebbe subito aperto un procedimento penale? Di sicuro, non fece nulla. E la ragione più plausibile è che non ne sapesse nulla. Le notizie degli obiettivi che la mafia intendeva colpire provenivano da una fonte confidenziale del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo, un boss mafioso detenuto nel carcere di Fossombrone. Il 23 febbraio 1995, durante una puntata della trasmissione "Tempo reale" di Michele Santoro, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, allora uno dei dirigenti della Rete, e il sindaco di Terrasini Manlio Mele, anche lui della Rete, accusarono pubblicamente il sottufficiale di collusione con Cosa Nostra. Due settimane dopo, il 4 marzo, Lombardo si uccise: per difendere il proprio onore.

MAFIA ED ANTIMAFIA, UN RITORNELLO CHE RITORNA.

La verità è uno strumento indispensabile perché permanga tra gli umani una passione di giustizia". A vent'anni dalla simbolica e tragica morte di Paolo Borsellino e della sua scorta in via d'Amelio a Palermo mi sembra giusta riproporre e rileggere una polemica che vide contrapposti lo scrittore Leonardo Sciascia ed il magistrato ucciso dalla mafia con la complicità di pezzi dello Stato. Lo facciamo con il pensiero di Paride Leporace. Questa è la storia di un paradosso siciliano che nasce nella redazione del principale quotidiano italiano e che apre una contesa che dura ancora oggi, anche se molti confondono fatti e personaggi. Paolo Borsellino si oppose a qualunque trattativa con Cosa Nostra. Leonardo Sciascia ben prima degli altri fece comprendere come la mafia non fosse solo un fenomeno siciliano. Tutto nasce grazie un redattore culturale che oggi gode di ottima fama, Riccardo Chiaberge. Nel gennaio del 1987 deve impaginare un articolo di uno degli intellettuali di punta del Corriere della Sera. Leonardo Sciascia ha trattato il suo ragionamento a partire delle lettura di un saggio pubblicato da una piccola casa editrice calabrese, la Rubettino di Soveria Mannelli, che proprio grazie a questa celebre polemica assurgerà da allora a notorietà nazionale. "La mafia durante il Fascismo" è un volume scritto da Christopher Duggan, un allievo dell'autorevole storico Denis Mack Smith, autore della prefazione in cui offre la chiave di lettura sulla paradigmatica vicenda del prefetto Mori, passato alla storia come "Prefetto di ferro". Il saggio non spiega la "mafia in sé" ma si sofferma su quel che "si pensava la mafia fosse e perché". Sciascia nel suo articolo sa di scrivere questioni eretiche. Infatti nell'attacco del pezzo pone due autocitazioni tratte da suoi due celebri romanzi sulla mafia siciliana: "Il giorno della civetta" e "A ciascuno il suo". Mossa preventiva per ammonire le critiche che arriveranno da "quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo che non costa nulla e che i milanesi dopo le Cinque giornate, denomineranno eroi della Sesta". Deve argomentare di mafia e antimafia Sciascia. Con lessico e documentazione da par suo. Raccontando per esempio di un capitolo scomparso di una piece sulla mafia di Don Sturzo e poi riadattata con finale positivo da Diego Fabbri. La morale di fondo dell'articolo è che anche l'antimafia è uno strumento di potere. Per rafforzare la sua tesi Sciascia conclude il suo articolo traendo spunto dalla cronaca. Pur senza citarlo Sciascia mette alla berlina Leoluca Orlando ("sindaco che per sentimento o per calcolo comincia ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso"). Lo scrittore lancia una previsione: chi si opporrà a lui in consiglio comunale o nel partito sarà giudicato un mafioso. Se sul sindaco l'esempio è considerato ipotetico, sulla magistratura Sciascia si poggia su un dato che considera "attuale ed effettuale". La parte finale del lungo articolo si conclude con la pubblicazione di uno stralcio del Notiziario straordinario del Csm che in burocratese stretto comunica l'esito dell'assegnazione del posto di procuratore capo di Marsala a Paolo Borsellino alla luce "della particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare". L'illuminista Sciascia fa a pezzi la prosa ministeriale giudiziaria dell'intero passo e non si accorge di essere finito tra i conservatori difendendo il concetto di anzianità per la nomina al Csm fino a quel momento imperante a Palazzo dei Marescialli. Scrive Sciascia: "I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso". E' periodo caldo in Italia su quel fronte. Si attende la sentenza del maxiprocesso a Palermo istruito dal pool di Caponnetto. Chiaberge legge il contenuto e conia un titolo che resterà a futura memoria per usare una frase sciasciana: "I professionisti dell'Antimafia". Oggi, con il senno del poi, il celebre giornalista Chiaberge si pente di quella titolazione, come ha dichiarato in un'intervista del 2004 alla rivista "Scriptamanent" e in seguito ripresa dal sito "Bottegaeditoriale.it". Perché quel titolo come ben sappiamo è diventato uno slogan adoperato da uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglia in culo e quaquaraquà per screditare la magistratura antimafia che fa il suo dovere. Esplode una furibonda polemica con parole di fuoco da parte di Nando Della Chiesa, figlio del generale ucciso dalla mafia a Palermo, ma non è da meno neanche Giampaolo Pansa su Repubblica. La polemica consegna comunque notorietà negativa ad un serio magistrato come Paolo Borsellino che certamente non meritava una gogna mediatica di questo tipo. Per giunta firmata dall'intellettuale che con i suoi romanzi fino a quel momento aveva meglio svelato storia e natura psicologica della mafia. Un opinion leader che spesso al Paese aveva dato quella morale che la politica non aveva saputo mai far diventare senso comune. Borsellino si sentì molto ferito da quell'articolo. Anche per il magistrato il maestro di Racalmuto era stato un padre intellettuale. Sciascia con quella riflessione aveva procurato un vestito nobile a tutti i politici collusi con la mafia e ai professionisti della disinformazione che da allora potranno farsi scudo con l'ormai celebre definizione sintetizzata dal titolo di Chiaberge. Sciascia molto malato in quel periodo, aveva raccolto una soffiata da ambienti socialisti e radicali, impegnati in quella fase sul caso Tortora e sulla campagna sulla giustizia giusta. Sciascia, garantista autentico e disinteressato, evidentemente si era lasciato coinvolgere da suggeritori interessati. Lo comprenderà lo scrittore e in un'intervista alla rivista "Segno" correggerà la rotta nei confronti del magistrato. I due s'incontreranno per un chiarimento. Sciascia dirà personalmente a Borsellino, (che non conosceva quando scrive l'articolo), nel corso di un colloquio molto cordiale, che era stato ingiusto personalizzare sulla sua nomina e chiede scusa dell'accaduto. Borsellino nei giorni della polemica aveva detto alla sorella Rita: "Non posso prendermela con Sciascia, è troppo grande. Sono cresciuto con i suoi libri. E' stato malconsigliato e manovrato". Giuseppe Ayala in un libro di memorie sostiene che quell'articolo era giusto nei contenuti ma l'esempio su Borsellino profondamente sbagliato. Una tesi su cui concorda il giornalista e scrittore Alexander Stille: "Non era giusto mettere sullo stesso piano due figure diverse come Orlando e Borsellino". Un conto era la retorica della politica, un altro l'impegno giudiziario nella trincea infuocata della procura di Palermo. Tra l'altro Borsellino abbandonava la sua città per andare a lavorare in un difficile posto di provincia come Marsala. Aumentava le sue spese personali visto che era costretto a prendere in fitto un piccolo appartamento vicino il commissariato di Marsala recandosi a Palermo dalla famiglia solo nel fine settimana. Quindi il successo alla fine comportava per lui anche sacrifici economici e personali. Il vero successo è determinato dalla polemica che si apre sui giornali anche con grandi confusioni. Borsellino assunse un tono nobile ma fermo. In un'intervista rilasciata a Felice Cavallaro del Corriere della Sera, il neoprocuratore di Marsala che conquista all'epoca in maniera non voluta la scena nazionale, afferma: "Nutro preoccupazione per i segni di cedimento che avvertiamo in Sicilia. E' pernicioso che si allenti, adesso, la tensione, in qualsiasi modo e da qualsiasi parte. Non si è ancora capito che questo è un momento delicatissimo della lotta alla mafia". In molti infatti cominciavano a cambiare atteggiamento. Anche a Palermo il cardinale Pappalardo, il prelato delle omelie segnanti ai grandi funerali di Stato, aveva messo in guardia sulla spettacolarizzazione del maxiprocesso e aveva fatto riflessione sul fatto che l'aborto ammazza più innocenti della mafia. Nella stessa intervista Borsellino approfittava per informare gli italiani del suo curriculum di magistrato: "Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno". In quei giorni la polemica dimentica infatti i molti magistrati che avevano dato la loro vita nella lotta senza mediazioni contro la mafia. Il direttore del Corriere della Sera, il liberale Piero Ostellino, prima di lasciare il giornale nel suo ultimo editoriale difese lo scrittore e sostenne: "L'antimafia rischia di trasformarsi in una sorta di mafia, sia pure di segno contrario". Oggi sappiamo qualcosa in più sulla vicenda grazie ad una testimonianza affidata da Ostellino al volume curato da Antonio Motta, "Leonardo Sciascia vent'anni dopo". L'ex direttore del Corsera ricorda che quell'articolo metteva in evidenza i pericoli del "pensiero unico" sulla mafia considerato che chi non la pensava come i "professionisti" veniva giudicato come alleato "oggettivo" della mafia. Gli attacchi che hanno ricevuto Ostellino e Sciascia sono giudicati dal giornalista come "una porcata tipica di bigotti e farisei". Oggi Piero Ostellino ci fa sapere che dopo il suo abbandono Sciascia fu spinto a lasciare via Solferino approdando a La Stampa. Scrive Ostellino nella sua nota: "Il responsabile non fu il nuovo direttore, Ugo Stille, che di fatto manco si occupava della fattura del giornale, ma chi, dietro le quinte, ne dettava la linea, il classico radical-chic. Del quale non faccio il nome per carità cristiana e perché non mi piace criticare chi non può replicare perché è morto". Confesso che non riesco a capire chi è stato l'autore dello scempio. Mi resta da ricordare che Borsellino tornerà con la memoria a quell'episodio durante i drammatici 57 giorni che separano il botto di Capaci da quello di via D'Amelio, tornati drammaticamente attuali per le vicende della trattativa tra Stato e mafia. Nel suo ultimo intervento pubblico a Palermo, Borsellino sosterrà che Falcone aveva cominciato a morire quando "Sciascia bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'Antimafia". Recentemente la moglie del giudice ucciso, Agnese, sempre poco prodiga di parole e sempre misurate ad Attilio Bolzoni ha dichiarato: "Leonardo Sciascia vent'anni fa aveva capito tutto prima di altri". La figlia di Sciascia, Anna Maria, riflette nello stesso articolo di Bolzoni: "Il suo era solo un richiamo alle regole, ce l'aveva con quella direttiva del Csm e con una certa retorica dell'antimafia [...] Fu isolato solo perché aveva lanciato una riflessione sull'arbitrio, sul rischio che si creassero centri di potere, sull'intoccabilità dell'antimafia." Mi piacerebbe tanto conoscere oggi il parere di don Leonardo sulla trattativa, sulla strage di via D'Amelio e i condannati ingiustamente per quel mattatoio ordito da mafiosi e malacarne in divisa ed in toga. Ma di Sciascia in giro se ne vedono pochi, e di pari talento e coraggio di Borsellino non c'è notizia. A vent'anni dalla strage la cronaca è piena ancora di professionisti dell'antimafia.

ANTIMAFIA: LOTTA POLITICA E DI MONOPOLIO. LOTTA DI PARTE E DI FACCIATA.

Quando si parla di mafia, non si può non parlare di antimafia e del suo monopolio e per questo bisogna citare le icone dell’antimafia: Libera e Roberto Saviano. Icona e Guru di una certa antimafia militante, che della lotta alla mafia fa una “cosa nostra”, quindi cosa loro. Sistema tipico di una certa sinistra, insito nella politica e nella magistratura. Tutto ciò per salvaguardare i privilegi della magistratura che in cambio tutela gli interessi di quella parte politica che la sostiene. E non solo politica, anche sindacale. E' noto a tutti, anche attraverso l'elezione di domicilio delle sedi di Libera presso le sedi della CGIL, quale sia il forte legale tra Libera e la CGIL e quale possa essere la provenienza dei militanti di una e dell'altra realtà associativa. Quella politica e quelle istituzioni, come in Puglia con Nicola Vendola (SEL), che finanzia Libera, ma impedisce alla "Associazione Contro Tutte le Mafie", sodalizio nazionale antimafia, di iscriversi all'albo regionale e di accedere ai fondi. Associazione il cui presidente è lo scrittore Antonio Giangrande. 40 libri pubblicati su Amazon e su Lulu per raccontare la società italiana per chi non la conosce. La stessa prefettura di Taranto sottoscrive un protocollo con Libera per i beni confiscati a Manduria, il cui progetto è finanziato dalla Regione, dal Comune e dalla Prefettura.

Qui si rende conto di una realtà taciuta, ma imperante. Solo qualche flebile voce si leva.....

Libera replica alle dichiarazioni di Sgarbi su terreni confiscati a Salemi. "In riferimento a quanto ha sostenuto Vittorio Sgarbi in una conferenza stampa riguardo la destinazione dei terreni confiscati alla mafia nei pressi di Salemi: «Rivendico la decisione di non dare quei terreni a Libera. Sono amico di don Luigi Ciotti, ma non credo che ci debba essere il monopolio della gestione dei beni confiscati alla mafia». si precisa che Libera è un coordinamento nazionale di circa 1600 associazioni che, nel segno della più ampia trasversalità culturale, condividono l'impegno per la giustizia sociale e la legalità. Nasce nel 1995, con la raccolta di 1 milione di firme per sostenere la legge 109 sulla confisca dei beni alla mafia e il loro riutilizzo sociale. Da quel momento Libera ha contribuito, in collaborazione con le Prefetture, i Consorzi di Comuni e altri enti, all'apertura e alla promozione di sei cooperative (tre in Sicilia, una in Calabria, una in Puglia, una in Campania) attraverso bando pubblico, per favorire in quelle regioni, insieme a realtà che si spendono sul territorio come la Fondazione San Vito Onlus di padre Francesco Fiorino, che da anni svolge attività umanitarie e di riscatto sociale promuovendo e gestendo iniziative caritatevoli e assistenziali in ambito diocesano su indicazione della Caritas, l'occupazione e il protagonismo dei giovani. L'unico bene confiscato che Libera ha avuto in assegnazione è quello di Via IV Novembre a Roma dove si trova la sede nazionale. Per la promozione dei prodotti del marchio "Libera terra" si è costituita "Cooperare con Libera terra", una realtà che vede circa 60 soggetti del mondo della cooperazione, "Slow food" e altri enti impegnati a qualificare e sostenere la diffusione di prodotti biologici che hanno un valore insieme etico e commerciale, dimostrazione di come il bene e l'utile possano coincidere. Anche in Provincia di Trapani si è avviato, in collaborazione con l'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, la Prefettura e il Consorzio trapanese per la legalità e lo sviluppo, il percorso per la nascita di una nuova cooperativa sociale, formata da giovani del territorio selezionati con bando pubblico, che andrà a gestire terreni confiscati nei Comuni di Paceco, Partanna e Castelvetrano. Tra i partner del progetto ci sono la Diocesi di Mazara del Vallo e il Parco archeologico di Selinunte. La proposta avanzata da Libera è stata quella di inserire i terreni di Salemi in questione in questo progetto e non di ottenerne l' affidamento diretto. In conclusione non c'è dunque nessun "monopolio" sulla gestione dei beni confiscati. Il progetto di Libera di contrasto sociale alle mafie attraverso la creazione di posti di lavoro, di percorsi educativi, di investimenti culturali, di scommesse sulle risorse morali di chi non vuole cedere al fatalismo e alla rassegnazione, si regge da sempre sul "noi". Con i suoi molti limiti, Libera continuerà ad essere espressione di corresponsabilità, nella convinzione che la lotta contro le mafie e le "zone grigie" di corruzione e illegalità che le alimentano, si può vincere solo se ciascuno di noi farà la propria parte.

Ed “I Forconi” replicano a “Libera”.

In un documento inviato al vescovo Mogavero, al Presidente nazionale di «Libera», Don Luigi Ciotti e al Pontefice, gli agricoltori Ignazio Ardagna e Martino Morsello, in rappresentanza del movimento hanno manifestato solidarietà a Vittorio Sgarbi e lanciato un durissimo atto di accusa contro la «oscura e poco “socialmente utile” gestione dei terreni agricoli sequestrati alla mafia e affidati a società apparentemente benefattrici». Nel documento questi signori, uno dei quali crediamo sia un grosso viticoltore salemitano, denunciano, come «queste società, nella conduzione di tali terreni, attingono a fondi pubblici, nascondendo la redditività aziendale, falsando quindi il mercato con la scusa del reintegro sociale di giovani disagiati.”. Il riferimento è alle cooperative di giovani che, sotto l’egida dell’ Associazione “Libera” di Don Ciotti, da alcuni hanno gestiscono i beni confiscati conducendo aziende agricole di produzione e di trasformazione. Ebbene, secondo questa organizzazione, tutto questo costituirebbe una “offesa per il mondo agricolo che vede disintegrate le sue famiglie e che non trova più sostegno da parte della politica, dei sindacati, del mondo intellettuale e tanto meno della chiesa che in questo momento di sgomento dovrebbe scendere in campo per difendere veramente le aziende agricole e non strumentalizzarle”. In precedenza, come si ricorderà, rispondendo a Mogavero che lo aveva accusato di «gettare discredito nei confronti di associazioni ecclesiastiche», Sgarbi aveva tuonato che “La legalità è verità. E la Sicilia, nell’azione attuale dell’antimafia, diffonde menzogne”. A cui l’alto prelato mazarese aveva prontamente controreplicato affermando “Il mio modello di verità, è Giovanni Paolo II”. Fin troppo evidente il riferimento alla celebre invettiva lanciata dal Pontefice all’ombra dei Templi agrigentini. Cessata quella con il vescovo, ecco ora accendersi una ennesima polemica. Questa volta il bersaglio del sarcasmo del Sindaco di Salemi è il Prefetto di Trapani Marilisa Magno. Colpevole per avere invitato Sgarbi allo scambio degli auguri di Natale per il 16 dicembre. Saranno tutti presenti i sindaci della provincia. Mancherà all’appello solo il critico ferrarese. E fa sapere che quel giorno andrà alla Sagra del Culatello. In quale località non è specificato. Sappiamo solo che quella più importante si tiene nel mese di giugno. Poco importa. Vittorio Sgarbi infatti precisa di non potere essere a Trapani “perché impegnato alla Sagra del Culatello. Non mancherò di suggerire di partecipare al concerto agli esponenti del Consiglio Comunale che garantiscono le suggestive infiltrazioni mafiose nella nostra Amministrazione. Come lei sa, si tratta di eletti. Lei, fortunatamente, è stata nominata”. Per poi molto diplomaticamente concludere “Sperando di non vederla presto a Salemi, le invio i miei auguri di buon anno”.

L’associazione antimafia “Libera” è troppo legata alla politica. Questo è il pensiero di Antonio Amorosi pubblicato su “Affari Italiani”. Suona un campanello di allarme oggi in Italia se si parla di antimafia, alla vigilia del ventennale della strage di via D’Amelio (l’assassinio del magistrato Paolo Borsellino e della sua scorta): l’antimafia rischia di diventare un mezzo per le forze politiche? Il caso riguarda l’esponente antimafia Christian Abbondanza noto per il suo impegno contro le cosche ma anche per numerose frizioni con l’associazione nazionale “Libera” e che pubblica sul suo sito, La Casa della Legalità, un attacco molto duro all’associazione presieduta da don Ciotti. Christian è sotto protezione e già vittima di un boicottaggio anni fa a Bologna, si ritrova prima come esperto antimafia a cui si rivolge un sindaco Pd di un comune ligure (Sarzana) per valutare a chi assegnare un'onorificenza, e poi, pianificato l’evento sotto sue indicazioni, escluso dall’appuntamento e con l’associazione “Libera” in cartellone.

Che è successo Abbondanza? Mi contatta il Sindaco di Sarzana, mi chiede se posso essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata un'onorificenza antimafia. Mi chiede a chi secondo me va assegnata. Accolgono la mia proposta. Mi contatta la sua segreteria per avere conferma dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli do conferma. Mi arriva l'invito. Non ci sono. C'è “Libera”.

E che significa? Non ci vedo niente di scandaloso alla fin fine… No. E’ da un po’ di tempo che accade. Perché ho posto l’accento su alcune incongruenze come questa che vi dico. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore distribuivano con “Libera” targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati arrestati poco dopo perché collusi con i Casalesi... “Libera” li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolata a Don Peppe Diana. Oppure ne dico un’altra. “Libera”, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta anche dei finanziamenti che da a Libera. Ma nei cantieri della Unieco troviamo società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco. Questa cooperativa finanzia “Libera” per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso!? Quando lo fai notare nasce un problema con “Libera”.

Non sono solo casi isolati!? Libera è un associazione grandissima per dimensioni… Non credo. Ci sono tantissime altre contraddizioni della stessa natura da nord a sud. Molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che “Libera” sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è un po’ differente. Il quadro che ci viene presentato è utile a “Libera”, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma la realtà non è questa! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato con l’Associazione Casa della Legalità anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito!

Sentiamo a questo punto un altro attivista e scrittore, Francesco Saverio Alessio, calabrese che ha prodotto diversi scritti sulla ‘ndrangheta. E’ vero che c’è un monopolio politico di “Libera” sul tema antimafia in Italia? Se parli del tema in modo obiettivo, senza far riferimento né a destra né a sinistra ti ritrovi emarginato. Parlo del problema “Libera” che ha forti legami col potere politico. E’ molto grande come associazione e non sempre chi sta dentro è così immune dagli interessi che la politica esprime. Ha un sorta di monopolio. Se vai in contrasto con i loro referenti politici non ti invitano più a niente e diventi invisibile anche se ricevi, come me, minacce.

Sentiamo allora l’attore Giulio Cavalli, sotto scorta dopo le sue manifestazioni antimafia. A me non è mai successo di essere escluso come Christian ma mi capita spesso di vedere eventi antimafia che sorvolano sulle connessioni politica-mafia locali. E’ facile parlare di Falcone e Borsellino e non voler vedere la mafia sotto casa in Lombardia, in Piemonte, in Liguria ed Emilia Romagna. Non mi stupisce che persone come Christian diventino scomode perché fanno nomi e cognomi. Come diceva Peppino Impastato “c’è un solo modo per fare antimafia, rompere la minchia!” Molte volte in contesti ipernoti per presenze criminali c’è chi non fa questo anche se fa antimafia. Allora è palese che c’è qualcosa che non va.

Ai nostri microfoni anche Umberto Santino fondatore del Centro di documentazione "Giuseppe Impastato" di Palermo. Abbiamo avuto frizioni con “Libera” ma su questioni di democrazia. “Libera” nomina i suoi rappresentanti senza eleggerli. Quando facevo parte della Rivista mensile Narcomafie dell’arcipelago di “Libera” e scrivevo su Repubblica Palermo posi la questione di dirigenti dell’associazione destituiti dai propri incarichi senza alcuna discussione. Anche se ci conoscevamo da molti anni, Don Ciotti mi fece telefonare da una responsabile, tale Manuela, per comunicarmi che ero ufficialmente sospeso dall’associazione. Mi sono dimesso subito da Narcomafie. Un altro conflitto simile è sorto quando abbiamo posto critiche a un sindaco leghista della provincia di Bergamo che pretestuosamente aveva rimosso l’intitolazione di un biblioteca a Peppino Impastato. Ci siamo ritrovati isolati da tutto il mondo che gravita intorno a “Libera” perché Don Ciotti sosteneva che c’erano buoni rapporti con il Ministro degli Interni Roberto Maroni. Avevo un rapporto ottimo con lui prima che ponessi quelle questioni di democrazia. Ma non c’è la possibilità discutere in quell’ambiente. Si adottano prassi rigide e di parte come ho viso solo in ambienti tardo clericali o in partiti veterocomunisti. La domanda allora è: l’antimafia rischia di diventare uno strumento per dividersi e fare politica? Un modo per vedere il crimine solo nell’avversario? Un rischio che corre anche l’Emilia Romagna dove il Dipartimento Investigativo Antimafia sostiene ci siano più attentati intimidatori che in Sicilia. Da quando l’Ente Regione eroga denaro per eventi antimafia si organizzano molti studi e momenti culturali sul fenomeno. Ma prima, quando questi fondi non esistevano, in Emilia non si poteva neanche parlare del fenomeno. Una coincidenza? Per le istituzioni in Emilia la mafia non esisteva o si diceva “era presente in modo marginale” quando invece ha profonde radici da decenni. La situazione diventa ancora più problematica quando nel mondo culturale antimafia emerge una sorta di monopolio su chi deve produrre attività. Di fatto il monopolio è di pertinenza dell’associazione “Libera” che esprime una forte capacità di azione sul territorio nazionale anche perché oltre all’attivismo di tanti militanti impegnati ha anche alle spalle grossi sponsor economici di area centrosinistra che in Emilia primeggiano. E ”Libera” oltre a tante iniziative di sensibilizzazione ha sviluppato progetti e iniziative antimafia traducendoli in prodotti di consumo che possiamo trovare in vendita negli scaffali dei supermercati Coop, come la pasta, i biscotti, i vini, in un ciclo virtuoso in cui la farina “che darà la pasta” è ottenuta dai terreni confiscati alla mafia. Tutto questo è molto bello e da sostenere! Meno bello ma sempre di notevole rilevanza sono invece gli episodi di discriminazione e isolamento nei confronti di coloro che fanno attività antimafia fuori dalla copertura politica di sinistra (ma sarebbe valido anche se questo riguardasse la destra o il centro). L’evidenza dei fatti mostra che anche persone valorizzate da “Libera” si ritrovano poi implicate in fatti di crimine. Ora o l’antimafia è un problema importante che ci deve far andare fino in fondo alle questioni, senza titubanze, restando indipendenti dalla politica, oppure diventa principalmente uno strumento politico, visto che sentiamo politicamente più vicini alcuni soggetti invece di altri. Dopo queste interviste stiamo cercando di contattare il presidente di “Libera” don Ciotti per sentire cosa pensa delle questioni affrontate e capire quale sia la sua opinione e versione dei fatti.

“LIBERA” di nome ma non di fatto rappresenta un problema politico. La Posizione del “La Casa della Legalità”.

E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia? Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi...Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare...Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso. Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi.. Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.

Ma Libera non è una struttura indipendente? No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante? Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito!Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no? Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti? Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo!  Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera? La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.

In che senso “grande illusione”? Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi. Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.

Ma allora Libera...Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.

Ma siete gli unici a dire queste cose? Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera? Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...

Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione? Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.

Ed ancora la posizione de “La Casa della Legalità” su un’altro guru dell’antimafia. Il prodotto "Saviano" a chi ed a cosa serve... ed il vergognoso attacco ad Alfredo Galasso.

Una delle società del Cavaliere era ad alto rischio. Lo annunciava il 21 agosto scorso il Sole 24 Ore, rilanciando la notizia apparsa sulla rete americana relativa a "circa 3 miliardi di dollari di indebitamento". Diffusasi la notizia Mediaset perse "l'1,6% in Borsa (dopo aver toccato una perdita di oltre il 2% a metà giornata)". I primi di novembre anche il Corriere della Sera dedica spazio alla crisi della società: "L'investimento in Endemol comincia a pesare a Cologno Monzese". E la ENDEMOL è la società che produce alcune delle chicche (sic) della televisione italiana, quali: "il Grande Fratello", "La pupa e il secchione", "La Prova del Cuoco", "Chi ha incastrato Peter Pan?", "I migliori anni", "Soliti Ignoti", "Affari Tuoi", "Chi vuol essere milionario?", "Viva las Vegas", "Verdetto Finale". Una società che si rispetti, sul mercato, vende prodotti che le permettano di incassare. Quindi manda in onda quel che "cattura" i telespettatori e cerca di promuovere prodotti di consumo che raccolgano il maggior numero di sintonizzazioni. Infatti alla fetta di pubblico dei programmi citati sopra, ha promosso anche "soap opere" come "Centovetrine" e "Vivere", e produce anche "Che tempo che fa" di Fabio Fazio, così da acquisirsi anche una fetta di mercato ulteriore...Adesso la società di Mediaset, che deve recuperare introiti, si è lanciata nella produzione anche di "Vieni via con me", la trasmissione di Fabio Fazio e di Roberto Saviano. D'altronde se Saviano ha garantito alla MONDADORI di far incassi straordinari, perché mai non dovrebbe garantire successo ed incassi ad una trasmissione televisiva in grado di soddisfare quella fetta di mercato che la società del Cavaliere non raggiungerebbe mai con "Il grande fratello", "La pupa e il secchione" e via discorrendo? Inoltre la pubblicità su quel settore di telespettatori è assicurata dai telespettatori stessi. Con l'ormai collaudato "urlo" alla censura (sul modello di AnnoZero), cioè annunciata ma mai attuata, la mobilitazione dei consumatori "contro la censura" è il miglior canale di promozione, senza nemmeno spendere soldi in spot e soprattutto capace di girare in quelle "reti" dei nemici di Cavaliere. Il vantaggio per il Cavaliere è assicurato: la trasmissione prodotta produce introiti, si può far fare un bel po di revisionismo e disinformazione dal nuovo "guru" Saviano, ed in parallelo si ricompattano al meglio i suoi seguaci per gli "attacchi" che (sembrano) essere portati al Cavaliere stesso. Un servizio così a costo zero, anzi con guadagno non è mica una cosa che riesce a tutti, ma al Cavaliere si! D'altronde non si è sempre detto che Berlusconi guarda solo ai suoi interessi? Oppure, all'improvviso, il Cavaliere è impazzito e produce con una sua società una trasmissione che lo vuole colpire? E veniamo alla prima puntata di "Vieni via con me". 8 novembre 2010, lo stesso giorno in cui un giudice era chiamato a definire l'archiviazione di un procedimento per "minaccia aggravata" (non attentato, si badi bene) ai danni di Saviano. Il giudice si è riservato di decidere (e su questa storia poi torneremo nel dettaglio a breve), la puntata è andata in onda regolarmente (anche se con il fantasma della "censura" urlata). Saviano inizia con l'affermare che la democrazia in Italia è a rischio. Non dice che è a rischio (o meglio già compromessa) perché quando l'economia criminale (finanziaria e mafiosa) raggiunge livelli di oltre 1/3 del Pil, significa che è in grado di condizionare non solo il mercato ma anche il voto e quindi la gestione delle Pubbliche Amministrazioni e delle Istituzioni, no, questo non lo dice. Non dice nemmeno che è a rischio perché il sistema dei partiti è fuori da ogni controllo ed ha prodotto un'occupazione devastante di tutto, con un sistema di corruzione dilagante e di voto di scambio sistematico, no, questo non lo dice. Non dice manco che il sistema dell'informazione non è libero perché condizionato da disinformazione e propagandismo dall'una e dall'altra parte, no, questo non lo dice neppure. Saviano afferma che in Italia c'è un problema di "privacy" (la stessa parolina magica usata dal Cavaliere e suoi cortigiani) e quindi, anche se qui non sparano ai giornalisti, i giornalisti sono condizionati e di fatto costretti ad auto-censurarsi perché altrimenti poi, se osano scrivere cose scomode, si vedono la loro vita privata sbattuta in piazza, in pasto al popolo. Ecco, per Saviano, il pericolo della nostra democrazia è questo, punto. Poi promuove un bellissimo discorso sul fango che viene buttato per affossare i propri nemici, delle campagne diffamatorie e infamanti che vengono orchestrate per distruggere chi combatte la mafia ed i potenti corrotti. Tutto vero e tutto normale, dalla notte dei tempi! Offre una fotografia della "procedura" che sistematicamente va in scena in questo Paese (come in altri), ma che funziona solo se, appunto, ci si auto-censura! Infatti in Italia, e non solo, ci sono stati e ci sono giornalisti e persone che, sapendo che questo è ciò a cui vanno incontro, non si auto-censurano, ma continuano a scrivere e parlare. In altre parole, e già durante il Regione fascista, ci sono giornalisti che fanno i giornalisti e cittadini che fanno i cittadini, assumendosi le responsabilità delle proprie scelte, pronti a pagarne le conseguenze nel nome della difesa della dignità e libertà... mentre ve ne sono altri che piegano la propria penna e la propria schiena, per vivere tranquilli. (Lo hanno fatto e lo fanno anche tanti magistrati ma questo non lo si dice). Saviano banalizza e continua a non fare nomi, così come in Gomorra. La generalizzazione si mescola, sempre, alla semplificazione ed i fatti vengono interpretati, tagliuzzati e rimontati, così da proporli come verità e non per quello che sono: opinioni mascherate da fatti. Ancora una volta si parla della mafia "ectoplasma" senza nomi (se non quelli dei boss già condannati); si parla dei "colletti bianchi" senza fare mezzo nome; si parla di collusioni e complicità senza mai indicare con chiarezza i protagonisti. Insomma si disegna la cornice, con una bella dialettica, ma non si propone la visione del quadro, dei soggetti. E' come quando parla della mafia al nord... Saviano accusa i silenzi (veri) che la avvolgono, ma non fa mai, di nuovo, nomi e cognomi... non indica mai una società usata dalla mafia per inserirsi nel mercato, monopolizzando molteplici settori, o le grandi iniziative di riciclaggio che si abbattono nelle regioni "ricche" del Paese. E poi si produce una buona fetta di revisionismo, di pericoloso e grave revisionismo. Nella stagione nuova della politica italiana, la vecchia e abitudinaria pratica si riconferma, maledettamente, come la via maestra. Saviano fa tutto un discorso, a sostegno del suo atto di accusa alla "macchina del fango", che usa il calvario passato da Giovanni Falcone. Ed accusa quasi esclusivamente la "sinistra" di questo calvario, dimentica che i fatti, la storia, dicono altro. Dicono che la trasversalità dei nemici di Falcone, come di Borsellino, era totale. Addirittura Saviano si spinge a rovesciare la storia ed i fatti ed arriva a mostrare l'avvocato Alfredo Galasso come uno dei portavoce della "sinistra" che isolava Falcone. Mostra un frammento della puntata di Sammarcanda - Maurizo Costanzo show dove Galasso consigliava a Falcone di abbandonare il Palazzo del Ministero della Giustizia, dove venne chiamato da Martelli, ministro del Governo Andreotti. Saviano precisa che Galasso è una brava persona, ma è uno di quelli che per conto della "sinistra" avrebbe partecipato alla campagna di delegittimazione ed isolamento a danno di Falcone. Una ricostruzione inaccettabile, vergognosa! Probabilmente Saviano ignora i fatti (e questa sarebbe l'unica ragione per cui davanti a questo orrore di ricostruzione si potrebbe alleviarne la responsabilità), e probabilmente si è fidato di chi gli ha scritto la traccia del copione con cui è andato in scena. Ma ciò che ha fatto è gravissimo, è devastante e non può passare sotto silenzio. Alfredo Galasso ha dedicato la sua vita alla lotta alla mafia. E' stato al fianco di Falcone, Borsellino e Caponnetto. Era loro amico, non un nemico! Non ha mai mollato ed ha portato avanti da avvocato di parte civile i processi contro i vertici di Cosa Nostra... sino a convincere Confindustria Sicilia a spingersi nella costituzione di parte civile nei processi contro i clan. Ha più di una condanna a morte emessa da Cosa Nostra sulle spalle, ma nonostante questo non si è mai tirato indietro. E' stato colui che indicò, ad esempio, chi congiurò, all'interno del Pci e della Lega delle Cooperative, contro Pio La Torre, chiedendo che venissero allontanati. Quando Galasso cercò di convincere Falcone a non andare a Roma, al Ministero, per non permettere di intaccare la sua credibilità di magistrato, lo faceva proprio perché sapeva che il portare Falcone a Roma significava isolarlo, colpirlo... usando quel suo incarico (che lui svolgeva al meglio) per incrinare l'indipendenza e l'autonomia della magistratura e screditando l'azione del Pool Antimafia di Palermo. Galasso non muoveva un accusa, muoveva un appello... un appello perché Falcone non cadesse nella trappola e non finisse morto ammazzato. Discuteva con Falcone perché non si facesse "usare" e "gettare", per questo gli ricordava che per un magistrato indipendenza significa non dipendere da alcun altro Potere, non perché considerasse Falcone un traditore, ma perché non voleva che venisse "schiacciato". E Saviano cosa fa? Ecco la sintesi del suo monologo: Cancella i fatti e rovescia la realtà, parla di quelli che hanno accusato, isolato e denigrato Falcone. Parla della nomina di Antonino Meli (che dice Saviano essere "persona assolutamente per bene") al posto che doveva essere di Falcone e dell'invidia che dettò quella nomina del Csm. Parla dell'attentato all'Addaura e dell'accusa (infame) generale secondo cui quell'attentato se l'era fatto da solo. Dice che lo isolano, che Cosa Nostra di queste cose si rafforzava, si ingrassava ed il lavoro sporco lo faceva fare ai colleghi invidiosi ed alla società civile che non sopportava quello che stava facendo Falcone, cioè una battaglia culturale. Meglio dire che chi fa queste cose lo fa per fare carriere, per avere più soldi, per avere più donne, perché altrimenti se pensi che stia facendo la cosa giusta, nel suo talento, allora lo devi seguire. Falcone vede ancora delegittimazioni... il "corvo"... Il "corvo" era un personaggio che mandava lettere anonime alla classe dirigente, ai partiti, ai direttori dei giornali... ci racconta Saviano che passa a leggere l'estratto dove si dava dell'opportunista a Falcone che si svendeva per un posto di procuratore aggiunto. E continua Saviano: La vita di Falcone diventa un inferno... le lettere (del "corvo") arrivano a cadenze mensili, ed è costretto a fare anticamera quando deve andare a parlare dal Procuratore... anticamera davanti agli avvocati dei mafiosi. A quel punto, racconta sempre Saviano, Falcone riceve la proposta di andare a Roma, da Martelli, Ministro della Giustizia del governo Andreotti. Come Andreotti e Falcone?... Falcone sapeva tutto di Andreotti e della democrazia cristiana in Sicilia, dei rapporti con Cosa Nostra, sapeva tutto. Ma va, perché è un ruolo tecnico, non è un ruolo politico... E quindi fa quello che sa fare cioè servire lo Stato e far si che lo Stato costruisca "un Ufficio che contrasti la lotta alla mafia" (testuale)... (e di nuovo testuale:) "Ma la sinistra cosa fa? Lo massacra: stai collaborando! Più delle mie parole vale un incontro televisivo che ha fatto ... al Maurizo Costanzo Show e Samarcanda uniti..." (manda il servizio dell'estratto della trasmissione e di nuovo testuale:) "La persona che parla è l'avvocato Galasso, che è persona assolutamente per bene, esprime quello che pensava la sinistra e che a volte lo pensa ancora: stai facendo il collaborazionista a stare dentro le cose, a riformarle. La purezza che è stato lo spazio più grande che è stato concesso ai nemici della democrazia e delle organizzazioni criminali. Lo lasciano solo!..." E questo è il fatto, il fatto chiave di quella prima puntata di "Vieni via con me". Un fatto, come detto, di gravità inaudita e intollerabile. Una ricostruzione che rovescia la verità, la rende storpia, falsa, abilmente manipolata per apparire come verosimile! E l'effetto? L'effetto è devastante...Chi non conosce la storia, i fatti di quegli anni a Palermo... chi non conosce il rapporto che vi era tra Galasso e Falcone, pensa che quello raccontato da Saviano sia la verità. E se si solleva la questione arrivano le risposte: Saviano combatte la mafia quindi ha la mia stima e so ha detto è vero, Saviano rischia la vita quindi perché mai dovrebbe dire cose false, e così via...Ma stiamo scherzano? Falcone, Borsellino, Caponnetto e Galasso hanno combattuto la mafia... Galasso, ancora vivo, ha continuato e continua a combatterla. Saviano ha scritto un libro. Ristabiliamo, anche in questo quadro, le proporzioni, non rovesciamole! Saviano parla di macchina del fango, di montature mediatiche per distruggere "il nemico" e cosa fa? Getta fango su Alfredo Galasso, insinua su uno dei protagonisti in prima linea della lotta alla mafia, su uno dei più stretti protagonisti, con Falcone, Borsellino e Caponnetto della stagione del Pool e della Primavera di Palermo... va a colpire uno dei nemici storici di Cosa Nostra (e del Cavaliere). Questo non è accettabile... non lo è perché la ricostruzione promossa da Saviano, che sorvola sull'identità del "corvo", che sorvola sulla trappola costruita a Roma contro Falcone, che sorvola su troppe cose... come sulle infiltrazioni di Cosa Nostra proprio in quel PSI di Martelli (eletto in Sicilia con il pieno di voto dopo che Cosa Nostra aveva scaricato la Dc di Andreotti sentendosi da questa tradita)... e monta il suo monologo facendo apparire il falso (Galasso come parte dell'ingranaggio di isolamento e denigrazione di Falcone) come se fosse il vero. E poi: basta con la scusante ad ogni costo per Saviano perché ha la scorta... perché fa(rebbe) Antimafia. Di giornalisti che scrivono di mafie e illegalità, che fanno inchieste, ce ne sono molti, per fortuna. Così come ci sono molti semplici cittadini che la combattono, la denunciano. Molti sono soggetti ai tentativi di delegittimazione... vittime di quella macchina del fango al centro del monologo di Saviano. Molti subiscono minacce, intimidazioni... subiscono l'isolamento sociale, alcuni anche economico perché vengono messi al margine, vengono tenuti nelle redazioni senza che possano più scrivere, quando non si arriva a metterli alla porta. Gran parte di questi, anche davanti a minacce pesantissime o intimidazioni e attentati, non hanno scorte o servizi di protezione, eppure continuano, lontano dai riflettori, a fare il loro lavoro di denuncia, di informazione... di contrasto civile e culturale alle mafie. Di questi non si parla, questi non hanno spazio... non sono creature mediatiche utili alle casse di qualche società, al revisionismo ed alla disinformazione. A differenza di Saviano, gran parte di questi cittadini e giornalisti, sparsi per l'Italia, fanno pure i nomi e cognomi, indicano fatti precisi, a volte anticipano inchieste giudiziarie, e quindi sono scomodi... molto scomodi perché sono indipendenti, non si fanno condizionare e non cedono alle auto-censure o a quella scientifica e quasi perfetta manipolazione dei fatti che è utile a quella o questa parte politica, ovvero al "sistema". Ma in Italia la Verità non la si vuole. Si vogliono i "miti" e "le verità" che fanno stare meglio, quelle di comodo, comode a qualche d'uno... anche se con la Verità non hanno nulla a che fare. D'altronde in Italia l'informazione è piegata dalla propaganda... si mettono in bocca ai morti ciò che questi non hanno detto, ma che a qualcuno fa comodo far dire, tanto non ci può essere smentita! Come il caso dell'intervista manipolata di Paolo Borsellino della troupe francese, dove non aveva detto affatto che di "cavalli" da consegnare in albergo parlarono, in una telefonata intercettata, Mangano e Dell'Utri, ma tant'è qualcuno ha preferito far credere che invece Paolo Borsellino faceva quell'accusa precisa. D'altronde in Italia si acclamano e considerato detentori della verità collaboratori di giustizia che fanno dichiarazioni ancora senza mezzo riscontro e con, invece, tante contraddizioni e inesattezze pesanti, pur di fare notizia ed anche se, così facendo, non si fa altro che aiutare quanti vogliono rivedere, ancora una volta in peggio, la legge sui collaboratori di giustizia. D'altronde in Italia, ormai, pare quasi che per finalità politiche si sia disposti a far cancellare le sentenze di condanna definitive che hanno permesso di colpire i vertici di Cosa Nostra colpevoli delle stragi del 1992! A qualcuno piace credere che quella del 8 novembre sia stata una bella puntata? Liberissimi di credere all'ennesimo prodotto della società del Cavaliere (che ha battuto in audiance l'altra proprio prodotto, Il Grande Fratello, così da fare "il pieno" tra il canale Rai e quello di Mediaset, nella stessa serata)... ma si abbia la decenza di riconoscere che quello è un prodotto, l'ennesimo prodotto della stessa regia. Non era una trasmissione di informazione ma di propaganda e revisionismo... l'ennesimo prodotto che viene somministrato al popolo, anche perché proprio in questi giorni c'è un nuovo partito, di destra, che della Legalità fa bandiera ed ha bisogno di un pochetto di spazio. A noi non è piaciuta affatto questa puntata... anzi ci ha fatto letteralmente schifo!

La cosa è da analizzare politicamente, giornalisticamente e dialetticamente di Marco Ottanelli. Politicamente, è veramente interessante che un giornalista di sinistra (Fazio) in una rete di sinistra, mandi in onda un programma di destra (endemol) di uno scrittore di destra, programma osannato e "protetto" dai partiti e dalla gente di sinistra, e che in questo programma di destra lo scrittore di destra attacchi la sinistra come causa dell'isolamento di Falcone. Non solo è una menzognaccia, ma è anche una bella assoluzione nei confronti di quella parte di mafia che la Compagnia di Giro tenta di liberare di tutte le sue responsabilità in questi anni di campagna mediatica oscena. Giornalisticamente, è vergognoso e ignobile, perché ha compiuto una sorta di atto di accusa, e non ha prodotto informazione, mettendo anche alla berlina un assente (Galasso) secondo la prassi massacratrice del travaglismo, impedendo alla vittima di circostanziare, replicare, spiegare. Da oggi il popolo adorante vedrà Galasso come "il nemico di Falcone", mentre era uno dei suoi (pochi) carissimi amici veri. Di quelli con i quali si parla, si cena, si sta assieme nei momenti difficili. Dialetticamente, è oltremodo grava il vasto pelago delle omissioni, e il ribaltamento della verità storica. Non solo non ha citato le responsabilità di Andreotti, della DC al potere, del PSI craxiano di Salvo Andò, la melma democristiana e Cuffaro... ma di sicuro ha DOLOSAMENTE evitato di parlare dei furibondi attacchi di Montanelli e del Giornale di Montanelli contro Falcone. Sapete quale era l'accusa che gli fece Montanelli, con una dura e continuativa campagna stampa? Di essere di sinistra. Il contrario esatto di quanto il populismo e qualunquismo fascistoide che sta incantando gli italiani proclama. Bel lavoro, Saviano, bel lavoro davvero. Da LiveSicilia - intervista al Prof. Alfredo Galasso: "Saviano stavolta ha fatto confusione, Falcone a Palermo era più protetto".

Professore Alfredo Galasso, buonasera. "Buonasera".

Ieri, Roberto Saviano l'ha inserita, pur annoverandola tra gli onesti, nella "macchina del fango" scagliata contro Falcone. "Ha fatto confusione. Non me lo merito. Non me lo aspettavo".

Abbiamo rivisto quello spezzone di programma: ‘Giovanni, non mi piace che stai nel palazzo'!". "Sa come si concluse quella puntata?".

Come? "Maurizio Costanzo disse a Falcone: questa è una dichiarazione d'amore nei suoi confronti. Però non si è visto".

In sintesi? "Rivendico il diritto alla critica, anche in amicizia. E non ho cambiato idea".

No? "Giovanni Falcone sbagliò ad andare a Roma con Martelli e Andreotti. A Palermo avrebbe spostato di più. Ne sono convinto. E poi...".

E poi? "A Palermo era indiscutibilmente più protetto".

Non ci sarebbe stata la strage di Capaci, vuole per caso dire questo? "Dico solo che a Palermo sarebbe stato più difficile sorprenderlo".

C'è rimasto male, professore? "La macchina del fango agì davvero, ma fu un'altra cosa".

Ed a proposito di lotta alla mafia: “Taranto: non solo Scazzi, Serrano e Misseri. Quel Tribunale è il Foro dell’ingiustizia.” Libertà di stampa violata ed adozione di atti intimidatori e persecutori per chi ha il coraggio di raccontare la verità. Antonio Giangrande, il noto scrittore di Avetrana, accusato di violazione della Privacy, il 12 luglio 2012 è stato assolto con la formula più ampia: per non aver commesso il fatto. Una sentenza che crea un precedente nel campo della libera informazione. E’ stato assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. E’ stato disposto, altresì, il dissequestro del sito web d’informazione inopinabilmente oscurato per anni dalla magistratura brindisina e tarantina. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. E la notizia dell’assoluzione si deve dare senza remore, così come si fa se, invece, fosse stata una condanna. «Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata – dice il dr Antonio Giangrande, autore di 40 libri pubblicati su “Amazon” e su “Lulu” - Il fatto risale al 2006 quando improvvisamente la Procura di Brindisi chiude completamente il portale web d’informazione dell’ “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Sodalizio nazionale antimafia non allineato a sinistra. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. A tutti coloro, che in apparenza gridano alla libertà di stampa, direi di essere meno ipocriti, codardi, collusi  e partigiani, perché i giornalisti e gli operatori dell’informazione locale, anziché esprimere solidarietà ad un collega, hanno pensato bene di trattarmi come appestato e recidere quelle collaborazioni che avevo con loro. A tutti quelli che spesso rappresentano un potere criminogeno e ciò nonostante proclamano “fuori i condannati dal Parlamento” direi: se i condannati sono coloro i quali sono perseguitati per le opinioni espresse, allora direi fuori le caste e le lobbies e le mafie e le massonerie dal Parlamento, che a quanto a pericolosità sociale non sono seconde a nessuno».

ALTRO CHE MAFIA. L'ITALIA E' UCCISA DAL CLIENTELISMO E DAL VOTO DI SCAMBIO.

Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. E le istituzioni. Beh, loro non fanno nulla, anche perchè sono proprio loro ad essere reclutati con il trucco. Bene. Allora cosa si pensa delle continue cronache di malaffare che danno ragione a colui che denunciando è vittima di ritorsioni. Concorsi truccati per l'acceso in Magistratura o in Avvocatura o nel Notariato o in ambito accademico, giusto per citarne alcune. Senza menzionare le innumerevoli notizie di cronaca che ci parlano di concorsi pubblici ministeriali minori o di enti territoriali. Certo, un episodio del genere non sorprende poi molto in Italia, nazione bella, ricca di cultura e con un patrimonio artistico non indifferente, ma piena di raccomandati e con un nepotismo senza eguali. La giornata del 12 giugno 2012 è stata caratterizzata dall’agitazione al concorso per l’Avvocatura di Stato a Roma, che è stato sospeso. Molti candidati hanno iniziato a protestare, dopo aver constatato che molte persone avevano con sé codici commentati, mentre altri copiavano indisturbati. Tantissimi gridi e fischi in aula, tanto da rendere necessario l’intervento delle forze dell’ordine per riportare la calma. Prova annullata... per proteste. E' successo all'Ergife Palace Hotel di Roma, dove martedì 12 giugno 2012 si è tenuto il concorso per l'avvocatura dello Stato: un migliaio di aspiranti per tre posti da procuratore. Per sedare il parapiglia, scoppiato a causa di presunte irregolarità, sono dovute intervenire le forze dell'ordine... Alcuni partecipanti denunciano: c'è stata poca vigilanza, dei candidati sono entrati con i codici commentati, che non sono ammessi. Già nel 2008 c'era chi puntava il dito contro le irregolarità all'esame da avvocato: rossellaemichela hanno caricato diversi video su YouTube... La cosa che più mi imbestialisce - scrivono - è la presa per i fondelli da parte delle istituzioni e l'omertà di tutti coloro che sanno, vivono certe situazioni e non denunciano per paura di cosa non si sa...

Dal “Corriere della Sera”, l’ennesima prova di come si cooptano i candidati nei concorsi pubblici. Tensioni e proteste al concorso per l'avvocatura di Stato a Roma poi sospeso dalla stessa Commissione. Diversi candidati, dopo l'inizio della prova che si stava svolgendo all'Hotel Ergife, hanno protestato contro «irregolarità nelle procedure e poca vigilanza perché - hanno detto - c'era gente che copiava». Durante le proteste, oltre a fischi e urla, alcuni aspiranti avvocati si sono alzati intonando l'inno di Mameli. Il trambusto ha avuto inizio intorno alle 15.30 ed è andato avanti per un paio d'ore fino a quando non sono intervenuti polizia e carabinieri per sedare gli animi. A detta di alcuni partecipanti dentro l'Ergife diversi candidati sono riusciti a portare codici commentati (vietati) con tanto di timbro dell'avvocatura, altri hanno denunciato di non aver avuto le buste prima della dettatura delle tracce. Così dopo due ore di trattative la commissione ha annullato d'ufficio la procedura. «Al concorso è scoppiata praticamente la rivoluzione, quando si è scoperto che alcuni candidati erano entrati con i codici "commentati", che non sono ammessi: abbiamo cominciato a chiederci quanti altri candidati fossero riusciti ad aggirare i controlli ed è successo il finimondo». A raccontarlo è uno dei partecipanti al concorso. «Il culmine - aggiunge - è stato quando si è scoperto che alcuni candidati, tra cui la figlia di un avvocato dello Stato, il giorno prima erano riusciti a far entrare un codice "commentato". La contestazione è diventata non più arginabile, il presidente non riusciva più a parlare perché costantemente sovrastato dalle proteste e dai candidati che intonavano l'inno di Mameli. È arrivata la polizia che ha iniziato a spingere e strattonare alcuni dei concorsisti, con maniere anche brusche, tanto che viene preso in mezzo pure un disabile. Intorno alle 15.45 - conclude - hanno finalmente deciso di annullare la prova nonostante il presidente avesse dettato una traccia che nessuno era riuscito neppure a sentire». «Già dopo l'identificazione - hanno spiegato alcuni candidati - sui banchi non abbiamo trovato nessuna delle due distinte buste: doveva essercene una con il nome del candidato, l'altra con l'elaborato». Inoltre, mentre la commissione si era ritirata per un'ora a redigere le tracce dei temi, alcuni candidati passeggiavano per i corridoi e addirittura uscivano dalle porte di sicurezza nonostante avessero i sigilli». «Quando - hanno proseguito nel racconto della giornata - dopo un'ora, verso le 13, la commissione è rientrata tra le nostre proteste, ha informato il servizio sicurezza che c'erano circa 200 persone che cercavano di non far proseguire la prova, chiedendo l'annullamento concorso per gravi irregolarità. Ormai quasi nessuno era d'accordo alla prosecuzione e c'erano difficoltà anche per reperire dei volontari tra i candidati per l'estrazione della busta contenente le tracce». L'Avvocato Generale dello Stato, Ignazio Francesco Caramazza, specifica in una nota che la decisione di sospendere ed annullare la prova in corso è stata presa a causa di «gravi disordini inscenati da una minoranza di candidati che protestavano in modo esagitato contro i tempi eccessivi trascorsi prima dell'inizio della prova (tempi in massima parte dovuti all'appello di ben 975 candidati) allegando anche altre pretestuose lamentele». «La prima prova scritta del concorso a tre posti di procuratore dello Stato bandito con D.A.G. in data 23.11.2011 e che avrebbe dovuto svolgersi in Roma nelle sale dell'Hotel Ergife in data 12.6.2012 - è scritto nella nota - è stata sospesa ed annullata dalla Commissione esaminatrice attesi i gravi disordini inscenati da una minoranza di candidati che protestavano in modo esagitato contro i tempi eccessivi trascorsi prima dell'inizio della prova (tempi in massima parte dovuti all'appello di ben 975 candidati) allegando anche altre pretestuose lamentele. Gli stessi impedivano così il regolare svolgimento della prova nonostante l'intervento delle forze dell'ordine. L'Avvocatura dello Stato si riserva di esperire ogni utile azione contro i responsabili che sono stati identificati».

Dello stesso tenore “La Repubblica”. Proteste al concorso degli avvocati. Prova annullata per irregolarità. Durante l'esame per l'avvocatura di Stato all'Hotel Ergife, alcuni candidati si sono alzati in piedi intonando l'inno di Mameli. "C'era gente che copiava". "Una ragazza era in possesso di Codici non ammessi dal bando". E' stata sospesa la prova per l'avvocatura dello Stato tenuta oggi all'Hotel Ergife. L'avvocato Generale dello Stato, Ignazio Francesco Caramazza, ha detto che la decisione di sospendere ed annullare la prova è stata presa a causa di "gravi disordini inscenati da una minoranza di candidati che protestavano in modo esagitato contro i tempi eccessivi trascorsi prima dell'inizio della prova - tempi in massima parte dovuti all'appello di ben 975 candidati - allegando anche altre pretestuose lamentele". Durante l'esame però la tensione c'è stata, e numerose sono state le proteste che sono culminate nella sospensione, ad opera della stessa Commissione. Diversi candidati, dopo l'inizio della prova, in cui erano presenti più di novecento persone, hanno protestato contro "irregolarità nelle procedure e poca vigilanza, perché c'era gente che copiava". Secondo alcuni candidati all'interno dei bagni sarebbero stati trovati dei Codici commentati con i timbri della Commissione. I Codici commentati non erano però ammessi all'interno della struttura e questo ha fatto gridare al concorso truccato. Durante le proteste, oltre a fischi e urla, alcuni aspiranti avvocati si sono alzati intonando l'inno di Mameli. Sul posto sono intervenuti polizia e carabinieri per sedare gli animi. "La situazione era strana fin dall'inizio. All'ingresso non c'erano controlli, mentre di norma si devono depositare i propri effetti personali. Poi, quando sono entrata, sui banchi già c'erano i fogli timbrati. La prova, dal momento in cui sono entrata, alle otto e mezza, è stata sospesa alle tre e mezza" ha detto S. V., una candidata. "Quando hanno estratto la materia d'esame, diritto e procedura civile, è passata un'ora e mezza durante la quale i commissari hanno elaborato la traccia. In quel lasso di tempo ci hanno permesso anche di andare al bagno. Quando hanno finito di elaborarla, è cominciata la distribuzione delle buste. In quel momento si è levato un brusio nelle prime file, un centinaio di persone che protestavano per presunti brogli. Urlavano che le buste andavano distribuite prima" ha continuato. "A un certo punto è stato fatto il nome di una ragazza al megafono, e secondo alcuni candidati, lei era già in possesso del Codice commentato dalla giurisprudenza al posto del Codice semplice. Per bando possono essere ammessi solo alcuni tipi di Codici, non quello che aveva lei - ha terminato la ragazza -. Da lì è scoppiata la rivolta. Il 70 per cento dei candidati era in piedi a cantare l'inno di Mameli ma il presidente ha cominciato a dettare la traccia comunque. Nel delirio più generale, la gente ha cominciare a fare il compito collettivamente. Ho parlato con il servizio d'ordine perché non riuscivo a sentire la traccia ma non hanno potuto fare niente".

Senza dimenticare la Bufera sul concorso dei notai del 29 ottobre 2010.

Il caso è lo stesso, anche se il testo differisce per la forma che lo caratterizza. Si tratta della traccia 'mortis causa' che ha causato prima la bagarre in sede di concorso, poi l'annullamento per gravi irregolarità della terza e ultima prova sostenuta dagli oltre 3000 partecipanti per 200 posti da notaio. Quello stesso caso notarile da risolvere, proposto in modo pressoché identico venti giorni prima in una prova simulata alla scuola dell'Ordine di Roma 'Anselmo Anselmi' (le due versioni da leggere in calce), ha fatto scoppiare il caos tra i banchi della Fiera di Roma. E oggi lascia ancora pesanti ombre sul meccanismo di scelta della traccia incriminata. Una matassa complicata da dipanare, considerando gli estremi del bandolo. Da una parte i candidati che si sono scagliati contro la commissione, con fischi e urla (alcuni gridavano "Vergogna vergogna"), durante la prova, dopo avere scoperto l'anomalia. "In base al regolamento, la Commissione esaminatrice avrebbe dovuto costruire la mattina stessa della prova una traccia ex novo, - spiegano alcuni partecipanti - mentre quella dettata era quasi del tutto identica ad un'altra utilizzata come esercitazione e trattata in videoconferenza con altre scuole notarili". Dall'altra, le repliche dei 15 commissari che puntano il dito contro i "facinorosi". "Quello che abbiamo subito ieri - ha dichiarato una fonte della Commissione - è stata una manovra preordinata, rivolta in realtà non contro di noi componenti la Commissione esaminatrice, ma contro il Consiglio notarile". Senza contare che, secondo alcune testimonianze di partecipanti alla prova, a qualche candidato sono state trovati in tasca i compiti già eseguiti, "su carta intestata del ministero". Resta il fatto che ai commissari è demandato il compito di scegliere le tracce (sei o sette quelle presentate in questo caso), tre delle quali verranno estratte a sorte in sede di esame. Una responsabilità non da poco, su una questione che fa discutere e sulla quale il ministero della Giustizia, sollecitato da più partiti (Udc e Lega) a intervenire in Parlamento, dovrà fare chiarezza. In attesa che Angelino Alfano si esprima, come promesso, nei giorni successivi al ponte festivo, la Lega attacca contro la "logica tutta romana" dei concorsi pubblici. Questo, in particolare, avrebbe visto partecipare alla corsa per gli ambiti posti a numero chiuso, anche nomi 'illustri', tra figli di politici e parenti di personaggi noti del mondo dello spettacolo. Anche loro, come gli altri, dovranno attendere ancora qualche giorno per sapere se l'annullamento interesserà solo la prova 'incriminata' oppure l'intero concorso. In tal caso, sarà tutto da rifare. Prove annullate ma bando di concorso salvato e rinnovo totale della commissione esaminatrice. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha così deciso sulla "gravissima vicenda" del concorso per 200 posti di notaio sospeso la settimana scorsa per motivi di ordine pubblico e su cui la procura di Roma ha aperto un'inchiesta per abuso di ufficio. Il Consiglio nazionale del Notariato plaude alla decisione del Guardasigilli, innanzitutto perchè confermando il bando si rendono "il più celere possibili le procedure", inoltre si tratta di "una soluzione che conferma l'affidabilità del sistema concorsuale di selezione dei futuri notai" e che "restituisce serenità ai candidati". I tremila candidati che hanno affollato la Fiera di Roma per un concorso poi degenerato in rissa si sottoporranno alle nuove prove nel 2011, probabilmente in febbraio. Dovranno ripetere tutti gli elaborati e non solo il secondo, contestato perchè la traccia del tema era pressocchè identica a quella sottoposta al corso di esercitazioni della scuola notarile di Roma 'Anselmo Anselmi', peraltro diffusa anche via internet. Dal momento che la procura di Roma ha aperto un'inchiesta ipotizzando il reato di abuso di ufficio, il Guardasigilli ha deciso di inviare agli inquirenti, "per le eventuali iniziative di competenza", la relazione della Commissione esaminatrice e tutti gli altri atti in suo possesso relativi alle prove annullate. Alfano ha anche stabilito il rinnovo per intero della commissione esaminatrice "pur non nutrendo alcun dubbio - ha sottolineato - sulla buona fede dei suoi componenti". Il bando è stato invece salvato per "evitare che tanti laureati siano penalizzati da ulteriori ritardi derivanti dalla pubblicazione di un nuovo bando che tarderebbe oltremodo la data del prossimo concorso". Una valanga di reclami alla giustizia amministrativa è comunque attesa: il Codacons ha pubblicato oggi sul suo blog (www.carlorienzi.it) i moduli attraverso i quali i partecipanti alle prove annullate possano presentare un ricorso collettivo al Tar del Lazio con l'obiettivo di ottenere un risarcimento dei danni materiali e morali subiti.

LA MAFIA DELLE RACCOMANDAZIONI. MARTONE, LE VITTIME, SFIGATI A PRESCINDERE.

Parliamo di lavoro. A proposito del viceministro al Lavoro Martone e di Sfigati.

Su “L’Espresso”, così come su tantissimi giornali nazionali o locali, vi è stata pubblicata una lettera aperta del Dr. Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS. Da 20 anni partecipa al concorso forense: i suoi compiti non sono corretti, ma dichiarati tali da commissioni composte e presiedute da chi è stato da lui denunciato perché trucca l’esame. Il Tar di Lecce respinge i suoi ricorsi, nonostante vi siano decine di motivi di nullità.

«Il viceministro Martone provoca i fuori corso universitari: "Se a quell'età sei ancora all'università sei uno sfigato". Ha ragione, eppure finisce alla gogna. Polemiche pretestuose sulla frase da chi ha la coda di paglia. Michel Martone, viceministro del Lavoro secondo il quale un 28enne non ancora laureato è spesso "uno sfigato". Ha ragione e lo dico io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come?

A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.

A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità assieme ai giovincelli.

A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).

Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Alla fine si è sfigati comunque, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate.»

Tale lettera è inserita in una inchiesta più larga su un malcostume ed illegalità noto ed utile a tutti. E si viene a sapere da Gianluca Di Feo su  “L’Espresso” che l'amico del padre del viceministro (quello degli 'sfigati') andò dal potente senatore del Pdl, Dell'Utri, per far sistemare il giovane. Lo ha detto, a verbale, Arcangelo Martino, imprenditore al centro dell'inchiesta sulla P3. «Mi sono ricordato che Martone sosteneva che attraverso il partito voleva dare una risposta lavorativa al figlio». Arcangelo Martino ha uno stile spiccio, spesso approssimativo. Del figlio di Martone dice che «fa il commercialista, una cosa del genere».  L'imprenditore è considerato uno dei pilastri della P3, la cricca che interveniva per pilotare le cause in Cassazione e in molti tribunali. Ma durante l'interrogatorio in carcere davanti ai pm romani ricostruisce in modo netto il principale interesse di Antonio Martone, all'epoca potente avvocato generale della Cassazione: sistemare il figlio, ossia Michel il giovane enfant prodige del governo Monti, pronto ad attaccare gli studenti fuori corso e le lauree tardive.

Il suo curriculum di professore ordinario a soli 29 anni era anche - stando ai verbali - nelle mani degli uomini della P3. Martino dichiara che assieme a Pasqualino Lombardi, l'altro protagonista dell'inchiesta P3, si sarebbero presentati a Marcello Dell'Utri chiedendo di intervenire in favore del ragazzo. Sarebbe stato Lombardi a sollecitare la raccomandazione, accompagnata dalla lista dei meriti accademici del giovane al senatore del Pdl. Ottenendo una risposta vaga: «Va be' vediamo». Tanta premura per il rampollo non nasceva da una solidarietà amicale. L'interesse della P3 era chiaro: volevano che il padre intervenisse per sistemare la causa sul Lodo Mondadori, ossia il processo contro l'azienda di Silvio Berlusconi a cui era contestata un'evasione fiscale da circa 300 milioni, e sollecitasse un voto positivo della Consulta sul Lodo Alfano che garantiva l'immunità al premier. Due questioni strategiche per il Cavaliere che Pasqualino Lombardi e i suoi sodali volevano mettere a posto grazie all'aiuto di Martone, come spiegano ai magistrati.

Antonio Martone ha dichiarato di non avere mai chiesto raccomandazioni per il figlio. L'uomo ha lasciato la suprema corte dopo la diffusione delle intercettazioni su suoi contatti con gli emissari della P3. Nunzia De Girolamo, parlamentare pdl, ha descritto la presenza dell'avvocato generale ai pranzi da Tullio dove ogni settimana Lombardi riuniva i suoi compagni di merende. «Ricordo che erano presenti il sottosegretario Caliendo e diversi magistrati. Tra loro Martone, Angelo Gargani e un magistrato del Tribunale dei ministri». Il geometra irpino Lombardi si mostra capace di grandi persuasioni, come ricostruisce la De Girolamo: «Ricordo anche che Martone diceva di volere andare via dalla Cassazione e che Lombardi non era d'accordo e cercava di convincerlo a restare. Diceva che stava bene lì, che era un punto di riferimento lì. Martone insisteva dicendo che voleva fare altre esperienze e che preferiva andare da Brunetta».  Proprio da Brunetta era poi venuto il primo incarico di consulente da 40 mila euro l'anno per Michel Martone, mentre al padre andavano ruoli direttivi. Ma Lombardi e Martino si impegnavano per trovare «attraverso il partito una risposta lavorativa» migliore per il professore in erba. Che due anni esatti dopo l'incontro tra Lombardi e Dell'Utri per trovargli un posto «attraverso il partito» è arrivato al governo Monti.

Luogo comune vuole che l’Italia è il paese dei raccomandati. Si chiede la raccomandazione per tutto, anche violando la legge, quando per attuarla si truccano i concorsi pubblici. Ma chi se ne frega e poi, chi va ad indagare? Se lo si chiede in giro ti diranno che la raccomandazione esiste, ma l’interlocutore però ti dirà, anche, che lui non ha mai chiesto la raccomandazione, né è stato mai raccomandato.

Uno dei momenti clou della puntata del 2 febbraio 2012 di “Servizio Pubblico” è stato l’intervento di Marco Travaglio che ha scelto un obiettivo ben preciso per la sua invettiva. Il vice ministro Michel Martone e la sua infelice dichiarazioni sugli sfigati. A dire il vero Travaglio non ha iniziato subito incalzando l’incauto vice ministro. Prima ha fatto alcune considerazioni sulla possibilità di eliminare l’articolo 18 e sulla monotonia del posto fisso. Il primo affondo di Marco Travaglio è per Mario Monti, “Ha un posto da senatore a vita, più fisso di cosi si muore…Ma nel vero senso della parola”. Michel Martone viene presentato così, “Nonostante il nome e la faccia non è un parrucchiere per signora”. Travaglio si mette, con la consueta precisione ed ironia, a fare le pulci alla rapidissima carriera del vice ministro. Laureato giovanissimo, Martone, vede la sua carriera accademica e lavorativa accompagnata da una serie di esami e concorsi superati al primo colpo. Una particolarità, la commissione esaminante è presieduta sempre dalla stessa persona o da un amico stretto della stessa. In entrambi i casi persone molto vicine al padre di Martone, un “Potentissimo magistrato romano” che ha frequentato molto l’ufficio dell’avvocato Previti. Il curriculum del vice ministro Michel Martone è una lunga risata amara, soprattutto per chi, invece, non ha avuto una strada così liscia.

Ciò non basta. Qualcos'altro serve a dimostrare l'inaffidabilità dei TAR per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi. A Tal proposito su LA7 il programma “Piazza Pulita” manda in onda il servizio sui fratelli Martone: il prof. Michel e l’avv. Thomas.

Dopo aver sviluppato la solita litania su Michel si passa al fratello. Thomas nel 2004 partecipa all’esame per diventare avvocato e viene bocciato alla prova scritta. Lui, però, non si perde d’animo, a differenza di tanti altri, e fa ricorso al Tar. L’intervistatore chiede agli avvocati amministrativisti: «se vengo bocciato all’esame di avvocato e faccio ricorso al Tar quante possibilità si hanno di vincere il ricorso»: “non moltissime” rispondono questi.

Thomas Martone lamentava al Tar che alla sua prova scritta fosse stato attribuito solo una votazione numerica senza alcun giudizio. L’avvocato amministrativista spiega che bisogna dimostrare che il punteggio attribuito è ai limiti dell’irragionevolezza manifesta. L’intervistatore chiede «e se mi lamento per il fatto che mi sia stato attribuito soltanto un voto numerico?» L’avvocato spiega che il voto numerico, secondo la giurisprudenza, va bene se la procedura ha previsto che c’era il voto numerico e che se i criteri per il voto numerico sono stati esplicitati preventivamente. Un altro avvocato spiega che qualche ricorso è stato accolto, ma hanno detto che è molto difficile.

Invece Thomas Martone c’è riuscito. Ce l’ha fatta. La prima sezione del Tar del Lazio ha deciso che la sua prova scritta andava giudicata da un’altra commissione che questa volta lo ha promosso.

L'intervistatore cerca Thomas Martone nel suo studio, che si trova a due passi da Piazza San Pietro, in via della Conciliazione in un palazzo di proprietà della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. In altre parole Propaganda Fide.

L’intervistatore chiede a Thomas: «non è vero che va tutto bene ai figli dei Martone, perché io ho scoperto che lei fu bocciato allo scritto dell’esame per diventare avvocato.»

Martone: «io non vedo che cosa possa interessarvi e perché vi debba rispondere. Mi dispiace.»

L’intervistatore: «non è vero che i Martone sono tutti raccomandati, perché se lei fosse stato raccomandato non l’avrebbero bocciato allo scritto all’esame per avvocato.»

Martone: «lasciate perdere.»

L’intervistatore: «come ha fatto lei a vincere il ricorso, che peraltro non lo passa praticamente nessuno questo ricorso? Si ritiene fortunato per questo. Poi mi risulta che questo palazzo sia di Propaganda Fide. Come ha fatto ad essere inquilino di Propaganda Fide?»

Martone: «Si paga, anche profumatamente. Tutto qua.»

L’intervistatore: «come fa a sapere che ci c’è una disponibilità di immobili in locazione?»

Martone: «si informi non è esattamente così.»

Intervistatore: «e come è stato, mi dica lei. Cosa le costa. E’ una domanda semplice.»

Martone: «non so dove volete arrivare, mi dispiace.»

Intervistatore: «siccome uno dice “gli altri sono sfigati” se fanno ritardi con gli studi, però i Martone hanno un po’ di fortuna.»

Martone: «non è così. Se lei va a vedere su internet cosa intendeva dire mio fratello, capirà che è il contrario.»

Intervistatore: «ho capito, però guarda caso, il fratello di Martone bocciato allo scritto non è così fortunato. I Martone non sono così super raccomandati. E’ vero no. Questo ce lo può confermare?»

Dopo l’intervista Martone ha scritto alla redazione per precisare che lo studio in via della Conciliazione lo condivide con un collega più anziano titolare del contratto con Propaganda Fide da 40 anni. Quanto al ricorso al Tar contro la bocciatura all’esame di avvocato sottolinea che la Commissione che giudicò la sua prova era composta da 4 avvocati ed un solo magistrato, anziché 2 come previsto dalla legge, e che sui suoi elaborati mancava ogni segno grafico che dimostrasse l’effettiva correzione. Che ha sostenuto regolarmente la prova orale diventando così uno dei 250.000 avvocati italiani.

Italiani: raccomandati e pure bugiardi.

Tre italiani su dieci trovano un'occupazione grazie alla "spintarella" di parenti e amici. La crisi non fa diminuire quindi le raccomandazioni. L'ultima indagine dell'Isfol (Istituto per la formazione professionale dei lavoratori), riferita al 2010, sottolinea che la "buona parola" è il canale privilegiato per accedere al mondo del lavoro: il 38% dei giovani ha infatti ottenuto un posto grazie a familiari o conoscenti.

A tutto questo persino il Presidente della Repubblica italiana, Giorgio  Napolitano, ha detto: Stop! "Basta con le raccomandazioni".

Al Quirinale il 15 novembre 2011, per il rilancio dell'occupazione il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, fa un invito. «L'Italia deve diventare il più rapidamente possibile un Paese aperto ai giovani, deve offrire opportunità non viziate da favoritismi e creare per il lavoro sistemi di assunzione trasparenti che creino un vero ascensore sociale, smentendo così la convinzione che le raccomandazioni servano più dell’impegno personale. Bisogna - ha concluso - smontare la convinzione secondo cui le occasioni siano riservate a certi ambienti”.

Affermazione inane se si pensa che proprio un'altra istituzione, La Corte Costituzionale, in riferimento ai giudizi dati agli esami di Stato, smentisce queste buone intenzioni. Corte Costituzionale: sentenza 8 giugno 2011, n. 175 in riferimento al concorso pubblico di avvocato: “Il voto numerico è una motivazione sintetica e costituisce legittima tecnica di motivazione delle motivazioni amministrative”. Siamo in Italia, il voto non va motivato e le commissioni sono arbitrarie ed insindacabili negli abusi. Qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Altro che Mafia. L'Italia, uccisa dalle clientele. Wlodek Goldkorn su “L’Espresso” riporta il pensiero di Giuseppe De Rita: «Siamo un Paese in cui quasi tutti, a ogni livello, per farcela puntano sulle relazioni, sugli amici, sulle conoscenze, sui clan. Poi ci lamentiamo che non c'è meritocrazia....». La provocazione sociologica di Giuseppe De Rita, presidente del Censis. Una borghesia inesistente e un ceto medio di dimensioni mostruose: autoreferenziale e familista. Un potere articolato in una serie di cerchi orizzontali, dove la cooptazione avviene non per capacità e sapere acquisito, ma per abilità a tessere relazioni personali e per appartenenza. E ancora: università ipertrofiche, dove i criteri di valutazione sono arbitrari e le esigenze della vita reale e del mercato tenute fuori. Ecco in estrema sintesi, le ragioni per cui in Italia la parola meritocrazia non ha cittadinanza, se non nei sogni e nelle utopie. Giuseppe De Rita, presidente del Censis, fresco autore (con Antonio Galdo) di "L'eclissi della borghesia", signore ottantenne di modi gentili e affabili, quando racconta questa Italia e quando spiega perché anche nel campo del sapere e della mobilità sociale siamo messi molto peggio della gran parte del mondo civile (e a poco servono le trovate del ministro Profumo su concorsi per i primi della classe), sembra un medico impietoso. Non si ferma ai sintomi, individua invece le vere ragioni della malattia ormai cronicizzata, per poi proporre una lunga faticosa via di guarigione. Con qualche speranza per il paziente.

Partiamo da un'ipotesi. Viviamo in un'epoca in cui le reti di potere, di comunicazione, di scambi, non sono verticali ma orizzontali. Una volta si diceva: "Sono stati assunti due democristiani, un comunista, un socialista e uno bravo". Oggi, in assenza di veri partiti, di organizzazioni forti, nella frammentazione della vita sociale anche la cooptazione avviene a prescindere dai meriti e in base a considerazioni di tipo lobbistico, familistico, di clan.

«E' un'ipotesi giusta, ma non vale solo per l'Italia. Tutto il potere mondiale è ridotto a circuiti orizzontali, ad anelli simili a quelli intorno a Saturno e che non comunicano tra di loro. Il primo anello è la finanza internazionale; subito dopo c'è l'anello europeo: la burocrazia di Bruxelles. Anche in Italia abbiamo a che fare con circuiti orizzontali, a partire dal governo: le ragioni per cui sono stati scelti i ministri, in fin dei conti, sono la conoscenza reciproca e uno stile di vita comune. Pure i rapporti tra governo e partiti sono orizzontali. Non si capisce se l'esecutivo debba tener conto di quello che dice il Pd o il Pdl, oppure dei commenti degli importanti editorialisti dei grandi giornali».

Una definizione della parola orizzontale?

«E' sinonimo del "relazionale". Ma attenzione: è l'orizzontalità a creare la relazione perché fuori dal circuito di cui fai parte non c'è salvezza. Infatti, a cosa pensano i politici? Al sistema di alleanze, questione di relazioni. La tragedia di questo momento è che l'unica verticalità la danno i mercati».

Cosa hanno a che fare i mercati con la mancanza di meritocrazia in Italia?
«Parto da lontano. Una volta, un leader del Pci che andava a Mosca si recava in visita dal suo imperatore. Lo stesso valeva per un capo della Dc che faceva un viaggio a Washington. Ambedue adattavano poi gli ordini ricevuti alla realtà italiana. Facevano, in altre parole, una serie di mediazioni: da quella nella direzione del partito e giù giù fino alla sezione o alla parrocchia. La verticalità dei mercati è invece diversa, in basso arrivano solo ordini perentori, senza mediazione e senza dialettica. Ma come si può, senza una dialettica politica e sociale - verticale per la sua natura - parlare di merito e di mobilità verso l'alto?»

Perché in Italia la situazione è peggiore? Perché da noi la pratica della corruzione, l'andare avanti per raccomandazioni è più radicata che in altri Paesi occidentali?

«Perché non abbiamo avuto una borghesia come classe generale. Abbiamo avuto invece la "cetomedizzazione"».

Scusi?

«Abbiamo fatto crescere a dismisura il ceto medio. Tra il 1971 e il 1981 i capannoni sono passati da 500 mila a 950 mila. Aggiunga il pubblico impiego, ed ecco la grande bolla del ceto medio, l'85 per cento della popolazione. Aveva capito tutto Pasolini quando diceva: questo è l'imborghesimento, non la creazione di una classe borghese. L'élite da noi non è diventata borghesia. Invece in Germania quella classe si è formata attorno all'ethos militare, in Inghilterra attorno a quello finanziario e in Francia a quello amministrativo. In tutti e tre i casi esiste il senso dello Stato. Da noi no».

Invece da noi?

«E' stato il trionfo del soggettivismo assoluto: disprezzo per le élite, ognuno padrone di sé, libero di decidere ciò che è buono e bello. Il coronamento di tutto questo, ma si è trattato di un processo che è passato anche per il Sessantotto, è stato Berlusconi. Ecco, in termini storici e strutturali le ragioni per cui da noi la meritocrazia non c'è. Oggi, la cooptazione non avviene in base a delle capacità ma in virtù di relazioni interpersonali. In certi ministeri mi sembra di avere a che fare con degli zombi, con gerarchie non trasparenti, informali, non intellegibili. Aggiungo che anche l'antipolitica è l'espressione della stesso fenomeno: è la rabbia di chi è stato escluso da certi circuiti, senza alcun sistema di pensiero verticale. Al posto della meritocrazia abbiamo l'appartenenza. Stai con me o non stai con me? Vale anche per la gente che viene da McKinsey o dalla Bocconi».

Vogliamo parlare di mancanza della meritocrazia nei nostri atenei?

«L'università italiana è passata da 3 mila professori quando mi sono laureato io negli anni Cinquanta, a 60 mila oggi. E sono "cetomedizzati" pure loro. Lavorano nell'orizzontale, con i loro concorsi, i consigli di facoltà. Posso dire una cattiveria?»

Prego.

«La loro orizzontalità la esportano fuori. Fanno politica in un modo simile ai consigli di facoltà. Ma torniamo al nostro discorso. Io ho fatto parte, dal 2000 al 2005, del Comitato di valutazione universitaria. Sono arrivati sul mio tavolo le proposte per 3.600 corsi di laurea nuovi: una follia. Ne furono autorizzati oltre 2 mila. Ecco la fine del merito: la struttura che dovrebbe presiedere alla formazione del sapere, diventa orizzontale, per far comodo ai baroni. Il meccanismo fondamentale della vita umana, la mobilità verticale è stato sostituito da quello orizzontale: la moltiplicazione delle cattedre. Sono stato recentemente a una cerimonia in un'università del centro Italia. Si festeggiavano, come se fosse un matrimonio, cento laureati in Scienza della comunicazione. A cosa servono queste lauree? Al ceto medio che preme per avere il figlio dottore, non importa come. Ed ecco spiegato il disastro dei nostri atenei».

E i sistemi di valutazione dei professori?

«Sono inesistenti, arbitrio puro. Pensi al modo con cui si fanno le commissioni di concorsi, tra amici e parenti. In Italia manca quello che io chiamo la fedeltà all'oggetto: se sono un chimico devo pensare alla chimica».

E' l'idea di lealtà che si trova in "Linea d'Ombra" di Conrad. Il capitano del vascello deve riportare la nave a Singapore perché questo è il suo lavoro.

«Qui invece il capitano pensa a chi è l'armatore e i suoi amici. Perché ci sia la meritocrazia occorre il know how di sistema: non è essere bravi tecnicamente, ma saper agire dentro il sistema globale. Noi quella capacità l'abbiamo persa (tranne poche eccezioni). Il nostro riferimento è un sistema povero, la piccola Italia. E un sistema povero favorisce clientele, corruzione, familismo».

Il ministro Profumo propone di premiare i migliori della scuola.

«E rimane sostanzialmente dentro il meccanismo di orizzontalità, perché il riferimento è sempre il sistema piccolo».

Nelle università professori in pensione continuano a insegnare gratis.

«Appunto. Un sistema povero. Tengono il posto occupato, finché il figlio non sarà in grado di prenderlo».

Come uscirne?

«Con il mercato, lo facciamo del resto noi al Censis da 50 anni. E se io fossi il presidente del Consiglio, direi agli italiani: diamoci un compito, ripaghiamo il nostro debito, costi quel che costi. Lo dico perché l'Italia ogni volta che ha perso la sovranità ha avuto uno scatto d'orgoglio. Possiamo risorgere, se vogliamo".

Clientele, informazione, sinistra ed antimafia. A riguardo c’è l’opinione di Marco Ventura su “Panorama”. Le nomine al tempo di Grillo. I partiti sono alle prese con l’indicazione dei nomi per il Consiglio d’amministrazione della Rai 2012, ma il fiato sul collo dei Cinquestelle impone qualche attenzione in più nelle scelte e soprattutto nel modo di presentarle. Non è più “politicamente corretto”, per esempio, ciò che il PD di Pierluigi Bersani ha fatto fino a ieri per le Authority: limitarsi a comunicare i nomi estratti dal cilindro dell’”area” democratica. Bisogna inventarsi una retorica diversa, un inganno nuovo, un sistema che salvi la faccia (per non usare espressioni più crude ma realistiche) quando già il clima è quello della campagna elettorale. Ecco allora che il segretario del PD si nasconde dietro le indicazioni della “società civile”, individuata e ridotta a quattro associazioni di cui tutti sappiamo l’opera benemerita e al tempo stesso l’orientamento politico (il “Comitato per la libertà e il diritto all’informazione”, “Libera”, “Libertà e Giustizia” e “Se non ora quando”). E così, ecco emergere i nomi di due grandi esperti di televisione, gente che (non) ha dedicato la vita alla Tv, che (non) ha cognomi sconosciuti, che (non) sa come funziona la macchina della Rai, e anche laddove (non) ha conoscenze specifiche (non) può compensare con la certificata formazione economica e la consuetudine coi bilanci. Sì, parliamo di Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo. La prima, identificata da tutti i quotidiani come “la figlia di Tobagi”. Il secondo come “l’ex pm”. Il bello è che naturalmente hanno “dovuto pure mandare”, come ha confessato Colombo, il proprio curriculum. Non sia mai qualcuno possa dire che non è stato il curriculum il motore della scelta, o che nel mare magnum dei curriculum inviati per posta alla Commissione di Vigilanza Rai non vi fossero quelli dei nomi designati dalla “società civile” e sposati con entusiasmo da Bersani quasi fossero “estranei” alla politica. I tempi di voto e approvazione del nuovo Cda dipenderanno, possibile che no?, dall’esigenza di leggere e vagliare tutti, ma proprio tutti, i curriculum arrivati (qualcuno ha sommessamente osservato che non sarebbe stata credibile un’accelerazione dei tempi). Al sodo, non cambiano le regole e non cambia la governance della Rai. Non cambia la consuetudine di “indicare” i nomi del Cda in base alla loro affidabilità e vicinanza ai leader dei partiti e, ovviamente, al presidente del Consiglio nonché incidentalmente ministro dell’Economia. I partiti meno smagati, come il PDL, continueranno a fornire i nomi che emergeranno da notti di confronto con vaglio finale dei “candidati”. L’UDC è più piccolo, più compatto, il suo nome ce l’ha già e non ha la necessità di nascondersi dietro la retorica della “società civile”. Quanto a Bersani, che aveva avuto i suoi guai quando aveva annunciato di non voler fornire indicazioni - che le nomine le facesse tutte il premier che a noi sta bene e le mani sulla Rai non le mettiamo - alla fine si è dovuto inchinare alla reazione dei “suoi” che gli avevano rimproverato di fare il gioco del centrodestra e di rischiare d’esser preso troppo alla lettera. E i nomi li ha fatti eccome, salvo ammantarli con la retorica dell’antimafia e della “società civile”. Che è un modo ipocrita di mascherare l’ennesima scelta di partito. La prossima volta, per favore, che ci venga risparmiata almeno la sceneggiata dell’invio dei curriculum.

Secondo Maria Giovanna Maglie su “Libero Quotidiano”  Bersani delega a Repubblica le lottizzazioni. “Venghino, signori, venghino, cedesi prezzi stracciati curricula misti, alcuni alto livello di eccellenza ma mero valore collezionismo, raccolti a riprova metodo democratico e innovativo e trasparenza nomine, purtroppo rimasti inutilizzati. È scaduto, come deciso dalla commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai, il termine per la presentazione dei curricula dei candidati a far parte del nuovo Cda del servizio pubblico. Erano una trentina fino a qualche giorno prima, poi ne è arrivata un’altra infornata, ma finora nessun nome è stato vagliato né è detto che lo sarà dai componenti della Commissione, i quali arriveranno alla riunione di giovedì 21 giugno 2012 quasi sicuramente o con il bigliettino di partito in tasca o per non votare. Pure, i nomi giusti sarebbero facili da trovare tra i curricula inviati. Con sprezzo del pericolo vi faccio più avanti anche i nomi. Candidati - Ma per ora tra i due partiti principali, esclusi quelli che stanno alla finestra come la Lega, che giocano al grillismo, come Di Pietro, che continuano a mandare il soldato Ryan, come Casini, tra Pd e Pdl c’è una sola differenza: Bersani ha inscenato la pantomima della società civile che propone, e alla fine usciranno due personaggi senza arte né parte per la bisogna, come Benedetta Tobagi, quando non pericolosi, come Gherardo Colombo, indicati, non si capisce a che titolo, da associazioni contro la mafia che peraltro hanno furibondamente litigato, ma almeno a Repubblica saranno contenti e gli vorranno più bene, o meno male; il Pdl si è rinserrato nel vecchio metodo della rappresentanza di correnti e di capi bastone, i vecchi e i nuovi, e giù racconti puntualmente filtrati dopo una ridda di riunioni concitate e vertici non tanto segreti, anche perché accompagnati da pranzi dal Moro (storica e lussuosa osteria romana) tra Alfano e il direttore del TgUno, Maccari, giù certezze di candidature di alto profilo ma improponibili per palesi e multipli conflitti di interessi familiari, come quella di Salvo Nastasi, unica eccezione positiva il nome di Antonio Pilati; alla fine tutti dal Cav, cercando di essere gli ultimi a parlargli, pare che faccia la differenza. I curricula neanche li hanno guardati, ché il Bersani non si sente leader di partito e l’assunzione di responsabilità lo atterrisce, dall’altra parte sono troppi e ormai con troppo pochi voti nell’incubo imminente futuro. Attendiamo di essere smentiti, e ci piacerebbe tanto, ma temiamo di non sbagliarci a sostenere che il prossimo Consiglio di Amministrazione della fondamentale azienda pubblica Rai sarà composto senza una particolare preoccupazione per le sorti della suddetta, figuriamoci per il prodotto. Le scelte più accettabili alla fine saranno proprio le tre del premier Mario Monti. E i famosi curricula? Al macero. Proprio per questa ragione e sapendo di non danneggiarli perché non li hanno seriamente presi in considerazione né lo faranno, li diamo noi sette nomi scelti e d’eccellenza tra quelli inviati quando pareva che fosse una cosa seria, scelti tra competenze nel mondo della televisione e preclara attività culturale. Scelti inoltre rispettando la legge che vuole entro quest’anno un quinto, entro il 2015 un terzo, di donne nei consigli di amministrazione, e che governo e Parlamento dovrebbero onorare e persino precedere, non scegliendo però nomi a caso tanto per dar fiato ai machisti che popolano il Bel Paese, ma pescando tra manager e imprenditrici di provata esperienza e successo. Scelti infine rispettando quello che con termine brutto chiamiamo pluralismo della società civile, quelli di sinistra dura e pura, i moderati, i liberali, laici e cattolici. Tra loro ci sono una industriale discografica di successo internazionale, da mito pop a talent scout; il presidente e ad dell’Agenzia Italia; un capitano di industria che da sola regge le aziende paterne e le ha ancora sviluppate; l’ex assessore alla Cultura del Comune di Roma, uno che non s’è ancora capito perché Alemanno lo abbia fatto fuori o forse sì; il presidente di Rai Cinema e presidente del Teatro di Roma, scrittore laureato, super Campiello; un giornalista dall’ideologia rigorosa e indefessa, presidente di Rai Trade e già direttore di Rai Educational; l’attuale direttore di Rai 4, autore televisivo, esperto di comunicazione, ex direttore di Rai2 dal 1996 al 2002, gran visionario, cavallo pazzo. I nomi: Caterina Caselli Sugar; Daniela Viglione; Luisa Todini; Umberto Croppi; Franco Scaglia; Carlo Freccero; Renato Parascandolo. Visto come sono brava? – dice la Maglie -  Non è difficile.”

Qualcuno dirà: cosa centra il clientelismo con la mafia. Centra, centra. Clientelismo è voto di scambio: ossia, tu dai una cosa a me ed io do una cosa a te....Tu aiuti me, io aiuto te. Insomma, tutto si basa sulla cooptazione omologata al sistema di potere.

E su queste contrapposizioni politiche-ideologiche, ma in sostanza affaristiche, che si pone la lotta alla mafia. Per Stefano Zurlo su “Il Giornale” È un mondo a parti rovesciate. Una realtà oscura e imbarazzante perché popolata da alcuni padri nobili della patria, icone della nostra coscienza che però, in quei frangenti, tengono un comportamento a dir poco sfuggente. E così la storia inquietante della cosiddetta trattativa fra lo Stato e Cosa nostra lambisce persino la memoria dell’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Probabilmente, se fosse ancora vivo, pure lui sarebbe nel registro degli indagati. Come l’ormai novantenne Giovanni Conso, presidente emerito della Corte costituzionale, e come l’ex vicepresidente del Csm e presidente del Senato Nicola Mancino, che ha trascinato l’attuale inquilino del Quirinale nel gorgo di questo affaire. Nei mesi scorsi, Mancino è stato intercettato mentre telefonava al consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio chiedendogli un intervento sulle procure che indagavano. Coincidenza: alle chiamate di Mancino, ora indagato per falsa testimonianza, segue una lettera del Quirinale che il 4 aprile scorso scrive al procuratore generale della Cassazione invocando un maggior coordinamento fra gli uffici di Palermo, Caltanissetta e Firenze, tutti concentrati sulla stessa vicenda. Formalmente la lettera del Quirinale è ineccepibile, ma naturalmente, un messaggio può essere letto e interpretato in vari modi. Anche, malignamente, come un tentativo, nemmeno troppo sofisticato, di mettere i bastoni fra le ruote dei pm che scavano su una vicenda vecchia e però, forse, importante nella definizione degli assetti dell’Italia di oggi. Ora Antonio Di Pietro vuole una commissione d’inchiesta su questo groviglio fra passato e presente. E il portavoce del Quirinale Pasquale Cascella gli replica, senza citarlo, su twitter: «Possibile che ex magistrati ora in politica ignorino la legge?» Si parte da lontano e si inizia con una domanda: perché muore Paolo Borsellino? Forse proprio perché aveva scoperto la trattativa fra i vertici di Cosa nostra e pezzi dello Stato. Negli ultimi giorni della sua vita - e c’è una celebre intervista di Lamberto Sposini a documentarlo - Borsellino ripete la frase pronunciata dal vicequestore Ninni Cassarà, prima di essere trucidato: «Dobbiamo convincerci che siamo cadaveri che camminano». E Borsellino va incontro come un agnello sacrificale al suo destino. Di sicuro, in quei mesi Totò Riina preme sulle istituzioni perché allentino la presa sulle cosche. Al Viminale in quel periodo hanno fatto sul serio: Vincenzo Scotti, che lavora seguendo le indicazioni di Giovanni Falcone, ha messo a punto con l’aiuto del Guardasigilli Claudio Martelli tutti gli strumenti legislativi necessari per affrontare la battaglia con la mafia: il 41 bis, che è il terrore dei Corleonesi, la procura nazionale antimafia e la Dia. Poi Falcone salta in aria e improvvisamente alla fine di giugno, in un drammatico momento di emergenza nazionale, Scotti viene allontanato senza tanti complimenti dall’Interno. Gli equilibri stanno cambiando. La strage di Capaci porta a razzo Scalfaro al Quirinale e al suo posto, alla presidenza della Camera, arriva Giorgio Napolitano; il valzer prosegue un mese dopo: via Scotti al Viminale è il momento di Mancino che ora, smemorato, dice di non ricordare nemmeno l’incontro con Borsellino il 1 luglio, diciotto giorni prima della strage di via d’Amelio. Strano: nel suo libro "Pax mafiosa o guerra?" (Eurilink) è Scotti, ormai con gli scatoloni in mano, a incrociare al Viminale, «in fondo al corridoio», Borsellino. E a smentire il suo successore su un episodio piccolo piccolo ma parte del martirologio nazionale. Certo, fra il 92 e il 93 la mafia colpisce con ferocia e lo Stato, sotterraneamente, cede almeno in parte al ricatto. Si scopre ora che il Guardasigilli Giovanni Conso straccia centinaia di decreti relativi al 41 bis. Lui si giustifica sostenendo di aver fatto tutto in solitudine, ma nessuno gli crede e Conso è indagato per false dichiarazioni ai pm. Sotto la presidenza Scalfaro viene catturato Totò Riina, ma dietro le quinte le istituzioni assumono in modo trasversale agli schieramenti politici un atteggiamento più malleabile, più light con Cosa nostra. In simultanea la rottamazione della Prima repubblica si porta via, fra avvisi di garanzia e delegittimazioni, gli Scotti, i Martelli e molti protagonisti della vita politica. Si arriva così all’oggi e all’agitazione di Mancino. Che a ottobre 2011 chiama e richiama D’Ambrosio. Le cimici della procura di Palermo intercettano i dialoghi in cui Mancino si sfoga e vuole sapere come evitare quei «faccia a faccia» con Scotti e Martelli. D’Ambrosio, magistrato di lungo corso, misura le parole: «Intervenire sui colleghi è una cosa molto delicata». Mancino, preoccupatissimo, rilancia e chiede l’intervento del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. Il 4 aprile il segretario generale del Quirinale Donato Marra firma la lettera indirizzata al pg della Cassazione in cui disserta sul coordinamento fra i diversi uffici. Non è più Vitaliano Esposito ma Gianfranco Ciani. E puntualmente D’Ambrosio viene intercettato mentre aggiorna Mancino: «Ho parlato con Ciani, hanno voluto una lettera così fatta per sentirsi più forti». Alla fine i temuti confronti non si faranno: il tribunale non li ha ritenuti necessari. Vent’anni dopo la trattativa, i vecchi protagonisti riempiono ancora il palcoscenico con racconti sconcertanti, strane amnesie, piccole trattative e trame sul crinale fra storia e cronaca.

Mafia, i veleni che allontanano la verità, secondo l’opinione di Francesco Licata su “La Stampa”. Com’era ampiamente prevedibile con la chiusura dell’inchiesta sulla famigerata trattativa fra Stato e mafia l’intera vicenda diventa meno chiara e più confusa. E tutto perché sulla scena ha fatto irruzione la solita battaglia di parte che non ha mai portato bene al raggiungimento della verità. Specialmente nelle storie di mafia e politica. L’occasione che ha funzionato da detonatore è data da alcune intercettazioni telefoniche. Quelle tra Nicola Mancino, ex presidente del Senato oggi indagato a Palermo perché sospettato di essere uno dei terminali della trattativa, e il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio. Il primo, ormai è noto, invocava un qualificato intervento a protezione dell’indagato a suo parere vittima di un «differente trattamento» dei magistrati di Palermo, più «duri» di quelli di Caltanissetta. Il risultato di questo intrattenimento telefonico, per dirla in breve, sarebbe stato una lettera del Quirinale, al Pg della Cassazione, al quale si indica la strada dell’esercizio delle prerogative riguardanti i poteri di coordinamento fra le Procure. Questa la cronaca, seppure in sintesi visto che se ne dibatte ormai da giorni. Ma la polemica sembra aver ampiamente travalicato i confini della dialettica politica perché, per forza di cose, ha finito per trasformarsi in un corposo attacco alla presidenza della Repubblica, anche dopo i chiarimenti offerti dal Quirinale e ritenuti perfettamente in linea coi poteri del Presidente e con il rispetto della legge. Che le cose stiano in questi termini sembra dimostrato dalla proposta di Antonio Di Pietro, che chiede l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta (quindi con poteri giudiziari) per sapere «cosa è avvenuto tra esponenti di governo, esponenti che lavorano alle dipendenze del Quirinale e della magistratura su questa pagina oscura della Repubblica». Ovviamente l’iniziativa ha subito riprodotto gli schemi che sono propri dello scontro fra maggioranza e opposizione: Di Pietro e i movimenti da un lato, dall’altro il Pd («una follia»), Casini etc. Non sfugge a nessuno quanto poco saggio possa essere il tentativo di coinvolgere il Quirinale in una polemica scivolosa come quella che riguarda il presidente Mancino. Anche perché, ancor prima di chiarire il comportamento dell’indagato e dei personaggi delle istituzioni venuti con lui a contatto, sarebbe forse il caso di fare piena luce su quello che è stato il torbido abbraccio che nel 1992 portò pezzi dello Stato, anche alti e qualificati, a trattare con Cosa nostra la fine dello stragismo mafioso e lo stop alla programmata mattanza di uomini della politica e delle istituzioni. Ma all’Idv sembra interessare più di ogni altra cosa il presunto «trattamento di favore», sempre che ci sia, concesso al «cittadino Mancino». Di questo tenore la polemica a distanza fra Pasquale Cascella, portavoce del Quirinale, e il Fatto Quotidiano , che si riconosce sulle posizioni di Di Pietro e delle opposizioni. Ciò che è accaduto in Italia tra il 1989 e il 1994 merita davvero di essere approfondito e spiegato: troppo grande sarebbe il peso di un ennesimo buco nero senza verità. Ma una simile operazione avrebbe bisogno di una ferrea unità di intenti della magistratura, ed anche di una unità di vedute, senza steccati, senza la difesa del «proprio particulare» di ognuna delle Procure in campo. E non è sempre vero che le cose funzionino in questo modo. E’ vero, invece, che la magistratura di Palermo e quella di Caltanissetta su tante cose la pensano in modo diverso. Ne è testimonianza la risposta che ieri il sostituto Nico Gozzo (Caltanissetta) ha dato all’Associazione delle vittime delle stragi mafiose, che lamentava proprio questa differenza di vedute. Gozzo, com’è comprensibile, difende il proprio operato. Ma nega che il diverso trattamento a Mancino sia conseguenza di una «maggiore malleabilità» rispetto ai colleghi di Palermo. Un ulteriore elemento di divisione, questo, di cui non si avvertiva la necessità. Divisione accentuata anche dalla verve polemica dello stesso Gozzo nei confronti dei giornalisti del Fatto Quotidiano , mai nominati ma indicati sostanzialmente come «qualcuno» che si è inserito per «truccare le carte». Anche questo, non sembra il modo migliore per agevolare la comprensione di una vicenda che è già difficile e complessa, di suo, tanto da aver indotto il Procuratore Nazionale, Pietro Grasso, ad augurarsi che «i rappresentanti delle istituzioni si pentano e comincino a collaborare». Se non davanti ai giudici, magari davanti ad una commissione di parlamentari.

Secondo Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera” era molto agitato, Nicola Mancino. Soprattutto dopo la sua deposizione al processo contro il generale dei carabinieri Mario Mori, accusato della mancata cattura del boss Bernardo Provenzano. Al termine di quell'udienza, il 24 febbraio scorso, il pubblico ministero Nino Di Matteo, che conduceva anche l'indagine sulla presunta trattativa fra Stato e mafia, aveva dichiarato: «Emergono evidenti contraddizioni tra diversi esponenti delle istituzioni, riferiscono cose completamente diverse, quindi qualcuno mente». Un campanello d'allarme, per l'ex ministro dell'Interno, indicato come ipotetico mentitore: o lui o il suo predecessore al Viminale Scotti, o l'ex ministro della Giustizia Martelli; lui che era stato anche presidente del Senato e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Con la dichiarazione del pm si profilava una richiesta di confronti tra Mancino e Martelli, e tra Mancino e Scotti, davanti al tribunale. Ipotesi non gradita all'ex ministro, al punto di telefonare con insistenza al Quirinale, per parlare col consigliere giuridico di Napolitano Loris D'Ambrosio. Voleva sapere come evitare quei «faccia a faccia», ma D'Ambrosio spiegava che bisognava aspettare le mosse del pm. «Io per adesso posso parlare col presidente (probabilmente Napolitano)... lui se l'è presa a cuore la questione... non lo so... Francamente la ritengo difficile», diceva D'Ambrosio, che prima di approdare al Quirinale con Ciampi ha lavorato a lungo al ministero della Giustizia. Anche insieme a Giovanni Falcone. E dopo la strage di Capaci, nel 1992, scrisse buona parte del famoso articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario che istituiva il «carcere duro» per i mafiosi, poi divenuto oggetto della presunta trattativa. Mancino immaginava di intervenire su Messineo, il procuratore di Palermo, e sul procuratore nazionale antimafia Grasso, ma D'Ambrosio spiegava che i pm in udienza sono autonomi, non rispondono al loro capo. «L'unica cosa è parlare con il procuratore nazionale antimafia», aggiungeva. Lui aveva potere di coordinamento sulle inchieste tra i diversi uffici, e della trattativa si stavano occupando, oltre ai magistrati palermitani, anche quelli di Caltanissetta e Firenze. Ma Mancino era preoccupato dai possibili confronti in tribunale. «Il collegio lì è equilibrato - sosteneva -, come ha ritenuto inutile quello con Tavormina (l'ex capo della Dia che aveva smentito Martelli) potrebbe rigettare per analogia». D'Ambrosio: «Intervenire sul collegio è una cosa molto delicata...». E ancora: «Più facile è parlare con il pm...». Mancino concluse che bisognava far intervenire Grasso: «Io gli voglio parlare perché sono tormentato». Poi accadde che i pm chiesero i confronti ma il tribunale decise di non farli. Con il magistrato in servizio al Quirinale al quale chiedeva suggerimenti e intercessioni, l'ex ministro aveva stabilito una consuetudine nei quattro anni in cui guidò il Csm per conto di Napolitano. Il 22 dicembre già gli aveva parlato di Grasso, incontrato la sera prima a una cerimonia pre-natalizia, e riferiva: «Mi ha detto: "Quelli lì (evidentemente i pm di Palermo) danno solo fastidio. Ma lei lo sa che noi non abbiamo poteri di avocazione", e io ho detto: "Ma poteri di coordinamento possono essere sempre esercitati"». E il 13 marzo scorso, ancora Mancino sollecitava il consigliere di Napolitano: «Veda un po' se Grasso decidesse di ascoltare anche me, in maniera riservatissima, senza che nessuno ne sappia niente». E D'Ambrosio: «Va bene, tanto domani lo devo vedere...». Prima di questa fibrillazione, a novembre dello scorso anno, durante un'altra telefonata D'Ambrosio aveva discusso con l'ex ministro di alcuni eventi del '92-'93 dei quali era stato un testimone. Il punto chiave, secondo D'Ambrosio, era la nomina di Francesco Di Maggio a vicecapo delle carceri, avvenuta a giugno '93: «Fu dirottato con un provvedimento sui generis . Chi ce lo ha mandato?». Il magistrato ricordava di aver visto scrivere il decreto di nomina nella stanza di Liliana Ferraro, la principale collaboratrice di Falcone che gli succedette come capo degli Affari penali, e aggiungeva che in quel periodo i problemi erano due: l'alleggerimento del 41 bis e i colloqui investigativi per contattare i detenuti mafiosi e vedere se poteva maturare qualche collaborazione. «Io non credo che Ciccio Di Maggio fosse favorevole all'alleggerimento del 41 bis», aggiungeva. Mancino sosteneva di non aver mai saputo niente di queste dispute e D'Ambrosio spiegava: «Perché l'alleggerimento del 41 bis riguardava Mori, polizia, Parisi, Scalfaro e compagnia». Sui colloqui investigativi e i «rapporti un po' sconsiderati», invece, gli interessati sarebbero stati «Di Maggio e Mori». Considerazioni che non tranquillizzavano l'ex ministro il quale, quando i pm di Caltanissetta chiusero la loro inchiesta stigmatizzando il comportamento di alcuni politici di allora, fece altre rimostranze. Stavolta con l'allora procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, che aveva già chiesto il provvedimento dei magistrati nisseni e disse a Mancino: «Comunque io sono chiaramente a sua disposizione. Adesso vedo questo provvedimento e poi magari ne parliamo. Se vuole può venire quando vuole». E Mancino: « Guagliò , così come vengo vado sui giornali...». Dal Quirinale, il 4 aprile, partì la lettera con la quale si invitava il massimo rappresentante dell'accusa a valutare l'esercizio dei suoi poteri, anche sulla procura nazionale antimafia. Al posto di Esposito stava arrivando il nuovo pg Ciani, e D'Ambrosio l'indomani spiegò a Mancino: «Ho parlato con Ciani, hanno voluto una lettera così fatta per sentirsi più forti...». All'ufficio di Grasso fu chiesta una relazione sul lavoro svolto, che giunse qualche settimana più tardi: il coordinamento era stato assicurato secondo le regole, che non prevedeva né il suggerimento di ipotesi investigative alternative ad altre, né la limitazione dell'autonomia dei pm.

E il Colle rassicurò Mancino: "Il presidente sa già tutto". Inchiesta Stato-mafia, ecco le telefonate segrete. Contatti frenetici tra i palazzi del potere romano mentre i pm di Palermo indagano sulla trattativa con Cosa nostra. Dalle carte emergono i ripetuti contatti tra l'ex ministro dell'Interno e il consigliere giuridico del Quirinale. Questo secondo l’inchiesta di Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo. Su “La Repubblica”.Trattativa mafia-Stato, affondo Idv."Serve una commissione d'inchiesta". Un patto lungo vent'anni fa tremare ancora oggi molti potenti. E dopo tanto tempo, chi ha paura cerca appoggi e protezioni. In alto, fino al Capo dello Stato. Come l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino. Lui fa intendere che da solo non può sopportare tutto il peso di quel patto cercato con la mafia. E qualcuno, al Quirinale, spende anche il nome del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Poi, si muove nell'ombra per risolvere nel più indolore dei modi un affaire che sembra trascinare nel gorgo rais della politica e burocrati di rango finiti nelle indagini dei magistrati di Palermo. "Eccomi, io ho parlato con il Presidente e ho parlato anche con Grasso (il procuratore nazionale antimafia)", dice il consigliere giuridico del Quirinale Loris D'Ambrosio il 12 marzo 2012 rispondendo alle insistenti richieste dell'ex ministro Mancino che, per l'ennesima volta, gli chiede un intervento per tirarlo fuori dall'inchiesta dei pm siciliani sulla trattativa. Nicola Mancino si sente perduto, è incalzato dai magistrati che gli chiedono conto e ragione di certi suoi comportamenti al tempo delle stragi, e allora prova a chiedere aiuto al Quirinale. Protesta. Sostiene che i magistrati di Palermo e Caltanissetta e Firenze - quelli che indagano sulla trattativa - non si coordinano "e che arrivano a conclusioni contraddittorie fra di loro". L'ex ministro parla sempre con il consigliere giuridico del Presidente Napolitano. Ed è ascoltato, giorno dopo giorno. In un'interrogazione al ministro della Giustizia Paola Severino, il leader dell'Idv Antonio Di Pietro afferma che è necessario appurare se gli interventi effettuati nei mesi scorsi "da sedi esterne alla giustizia" presso il procuratore generale della Cassazione per le indagini sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, abbiano "sortito degli effetti". Per "prime le più alte istituzioni dovrebbero tutelare e rispettare l'indipendenza della magistratura, e non fare pressioni su di essa, che deve poter agire senza speranza e senza timore", sottolinea Di Pietro riferendosi alla pubblicazione sui media delle intercettazioni tra l'ex presidente del Senato, Nicola Mancino, e alcuni alti esponenti della magistratura e delle istituzioni. "La magistratura - scrive ancora il leader Idv - attraverso diverse procure della Repubblica, pur tra molte difficoltà, sta meritoriamente indagando se ci fu una trattativa tra Stato e mafia e quali ne furono i contorni, tema in merito al quale è vitale per la nostra democrazia conoscere gli eventuali responsabili; altrettanto essenziale per la nostra democrazia è sapere se c'è chi vuole mantenere, soprattutto all'interno delle istituzioni, quella pagina di storia ancora oscura, sia omettendo di dare le informazioni, sia frapponendo ostacoli alle indagini; recentemente la stampa ha dato notizia di interventi, effettuati da persone indagate, presso le più alte sedi istituzionali, volte a chiedere interventi sulle indagini in corso presso la Procura generale della Corte di Cassazione". La proposta di Di Pietro viene bocciata come "una follia" dal capogruppo del Pd in Commissione Antimafia Laura Garavini: "Una commissione d'inchiesta parlamentare sulla presunta trattativa Stato-mafia per noi si tratterebbe di una inutile moltiplicazione di organismi che non garantisce la chiarezza e la verità su quanto è accaduto negli anni delle stragi di mafia. Inoltre, la proposta pretende di azzerare il lavoro di indagine che stiamo compiendo da tempo in Commissione Antimafia: delegittimare l'impegno di questi mesi è del tutto irresponsabile".

Secondo “La Stampa” il Quirinale tace, limitandosi a sottolineare ufficiosamente come «sia già stata fatta chiarezza» e rimandando alla nota di alcuni giorni fa e agli interventi di Napolitano al Csm nei quali si richiamava la necessità di coordinamento tra le iniziative in corso presso varie Procure. Che è proprio parte di quanto ha chiesto reiteratamente Nicola Mancino, ex presidente del Senato, ex ministro degli Interni ed ex vice presidente del Csm, ad uno dei più stretti collaboratori del presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio. Dagli atti ormai pubblici si legge che il 5 marzo scorso un preoccupato Mancino parla al telefono proprio con D’Ambrosio: teme il confronto in aula con Vincenzo Scotti, suo predecessore al Viminale e chiede un intervento del Quirinale. Qui la situazione diventa confusa: D’Ambrosio, secondo le carte, non avrebbe nascosto a Mancino la difficoltà della situazione spiegandogli che gli unici in grado di intervenire sarebbero stati il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, e il Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso che oggi ha confermato di aver avuto un incontro diretto con D’Ambrosio. La presidenza della Repubblica invece sceglie di rendere pubblica una lettera del segretario Generale, Donato Marra, inviata lo scorso aprile all’allora Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Vitaliano Esposito. Nella lettera si riportano le preoccupazioni di Mancino e si chiede, a nome del capo dello Stato, che «possano essere prontamente adottate iniziative che assicurino la conformità di indirizzo» delle procure. Tutto ciò, si legge nella lettera di Marra, «al fine di dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate». Ed oggi la Procura generale presso la Corte di Cassazione ha fornito una sponda al Quirinale: «tutto è avvenuto nell’ambito della legge e delle prerogative previste», precisa il nuovo procuratore generale, Gianfranco Ciani, che allora stava sostituendo Esposito. Ma la polemica non si ferma. E al di là della richiesta di una Commissione d’inchiesta, il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Severino per sapere «se siano noti i motivi che hanno portato l’ex ministro Nicola Mancino a porre in essere quelle azioni che all’unisono la stampa definisce "indebite pressioni" nei confronti del Procuratore Nazionale Antimafia e di alti funzionari del Quirinale». Grasso ha confermato l’incontro con Mancino che definisce «un uomo che si sente accerchiato e perseguitato» ma ha negato di aver mai fatto alcunchè per agevolare l’ex presidente del Senato. Grasso precisa anche che D’Ambrosio in almeno un’occasione gli ha parlato delle «esigenze» di Mancino. Fin qui l’attualità: ma Pietro Grasso, nell’intervista al ’Fatto quotidianò torna sul cuore del problema, cioè la trattativa fra Stato e mafia e chiede che i rappresentanti delle istituzioni «inizino a collaborare» per fare luce su quanto avvenne in quegli anni di stragi e bombe. Intanto il portavoce del Quirinale, Pasquale Cascella, invita "via twitter" a guardare ai «fatti veri», giocando sulle parole con il giornale che più di tutti sta cavalcando la vicenda, e cioè i discorsi di Napolitano al Csm. E polemizza a distanza con Antonio Di Pietro. «Possibile che ex magistrati e avvocati ora impegnati in politica ignorino l’art. 104 d.lgs 6.9.2011 n.159 sulle attribuzioni Pg Cassazione?», twitta Cascella senza nominare direttamente l’ex Pm. Che però gli risponde così: «Non ignoriamo affatto l’articolo 104 sulle attribuzioni del Pg della Cassazione, invitiamo Cascella o chi per lui a non nascondersi dietro a un dito». Tweet di controreplica di Cascella: «io mi firmo con nome e cognome e non ho bisogno di nascondermi, come altri hanno fatto». Anche il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, sceglie Twitter per difendere Napolitano: «è in corso un’aggressione indegna alla presidenza della Repubblica».

La lotta alla mafia dovrebbe avere unità di intenti, invece per Anna Maria Greco su “Il Giornale” le Toghe in rivolta contro Antonio Ingroia: "Fango sugli ex ministri". Le polemiche sulla presunta trattativa Stato-mafia mettono in imbarazzo il Quirinale e dividono sulle indagini palermitane le toghe, soprattutto la corrente di sinistra Magistratura democratica, quella di Antonio Ingroia. Sul suo blog Antonio Di Pietro insiste ad attaccare il capo dello Stato, che avrebbe «interferito» nell’inchiesta su richiesta di Nicola Mancino (accusato di falsa testimonianza), ministro dell’Interno all’epoca delle stragi del ’92-’93. «Rimangono oscuri- dice il leader Idv - i motivi per cui il presidente della Repubblica abbia inviato una lettera sulla vicenda Mancino al procuratore generale della Cassazione, motivando a posteriori la missiva con l’esigenza di “un coordinamento tra le Procure” (Palermo, Caltanissetta e Firenze). Non è un atto improprio, visto che la responsabilità del coordinamento delle indagini per fatti di mafia appartiene al procuratore nazionale antimafia?». La notizia della telefonata al Quirinale di Mancino (vicepresidente del Csm guidato da Napolitano dal 2006 al 2010) ha generato un piccolo terremoto. Dal Colle solo silenzio, dopo la nota per respingere le illazioni rendendo nota la lettera del segretario generale Donato Marra. Ma in difesa di Napolitano interviene la Guardasigilli: «Il Quirinale - dice Paola Severino - si è sempre comportato in maniera assolutamente rispettosa dei diritti e delle istituzioni». E la sua collega agli Interni, Annamaria Cancellieri, invita a lasciar lavorare la magistratura. Dopo il procuratore capo di Palermo Messineo anche Ingroia, che coordina le indagini in questione, garantisce di non aver subito pressioni dal Quirinale, pur non negando il tentativo di Mancino. «È ormai - dice - una cattiva abitudine molto diffusa quella di cercare scorciatoie per affermare la propria innocenza». Una delle mosse di Ingroia, l’avviso di garanzia al novantenne ex Guardasigilli Giuseppe Conso per false informazioni, ha aperto un’accesa polemica tra i magistrati, molti dei quali sulle mailing list difendono la sua «esemplare rettitudine ». Per primo l’ha fatto pubblicamente il pm romano Nello Rossi, tra gli esponenti storici di Md. Ne è nata una bufera e nel weekend se ne occuperà il vertice della corrente di sinistra. «C’è una vera e propria spaccatura, una ribellione - dice l’ex segretario Rita Sanlorenzo - conosciamo la statura morale di Rossi, ma l’attestato di stima a Conso delegittima i magistrati di Palermo». Per Claudio Martelli, predecessore di Conso, la sua decisione di togliere dal carcere duro centinaia di boss mafiosi, ebbe il consenso del capo dello Stato (che allora era Oscar Luigi Scalfaro). «Mi hanno fatto fuori - aggiunge Vincenzo Scotti, ministro dell’Interno prima di Mancino - e dopo di me ci fu un cambiamento di linea».

Intanto Filippo Facci si chiede: come dicono in televisione - va fatta una premessa, anzi una domanda. Antonio Ingroia quando lavora? Lui e Giulio Cavalli (che non è il suo stilista, ma un «attore, scrittore, regista e politico italiano») il 18 giugno 2012 avevano organizzato la presentazione di un libro proprio durante la partita dell’Italia, peraltro prevista da mesi. Hanno dovuto rinviare dopo trattativa. Il libro era «Palermo, gli splendori e le miserie, l’eroismo e la viltà» (Melampo) di Antonio Ingroia, uscito un mese dopo «Io so. Antonio Ingroia racconta il ventennio berlusconiano» (Chiarelettere) e quattro mesi dopo «Il sentimento del giusto, un dialogo nel tempo con Paolo Borsellino» a cura di Antonio Ingroia, che oltretutto non si perde un convegno o una comparsata ma soprattutto rilascia interviste a raffica.

COSE DI COSA NOSTRA.

Il libro, "COSE DI COSA NOSTRA", frutto di 20 interviste fatte da Marcelle Padovani al giudice Falcone tra marzo e giugno del 1991, si articola in sei capitoli riguardanti aspetti diversi della mafia, nonostante il cuore di questo problema sia sempre lo stesso: lo Stato.

"Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere." Giovanni Falcone.

"La mafia sistema di potere, articolazione del potere, metafora del potere, patologia del potere. La mafia che si fa Stato dove lo Stato è tragicamente assente. La mafia sistema economico, da sempre implicata in attività illecite, fruttuose e che possono essere sfruttate metodicamente. La mafia organizzazione criminale che usa e abusa di tradizionali valori siciliani. La mafia che in un mondo dove il concetto di cittadinanza tende a diluirsi mentre la logica dell'appartenenza tende, lei, a rafforzarsi; dove il cittadino, con i suoi diritti e i suoi doveri, cede il passo al clan, alla clientela, la mafia, dunque, si presenta come una organizzazione dal futuro assicurato. Il contenuto politico delle sue azioni ne fa, senza alcun dubbio, una soluzione alternativa al sistema democratico. Ma quanti sono coloro che oggi si rendono conto del pericolo che essa rappresenta per la democrazia?" Marcelle Padovani.

Giovanni Falcone. Giovanni Falcone (1939-1992) nato a Palermo nel 1939. È stato assassinato il 23 maggio 1992. Entrò in magistratura nel 1964. Dopo essere stato pretore a Lentini e pubblico ministero e giudice a Trapani, fu dal 1978 al marzo 1991 giudice istruttore e procuratore aggiunto della Repubblica a Palermo. Nel marzo 1991 fu nominato direttore generale degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia. Marcelle Padovani è corrispondente da Roma per "Le Nouvel Observateur". Ha scritto: La longue marche: le Parti communiste italien; La Sicilia come metafora, intervista con Leonardo Sciascia; Vivre avec le terrorisme; Les dernières années de la mafia; Sicile; L'Italie des Italiens.

CAPITOLO 1 - LA VIOLENZA

La violenza è la manifestazione più tangibile di Cosa Nostra, in quanto risveglia sempre l'attenzione pubblica per la sua crudeltà e per i segni evidenti che non possono essere nascosti, come succede invece per altri atti illegali, come il traffico di droga, il riciclaggio di denaro sporco, la vendita di armi, ecc. Cosa Nostra ha un vero e proprio arsenale di strumenti di morte, ma i preferiti sono i mitragliatori Kalashnikov, le pistole a canna corta, i bazooka, i fucili lanciagranate e l'esplosivo, anche se quest'ultimo è usato solo per i delitti spettacolari. La lupara non è più adatta agli omicidi, perchè le tecniche sono ormai avanzate; il sistema preferito è comunque quello della "lupara bianca", ovvero la scomparsa materiale della vittima: prima viene preferibilmente strangolata (per non fare rumore e non spargere sangue) poi viene fatta sciogliere nell'acido, per non lasciare traccia. Gli omicidi spettacolari, quelli con l'esplosivo, sono riservati agli uomini che viaggiano con la scorta in auto blindate, e devono servire da deterrente per chi si interessa agli affari di Cosa Nostra. Bisogna comunque ricordare che la violenza della mafia non è mai gratuita, ma ha sempre uno scopo e un motivo preciso, anche se per chi non fa parte dell'organizzazione certi moventi non possono giustificare le reazioni. Conoscendo meglio la mentalità mafiosa si può anche capire che non ci sono tecniche di omicidio preferite ad altre per tradizione: la scelta è operata solo in base alla funzionalità anche il famoso incaprettamento non è una pratica riservata agli infami, ma solo un modo per trasportare il cadavere nel bagagliaio di un'auto. Un uomo d'onore non può rifiutare di uccidere, se questo è ordinato dalla Commissione (un organismo collegiale di Palermo) o dal capo famiglia. Cosa Nostra si fonda sulla regola dell'obbedienza; per gli uomini d'onore quel che conta è il coraggio dimostrato dall'omicida e la sua professionalità. Infine posso ricordare che un uomo d'onore può ucciderne un altro solo se questo ha commesso qualcosa di molto grave, e solo se l'omicidio è autorizzato dai gradi più alti della cupola. I siciliani, i mafiosi in particolare, non hanno paura della morte, perchè sanno che può arrivare da un momento all'altro e non se ne preoccupano, al contrario di quasi tutti gli altri popoli.

CAPITOLO 2 - MESSAGGI E MESSAGGERI

Una delle attività principali degli uomini d'onore e dei magistrati è quella di interpretare segni, gesti, messaggi e silenzi, tipici dei mafiosi, ma più in generale dei siciliani che, come si sa, sono molto discreti. L'uomo d'onore deve parlare solo di quello che lo riguarda direttamente, solo se gli viene rivolta una precisa domanda e solo se è in grado e ha diritto di rispondere. Su questo principio si basano i rapporti interni alla mafia e quelli tra essi e il resto della società. I membri di Cosa Nostra esigono di essere rispettati e rispettano solo chi manifesta nei loro confronti un pò di riguardo. Nel mondo della mafia tutto è messaggio carico di significati, niente è trascurabile, ma a volte gli uomini d'onore non possono spiegare i concetti fin nei minimi dettagli, anzi, cercano di parlare il meno possibile, così si esprimono spesso attraverso immagini, frasi enigmatiche, esempi e racconti, di cui bisogna ricavare il significato; per fare questo però è necessaria una conoscenza perfetta della mentalità mafiosa. Questo attaccamento a tutti i dettagli sembra patologico, mentre è naturale per chi vive a contatto col pericolo ed ha bisogno di comprendere il significato degli indizi apparentemente più irrilevanti. Inoltre bisogna ricordare che tutte le iniziative dello stato sono accolte con scherno anche dalla popolazione, non solo dalla mafia. I messaggi diretti all'esterno dell'organizzazione mutano stile a seconda del risultato che si vuole ottenere; si va dalle informazioni, agli avvertimenti, alle intimidazioni, fino all'omicidio. L'unica regola è quella di dire sempre la verità altrimenti è meglio non parlare neanche. Infine, in Sicilia non esiste il concetto di arma dissuasiva e per questo non si gira armati abitualmente; la pistola serve a sparare e si usa quando sai che chi hai di fronte cercherà di ucciderti.

CAPITOLO 3 - CONTIGUITA'

Questo capitolo tratta degli innumerevoli intrecci tra vita siciliana e mafia. Cosa Nostra è un'organizzazione decisamente conservatrice; il continuo richiamo dei mafiosi al Vangelo è un espediente, ma esprime anche il conformismo ai tradizionali valori cristiani ed anzi, i mafiosi vi si adeguano con maggiore rigore della media dei credenti. Anche la vita privata deve essere sottoposta a regole molto ferme: la vita coniugale deve essere sotto controllo, moglie e figli devono essere protetti e fatti rispettare e se poi un uomo d'onore vuole avere relazioni extraconiugali può farlo, ma discretamente, senza renderle pubbliche; la passione per il gioco d'azzardo deve limitarsi a un fatto personale e non appariscente; anche i traffici di droga e di armi devono essere trattati solo a titolo personale. Comunque i mafiosi svolgono un lavoro duro, che richiede costanza, coraggio e crudeltà, ma ciò non impedisce loro di godere della ricchezza e del sesso. Il vecchio mafioso contadino aveva costumi austeri consoni al suo contesto. Il mafioso urbano di oggi ha assimilato la cultura del consumismo e si è adeguato ai canoni del mondo moderno, conservando però la cultura dell'appartenenza e della fedeltà ai valori fondamentali. La dignità è per i siciliani un valore molto importante, più che per noi. Anche il loro modo di porsi davanti alla morte è fondamentale: chi si suicida è un perdente; per un uomo d'onore morire assassinato non è piacevole, ma può essere fonte di prestigio, per lui, per i suoi discendenti e per chi lo uccide. Si può dire che la mafia si alimenti dello Stato, in quanto adatta il proprio comportamento al suo; tutta la Sicilia, compresa Cosa Nostra, è ferita dal comportamento delle istituzioni, e finchè lo stato si disinteresserà di questi problemi la mafia diventerà più forte. Gli uomini d'onore non sono diabolici o schizofrenici, ma sono attaccati fino all'esasperazione ai valori tradizionali siciliani: la riservatezza, che solitamente è un comportamento da ammirare e sarebbe gradito anche al Nord, in Sicilia si trasforma in omertà ma anche nella regola di non mettersi mai in condizione di dover dimostrare la propria forza e il proprio potere; l'abitudine di fare regali può diventare corruzione. La conclusione è che c'è una straordinaria contiguità economica, ideologica e morale tra mafia e non mafia, tra valori siciliani e valori mafiosi.

CAPITOLO 4 - COSA NOSTRA

Questo è il capitolo che ho trovato più interessante e parla specificamente di Cosa Nostra e della sua organizzazione. In Sicilia gli uomini d'onore sono probabilmente più di cinquemila. Sono dei veri professionisti del crimine scelti dopo una durissima selezione e devono obbedire a regole severe. Al momento dell'iniziazione i candidati vengono condotti in una stanza in un luogo appartato, alla presenza del rappresentante della famiglia e di altri uomini d'onore. A volte i candidati sono chiusi in una stanza per alcune ore e vengono fatti uscire uno per volta; a questo punto il rappresentante della famiglia espone loro le norme che regolano l'organizzazione, affermando prima di tutto che quella comunemente detta mafia si chiama in realtà Cosa Nostra. Avverte quindi i nuovi venuti che sono ancora in tempo per rinunciare all'affiliazione e ricorda loro gli obblighi che comporta l'appartenenza all'organizzazione, fra cui: non desiderare la donna di altri uomini d'onore; non rubare; non sfruttare la prostituzione; non uccidere altri uomini d'onore, salvo in caso di assoluta necessità; evitare la delazione alla polizia; non mettersi in contrasto con altri uomini d'onore; dimostrare sempre un comportamento serio e corretto; mantenere con gli estranei il silenzio assoluto su Cosa Nostra; dire la verità; non presentarsi mai ad altri uomini d'onore da soli, in quanto le regole impongono che un altro uomo d'onore, conosciuto da entrambi, garantisca la rispettiva appartenenza all'organizzazione pronunciano le parole: "Quest'uomo è la stessa cosa". Ora il candidato deve riaffermare la propria volontà di adesione e scegliere un padrino. Poi c'è la cerimonia del giuramento che consiste nel chiedere a ognuno con che mano spara e praticare sul dito indice di questa una piccola incisione, dalla quale si farà uscire una goccia di sangue per imbrattare un'immagine sacra. All'immagine viene quindi dato fuoco e l'iniziato, cercando di non spegnerlo mentre la fa passare da una mano all'altra, giura solennemente di non tradire mai le regole di Cosa Nostra, meritando in tal caso di bruciare come l'immagine: si entra nell'organizzazione col sangue e se ne esce solo col sangue. E' interessante parlare anche della gerarchia mafiosa, ovvero la Cupola: dopo l'iniziazione il rappresentante o il capo della famiglia spiega al neofita i livelli gerarchici della famiglia, della provincia e di cosa Nostra nel suo insieme, soffermandosi sul "capo decina" il quale è alla testa di almeno dieci uomini d'onore, al quale l'iniziato farà direttamente capo; non è ammesso alcun rapporto diretto col rappresentante. Tuttavia nel palermitano può capitare che alcuni uomini d'onore dipendano dal rappresentante, diventando i suoi uomini di fiducia, incaricati dei compiti più delicati e segreti. La "famiglia" è l'unità base dell'organizzazione mafiosa e controlla una frazione di territorio; per gli affari che non rientrano nel territorio della famiglia c'è un'autorità superiore, il rappresentante provinciale, ad eccezione della provincia di Palermo, dove esiste un organismo collegiale: la Commissione. Non tutti possono aderire a Cosa Nostra: bisogna essere violenti, capaci di uccidere, valorosi, non avere parenti in magistratura e forze dell'ordine, ma possibilmente nell'ambito mafioso, essere maschi. Concludendo, Cosa Nostra si può paragonare a una bellissima rosa, che però non si può toccare perchè ha le spine.

CAPITOLO 5 - PROFITTI E PERDITE

Sia per i siciliani che per gli uomini d'onore la prostituzione e il gioco d'azzardo sono attività disonorevoli, tollerate a titolo personale se svolte in modo non vistoso. Le estorsioni invece sono praticate in modo sistematico e costituiscono un mezzo efficace per consolidare il controllo su un territorio, obbiettivo primario di ogni famiglia. Una volta si chiedevano alle vittime piccoli contributi per aiutare i prigionieri e in cambio si offriva una protezione effettive, mentre ora la tangente è un riconoscimento formale dell'autorità mafiosa e non garantisce la protezione. I frutti del racket oggi servono a finanziare gli strati più bassi dell'organizzazione, a pagare la manodopera e il mondo che le ruota attorno. La maggior parte dei guadagni mafiosi è dovuta alle imprese locali, e soprattutto a quelle edili, sia attraverso gli appalti sia con l'estorsione. Gli appalti sono infatti una delle principali attività di Cosa Nostra. Non si può sostenere che i mafiosi non lavorino, che si accontentino di gestire le loro rendite di ricatti e minacce; non è vero, lavorano e fanno fruttare il loro capitale, comportandosi da persone serie. I mafiosi possono essere intelligenti, duttili e intraprendenti, ma vivono come parassiti perchè è più facile; penso che la differenza sostanziale tra noi e i mafiosi sia che loro fanno del parassitismo una regola di vita, mentre noi, pur comportandoci a volte nello stesso modo, cerchiamo di non darlo a vedere o di nasconderlo. Un'altra regola di vita in Sicilia è il clientelismo; è molto difficile far emergere qualità e capacità professionali, quindi è meglio avere gli amici giusti per ottenere una spintarella, così la mafia, che esprime sempre l'esasperazione dei valori siciliani, finisce per far apparire come un favore quello che è il diritto di ogni cittadino. Non che al nord fatti del genere non succedano, anzi, sono più frequenti di quanto ci si immagina, ma sono mascherati piuttosto bene; questo porta a riflettere e a chiedersi se siamo peggio noi che mascheriamo le nostre malefatte per la paura di essere scoperti, o i siciliani che almeno hanno il coraggio di uscire allo scoperto, o quasi.

CAPITOLO 6 - POTERE E POTERI

Il potere è l'essenza della mafia, ma essa è l'espressione di un bisogno di ordine e quindi di Stato; ma che rapporto ha lo Stato con Cosa Nostra? Possiamo dire che l'impegno della nazione nella lotta alla criminalità organizzata è emotivo, episodico, fluttuante, motivato solo dall'impressione suscitata da un dato crimine o dall'effetto che un'iniziativa di governo può esercitare sull'opinione pubblica. All'estero (e non solo) si chiedono come mai lo Stato italiano non è ancora riuscito a debellare la mafia: i motivi sono numerosi. Prima di tutto la struttura a cupola rende impermeabile la struttura alle indagini. In secondo luogo l'Italia è una nazione relativamente giovane e con una situazione politica (passata e presente) che ostacola ogni possibilità di lotta seria e decisa, a causa dei comportamenti bigotti, irresponsabili e pieni di pregiudizi dei politici, in qualsiasi epoca. Secondo me un altro ostacolo è la discontinuità dell'impegno, per vari motivi: paura, corruzione, negligenza, ecc. Alcune persone hanno collaborato attivamente e in modo utile a debellare la mafia, come Falcone, Borsellino ed altri nominati nel libro, ma a volte sono stati ostacolati e derisi anche dai propri colleghi, altrimenti può darsi che le indagini sarebbero già molto più sviluppate, grazie anche all'aiuto dei pentiti che uomini molto professionali come appunto Falcone hanno "convinto" a collaborare. Come spiega il giudice infatti, bisogna conoscere alla perfezione la mafia e la Sicilia prima di interrogare un uomo d'onore e prima di trarre conclusioni affrettate, perchè ogni minimo dettaglio ha un valore non trascurabile. Concludendo, penso che prima di cercare di combattere la mafia, sia necessario che lo stato italiano sia politicamente, socialmente ed economicamente stabile, il che non è facile.

Nella giornata dedicata al ventennale della morte di Giovanni Falcone, non abbiamo solo dovuto assistere a ostentazioni di amicizia da parte di coloro che da sindaci, giornalisti, uomini di partito, furono avversari spietati e calunniatori indefessi di Falcone e Borsellino, ma anche a una sorta di cerimonia incrociata, nella quale le autorità facevano diretto riferimento a Melissa Bassi, uccisa, e alle altre ragazze rimaste coinvolte nell’attentato. Eppure sull'attentato di Brindisi si brancola nel buio...

Nel giorno del ventennale dalla strage di Capaci tutta la sinistra celebra la memoria Giovanni Falcone. E in quei giorni "La Repubblica", quotidiano che alla sinistra è molto vicino, vende come supplemento al giornale "Uomini soli a Palermo". Si tratta di un film e di un libro, "un'opera civile necessaria per ricordare Falcone e Borsellino, troppi soli per avere un altro destino", spiegano promuovendolo. C'è però un elemento che stride. Un tassello fuori posto: nel 1992, il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, proprio pochi mesi prima dell'assassinio di Falcone, scriveva che il magistrato era "un comico del carrozzone televisivo, un guitto". L'articolo è del 9 gennaio 1992, firmato da Sandro Viola. Il titolo: "Falcone, che peccato...". Secondo l'autore, il magistrato fu preso da febbre da presenzialismo televisivo. L'attacco è durissimo. "Da qualche tempo - scriveva Viola - sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s'era guadagnato. Egli è stato preso infatti da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell'impulso irrefrenabile a parlare che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali". E ancora, l'autore si interrogava sul perché "un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista". Quattro mesi dopo, Falcone, sarebbe stato ammazzato sull'autostrada, a Capaci. Secondo Viola, in Falcone "s'avverte l'eruzione d'una vanità, d'una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi". Ed è così, che nel giorno del ventennale della strage di Capaci, si scopre la "rimozione" operata da "La Repubblica". Sandro Viola, ai tempi, non venne toccato e mantenne il suo ruolo di editorialista. Ma oggi, effettuando una semplice ricerca online nell'archivio digitale di "La Repubblica", si scopre che l'articolo in cui veniva attaccato Falcone è stato rimosso, cancellato, è sparito. E' possibile recuperare ogni articolo di Viola, tranne - putacaso - quello del 9 gennaio del 1992. Il commento al vetriolo contro il giudice ammazzato dalla mafia, il commento che lo definiva un "guitto" da tv, un "presenzialista", si è volatilizzato. Ed è stato rimpiazzato dal cofanetto che di Falcone celebra la memoria.

Sinistra e Repubblica davano del "guitto" al giudice Falcone...Adesso i compagni lo osannano come "l'amico Giovanni", ma nel gennaio 1992 il quotidiano di Mauro lo massacrò: "Sempre in tv, incarna i peggiori vizi nazionali". E Leoluca Orlando disse: "Tiene nei cassetti le carte dei delitti eccellenti di mafia". Oggi, per la sinistra tutta, è «l’amico Giovanni». Perché, per dirla con De André, «ora che è morto la patria si gloria di un altro eroe alla memoria». Ma quando l’eroe Falcone era vivo, quando aveva bisogno di sostegno, perché «si muore generalmente perché si è soli», disse lui stesso, profeticamente, nel libro intervista a Marcelle Padovani Cose di Cosa nostra, altro che elogi, altro che osanna, altro che «amico Giovanni». Da Repubblica all’Unità, dal Pci alla Rete del redivivo neo sindaco Idv di Palermo Leoluca Orlando, persino qualche toga rossa di Magistratura democratica, tutto un coro: dalli a Falcone, tutti contro. La colpa, anzi le colpe? Diverse - dall’incriminazione per calunnia del pentito Giuseppe Pellegriti che accusò Salvo Lima, alla scelta di andare a Roma, al fianco dell’allora ministro di Giustizia Claudio Martelli, a dirigere gli Affari penali - riconducibili però a un unico peccato originale: l’essere, Giovanni Falcone, un magistrato tutto d’un pezzo, che non si lasciava influenzare da politica e umori di piazza, e che soprattutto, ai teoremi tanto cari a sinistra, preferiva una regola, così sintetizzata ancora in Cose di Cosa nostra: «Perseguire qualcuno per un delitto senza disporre di elementi irrefutabili a sostegno della sua colpevolezza significa fare un pessimo servizio». Fare memoria, nell’anniversario della strage di quel maledetto sabato di 20 anni fa, è anche questo. Perché è facile, potenza della tv, ricordare Orlando che accusò Falcone di «tenere le carte nei cassetti»(accusa costata all’«amico Giovanni» di oggi un procedimento davanti al Csm), o il «Giovanni, non mi piaci nel Palazzo» di un altro retino doc dell’epoca, l’avvocato Alfredo Galasso, durante una storica staffetta televisiva antimafia, a un mese dall’uccisione di Libero Grassi, tra Maurizio Costanzo e Michele Santoro, a settembre del 1991. Ma pochi forse ricordano un articolo firmato dal blasonato Sandro Viola pubblicato il 9 gennaio del 1992 da Repubblica e adesso prudentemente rimosso dal sito internet del quotidiano di Ezio Mauro. «Falcone che peccato...», il titolo. Che non rende appieno l’attacco, durissimo, al magistrato che quattro mesi dopo sarebbe stato ammazzato sull’autostrada, a Capaci. «Da qualche tempo – scrive Viola nell’editoriale – sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s’era guadagnato. Egli è stato preso infatti da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali». Viola si chiede «come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista». E attacca proprio Cose di cosa nostra, diventato dopo le stragi del ’92 una sorta di testamento morale di Falcone. «Scorrendo il libro-intervista – scrive ancora l’editorialista – s’avverte l’eruzione d’una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi». Non che Repubblica non fosse in buona compagnia, quanto a “sinistri” attacchi. Paolo Borsellino, vittima anche lui (57 giorni dopo Capaci, il 19 luglio del ’92) di quell’estate di sangue, diceva che l’«amico Giovanni» (stavolta sì che la familiarità è autentica), aveva cominciato a morire quando il fuoco amico dei colleghi gli aveva sbarrato la strada nel 1988, alla nomina a procuratore capo di Palermo. Fu Magistratura Democratica - tra le toghe di sinistra si distinse Elena Paciotti, poi europarlamentare Pd - a guidare la crociata contro Falcone. E sempre il fuoco amico di sinistra e colleghi di sinistra sbarrò a Falcone, poco prima di morire, la strada alla nomina alla guida della neonata Direzione nazionale antimafia. «Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché», tuonarono i compagni sull’Unità. Il tritolo di Capaci, poi, fece il resto. Quanti attacchi, quante amarezze da sinistra per l’«amico Giovanni». Attacchi che non si spengono, neanche dopo 20 anni. Al neo sindaco Leoluca Orlando - fu lui, da sindaco, a sposare nel 1986 Giovanni Falcone e Francesca Morvillo - Maria Falcone, la sorella del magistrato ucciso, ha mandato a dire, oggi: «Dica quattro parole: “Con Falcone ho sbagliato”».

La tragedia di Melissa Bassi dimostra ancora una volta la bassezza della nostra Italietta. Non quella Italia fatta di lavoratori che pagano le tasse e che si tolgono la vita quando non possono più sbarcare il lunario o dare un avvenire ai loro figli, ma quell’Italietta fatta da gente parassita che vive alle spalle della povera gente, finanziata dalle loro tasse. Gentaglia che rappresenta l'Italia in modo vergognoso. A tal proposito disgustato è il resoconto di Umberto Martelli su “Articolo Tre”. Ennesima caduta di stile, per una certa informazione italiana, che ha voluto cavalcare l'onda dell'attentato alla scuola Morvillo-Falcone di Brindisi, pubblicando le immagini della cameretta e della prima comunione di Melissa Bassi, l'unica giovane vittima che ha perso la vita in quell'infame mattinata del 19 maggio 2012. Ormai l'Italia è abituata ad un'informazione di "qualità" "sensibile" alle disgrazie e al dolore delle famiglie. L'ironia è da sottolineare. L'Italia è anche abituata a vedere vere e proprie orde di affamati e bavosi giornalisti pronti a scorgere una lacrima sul viso di un genitore, infilandosi nelle vite private delle famiglie cercando di scattare fotografie struggenti, appostandosi notte e giorno di fronte alle abitazioni di parenti e amici con la speranza di cogliere la disperazione per poi rivenderla al suo affamato quanto cinico pubblico, come se fosse una merce priva di significato, rendendo vano il lavoro di quelle centinaia di giornalisti che del loro mestiere ne hanno fatto una missione e non un infame gioco, alla ricerca della verità e molto spesso della giustizia. Turismo dell'orrore così è stato soprannominato dagli stessi mezzi d'informazione che molto spesso sono gli stessi fautori, gli stessi promotori di questo turismo basso e becero. Di esempi ne possiamo trovare a decine ma senza dover andare a rivangare troppo nel passato possiamo citare ad esempio l'assassinio di Sarah Scazzi dove proprio alcuni tg nazionali e alcuni giornali hanno marciato sull'uccisione di una ragazzina portando davanti al portone della casa di Avetrana centinaia di "stupidi", e scusate il termine, italiani. Oppure il caso Cogne, piccolo paese valdostano che ha visto negli anni successivi al processo Franzoni l'aumentare di vere e proprie processioni da tutta Italia per vedere la villetta dove si consumò il delitto del piccolo Samuele ed infine le fotografie dei "turisti" all'Isola del Giglio di fronte al relitto della Costa Concordia dove perirono 30 persone per la smania di un comandante un po' troppo su di giri. Nessuno vuole imputare ai mezzi d'informazione tutte le colpe per il cinismo e l'ignoranza di molte persone, ma c'è da dire che in qualche caso la colpa è evidente. Per fortuna l'Italia reale è un'altra rispetto a quella virtuale plasmata dall'informazione mainstream, l'Italia reale è quell'Italia che oggi su Twitter e su Facebook ha voluto gridare la propria indignazione a tale informazione postando decine di commenti sui profili web di molte tv e giornali ei media al grido di "vergogna", poi prontamente eliminati dai raffazzonati social media editor della redazione che forse non hanno capito che al web il bavaglio è difficile se non impossibile metterlo.

Ed i magistrati in Puglia? Ne parla Marco Ventura su Panorama. Ed allora Parliamone. Scoppiano tre bombole di gas collegate tra loro dentro un cassonetto dell’immondizia all’ingresso di una scuola di Brindisi e muore Melissa Bassi, 16 anni. Veronica, accanto a lei, lotta tra la vita e la morte, e ci sono altri quattro feriti. Figli nostri, nel mirino. Un orrore inaudito. L’Italia sotto shock. Ci si aspetta da chi indaga serietà, concordia e efficienza. Nulla di più, nulla di meno. Che i magistrati facciano il loro lavoro, che si mettano in silenzio a cercare il colpevole, o i colpevoli. Che s’impegnino con discrezione senza tregua. Assistiamo invece ad uno spettacolo indecente. I titolari dell’inchiesta sembrano impegnati più a litigare tra loro, a lanciare messaggi confusi, a tenere conferenze stampa e a dare interviste televisive (ma dove lo trovano il tempo?). L’impressione è quella del solito protagonismo, delle solite vanterie sulla rapidità degli accertamenti investigativi. Del solito caos, delle solite polemiche, perfino delle solite accuse ai giornalisti (che si limitano a divulgare le notizie fatte trapelare dai palazzi di giustizia). Davvero non sentivamo il bisogno di questa babele di voci in libertà, di alti funzionari dello Stato che aprono bocca e danno fiato uno contro l’altro tra gelosie malcelate, e che neppure di fronte a morti e feriti rinunciano a manifestare il loro incontenibile super Ego. Che si avventurano in ipotesi da loro stessi definite “premature” (ma che combaciano con l’interesse di ciascuno ad appropriarsi dell’inchiesta). L’ennesimo scontro di potere. Parliamone. Parliamo del procuratore capo di Brindisi, Marco Dinapoli, che all’indomani della strage convoca i giornalisti e rivela l’esistenza di immagini buone per l’inchiesta, registrate da una telecamera, “che ci siamo andati a prendere”. E lo dice, scrive l’agenzia di stampa nazionale ANSA, “sottolineando che gli investigatori hanno lavorato a testa bassa per raccogliere tutti gli elementi che vanno raccolti subito, altrimenti sarebbero andati perduti”. Che sarebbe il minimo, per degli investigatori. E aggiunge che in quel video c’è l’identikit dell’attentatore, anche se ancora non ha un nome: un uomo di 50-55 anni, bianco, probabilmente italiano. Esclusa di fatto la pista della mafia o della Sacra Corona Unita, così come quella del terrorismo eversivo, il procuratore capo di Brindisi già delinea il profilo psicologico dell’uomo: “Una persona arrabbiata e in guerra con il mondo, che si sente vittima o nemico di tutti e che utilizza una simile occasione per far esplodere tutta la sua rabbia”. I cronisti capiscono che la cattura è questione di ore. Che in realtà il nome esiste già, il giallo è risolto. Invece, colpo di scena, arriva un magistrato importante almeno quanto il suo collega, il procuratore capo della procura distrettuale antimafia di Lecce Cataldo Motta, che visibilmente contrariato dichiara alle Tv l’esatto opposto: “Non siamo in condizioni di dire che è il gesto di un folle. Non c’è da capire soltanto il movente, ma ancora tutto”. E quasi nega che esista un video. Intanto, però, le immagini del presunto attentatore vengono divulgate. Finiscono su Internet, la stampa le pubblica. Averle diffuse fa parte della strategia investigativa? Non per Motta, anzi: “Pubblicare quel video può aver danneggiato le indagini”. Attenzione: se anche litigano tra loro, i magistrati son sempre pronti a puntare l’indice sui giornalisti. “Pubblicare il video”, dice Motta. Non “divulgare”. La colpa è di quelli che divulgano le notizie (facendo il loro mestiere), non di quelli che le spifferano (contravvenendo al proprio dovere). Tanto, alla fine sono sempre i cronisti a “enfatizzare le diversità di vedute”. Motta incorre pure lui nell’errore del collega, avanzando teorie, “è difficile che abbia agito da solo”. Ma, precisa, “è prematuro dirlo”. Allora perché dirlo? Perché straparlare? Parliamone, invece, noi che non solo possiamo, ma dobbiamo. I genitori di Melissa e degli altri ragazzi meritano indagini più serie, più discrete, un messaggio più coerente e istituzionale da parte di chi dovrebbe cercare la verità e non il palcoscenico. Chi dovrebbe lavorare sulla scena del crimine, non su quella dei media.

Guai a mettersi contro i magistrati, ma non scherzano nemmeno i giornalisti, famosi per la loro permalosità. Ma è ancor di più pericoloso mettersi contro la chiesa, specie quella militante di sinistra sorretta e promossa dalla CGIL.

Già. Ma cosa centra Melissa Bassi con Don Ciotti e “Libera” con la sua schiera di sostenitori interessati, fruitori esclusivi dei beni confiscati alla mafia? Quel Don Ciotti e la sua creatura “Libera” osannata dalla stampa e dalla Tv ed a cui sono state dedicate sui servizi tv e sugli articoli di stampa più riferimenti e citazioni che alle Autorità presenti ed alla stessa Melissa.

Da una parte Marino Petrelli su “Panorama” spiega cosa è la Sacra Corona Unita e le sue possibili attinenze all’attentato. Melissa Bassi era nata a Mesagne 16 anni prima. Come Veronica Capodieci, e la sorella Vanessa, ricoverate a Lecce e Brindisi in condizioni gravi la prima, più stabili la seconda. Come le altre studentesse ferite nell’attentato all’istituto professionale “Morvillo Falcone”. Mesagne, città natale anche della Sacra Corona Unita. Da qui, l’allarme degli investigatori che inizialmente avevano pensato ad un collegamento tra l’attentato e la cosca malavitosa e avevano aperto un filone di indagini su quel pullman che portava le ragazze a scuola. Poi, la virata verso altre ipotesi e l’identikit che emergerebbe da un video tenuto ancora segretissimo dalla procura di Brindisi. Oggi il paesone di 27mila abitanti a dieci chilometri da Brindisi cerca di scacciare l’impronta mafiosa che subito i media hanno appiccicato sulle spalle scosse della cittadina, anche a seguito dell’episodio accaduto il 4 maggio con l’attentato alla macchina di Fabio Marini, presidente dell’antiracket locale. Cerca di “rompere questo silenzio senza indugi”, come ha dichiarato Don Ciotti nell’omelia della messa domenicale. È proprio lì che, nel 1981, è nata la Sacra Corona Unita (Scu), che nelle intenzioni di Giuseppe “Pino” Rogoli sarebbe dovuta diventare la quarta “stella” accanto alla mafia siciliana, la camorra napoletana e l’ndragheta calabrese. Sacra, perchè al momento dell’affiliazione il nuovo membro viene “battezzato” o “consacrato”. Corona, poichè nelle processioni si usa il rosario (appunto, una coroncina). Unita, per ricordare la forza di una catena fatta di tanti anelli. Come nel caso della liturgia mafiosa anche i pugliesi hanno la formula del giuramento che varia a seconda del clan. La Scu, al momento della sua massima espansione, era divisa in 47 clan, autonomi nella propria zona ma tenuti a rispettare interessi comuni a tutti i circa 1.600 affiliati. Il primo grado è la “picciotteria”, il successivo il “camorrista”. Seguono sgarristi, santisti, evangelisti, trequartisti, medaglioni e medaglioni con catena della società maggiore. Otto medaglioni con catena compongono la “Societa’ segretissima” che comanda un corpo speciale chiamato la “squadra della morte”. Recenti dati forniti dall’Eurispes dicono che la Scu guadagni 878 milioni di euro l’anno dal traffico di stupefacenti, 775 milioni dalla prostituzione, 516 milioni dal traffico di armi e 351 milioni dall’estorsione e dall’usura. Un giro d’affari di circa 2 miliardi e mezzo di euro. Secondo la Direzione investigativa antimafia, oggi la criminalità organizzata pugliese “si presenta disomogenea, anche in ragione della persistente pluralità di consorterie attive, molto diversificate nell’intrinseca caratura criminale e non correlate da architetture organizzative unificanti”. Con l’operazione “Last Minute” del 28 dicembre 2010, con la quale furono arrestati 18 tra capi e promotori della Scu, si riteneva di aver inflitto un colpo mortale alla criminalità organizzata locale. Lo scorso 9 maggio 2012, gli investigatori hanno portato a segno un altro colpo importante, arrestando, a Mesagne, 16 persone accusate di associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, porto illegale di armi da fuoco, danneggiamento aggravato e incendio aggravato. E il 12 maggio 2012 è finita alla stazione Termini di Roma la latitanza di Roberto Nisi, ritenuto uno dei leader di un sodalizio criminale dedito al traffico di droga e alle estorsioni. Colpi duri inferti alla Scu, il cui terrorismo mafioso è stato scacciato in Puglia nell’ultimo decennio. In realtà, a San Pietro Vernotico, nel brindisino, c’era un gruppo chiamato dai media locali “i nipotini di Riina” perché usavano una violenza sempre esagerata, ispirata appunto al boss di Corleone. Gli esponenti di questo gruppo, arrestati in buona parte due anni fa, hanno assunto le pose della strategia corleonese diventando nel tempo sempre più pericolosi. Il pm Cataldo Motta ha dichiarato che “la loro pericolosità è legata principalmente alla capacità d’immagine ma anche a quella aggregazione di tutti quei piccoli malavitosi rimasti in circolazione. Oggi la Sacra Corona Unita non è in difficoltà, ha subito un cambiamento di pelle”. Intanto, un vile attentato ha portato via una ragazza del paese. Chi ha visto parlerà, dicono a Mesagne. Perché sarà meglio per gli assassini fare i conti con la giustizia dello Stato piuttosto che con quella della Sacra Corona Unita. I bambini non si toccano, neppure nel codice d’onore del peggior delinquente. Ma, codici a parte, Melissa non c’è più. E aveva soltanto sedici anni.

Quindi alla domanda: ma cosa centra Melissa Bassi con Don Ciotti e “Libera”, la risposta la danno i cittadini di Mesagne attraverso il racconto di Mimmo Mazza sul “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La capitale dell'antimafia sociale (come la definisce il presidente della Carovana antimafia Alessandro Cobianchi) non ci sta. Listata a lutto in attesa dei funerali di Melissa Bassi, in programma oggi pomeriggio alle 16.30 nella chiesa madre alla presenza tra gli altri del presidente del Consiglio Mario Monti e del ministro dell'interno Anna Maria Cancellieri, Mesagne si ribella a chi utilizza l'attentato che è costato la vita alla 15enne studentessa dell'istituto professionale Falcone - Morvillo di Brindisi e ha provocato il ferimento di altre cinque giovani mesagnesi, per rispolverare antichi cliché, utilizzati venti anni fa per descrivere quella che era la capitale della Sacra Corona Unita. «Era» dice e sottolinea il sindaco Franco Scoditti. «Era anni e anni fa. Ora la storia è diversa, ora c'è una Mesagne che reagisce, che lotta e che lavora. Io e i miei cittadini proviamo dolore, sgomento e rabbia. Ma abbiamo anche voglia di cambiare, di dare una risposta ferma e immediata a quello che considero un atto barbarico. Ecco perché se da un lato ho proclamato il lutto cittadino in concomitanza con i funerali di Melissa, invitando i commercianti a rispettare questo momento di dolore collettivo, ho anche disposto che le scuole restino aperte. È giusto che il lutto sia vissuto dagli studenti nell'istituzione che è stata attaccata, che si parli di quello che è accaduto nelle scuole. Ci andremo noi amministratori, ci saranno i rappresentanti delle associazioni e tutti colori i quali sono portatori del messaggio di legalità perché la scuola è il primo presidio di legalità e democrazia». È stata una giornata di passione per Mesagne, e non solo per la calata di giornalisti provenienti da ogni dove (c'era perfino l'inviata del New York Times). Una giornata trascorsa in piazza. La mattina nella villa comunale per la tappa della Carovana della legalità con i discorsi, tra gli altri, del governatore Nichi Vendola e del presidente della Provincia Massimo Ferrarese. La sera in piazza IV Novembre, davanti alla chiesa matrice, nel cuore dell'incantevole centro storico, per la veglia di preghiera per Melissa voluta dal vicario don Pietro De Punzio. «Noi non ci fermeremo» dice Alessandro Cobianchi, coordinatore della Carovana, brindisino di nascita, e lo dice guardando negli occhi i ragazzi che gli sono davanti e che stringono tra le mani uno striscione con il nome di Melissa. «Ma per tutti la vera priorità è abbattere il muro della indifferenza e usiamo la solidarietà come antidoto alla violenza - dice dal palco Nichi Vendola - perché domani deve essere il giorno in cui bisogna pesare con attenzione le parole. Bisogna trovare le parole adeguate perché una generazione elabori questo lutto e riesca a pensare al futuro». Sono in tanti alle 21 del 20 maggio 2012, quasi in cinquecento, sfidando l'umidità e ignorando la finale di Coppa Italia, ad affollare piazza IV novembre. Accanto all'ingresso della chiesa viene esposta una gigantografia di Melissa. Ci sono famiglie intere, ci sono i giovani, gli amici di Melissa ma anche i ragazzi che pur non conoscendo la vittima dell'attentato, hanno voluto con la loro presenza testimoniare solidarietà e voglia di riscatto. «Avete fatto dono a Melissa - dice don Pietro, rompendo il silenzio - della vostra presenza. Facciamo fatica a credere e a sperare. Stiamo vivendo momenti terribili, perché la violenza sembra aver tarpato le ali alla speranza. la nostra città è stata colpita nel cuore nella parte più bella, nella voglia di vivere». Si parte con le parole di Giovanni Falcone: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno». Perché perfino la più banale delle rassicurazioni impartite dai genitori - «mi raccomando, dritti a scuola» - ormai non assicura più la salvezza. E si chiude, una serata che Mesagne non dimenticherà perché proprio non si può farlo, con un canto quasi liberatorio, «Resta qui con noi», pensando a Melissa e rivolto al Signore e a chi si chiede dove fosse, sabato mattina, il Signore, mentre una mano criminale azionava l'innesco della bomba che ha ucciso Melissa e ferito le sue amiche. Era lì, tra di loro, ustionato da tanta ferocia.

Ed ancora alla domanda: ma cosa centra Melissa Bassi con Don Ciotti e “Libera”, la risposta la danno i cittadini di Mesagne attraverso il racconto di Tonio Tondo sempre sulla Gazzetta del Mezzogiorno che dà voce ai Mesagnesi. «È guerra tra Stato e mafia e le vittime siamo noi». La gente del centro storico non si schiera, anzi non ha timore di scrivere su due improvvisati striscioni quello che pensa. «Qui siamo tutti d’accordo - sostiene Immacolata Doria, 42 anni, madre di una bambina di 11 anni -, la frase l’ho scritta io con il consenso degli altri». «Dia retta a me - aggiunge poi sicura -, la Sacra Corona Unita non c’entra proprio con questa storia di Brindisi, mai gli uomini della Scu hanno colpito le donne o peggio i bambini. I bambini sono sacri». Siamo in via degli Azzolino, la «strada longa» la chiamano i residenti, arredata con gerani e piante sempreverdi. I due striscioni sono collocati in piazzetta dei Giovanomo e all’ingresso della «strada longa». Piazza Orsini Del Balzo è a due passi, con il castello, palazzo Cavaliere e la chiesa di Sant’Anna, simboli del Barocco. In via degli Azzolino abita anche Franco Saponaro, detto Franco il coltivatore diretto, che ha condiviso l’iniziativa. Melissa era conosciuta. La ragazzina frequentava il laboratorio culturale del Comune, dove si ascolta musica e si può cantare, di fronte alla casa di Immacolata. C’è anche una radio libera. La famiglia Bassi vive in via Torre Santa Susanna, non lontano. Di Melissa si ricorda il sorriso. Gli striscioni si sono materializzati subito e con il consenso di tutti. Le parole farebbero pensare a una equidistanza tra Stato e mafia. Sembrano riecheggiare uno slogan politico degli anni Settanta e Ottanta («Nè con lo Stato né con le Brigate Rosse»), degli ambienti massimalisti della sinistra contigui con il terrorismo brigatista. La realtà di Mesagne ha una sua crudezza che va conosciuta e approfondita senza pregiudizi. Una realtà da scandagliare evitando gli schemi ideologici prefabbricati. Immacolata non si schiera con la criminalità e contro lo Stato, non esclude che l’attentato alla scuola Morvillo abbia una matrice malavitosa, ma se fosse così - aggiunge - «significherebbe che la follia assassina e la vigliaccheria hanno ormai vinto su tutto». Da quando la procura di Brindisi ha lanciato l’ipotesi di un «solitario» autore dell’attentato, a Mesagne il partito favorevole a questa tesi è uscito allo scoperto ed è cresciuto in poche ore, proprio tra la gente del centro storico. Ma la città si specchia e cerca di conoscersi attraverso la scuola Morvillo Falcone: la parte socialmente più debole ha sempre guardato a questa scuola come l’immagine della propria inadeguatezza sociale, ma anche come riferimento di un riscatto. Fisicamente la scuola è a Brindisi, ma la sua testa e il suo cuore pulsante sono qui, nel retroterra della provincia. Metà delle 630 alunne è di Mesagne, l’altra di Latiano, Oria e San Vito. Giancarlo Canuto, vice sindaco e professore di religione, ha insegnato all’istituto professionale fino a due anni fa. Conosce la sua storia e si commuove quando il discorso si sposta sulle ragazze. «Tra quei banchi si può conoscere e studiare la società di Mesagne, anzi le due società, quella dei figli delle famiglie più modeste, e però radicate sui principi di onestà e sacrificio, e l’altra, quella grigia, di famiglie anch’esse modeste ma disgregate e a rischio». Massimo Basso, papà di Melissa, lavora con una impresa edile di Taranto. Lavora sodo in questi tempi di paura. «E’ una famiglia che ha fatto enormi sacrifici per Melissa» - dice un operaio che ha lavorato con Massimo. Il papà di Veronica Capodieci, la ragazzina che lotta contro la morte, è un piccolo imprenditore nel campo del movimento terra. «E’ lontanissimo dagli ambienti malavitosi», osserva un giovane di Libera. Tra le ragazze ferite, qualcuna proviene da famiglie con precedenti penali. Le due dimensioni hanno quindi riferimenti anagrafici e culturali precisi: una parte non s’indigna, anzi parteggia, con le famiglie della zona grigia, a volte a rischio criminalità; l’altra, attenta ai temi della legalità. Canuto ricorda gli anni del maxiprocesso a Brindisi con le ragazze divise in due gruppi. Quando arrivavano i cellulari con i detenuti nell’aula del vicino tribunale c’era chi parteggiava per i detenuti, e chi difendeva poliziotti e magistrati. «Mai ci sono state contrapposizioni violente. La violenza stava fuori dalla scuola».

Quindi parlare di mafia significa dare spazio a quella componente politica-sociale che si definisce “antimafia” e serve a fargli propaganda e a far sentire la solita tiritera: «Tutti dobbiamo rompere l'omertà, i silenzi, le complicità. Dobbiamo avere il coraggio delle nostre azioni. Il cuore ci deve dare la forza». Lo ha detto don Luigi Ciotti nell'omelia che ha tenuto durante la celebrazione della messa che si è svolta nella cattedrale di Mesagne il 20 maggio 2012 per ricordare la 16enne Melissa Bassi morta il 19 maggio nell'attentato di Brindisi e tutte le ragazze rimaste ferite. Dopo la celebrazione della messa c'è stata una manifestazione organizzata dalla Carovana nazionale contro le mafie. In apertura un lungo applauso è stato dedicato al papà e alla mamma di Melissa. All'iniziativa hanno partecipano il presidente nazionale della Carovana, Alessandro Cobianchi, don Luigi Ciotti, il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, i sindaci di Mesagne e di Brindisi, Franco Scoditti e Mimmo Consales, e il presidente della Provincia di Brindisi, Massimo Ferrarese.

Già, la Carovana nazionale contro le mafie, i "buoni" (politici e sostenitori di sinistra, sindacalisti e uomini di chiesa, magistrati, giornalisti) contro i cattivi (tutta la gente comune, specie se di orientamento liberale e moderato). Carovana organizzata da quando nel 1992, a distanza di 57 giorni l’uno dall’altro, morivano uccisi dalla mafia i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E nel 2012 i 2.600 ragazzi che si imbarcheranno da Civitavecchia sulle due navi della legalità ribattezzate, per questo anniversario, “Giovanni” e “Paolo”, non erano nemmeno nati. Ma il 23 maggio, insieme ai loro coetanei palermitani, alle istituzioni, le forze di polizia, i magistrati, la società civile, saranno a Palermo per ricordare quel giorno e ribadire, con forza, il loro “No alla mafia”.

Già, basta essere però di una parte politica. Perchè la lotta alla mafia è una lotta di parte e di facciata. Ad accompagnare i ragazzi in partenza da Civitavecchia, tra i quali anche due compagne di classe e altre otto delle stessa scuola di Melissa Bassi, la 16enne uccisa sabato mattina 19 maggio 2012 nell’attentato di Brindisi davanti all’istituto intitolato proprio a Francesca Morvillo, sarà colui che fu il braccio destro di Giovanni Falcone, il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso. Quel Piero Grasso tanto vituperato dai suoi colleghi magistrati. Così come lo fu Giovanni Falcone in vita. Già povero Grasso, ma a difenderlo ci pensa Stefano Zurlo su su “Il Giornale”. Così va il mondo, ci eravamo persi qualcosa e ora è Marco Travaglio a spiegarci la vera storia dell’antimafia militante, dopo averci già proposto negli ultimi quindici anni la vera storia di Cosa nostra. Semplificando, tutti e due i fiumi portano a Silvio Berlusconi. Dunque sul Fatto quotidiano il Travaglio furioso ha messo a posto lo spudorato Grasso che a Radio 24, nel corso del programma La Zanzara, aveva riconosciuto a Berlusconi quel che è di Berlusconi e del suo governo: i meriti, alcuni meriti, nello lotta a cosa nostra. Eresia. Scandalo. Pianto greco. E allora il Travaglio sempre più furioso, invece di interrogarsi sul perché di quelle parole, le ha ricoperte di fango. Fango retrospettivo, fango capace di rovinare una carriera intera, fango che si attacca addosso. Sia chiaro: ci sono magistrati che non godono di una claque perenne, semplicemente perché fanno il loro lavoro, con discrezione. Alla Grasso, per intenderci: non c’è bisogno di strappare loro l’aureola perché nessuno l’ha mai appoggiata sulle loro teste. Altri giudici invece, al solo pronunciare il nome, vengono venerati come i santi. Due pesi e due misure. Pazienza. E allora Travaglio ha fatto di più: ha dipinto Grasso come un verme che striscia alla corte di Silvio e quando più gli serve, nel 2005, nei mesi in cui si deve nominare il nuovo procuratore nazionale, al posto di Piero Luigi Vigna, prossimo alla pensione, e due sono i contendenti: Grasso e Caselli. Due facce complementari della magistratura: Grasso è l’icona della normalità, Caselli è l’icona della magistratura militante. Ci eravamo persi però che Grasso fosse un verme. La sua colpa? Aver sfruttato le trame di Palazzo che, secondo il solito Travaglio, hanno accompagnato la sua elezione. Ecco, per il Fatto ci furono manovre e contromanovre per tenere alla larga da quella stanza Caselli e la compagine berlusconiana fra decreti e contorcimenti, le studiò tutte per affossare Caselli e mandare avanti il rivale. Non che non ci furono pressioni e schieramenti e divisioni, nella politica e nella magistratura, per quella poltrona come per tante altre. Stupisce però che si possa colpire così una persona perbene, fino a prova contraria, e si legga quella sofferta incoronazione come la didascalia di quella frase alla radio. Se non sbagliamo, e non sbagliamo, l’obliquo Grasso è lo stesso magistrato catapultato come giudice a latere al leggendario maxiprocesso, quello imbastito a Palermo contro la bellezza di 475 mafiosi e chiuso, dopo una camera di consiglio lunga come un conclave, con decine di ergastoli. Grasso, sì sempre lui, è lo stesso magistrato cui Giovanni Falcone, sì proprio Falcone, dice: «Vieni, ti presento il maxiprocesso», come il procuratore racconta nel suo freschissimo e a tratti commovente Liberi tutti (Sperling & Kupfer). Grasso, sì ancora lui, è lo stesso magistrato che rischia di saltare in aria quando i picciotti di Cosa nostra lo avvistano insieme a Giovanni Falcone, ancora lui, e a tre giornalisti - Attilio Bolzoni, Felice Cavallaro e Francesco La Licata - in un ristorante di Catania. Peccato che Travaglio ignori questi fastidiosi dettagli e tanti altri. Anzi, no. Uno va divulgato, come ha fatto lo stesso procuratore con Tiziana Panella per Coffee break su La7. L’11 aprile 2006 quando viene catturato un certo Bernardo Provenzano, Grasso, pm fino al midollo, non si perde in proclami e conferenze stampa ma prova, da siciliano a siciliano, a prospettargli una collaborazione con lo Stato. Tanto che l’altro, disorientato, vacilla un istante prima di rispondere: «Sì, ma ciascun nel suo ruolo». Oggi Grasso guarda a quel passato che a Palermo è scritto nelle lapidi e replica: «Se penso alle delegittimazioni che in vita hanno subito Falcone e Borsellino mi sento fortunato». Chapeau.

Già perché la mafia è “cosa nostra” ed i suoi beni sono “roba nostra” dice Don Ciotti.

«Fino al 1993 fuori dalla Sicilia non c'era la percezione che la mafia fosse un'emergenza sociale», ricorda Marcello Cozzi, memoria storica del movimento Libera fondato da don Luigi Ciotti. «Ricordo la stanzetta messa a disposizione dalle Acli per le prime riunioni, gli incontri con Giancarlo Caselli. Poi i banchetti nel marzo del 1995 per raccogliere le firme in favore della confisca dei beni ai mafiosi. Mai avremmo pensato di arrivare a un milione di sottoscrizioni e una legge già nel marzo del 1996». Da tutta Italia centinaia di ragazzi arrivano per lavorare sui terreni confiscati ai boss; nonostante intimidazioni e difficoltà nasce il consorzio “Libera Terra”, che coordina le attività delle coop di Libera. Ma già dodici anni dopo le stragi la rabbia sembra sbollire, fino a quando, la mattina del 29 giugno 2004, le strade del centro di Palermo sono tappezzate da adesivi listati a lutto con una frase lapidaria: "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Nessuna rivendicazione, fino a quando diversi giorni dopo, un gruppo di "uomini e donne abbastanza normali, cioé ribelli, differenti, scomodi, sognatori" rompe l'anonimato. Sono gli 'attacchini' del comitato Addiopizzo, 'i nipoti di Libero', li battezza Pina Maisano Grassi, arrivano qualche anno dopo il primo comitato antiracket fondato da Tano Grasso, nel Messinese, a Capo D'Orlando.

Ma una domanda sorge spontanea: ma chi paga tutto l'ambaradan della Carovana cosiddetta antimafia?

LA MAFIA NEL SENTIRE COMUNE

A dispetto di cosa ci inculca la cultura imperante, spesso di sinistra e sovente in modo interessato al fine di raccogliere consenso politico ed usufruire dell'assegnazione dei beni mafiosi confiscati, il parlare di mafia non può discernere da come sentono il fenomeno i cittadini che la subiscono. Ed a chi chiedere? A chi ha il giudizio inquinato da pregiudizi, ideologie o interessi economici, oppure a chi disinvoltamente può dire tutto quello che gli passa per la testa, in virtù del fatto che i suoi occhi innocenti vedono una realtà trasparente e non viziata da preconcetti?

E' giusto chiedere a chi nelle risposte non si nasconde dietro l'ipocrisia e non adotta "il politicamente corretto" (politically correct). I bambini sono la bocca della verità. La parola ai giovani. La camorra vista dai giovani: "Equitalia è peggio dei boss". Sondaggio shock a Napoli: per il 16% la malavita risolve problemi.

Equitalia è peggio della camorra. E' una delle risposte più inaspettate arrivata dai ragazzi delle scuole medie e superiori napoletani che hanno partecipato al questionario dell'Associazione Studenti napoletani contro la camorra, in collaborazione con l'associazione "Oblò".  “Ti senti più minacciato dalla Camorra o da Equitalia?” La risposta degli studenti delle scuole medie di Napoli e provincia è stata sconvolgente: il 57% ha risposto Equitalia. Forse sarà per l’ondata emotiva suscitata dai suicidi degli imprenditori strozzati dalle cartelle esattoriali. Certo è che Equitalia balza, primissima, in cima alla classifica dell’odio anche degli studenti napoletani, che pure avrebbero motivo di detestare un cancro maggiore e non estemporaneo: la criminalità organizzata. Interessanti i dati diffusi dal nuovo questionario anticamorra diffuso in 14 istituti medi inferiori di Napoli e provincia per un totale di oltre 2000 alunni. Alla domanda “ Ti senti più minacciato dalla camorra o da Equitalia?” il 57% degli intervistati, quindi ben più della metà, ha risposto “la seconda che hai detto”, cioè Equitalia. L’agenzia di riscossione è considerata come una vera e propria minaccia sociale che supera di gran lunga la mafia. La domanda faceva parte del nuovo questionario anticamorra diffuso in 14 scuole e somministrato a oltre 2000 ragazzi di un ‘età compresa tra 12 e 14 anni. Il 57% ha detto di sentirsi minacciato più dall'agenzia di riscossione crediti che dai boss.

Il responsabile della associazione “Oblò” Massimo Pelliccia commenta: “C’ è una percezione estremamente negativa dello Stato da parte delle nuove generazioni; le istituzioni vengono considerate in molti casi peggio della criminalità. Lo Stato viene subìto come qualcosa di ingiusto, secondo le risposte dei ragazzini interpellati, mentre la camorra è ineluttabile o addirittura più giusta.

Da brivido – conclude – la risposta di uno studente di prima media che ha definito Equitalia “quella cosa che fa suicidare i grandi”. La camorra per il 16% dei ragazzi dà potere e risolve i problemi e potrebbe addirittura risolvere la crisi economica. La criminalità dunque più che come un pericolo viene vista come un'occasione per soldi facili: il 54% dei ragazzi ha dichiarato che se incontrasse un camorrista si farebbe raccomandare. Tutti temi su cui le associazioni chiedono anche alle istituzioni di intervenire per modificare la visione distorta che i ragazzi hanno di loro e che rischia di essere un volano per l'antistato.

Cosa succede quando un uomo con la pistola incontra uno con una cartella esattoriale? Quello con la pistola ha la peggio o almeno è questo che emerge dai dati del nuovo questionario anticamorra, diffuso in 14 scuole medie di Napoli e provincia e a cui hanno risposto oltre 2000 ragazzi tra i 12 ed i 14 anni. Grande stupore nel vedere le risposte alla domanda «Ti senti più minacciato dalla camorra o da Equitalia? E perché?». Il 57% ha risposto Equitalia, forse la spiegazione sta nell’idea che anche i bambini si stanno facendo all’interno delle proprie famiglie dello Stato e delle sue ramificazioni come le agenzie di riscossione. Lo Stato viene subito come qualcosa di ingiusto, che ti priva di qualcosa di tuo all'improvviso. «Il 18% degli studenti - spiega Simone Scarpati, neo presidente dell'associazione studenti napoletani contro la camorra - ha dichiarato di essere stato aggredito o derubato. Poco meno della metà degli studenti ha cercato di reagire alla violenza e ha denunciato tutto alle forze dell’ordine. Forze dell'ordine che nell'80% dei casi denunciati purtroppo non sono riuscite a garantire giustizia alle piccole vittime. La Polizia non gode di gran credito presso i giovanissimi napoletani, al pari delle istituzioni. Questo spiega la bassa fiducia che i giovanissimi napoletani hanno nei confronti delle istituzioni e delle forze dell'ordine come emerge dalle risposte. Infine, un filo di speranza: il 44% degli studenti ha dichiarato che la camorra può essere sconfitta e prevale sul 41% di quanti ritengono che invece ‘O sistema sia immortale. Il 15% del campione ha dichiarato che la camorra è identificabile addirittura come fenomeno positivo. L’8% degli studenti associa la figura dell’uomo d’onore e dell’eroe a quella del malavitoso». Il 24% dei giovani coinvolti ha riferito che si rivolgerebbe a un malavitoso, qualora ne conoscesse uno, per ottenere un favore e il 55% non esiterebbe a farsi raccomandare. Il 10% degli studenti intervistati ha dichiarato di aver apprezzato la canzone «'O Capoclan» che inneggia allo stile di vita camorrista, esplicitamente a favore dell’organizzazione mafiosa. Dai dati pubblicati emerge una percezione estremamente negativa da parte degli adolescenti napoletani nei confronti dello Stato che viene considerato in molti casi in modo molto peggio della criminalità. La maggioranza degli studenti interpellati, infatti, se potesse dare un suggerimento alle Istituzioni per combattere la malavita, direbbe che è opportuno intervenire sull’istruzione, sul lavoro, sulla sicurezza, sulla lotta alla corruzione e sull’amministrazione della giustizia. Inoltre una percentuale molto elevata degli studenti crede che a spingere un ragazzo ad assumere comportamenti illegali sia il bisogno economico, la disoccupazione, la sete di potere il guadagno facile e l’ignoranza.

«Per la prima volta il sondaggio anticamorra, proposto ed ideato dall’Associazione Studenti Napoletani contro la Camorra, è stato proposto agli studenti frequentanti le scuole medie - spiega Francesco Emilio Borrelli, ex presidente dell’ associazione studenti napoletani contro la camorra - il motivo di tale scelta è dovuto alla nostra ferma volontà di comprendere come i nostri adolescenti percepiscono oggi, in piena crisi economica ed in una società mediatica, il fenomeno sociale denominato camorra. E le risposte sono davvero incredibili». Il 16% ha risposto che la camorra potrebbe garantire ricchezza e potere e potrebbe risolvere la crisi economica, dare lavoro e creare sviluppo. «Praticamente - racconta il responsabile di Oblò Massimo Pelliccia - tutti gli alunni delle scuole medie intervistati hanno dichiarato di conoscere la camorra. Conoscono più la camorra di ogni altro fenomeno sociale campano o nazionale. Non partecipano alle iniziative anticamorra, anche se conoscono i nomi di molte vittime, primo fra tutti quello del giornalista Giancarlo Siani.»

Parlare di mafia in una nazione, dove è insita la cultura socio mafioso e dalla quale il “potere” trae maggiore giovamento e sostentamento, è come parlare di corda in casa dell’impiccato. Guai ad uscire fuori dal conformismo. Subisci e taci, ammonisce il “potere”. E tutti lì, collusi e codardi ad essere omologati. Prima o poi però doveva capitare che altre voci si unissero a me, Antonio Giangrande, autore della collana editoriale, in testi ed in video, “L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”, che da sempre grida: «la mafia siamo noi!». Grillo si è prodotto in una metafora ardita paragonando lo stato alla mafia e, improvvisamente, si è trovato solo. Beppe Grillo e la mafia di Stato. Solo contro tutti. Solo contro tutti quei parassiti mantenuti dallo Stato. Quelli che se li conosci li eviti. Omertà e censura per tacitare la voce della verità. E giù a darle a Grillo: l’offesa meno grave è quella di dargli del comico, l’insulto peggiore è quello di dargli del mafioso. Certo che ha guardare le facce di chi contestava Grillo, mi vien da pensare. Rilievo mediatico a chi, parassita, si nutre delle tasse (o delle tangenti) pagate allo Stato. E’ facile indignarsi da mantenuti con i soldi della povera gente, che spesso sceglie la via del suicidio per liberarsi dalle catene del “pizzo di Stato”. Immancabile anche “lo sdegno dei parenti delle vittime”, parenti delle vittime sempre pronti ad essere referenziati on the fly ogni volta che c’è da esprime uno sdegno incontestabile proprio perché a sdegnarsi sono i “parenti delle vittime”.

Io, invece, sono contento. A dire che lo Stato agisce come una cupola mafiosa sono stato io stesso ed oggi, indipendentemente da Beppe Grillo e dello sdegno dei parenti delle vittime, la penso più che mai nello stesso modo. La classe dominante italiana in questo momento agisce con gli stessi metodi e le stesse finalità di un’organizzazione mafiosa. Depredare il sistema, tutelare e perpetuare sé stessa, castigando a sangue o uccidendo (praticamente e metaforicamente), chi si oppone a questo disegno. Il tutto, non nel quadro di prospettiva di salvare una nazione, ma solo allo scopo di procurarsi benefici nell’immediato, indipendentemente dai danni strutturali che questa azione può causare. E’vera e propria criminalità organizzata, per il codice associazione a delinquere di stampo mafioso. Ed il crimine organizzato fa paura. Se ne accorgerà presto Grillo i cui sodali già annusano il profumo delle fresche stanze del potere e, in un modo o nell’altro, troveranno il modo di aggiustarsi con i vecchi capi mandamento perché è meglio mangiare tutti, magari un po’ di meno, che scannarsi. Grillo ci crede ed è un uomo onesto, come può essere un italiano comune. Proprio per questo fra poco si troverà solo. Esaurita la sua azione propulsiva, saranno i suoi stessi figli a divorarlo, così come è successo a Bossi. A farlo fuori ci sarà quel mix diabolico di ingordigia e vigliaccheria che prenderà i suoi eletti appena inizieranno a frequentare gli ambienti con macchine blindate, uffici vellutati e leccapiedi ed escort a buon mercato. Per fare la rivoluzione e tagliare la testa al re non basta un Robespierre, ci vogliono anche i francesi incazzati. Ma qui siamo in Italia, aldilà di facebook non si incazza nessuno e tutti sono pronti a entrare in banca, ma non con una pistola, ma in giacca e cravatta per “far parte della grande famiglia”.

Palermo, 30 aprile 2012 – Nella sala gremita di giornalisti, all'hotel Cristal Palace, è arrivato quasi un'ora dopo la prevista conferenza stampa, perché prima doveva andare in camera a farsi una doccia. Poi, Beppe Grillo, si è avvicinato al tavolo e subito ha attaccato: "Ma cosa volete ancora da me? Avete tutti i comizi che ho fatto, cos'altro devo dire?". Passano pochi secondi e va alla carica contro tutti, dal Capo dello Stato ("non parli di demagoghi lui che non è stato eletto dai cittadini"), al Presidente della Camera Gianfranco Fini che definisce "una salma", poi se la prende con i giornalisti: "Anche voi avete avuto un finanziamento di un miliardo di euro". A Palermo, ovviamente, è arrivato il solito Beppe Grillo a sostenere il candidato sindaco Riccardo Nuti, del Movimento cinque stelle. Prima del comizio di piazza Croci, gremita fino all'inverosimile, ha incontrato la stampa, anche se dice ai giornalisti che gli fanno domande: "Cosa volete, non vi ho invitati io…". Poi, quando un cronista gli chiede se il Capo dello Stato, Giorgio Napoletano ce l'abbia con lui, dopo averlo definito "demagogo di turno", senza mai citarlo direttamente, Grillo replica seccamente: "Napolitano non ce l'ha con me. Ma deve fare il Presidente della Repubblica al di fuori di tutto, non può dire 'i demagoghi di turno'. Noi siamo un movimento politico con 150 eletti nei comuni. Lui non è stato eletto dai cittadini". Nelle sue parole poi finalmente è spuntata la Sicilia: "Il cambiamento partirà dalla Sicilia che subisce una emorragia drammatica di giovani. E' una terra che soffre particolarmente per quanto sta accadendo e saprà reagire. Non sappiamo quanto prenderemo. Di certo noi non mandiamo 350 mila lettere agli elettori (come Leoluca Orlando), disboscando un pezzo di Valle D'Aosta. Con noi i cittadini vanno su internet. E i nostri amici in campo sono cittadini normali che lavorano da 5/6 anni tra la gente, nella città sui temi concreti". Poi ha ricordato ancora di avere chiesto "i nomi dello Scudo fiscale. Non possono mettere tasse, Imu e altri balzelli e fare uno scudo fiscale del 5 per cento - dice - Oggi ho chiesto la pubblicazione dei nomi di chi sono questi che ci stanno portando al macello. Questo paese è al macello e noi vogliamo sapere chi sono i nomi dei macellatori che hanno evaso le tasse e portato il loro tesoretto all'estero. Prima di portare il Paese alla miseria per salvare lo spread e gli sprechi immani dei partiti nell'ultimo ventennio, che ci hanno regalato duemila miliardi di debito pubblico, vorrei sapere i nomi. E' un mio diritto di contribuente, è un diritto di tutti gli italiani che pagano le tasse senza un condono del 5%. E' un diritto di chi ha onorato sempre i suoi impegni di fronte al fisco senza fiatare", ha incalzato Grillo, secondo il quale anche esponenti dei partiti se ne sono avvalsi. "Se due indizi fanno una prova, si può dire in tutta tranquillità che lo Scudo Fiscale è stato usato anche per ripulire i finanziamenti elettorali dei partiti e i conti dei politici. Luigi Lusi, il tesoriere della Margherita dell'inconsapevole Rutelli, li ha fatti rimpatriare dal Canada. Gianluca Pini, parlamentare e leader della Lega in Emilia Romagna, ha fatto un bonifico più ravvicinato, dalla Repubblica di San Marino, di 400.000 euro sottratti al fisco. Le leggi se le votano e se le cantano". "Lo scudo fiscale - ha concluso - è stato voluto sia dal Pdl che dal Pdmenoelle. D'Alema alla domanda sulla sua mancata presenza in aula al voto sulla incostituzionalità dello Scudo Fiscale rispose così: 'Sì, ero assente, perchè avevo una manifestazione e non mi era stato spiegato bene che era un voto importante'. Rigor Montis deve pubblicare i nomi degli scudati. Se andiamo al macello sociale dobbiamo sapere almeno chi ci ha portato! Non ci andremo da soli. Fuori i nomi dei piranha dello Stato, e presto!". A chi gli ha chiesto se il suo movimento sta togliendo voti agli altri partiti, ha risposto: "Ma togliere voti a chi? Non vedete si stanno dileguando in questa 'diarrea' politica, non hanno nemmeno il coraggio di andare nelle piazze". E riferendosi al Presidente della Camera Gianfranco Fini, che aveva detto: "Beppe Grillo chi?" manda a dire: "Mi domandate di morti...". Grillo ha ribadito anche: "Ci sono marescialli e poliziotti che si stanno iscrivendo al nostro movimento perché non ce la fanno più, si sentono vilipesi perché devono scortare questa gente, questi politici che fanno i burlesque. Ma presto questi politici rimarranno soli, senza finanziamenti, senza giornali, senza scorte e dovranno confrontarsi con i cittadini". E ancora: "La gente è arrabbiata. Io dico non arrabbiatevi, faremo un processo, non una Norimberga, un piccolo processo con una giuria estratta a sorte di incensurati e dovranno restituire i soldi e fare i lavori sociali". E poi, quando una giornalista gli dice: "Quando ha finito di darci lezioni, le posso fare una domanda", risponde: "Anche voi prendete i finanziamenti e non siete liberi". E poi conclude: "Pure voi a dire i programmi, dove sono i programmi. Ho organizzato un corso serale, due ore a sera, per insegnarvi ad andare sul nostro sito dove il nostro programma c'è. E poi sono trent'anni che dico le stesse cose". Discorso chiuso con i giornalisti, Beppe Grillo è corso poi a piazza Croci dove ad attenderlo c'erano migliaia di palermitani. In piazza Grillo non ha parlato di Palermo, dei problemi della città o del candidato a sindaco, ma ha ribadito i soliti concetti già ripetuti nei numerosi comizi fatti in giro per l'Italia. Dal palco ha attaccato l'ex premier Silvio Berlusconi: "Lo hanno visto a una partita del Milan e mi hanno detto che è irriconoscibile, sembra suo zio vecchio, senza trucco"; Mario Monti ed il ministro del Lavoro Elsa Fornero che chiama "Frignero" e fingendo di stupirsi che la piazza abbia subito capito di chi stava parlando: "In Calabria non l'hanno mica capito...". Grillo ha ripetuto che se "tornasse la liretta" staremmo meglio e che l'euro ha ammazzato l'Italia "che rischia di uscire dall'Europa". Molti, moltissimi gli applausi. "Per i rimborsi elettorali non serve una raccolta di firme, basta mettere le mani sul portafogli e restituire quello che hai rubato", oppure: "se tutti pagassero le tasse, gli altri ruberebbero il doppio". E quando ha chiesto alla folla: "chi di voi voterebbe per il Pdl o il Pd" la risposta è stata un "No" seguito da un sonoro "Vaffanculo". Alla fine ha lasciato il posto alle "facce pulite" che si candidano per il Movimento 5 Stelle in attesa di un nuovo comizio.

Che dire? Il solito Beppe Grillo che questa volta ha scatenato una polemica in più, spostando di una tacca la provocazione. "Palermo è una città che soffre più di altre. Noi abbiamo candidato Totò u curtu e u Malpassotu come vicesindaco, vediamo come va… La mafia non ha mai strangolato i propri clienti, si limita a prendere il pizzo. Ma qua vediamo un'altra mafia che strangola la sua vittima". La sortita di Grillo su partiti e mafia ha fatto insorgere il Pd che con Nico Stumpo gli ha dato del "ciarlatano". "C'è una crisi economica grave - ha detto -, ma non credo che Grillo ne sappia qualcosa. Come evidentemente non sa nulla di mafia. Anche per lui, in queste ore ricordiamo commossi Pio La Torre che trent'anni fa pagava con la vita la sua lotta alla sopraffazione e alla violenza. Non è negandola che si combatte la mafia, non è con la demagogia che si fa crescere il rispetto dei diritti e dei doveri. C'è in Grillo una povertà culturale che gli italiani non meritano". "Grillo - gli ha fatto eco Claudio Fava di Sel - parla come un mafioso senza essere nemmeno originale. Gli stessi argomenti prima di lui li hanno già utilizzati Vito Ciancimino e Tano Badalamenti. E come l'ultimo dei mafiosi non ha nemmeno il coraggio di confrontarsi pubblicamente sulle sue patetiche provocazioni". "Le parole di Beppe Grillo, pronunciate tra l'altro alla vigilia del trentennale dell'assassinio di Pio La Torre, sono uno schiaffo a tutte le vittime di mafia e a chi lotta ogni giorno per il riscatto del mezzogiorno. Si dovrebbe vergognare". Questa la reazione di Flavio Arzarello, della segreteria nazionale del Pdci, che ha aggiunto: "Questa volta è andato oltre i consueti sermoni populisti, ed è in sintonia con chi in questi 50 anni, proprio con questi atteggiamenti, ha assecondato il dominio mafioso".

“La mafia non ha mai strangolato le proprie vittime, i propri clienti, si limita a prendere il pizzo. Ma qua vediamo un’altra mafia che strangola la propria vittima”. Con queste parole Beppe Grillo, a Palermo per sostenere il candidato sindaco Riccardo Nuti, ha parlato della crisi economica e dei provvedimenti per fronteggiarla. Parole che hanno scatenato una polemica proprio tra i familiari delle vittime e di tutti quelli che da sempre (secondo loro) si battono contro la Mafia.

Già perché per loro la lotta alla mafia e la confisca dei suoi beni è “cosa nostra”.

Grillo ha continuato scherzando: "Abbiamo candidato come sindaco Totò u curtu, e u Malpassotu come vicesindaco. Assistiamo a situazione drammatiche frutto di scelte che strangolano i cittadini, vere vittime”, ha concluso.

SEL: GRILLO PARLA COME UN MAFIOSO - “Grillo parla come un mafioso senza essere nemmeno originale. Gli stessi argomenti prima di lui li hanno gia utilizzati Vito Ciancimino e Tano Badalamenti. E come l’ultimo dei mafiosi non ha nemmeno il coraggio di confrontarsi pubblicamente sulle sue patetiche provocazioni”. Lo afferma Claudio Fava della Segreteria nazionale di Sinistra Ecologia Libertà, dopo le parole di oggi dell’esponente politico Beppe Grillo a Palermo. Lo rende noto l’Ufficio stampa nazionale di Sel.

LOMBARDO: LEGITTIMA LA MAFIA BUONA, STUDI LEZIONE DI PIO LATORRE - “Grillo parla come un mafioso. Affermando che lo Stato è peggio di Cosa nostra, Grillo non solo si pone sullo stesso livello culturale che porta a legittimare la ‘mafia buona’ in opposizione alle ‘istituzioni cattive’, ma soprattutto offende la memoria di tutti quei servitori dello Stato che sono morti per sconfiggere Cosa nostra”. Lo ha detto Massimiliano Lombardo (Pd) in merito alle parole del comico genovese Beppe Grillo, secondo cui ‘la mafia non ha mai strangolato le proprie vittime, lo Stato sì'’. “Grillo - continua - dovrebbe leggere un po’ di storia e informarsi meglio, magari ripassando la grande lezione di Pio La Torre. La mafia non solo strozza le proprie vittime con il pizzo, ma è un cancro dell’economia che sottrae risorse all’imprenditoria sana, uccidendola”. “Un conto è criticare la politica - conclude - un altro è delegittimare lo Stato e tutti quegli uomini delle istituzioni che rappresentano il più alto baluardo contro la mafia”.

LA SORELLA DI UNA VITTIMA DI MAFIA: GRILLO CI OFFENDE - ‘’Le parole di Beppe Grillo, che a Palermo ha detto che la mafia non strangola i suoi clienti limitandosi a prendere il pizzo, sono un’offesa nei confronti di tutti i familiari delle vittime di Cosa Nostra e un insulto al lavoro svolto in questi anni dai magistrati e dalle forze dell’ordine’’. Lo afferma Angela Ogliastro, sorella di Serafino Ogliastro, un ex poliziotto ucciso dalla cosca di Brancaccio nel ‘91 con il metodo della ‘’lupara bianca’’. Del delitto si è autoaccusato il pentito Salvatore Grigoli; nel processo che riguarda decine di omicidi di mafia la famiglia Ogliastro è stata l’unica a costituirsi parte civile. ‘’Io e i miei genitori - spiega la sorella dell’ex poliziotto - non abbiamo nemmeno il corpo di Serafino da potere piangere. Come si permette Grillo a fare l’elogio della mafia in una città che gronda sangue di vittime innocenti? Perché non era in piazza con noi il 21 marzo scorso, nella sua Genova, per la Giornata della memoria organizzata da Libera in ricordo di tutte le vittime della mafia? Io c’ero insieme ai parenti di 900 persone uccisa da Cosa Nostra che lui ha offeso’’.

LA VEDOVA DI GRASSI: GRILLO DIMENTICA - ‘’Grillo dice che la mafia non ha mai strangolato i suoi clienti limitandosi a prendere il pizzo? Forse dimentica che ha anche ucciso le persone che il pizzo non hanno voluto pagarlo’’. Pina Maisano, vedova di Libero Grassi, l’imprenditore ucciso da Cosa Nostra per essersi ribellato al racket delle estorsioni, è sconcertata quando apprende delle dichiarazioni pronunciate ieri a Palermo dal comico genovese. ‘’Per fortuna non avevo ancora letto i giornali, altrimenti mi sarei sentita male’’, dichiara all’ANSA aggiungendo di ‘’condividere pienamente’’ il coro di proteste che si è levato dai familiari di vittime della mafia. ‘’Inizialmente - spiega - provavo una certa simpatia per Grillo. Adesso mi sembra solo un populista che cerca di cavalcare l’avversione della gente verso i partiti’’. Pina Maisano, che è stata anche parlamentare dei Verdi ed ha condotto numerose battaglie civili, contesta anche l’antipolitica di Grillo: ‘’La politica è la cura della Polis, la difesa dell’interesse dei cittadini. Insomma è qualcosa di nobile. Se la mafia uccide le persone, la corruzione e la cattiva politica uccidono il Paese. Io personalmente non ho ricette, ma quello di Grillo mi sembra davvero un modo di fare politica pressappochista e superficiale’’.

CLUB GRANDE SUD USA L'IRONIA - “Don Beppe, Vossia ha ragione. La mafia è solo un’invenzione dei giornalisti. Non esiste. E’ lo Stato il vero assassino”. Così la coordinatrice nazionale dei club di Grande Sud, Costanza Castello, replica ironicamente al comico Beppe Grillo che nel corso di un comizio ieri a Palermo ha detto che la mafia non uccide, mentre lo Stato sì. “Mi perdoni una vastasata, però. Ma Libero Grassi - aggiunge l’esponente del movimento arancione -, Raffaele Granata, Rocco Gatto, Fortunato Furore, Antonio Longo, Giuseppe Falanga, Raffaele Pastore, Antonino Buscemi, Salvatore Bennici, Giorgio Villan, Nicola Ciuffreda, Francesco Pepi, Luigi Staiano, Antonino Vicari, Luigi Gravina, Rocco Gatto e tanti altri non furono ammazzati dallo Stato ma da amici degli amici perché non pagavano il pizzo. Vossia deve stare accorto - prosegue - non è che dicendo quelle cose che ha detto ieri, poi, qualche cane di mannara se ne esce con: ‘Grillo viene a Palermo per uccidere di nuovo chi è stato vittima della mafia’, oppure ‘Grillo è un killer di memorie’. Uomo avvisato, mezzo salvato, don Beppe”.

Beppe Grillo viene accusato in modo pesante anche da Fiorello. “Dice cazzate sulla mafia”, racconta nel suo ultimo videoclip dell’edicola (recentemente è tornato anche su Twitter insieme alla sua “cricca” del bar). Nel corso della rassegna stampa, ha commentato le parole del comico e politico genovese, il quale avrebbe detto che i partiti sono peggio della mafia perché “la mafia non ha mai strangolato i suoi clienti ma si limita a prendere il pizzo”. Arrabbiatissimo, Fiore gli risponde per le rime e gli dice: “Mi sa che Grillo ne sa poco di mafia. Che si vada a vedere un po’ tutti i pilastri delle autostrade in Sicilia… Grillo te posso dì ‘na cosa? Ma vattela piglià ‘nder pizzo”. Il videoclip di sette minuti, che ha appena 1000 visite e che affronta ogni giorno i temi della politica e dell’attualità, è solo una delle reazioni forti dentro il mondo dello spettacolo alle parole del comico genovese. La stampa è in rivolta, ma in primis (quasi preventivamente) il noto critico Aldo Grasso, che sulle sue pagine e sulle sue provocazioni su Grillo scrive: In un mondo in cui tutti necessariamente recitano, secondo le regole della politica pop, il suo successo deriva dal fatto che lui è il più bravo a recitare. Insomma, non c’è pace per Beppe Grillo, difeso solo dal suo movimento anche sulle pagine di Youtube, accusa Fiorello di non aver visto in un’ottica più generale il discorso del comico che si prepara alle prossime amministrative con i suoi candidati (e relativa campagna), estrapolando, come la stampa avrebbe fatto oggi, una frase dal contesto.

Ecco cosa scrive Grillo poche ore fa sul suo blog, per chiarire la questione: La mafia ha tutto l’interesse a mantenere in vita le sue vittime. Le sfrutta, le umilia, le spreme, ma le uccide solo se è necessario per ribadire il suo dominio nel territorio. Senza vittime, senza pizzo e senza corruzione come farebbe infatti a prosperare? La finanza internazionale non si fa di questi problemi. Le sue vittime, gli Stati, possono deperire e anche morire. Gli imprenditori possono suicidarsi come in Grecia e in Italia. Spolpato uno Stato si spostano nel successivo. Questo è il senso delle mie parole di ieri a Palermo. Honi soit qui mal y pense (ovvero, Sia vituperato chi ne pensa male).

Il comico tuona ormai quotidianamente, dalle piazze che ospitano i comizi per le prossime amministrative, contro la classe dirigente che continua la sua corsa all’austerità senza guardare alla ripresa. Bersani :”Non si permetta di insultare Napolitano!” Ma sono tutti i politicanti a correre ai ripari dalla sempre maggiore popolarità del leader del M5S che è un fenomeno in crescita. Nel bene e nel male. Verrebbe da chiedersi se i Maya non avessero ragione: la fine del mondo è vicina, Grillo suscita dissensi pesantissimi, pari almeno alla percentuale di suffragi che i sondaggi ascrivono al suo movimento politico.

Paura: in occasione del 25 aprile 2012 il Presidente Napolitano non ha mancato di sferzare il comico genovese, seppur nello stile composto e mai eccessivo cui ci ha abituato. Dal Quirinale, una sorta di monito generico, ma dal tenore delle affermazioni non è difficile scoprire il velato riferimento a Grillo: “... si rinnovino i partiti per non dare fiato alla cieca sfiducia contro i partiti e a qualche demagogo di turno”. Il presidente sponsorizza i partiti: quelle formazioni che stanno cercando di rifarsi il trucco. E’ chiaro che anche Napolitano, anagrafe alla mano, è espressione di un vecchio modo di intendere la politica, un modo di cui gli italiani stanno dimostrando di volersi liberare. Bastano queste considerazioni a farci comprendere come l’intervento del vecchio del Quirinale sia fuori luogo, distante dalla realtà che vive il paese e vicino ad un modo ideale di vivere la politica, in cui la casta fa la casta ed i cittadini foraggiano la casta. La paura evidentemente c’è ed è tanta: si invoca una legge elettorale, si taccia di qualunquismo qualsiasi voce di dissenso. Coglie la palla al balzo sua incapacità Bersani, quel leader dell’opposizione che ciascun pessimo governante vorrebbe avere come avversario: "Non si permetta di insultare il capo dello Stato" e poi “I partigiani saprebbero benissimo da che parte stare anche oggi”. Non è difficile comprendere come abbia fatto Berlusconi a rimanere in sella per vent’anni, con personaggi simili all’opposizione. Anche Casini si pronuncia in modo analogo, lo stesso genero Caltagirone che ha ampiamente anticipato il pensiero di Napolitano pensando di rinominare la morente UDC con quell’assurdo “Partito della Nazione”, la stessa nazione che ormai risponde alle chiamate del capopopolo che spaventa i mestieranti della politica che corrono ai ripari e non crede alle parole dei cialtroni in auto blu. Angelino Alfano inizia a parlare di rinuncia ai finanziamenti pubblici, Gasparri addirittura minaccia di non votare la riforma del lavoro, qualora il progetto non venga modificato in alcuni punti ritenuti essenziali, Maroni querelerà chiunque assocerà la Lega alle tangenti. Conoscendo l’abilità dei professionisti della politica, è facile scoprire cosa ci sia dietro queste affermazioni: la tornata delle amministrative è alle porte, bisogna mettersi il vestito buono, non quello che quotidianamente viene mandato a quel paese dai disaffezionati della politica. Ormai va di moda dare del qualunquista, del demagogo, del populista a chiunque, quando questi strilla in piazza il pensiero di una maggioranza silenziosa. E’ il cercare di categorizzare chi esprime un dissenso, il provare a far credere al popolo che l’oratore (Grillo, in questo caso) stia parlando per attrarre a sé il consenso. Cavalca l’onda del malcontento, definisce Monti “spietato ragioniere che fa il bocconiano, fa il lord”, chiamandolo alle sue responsabilità quando sottolinea i rapporti che Mario Monti presidente del consiglio intratteneva con Cirino Pomicino, noto della prima repubblica, per le tangenti Enimont ed Eni. Si capisce perché è ormai considerato l’uomo qualunque: a parlare di temi cari al popolo, a parlare di concretezza e non di mirabolanti cifre virtuali (derivati, bot, bund, spread, btp e tutte le altre centinaia di sigle che la finanza utilizza per non far comprendere come si mantenga in cima alla piramide economica pur senza produrre alcunché) si corre il rischio di risvegliare le coscienze, si rischia di fare demagogia. E non che il dubbio non sussista, considerando le tematiche affrontate dal comico nei suoi comizi, sempre più simili agli svariati one-man-show cui ci ha abituato nel corso della sua carriera artistica. Grillo interpreta il pensiero di una larga maggioranza della popolazione ed in questo senso è sì qualunquista, nel senso che pronuncia a gran voce le parole che qualunque elettore pronuncia tra sé, scorrendo le colonne che parlano di politica di un qualsiasi quotidiano nazionale o apprendendo di nuove accise sui carburanti. Ma la politica è altro: non basta catalizzare il malcontento e sparare a zero su tutto. Scende da un camper, e non da un’auto blu come farebbero i leader consumati del nostro paese. Dà voce al pensiero dell’uomo medio, condanna l’euro e la partitocrazia: tutti elementi cui guardare con attenzione, benché non si possa basare la costruzione di un progetto politico solo su questi pochi punti, che poggiano essenzialmente la loro ragion d’essere sul malcontento che serpeggia nel paese. Critica gli accordi commerciali con la Cina, il modo di vivere all’occidentale, l’assoluta mancanza di servizi: a sentirne i discorsi si comprende perché i signorotti delle stanze del potere temano quest’uomo, scompigliato e sudaticcio, un vero leone in palcoscenico benché stia assumendo troppi difetti dei politicanti consumati, rifiutando a più riprese il confronto con gli antagonisti e sparando percentuali in uno stile che ricorda talvolta il Silvio dei tempi andati e talvolta quel Monti che ha una credibilità risibile, come i mercati stanno dimostrando. Le sue rimostranze sono più che legittime ma serve anche più compostezza e più contenuti, perché non si cada nella trappola dei libretti promozionali di Berlusconi e Prodi.

«Con questi leader non vinceremo mai», disse anni fa Nanni Moretti, davanti agli attoniti Rutelli e Fassino. Sicuramente, finora, hanno vinto loro: i leader. Sempre lassù, inamovibili. E pronti, oggi, a firmare apertamente il patto definitivo coi poteri forti per sacrificare l’Italia, come comandano i signori di Bruxelles, di Berlino e di Francoforte: lacrime e sangue per tutti, tranne che per loro. Rivista oggi, la coraggiosa invettiva di Moretti sembra quasi ingenua. Rispetto a ieri, però, sulla scena c’è un personaggio in più: la paura. I vecchi leader – sempre gli stessi – ora tremano: leggono i risultati dei sondaggi e si sentono sempre meno al sicuro. Temono addirittura un comico, Beppe Grillo, che li ha sfidati pubblicamente, facendo subito bingo: il “Movimento 5 Stelle” convince oltre il 7% dei futuri elettori. Senza contare tutti gli altri, cioè la vera grande incognita: quasi un italiano su due non ha più voglia di votare per i vecchi partiti, schiacciati tra la “cura Monti” e gli scandali del finanziamento pubblico che hanno travolto persino la Lega.

A testa bassa, il vecchio marketing politico italiano improvvisa una controffensiva. Grillo? «Uno spregevole demagogo di quart’ordine, che corteggia i leghisti per conquistare voti e giustifica coloro che non emettono lo scontrino», tuona Giuliano Ferrara, secondo cui il comico genovese rappresenta «il male assoluto», perché è un populista «che spiega agli elettori leghisti che Bossi è innocente e che tutto dipende da un processo mediatico». Gli fa eco l’ex ministro Altero Matteoli, del Pdl, che descrive Grillo come «un clown, un fenomeno da circo» talmente ridicolo da non essere «nemmeno querelabile». Fanno decisamente meno ridere i sondaggi: i “grillini” potrebbero diventare il terzo partito italiano a partire dalle prossime amministrative, in cui si presenteranno con 101 liste in altrettanti Comuni. Di fatto, dal 2010 Grillo è già sul podio: terza forza alle regionali in Emilia (7%) e in Piemonte (4%), terzo anche a Bologna (9,5%) e a Torino (5,4%). A maggio 2012 si prevede un boom, che alle politiche del 2013 potrebbe trasformarsi nello sbarco a Roma con qualche decina di parlamentari. Diretto concorrente sul fronte del voto “contro”, anche Nichi Vendola si preoccupa, definendo Grillo «un fenomeno mediatico inquietante». Per il leader di Sel, che almeno non sedeva nella tribuna-vip sferzata da Moretti, «quando ci si affida a urlatori a uomini della provvidenza, di solito questi preparano tempi peggiori, non tempi migliori». Ben diverso il tenore, irridente, della dichiarazione di Massimo D’Alema. Grillo? Un personaggio «a metà tra il Gabibbo e Bossi», specchio – addirittura – di chi «ha governato negli ultimi 15 anni». E dov’era, all’epoca, il signor D’Alema? Andava “a lezione” da un certo Jacques Attali, come ha recentemente raccontato l’economista francese Alain Parguez, già consulente del presidente François Mitterrand: Attali, che secondo Parguez indottrinò i famosi leader del centrosinistra italiano all’epoca del fatidico ingresso nell’euro, è il tipetto che firmò la battuta più sconcertante sul vero significato dell’introduzione forzata della moneta unica: «Ma cosa crede, la plebaglia europea: che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?». Un golpe finanziario, attuato per gradi: Maastricht, Lisbona, Fiscal Compact. Dopo clamorose polemiche, il giornalista Paolo Barnard è andato dai carabinieri a denunciare come “golpisti” Mario Monti e Giorgio Napolitano. Fine della sovranità nazionale e fine dello Stato come unico possibile salvatore dell’economia: chi ha ancora una propria valuta, come gli Usa e il Giappone, può attuare investimenti sociali attraverso il deficit protetto dalla moneta sovrana. L’Europa invece è finita in trappola, dicono autorevoli tecnici come Paul Krugman, premio Nobel per l’economia. E mai un referendum, naturalmente: cittadini mai chiamati a decidere del loro destino, mai ascoltati, mai neppure informati. Semmai, ipnotizzati: dal festival (truccato) dell’Europa unita ma non democratica, poi dal bunga-premier di Arcore, e ora dal “mago” della Bocconi, l’uomo che ha lavorato per le più micidiali e spietate oligarchie predatorie del pianeta, dalla Goldman Sachs al Bilderberg, dalla Commissione Europea alla Trilaterale.

«Con questi leader non vinceremo mai»? Noi no, sicuramente. Meno che mai oggi, verrebbe da dire, con in campo le loro controfigure, da Bersani ad Alfano. L’Italia va incontro a un suicidio storico, epocale? Si blatera di “crescita” comprimendo i salari e quindi i consumi? Si amputa la spesa vitale, senza uno straccio di idea sul futuro? Si taglia tutto, dalle pensioni agli ospedali, meno che i privilegi e gli sprechi? La Fiat perde i pezzi, ma nessuno azzarda un piano di riconversione: si pensa al massimo di privatizzare i servizi essenziali, per lucrarci sopra, alla faccia dei referendum sui beni comuni. E i famosi leader? Sono ancora là, naturalmente: occupano saldamente i media, presidiano le televisioni, balbettano i loro pigolii da salotto mentre la “premiata macelleria Monti” smantella anche la Costituzione, impedendo allo Stato di investire a favore dei cittadini. E intanto tremano, i leader: perché non hanno soluzioni. E ora temono apertamente persino il “buffone” Beppe Grillo.

Secondo Marco Travaglio su “Il Fatto Quotidiano” le accaldate dichiarazioni dei politici su Beppe Grillo sono uno spettacolo impagabile, da scompisciarsi. Tutti contro uno, come contro la Lega delle origini. Sono talmente terrorizzati da non notare la ridicolaggine di un’intera classe politica, seduta su 2,5 miliardi di soldi pubblici camuffati da rimborsi, padrona del governo e del Parlamento nonché di tutti gli enti locali, ben protetta da Rai, Mediaset e giornaloni, infiltrata in banche, assicurazioni, aziende pubbliche e private, Tav, Cl, P2, P3, P4, ospedali, università, sindacati, coop bianche e rosse, confindustrie, confquesto e confquello che strilla come un ossesso contro un comico e un gruppo di ragazzi squattrinati, magari ingenui, ma armati solo delle proprie idee e speranze. Il presidente della Repubblica che commemora la Liberazione dal nazifascismo lanciando moniti, anzi anatemi contro un comico (“il qualunquista di turno”), è cabaret puro. Dice che “i partiti non hanno alternative”: ma quando mai, forse per lui che entrò in Parlamento nel ’53 senza più uscirne. Tuona contro l’“antipolitica” (e ci mancherebbe pure, vive di politica da 60 anni). Ma non si accorge che nessuno ha mai delegittimato i partiti e la politica quanto lui, che sei mesi fa prese un signore mai eletto da nessuno, lo promosse senatore a vita e capo di un governo con una sola caratteristica: nessun ministro eletto, tutti tecnici più qualche politico travestito da tecnico. E non se ne avvedono neppure i giornaloni che dedicano all’ultimo monito pensosi editoriali dal titolo “Il tempo è scaduto”. Se un comico parla del capo dello Stato e lo sbeffeggia, è normale, mentre non s’è mai visto un capo dello Stato che parla di un comico, per giunta neppure candidato, per dirgli quel che deve fare o dire. Napolitano contro Grillo è roba da “Totò contro Maciste”. Ma il meglio, come sempre, lo danno i partiti. Anche una personcina ammodo come Guido Crosetto del fu Pdl riesce a dire che Grillo gli ricorda “il fascismo”, anzi “il razzismo”, anzi “il nazifascismo”, anzi “Goebbels” in persona. Le pazze risate. Grillo dice che, se Napolitano difende i partiti, è “il presidente dei partiti”: logica pura, ma per Bersani è “insulto”. Segue minacciosa diffida per leso monito: “Grillo non si permetta di insultare Napolitano, non si arrischi a dire cosa direbbero i partigiani se tornassero: loro saprebbero cosa dire dell’Uomo Qualunque”. Brrr che paura. Livia Turco lacrima in tv perché la gente ce l’ha con i politici e non si capacita del perché. Casini intima a Grillo di “entrare in Parlamento a misurarsi coi problemi concreti” e “smetterla con le chiacchiere”. Perché se no? Forse dimentica che Grillo in Parlamento entrò tre anni fa, per portare le firme di 300 mila cittadini su tre leggi d’iniziativa popolare: ma, siccome prevedevano l’incandidabilità dei pregiudicati, il limite di due legislature per i parlamentari e una legge elettorale democratica al posto del Porcellum, i partiti le imboscarono tutte e tre. Anche perché, con quelle, l’Unione dei Condannati si sarebbe estinta e gli altri partiti quasi. Siccome Dio acceca chi vuole rovinare, i partitocrati seguitano a confondere le cause con gli effetti. Grillo l’hanno creato loro: rifiutando le sue proposte, asserragliandosi a palazzo, barricando porte e finestre, alzando i ponti levatoi per tenere lontani dalla politica i cittadini e rovesciando su di loro pentoloni d’olio, anzi di merda bollente. E ora che, al borsino della fiducia, raccolgono tutti insieme il 2%, non trovano di meglio che fare l’ammucchiata: ABC, il Trio Alfanobersanicasini, vanno in giro a braccetto per far numero e volume, annunciando riforme elettorali, leggi sui partiti, tagli alla casta, norme anti-corruzione e misure per la crescita che nessuno farà mai. Più gli elettori si allontanano, più i capi si avvicinano, illudendosi di riempire il vuoto da essi stessi creato. Sfilano al proprio funerale come se il morto fosse un altro.

Bisogna gridarlo ai quattro venti: la mafia ti rovina la vita; lo Stato ti ammazza la speranza!

Per coloro che dell’infamia e del vituperio fanno arte di vita: denigrando gli “infedeli”, riporto il pensiero del mio vate, che di mafia, egli sì era un dotto.

Leonardo Sciascia per zittire i corvi delle nostre vite, inibenti la sacra libertà.

direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l'intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese. In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D'Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l'imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia. In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di "impiegati d'ordine"; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri "cavalieri d'industria"; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia. (da Il Globo, 24 luglio 1982 [...] pp. 24-25)

...La sicurezza del potere si fonda sull'insicurezza dei cittadini. (da Il cavaliere e la morte)

...Cattolici per modo di dire, mai conosciuto in vita mia, qui, un cattolico vero: e sto per compiere novantadue anni... C'è gente che in vita sua ha mangiato magari una mezza salma di grano maiorchino fatto ad ostie: ed è sempre pronta a mettere la mano nella tasca degli altri, a tirare un calcio alla faccia di un moribondo e un colpo a lupara alle reni di uno in buona salute. (da A ciascuno il suo)

....Il cretino di sinistra ha una spiccata tendenza verso tutto ciò che è difficile. Crede che la difficoltà sia profondità. (citato in Sergio Ricossa, Straborghese, Editoriale Nuova, Milano 1980)

....È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia un cretino. [...] e dunque una certa malinconia, un certo rimpianto, tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genuini, integrali. Come il pane di casa. Come l'olio e il vino dei contadini. [...] La nostra giornata è fatta, come tutta la vita, di misteriose rispondenze, di sottili collegamenti. [...] Quando c'è in giro tanta pietà per gli animali, pochissima ne resta per l'uomo. [...] Si è così profondi, ormai, che non si vede più niente. A forza di andare in profondità, si è sprofondati. [...] Soltanto l'intelligenza, l'intelligenza che è anche «leggerezza», che sa essere «leggera», può sperare di risalire alla superficialità, alla banalità. [...] Tutti i nodi vengono al pettine. Quando c'è il pettine. [...] Un orologio che va male non segna mai l'ora esatta, un orologio fermo la segna due volte al giorno. Un'idea morta produce più fanatismo di un'idea viva; anzi soltanto quella morta ne produce. Poiché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte. (da Nero su nero)

....Ricordando una frase che è nella voce «letterati» del dizionario di Voltaire – «la più grande sventura dell'uomo di lettere forse non è quella di essere oggetto della gelosia dei colleghi, vittima dell'intrigo, disprezzato dai potenti; ma quella di essere giudicato dagli imbecilli» – possiamo aggiungere, ricordando questa frase, che Borgese ebbe, davvero in questo senso, «tutto»: tanti altri scrittori lo invidiarono, qualche intrigo fu ordito a suo danno, qualche potente lo disprezzò al punto di volerlo perdonare. Ma sopratutto ebbe quella che, secondo Voltaire, è la sventura maggiore: che molti imbecilli lo giudicarono e forse ancora, senza conoscerlo, continuano a giudicarlo. (Nota di Leonardo Sciascia a Le belle, p. 176)

MAFIA? NO POLITICA: SOLO E SEMPRE MALEDETTA POLITICA.

«Darei un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia. Ha introdotto delle leggi che ci hanno consentito di sequestrare in tre anni moltissimi beni ai mafiosi. Siamo arrivati a quaranta miliardi di euro». Lo dice il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso alla Zanzara su Radio 24 del 12 maggio 2012. «Poi su altre cose che avevamo chiesto, norme anticorruzione, antiriciclaggio, stiamo ancora aspettando». Ma chi voterà come sindaco di Palermo? «Un magistrato - dice Grasso A Radio 24 - non deve far conoscere le sue preferenze politiche. Al primo turno delle comunali mia moglie mi ha chiesto per chi avessi votato e io le ho risposto: non te lo dico. Si è pure arrabbiata». Poi Grasso critica il pm Antonio Ingroia: «Fa politica utilizzando la sua funzione, è sbagliato. Come ha sbagliato ad andare a parlare dal palco di un congresso di partito (comunisti italiani). Deve scegliere. E per me è tagliatissimo per fare politica». Un'intervista, quella al procuratore nazionale antimafia, che alcuni hanno letto come il preludio di un suo impegno diretto in politica. Ma la reazione dei magistrati di sinistra, (come quella di Marco Travaglio che li osanna) che sono poi quelli che detengono le redini della magistratura, o comunque che fanno più rumore, non si fanno attendere. Per Magistratura Democratica sono 'sconcertanti' le parole del Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso sulla politica del governo Berlusconi in tema di lotta alla mafia. «Sui sequestri -dice Piergiorgio Morosini, segretario generale di Magistratura Democratica- ci sono leggi collaudate già da qualche decennio e gli esiti positivi degli ultimi anni, in materia di aggressione ai patrimoni mafiosi, sono dipesi dallo spirito di abnegazione e dalla capacità professionale delle forze dell'ordine e della magistratura. Dobbiamo ricordarci, in proposito, che la denigrazione sistematica del lavoro dei magistrati non può essere certo annoverata tra le azioni favorevoli alla lotta alla mafia. Il Codice Antimafia, poi, varato nel biennio 2010-2011, a detta di esperti, a livello accademico e giudiziario, brilla per inadeguatezze e lacune. Inoltre -continua- il governo Berlusconi non ha fatto nulla in tema di evasione fiscale e lotta alla corruzione che sono i terreni su cui attualmente si stanno rafforzando ed espandendo i clan. Per non parlare delle leggi che hanno agevolato il rientro in Italia di capitali mafiosi nascosti all'estero e della mancata introduzione di norme in grado di colpire le alleanze nell'ombra tra politici e boss. Si aggiunga che non c'è stata nessuna novità in tema di lotta al riciclaggio e ci sono stati reiterati tentativi per indebolire il decisivo strumento investigativo delle intercettazioni. In altri termini -conclude Morosini- la politica antimafia del centrodestra ricorda piuttosto il titolo di un noto brano del cantautore emiliano Ligabue “Tra palco e realtà”: tanti proclami e poca sostanza». «Grasso non fa che affermare una evidente verità. È stato tutto il centrodestra a condurre una rigorosa e seria azione legislativa e politica antimafia che la sinistra non si è mai sognata di realizzare - ha commentato il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri - Voglio ricordare che abbiamo rafforzato il 41bis garantendo l’applicazione del carcere duro in maniera ampia, a differenza di quanto fecero Mancino, Scalfaro, Ciampi e Amato che arresero lo Stato alla mafia - ha proseguito Gasparri -. E vedere poi Giuliano Amato, sotto il cui regno il 41bis veniva cancellato.

Nella solita querelle, però Massimo Giletti nella puntata del 13 maggio 2012 ha reso omaggio a tre grandi figure della storia italiana, riaccendendo in tutti noi la voglia di non dimenticare. Persone come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Carlo Alberto Dalla Chiesa meritano, sempre e comunque, di essere ricordate. Anche se ormai sono passati diversi anni, le rispettive famiglie continuano a combattere per non render vana la morte dei propri cari. Purtroppo, per quanto possano cercare di andare avanti, i figli e le mogli di questi grandi uomini non riescono a cancellare in nessun modo il dolore e la paura di quei giorni. La loro vita è stata segnata indelebilmente perché il contatto diretto con la mafia li ha cambiati; probabilmente, alcuni non guarderanno mai più al futuro con occhi positivi, ma sono convinti del fatto che qualcuno, forse, lo farà al loro posto. Pertanto, è bene che esperienze simili non finiscano nel dimenticatoio perché anche le nuove generazioni hanno bisogno di sapere come agisce e come ha agito in passato la mafia. Ospiti della prima parte di Domenica In – L’Arena sono stati Rita Dalla Chiesa, figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’ex ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli, l’inviato del Corriere della Sera Felice Cavallaro, il magistrato Roberto Piscitello e il Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, in collegamento da Palermo. Durante la puntata sono stati trasmessi vari filmati che ripercorrevano la tragica vicenda di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Certo, molti di quei video sono famosissimi ma, ugualmente, non sono passati indifferenti a nessuno degli ospiti in studio. Ognuno si è sentito in dovere di esprimere la propria opinione e soprattutto di mostrare il forte dissenso nei confronti dell’argomento ‘mafia’. Dal dibattito è emerso che, nonostante le numerose indagini, si sa veramente poco su come andarono ufficialmente i fatti; sembra quasi che si voglia nascondere qualcosa che, purtroppo, potrebbe essere illuminante per molte persone. La stessa Rita Dalla Chiesa, sul punto di scoppiare in lacrime, prima ha ricordato che al funerale non ha accettato le condoglianze e stretto la mano a nessuna autorità, compreso il Presidente Sandro Pertini; poi ha affermato che il giorno del funerale una donna disse a lei ed ai suoi fratelli in procinto di partire dal finestrino della macchina che “non siamo stati noi palermitani ad uccidere tuo padre”; infine ha affermato che, ancora oggi, non ha saputo alcuni particolari e alcuni nomi legati all’uccisione del padre; nonostante siano passati 30 anni non è cambiato nulla e alcuni punti della vicenda restano ancora oscuri. Sarà mica colpa della giustizia italiana e dei giudici che l'amministrano?

23 MAGGIO 1992. È il giorno della morte di Giovanni Falcone e di sua moglie Francesca Morvillo, ma anche degli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. La scorta, come viene sommariamente liquidata nelle cronache, quasi a negare loro un volto, un'identità, una storia. In realtà sono soprattutto questi uomini il simbolo di una guerra che ha già lasciato sul campo oltre mille vittime fra chi ha detto No. Il simbolo di una solitudine di cui lo Stato è stato spesso complice. "Chi ha paura sogna, chi ha paura ama, chi ha paura piange. Io come tutti ho paura. Ma non sono vigliacco, altrimenti me ne sarei già andato". Antonio Montinaro sapeva di rischiare scortando Giovanni Falcone. Il 23 maggio 1992 anche lui è morto a bordo della Fiat Croma che esplose a Capaci. Non ha mai mollato, così come non lo hanno mai fatto tutti quei magistrati, giornalisti e agenti di Polizia che hanno sacrificato la propria vita in nome della lotta alla mafia. Facili bersagli perché lasciati da soli a combattere. Uomini isolati e per bene, come lo erano il segretario del partito comunista italiano della Sicilia Pio La Torre, assassinato il 30 aprile 1982; Carlo Alberto dalla Chiesa, generale dei carabinieri e prefetto ammazzato il 3 settembre 1982; Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, giudici saltati in aria il 23 maggio e il 19 luglio del 1992. La storia di queste morti ha cambiato la società degli ultimi 30 anni. E Attilio Bolzoni, inviato di Repubblica, ha deciso di tornare a Palermo per raccontarle. Le ha racchiuse in un libro (ed. Melampo) e in un film documentario di Paolo Santolini: "Uomini soli". Il viaggio del cronista, che per trent'anni ha raccontato la Sicilia e la sua mafia, parte dal quadrilatero dei cadaveri eccellenti. Da quelle strade della città mattatoio dove, nei primi anni Ottanta, persero la vita Calogero Zucchetto, l'agente della mobile di Palermo che 'cacciava' latitanti, il magistrato antimafia Rocco Chinnici, Piersanti Mattarella, allora presidente della Regione Sicilia. I quotidiani di quei giorni titolavano "Palermo come Beirut". Ma, secondo Bolzoni, era peggio di Beirut. "Ricordo i luoghi, gli odori, le facce. Sono cose che non ho mai dimenticato. Palermo mi ha lasciato delle cicatrici. E non c'è anestesia che lenisca il dolore". Dove c'erano i morti, ora ci sono le lapidi e le croci. Un cimitero a cielo aperto dove i drammi privati sono diventati pubblici. Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano quattro italiani fuori posto. Personaggi veri per un'Italia fatta di trame, di egoismi e di convenienze. Quattro persone che facevano paura al potere. Troppo diversi e soli per avere un'altra sorte. Bolzoni lascia da parte le date, le carte dei tribunali e le sentenze. Racconta questi uomini per bene attraverso le voci degli amici, dei colleghi, dei familiari, e di tutti quelli che hanno lavorato al loro fianco. Restituisce così un'istantanea di quegli anni in un film empatico e mai retorico. E fa rivivere i protagonisti raccontando il dolore di chi era al loro fianco. Il primo uomo solo è Pio La Torre. Il 1 maggio 1982 il segretario del partito comunista italiano della Sicilia non era in Piazza Politeama tra le bandiere rosse, ma dentro una bara. "Era un grande rompicoglioni - ricorda il figlio Franco - la sua ossessione non era la mafia, era il riscatto del popolo siciliano. E Cosa Nostra era l'ostacolo maggiore". Nelle immagini del suo funerale ci sono le lacrime del Presidente della Repubblica Sandro Pertini e del segretario del Pci Enrico Berlinguer, il dolore della famiglia e del popolo palermitano. Bolzoni era lì tra quei volti stravolti, i brividi e la paura. Era diventato un uomo pericoloso Pio La Torre, racconta il cronista. Si era messo in testa che essere mafioso doveva diventare un reato. "Palermo - diceva - è una città dove si fa politica con la pistola". Non si conosce il motivo preciso per cui fu ucciso. Ma a lui dobbiamo la legge sul reato di associazione mafiosa. Carlo Alberto dalla Chiesa era un generale che non piaceva al potere. "La mafia è cauta - disse in un'intervista a Giorgio Bocca, pubblicata su Repubblica - è lenta, ti misura, ti verifica alla lontana. Si ammazza l'uomo di potere quando si crea questa combinazione fatale: "È diventato potente ma si può uccidere perchè è isolato". Quando ancora i cadaveri del generale e della sua giovane moglie erano in macchina, un cittadino attaccò una cartello che recitava: "Qui è morta la speranza dei palermitani onesti". Il figlio Nando ricorda l'ultima vacanza trascorsa col padre, era l'estate del 1982 e lui si sentiva un uomo in gabbia. Cercava aiuto ma nessuno più gli rispondeva al telefono. Nella Palermo degli anni Ottanta si combatteva una lotta mafia personalizzata. Francesco la Licata, giornalista del quotidiano L'Ora, piangeva ai funerali delle vittime. "Ci sentivamo parte lesa. Eravamo sulla stessa barricata". Basti pensare che il commissario Cassarà usava la macchina del padre per i pedinamenti. Poi, però, anche Ninni morì il 6 agosto del 1985. "La storia peggiore è quella di Giovanni Falcone. Mi disse che si sentiva seviziato", racconta Nando dalla Chiesa. Un altro uomo lasciato solo. Faceva tremare la mafia e per questo fu ammazzato. Cercava di schivare i tormenti, ma erano i suoi stessi colleghi a guardarlo con sospetto. È stato celebrato come eroe nazionale solo quando è finito nella tomba. Leonardo Guarnotta, presidente del tribunale di Palermo, ex giudice del pool antimafia, torna nel bunker dove lavorava con Falcone e Borsellino. Lo fa dopo 17 anni e si commuove: "Qui è tutto come prima. Che rabbia pensare che Giovanni e Paolo non possono sapere come è cambiata la società dopo la loro morte". Morì 55 giorni dopo l'amico Giovanni Falcone. Paolo Borsellino fu tradito e venduto. L'amica magistrato Alessandra Camassa ricorda di averlo visto piangere. Sapeva di essere diventato un bersaglio e che a Palermo era arrivato l'esplosivo anche per lui. Era il 19 luglio 1992 quando una autobomba esplose in via D'Amelio, sotto casa della madre. Letizia Battaglia, che ha fotografato i morti delle stragi per il quotidiano L'Ora, ricorda i pezzi di carne sparsi dappertutto. "C'era chi piangeva, chi gridava. Mamma mia che cosa abbiamo avuto. Basta Attilio. Basta".

La Torre, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino. Quattro uomini soli, uomini di Stato: uccisi dalla mafia e dallo Stato.

Gli omicidi del segretario del Pci siciliano e del generale nell'82; quelli dei due giudici nel '92. Oggi, venti o trenta anni dopo, ci sono ancora molti misteri sulla loro uccisione. Però sappiamo perché li volevano morti. La testimonianza di Attilio Bolzoni su “La Repubblica” in occasione dell’ennesima ricorrenza.

«Quella mattina sono anch'io là, con il taccuino in mano e il cuore in gola. Saluto Giovanni Falcone, saluto Rocco Chinnici, non ho il coraggio di guardare Paolo Borsellino che è con le spalle al muro e si sta accendendo un'altra sigaretta con il mozzicone che ha già fra le dita. Mi avvicino al commissario Cassarà e gli chiedo: "Ninni, cosa sta succedendo?". Mi risponde, l'amico poliziotto: "Siamo cadaveri che camminano". Un fotografo aspetta che loro - Falcone e Cassarà, Chinnici e Borsellino - siano per un attimo vicini. Poi scatta. Una foto di Palermo. Una foto che dopo trent'anni mi mette sempre i brividi. Sono morti, uno dopo l'altro sono morti tutti e quattro. Ammazzati. Tutti vivi me li ricordo, tutti ancora vivi intorno a quell'uomo incastrato dentro la berlina scura e con la gamba destra che penzola dal finestrino. Sono lì, in una strada che è un budello in mezzo alla città delle caserme, vie che portano i nomi dei generali della Grande guerra, brigate e reggimenti acquartierati dietro il sontuoso parlamento dell'isola, Palazzo dei Normanni, cupole arabe e lussureggianti palme.

Chi è l'ultimo cadavere di una Sicilia tragica? È Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista italiano, deputato alla Camera per tre legislature, figlio di contadini, sindacalista, capopopolo negli infuocati anni del separatismo e dell'occupazione delle terre. È Pio La Torre, nato a Palermo alla vigilia del Natale del 1927 e morto a Palermo alla vigilia del Primo maggio del 1982. L'agguato non ha firma. Forse è un omicidio di stampo mafioso. Forse è un omicidio politico. Chissà, potrebbe anche avere una matrice internazionale. Magari - come qualcuno mormora - si dovrebbe esplorare la "pista interna". Indagare dentro il suo partito.

Nella sua grande famiglia. Cercare gli assassini fra i suoi compagni.

Supposizioni. Prove di depistaggio in una Palermo che oramai si è abituata ai morti e ai funerali di Stato, cadaveri eccellenti e cerimonie solenni. Il 30 aprile 1982, trent'anni fa. Uccidono l'uomo che prima di tutti gli altri intuisce che la mafia siciliana non è un problema di ordine pubblico ma "questione nazionale", il parlamentare che vuole una legge che segnerà per sempre la nostra storia: essere mafioso è reato. Chiede di strappare i patrimoni ai boss, tutti lo prendono per un visionario. Dicono che è ossessionato da mafia e mafiosi, anche nel suo partito ha fama di "rompicoglioni". Al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini propone di inviare a Palermo come prefetto il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il carabiniere che ha sconfitto il terrorismo.

Non fa in tempo a vederlo sbarcare, l'ammazzano prima.

Pio La Torre aveva conosciuto dalla Chiesa nel 1949 a Corleone, lui segretario della Camera del lavoro dopo la scomparsa del sindacalista Placido Rizzotto e il capitano volontario nel Cfbr, il Comando forze repressione banditismo. Il loro primo incontro avviene nel cuore della Sicilia. Quindici anni dopo si ritroveranno uno di fronte all'altro in commissione parlamentare antimafia, uno deputato e l'altro comandante dei carabinieri della Sicilia occidentale. Il terzo incontro non ci sarà mai. Destini che s'incrociano in un'isola che non è ricca ma sfrenatamente ricca, superba, inespugnabile. Il giorno dell'uccisione di Pio La Torre in Sicilia arriva il generale. "Perché hanno ucciso La Torre?", gli chiedono i giornalisti. "Per tutta una vita", risponde lui. È il cinquantottesimo prefetto di Palermo dall'Unità d'Italia. L'hanno mandato giù "per combattere la mafia". Informa il capo del governo che non avrà riguardi per la "famiglia politica più inquinata del luogo". È la Dc di Salvo Lima e di Giulio Andreotti. Non gli concedono i poteri promessi, solo contro tutti Carlo Alberto dalla Chiesa resisterà per centoventi giorni. Il 3 settembre 1982 tocca anche a lui. E alla sua giovane moglie Emmanuela. Omicidio premeditato, annunciato, dichiarato. Omicidio fortemente voluto per chiudere un conto con un generale diventato troppo ingombrante. Una leggenda per i suoi carabinieri, una minaccia permanente per un'Italia che sopravvive fra patti e ricatti. Dicono che a farlo fuori è stata la Cupola. Come per Pio La Torre. Un alibi perfetto per seppellire e dimenticare un generale fatto a pezzi dallo Stato. Nei giorni precedenti al 3 settembre le sabbie mobili siciliane se lo sono divorato Carlo Alberto dalla Chiesa. Le prime pagine del giornale L'Ora, sono fotocopie con numeri al posto dei titoli: 81...84...87... Gli omicidi a Palermo dall'inizio dell'anno. L'11 agosto sono già 93, il 14 sono 95. A fine mese l'inchiostro rosso si spande sulla foto dell'ultima vittima. Il titolo che va in stampa dice 100. "L'operazione da noi chiamata Carlo Alberto l'abbiamo quasi conclusa, dico: quasi conclusa", è la telefonata che arriva dopo una "sparatina" a Villabate. Una rivendicazione così a Palermo non l'hanno fatta mai.

Sembra un proclama terroristico. Una dichiarazione di guerra, in stile militare. Sono a Casteldaccia quando arriva quella telefonata.

Mi arrampico su una stradina che sale fino alla caserma dei carabinieri. Lì c'è già il capitano Tito Baldo Honorati, il comandante del nucleo operativo di Palermo. È davanti a un'utilitaria impolverata, la parte posteriore dell'auto è "abbassata", schiacciata verso l'asfalto. Ormai si riconoscono anche da lontano le macchine con un grosso peso nel bagagliaio. Significa che lì dentro c'è un uomo. Il capitano apre. È un "incaprettato", mani e piedi legati con una corda che gli passa intorno al collo. Quando i muscoli delle gambe cedono, la vittima finisce per strangolarsi. "È un altro regalo per il nostro generale", dice l'ufficiale mentre via radio gli arriva la notizia che è stato ritrovato un cadavere sulla piazza di Trabia. Ed è già morto anche lui - l'agguato a colpi di kalashnikov in via Isidoro Carini, una settimana dopo - Carlo Alberto dalla Chiesa, carabiniere figlio di carabiniere, nato a Saluzzo, provincia di Cuneo, Piemonte.

Dall'altro capo dell'Italia.

Palermo è laboratorio criminale e terra di sperimentazione politica, è porto franco, capitale mondiale del narcotraffico, regno di latitanti in combutta con questori e prefetti, onorevoli mafiosi e mafiosi onorevoli. Il giudice Falcone indaga sui "delitti politici" siciliani, indaga sulla morte di Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa.

Scopre tutto e niente. Sospetti. Trame. Mandanti sempre invisibili.

Palermo è dentro una guerra permanente. Poi, l'atto finale. Nel 1992. Il 23 maggio, vent'anni fa. Alle 17, 56 minuti e 48 secondi gli strumenti dell'Istituto di Geofisica e di Vulcanologia di monte Erice registrano "un piccolo evento sismico con epicentro fra i comuni di Isola delle Femmine e Capaci". Non è un terremoto. È una carica di cinquecento chili di tritolo che fa saltare in aria Giovanni Falcone. È il magistrato più amato e più odiato del Paese. Da vivo è solo. Da morto è esaltato e osannato, il più delle volte dagli stessi nemici che ne hanno voluto le sconfitte. Sepolto in una piccola stanza dietro una porta blindata, in mezzo ai codici e alla sua collezione di papere di terracotta, è il primo italiano che mette veramente paura alla mafia. Prigioniero nella sua Palermo, è l'uomo che cambia Palermo. Porta i boss alla sbarra con il maxi processo. Vengono condannati in massa. Detestato, denigrato, guardato con sospetto dai suoi stessi colleghi in toga, temuto e adulato dalla politica, resiste fra i tormenti schivando attentati e tranelli governativi. Prima tremano per la forza delle sue idee, poi si impossessano della sua eredità. È celebrato come eroe nazionale solo quando è nella tomba. Mario Pirani lo descrive come l'Aureliano Buendìa di Cent'anni di solitudine, che ha combattuto trentadue battaglie e le ha perse tutte. Giuseppe D'Avanzo ricorda "l'umiliante sottrazione di cadavere" compiuta dopo la strage di Capaci. Chi l'ha violentemente intralciato in vita, lo invoca in morte. Ha cinquantatré anni e cinque giorni quando vede per l'ultima volta la sua Sicilia. Al suo funerale c'è una folla straripante nella basilica di San Domenico, il Pantheon di Palermo. Una pioggia violenta lava la città. Sono quasi le due del pomeriggio, la piazza adesso è deserta.

C'è solo un uomo, inzuppato, che avanza guardando nel vuoto. È Paolo Borsellino, l'amico e l'erede di Giovanni Falcone. Altri due uomini con lo stesso destino.

Nascono alla Kalsa a distanza di pochi mesi uno dall'altro, da ragazzini si rincorrono fra i vicoli, si ritrovano trentacinque anni dopo in un bunker di tribunale. Se ne vanno insieme, nella stessa estate. Cinquantasette giorni di dolore. Per il fratello perso e per uno Stato che tratta. Paolo Borsellino si sente abbandonato, mandato allo sbaraglio da gente di Roma che nell'ombra sta negoziando la resa. Sono in molti a tremare per i suoi segreti. Sa che è già arrivato l'esplosivo anche per lui. Si getta nel vuoto il procuratore di Palermo, assassinato da un'autobomba e dal cinismo di un'Italia canaglia che l'ha visto morire senza fare nulla. Tradito e venduto. Il 19 luglio del 1992 salta in aria. Come Falcone. L'agenda rossa che ha sempre con sé non si troverà mai. Dicono che è stata ancora la Cupola. È sempre e solo la Cupola che ha deciso la sorte di tutti loro. Così ci hanno raccontato. Così ci hanno portato sempre lontano dalla verità. Depistando. Inventandosi falsi pentiti.

Scaricando tutto addosso a Totò Riina e ai suoi corleonesi. Prima usati e poi sacrificati, sepolti per sempre nei bracci speciali. Trent'anni dopo, non sappiamo ancora chi ha voluto morti Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa. Vent'anni dopo, non sappiamo ancora chi ha voluto morti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Sappiamo solo che erano quattro italiani che facevano paura al potere.»

In ogni città vi è un gruppo di malavitosi comuni, organizzati o meno, che si dedica alle più svariate attività illegali. I componenti fanno capo a ben distinte famiglie-clan criminali, a cui si aggiungono gli affiliati. Fanno notizia e sono perseguiti solo coloro i quali commettono reati di mediatica utilità o contro la sicurezza pubblica: omicidi, rapine, spaccio di droga e per il sol fatto di associarsi.

In ogni città vi è un sistema di potere non meno criminale, organizzato o meno, fatto da stimati insospettabili, che si dedica illegalmente ai destini istituzionali, politici ed economici della comunità. Questa cupola è composta dalle famiglie più note, blasonate e rispettate, che da sempre ricoprono i posti chiave della società. In loco caste, lobby, mafie e massonerie decidono chi e come deve diventare magistrato, avvocato quotato, parlamentare di rango, ecc.. Spesso sono i figli dei notabili del posto a ricoprire gli incarichi dei padri. Per fare ciò serve una rete di connivenze, di servilismo e di omertà. Per ricoprire certi ruoli non serve la raccomandazione: basta il nome. I reati commessi da costoro sono spesso attinenti l’amministrazione della cosa pubblica o l’economia. Essi intaccano le libertà dei cittadini, per questo sono più gravi e più subdoli, ma sono taciuti ed impuniti, essendo gli stessi autori ad occuparsene.

Molte volte tra clan criminali e le cosiddette buone famiglie vi è commistione negli affari, specialmente quando si tratta di spartirsi e gestire i miliardi di euro in opere pubbliche che piovano dai finanziamenti dello Stato e della Comunità europea.

A livello centrale vi è l'oligarchia degli alti burocrati. Secondo Galli della Loggia: Una invisibile supercasta.

Non è vero che il contrario della democrazia sia necessariamente la dittatura. C’è almeno un altro regime: l’oligarchia. E tra i due regimi possono esserci poi varie forme intermedie. Una di queste è quella esistente da qualche tempo in Italia. Dove ci sono da un lato un Parlamento e un governo democratici, i quali formalmente legiferano e dirigono, ma dall’altro un ceto di oligarchi i quali, dietro le quinte delle istituzioni democratiche e sottratti di fatto a qualunque controllo reale, compiono scelte decisive, governano più o meno a loro piacere settori cruciali, gestiscono quote enormi di risorse e di potere: essendo tentati spesso e volentieri di abusarne a fini personali. I frequenti casi scoperti negli ultimi anni e nelle ultime settimane hanno aperto squarci inquietanti su tale realtà.

Non si tratta solo dell’alta burocrazia dei ministeri, cioè dei direttori generali. A questi si è andata aggiungendo negli anni una pletora formata da consiglieri di Stato, alti funzionari della presidenza del Consiglio, giudici delle varie magistrature (comprese quelle contabili), dirigenti e membri delle sempre più numerose Authority, e altri consimili, i quali, insieme ai suddetti direttori generali e annidati perlopiù nei gabinetti dei ministri, costituiscono ormai una sorta di vero e proprio governo ombra. Sempre pronti peraltro, come dimostra proprio il caso del governo attuale, a cercare di fare il salto in quello vero.

È un’oligarchia che non è passata attraverso nessuna selezione specifica né alcuna speciale scuola di formazione (giacché noi non abbiamo un’istituzione analoga all’Ena francese). Designati dalla politica con un grado altissimo di arbitrarietà, devono in misura decisiva il proprio incarico a qualche forma di contiguità con il loro designatore, alla disponibilità dimostrata verso le sue esigenze, e infine, o soprattutto, alla condiscendenza, all’intrinsichezza — chiamatela come volete — verso gli ambienti e/o gli interessi implicati nel settore che sono chiamati a gestire. Ma una volta in carriera, l’oligarchia — come si è visto dalle biografie rese note dai giornali — si svincola dalla diretta protezione politica, si autonomizza e tende a costruire rapidamente un potere personale. Grazie al quale ottiene prima di tutto la propria sostanziale inamovibilità.

Sempre gli stessi nomi passano vorticosamente da un posto all’altro, da un gabinetto a un ente, da un tribunale a un ministero, da un incarico extragiudiziale a quello successivo, costruendo così reti di relazioni che possono diventare autentiche reti di complicità, sommando spessissimo incarichi che incarnano casi clamorosi di conflitto d’interessi. E che attraverso doppi e tripli stipendi e prebende varie servono a realizzare redditi più che cospicui, a fruire di benefit e di occasioni, ad avere case, privilegi, vacanze, stili di vita da piccoli nababbi.

Se i politici sono la casta, insomma, l’oligarchia burocratico- funzionariale italiana è molto spesso la super casta. La quale prospera obbedendo scrupolosamente alla prima (tranne il caso eccezionale della Banca d’Italia non si ricorda un alto funzionario che si sia mai opposto ai voleri di un ministro), ma facendo soprattutto gli affari propri.

Chi ha cercato di indagare sul sistema parallelo criminale in Italia, infiltrato in tutti i gangli del potere Legislativo, Giudiziario ed Amministrativo, ha fatto una brutta fine: Falcone e Borsellino uccisi; Cordova e De Magistris allontanati. Io, Antonio Giangrande, cerco di riportare i fatti sottaciuti attinenti una realtà fatta da tante mafie. Non ho paura, mi hanno già ucciso, condannato, affamato. Cerco di parlarne ai posteri, perché i contemporanei mi hanno isolato.

LOTTA ALLA MAFIA: IPOCRISIA E DISINFORMAZIONE, OSSIA LOTTA DI PARTE O DI FACCIATA.

Secondo Filippo Facci su “Libero quotidiano” i soliti quattro scemi attendono la venuta di una nuova normativa anti-corruzione come se il problema stesse tutto lì, in una legge: e non in chi dovrebbe applicarla. Eppure uno come Piercamillo Davigo, che in genere viene citato per bastonare la classe politica, ha già evidenziato dei dati sorprendenti nel suo libro «La corruzione in Italia» scritto a quattro mani con Grazia Mannozzi. L’ex pm di Mani pulite ha spiegato che negli ultimi decenni la maggior parte delle condanne per corruzione sono intervenute a Milano, Torino, Napoli e - molto distanziata - Roma, che pure ha una giurisdizione vastissima; mentre in ben tre corti (Cagliari, Caltanissetta e Reggio Calabria) il dato è inferiore alle dieci condanne. «Stando alla rappresentazione giudiziaria», ha scritto, «la corruzione in alcune regioni d'Italia non esiste e non è mai esistita, e ciò mentre si susseguono, al riguardo, denunce circostanziate e precise».

Questo evidenzia due cose, forse. Una è che indagare dove c'è la criminalità organizzata è senz'altro più difficile. Ma la seconda è che la magistratura, oltreché della soluzione, fa parte del problema, fa parte del Paese, talvolta fa parte addirittura della corruzione. La quale abbonda non tanto dove ci sono le inchieste che la scoprono, come accade in Lombardia e dove pure indagano con le vecchie e care leggi; abbonda dove la pace regna sovrana. Molte competenze sono variate con l’istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura nel 1958, che ha sottratto al ministro di Grazia e Giustizia, tutti i poteri in relazione al reclutamento, nomina, trasferimento, promozioni, sanzioni disciplinari e dimissioni dei magistrati, tanto ordinari che onorari. Per combattere non contro i mulini a vento come don Chisciotte, ma contro la ‘ndrangheta, i colletti bianchi, la borghesia mafiosa, la zona grigia, l’imprenditoria collusa e corrotta, i servizi segreti deviati, la massoneria. Agostino Cordova, procuratore capo della Repubblica di Palmi ci provò: firmò, nel 1992, la prima grande inchiesta italiana sulla massoneria deviata.

Partendo dagli affari del clan Pesce, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, Cordova finì nelle trame degli affari miliardari di Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte. Fu come aprire un vaso di Pandora, da cui continuavano a uscire nomi e connessioni. Il 27 maggio del 1993 Cordova inviò un rapporto al Csm sull’ingerenza dei massoni nel potere pubblico: consegnò i nomi di 40 giudici e due liste di parlamentari. Fioccarono come la neve a Madonna di Campiglio le interrogazioni parlamentari e le interpellanze, luogo comune, e venne… “promosso” alla Procura di Napoli, quarta città d’Italia; scusate se è poco. Promoveatur ut amoveatur (sia promosso affinchè sia rimosso). E dovette mollare barca, vela ed ormeggi. Ma il Gran Maestro venerabile, Giuliano Di Bernardo, lasciò il Grand’Oriente denunciandone le deviazioni. Il gip Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, archiviò tutta la sua indagine per l’assenza di “elementi significativi e concludenti in merito ai reati ipotizzati”. Una pietra tombale su nomi e vicende. Strumentale allontanamento dalla Procura di Palmi, ben documentato in “Oltre la cupola. Massoneria, mafia, politica” di Francesco Forgione e Paolo Mondani, con la prefazione di Stefano Rodotà e una postfazione di Agostino Cordova, edito da Rizzoli (1994). Tutto bene in Campania, finchè non mise il naso nella tangentopoli napoletana… Finchè non si mise contro il “re di Napoli” Antonio Bassolino, sindaco di sinistra, protetto da giornali di sinistra, politici di sinistra, giudici di sinistra“; finchè non fece quelle famigerate dichiarazioni all’Antimafia sui colleghi della Procura e dell’ufficio Gip …”Andai avanti, non me ne curai molto. Nel 2000, il Csm mi diede atto della “mia notevolissima capacità professionale”. Che avevo condotto “la Procura di Napoli a un’efficienza organizzativa mai raggiunta in passato” e che ero “un magistrato inquirente insensibile a pressioni condizionamenti o attacchi di qualsiasi tipo e genere”. Eppure un anno dopo, partì il trasferimento e fui espulso”. Defenestrato. Silurato. Epurato, in nome della “incompatibilità ambientale”, da quello stesso CSM, che prima lo aveva osannato con un elogio cerchiobottista. Quello stesso CSM, che lo…”promuoverà” Consigliere di Cassazione e lo trasferirà a Roma.

Un altro giudice (come il padre, il nonno ed il bisnonno) Luigi de Magistris, fu accolto in Calabria a Catanzaro, riverito, omaggiato, ringraziato ed idolatrato. Bravo, bravissimo, illuminato, terzo, obiettivo, lungimirante, deciso, fermo e risoluto, campione della legalità ed altra aggettivazione altisonante. Ma quando decise di mettere il naso nelle logge massoniche, nelle cupole mafiose, nei comitati d’affari, (Poseidone, Why Not, Toghe Lucane, SbP), un terremoto giudiziario simile ad una tangentopoli, invischiati: premiers, generali, ministri, segretari nazionali dei partiti, Governatori, avvocati, magistrati, imprenditori, funzionari ecc. fece la fine di Cordova. Anzi peggio, perché fu pure inquisito e rinviato a giudizio. Difeso a spada tratta dal Movimento “E adesso ammazzateci tutti”, galvanizzato da Aldo Pecora. Fecero epoca e cronaca gli scontri fra le Procure di Catanzaro e di Salerno con uno tsunami bis. Trasferito anche lui a Napoli, per incompatibilità ambientale, su richiesta del ministro della Giustizia, in illo tempore, Clemente Mastella; che combinazione! Come pure il procuratore capo della Repubblica di Catanzaro, Mariano Lombardi, trasferito a Messina e rinviato a giudizio, ma non prese mai servizio. Preferì di mettersi in pensione. E poco dopo morì, ma per un male, ribelle ad ogni cura. Aveva 76 anni. Era stato alla guida della procura calabrese per circa 40 anni. Luigi De Magistris, fu eletto dapprima sindaco della città partenopea e poi europarlamentare nientemeno, (secondo candidato più votato d’Italia, dopo Silvio Berlusconi, con 415.646 preferenze); magari fra poco, anche deputato o senatore. Luigi De Magistris, intanto, pure rinviato a giudizio, si è dimesso dalla magistratura. Valle di lacrime anche per un altro giudice in gonnella, pure lui, anzi lei, trasferita, alla procura di Cremona, come giudice ordinario, per incompatibilità ambientale.

Donna di grande coraggio, che assurse alla cronaca con la famosa inchiesta sulle scalate bancarie dell’estate 2005. Unipol, che faceva capo a Consorte e Sacchetti; personaggi vicini all’ex Pci-Pds-Ds, che tentò la scalata a Bnl. Assieme a Fiorani, presidente della Bpi; appoggiato dell’allora governatore di Bankitalia Fazio.Il segretario dei Ds,del tempo, Piero Fassino si lasciò sfuggire la battuta galeotta, “Finalmente abbiamo una banca”, che scatenò l’inchiesta. Ma poi, dopo le palate di fango e tre anni d’inferno, il CSM, si è dovuto rimangiare tutto e restituirle l’onore e le funzioni di Gip a Milano. Giusta decisione e sentenza del TAR e del Consiglio di Stato. Clementina Forleo, che ospite della trasmissione tv ‘Annozero’ affermava: «Quando il re è nudo e si ha il coraggio di denudarlo, dove per re intendo i poteri forti, il potere politico, il potere economico e lo stesso potere giudiziario, il giudice è solo. “Chi tocca i fili muore”» -  alludendo al potere politico: Latorre, D’Alema (che si fece scudo dell’immunità di europarlamentare), Fassino?. Un brutto film… “La Prima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, delibera all’unanimità l’apertura della procedura per incompatibilità ai sensi dell’art. 2 della Legge sulle Guarentigie nei confronti della dott.ssa Maria Clementina Forleo, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano. In relazione a situazioni di grave disagio determinatesi nell’ambiente nel quale ella svolge le proprie funzioni giudiziarie e a dichiarazioni pubbliche rese dal magistrato relativamente ad interferenze ed intimidazioni istituzionali subìte, che non hanno trovato riscontro nell’istruttoria svolta”. Il Vicepresidente della Commissione, prof. Letizia Vacca, disse alla stampa … “Le sue dichiarazioni hanno creato preoccupazione negli ambienti giudiziari e sono state lesive dell’immagine dei magistrati di Milano, che si sono sentiti offesi. La situazione appare completamente diversa da come è stata rappresentata da Forleo: non risulta nessun complotto e nessuna intimidazione”. Tutti segnali chiari, al di là di questa o quella storia, che dicono, che oltre un certo livello non si possa indagare. Chi lo fece, giudici coraggiosi, come Falcone e Borsellino, pagò con la vita. Ma non si sfugge alla Giustizia Divina. Là, non ci sono coperture, nepotismi, raccomandazioni, minacce e pressioni o Logge di Stato che tengano. La società civile? C’è, ma non si vede. Collusa o codarda, subisce e tace.

Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica su “Il Giornale”  affermano che  il verbale al Copasir dell’ex braccio destro di De Magistris tira in ballo toghe e giornalisti per fughe di notizie "letali". Le accuse di Genchi colpiscono anche Annozero e i fratelli Ruotolo. L’audizione segretata al Copasir del super esperto informatico Gioacchino Genchi, a processo per abuso d’ufficio insieme all’ex pm Luigi De Magistris (la storia è quella dei tabulati telefonici di otto parlamentari controllati senza autorizzazione del parlamento) è una bomba. Rivela una vicenda di presunte, diaboliche, commistioni fra magistrati antimafia, protagonisti dello scandalo Telecom e giornalisti autori di scoop che Genchi definisce devastanti, letali, per le indagini sulla ’ndrangheta (strage di Duisburg, omicidio Fortugno, eccetera). L’ex braccio destro del pm De Magistris tira la croce addosso al numero due dell’Antimafia nazionale, Alberto Cisterna, ai pm calabresi Mollace e Macrì, scomoda e coinvolge giornalisti esperti come i fratelli Ruotolo, Guido (La Stampa) e Sandro (Annozero, poi Servizio Pubblico), e Paolo Pollichieni, ex direttore di Calabria Ora. Li mette tutti insieme nel frullatore e poi aziona l’interruttore. La miscela è esplosiva, con accuse da brivido di cui Genchi ripete di prendersi la piena responsabilità. A Genchi viene chiesto conto del perché vennero controllati anche i tabulati del procuratore Piero Grasso. L’esperto informatico parte da lontano, dall’inchiesta Poseidone, dalla teste Merante e dagli articoli che Pollichieni manda in edicola, col risultato che i traffici telefonici del cronista finiscono nel fascicolo. «Dal tabulato di Pollichieni viene fuori una serie di rapporti continui, quasi osmotici, con Cisterna. Con il dottor Mollace, con utenze della Dna, e tra Macrì e Mollace». Normale. «Ma vi è di più: lo scambio di cellulari, almeno quattro o cinque della procura nazionale antimafia con Pollichieni. Per scambio intendo che si sono scambiati le sim, i telefoni o entrambe le cose. È un rapporto telefonico che vi invito ad analizzare perché altamente preoccupante». Alcuni pm della Dda, prosegue Genchi, erano preoccupati dalle fughe di notizie sul pentimento di Novella nel caso Fortugno. Dai tabulati di Pollichieni, aggiunge Genchi, «emerse sostanzialmente questo rapporto continuo (coi magistrati) nelle fasi dinamiche dell’acquisizione della notizia del pentimento». E così anche per le fughe di notizie nelle indagini per la strage di Duisburg «che ha determinato l’interruzione di tutte le intercettazioni su persone di San Luca che si dovevano arrestare, che sono state rese latitanti e che probabilmente sono state uccise per intempestività di un’azione giudiziaria che è stata violentemente e bruscamente interrotta da quella fuga di notizie, di cui il protagonista ancora una volta è Pollichieni». La tecnica delle fughe di notizie, insiste Genchi, avveniva con la pubblicazione di anticipazioni su altri giornali «di chi le aveva recepite perché alcune giornalisti non hanno accettato il regalo, tipo l’immaginetta della santa che pubblica il giorno prima Ruotolo su La Stampa in un asse perfetto che ha collegato i due giornalisti di nome Ruotolo, e vi dirò moltissime cose sull’argomento. (...). In particolare a Ruotolo, che ritengo sia uno dei soggetti principali di questa vicenda, a tutto ciò che ha ruotato intorno all’asse Ruotolo come persona fisica della Stampa e il fratello, e questo anche il perfetto raccordo sincronico dell’articolo “Il Palazzo nelle mani del giudice” con la puntata di “Annozero” che era stata programmata. A questa trasmissione - continua il super consulente - io, il dottor Ingroia e altri amici abbiamo implorato De Magistris di non andare, per non prestarsi a quella che era una strumentalizzazione, anche dei giornalisti, per loro finalità, probabilmente anche nobili (quelle di Ruotolo sicuramente non lo erano, perché intendevano “realizzare”). Vi siete mai chiesti come mai il dottor Genchi non sia andato ad Annozero, nonostante tutte le volte che è stato invitato (solo una settimana dopo, il 5 febbraio 2009, Genchi sarà invece presente nella trasmissione di Michele Santoro)» mentre «non ho paura di andare a Matrix perché conosco l’onestà di Mentana, che so da che parte sta, non ho paura nemmeno dei mafiosi, perché so da che parte stanno. Ho paura di quelli che non sanno da che parte stare, mi spiego?». Genchi non si ferma. «Rutolo (Guido) c’entra perché è in rapporto organico con Pollichieni come fornitore di informazioni». Poi si lascia andare a incomprensibili considerazioni antropologiche: «Un medico mi ha spiegato che i gemelli, pur avendo due corpi e una struttura cerebrale autonoma, nel momento delle sinapsi mobili, ossia quando si realizza la massima evoluzione, hanno bisogno di essere insieme come nel grembo materno». E quando ti aspetti l’affondo finale per alcuni imprecisati «soggiorni in Calabria», Genchi torna sui suoi passi: «Secondo me i Ruotolo sono due persone per bene». Del giudice Mollace, il consulente dice che «ha utilizzato decine di cellulari (60-70, non conosco il numero preciso) ha poi denunciato il furto di uno di questi e se ne è fatti assegnare non so quanti dal Comune di Reggio Calabria». Guido Ruotolo, rintracciato dal Giornale, si dice incredulo. «È un delirio, sono cose insensate. Non voglio commentare. Domani mi tocca leggervi, poi andrò dall’avvocato e cercherò di capire come stanno effettivamente le cose». Pollichieni è più loquace: «È vero, facendo il giornalista ho rapporti con i magistrati e nessun rapporto con la ’ndrangheta. Le mie notizie non hanno rovinato alcuna indagine posto che per l’omicidio Fortugno/pentimento Novella (e lo scoop peraltro fu della Gazzetta del Sud, non mio) sono stati comminati 4 ergastoli, per Duisburg 6. Non sono mai stato imputato di nulla, mai ho ricevuto un avviso di garanzia, mentre lui si ritrova sotto processo. L’ho già citato in giudizio, ogni commento è assolutamente superfluo».

Ed ancora su “il Giornale” i rapporti ravvicinati di un certo tipo tra giornalisti e magistrati. Rapporti pericolosi che s’intersecano con fughe di notizie pilotate, scoop «criminali» e scambi di atti giudiziari, coperti dal segreto e non. Dal verbale bomba del superconsulente Gioacchino Genchi, segretato al Copasir, spuntano i nomi di Ilda Boccassini, del procuratore antimafia Piero Grasso, del suo vice Cisterna, dei pm calabresi Mollace e Macri, dell’ex capo degli ispettori Miller, di tante altre toghe controllate via tabulati. Rivelazioni devastanti quelle dell’esperto informatico Gioacchino Genchi che il 17 aprile 2012 sarà alla sbarra a Roma insieme all’ex pm Luigi De Magistris per rispondere dell’accusa di aver prelevato e utilizzato senza apposita autorizzazione i tabulati telefonici di Prodi, Mastella, Pittelli, Minniti, Pisanu, Gentile, Gozi e pure di Rutelli che quel 30 maggio 2009 guida l’audizione di Genchi in quanto presidente del comitato di controllo sui servizi segreti. Relazioni pericolose tra PM e giornalisti. L’anticipazione del sito Dagospia delle indiscrezioni raccolte dal settimanale Tempi invitano a spulciare nelle 150 pagine di audizione custodite in cassaforte. Nell’affrontare l’imbarazzante capitolo del perché si arrivò a controllare il traffico telefonico dell’ex capo dei Servizi segreti militari, Nicolò Pollari, Genchi si contrappone spesso ai presenti. Giura di non aver mai saputo che quell’utenza corrispondesse al numero uno dell’intelligence nonostante un preciso indizio uscisse, per tempo, dall’agenda elettronica del generale della guardia di finanza, Walter Cretella, perquisito da De Magistris. Gli domandano: «Quando lei ha visionato, come esperto della procura, la rubrica del generale Cretella e ha letto “Gen. Pollari” non le è venuto il dubbio che si trattasse del generale Pollari del Sismi?». Risposta lapidaria: «No». Seguita da altra singolare puntualizzazione: «Ho saputo che il tabulato era il suo solo quando l’hanno scritto i giornali». E nel mentre la discussione prosegue, da un lato, sul perché ci si concentrò tanto sul numero uno di Forte Braschi che nulla c’entrava con Why Not («non ho avuto niente contro Pollari e anzi, sulla base di altre risultanze processuali, ho maturato un sentimento di profonda ammirazione nei suoi confronti anche per le vicende di cui è oggetto») e dall’altro si dibatte di una sua vecchia intervista a Repubblica dove affermava che tutto sommato i tabulati di Pollari erano repliche dei tabulati già acquisiti dalla procura di Milano (il pm Spataro all’epoca lo smentì), Genchi tira in ballo cronisti amici che gli avrebbero passato carte sottobanco: «Mi sono procurato tramite alcuni amici giornalisti di avere i provvedimenti di Milano dai quali risultava il numero di Pollari nell’indagine Abu Omar. Volevo difendermi dagli attacchi...». Lì per lì Genchi non fa i nomi. Ma quando passa a parlare di oscure trame fra indagini di ’ndrangheta, fughe di notizie pilotate e scandalo Telecom, cita Lionello Mancini del Sole 24 ore, amico di Gianni Barbacetto del Fatto. Nell’anticipazione di Dagospia su Tempi si azzarda: «Chi fossero questi “amici giornalisti” non c’è scritto nella relazione del Copasir. Lo si può sospettare solo quando Genchi, nel vortice di un’audizione deragliata al caso Telecom-Tavaroli, riferirà ai commissari di una - a suo dire - misteriosa triangolazione telefonica riguardante un aspetto di quella storia». Nel verbale, riprendendo retroscena collegati a Mancini, il consulente afferma: «Posso anche dirvi chi è stato. Gianni Barbacetto (perché io ho molti amici giornalisti) che ho conosciuto a Palermo molti anni fa, il quale mi disse di essere amico di Ilda Boccassini, con cui sarebbero andati a casa sua». Barbacetto, contattato dal Giornale, cade dalle nuvole: «Così come si legge dal verbale non è chiaro quel che vuole dire Genchi. Io non ho mai preso documenti dalla Boccassini da girare a Genchi al quale, al massimo, posso aver detto di aver conosciuto Lionello Mancini (che a un certo punto si mise a scrivere contro Genchi «e Gioacchino era molto preoccupato») a una festa a casa della Boccassini, dove andai con mia moglie, ma anni e anni prima rispetto ai fatti di cui si parla e in un periodo in cui Ilda era ancora socievole coi giornalisti. Ere geologiche precedenti a questa». E Genchi? «L’ho conosciuto a Palermo, ma più recentemente per scrivere delle note inchieste che seguiva con De Magistris. Ma di Pollari non avevo né carte né numeri. Al massimo posso avergli girato qualche atto giudiziario vecchio, pubblico, in possesso di qualsiasi cronista».

A tal proposito Stefano Zurlo interviene sempre su “Il Giornale”. Qualcuno li considera pubblici ministeri di complemento. Giornalisti che non devono bussare in procura, perché vantano amicizie o liason con i magistrati titolari di delicatissimi fascicoli. Ma la verità è più sfumata: procuratori e opinionisti spesso hanno rapporti alla pari, s’influenzano a vicenda e alimentano un unico circuito mediatico-giudiziario, com’è normale fra persone che si stimano e si frequentano. Caso classico, da manuale, è il legame fra due big del giornalismo e della magistratura: Marco Travaglio e Antonio Ingroia. Travaglio ha firmato la prefazione del saggio di Ingroia «C’era una volta l’intercettazione » e l’ha incensato spiegando che «il libro è uno strumento per capirci qualcosa nella giungla delle leggi vergogna del regime berlusconiano», Ingroia si è presentato al forum di lancio del quotidiano travagliesco il Fatto, oggi imperdibile per la sinistra girotondina e giustizialista. Una cortesia, in sè un episodio quasi banale, che però ha acceso le micce della diffidenza dalle parti del centrodestra, abituato a duellare con Ingroia da sempre, come in un celebre racconto di Conrad. Nessuno, invece, ha notato che fra le leggi di Berlusconi, non importa se sacrosante o della vergogna, non c’è proprio quella sulle intercettazioni, fermata dal fuoco di sbarramento dell’apparato di cui Ingroia e Travaglio sono esponenti di punta. Se n’è andato il Cavaliere, il libro, pur se con il titolo declinato all’imperfetto, è ancora in circolazione. Insomma, la lobby intellettuale esercita un fascino e un potere di seduzione straordinari e che non possono essere misurati a colpi di verbali pubblicati da questa o quella gazzetta. E la premiata coppia Travaglio-Ingroia non è stata ammaccata nemmeno dall’infortunio capitato a uno stretto collaboratore del pm, il maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro che andò anche in vacanza insieme ai due. Si è scoperto che l’insospettabile sottufficiale, esempio classico di un certo mimetismo tutto italiano, era la talpa alla Direzione distrettuale antimafia di personaggi poco raccomandabili. Così mafia e antimafia hanno convissuto finché Ciuro è stato condannato a 4 anni e 8 mesi. La solita claque dei benpensanti, a parte i puntuti articoli di Repubblica, ha metabolizzato con disinvoltura il guaio. Ma la stessa benevolenza non sempre è stata accordata a toghe e firme della carta stampata, sfiorate da inchieste su P varie o da voci e sussurri malevoli. In Italia non c’è un clima di tolleranza bipartisan e anzi i giornalisti cosiddetti progressisti si perdonano tutto quel che viene condannato se il peccato arriva dall’altra parte, magari da un cronista d’assalto della fantomatica struttura Delta. Quella che, secondo i maestri della penna rossa, fabbricherebbe complotti su scala industriale per screditare i nemici del berlusconismo. Altra coppia chic, oggetto di infinite illazioni, è quella formata dal pm Henry John Woodcock, quello di innumerevoli inchieste ad alta densità di vip, e da Federica Sciarelli, la bella conduttrice del popolarissimo programma di Rai3 Chi l’ha visto?. C’è una foto, famosa, che immortala i due mentre fanno jogging per le vie di Roma. E un’altra che li riprende in barca, nell’estate del 2009, insieme a Sandro Ruotolo, il baffuto braccio destro di Michele Santoro e fratello del cronista giudiziario della Stampa, Guido. «La mamma dei Ruotolo e la mia erano grandi amiche», ha raccontato Woodcock per spiegare questo intreccio di rapporti. Nel 2009 un esposto anonimo accreditava l’ipotesi che la Sciarelli fosse l’autrice di scoop cuciti nell’ufficio di Wooodcock. Ma l’anonimo ha fatto cilecca, anzi si è rivelato un falso. Nessun cortocircuito e invece lui firma la prefazione al libro di lei "Il mostro innocente". Altro che fughe di notizie. Semmai un salotto che diventa un’icona per la solita opinione pubblica.

Anche Paolo Bracalini sull'argomento "Fughe di notizie impunite" interviene su “Il Giornale”. Ci sono inchieste in cui «un cittadino viene, in modo repentino, processato e condannato dai media, etichettato come un “mostro” e gettato in pasto all’opinione pubblica. Tutto ciò ancor prima della conclusione della istruttoria condotta dagli organi inquirenti e del processo, vero e proprio», che magari si conclude «con l'assoluzione» e quindi con la beffa più tremenda. Una professione di garantismo a firma di Henry John Woodcock, il pm dei vip, nella prefazione al libro (Il mostro innocente) di una giornalista amica con cui è stato più volte paparazzato, Federica Sciarelli, già Telekabul e conduttrice di Chi l'ha visto? su Rai3. «Solo un'amicizia» quella tra Woody e la bella Federica (prediletta di Cossiga e ammiratissima da Tinto Brass), spiegò Woody al cronista di Di Più, settimanale di gossip, curioso delle faccende private di quel magistrato dal cognome esotico, amante del sigaro, del jogging e delle Harley-Davidson. Ecco, forse la Sciarelli è uno dei nomi della PW, la rete (solo amicizia e qualche chiacchiera) di Woodcock, pubblico ministero dalla grande fantasia investigativa, con già tre famosi brevetti all’attivo: il Savoiagate, Vallettopoli e la P4. Ai giornali patinati raccontò che furono altri giornalisti amici ad introdurlo alla Sciarelli, i fratelli Ruotolo. Il primo, Sandro, è lo storico braccio destro di Santoro ad Annozero (che si è occupato spesso delle inchieste di Potenza), l’altro, Guido, è cronista di giudiziaria alla Stampa (che per il quotidiano Fiat segue proprio l’inchiesta sulla P4). Anche loro esponenti della Pw, la rete (per carità, solo di amicizie e chiacchiere) di HJW? «Io e Federica Sciarelli ci siamo conosciuti grazie ad amici comuni, tra i quali i fratelli Sandro e Guido Ruotolo. La mamma dei Ruotolo e mia mamma erano grandi amiche», raccontò Woodcock ai cronisti rosa, per spiegare l’origine della sua amicizia con la conduttrice. Un colpo di fulmine, professionale ed intellettuale, che sbocciò all’epoca dell’inchiesta su Vittorio Emanuele di Savoia, schiaffato in carcere per sette giorni come presunto capo di una cupola malavitosa, poi assolto «perché il fatto non sussiste». La Sciarelli si presentò in redazione, a Chi l’ha visto, coi faldoni dell’inchiesta ed un entusiasmo a fior di pelle: «Aho, ma quant’è fico Woodcock, non paga il biglietto della metropolitana, lui scavarca!» fece davanti ai colleghi, dopo un incontro a Roma col pm. Da lì Chi l’ha visto? si occupò più volte dell’inchiesta su Vittorio Emanuele, che pure non era scomparso, ma ben sorvegliato agli arresti domiciliari. Il 19 giugno 2006 le agenzie rilanciano l’intervista fatta dalla Sciarelli a Chi l’ha visto al gip di Potenza Alberto Iannuzzi, che assicura: «L’inchiesta su Savoia non è una bolla di sapone». Poi la Sciarelli ci torna la puntata successiva, il 26 giugno, con un’intervista al presidente dell’associazione antiusura sulle indagini relative al Casinò di Campione e sul sindaco Salmoiraghi, accusato insieme al principe. Un’amicizia ispiratrice, forse anche troppo secondo Felicia Genovese, pm di Potenza e arcinemica di Woodcook, che produsse una relazione sulle possibili connessioni tra le inchieste della Sciarelli su Rai3, le indagini di Woodcock e quelle di un pm amico, Luigi De Magistris, un altro elemento della PW. La pm racconta tra l’altro un episodio, «nel corridoio davanti alla stanza del dott. Woodcock, quest'ultimo in compagnia del dott. De Magistris. Di fronte al mio sguardo sorpreso, il collega Woodcock si è premurato di rivolgere agli addetti alla Sua Segreteria la richiesta di alcuni atti per il dott. De Magistris, il quale è rimasto in silenzio, limitandosi a rispondere al saluto». E poi che «nelle trasmissioni condotte dalla Sciarelli nei mesi scorsi (...) si ritrova il riferimento al dott. De Magistris come magistrato catanzarese che si occupa di note vicende di cronaca verificatesi in Basilicata...». Una connection solo a parole, chiarì Woodcock: «Mai nel corso della mia frequentazione con la giornalista Sciarelli, ho rivelato notizie sulle mie indagini». Solo di colleganza anche i rapporti con De Magistris. Chi ha seguito quelle inchieste racconta però che «De Magistris si arrabbiava quando lo paragonavano a Woodcock», e che in privato abbia manifestato più d’una perplessità sui talenti investigativi del collega. Un trait d’union tra i due pm è Gioacchino Genchi (che è anche vicino all’Idv di Di Pietro e De Magistris, ospite del congresso nel 2010 a Roma, e ospiti spesso di Santoro e Ruotolo, amici di...), consulente informatico di molte Procure, che inseriamo nella PW per un’intervista ad Antimafiaduemila dove racconta di «una riunione operativa alla quale hanno partecipato Woodcock, un ufficiale di polizia giudiziaria di Woodcock, il dottor De Magistris» e infine un consulente finanziario. Una riunione «che atteneva ad altri ambiti di collegamento investigativo con le indagini di Woodcock sulla massoneria in particolare». Collaboratore di Woodcock in diverse inchieste è il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, alias «Capitano Ultimo», capo del Noe (quello che ha perquisito il Giornale per la vicenda Marcegaglia, altra inchiesta Woodcock...). E chi l’ha anche visto De Caprio? La Sciarelli, che l’ha intervistato nel suo programma il 6 novembre 2009. Nella comitiva di amici che si telefonano, si chiedono e scambiano informazioni (solo innocue chiacchiere) compare anche Riaccardo Iacona (collega di Santoro, Ruotolo, amici di...), che sembra particolarmente ansioso di avere notizie in anteprima, anche riservate. E De Magistris lo riferisce in una audizione per una presunta fuga di notizie: «Mi chiede, Iacona, (...) è uscita la notizia e me lo potevi anche dire questo fatto. Ma quella è una notizia riservata, io non posso dire nulla». Tutti membri della PW, la P-Woodocock. Che è tutta un’invenzione, naturalmente. Non una cricca vera come la P4.

Sono da poco passate le 19.15 del 24 settembre 2008 all’ITC Battisti di Fano: nonostante il turno infrasettimanale del campionato di calcio, nonostante sia ora di cena e nonostante il traffico impazzito di questa sana città di provincia, l’aula magna dell’edificio scolastico è gremita in ogni ordine di posti. Il giornalista del Corriere della Sera, Carlo Vulpio, ha raccolto con entusiasmo l’invito dell’Associazione Res Publica Amici di Beppe Grillo e della Libreria Omnia a presentare il suo primo libro, “Roba Nostra”. E’ arrivato in mattinata per curare personalmente gli ultimi dettagli e aspetta insieme a noi l’arrivo dell’altro ospite illustre. Dopo pochi minuti, attorniata da tre poliziotti di scorta, si presenta Clementina Forleo, sul viso un sorriso appena accennato, affaticata da un lungo viaggio. E’ partita da Brindisi, nel primo pomeriggio, con un’autovettura non blindata, le auto di scorta erano già tutte prenotate, nonostante il suo livello di protezione sia così alto da renderne necessario l’uso per gli spostamenti sul territorio italiano. Si perché nonostante lei abbia rifiutato la scorta, lo Stato, quello stesso Stato che attraverso il CSM ha deciso la sua incompatibilità ambientale, togliendole di fatto le note inchieste sulla scalate bancarie per cui sono indagati parlamentari del PD come D’Alema, Fassino e Latorre, quello Stato le ha imposto una protezione, con le stesse modalità tipiche di una cosca mafiosa. Clementina Forleo da tempo, infatti, vive giorno e notte protetta da tre guardie di scorta, da quando cioè, svolgendo il proprio lavoro di brillante magistrato quale è, si è ritrovata in mano le intercettazioni telefoniche tra il senatore Latorre (PD) e l’ex numero uno di Unipol, Giovanni Consorte dalle quali risultò chiaro ai più, tranne che al CSM, e a tutta una pletora di politici, che i due erano non soltanto amici, ma soggetti operanti illecitamente nella scalata di Unipol alla BNL.

Ettore Marini, presidente di Res Publica introduce la serata, e chiede a Vulpio perché quel libro, perché fosse stato necessario un libro e non fosse bastata un’indagine giornalistica. «Certe faccende - replica Vulpio - non si possono scrivere sui giornali, i giornali li leggono molti italiani, e queste sono cose da tenere segrete». «Nei libri – prosegue – si può dire, ad esempio, che il presidente del Senato frequentava Nino Mandalà, mafioso e capomandamento di Villabate ("Tutti gli uomini di Cosa Nostra", di Lirio Abbate e Peter Gomez), ma nei quotidiani tutto ciò è impensabile». Vulpio è un giornalista fortunato perché a suo dire può pubblicare il 60-70% di quello che scrive, sempre dopo aver contrattato con il direttore Mieli ogni singola parola, di ogni singolo articolo.

La Forleo, pur non facendo mai menzione della sua vicenda personale, concorda con Vulpio quando, analizzando la situazione dell’informazione in Italia, la definisce in stato comatoso e completamente asservita ai poteri forti: politici, finanziari e giudiziari. Il magistrato, raccogliendo l’invito dell’ex Presidente Ciampi, seppur rivolto agli organi di informazione piuttosto che ai magistrati, ha sempre tenuto “la schiena dritta”, evitando accuratamente di iscriversi alle numerose correnti interne all’ANM (Associazione Nazionale Magistrati). Correnti che, come un sistema di vasi comunicanti, determinano gli equilibri del potere all’interno sia della magistratura che della politica. Una magistratura completamente da rifondare, secondo Vulpio, che è diventata organica alla politica e operante attivamente, con molti dei suoi più famosi esponenti, anche nella gestione del malaffare.

Roba Nostra”, infatti, è un “j’accuse” nei confronti del malaffare che si è fatto sistema. Non più la volgare e semplice mazzetta, data dall’imprenditore al politico, ai partiti. La nuova frontiera del malaffare ha un’etichetta di garanzia, CE, come quella stampata su tutti i prodotti che oggi circolano nella Comunità Europea. CE stavolta non è però sinonimo di sicurezza e di tutela di un prodotto manufatto e distribuito in Europa, ma il marchio infamante di una truffa ai danni dei cittadini italiani, per miliardi di Euro. Decine di miliardi di euro, scientificamente dirottati da Bruxelles nelle tasche di politici e imprenditori, con l’ausilio di prefetti, magistrati, poliziotti, carabinieri ed avvocati di tre regioni italiane, la Basilicata, la Campania e la Calabria. «“Roba Nostra” è un libro di nomi e di cognomi e luoghi geografici precisi - prosegue Vulpio - Non è assolutamente un trattato di sociologia, ma un’inchiesta di stampo anglosassone, come non se ne vedono più da decenni in Italia». Vulpio accenna alle tre inchieste sulle quali indagava De Magistris, “Why not?”, “Toghe Lucane” e “Poseidone”: «Le prime due – dice – sono state scippate dalle mani dello zelante magistrato; per la terza, visto che non potevano togliergli l’inchiesta, hanno tolto lui dall’inchiesta, chiedendone il trasferimento». Il giornalista quindi si sofferma sulla vicenda dei fidanzatini suicidi di Policoro, una storia parallela saltata fuori all’improvviso durante le indagini sui finanziamenti della Comunità Europea per costruire dei megavillaggi turistici sulla costa jonica lucana.

E’ il tragico il destino di due giovani fidanzati di 21 anni, colpevoli di sapere troppo. Nel marzo del 1988 vengono ritrovati cadaveri nella vasca da bagno: si parla di morte incidentale, dovuta al cattivo funzionamento di uno scaldabagno. Fatto strano, non viene mai eseguita l’autopsia. Otto anni dopo però i due cadaveri vengono riesumati per via di alcune rivelazioni fatte da una supertestimone e si scopre che i due sono stati brutalmente ammazzati. Si scopre poi una lettera di Marirosa in cui lei confessa a Luca di aver partecipato a festini a luci rosse e cocaina, in cui erano presenti noti professionisti tra cui, guarda caso, il pm di Matera Autera, titolare delle indagini dei fidanzatini e denunciato dei genitori delle vittime per non aver autorizzato l’autopsia sui loro cadaveri. Si scoprirà che anche l’avvocato, nonché senatore di AN Emilio Buccico - prima difensore dei genitori dei fidanzatini, poi guarda caso del Pm Autera – ed il segretario provinciale di AN Labriola, partecipavano a questi festini a base di sesso e coca. (Carlo Vulpio, Corriere della Sera 17 marzo 2007, p.25). Nel corso della ricostruzione di questo tragico evento la sala dapprima ammutolisce e poi tra i presenti si levano grida di protesta e di rabbia. Vulpio ricorda agli intervenuti che per questa vicenda è stata richiesta l’archiviazione, mentre Buccico nel 2006 faceva ancora parte della Commissione Parlamentare antimafia.

Vulpio quindi ritorna sulle modalità con cui le tre inchieste furono tolte dalle mani di De Magistris, e non ricorda nella storia d’Italia un atto analogo, nemmeno durante il fascismo. Mastella chiede il trasferimento di De Magistris, ma non quello dei magistrati inquisiti, e tutta la stampa tace su questo aspetto tutt’altro che secondario. Si riscontra cioè l’incompatibilità di un magistrato che onestamente fa il suo mestiere, ma non viene intrapresa nessuna azione disciplinare per quei funzionari dello Stato indagati dallo stesso De Magistris.

La Forleo a questo punto accenna l’unico riferimento alla sua vicenda e ricorda il giorno in cui comparve davanti al CSM e le parole della vicepresidente Letizia Vacca, che la definì un “cattivo magistrato”, dalla personalità psicolabile e fortemente emotiva. E’ inutile dire che i presenti in sala come me hanno apprezzato la forza morale e la estrema lucidità con cui la donna Forleo, il magistrato Forleo ha portato la sua testimonianza non parendoci affatto né emotiva né tantomeno psicolabile.

Pubblico il testo dell'intervista video di Claudio Messora a Clementina Forleo e Carlo Vulpio, pubblicata su You tube il 24 marzo 2009, sul tema dell'informazione. Testo dell'intervista.

Carlo Vulpio: "Le parole sono importanti, e con le parole ci imbrogliano. Un esempio è questo continuo utilizzo della parola legalità, trasformata immediatamente in giustizialismo. Cioè chiunque di noi, chiunque di voi chieda l'applicazione della legge per quel famoso Articolo 3 della Costituzione, perchè ritiene che la legalità è il potere dei senza poteri, per ciò stesso evocherebbe un intervento giustizialistico, un dispiegamento di forze giustizialiste che godono al tintinnar di manette. Ecco il primo imbroglio. Noi che stiamo qui a parlare adesso, siamo dei sovversivi. Se venisse qualcuno di questi tempi in Italia ad osservare un incontro di questo tipo e avesse sentito l'intervento della dottoressa Forleo, dedurrebbe che qui si sta lavorando alla costruzione di un covo di sovversivi, perchè si sta addirittura ponendo il problema della vigenza dell'articolo 3 della Costituzione. Niente di meno! Io l'altro giorno ho letto sul mio quasi ex giornale (Il Corriere della Sera) una filippica contro l'articolo 3 della Costituzione, e piano piano mi andavo convincendo che effettivamente anche io fossi dalla parte dei sovversivi, laddove arrivato al commento dell'articolo 3, secondo comma, della Costituzione, cioè quello che materialmente dovrebbe rimuovere gli ostacoli che si frappongono ad un'uguaglianza effettiva, diceva il commentatore di cui non farò il nome per non fargli pubblicità, che era troppo generico quest'articolo 3 della Costituzione, era troppo ampio, era troppo! E' fondamentale questo passaggio. Si comincia così. Si comincia a gettare il sasso nello stagno. Si comincia con il grande giornale, il grande commentatore magari un tanto al chilo, che propone un articolo di questo tipo, si dice tecnicamente 'detta l'agenda', detta l'agenda politica, del dibattito pubblico, e una volta dettata l'agenda le pecore, il pubblico, l'opinione pubblica che non esiste, è un'invenzione, l'opinione pubblica non c'è, segue. E' proprio internet, è proprio la rete che in qualche maniera ci ha salvati. Ha salvato quelli come noi: giornalisti, magistrati, lavoratori comuni che non avrebbero più potuto far sentire la loro voce, sarebbero entrati definitivamente in un cono d'ombra, se non ci fossero stati i blogger, i blog, il cosiddetto popolo della rete. E grazie alla rete si è formata un'opinione pubblica nuova, con caratteristiche totalmente inedite, che ovviamente hanno allarmato i tradizionali poteri, anche quelli che editano i giornali. Se una nuova opinione pubblica si forma sulla rete, e se la rete ci salva, allora la rete diventa pericolosa. Se la rete non ci fosse stata noi non avremmo potuto parlare adesso, così, a centinaia, migliaia, milioni di persone, e probabilmente le nostre storie sarebbero state storie eccellenti, ma sarebbero deperite in questa loro eccellente solitudine."

Clementina Forleo: "Io credo che se siamo qui, se siamo qui questa sera a parlare di queste cose, che poi sono i temi fondamentali del libro Roba Nostra, è perchè ci sentiamo un poco intrappolati, perchè purtroppo la trappola, senza accorgercene, è scattata sulle regole, sulla democrazia, sulla legalità, sulla giustizia, sull'etica... cioè è scattata su quelli che dovrebbero essere i termometri di una democrazia moderna. E allora dobbiamo cercare di evitare di fare la fine appunto di quel famoso topolino di un altrettanto famosa metafora, il quale appunto preso in una trappola, ai suoi amici intenti a liberarlo diceva che non si lamentava poi della trappola, ma si lamentava della cattiva qualità del formaggio. E allora leggendo i giornali, soprattutto negli ultimi tempi, io ho paura appunto di questo, del fatto che ci stiamo convincendo che tutto sommato stiamo meno male di quanto si può stare. La rete ci salva e ci salverà. Io fino a poco tempo fa avevo una speranza. Avevo la speranza che alcune testate conservassero dei margini di libertà. Purtroppo mi sono resa conto che anche in questo campo sono stata un po' ingenua, e che ultimamente le testate più libere si sono un po' asservite, probabilmente perchè i tempi sono difficili e bisogna assecondare i poteri forti, dove per poteri forti in questo caso intendo i potentati economici e politici che sorreggono le grosse testate. Quindi i blog, internet e la rete, nell'immediato quanto meno (mi auguro che nel medio e lungo termine le cose possano cambiare) sono destinati a sostituire la classica informazione, che è un'informazione deviata, un'informazione deviante, un'informazione che non ci passa le cosiddette notizie."

Carlo Vulpio: "In Italia siamo, per libertà di informazione, agli ultimi posti in tutte le classifiche europee e mondiali. Questo non è un fatto grave in sè, è un fatto grave perchè attraverso l'informazione che è uno snodo strategico, passano mille altre cose, alcune delle quali fondamentali per il destino di un paese. Pensate a come è stata trattata la giustizia."

Clementina Forleo: "Sul caso Salerno - Catanzaro, per esempio, è stata forse volutamente fatta passare l'opinione, attraverso un'informazione non sempre fedelissima, l'idea di questo scontro, di questa guerra tra Salerno e Catanzaro. A mio avviso non si è trattato di uno scontro, perchè uno scontro presuppone due corpi in movimento. In questo caso Salerno aveva legittimamente, come è stato appurato dal Tribunale del Riesame, disposto una perquisizione e un sequestro di atti nei confronti appunto di Catanzaro. Catanzaro non poteva replicare con un contro-sequestro per il semplice motivo che i reati ipotizzati da Catanzaro dovevano essere denunciati all'autorità competente, cioè appunto un'altra autorità, perchè evidentemente i magistrati di Catanzaro non potevano autodifendersi. Quindi non tanto la politica ma la stessa magistratura ha voluto consegnare al potere dei magistrati che stavano facendo onestamente il proprio lavoro e avevano toccato, come aveva toccato poi in fondo Luigi de Magistris, dei nervi scoperti che toccavano anche lo stesso potere giudiziario in Calabria, e che avevano aperto uno squarcio sul terzo potere dello Stato, e che poteva poi far saltare dei nervi anche in altri territori dello Stato."

Carlo Vulpio: "Pensate a come è stata trattata l'economia, pensate a come è stato trattato il lavoro dall'informazione. Un'informazione addomesticata, un'informazione orientata non serve. Per entrare davvero in Europa noi abbiamo bisogno di una informazione a livelli europei. L'Italia ai livelli europei, da questo punto di vista, non è ancora arrivata. Tutto quello che accade nella sfera pubblica è affare nostro. Se noi non ce ne occupiamo, qualcun altro farà in modo di occuparsene al posto nostro."

Ecco il testo integrale della lettera contenuta sul Blog di Carlo Vulpio con cui il giudice Guido Salvini denuncia le riunioni segrete nel Palazzo di giustizia di Milano per far fuori il gip Clementina Forleo. Il Csm ha aperto un procedimento disciplinare sui presunti “congiurati”, Salvini è stato convocato per essere sentito, nessuna procura d’Italia ha aperto alcun procedimento per eventuali reati commessi e tutti i giornali e le tv, sebbene sappiano tutto, non danno la notizia.

“Caro Cosimo e cari colleghi,

anch’io sono contento, anche sul piano umano, per la sentenza del Consiglio di Stato (quella che conferma la pronuncia del Tar del Lazio e annulla la decisione del Consiglio superiore della magistratura di trasferire da Milano a Cremona, per “incompatibilità ambientale”, il gip Clementina Forleo, che quindi ora può tornare a Milano – ). Non conosco a fondo il caso UNIPOL e dintorni ma avevo letto la sentenza redatta dal consigliere Fabio Roia e l’avevo trovata povera sul piano giuridico e riferita a fatti del tutto inconferenti per un giudizio di “incompatibilità ambientale” che per un giudice è quasi la morte civile. Una sentenza di quattro paginette, concepita con la supponenza con cui di frequente il CSM motiva decisioni importanti ritenendo di aver comunque sempre ragione. Aggiungo che sono stato testimone diretto dello sviluppo dell’azione “ambientale” contro la collega (cioè, la Forleo) dato che all’epoca ero anch’io GIP presso il Tribunale di Milano. Ho assistito a scene desolanti quali l’indizione con passa parola di riunioni pomeridiane in alcune stanze per discutere la “strategia” contro la collega, guidate dai maggiorenti dell’ufficio tra cui un paio di colleghi “Verdi” più rancorosi di tutti, come spesso accade, anche se del tutto estranei al caso. Da simili iniziative, che mi ricordavano le “Giornate dell’odio” descritte da George Orwell nel romanzo “1984″, mi sono dissociato.

Non ci si comporta così tra magistrati ed è facile e privo di rischi accerchiare una persona in un ufficio e magari in questo modo anche portarla a sbagliare, visto anche il carattere poco “diplomatico” della vittima. L’incompatibilità ambientale, che si ignora cosa in realtà sia di preciso, e che spesso è semplicemente l’accanimento dell’ “ambiente” contro una singola persona, è quasi sempre una procedura barbara e prettamente inquisitoria. Il suo raggio d’azione, per fortuna, con le modifiche che conosciamo, si è ridotto, ma dovrebbe esserlo ancora di più, sopratutto nella pratica, sino a quasi scomparire come dovrebbe scomparire la prassi, in qualche modo speculare, delle ”pratiche a tutela”.

Un caro saluto a tutti

Guido Salvini (domenica 19 giugno 2011, 23:09)

GIUSTIZIA E MAFIA: UNA GRANDE IPOCRISIA. LA MAFIE E’ POTERE: ERGO, LOTTA ALLA MAFIA: LOTTA DI PARTE IDEOLOGICA O DI FACCIATA.

Questo è un dogma, perché mi sarei aspettato che la Cassazione avesse definitivamente assolto con tante scuse per il fastidio procurato, o avesse mandato in galera, una volta per tutte, e con codazzo di carabinieri, il senatore Marcello Dell’Utri, il gran commis di Silvio Berlusconi per vent’anni.

Sì, voglio dire: mi sarebbe piaciuta, per questo cosiddetto «processo politico», una sentenza totalmente evangelica. Una sentenza ispirata alla parola di Gesù: «Il vostro parlare sia “ sì, sì; no, no”. Il sovrappiù viene dal Maligno» (Matteo, capitolo quinto, versetti 37-38). L’argomento adoperato dal sostituto procuratore generale della Cassazione, Francesco Iacoviello, per annullare la sentenza di condanna di secondo grado a sette anni a carico di Dell’Utri, lungi dall’essere improntato alla chiarezza evangelica, appare piuttosto di brutalità luciferina: “un reato indefinito, quello del concorso esterno, al quale ormai non crede più nessuno”. Il procuratore di Torino, Gian Carlo Caselli, ha definito gli argomenti di Iacoviello: “alquanto imbarazzanti”. Il magistrato ed ex procuratore capo a Palermo, intervistato da Repubblica, ha dichiarato che "la requisitoria del sostituto procuratore generale della Cassazione Iacovello non ha ferito solo me, ma Giovanni Falcone, che ha teorizzato e concretizzato nei maxiprocessi il concorso esterno in associazione mafiosa. Le affermazioni di Iacoviello sono quantomeno imbarazzanti". Secondo quanto riportato da Repubblica, Caselli avrebbe anche invocato una punizione nei confronti del sostituto procuratore, chiedendo un intervento del Csm.

Antonio Ingroia, procuratore aggiunto a Palermo, colonna dell’antimafia siciliana e accusatore da una vita del senatore e bibliofilo, senza aspettare di leggere le motivazioni del verdetto che ordina la celebrazione di un nuovo processo. Anzi, in qualche modo Ingroia prova a riscrivere la sentenza in un’intervista senza freni de 13 marzo 2012 al programma di Radio24 la Zanzara. Per lui Dell’Utri era e resta «un ambasciatore di Cosa nostra nel mondo imprenditoriale e finanziario milanese, un portatore di interessi della mafia». Un giudizio durissimo che, evidentemente, scavalca la Cassazione e le sue preoccupazioni. Il parlamentare infatti è finito sotto inchiesta per concorso esterno e la Suprema corte, per superare una sorta di nouvelle vague giudiziaria e processi basati su suggestioni più che su prove, aveva fissato a suo tempo paletti rigidi. Ora i giudici hanno stracciato il verdetto di Palermo ritenendolo non in linea con gli standard della Suprema corte. Questo non significa che Dell’Utri sia innocente, ma la Cassazione afferma in sostanza che le prove non reggono.

Un ragionamento esplosivo che non modifica di una virgola il convincimento di Ingroia: Dell’Utri lavorava per Cosa nostra. Di più, l’avventura politica del senatore «nasce per gli interessi di Cosa nostra. L’idea della costituzione di Forza Italia è del senatore Dell’Utri ed è anche nell’interesse della mafia». Ingroia non arretra di un millimetro: già la sentenza della Corte d’Appello, che pure aveva condannato il senatore a 7 anni di carcere, l’aveva assolto per gli episodi successivi al 1992 e dunque collegati alla nascita di Forza Italia e alla presunta trattativa fra Cosa nostra e spezzoni dello Stato. Ora la Cassazione va oltre e contemporaneamente la magistratura fiorentina, al termine del processo contro un boss condannato per la bomba agli Uffizi, spiega che non ci sono riscontri all’ipotesi che Forza Italia abbia dialogato con i capi di Cosa nostra. Non importa. Per Ingroia, invece, le prove «non ci sono» su Silvio Berlusconi che pure è stato sotto i riflettori della magistratura per anni e anni. Ora il magistrato tende a distinguere i ruoli, ma al Cavaliere riserva una stilettata ancora più graffiante: «Berlusconi ha detto che Dell’Utri ha sofferto 19 anni di gogna? Si potrebbe replicare che quando lui era al governo poteva fare una riforma per accorciare i tempi dei processi, invece ha fatto esattamente il contrario. Anche il processo Dell’Utri è durato così tanto per colpa di Berlusconi, questo è sicuro». Dunque, comunque si rigiri la questione, per Ingroia, che pure si sente «sconfitto» dalla Cassazione, questo non è il tempo della prudenza. Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, riferendosi al reato di concorso esterno, ha parlato di “innovative idee giurisprudenziali”, fondate da Falcone e Borsellino. Nessuno si è riferito alla motivazione della sentenza della Cassazione che non si conosce. E nell’attesa di leggerla, quando diventerà pubblica. Parole assai evangeliche, le loro. Quasi garbate, pur nell’esemplare chiarezza.

Ma noi, che non siamo magistrati fra i magistrati, ma semplicissimi cittadini fra i cittadini, vorremmo formulare questo interrogativo: chi ci sta ad accusare ed a giudicare????

Il tris di sentenze che a stretto giro ha visto prevalere Silvio Berlusconi e gli uomini a lui vicini sul partito degli anti-Cav deve aver lasciato un bel segno nella mente di Marco Travaglio, che di quel partito è da quasi vent'anni uno dei principali e indefessi agitatori. Perchè l'editoriale scritto il 14 marzo 2012 su "il Fatto quotidiano" è quello di una persona colpita nell’orgoglio. Fino a poco tempo fa c'era Silvio: corruttore, evasore, puttaniere e persino (o soprattutto) mafioso. Poi è arrivata la sentenza d'appello sul caso Mills. Poi quella della Cassazione su Marcello Dell'Utri. Infine le motivazioni della sentenza di condanna di un boss del Brancaccio, nella quale i giudici (i giudici) escludono che da parte di Forza Italia (definita in sentenza come "nuova entità politica") abbia avuto un qualche ruolo nelle stragi di mafia del '92 e del '93. Ecco, questo deve essere stato il colpo di grazia. Perchè sulle "origini mafiose" del "miracolo Forza Italia", il partito nato in pochi mesi e capace di sbaragliare tutti nel '94, Travaglio ha sempre messo la mano sul fuoco. E adesso? Adesso se la prende con i politici (di tutti gli schieramenti tranne Vendola e Di Pietro), il Quirinale, le alte cariche dello Stato, i ministri tecnici, persino i giudici, che ha sempre difeso a spada tratta. Colpevoli di non voler fare luce, anzi di ignorare proprio, il biennio della strategia delle stragi e la trattativa Stato-mafia. Per la verità si è indagato e si sta indagando, si sono fatti processi ed emesse sentenze. Ma a lui, Travaglio, tutto questo non interessa. Dice: "Fate schifo". Chi? Tutti. Tranne lui, ovviamente. 

Un reportage sulle traversie legali di Dell’Utri.

Sono quattro i procedimenti giudiziari aperti a carico del senatore del Pdl Marcello Dell'Utri:

CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA. Il 29 giugno 2009 la Corte d'appello di Palermo ha condannato Dell'Utri a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. La corte, riformando la sentenza di primo grado, ha invece assolto Dell'Utri limitatamente alle condotte contestate come commesse in epoca successiva al 1992 perchè "il fatto non sussiste". In primo grado al parlamentare del Pdl erano stati inflitti nove anni di reclusione. Il Pg aveva chiesto la condanna di Dell'Utri a 11 anni.

ASSOCIAZIONE A DELINQUERE E VIOLAZIONE LEGGE ANSELMI. Il senatore Dell'Utri è stato indagato a Roma nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta P3, nata da uno stralcio dell'indagine degli appalti sull'eolico in Sardegna. Dell'Utri è accusato di associazione a delinquere e violazione della legge Anselmi sulla costituzione delle associazioni segrete. Nell'ambito dell'inchiesta, l'8 luglio 2010 i carabinieri avevano arrestato l'imprenditore Flavio Carboni, l'ex esponente della Dc campana, Pasquale Lombardi e l'imprenditore napoletano, Arcangelo Martino. Per il gip i tre avevano messo su una organizzazione caratterizzata "dalla segretezza degli scopi" volta "a condizionare il funzionamento degli organi costituzionali nonchè degli apparati della pubblica amministrazione".

PROCESSO CALUNNIA PER SCREDITARE DEI PENTITI. Il 21 luglio 2010 gli avvocati di Dell'Utri hanno sollevato istanza di rimessione, per legittimo sospetto, del processo d'appello a Palermo, in cui il senatore è imputato di calunnia. L’Istanza è stata rigettata. Dell'Utri è imputato di avere ordito un piano per screditare alcuni pentiti palermitani che l'avevano accusato nel dibattimento in cui era imputato di concorso in associazione mafiosa. Per lo scopo Dell'Utri si sarebbe servito di un esponente della Sacra Corona Unita, ora deceduto, che assieme a lui fu rinviato a giudizio per calunnia. Il 31 marzo 2011 la prima sezione della corte d’appello di Palermo ha confermato l’assoluzione per il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri accusato di calunnia aggravata. Dell’Utri era accusato di aver cercato di screditare i pentiti palermitani Francesco Di Carlo, Francesco Onorato e Giuseppe Guglielmini che l’avevano accusato nel dibattimento in cui era imputato di concorso in associazione mafiosa (conclusosi in appello con la condanna del politico a 7 anni). Per lo scopo l’ex manager Fininvest si sarebbe servito di Cosimo Cirfeta, esponente della Sacra Corona Unita, che assieme a lui fu rinviato a giudizio per calunnia e che è deceduto poco prima della sentenza di primo grado.

PALLACANESTRO TRAPANI, TENTATA ESTORSIONE. Il 28 maggio 2010 la Cassazione ha stabilito che alla Corte d'appello di Milano ci sarà un nuovo processo per il senatore Dell'Utri, coinvolto con il boss Vincenzo Virga nella vicenda di minacce ai danni dell'imprenditore siciliano Vincenzo Garaffa, ex patron della Pallacanestro Trapani. La Suprema Corte ha così annullato con rinvio la sentenza della Corte di Milano del 2009 con la quale i giudici avevano riqualificato la precedente accusa di tentata estorsione in minacce gravi e avevano dichiarato il non luogo a procedere per intervenuta prescrizione.

"La grave situazione giudiziaria esistente a Palermo ha condizionato e condiziona la libera determinazione e la serenità dei giudici". Lo sostengono gli avvocati del senatore del Pdl Marcello Dell'Utri, sotto processo per calunnia, davanti alla prima sezione della corte d'appello del capoluogo, nell'istanza di rimessione del dibattimento per legittimo sospetto. Nella memoria, già trasmessa alla Cassazione, che dovrà decidere sulla richiesta, i difensori ripercorrono la storia del processo in corso e le vicende relative all'altro giudizio a cui Dell'Utri è stato sottoposto a Palermo e che si è concluso con una condanna a 7 anni per concorso in associazione mafiosa. Nell'atto i legali descrivono "un clima pesante" che limiterebbe l'imparzialità dei magistrati. Giudici indotti ad astenersi in seguito a pesanti interventi politici e "campagne mediatiche", magistrati costretti a difendersi, "con inusuali comunicati", da accuse e pressioni della stampa priverebbero l'autorità giudiziaria di quella serenità necessaria alla celebrazione del processo. Nell'istanza i legali fanno riferimento sia alle vicende relative al processo per calunnia, che a quelle dell'ormai concluso processo per concorso in associazione mafiosa. I difensori ricordano il caso scoppiato dopo la nomina a consulente della commissione Antimafia del presidente del primo collegio che cominciò il dibattimento per la calunnia: Salvatore Scaduti, costretto ad astenersi dopo una pesante campagna mediatica. Parte della stampa sostenne che la nomina all'Antimafia fosse stata sollecitata dal centro-destra nella speranza che il magistrato ritenesse di essere incompatibile con la prosecuzione del dibattimento e che questo venisse rinnovato col rischio della prescrizione delle accuse. "Il forte condizionamento riconosciuto dal presidente del tribunale (che accolse la richiesta di astensione) - si legge nell'istanza - non può limitarsi alla figura del solo presidente, coinvolgendo automaticamente anche i due consiglieri e questo anche in assenza di una loro rituale richiesta di astensione". I legali si riferiscono al fatto che i due giudici a latere che affiancavano Scaduti restarono gli stessi. "Il magistrato - si legge - non è un'entità astratta avulsa dalla società. E ciò appare tanto più vero in un contesto giudiziario particolare come quello siciliano e palermitano ove si incentra la lotta investigativa e processuale alla mafia". I penalisti bacchettano poi le decisioni della corte di bocciare l'ingresso nel processo delle indagini difensive fatte: indici di una "preconcetta posizione della Corte diretta a non esplorare temi scottanti come quello dei pentiti". Infine, parte della istanza riguarda i giudici che hanno condannato Dell'Utri per concorso in associazione mafiosa. Anche loro, secondo i legali, vittime di attacchi che hanno leso la loro serenità "tanto da indurli a leggere un inusuale quanto anomalo comunicato in cui rassicuravano le parti e l'opinione pubblica sulla loro imparzialità". Nella memoria di 21 pagine depositata ai giudici della I sezione della corte d'appello di Palermo, che processano il senatore, da trasmettere alla Corte di Cassazione, competente ad adempiere, i legali scrivono: "vi è fondato motivo di ritenere che l'ufficio giudiziario di Palermo, per quanto riguarda la posizione processuale di Dell'Utri, non sia in grado di determinarsi autonomamente sia nei componenti che esercitano funzioni inquirenti, sia in quelli che esercitano la funzione giurisdizionale e/o che sussistano comunque fondati motivi di legittimo sospetto". Marcello Dell'Utri è imputato di avere ordito un piano per screditare i pentiti palermitani Francesco Di Carlo, Francesco Onorato e Giuseppe Guglielmini che l'avevano accusato nel dibattimento in cui era imputato di concorso in associazione mafiosa (dibattimento conclusosi in appello con la condanna del politico a 7 anni). Per lo scopo l'ex manager Fininvest si sarebbe servito di Cosimo Cirfeta, esponente della Sacra Corona Unita, che assieme a lui fu rinviato a giudizio per calunnia e che nel frattempo è deceduto.

In relazione alla istanza di remissione vi è la nota del dr. Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo e presidente del “Associazione Contro Tutte le Mafie” ONLUS riconosciuta dal Ministero dell’Interno, oltre che presidente di Tele Web Italia. «Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Remissione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri.

Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

*      Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

*      Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

*      Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

*      Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo. »

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Riguardo alla richiesta di Rimessione per incompatibilità ambientale presentata ai sensi dell’art. 45 ss C.P.P. dalla difesa di Sabrina Misseri per il processo sul delitto di Sarah Scazzi, il Dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie, esperto di cose giuridiche e prassi giudiziaria tarantina e nazionale afferma: «Apprezzo la richiesta fatta dall’avv. Franco Coppi, che delinea bene la sua capacità e il suo coraggio, tenuto conto che nel Distretto di Lecce e Taranto ben pochi avvocati dimostrano tali doti. Lo dimostra anche il fatto che a Roma la Camera Penale è stata pronta a difendere il loro collega inquisito a Taranto, mentre il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ha pensato bene di non dire una parola a favore dei loro iscritti. A Taranto si parla di “Correttezza nei confronti degli “amici” magistrati”, a Roma, nei corridoi degli uffici giudiziari, si parla di “Codardia”. Bisogna tener presente che nel processo “Sebai, il killer delle 12 vecchiette” nessuno a Taranto ha avuto il coraggio di presentare rimessione per ben più gravi motivi (Foro che ha accusato e condannato dei soggetti e poi lo stesso Foro ha accusato e giudicato colui il quale li dichiarava innocenti con riscontri concreti. Creduto solo per i delitti senza colpevoli). Inoltre c’è da sottolineare che io stesso sono stato promotore a titolo personale di una istanza di rimessione, ma per legittimo sospetto, perché i magistrati di Taranto mi accusano e mi vogliono condannare per averli criticati con denunce penali e con articoli di stampa sul loro modo di amministrare la giustizia. Nessun avvocato mi ha sostenuto, anzi, mi hanno abbandonato nei processi di diffamazione a mezzo stampa quando ho chiesto la ricusazione dei magistrati denunciati. Io il 28 settembre a Roma presenzierò all’udienza sulla mia richiesta di rimessione per farmi giudicare dai Magistrati di Potenza, che ha avuto già il marchio preventivo di inammissibilità. Istanza basata sul fatto che i magistrati di Taranto siano poco sereni nel giudicare colui il quale li ha denunciati per abusi ed omissioni, senza che questi si tutelassero denunciandomi per calunnia. Si può considerare che effettivamente la mia richiesta possa essere infondata ed io essere un mitomane o un pazzo. Ma resta un fatto eclatante, e non voglio essere una “Cassandra”, ma la stessa cosa succederà a Franco Coppi. Si tenga presente che mai una istanza di rimessione è stata accolta dalla Corte di Cassazione, nemmeno per Berlusconi, o Dell’Utri, o per le vittime del terremoto dell’Aquila. L’art. 45 ss C.P.P. è una norma da sempre inapplicata perché delegittima il foro giudicante e questo in Italia non si deve fare: è lesa Maestà di chi effettivamente detiene il potere. La decisione negativa scontata che mi riguarda e che arriverà il 28 settembre, però, darà modo a me di potermi rivolgere alla Corte Europea dei Diritti Umani e presso le Istituzioni dell’Unione Europea perché in Italia, non solo non si applica una norma in vigore che danneggia i magistrati, ma si viola sistematicamente il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, anche tramite stampa, e si violano sistematicamente le norme del giusto processo.» 

Nelle vicende giudiziarie è utile dare anche voce agli avvocati, cosa che certa stampa non fa.

«Caso Dell'Utri: "Dai pm attacchi virulenti e fuori luogo alla Corte di Cassazione. Chi entra a piedi uniti sulla Corte di Cassazione ha la coda di paglia?»

Comunicato Unione Camere Penali contro gli attacchi virulenti e scomposti alla Corte di Cassazione . “La sentenza Dell'Utri ha causato reazioni scomposte e attacchi virulenti nei confronti del PG e della Corte di Cassazione. L'Unione denuncia questi comportamenti, che vanno ben oltre il normale diritto di critica, e sono strumentali a condizionare il giudizio dei giudici che non si vogliono allineare alle direttive imposte dalla magistratura militante. Criticare le sentenze emesse dai Tribunali è un sacrosanto diritto, delle parti, dei cittadini, della stampa, non ci stancheremo mai di ripeterlo. Anche criticare gli esiti di un processo è un diritto, sebbene, in assenza di una sentenza ancora non scritta, perlomeno gli uomini di legge dovrebbero mostrare un minimo di cautela nel suo esercizio. Si può ovviamente dissentire anche dalle requisitorie dei pm o dalle arringhe degli avvocati, e censurarle, magari aspramente, ma ciò che sta avvenendo in queste ore nei confronti del PG della Cassazione e del Presidente della sezione della Corte che hanno concluso il processo Dell'Utri è qualcosa che va al di là del diritto di critica, e che deve far riflettere. Un magistrato di grande esperienza e di riconosciuta indipendenza, come il sostituto procuratore generale Iacoviello, è stato oggetto di un attacco virulento e scomposto da parte di alcuni suoi colleghi appartenenti, o ex appartenenti, all'ufficio di procura che aveva istruito il processo. Non si è esitato a definire "gravi, irresponsabili, imbarazzanti" le opinioni giuridiche espresse nel corso della requisitoria, per il sol fatto di avere osato valutare un reato dagli incerti confini, come il concorso esterno in associazione mafiosa, sulla cui conformazione la dottrina giuridica italiana, con buona pace dei nuovi e vecchi crociati di una giustizia che deve ragionare a furor di popolo e con invocazioni alla piazza, esprime dubbi da decenni. Ma quel che è più grave è stato registrare attacchi, venati di un sottile e sprezzante qualunquismo, al giudizio di legittimità ed agli uffici che lo amministrano. Alcuni, come il dottor Caselli, che per il vero ha una certa consuetudine alla critica della decisioni di legittimità non molto favorevoli alla sue tesi, si è spinto a citare una frase di Gaetano Costa secondo il quale "il funzionario onesto che voglia combattere i soliti onorevoli usi a trescare con le cosche mafiose rischia sempre che a Roma qualcuno gli rivolti la frittata". E' una citazione fuori luogo, incauta, questa sì imbarazzante per un magistrato se rivolta ad un collega, ovvero ad un diverso ufficio giudiziario. Così come doppiamente imbarazzante è sentire dire da altri, come il PM Ingroia, a proposito del Presidente della Corte che ha annullato con rinvio la sentenza Dell'Utri, che la decisione è "coerente con la sua giurisprudenza: c’è chi ha avuto come maestro Carnevale, chi Falcone e Borsellino". Qui l'imbarazzo è non solo per la verifica di una aperta intolleranza verso la funzione giurisdizionale ma anche per il richiamo esplicitamente dispregiativo nei confronti di un magistrato, come Corrado Carnevale, prima lapidato mediaticamente per la sua giurisprudenza e poi ingiustamente sottoposto a giudizio nel pubblico ludibrio, per il quale neanche l'assoluzione e la reintegrazione servono ad evitare le insinuazioni. Ed allora, in attesa che qualcuno, magari dalle parti del CSM, rifletta sulla singolare deriva che nel nostro Paese permette ad alcuni (ma non a tutti) magistrati di rivolgersi alla piazza, mediatica e non, per impartire lezioni sulla ortodossia della legalità di propria personale concezione, e per condizionare le decisioni dei giudici, non resta che a noi avvocati porre un quesito questo sì imbarazzante: "Ma questi pm, che invocano equivocamente la cultura della giurisdizione nei convegni quando fanno propaganda contro la separazione delle carriere, che idea ne hanno?" Roma, 11 marzo 2012 La Giunta.

Giuliano Ferrara su “Panorama” dice la sua opinione: «Marcello Dell’Utri mi è sempre parso una persona a posto, non priva di malinconico garbo, e con tante amicizie sbagliate. Ma le amicizie sbagliate, specie per un palermitano cresciuto disordinatamente nella vita imprenditoriale e pubblica, sono uno dei prezzi dell’esistenza, e nulla più. Per trasformarle in reato, in anni di carcere, in infamia bisogna che siano dimostrati la malavita e il suo misfatto, non basta il fumo alla Orwell, il mondo chiuso e opaco in cui giudici e spioni vedono nel sospetto l’anticamera della verità. Il pubblico ministero che accusa Dell’Utri era circondato nel suo stesso ufficio da poliziotti che sussurravano alla mafia mentre davano la caccia al colletto bianco, e Palermo è una città radicalmente ferita dall’apparenza ingannatrice, e una vita originata tra quelle sensuali e aspre bellezze, in quel profumo assurdo di ciclamini e fritti vari, si porta appresso il dubbio, la doppiezza, quel vissuto letterario che fa della Sicilia e della mafia un caso unico, un multisecolare luogo comune dello spirito e una venatura profonda della carne. Per uno come me, banalmente cittadino e romano, o per un uomo del Nord come Adriano Celentano, la frase «ho anch’io amici criminali», pronunciata dal Molleggiato a San Remo, in difesa di Tony Renis, è vaudeville. Per i palermitani l’amicizia è abisso e amore, colluttazione con il bene e con il male, dovere e verità, verità e menzogna. E l’antropologia non si processa, se non in un mondo di rieducazione totalitaria. Non esiste quel reato: il concorso esterno in un’associazione è un paradosso, una tautologia, un uso illogico del diritto. L’accusa, quando non sia suggestione inquisitoria, esige la chiarezza e la semplicità, la geometria che allinea fatti, comportamenti, responsabilità su un asse in cui sono tassativamente escluse le zone grigie, i confini incerti, le circostanze allusive. È tipicamente mafioso immaginare un concorso esterno in un’associazione per delinquere, e sarebbe stata giusta una grande battaglia di avvocati, giuristi, costituzionalisti, cittadini e politici eletti per sradicare dal nostro codice o dal nostro modo di usare il codice questo scandalo giuridico vivente, questo ibrido insulto alla logica e al senso di giustizia. La sentenza Dell’Utri farà epoca. Con Giulio Andreotti è stata malamente processata la vecchia politica, gettata in una discarica e bruciata molto al di là delle sue colpe e delle sue collusioni. Con Dell’Utri è la nomenclatura nuova a essere processata, sono gli italiani cresciuti ai margini del vecchio sistema dei partiti, che in qualche modo l’hanno sostituito, a essere giudicati. Spero che il tribunale capisca l’inconsistenza della fattispecie addebitata all’imputato. E che finisca una buona volta la falcidie di una classe dirigente largamente imperfetta, moralmente discutibile come tutti i ceti di comando, ma costruita sul consenso popolare. Nessuno dovrebbe essere condannato per essersi associato con altri, senza che sia dimostrata la sua partecipazione diretta a un delitto puntualmente ricostruito. Che si possa essere condannati per avere concorso a un’associazione, è temerario.»

Pietro Mancini su “Affari Italiani” parla di Toghe, anti-mafia ed errori della politica. L'errore storico dei capi del nuovo PDS, l'intelligente D'Alema e il mediocre Occhetto, fu quello di liquidare, nel 1992, due dirigenti lucidi ed esperti, come il siciliano Macaluso e il campano Chiaromonte. Ad Emanuele, come capolista alla Camera, in Sicilia, Achille preferì un giovane dirigente padovano, Pietro Folena, mentre al vertice dell'Anti-mafia Gerardo fu sostituito dal torinese Luciano Violante. E, da allora, la politica del primo partito della sinistra, nel contrasto ai poteri illegali e mafiosi, fu guidata da don Luciano, in collaborazione con Giancarlo Caselli, il sociologo Pino Arlacchi e quello che Giulianone Ferrara ebbe a definire il "Signore dei pentiti", il calabrese, nemico di Giacomo Mancini, Gianni De Gennaro. E' auspicabile che il centro-destra, con l'ex Guardasigilli, l'agrigentino Angelino Alfano, non commetta lo stesso errore, rinunciando a una linea autonoma, ma limitandosi a "santificare" le pur corrette e rigorose toghe d'ermellino, che hanno - attirandosi l'odio imperituro di Travaglio, Caselli, Bolzoni e Ingroia - cestinato le stangate palermitane a Dell'Utri. Ma gli alti magistrati di piazza Cavour non sono stati coerenti fino in fondo, annullando, senza rinvio, la sentenza d'Appello che, con un compromesso, stabiliva che il senatore sarebbe stato, come "zu Giulio" Andreotti, colluso con i boss, ma solo un po'... Nel PDL, peraltro, si passa dal super-garantismo dell'ex Guardasigilli, Nitto Palma, al governatore della Campania, Caldoro, che non ha speso una parola di solidarietà nei confronti del giovane sindaco di Pignataro Maggiore, Magliocca, che, dopo 11 mesi in cella, è stato prosciolto dal GUP e del sindaco di Casapesenna, scarcerato, per mancanza di indizi, solo pochi giorni dopo il suo arresto.

SCHEDA - Le tappe del processo. L'annullamento con rinvio, da parte della Cassazione, della sentenza d'appello per il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri è solo l'ultima ( per ora) tappa di un iter che ha avuto avvio nel 1996. A Palermo il parlamentare era stato condannato a 7 anni per l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. La vicenda giudiziaria di Marcello Dell'Utri continua da sedici anni, un processo che sembra interminabile com'è accaduto in molti dei più controversi casi della storia repubblicana. Il primo atto formale è del 2 gennaio del 1996 quando la Procura di Palermo apre un'inchiesta su Dell'Utri, in seguito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Tullio Cannella. Ma il primo a fare il nome del senatore del Pdl, nel 1994, era stato un altro pentito, Salvatore Cancemi, interrogato dalla Procura di Caltanissetta. Il processo di Palermo, apertosi il 5 novembre del 1997, si conclude dopo 256 udienze protrattesi per sette anni. Con Dell'Utri, siede sul banco degli imputati anche Gaetano Cinà, incensurato ma secondo l'accusa mafioso del clan di Malaspina, ma considerato il trait-d'union di Cosa Nostra tra Palermo e Milano. L'istruttoria dibattimentale è complessa, con l'innesto anche di un intricato filone relativo alle holding da cui nacque Fininvest, oggetto di una ponderosa consulenza del perito Gioacchino Genchi. Ben 270 i testimoni ascoltati, e fra loro una quarantina di collaboratori di giustizia, da Salvatore Cancemi a Francesco Di Carlo, fino a Gaspare Mutolo, Nino Giuffrè, Giovanni Brusca e Tommaso Buscetta, quest'ultimo citato dalla difesa. Al termine della requisitoria, per Dell'Utri i pm Antonio Ingroia e Domenico Gozzo chiedono 11 anni mentre è di 9 anni la richiesta per Cinà. Il Tribunale di Palermo presieduto da Leonardo Guarnotta, pronuncia la sentenza l'11 dicembre del 2004, dopo 13 giorni di camera di consiglio: 9 anni a Dell'Utri, per concorso esterno in associazione mafiosa, 7 anni a Cinà. Nelle 1.786 pagine delle motivazioni, il collegio di primo grado scriveva tra l'altro: "La pluralità dell'attività posta in essere da Marcello Dell'Utri, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di cosa nostra, alla quale è stata, tra l'altro offerta l'opportunità, sempre con la mediazione di Marcello Dell'Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti della economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che politici". I giudici ricordavano di aver preso in esame "fatti, episodi ed avvenimenti dipanatisi dai primissimi anni '70 e fino alla fine del 1998", e profilavano "la funzione di garanzia svolta da Dell'Utri nei confronti di Berlusconi, il quale temeva che i suoi familiari fossero oggetto di sequestri di persona, adoperandosi per l'assunzione di Vittorio Mangano ad Arcore, quale 'responsabile' e non come 'mero stalliere'".
Il 30 giugno del 2006 parte il processo d'appello davanti alla Corte presieduta da Claudio Dall'Acqua. A sostenere l'accusa, il pg Antonino Gatto. Marcello Dell'Utri è rimasto l'unico imputato perché Cinà e' frattanto deceduto, e davanti ai giornalisti va subito all'attacco, parlando di "accuse politiche" contro di lui. La Corte respinge la richiesta unanime del Pg e dei difensori di ascoltare Silvio Berlusconi, che in primo grado era stato convocato dai giudici ma si era avvalso della facoltà di non rispondere, essendo indagato di reato connesso. Nel 2009, mentre il processo di secondo grado è in corso, piombano sul senatore del Pdl i verbali dell'allora 'dichiarante 'Gaspare Spatuzza, che riferisce commenti che gli sarebbero stati fatti nel gennaio del 1994 del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano: "Abbiamo ottenuto quello che volevamo: abbiamo il Paese in mano. E non sono stavolta quei crastazzi dei socialisti, ma Silvio Berlusconi e il nostro compaesano". Il compaesano sarebbe stato appunto Dell'Utri. Per sentire Spatuzza la Corte si sposta a Torino dove il 4 dicembre del 2009 ricorda un incontro al bar Doney di via Veneto: "Graviano mi disse che chi ci garantisce 'è quello di Canale 5' e che tra i nostri referenti 'c'era un nostro compaesano'". Una settimana dopo, l'11 dicembre, è il momento dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano che sono ascoltati in videoconferenza e non confermano le dichiarazioni di Spatuzza. Intanto, il 26 febbraio, deponendo al processo Mori, Massimo Ciancimino sostiene che "Dell'Utri sostituì" suo padre Vito Ciancimino come mediatore nella trattativa tra Stato e mafia e che è lui il "senatore" citato nei 'pizzini' che il padre si scambiava con Provenzano. Massimo Ciancimino si spinge fino a dire che tra il politico e il boss "c'erano contatti diretti". Ma la Corte non ritiene di citare Ciancimino junior in aula e il 5 maggio rigetta per la seconda volta la richiesta di citarlo, perché lo giudica contraddittorio e sostanzialmente non credibile. "Dell'Utri contribuì alla trattativa e Provenzano si fidava di lui", dice però nella requisitoria il Pg che chiede la condanna a 11 anni per l'imputato. I giudici si ritirano in camera di consiglio il 24 giugno e prima di farlo, irritualmente dichiarano: "Siamo indifferenti alle pressioni medianiche e rispondiamo solo di fronte alla legge e alla nostro coscienza". La sentenza d'appello viene emessa cinque giorni più tardi, il 29 giugno del 2009. Dell'Utri viene condannato, ma la pena viene ridotta a 7 anni. Secondo la Corte, Dell'Utri è responsabile di concorso esterno in associazione a delinquere semplice fino al 1982, e di concorso esterno in associazione mafiosa fino al '92.

La requisitoria di Mauro Iacoviello su Marcello Dell’Utri - IL DOCUMENTO

“Non si tocca il fatto, se non nella misura in cui si tocca il diritto. In altri termini, non si intende contestare ciò che dicono i pentiti. Non si valutano le prove e non si prospettano ricostruzioni alternative. Anzi, si prende - faticosamente - per vero tutto ciò che hanno detto. I fatti sono quelli. Ma quali? Gli anglosassoni parlano di teoria del caso per indicare la sintesi logica del fatto incriminato. Un public prosecutor statunitense riassumerebbe così il caso: “te la sei fatta con i mafiosi e hai procurato per tanti anni un sacco di soldi alla mafia. Se non è concorso esterno questo… Dove è il problema?”. Il problema c’è. Inizia così il procuratore generale della Cassazione Mauro Iacoviello nella sua requisitoria al processo nei confronti di Marcello Dell’Utri.

Tutti ne parlano, molti per sentito dire. Dopo tante chiacchiere e infinite polemiche (in prima fila il j’accuse di Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia) ecco lo schema della requisitoria del procuratore generale Iacoviello accolto dalla V sezione penale della Cassazione che ha deciso di annullare con rinvio la sentenza.

Francesco Iacoviello, un eroe dei nostri tempi: "Se c'è un imputato, deve esserci un'imputazione". La requisitoria del sostituto procuratore generale al processo Dell'Utri pubblicata da “Il Foglio”.

PROCESSO DELL’UTRI: LA REQUISITORIA DEL CONSIGLIERE IACOVIELLO.

Schema di requisitoria integrato con le note d’udienza del Sostituto Procuratore Generale Cons. Francesco Iacoviello (Cass. pen., sez. V, ud. 9 marzo 2012, imp. Dell’Utri).

Premessa.

Non si tocca il fatto, se non nella misura in cui si tocca il diritto. In altri termini, non si intende contestare ciò che dicono i pentiti. Non si valutano le prove e non si prospettano ricostruzioni alternative. Anzi, si prende -faticosamente- per vero tutto ciò che hanno detto. I fatti sono quelli. Ma quali ? Gli anglosassoni parlano di teoria del caso per indicare la sintesi logica del fatto incriminato. Un public prosecutor statunitense riassumerebbe così il caso: “te la sei fatta con i mafiosi e hai procurato per tanti anni un sacco di soldi alla mafia. Se non è concorso esterno questo… Dove è il problema?”. Il problema c’è.

L’imputazione che non c’è. C'è un capo di imputazione che riempie quasi una pagina. Ebbene, dopo averlo letto, possiamo metterlo da parte. Lì dentro non c’è il fatto per cui l’imputato è stato condannato. Quell’imputazione è un fiore artificiale in un vaso senza acqua. Ma non ci doveva essere una pronuncia di assoluzione per quelle imputazioni dal momento che era emerso (in base all’attività integrativa) un fatto nuovo ? In questo processo la cosa più difficile è trovare l’imputazione. Bisogna andarsela a cercare nelle pagine del processo. Estrarla da una mezza frase, da un verbo, da un sostantivo. E’ un processo ad imputazione diffusa. Le cripto-imputazioni, le imputazioni implicite, le imputazioni vaghe sono state poste al bando dal giusto processo. Se c’è un imputato, ci deve essere un’imputazione. Qui abbiamo un imputato, un reato. Ma non un’imputazione. O meglio, un’imputazione liquida. Per una condanna solida.

Un cambio di prospettiva: dalla violazione dei diritti di difesa al vizio di motivazione. Probabilmente la giurisprudenza CEDU è ancora un futuribile giuridico, a fronte di una granitica giurisprudenza nazionale che ammette una contestazione mediante prove e non mediante testo linguistico. Ma qui si intende proporre una diversa prospettiva: l’esiziale effetto che la mancanza di una formale imputazione ha sulla motivazione della sentenza. In altri termini, la mancanza di imputazione va vista non sotto il profilo della violazione del diritto di difesa, bensì sotto quello del vizio di motivazione. Perchè senza le parole precise dell’imputazione l’accusa diventa fluida, sfuggente. Si altera l’ordine logico del processo, riflesso nella struttura della sentenza: imputazione-motivazione-decisione. Qui dalla motivazione si ricava l’imputazione. Ma come si può ritenere valida una motivazione se manca il parametro di riferimento dell’imputazione ? Si sovrappongono i piani della descrizione del fatto e della argomentazione sulle prove del fatto. Si motiva dando per scontato un fatto e si trae il fatto da spezzoni di frasi, da un verbo, da un sostantivo. La motivazione diventa assertoria, non indica -non dico le prove- ma neppure i fatti, sovrappone i piani della condotta, dell’evento e del dolo, copre i vuoti logici con slittamenti semantici. E’ quello che è avvenuto.

Alla ricerca della imputazione. Il paradosso di un concorrente esterno che dà il suo contributo in una vicenda estorsiva, ma non concorre nell’estorsione. Qui abbiamo pacificamente un’estorsione continuata. Il contributo dell’imputato (concorrente esterno) è un contributo al realizzarsi dell’evento estorsivo perché si inserisce nei momenti cruciali della trattativa tra vittima ed estorsori. Il risultato è che l’imputato risponde di concorso esterno ma non di estorsione ! Si potrà dire: è un affare del Pm il fatto di non aver contestato l’estorsione. Ma non è evidentemente questo il punto. Il problema non è di diritto processuale, ma di diritto sostanziale. Si tratta di definire la condotta del concorrente esterno. Il quesito giuridico è il seguente: “se il contributo del concorrente esterno consiste (come in questo caso) nel portare a buon fine una estorsione, la sua condotta deve avere i caratteri del concorso all’estorsione o deve avere un quid pluris o un quid minus ?”. L’imputato partecipa ad un’estorsione, ma la sentenza non si pone il problema se la condotta dell’imputato deve avere i caratteri tipici di colui che concorre nell’estorsione. Ma se in sentenza non si parla di estorsione, dovremmo giungere a questo: la condotta dell’imputato si inserisce in una estorsione ma è un quid minus rispetto al concorso in estorsione. Questo quid minus non è tale da integrare l’estorsione, ma è tale da integrare il concorso esterno…

Ora. Come si sa, il semplice fatto di concorrere in un reato-fine non è di per sé sufficiente ad integrare il concorso esterno. Perfino partecipare ad un omicidio (a meno che non sia di quelli c.d. strategici) non basta per il concorso esterno. La sentenza avrebbe dovuto seguire il seguente protocollo logico: a) l’imputato ha concorso nell’estorsione; b) trattandosi di un’estorsione strategica continuata per molti anni, possiamo argomentare che il concorso nel reato-fine è condotta di concorso esterno. La sentenza ignora clamorosamente il problema. Questo dimostra quanto andavamo dicendo a proposito di mancanza di una formulazione dettagliata dell’imputazione. Dobbiamo ritenere che l’imputato ha posto in essere una condotta che è un quid minus rispetto all’estorsione ma è sufficiente ad integrare il concorso esterno. Ma è logicamente e giuridicamente possibile ? Se la Mannino (metodicamente ignorata dalla sentenza) ci dice che il contributo del concorrente esterno deve essere concreto, effettivo e rilevante, il quesito giuridico è: “come è possibile un contributo concreto effettivo e rilevante ad una estorsione, che però sia qualcosa di meno del concorso in estorsione ?”. La sentenza impugnata non si è posto l’interrogativo.

Ma trattandosi di una questione di diritto sostanziale, la Corte deve porselo. Anche di ufficio (arg. ex art. 129 cpp.).

La fondamentale distinzione delle condotte di concorso esterno: concorso consistito in attività illecita o in attività lecita. Il concorso esterno può consistere in un’attività illecita o in un’attività lecita. Concorrente esterno può essere colui che compie un omicidio o un’estorsione per conto dell’associazione. E può essere il medico che sistematicamente cura in clandestinità i latitanti di mafia. Sotto il profilo della contestazione le cose cambiano. Se la condotta del concorrente esterno consiste nella commissione di un reato-fine o di un reato strumentale all’associazione, la tipizzazione della condotta del concorrente esterno è definita dal reato compiuto (per esempio, omicidio o estorsione). Qui il deficit di tipicità è ridotto. Il deficit di tipicità è massimo invece dove la condotta del concorrente esterno consiste in un’attività lecita. Infatti, l’illecito penale è tipizzato. Il lecito no. Nel caso in esame cosa abbiamo ? Pacificamente la condotta dell’imputato si iscrive in una vicenda estorsiva. Quindi si sarebbe dovuto applicare un protocollo logico lineare e usuale in situazioni del genere: contestare estorsione e concorso esterno. Il contributo del concorrente esterno è la sua partecipazione all’estorsione. Dal reato-fine dell’estorsione si passa poi al concorso esterno.

Si sarebbero ottenuti due risultati: a) tipizzare il contributo del concorrente esterno; b) adeguare l’imputazione al fatto e la pena alla gravità delle imputazioni. Il rischio era che se cadeva la partecipazione all’estorsione cadeva tutto. Si è seguita una diversa strada: a) non si è contestata la partecipazione all’estorsione; b) si è contestato in fatto il concorso esterno. Si è passati così da un’imputazione che poteva essere ben determinata (l’estorsione ha profili scolpiti) ad un’imputazione indeterminata. Il risultato è questo: nel primo caso l’imputato doveva difendersi da due accuse determinate, ora si difende da una sola accusa. Ma indeterminata. L’indeterminatezza dell’accusa non giova alla difesa. E’ vero che se gli va male, prende una condanna minore. Ma il rischio che gli vada male è enormemente aumentato. 5. E’ ammissibile la contestazione in fatto del concorso esterno in associazione mafiosa? La sentenza dice per rispondere ad una eccezione della difesa: c’è la contestazione in fatto. Ed ha ragione. Ma fino ad un certo punto. La giurisprudenza della Corte EDU impone una profonda revisione della giurisprudenza corrente. La Convenzione europea ci dice che l’accusa deve essere dettagliata. Dettagliata non vuol dire che è sufficiente che io contesti all’imputato cosa hanno detto i pentiti. Sarebbe come dire: “io ti contesto le prove, tu difesa trai da tutte le informazioni probatorie i possibili fatti che ti possono venire ascritti”. Non si può sub-delegare al pentito di formulare l’accusa. Nè è l’imputato che deve estrarre dai fatti l’accusa. Per poi sapere -solo al momento in cui è condannato- ciò di cui è accusato. implica una riformulazione linguistica dell’imputazione. Non è formalismo ma sostanza: se il fatto è un omicidio, l’imputazione è per così dire, in re ipsa. Ma se il fatto è il concorso esterno le cose cambiano drammaticamente.  Rilievo importante: la giurisprudenza in materia di contestazioni in fatto ha sempre riguardato fattispecie tradizionali, cioè ad alto tasso di tipicità. Fattispecie ben strutturate: come ricettazione e falso, appropriazione indebita e truffa e così via. Cioè sono tutti casi in cui l’emersione del fatto dalle contestazioni avveniva -per così dire- per forza di inerzia. Ma qui siamo in presenza di una fattispecie intrinsecamente vaga. L’imputazione è la proiezione processuale del principio di tipicità penale. Già il concorso esterno è ferocemente contestato in dottrina e giurisprudenza sotto il profilo della sua tipicità sfuggente. Tre SS.UU. hanno cercato di tipizzarlo. Ammettere una contestazione in fatto significa platealmente aggirare il principio di tipicità. Cioè la principale conquista dell’illuminismo giuridico. Dunque, ci deve essere un atto (esame o altro) in cui l’accusa mi dica dettagliatamente e in forma chiara e precisa la condotta criminosa che avrei commesso.

Rimettere la questione nelle mani delle SS.UU. Non credo che risultino precedenti della contestazione in fatto di un’accusa di concorso esterno. Aggiungerebbe oscurità ad un reato già di per sé oscuro. Saremmo ad una doppia indeterminatezza: l’indeterminatezza del reato e l’indeterminatezza della contestazione in fatto. Nel corso degli anni sono intervenute tre volte le SS.UU. per cercare di dare determinatezza alla fattispecie del concorso esterno. Il problema era restringere l’area del concorso esterno riportandolo nei confini della tipicità. Con la teoria della fibrillazione si è tentato di porre un freno. Il secondo intervento delle SS.UU. è stato sul versante del dolo. Il terzo intervento (la Mannino) ha operato sul versante della causalità. E’ tutto inutile se si aggirano i limiti posti da queste tre sentenze operando sul piano semantico della formulazione della fattispecie. La vicenda è nota. L’aggiramento della tipicità può avvenire usando termini vaghi (la famosa o famigerata disponibilità, per esempio). La Mannino si è resa conto di questa insidia e ha bollato con termini aspri -ha parlato testualmente di “vaghezza semantica e retorica”- la formulazione dell’imputazione in termini vaghi. E’ proprio questo spunto importante della Mannino che autorizza ed anzi impone di rimettere alle Sezioni Unite un quesito che riguarda un pericolo ancora maggiore rispetto alla vaghezza dell’imputazione: la contestazione in fatto. La questione è di straordinaria importanza e farebbe davvero fare alla giurisprudenza un balzo in avanti sulla strada della civiltà giuridica e potrebbe completare il ciclo degli interventi delle SS.UU. su questa tormentata e dolorosa fattispecie, evitando le più insidiose forme elusive della tipicità penale e quindi dei diritti dell’imputato a difendersi da un’accusa definita. Si è rimessa alle SS.UU. il quesito se la formula “indisponibilità degli impianti” fosse rispettosa delle prescrizioni dell’art. 268 cpp. Dunque, un problema linguistico. Qui la posta in palio è enormemente superiore. E le conseguenze di enorme portata. Va aggiunta un’ulteriore fondamentale considerazione: la contestazione in fatto di una fattispecie sfuggente come il concorso esterno imporrebbe alla Cassazione di ricostruire dagli atti e dalle prove l’imputazione, prima di procedere alla soluzione della quaestio iuris: cioè della qualificazione normativa del fatto. Cioè, la Cassazione prima dovrebbe cercare di estrarre l’imputazione dalle contestazioni in fatto e poi stabilire se l’imputazione così ricostruita corrisponde alla fattispecie astratta di reato. La prima operazione esorbiterebbe dai poteri cognitivi tradizionalmente fissati al giudizio di questa Corte. Dunque chiedo che vengano investite le SS.UU. dei seguenti quesiti: “a) se ai fini della validità della c.d. contestazione in fatto è sufficiente la contestazione all’imputato delle fonti di prova e degli elementi di prova o se si richieda comunque la formulazione dell’accusa in un atto comunicatoall’imputato; b) se, alla luce dei principi costituzionali e della giurisprudenza convenzionale, possa ritenersi valida la contestazione in fatto dell’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, trattandosi di fattispecie già intrinsecamente caratterizzata da un deficit di tipicità”. Si dirà: ma il quesito è stato da sempre risolto dalla giurisprudenza nel senso che la contestazione è valida se non è leso il diritto di difesa. Ma il quesito è diverso.

Non confondiamo due problemi: a) il problema della contestazione; b) il problema della correlazione tra accusa e sentenza. Prima occorre accertare che vi sia stata una contestazione. E poi vedere se c’è correlazione. Se nell’imputazione mi contesti la partecipazione ad associazione e poi nel corso del processo mi contesti il concorso esterno, descrivendomi la condotta incriminata, allora si porrà un problema di correlazione tra accusa e sentenza (pacificamente risolto dalla giurisprudenza nel senso della correlazione. Ma qui si contesta formalmente il concorso esterno, indicando determinati comportamenti. Poi si ignorano completamente questi comportamenti e mi si condanna -senza alcuna contestazione- per il medesimo titolo di reato, ma per un fatto completamente diverso. Prima ancora di un problema di correlazione, si pone un problema di contestazione. Distinguendo i due problemi, si può allora affrontare correttamente il problema della violazione del diritto di difesa. Si dice: il diritto di difesa è salvo se all’imputato vengono contestate tutte le prove a carico. E’ evidente l’errore di prospettiva: si fa coincidere la salvaguardia del diritto di difesa con il fatto stesso che ti vengono contestati i fatti. Così si identificano due problemi che vanno scissi: a) innanzitutto ci deve essere una contestazione in fatto; b) una volta che si è accertata questa contestazione in fatto, bisogna accertare che questo modo di contestazione non abbia leso il diritto di difesa. L’accertamento in concreto della violazione del diritto di difesa non può esaurirsi tautologicamente nel fatto che ti sono stati contestati tutti gli elementi del fatto. Altrimenti sarebbe sempre e comunque ammessa la contestazione in fatto perché essa sarebbe in re ipsa non lesiva dei diritti di difesa. Al contrario, se dalla contestazione in fatto la difesa non riesce a trarre un’accusa dettagliata, chiara e precisa-come in questo caso- la lesività sarebbe evidente.  E comunque - sempre secondo la giurisprudenza costante - il mancato pregiudizio del diritto di difesa va accertato in concreto, cioè caso per caso. Non può essere presunto. E questo accertamento nel caso concreto non è stato fatto. Il quesito allora è fondamentale, perché nel caso di contestazione in fatto di una fattispecie intrinsecamente vaga, la lesività sarebbe in re ipsa.

Quale è il contributo dato da concorrente esterno all’associazione mafiosa? Poiché non abbiamo un’imputazione, siamo per forza costretti ad elaborare molteplici teorie del caso, cercando di trovare quella più adeguata al fatto e conforme a diritto. Ma è un’operazione che non competerebbe alla Cassazione. Doveva essere fatta nei gradi precedenti.

La teoria dell’arricchimento dell’associazione mafiosa mediante le prestazioni di denaro estorto? E' chiaro che la mafia ha ricevuto per anni un contributo rilevante e si è rafforzata. Ma non possiamo dire che la condotta del concorrente esterno è consistita nel dare soldi alla mafia. I soldi alla mafia li ha dati la vittima. Ogni vittima di estorsione mafiosa contribuisce -pagando- al rafforzamento dell'associazione. Perchè la vittima non è allora concorrente esterno ? Perchè è appunto vittima. Allora non possiamo dire che il contributo dell’imputato è consistito nel dare soldi alla mafia. Avremmo il paradosso che condotta della vittima e condotta dell’imputato coinciderebbero. Occorrerebbe quindi dimostrare che l’imputato ha dato un contributo diverso da quello dato dalla vittima.

La teoria dell’istigazione o agevolazione? Va rilevata una improprietà semantica della sentenza. A pag. 319 si addebita all’imputato di aver indotto l’amico-vittima a soddisfare le pressanti richieste estorsive di cosa nostra: “..inducendo l’amico..”. Ora, il diritto è tecnica e la parola “induzione” ha una lunga tradizione alle spalle. Indurre la vittima a pagare significa che la vittima era in dubbio se pagare o no e l’imputato l’ha spinta a superare il dubbio e a decidersi a pagare. Su questo punto convergono due vizi della sentenza: a) la contraddittorietà logica (coesistenza di affermazioni incompatibili): alla stessa pag. 319 dove si dice:”…l’imprenditore Berlusconi, disposto a pagare pur di stare tranquillo..”. Come può l’imputato avere indotto la vittima, quando questa era già disposta a pagare ? b) travisamento del fatto. Qui non siamo nel travisamento della prova (una prova c’è e la interpreto male). Qui siamo proprio nel travisamento del fatto (asserisco l’esistenza di un fatto che dagli atti non risulta). Di induzione nessun pentito ha mai parlato. La sentenza fa un’affermazione ma non motiva. Non esiste né prova logica, né prova storica. Inutile dire che non è questione di merito. Una questione di merito (per chi ancora crede alla distinzione legittimità-merito) si potrebbe porre rispetto al vizio di motivazione. Ma non rispetto alla mancanza di motivazione. Ecco qui un esempio clamoroso di come un’imputazione indefinita danneggi la difesa. Mettiamo che l’accusa fosse stata consolidata in un’espressione del l tipo “condotta di concorso esterno consistita nell’avere indotto la vittima a cedere alle richieste estorsive..”. La difesa poteva limitarsi a dire: “questa è l’accusa ? Bene, dammi le prove”. E il processo era finito.

La teoria del garante o – meglio - dell’affidamento della mafia sulla collaborazione dell’imputato? A pagina 317 la sentenza palesa una variante linguistica (quando un’imputazione è vaga, sono le parole che ti condannano). Si usa questa espressione a carico dell’imputato ”..adoperandosi affinchè il gruppo imprenditoriale.. pagasse cospicue somme di denaro alla mafia”. Adoperandosi ? Cosa significa ? Mancando una descrizione della condotta, la sentenza avrebbe dovuto dirci in cosa concretamente sarebbe consistito questo adoperarsi. Ancora la Mannino ci dice che il contributo deve essere concreto ed effettivo. Qualificare il contributo come concreto ed effettivo è quaestio iuris (è qualificazione normativa del fatto). Ma come facciamo a dire che il contributo è stato concreto ed effettivo se non sappiamo in cosa è consistito l’adoperarsi ? Avanziamo un’ipotesi: che senza l’adoperarsi dell’imputato, la vittima non avrebbe pagato ? Cioè l’imputato avrebbe garantito l’esito sicuramente positivo dell’accoglimento delle richieste estorsive ? Nessuno ha mai detto questo. Né la sentenza ci indica qualcuno che l’abbia detto. E’ ben possibile che la mafia facesse affidamento sulla disponibilità (chiamiamola collaborazione) dell’imputato. Siamo alla teoria dell’affidamento. Quali fossero i calcoli della mafia è irrilevante. Bisogna stabilire quali garanzie avrebbe dato l’imputato alla mafia. E’ un salto logico dedurre dal possibile affidamento della mafia l’esistenza di una garanzia data dall’imputato. La motivazione della sentenza è un’asserzione senza argomentazione. Forse perché è difficile sfuggire al dubbio che la forza persuasiva dell’estorsione sia consistita - più che nelle parole dell’imputato - nelle bombe della mafia.

La teoria della riduzione del rischio mafioso? A pag. 320 troviamo un’altra variante. L’apporto dell’imputato alla mafia sarebbe consistito nel fatto che la mafia poteva avere un canale sicuro di collegamento con la vittima, senza il rischio di possibili denunce e interventi delle forze dell’ordine. Affermazione dal senso logico sfuggente. Il collegamento può essere lecito o illecito a seconda della direzione. Se io -per conto dei familiari del sequestrato- mi metto in contatto con i sequestratori per trattare la liberazione dell’ostaggio, sono nel lecito. Se io -per conto dei sequestratori- comunico alla famiglia del sequestrato- le richieste estorsive, sono nell’illecito. Nel nostro caso il collegamento sarebbe illecito se le richieste estorsive fossero state iniziative della mafia che si è servita dell’imputato per inviare messaggi estorsivi alla vittima ed indurla a pagare senza fare tante storie e denunce. Ma dagli atti emerge la prova del contrario. Fu la vittima servirsi dell’imputato per contattare la mafia e trovare un gentlemen’s agreement. Quindi la presenza dell’imputato non ha ridotto il rischio dell’impresa mafiosa. A meno che non vogliamo pensare che la mafia abbia scelto come bersaglio quella vittima confidando proprio sul fatto che braccio destro della vittima fosse l’imputato. Ma Galileo diceva: “ hypothesis non fingo”. Non costruisco ipotesi. Meno che mai possiamo farlo noi.

La teoria del canale di collegamento o tramite tra mafia e imprenditore famoso? La giurisprudenza della Mannino ha fatto giustizia dei termini vaghi (disponibilità, frequentazioni e simili). Canale di collegamento,tramite sono metafore. La tipicità dell’imputazione richiede condotte concrete (la CEDU parla di accusa dettagliata) Cosa ha fatto in concreto l’imputato, dove quando e come ? Dimmi prima cosa ho fatto e poi vediamo se la mia condotta può essere qualificata come tramite, canale, tunnel e simili. Le metafore non possono sostituire la condotta. Non si condanna sulle parole, ma sui fatti.

La teoria del prestigio interno di Bontate per effetto del canale Dell’Utri: cioè il rafforzamento interno? Anche qui la Mannino ostruisce ogni percorso. Ma c’è di più. Cioè non c’è nulla. Manca la prova che ci fosse questa circolazione interna della notizia dell’esistenza di un canale di collegamento costituito dall’imputato. Eppoi, qualcuno potrebbe ironizzare: si è tanto rafforzato Bontate che dopo qualche anno è stato ammazzato. Si è tanto rafforzato come prestigio interno Riina che il capo dei capi fino all’85 neppure sapeva che l’imprenditore era estorto.

La teoria del mediatore? L’imputato viene qualificato mediatore dalla sentenza. Le metafore sono pericolose, bisogna sceglierle con cura. Occorrerebbe prima descrivere cosa ha fatto l’imputato e poi qualificare la sua condotta come mediazione. Ma perché mediatore e non -per rimanere nella metafora civilistica- mandatario con procura per conto della vittima ? Questa idea della mediazione è paradossale. Si è mai visto che in un’ estorsione (per di più mafiosa) c’è una mediazione tra autore e vittima ? Che estorsione è ? La mediazione implica parti contrapposte in posizione di autonomia negoziale che contrattano. Sarebbe una singolarità strepitosa che la mafia abbia bisogno di un mediatore. Un mediatore che strappi un pizzo maggiore ? Se un mediatore c’è, è per conto della vittima. Criminologicamente è la vittima di un’estorsione o di un sequestro di persona che cerca una mediazione per spuntare un prezzo migliore e condizioni di pagamento -rateali- migliori. Anche qui c’è travisamento del fatto e mancanza di motivazione. L’imputato non fu scelto dalla mafia, ma dalla vittima come mediatore. Dunque, la sentenza ha affermato un fatto che non esiste. Ma c’è anche mancanza di motivazione: perché mediatore e non nuncius della vittima ? La sentenza avrebbe dovuto rispondere a questo interrogativo: pacificamente il mero nuncius della vittima non è concorrente esterno. Ora che c'è nella condotta dell'imputato di più rispetto a quella del nuncius ? Che conosceva due mafiosi ? Ma questo la vittima lo sapeva e anzi ha scelto l’imputato proprio per questo. In altri termini cosa avrebbe dovuto fare l'imputato per aiutare la vittima senza diventare concorrente esterno? Per usare un paradosso: essendo un mediatore in-civile, doveva essere ricusato dalla vittima. O doveva astenersi. Addebitiamo all’imputato l’omessa astensione ? Dunque, il quid pluris è dato dal fatto che l'imputato conosceva , era amico ed è rimasto amico di due mafiosi. Si badi: di due mafiosi che non hanno fruito dei profitti dell'estorsione (che andavano a Riina) e che sono stati solo tramiti tra l'imputato e la mafia ricattante. Il quid pluris è dunque l'amicizia mafiosa.

Un esperimento mentale. La giurisprudenza (dalla Franzese alla Mannino) ci ha abituati ormai a ragionare in termini controfattuali. Ora applichiamo il controfattuale e facciamo il caso che l’imputato non fosse amico dei mafiosi. Nessuno lo condannerebbe. La sua condotta sarebbe lecita, perché a favore della vittima. Ma allora quale è questo misterioso sortilegio per cui la medesima condotta passa subitaneamente dal lecito all’illecito? L’amicizia mafiosa. Ma la storica Mannino (e in quel caso le amicizie mafiose dell’imputato erano molto più intense e vaste) ha con parole aspre confinato nell’irrilevante giuridico le frequentazioni mafiose. Al massimo, possono costituire uno spunto investigativo.

Il dolo. Ovvero il paradosso del dolo diviso. Monotonamente, va citata ancora la Mannino. La Mannino ci dice: il concorrente esterno sa e vuole il rafforzamento dell’associazione criminosa. Occorre il dolo diretto, non basta il dolo eventuale. Dunque, occorre dimostrare che non solo l’imputato sapeva che la sua condotta (quale condotta?) avrebbe potuto rafforzare la mafia, ma ha agito volendo rafforzare la mafia. (Anzi, ad intendere bene la Mannino il concorrente esterno agirebbe con un doppio dolo: dolo diretto rispetto all’evento-rafforzamento dell’associazione mafiosa, dolo specifico rispetto all’evento ulteriore dato dalla realizzazione almeno in parte del programma criminoso). Quindi, non basta dire: “l’imputato sapeva che così facendo rafforzava la mafia”. Occorre dire: “l’imputato ha agito sapendo e volendo rafforzare la mafia”. Qui non si tratta semplicemente di prevedere ed accettare il rafforzamento della mafia: questo è automatico in ogni fattispecie estorsiva. Qui si tratta di volere il rafforzamento della mafia e di agire a tal fine (siamo nel dolo intenzionale del rafforzamento). Nel caso dell’imputato dove è la prova del dolo ? Mi correggo: dove è la motivazione relativa all’esistenza del dolo. Se l’imputato ha agito con l’intenzione di aiutare la vittima, sapendo così di aiutare la mafia: siamo fuori del dolo. Occorre dimostrare che l’imputato ha agito volendo aiutare la mafia. Ma qui abbiamo un altro paradosso. L’imputato agisce con un dolo diviso a metà. Vuole aiutare al tempo stesso la vittima e gli estorsori. Ma come è possibile ? Nel momento in cui vuoi aiutare la mafia, non vuoi danneggiare la vittima ? La sentenza valorizza l’amicizia dell’imputato con i mafiosi (che -oltretutto- non sono beneficiari dei profitti dell’estorsione). Qui c’è un doppio errore. Il primo errore: il dolo non è un atteggiamento interiore del tipo desiderio, speranza e simili. Il dolo è conoscenza e volontà che filtra nell’azione e la irrora come un vaso sanguigno. In altri termini, l’azione dolosa è diversa dall’azione senza dolo. Se io mi limito a portare i soldi del riscatto ai sequestratori per conto dei familiari della vittima, posso anche odiare il sequestrato e fare il tifo per i sequestratori. Ma questo non sposta di un millimetro il fatto che non sono un complice. Il secondo errore: diamo pure rilevanza all’amicizia. La cosa potrebbe pure funzionare: se ci fosse solo quell’amicizia.

Ma l’imputato -nessuno lo nega- è legato fortemente alla vittima. Ora perché privilegiare l’amicizia per i mafiosi non beneficiari e non l’amicizia per la vittima ? E’ chiaro che la posizione della vittima e quella della mafia estorcente sono l'una contro l'altra. Qui si tratta di parteggiare per la vittima o per la mafia. Ma lasciamo da parte i sentimenti e consideriamo l’homo oeconomicus. A lui giovava di più aiutare la vittima o la mafia ? E’ razionale che l’imputato - amico e collaboratore della vittima da cui veniva pagato - preferisca favorire la mafia contro B. ? Voleva ingraziarsi la mafia ? E allora come mai, quando si è trattato di fondare un nuovo partito proprio in Sicilia non ha chiesto i servigi della mafia ? E prima ancora: come mai l'imputato (questo è un fatto incontroverso) si è più volte lamentato che la vittima era tartassata, tanto che è dovuto intervenire Riina ? E come mai Riina ha dovuto riprendere a fare minacce e attentati alle aziende della vittima per indurla a pagare ed anzi ha raddoppiato il prezzo ? La sentenza - con la solita metodica delle asserzioni non argomentate - dice (pag. 320): ”..la cordialità di rapporti delineando una vera e propria complicità assoluta…perché sarebbe altrimenti inspiegabile perché chi è amico della vittima continui a tenere una tale cordialità di rapporti. . tali da non disdegnare pranzi e riunioni conviviali con gli estortori..” Dunque, le famose frequentazioni nella storia del concorso esterno hanno avuto una vicenda tormentata. Prima erano la condotta del concorrente esterno. Dopo sono diventate la prova del contributo causale (frequentazione=disponibilità). Ora sono diventate la prova del dolo…

Ma è la logicità dell’argomento che traballa, prima ancora che la sua giuridicità. Innanzitutto, va ripetuto: Mangano e Cinà non hanno preso un soldo e non sono stati loro a fare materialmente le estorsioni. Erano il canale (per usare l’abusata metafora) di cui l’imputato si serviva per trattare con i Capi. Ma analizziamo l’argomento logico della sentenza. Esso si sostanzia nel seguente criterio di inferenza: “se tu sei amico della vittima tronchi ogni rapporto con gli estorsori e con i loro emissari, altrimenti sei complice”. Basta mettere in forma linguistica il criterio di inferenza per vedere quanto sia implausibile. E perché non dovrebbe essere più razionale il criterio di inferenza opposto: “la vittima e gli amici della vittima cercano di conservare buoni rapporti con gli estorsori perché in questo modo sperano di poter strappare condizioni migliori o comunque di non peggiorare la situazione ? 10. Un po’ di curiosità per i precedenti giurisprudenziali. In effetti, non guasterebbe citare un po’ di giurisprudenza, dal momento che il concorso esterno è di fatto una creazione giurisprudenziale. Un precedente recente potrebbe essere questo: Sez. F, Sentenza n.38236del 03/09/2004 Cc. (dep. 28/09/2004 ) Rv. 229649 Ai fini della configurabilità dei reati di favoreggiamento personale e reale occorre, sotto il profilo soggettivo, che la condotta favoreggiatrice sia stata posta in essere ad esclusivo vantaggio del soggetto favorito, per cui i suddetti reati restano esclusi qualora l'agente abbia avuto di mira il conseguimento di interessi propri. (Principio affermato, nella specie, con riguardo alla condotta tenuta da un imprenditore il quale, pur avendo assunto, secondo l'accusa, un ruolo di cerniera tra la criminalità organizzata locale e le imprese disposte a venire a patti con la medesima, aveva tuttavia agito essenzialmente al fine di assicurare la tranquillità delle imprese che a lui facevano capo).  La condotta dell’indagato (siamo in fase cautelare: si badi gip e riesame avevano ritenuto il favoreggiamento personale e non il concorso esterno)) viene così riassunta: “la figura di imprenditore camorrista dello Iovino, che non si sarebbe limitato a subire la pressione dei clan camorristici della zona (attestata dall'estorsione subita nel cantiere della ditta da lui gestita) ma avrebbe assunto il ruolo di cerniera tra la criminalità organizzata locale e le imprese disposte a venire a patto con la camorra, attivandosi per raccogliere nell'ambito degli imprenditori che stavano effettuando lavori nella zona di Sarno, a seguito della nota alluvione del 1998, una maxi tangente collettiva di L. 80.000.000, così rendendo più difficili le investigazioni sulle associazioni camorristiche, delle quali avrebbe favorito la mimetizzazione attraverso la sua interposizione nella riscossione della somma ed aiutando i componenti dei clan mafiosi ad assicurarsi il profitto del reato di associazione”. Ora, anche l’imputato di questo processo è un imprenditore (amministratore delegato di una fondamentale società del gruppo societario della vittima), che sarebbe una cerniera tra la vittima (amministratore della holding del gruppo) e la mafia. Dove è l’iniziativa personale, dove è il profitto personale ? La sentenza non se lo pone neppure il problema. Dunque, mancanza di motivazione su un punto decisivo. La sentenza nelle poche pagini cruciali in cui tratta del concorso esterno dell’imputato non cita neppure una -ripeto una-sentenza. Eppure il concorso esterno ha vissuto stagioni climatiche estreme nella giurisprudenza. Si potevano citare almeno le SS.UU. Mannino. criteri dell’ars disputandi: non fare citazioni imbarazzanti.

Ma in questo processo esiste il ragionevole dubbio? Abbiamo un’accusa non descritta. Un dolo diviso. Asserzioni non argomentate. Precedenti che non ci sono. Sentenza delle Sezioni Unite che c’è ma viene ignorata. Ma soprattutto nelle centinaia di pagine della sentenza c’è un’espressione che non compare mai. E che forse ha una qualche importanza: ragionevole dubbio.

Un problema di diritto: è ammissibile il concorso esterno in associazione semplice? La sentenza tratta la tematica come se si trattasse di una successione di condotte di partecipazione. E cita giurisprudenza pacifica sul punto. Ma qui si tratta di successione di condotte di concorso esterno. A meno che non si voglia sostenere che l’imputato prima dell’82 era un partecipe e dopo è diventato concorrente esterno ! Qualcuno dovrebbe spiegarci come sia avvenuta questa trasfigurazione… Qui la legge non si limita ad introdurre reati, cambia pure le condotte storiche. E allora si sarebbe dovuto affrontare un tema preliminare e cruciale: il concorso esterno -per come è stato configurato dalle sentenze delle SS.UU.- è ammissibile anche per il 416 cp. ? Gli effetti sarebbero devastanti.  Il 416 cp è una norma ancora in vigore.  

Un altro problema di diritto: il concorso esterno è un reato permanente? La sentenza parla di concorso esterno Ma poi quando va a discutere della permanenza o meno del reato, parla di partecipazione. E’ l’ennesimo effetto perverso dell’imputazione che non c’è. Come si sa, non sono la stessa cosaRitenere che la condotta del concorrente esterno (quale condotta ?) è permanente perché permanente è il reato associativo è affermazione che stride con la logica prima ancora che con il diritto. Perché porterebbe all’ennesimo paradosso: il partecipe può mettere fine alla permanenza recedendo dall’associazione, il concorrente esterno non potrebbe farlo. Dunque la sentenza commette vistosi errori di diritto. L’accusa è di concorso esterno. Si chiede quando è cessato il reato. La sentenza risponde: la partecipazione è reato permanente. Che risposta è ? Un quesito giuridico rimasto senza risposta. Essendo una quaestio iuris, deve farlo questa Suprema Corte. Dunque, il quesito è: il concorso esterno è reato permanente ? La risposta più ovvia dovrebbe essere questa: dipende dal tipo di contributo (può essere un contributo permanente, istantaneo, frazionato). E questo quesito si intreccia con un altro: se io a distanza di anni do due contributi rilevanti all’associazione, commetto un unico o più reati di concorso esterno in associazione mafiosa ? Come si vede, il concorso esterno ormai pone problematiche diverse da quelle dell’associazione mafiosa. Nato dall’art. 416 bis cp, ormai è un reato autonomo. Un reato autonomo creato dalla giurisprudenza. Che prima lo ha creato, usato e dilatato. E ora lo sta progressivamente restringendo fino a casi marginali. In cassazione sono ormai rare le condanne definitive per concorso esterno. Dall’entusiasmo allo scetticismo. Ormai non ci si crede più. Qui l’imputato partecipa alle trattative di un’estorsione e materialmente consegna periodicamente i soldi. E’ reato permanente ? Non direi proprio per molteplici ragioni. E’ reato unico a condotta frazionata ? Quindi è iniziato nel ‘77 e si è concluso nel ‘92 ? Sarebbe davvero singolare: non c’è dubbio che siamo in presenza di un’estorsione continuata. Per il concorrente esterno (che -in qualche modo rimasto indefinito- partecipa a questa estorsione) avremmo un reato unico ad esecuzione -per così dire- permanente. Il che è davvero difficile da costruire. Nel campo del lecito esistono contratti di durata. Ma nel campo dell’illecito no. Ogni volta che deve pagare la vittima può decidere di non farlo (ecco perché l’estorsione è continuata). Ma c’è di più: l’imputato per vari anni (dal ‘79 all’82-83) ha smesso di lavorare per la vittima ed è andato a lavorare altrove. Dobbiamo ritenere che anche in quegli anni è continuata la condotta di concorrente esterno ? Se è così, allora davvero l’imputato non ha scampo. Ma non ha scampo neppure il diritto.

Conclusione: annullamento con rinvio. Si sono trattate solo questioni di diritto, cioè di qualificazione normativa del fatto. In questo campo la Suprema Corte se trova che nessuna fattispecie concreta risponde alla fattispecie incriminatrice, ha una strada obbligata: l’art. 129 cpp. E questa sarebbe la soluzione se ci fosse una imputazione definita. Ma qui si affastellano una serie di ipotesi provvisorie sulla condotta criminosa. Si tratta di questioni miste di fatto e di diritto: la mancata descrizione del fatto impedisce alla Cassazione la qualificazione normativa del fatto. Per dirla con un’espressione elaborata da un secolo e mezzo dalla Cassation francese, siamo in presenza di un défaut de base légale. La scelta dell’ipotesi criminosa non compete alla Cassazione, ma appartiene alla sovranitè du juge du fond. Dunque, la soluzione conforme ai poteri cognitivi e decisori della nostra Cassazione sarebbe quella dell’annullamento con rinvio. Il giudice di rinvio avrebbe il compito di:

a) parametrare l’imputazione (precisando la condotta, il contributo materiale e il dolo);

b) chiarire se la condotta del concorrente esterno debba presentare o meno i requisiti del concorso in estorsione;

c) stabilire se si sia in presenza di un reato unico o di un reato continuato (anche ai fini di una eventuale, parziale prescrizione);

d) adeguare la motivazione all’imputazione così determinata, seguendo un ordine logico, senza sovrapposizione di piani tra condotta, effetto causale e dolo e –soprattutto - senza slittamenti semantici, espressioni vaghe volte a coprire un vuoto argomentativo.

L’annullamento con rinvio per vizio di motivazione non vuol dire che l’imputato è innocente. Vuol dire che la motivazione è viziata, non che la decisione sia sbagliata.

E’ un annullamento fatto non a favore dell’imputato. Ma a favore del diritto.

Roma, 9.3.2012 Il Sostituto Procuratore Generale Francesco Mauro Iacoviello

"La trattativa tra mafia e istituzioni dello Stato c'è stata, ma Forza Italia non c'entra con le stragi di Cosa Nostra del 1992 e del 1993". Lo dice, per la prima volta, la sentenza di un processo per mafia, quello a carico del boss del Brancaccio Francesco Tagliavia. Nelle motivazioni della sentenza di ergastolo emessa lo scorso 11 ottobre 2011 si sostiene che l'iniziativa di trattare coi vertici della criminalità organizzata fu assunta addirittura da rappresentanti delle istituzioni e non dai boss e che fu impostata, almeno inizialmente, sul principio del "do ut des". L'obiettivo che si prefiggeva, si legge nella sentenza, "era di trovare un terreno con Cosa nostra per far cessare la sequenza delle stragi" del '92 e del '93, dall'attentato di Capaci in cui morì il giudice Giovanni Falcone alla bomba di via dei Georgofili, a Firenze.

Dalla "disamina" delle dichiarazioni "di soggetti di così spiccato profilo istituzionale esce una quadro disarmante che proietta ampie zona d'ombra sull'azione dello Stato nella vicenda delle stragi", continua la sentenza del processo svoltosi a Firenze dove sono stati ascoltati come testimoni anche gli ex ministri Nicola Mancino e Giovanni Conso. "Ombre che questo processo non ha potuto dipanare". Non ha invece trovato consistenza, secondo i giudici, "l'ipotesi secondo cui la nuova entità politica (Forza Italia) si sarebbe addirittura posta come mandante o ispiratrice delle stragi". Tutto questo a pochi giorni dalla sentenza che fa ripartire da zero il processo d'Appello contro il senatore Pdl Marcello Dell'Utri in quanto la condanna a 7 anni non era sostenuta da prove reali e consistenti. Le motivazioni del Tribunale di Firenze, ora, danno un nuovo colpo alle tesi degli anti-Berlusconi che per anni hanno giocato la carta di presunti rapporti amichevoli, se non di collaborazione e sostegno, tra Cosa Nostra e il partito fondato dal Cavaliere di cui Dell'Utri era la lunga mano in Sicilia.

Se procure e giornalisti calpestano la giustizia dice  Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Dunque non si rispettano le sentenze. Una vera e propria associazione di magistrati, di medesimi orientamento e ideologia, con il concorso esterno di giornalisti che ne propagandano le idee, minaccia e sovverte le leggi e l’ordine dello Stato. A questo schema sovversivo mette il cappello Gian Carlo Caselli titolare di numerosi fallimenti, dopo ingiusti arresti, in processi per mafia. Caselli addirittura chiede un’azione disciplinare e una punizione da parte del Csm per il suo collega di Cassazione Francesco Iacoviello che ha riconosciuto violati i diritti di difesa di Dell’Utri e l’assenza di atti e fatti che si configurassero come reati. Ci stiamo avviando a un paradosso della giustizia. Da un lato magistrati di vasta esperienza dichiarano che «al concorso esterno non crede più nessuno»; dall’altro una serie di giornalisti infoiati gridano, come tifosi, a un gruppo di esecutori: «Ammazza! Ammazza!». Ovvero, dalli all’untore! Era infatti appena uscita la sentenza che riconosceva nei magistrati di Palermo un grave pregiudizio per non avere «rispettato neanche il principio del ragionevole dubbio», che subito il pm Domenico Gozzo (di cui ho personalmente verificato la insufficienza di inquirente) dichiara, incredibilmente: «Le indagini e due processi hanno fugato ogni dubbio». Di «prove autonome, documentali e testimoniali» parla anche Marco Travaglio affermando, contro la Cassazione, che «il processo dell’Utri è il più solido tra tutti quelli celebrati per concorso esterno per associazione mafiosa». Nell’atteggiamento della Procura di Palermo, e di alcuni giornalisti, si ha la sensazione che il processo debba essere fatto non per ricercare la verità, ma per attaccare, diffamare e infine condannare un nemico. Sono rimasto molto colpito dall’articolo di Attilio Bolzoni, colpevolista per tifo, ma incapace di fornire, sul piano giornalistico, indizi o elementi di prova alle sue considerazioni. Mi viene di rispondergli: ma perché uno deve essere colpevole per forza? Non si gioca con la vita e la libertà degli altri. La mafia non può essere riconosciuta in uno stato d’animo o in un contagio per cattive frequentazioni. Dopo aver definito il calvario di Dell’Utri, una delle più incredibili vicende del nostro paese, Bolzoni insiste ironicamente: «Dell’Utri aveva relazioni con uomini vicini alla Cupola, ma che importa, mica c’è la prova del suo “contributo” all’associazione criminale denominata Cosa Nostra...». Ma un’ulteriore aggravante, per Bolzoni, sono le origini siciliane di Dell’Utri: un peccato, evidentemente originale. Si è colpevoli del proprio destino, non dei propri atti. La tutela e il rispetto dei diritti, richiamati dalla Cassazione, sono «sofisticate acrobazie giuridiche». Ci si chiede: ma la mafia esiste ed esisterà sempre, in quanto realtà ontologica e psicologica, o esiste in quanto agisce, per ciò che fa? Il reato prevede il fatto, non il sospetto o l’atmosfera. Forse Bolzoni ha dimenticato il precetto di Gian Battista Vico: «Verum ipsum factum». Niente da fare. Per lui, come per alcuni suoi colleghi che scrivono sull’«Infetto», la sentenza della Cassazione e i principi giuridici sono carta straccia.

Filippo Facci su “Libero quotidiano”: Dell'Utri e il concorso esterno, quante balle su Falcone e Cosa Nostra. La polemica sulla giustizia: sul concorso esterno il giudice anti-mafia (Giovanni Falcone) procedeva con cautela. Oggi è strumentalizzato. Prendete questa frase di Sergio Lari, procuratore capo a Caltanissetta, a proposito della famigerata inchiesta sulla «trattativa»: «Non sono emersi elementi per dire che ci sono responsabilità di uomini politici... È sbagliato parlare di mandanti esterni, casomai si può parlare di concorso di soggetti esterni». Concorso, esterni: voilà, ecco servito un trait d’union con le polemiche sul processo Dell’Utri e relativo canaio sul «concorso esterno». Il quale va corretto, disciplinato, uniformato, tipizzato: balle. Va cancellato, perlomeno così com’è, anche perché come reato - è stato ripetuto ad nauseam - non esiste, è un’invenzione giurisprudenziale, ecco perché ha particolarmente senso che sia stato proprio un procuratore della Cassazione a farlo a pezzi: e chi altri? Del resto non è un caso che nel Nuovo Codice del 1989 non ce lo vollero: infatti il famigerato «concorso esterno in associazione mafiosa» è diventato la libera somma di due ipotesi di reato (il «concorso» previsto dall’art. 110 e l’«associazione mafiosa» prevista dall’art. 416 bis) ) a mezzo del quale la magistratura ha ritenuto di colmare una lacuna legislativa: col risultato, noto, di aver creato una configurazione molto generica le cui applicazioni sono continuamente reinventate e stilizzate dalle sentenze appunto della Cassazione, e questo ben fregandosene dei supposti «principi molto rigorosi» con cui le Sezioni unite della stessa Suprema Corte hanno cercato più volte di disciplinarlo. Questo mostriciattolo giuridico dovrebbe realizzarsi, in teoria, quando una persona pur non inserita in una struttura mafiosa svolga un’attività anche di semplice intermediazione che sia utile a questa struttura; le sezioni unite della Cassazione, il 5 ottobre 1994, dapprima la misero giù così: il concorso doveva riguardare «quei soggetti che, sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscano, sia pure mediante un solo intervento, un contributo all’ente delittuoso tale da consentire all’associazione di mantenersi in vita». Ergo, il concorrente esterno doveva aver manifestato una chiara volontà di partecipare all’associazione nella consapevolezza di concorrere a programmi criminali. Il semplice supporto (agevolazione, fiancheggiamento, compartecipazione in un singolo reato) perciò non poteva e doveva bastare. Poi ci fu la citata sentenza Mannino del 2005, quella che il pm Antonio Ingroia - secondo il procuratore della Cassazione - ha finto che non esistesse: si stabiliva che il «partecipe» fosse colui che risultasse inserito organicamente in un’associazione mafiosa, «da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status», ma con un «concreto, specifico, consapevole, volontario contributo». Detto malissimo, le ricostruzioni dei pm palermitani potrebbero anche essere vere - secondo lo scrivente lo sono in buona parte - ma non costituiscono reato, tutto qui. L’opposizione a questo non-reato è sempre stata trasversale da destra a sinistra. Un’opinione doc, per capirci, è sempre stata quella dell’attuale sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: da presidente della Commissione giustizia della Camera, anni addietro, fece una proposta di legge di un solo articolo «volta a superare l’equivocità giuridica sull’ipotesi definita “concorso esterno in associazione mafiosa”… una nuova figura di reato non prevista da alcuna norma di legge e in contrasto con il principio di tassatività della norma, che è uno dei cardini dello Stato di diritto». Questa norma inesistente, secondo Pisapia, determinava «la contestazione nei confronti di medici responsabili di aver curato persone ritenute partecipi a un’associazione mafiosa, di sacerdoti per aver prestato presenza spirituale alle medesime persone, e, addirittura, a vittime di estorsioni» (Camera, atto n. 854, 14 giugno 2001). Chissà che ne pensa, oggi, quella stessa sinistra che oggi fa finta di nulla. Del resto una sinistra garantista esiste ancora: l’abolizione del concorso esterno fu proposta nel 1996 anche dal diessino Pietro Folena: il quale, poi, malvoluto da Veltroni, lasciò i Ds nel 2005. Pisapia invece ebbe modo di riproporre l’abrogazione del concorso esterno dopo che ci avevano lavorato anche le commissioni Pagliaro, Grosso e Nordio: ma niente da fare. Il leitmotiv risuonò e risuonerà anche oggi: abolire quel «reato» significa fare il gioco della mafia. Per sostenere questo mostriciattolo impalpabile (che non esiste in nessun altro Paese del mondo, ovviamente) come al solito si scomoda impunemente Giovanni Falcone, continuamente. È vero, il 17 luglio 1987 c’era la sua firma in una delle prime sentenze che prefiguravano il concorso esterno in associazione mafiosa; nell’ordinanza del cosiddetto maxi-ter il giudice si pose effettivamente «il problema dell’ipotizzabilità del delitto di associazione mafiosa anche nei confronti di coloro che non sono uomini d’onore, sulla base delle regole disciplinanti il concorso di persone nel reato» (Tribunale di Palermo, Ufficio Istruzione, 1987, p. 429). Ma, nei fatti, Falcone non si sognò mai di contestare questo reato da solo, senza un corollario di altre e individuate ipotesi. Ecco perché, in un suo libro scritto con Marcelle Padovani, Falcone vedeva lungo anche sull’applicazione del 416bis: «Non sembra abbia apportato contributi decisivi nella lotta alla mafia. Anzi, vi è il pericolo che si privilegino discutibili strategie intese a valorizzare, ai fini di una condanna, elementi sufficienti solo per aprire un’inchiesta». Tanto che la definizione specifica del «reato», in mano ai presunti epigoni di Falcone, è diventata indefinibile, creta nelle mani del magistrato: è stato imbracciato per cercar di sanzionare ogni presunto e opinabile collaborazionismo della politica, dell’amministrazione, dell’imprenditoria, delle professioni, della stessa magistratura. E comunque questo continuo e vigliacco rifarsi a Falcone è stucchevole: le leggi non valgono per il proposito che si davano da principio, ma per l’applicazione che ne è stata fatta. Da altri, nel caso. Per dirla con Dante: «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?».

DIRITTO CERTO E UNIVERSALE. CONTRADDIZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE: CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA, UN REATO CHE ESISTE; ANZI NO!!.

Tre ore di camera di consiglio poi il verdetto: la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza d'appello di condanna a sette anni di reclusione per il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo di secondo grado dovrà essere rifatto a Palermo davanti ad altri giudici. La conclusione era già apparsa probabile durante l'udienza. Perché anche il sostituto procuratore generale presso la Cassazione Francesco Iacoviello aveva chiesto l'annullamento con rinvio o in alternativa che la vicenda fosse trattata dalle sezioni unite penali. Il procuratore Iacoviello ha parlato di «gravi lacune» giuridiche della sentenza d'appello per mancanza di motivazione e mancanza di specificazione della condotta contestata a Dell'Utri, che a suo avviso deve essere chiarita. Il pg inoltre ha voluto dare atto alla V sezione della Cassazione di essere di «grandissimo e indiscusso profilo professionale». Rispondendo in modo esplicito alle critiche di quanti avevano indicato il presidente Aldo Grassi come un fedelissimo di Corrado Carnevale detto «ammazzasentenze». «Nessun imputato deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell'Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio». Ha aggiunto Iacoviello nella sua requisitoria. E ancora a suo dire «l'accusa non viene descritta, il dolo non è provato, precedenti giurisprudenziali non ce ne sono e non viene mai citata la sentenza 'Mannino della Cassazione, che è un punto di riferimento imprescindibile in processi del genere». Per questo ha chiesto l'inammissibilità del ricorso della procura di Palermo che aveva chiesto addirittura un inasprimento della pena. «Il concorso esterno è ormai diventato un reato autonomo, un reato indefinito al quale, ormai, non ci crede più nessuno! - da detto inoltre Iacoviello rivolto ai giudici- Spetta a voi il compito di smentirmi».

Secondo Marco Ventura su “Panorama” In Italia non c’è Stato di diritto. Un Paese nel quale un cittadino accusato di un reato gravissimo come il concorso esterno in associazione mafiosa deve attendere 17 anni solo per sentirsi dire che il processo va rifatto, che bisogna ripartire da zero, è un Paese ingiusto, incivile, inaffidabile. Uno Stato incapace di garantire la giustizia in tempi ragionevoli appartiene alla fascia dei sistemi non democratici, quelli che finiscono a ragione nella lista nera della violazione dei diritti fondamentali. Nel girone del Terzo mondo. Un Paese che non sa dare garanzie alle vittime né agli imputati non può avere l’ambizione di figurare degnamente in Europa. Tempi della giustizia dilatati fino al paradosso attraversano la vita delle persone (siano vittime o presunti innocenti) devastandole e accompagnandole verso la depressione e la morte.

L’Italia è un Paese che non ha rispetto per se stesso: nega la giustizia alle vittime non riuscendo a riconoscere un colpevole e punirlo, ma anche agli imputati perché non garantisce in tutte le fasi il diritto alla difesa e il rispetto equilibrato delle regole. E non si dica che l’Italia è così garantista che alla fine la Cassazione ha tirato un colpo di spugna. Se ci sono voluti 17 anni per questo, la giustizia ha comunque fallito.

Oggi il presunto innocente si chiama Marcello Dell’Utri. Le indagini su di lui sono cominciate nel 1994. Nell’ottobre 1996 il rinvio a giudizio. L’11 dicembre 2004, sette anni dopo, la prima condanna. A 9 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici (per un parlamentare che ha dato un contributo fondamentale alla nascita del primo partito italiano). In appello la condanna viene confermata, ma gli anni di carcere ridotti a sette. E sette anni dopo la prima condanna, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione annulla con rinvio la sentenza d’appello. Tutto da rifare.

Il Procuratore generale dell’Alta Corte, Francesco Iacoviello (l’accusa, non la difesa), ha sostenuto che “nessun imputato deve avere più diritti degli altri, ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell’Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio”. E ancora: “Non si fanno così i processi, si devono descrivere i fatti in concreto”.

Argomentazioni accolte dalla sezione della Cassazione presieduta da Aldo Grassi. La difesa di Dell’Utri aveva indicato da parte sua ben 20 motivi di nullità del verdetto d’appello. Ma lo scandalo vero sono i tempi, soprattutto se valutati in proporzione a quello che agli occhi di molti appare come un vero e proprio accanimento. Che non produce, alla fine, condanne. Ma la loro cancellazione. La stessa economia italiana soffre oggi non tanto degli effetti dell’articolo 18, ma di quelli di una giustizia negata e davvero troppo lenta. Gli investitori non torneranno in Italia, se non potranno contare su un sistema giudiziario che abbia regole certe e tempi ragionevoli.

Una giustizia rapida ed efficiente è notoriamente uno dei pilastri della competitività. La sentenza di Dell’Utri prova una volta di più che l’Italia non è civile, né competitiva. E che l’amministrazione fallimentare della giustizia, indipendentemente da una singola sentenza, a fronte dello strapotere di un nucleo di intoccabili protetti dalla loro casta/corporazione, è la tragica cartina di tornasole di un Paese incapace di crescere. In giustizia, democrazia e forza economica.

Il resoconto di “Libero quotidiano”. Una storia lunga e complicata, dal 1994 al 2012. Sedici anni di accuse, di condanne, per poi scoprire che è tutto da rifare. E' il calvario giudiziario di Marcello Dell'Utri, bibliofilo, grande organizzatore politico, senatore Pdl e braccio destro di Silvio Berlusconi, di cui ha condiviso avventure e disavventure. E parallelamente al quale è passato dalle forche caudine della magistratura italiana. Il procuratore generale Iacoviello lo ha definito un "perseguitato" perché la condanna in Appello a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa non era supportata da prove concrete. La Cassazione lo ha confermato: l'Appello deve ripartire da zero. A Dell'Utri non è mai mancata l'autoironia. Lui stesso spiegava di essere "un politico per legittima difesa". Palermitano, del '41, Dell’Utri dal '61 è a Milano e lì conosce Berlusconi, del quale diventa via via sempre più stretto collaboratore. La transazione sulla tenuta e la presenza di Vittorio Mangano legano a Dell'Utri l'ormai famosa casa di Arcore, quartier generale di Berlusconi, e la figura dello 'stalliere' considerato vicino alla mafia. La vicenda esploderà più avanti. Prima, nell'82, è presidente e ad di Publitalia, la concessionaria di pubblicità Fininvest, gruppo del quale diventa ad nell'84. Nel '93 l'ingresso in politica, con la discesa in campo di Berlusconi, ed è per unanime riconoscimento che la mente organizzativa dell’operazione Forza Italia sia proprio Dell’Utri. Escogita per primo l'uso dei manifesti 6x3 che faranno la fortuna delle campagne elettorali del Cavaliere. L'esordio quando ancora Forza Italia non esiste e Tangentopoli infuria. "Fozza Itaia", dicono una serie di bambini con le mani alzate in segno di vittoria. E' l'annuncio della discesa in campo e del successo del 27 marzo 1994. Berlusconi se lo porta in parlamento e lo elogia in pubblico. Vicende parallele, quelle di Dell'Utri e Berlusconi. E, caso della sorte, nel giro di poche settimane entrambi sono usciti dall'incubo delle toghe. Prima Berlusconi prosciolto per prescrizione dall'accusa di corruzione al processo milanese incentrato sulla figura dell'avvocato inglese David Mills. Ora, in Sicilia, Dell'Utri e il suo diritto riconosciuto ad un processo più equo, con prove provate. Vince il garantismo, perdono i pm contro Berlusconi e i suoi uomini, anche a costo di ignorare l'evidenza.

Marcello Dell’Utri non è un mafioso. Lo sfogo de "Il Giornale". La sentenza di condanna a 7 anni di galera è annullata. Via a un nuovo processo. Perché tutto è sbagliato, e dunque, tutto è da rifare. Di fronte agli obbrobri investigativi e alle carenze processuali la Quinta sezione penale della Cassazione dispone un altro processo per il senatore del Pdl. Poco dopo le 20 del 9 marzo 2012 i giudici con l’ermellino annullano con rinvio la sentenza di due anni prima accogliendo il ricorso della difesa sull’onda di una clamorosa requisitoria del procuratore generale che ha fatto letteralmente a pezzi anni di antimafia col paraocchi, senza prove, con meno diritti agli imputati e più credibilità per i pentiti. Ai giacobini in servizio permanente effettivo era già venuto un colpo ascoltando, nel pomeriggio, le parole di Francesco Iacoviello, che no, non è il presidente della Corte Aldo Grassi, additato carinamente nei giorni scorsi come l’amico dell’ex giudice «ammazza-sentenze» Corrado Carnevale con in più qualche vecchio problemino giudiziario (poi superato). Il pg Iacoviello aveva spiazzato i presenti chiedendo un nuovo processo d’appello o in subordine che se ne occupasse la Cassazione a Sezioni riunite. Nel sollecitarlo definiva inammissibile il ricorso della procura di Palermo (che chiedeva una pena maggiore rispetto ai 7 anni inflitti in appello) e a proposito della sentenza di condanna, oltre a gravissime lacune, evidenziava come apparisse poco motivata perché non precisava il «contributo specifico dato dal senatore al sistema mafioso». Per il procuratore Iacoviello, considerato una sorte di «faro giurisprudenziale» della Suprema Corte, il processo non solo non ha fornito uno straccio di prova sulla colpevolezza dell’imputato ma ha consacrato la violazione, palese, dei diritti di Dell’Utri: «Nessun imputato deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell’Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio». E questo è solo l’antipasto: «Al processo per concorso esterno - continua - l’accusa non viene descritta, il dolo non è provato, precedenti giurisprudenziali non ce ne sono e non viene mai citata la sentenza “Mannino” della Cassazione, che è un punto di riferimento imprescindibile in processi del genere» perché mette paletti certi alla contestazione del reato. Di più: «La sentenza impugnata - insiste il Pg - sostiene l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione semplice fino al 1982, poi parla di concorso esterno in associazione mafiosa fino al ’92. Nessuno ha mai sostenuto una tesi del genere, e voi, giudici della Corte, sareste i primi». E poi giù mazzate sul concorso esterno mafioso «che è diventato un reato autonomo in cui nessuno crede. Io ne faccio una questione non a favore dell’imputato, ma a favore del diritto». Descrivere il senatore siciliano come il «referente o il terminale politico della mafia», non significa nulla per Iacoviello: «Non si fanno così i processi, si devono descrivere i fatti in concreto». Sempre lui critica l’appiattimento delle toghe sulle dichiarazioni dei pentiti non corroborate da riscontri, e già che c’è se la prende col collaboratore Di Carlo a proposito del fantasmagorico incontro fra il boss Bontade e Berlusconi. Chiede inoltre alla Corte di mettere per sempre la parola fine a indagini basate su «referenti» e «terminali». Se alla sentenza su Dell’Utri «togliamo tutte le frequentazioni e le conoscenze, non rimane niente, e la Cassazione, con la sentenza Mannino ha detto che queste cose sono irrilevanti (...) Vi invito a rileggere la sentenza Mannino nella quale le frequentazioni di persone mafiose o contigue ai clan sono molte di più di quelle che ricorrono nella vicenda di Dell’Utri, e vi esorto a ricordare che le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno fatto piazza pulita dell’importanza attribuita dai giudici di merito a questi elementi». Alla lettura della sentenza esulta la difesa con gli avvocati Krogh, Federico e Di Peri che sin lì aveva parlato di «sentenze acrobatiche» su fatti mai commessi. La prescrizione non scatterà prima del 30 giugno 2014 «ma non è tra i nostri obiettivi» assicura Di Peri. Dell’Utri vuole giustizia. L’ha avuta alla faccia dei professionisti dell’antimafia. Lassù, ne siamo certi, pure Sciascia è contento.

''La sentenza della Corte di Cassazione sul senatore Dell'Utri riveste una grandissima importanza per molteplici ragioni. In primo luogo essa ha evidentemente condiviso le osservazioni del sostituto procuratore generale Iacoviello a proposito di indagini superficiali nelle quali 'l'accusa non viene descritta, il dolo non e' provato'. In secondo luogo, essa ha contestato alla radice questo falso reato del concorso esterno in associazione mafiosa che ha dato una incredibile discrezionalità a magistrati giudicanti e a pubblici ministeri faziosi di fare il bello e cattivo tempo''. E' quanto afferma Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl, che aggiunge: ''In terzo luogo, essa mette in evidenza che la Procura di Palermo è un serio problema perchè è il luogo giudiziario dove a occuparsi dei più delicati rapporti fra la mafia e la politica sono dei militanti politici che ostentano il loro impegno politico a tempo pieno. In quarto luogo però, come è stato già rilevato dal senatore Quagliariello, essa impedisce a magistrati e a giornalisti faziosi di riscrivere la storia di questo Paese a loro piacimento, magari utilizzando un falso pentito come Ciancimino jr''.

In questa diatriba non può mancare l’intervista rilasciata da Ingroia a “La Repubblica” che spiega a suo modo in che mani il povero cristo potrebbe andare a parare. "Ho la sensazione che l'ultima sentenza della Corte di Cassazione su Marcello Dell'Utri e il dibattito che strumentalmente ne sta scaturendo rientrino in quel processo di continua demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che erano del pool di Falcone e Borsellino". Non usa mezzi termini Antonio Ingroia, il procuratore aggiunto di Palermo che fu tra i pubblici ministeri del primo processo al senatore Dell'Utri. Questo a Repubblica.it è il suo primo commento ufficiale sulla decisione della Cassazione che venerdì sera del 9 marzo 2012 ha annullato la condanna per il parlamentare Pdl e ha disposto un nuovo processo d'appello.

Il migliore avvocato del senatore Dell'Utri sembra essere stato il procuratore generale, che ha criticato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Come commenta la ricostruzione di Iacoviello?

«A tutti quelli che cantano vittoria come se fosse stata dichiarata l'innocenza di Dell'Utri, dico: non è affatto così. I giudici hanno deciso infatti per un annullamento con rinvio della sentenza d'appello. Solo un annullamento senza rinvio sarebbe equivalso a un riconoscimento di non colpevolezza dell'imputato. Attendiamo comunque di leggere le motivazioni. Per quanto riguarda il procuratore generale, ho letto le sue conclusioni. Lui stesso dice che chiedere l'annullamento con rinvio non significa che l'imputato sia innocente. Significa solo che la motivazione della sentenza d'appello è viziata ed è illogica. E per la verità lo sosteneva anche il pubblico ministero, che aveva fatto ricorso. Le illogicità di quella motivazione riguardavano soprattutto l'assoluzione di Dell'Utri dopo il 1992».

Il procuratore generale ha espresso però pesanti perplessità sul reato di concorso esterno contestato a Dell'Utri.

«Curioso che l'abbia detto, ed è anche incoerente con le sue conclusioni. E' la stessa Cassazione a credere al concorso esterno, visto che più volte a sezioni unite, sia con la sentenza Carnevale che con la sentenza Mannino, ha ribadito la configurabilità di questo reato e ha fissato i presupposti per l'applicazione. Sarebbe triste che proprio nel ventennale della strage Falcone e Borsellino si debba mettere una pietra tombale su una delle più importanti e innovative idee giurisprudenziali che proprio Falcone e Borsellino hanno fondato».

Vogliamo spiegare in quali occasioni Falcone e Borsellino parlarono del concorso esterno?

«Nella sentenza ordinanza del maxiprocesso ter ci sono delle frasi chiarissime. Falcone e Borsellino scrivono che la figura del concorso esterno è la figura più idonea per colpire l'area grigia della cosiddetta contiguità mafiosa. Dunque, il concorso esterno non è un'invenzione della Procura di Palermo, è un insegnamento di Falcone e Borsellino su cui si è continuato a lavorare in questi vent'anni, producendo sentenze di condanna definitive, piccole e grandi. Ora, che si voglia con un colpo di spugna tornare indietro mi pare davvero enorme».

Si aspettava questa decisione della Cassazione?

«Non posso dirmi sorpreso, conoscendo la cultura della prova dimostrata dal presidente Grassi. E' una decisione coerente con la sua impostazione di sempre. C'è chi ha avuto come maestri Corrado Carnevale, chi invece Falcone e Borsellino. E mi sembra pure normale che all'interno della magistratura convivano culture della giurisdizione e della prova diverse. Insomma, c'è una dialettica in corso. Però, sono preoccupato».

Perché?

«La mia sensazione è che questa sentenza e poi il dibattito che strumentalmente ne è scaturito possano rientrare in quel processo di continua demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che fu del pool di Falcone e Borsellino. E' triste che ciò avvenga nel ventennale della loro morte, e soprattutto in un periodo così delicato in cui si scoprono e si confermano delle coperture e dei depistaggi che a lungo hanno impedito l'accertamento della verità su quelle stragi vent'anni fa».

Si farà dunque un nuovo processo a Marcello Dell'Utri. Pensa che le accuse reggeranno ancora?

«Mi spiace che il procuratore generale abbia liquidato l'impianto probatorio nei confronti di Dell'Utri come un insieme di amicizie e frequentazioni, come se la contestazione principale a Dell'Utri fosse di essere stato amico di mafiosi. Basta conoscere il processo per trovare una miriade di fatti specifici e di contributi concreti che Dell'Utri ha portato negli anni al consolidamento e al potenziamento di Cosa nostra».

Il procuratore generale ha parlato anche di violazione dei diritti dell'imputato.

«Mi pare davvero paradossale che si voglia ergere Dell'Utri a vittima di violazioni di diritti o chissà che, quando tutti i diritti di garanzia dell'imputato Dell'Utri sono stati rispettati. Questo è stato un processo pieno di prove e fatti specifici. In assoluto, uno dei processi per concorso esterno con più prove rispetto a quelli che si sono fatti in questi ultimi vent'anni».

Secondo “Il Giornale” Iacoviello, la toga rossa, fa infuriare i forcaioli.

Il giudice indipendente ha ottenuto l’annullamento del processo al senatore Pdl. Da magistrato modello è diventato il nuovo nemico di sinistra e giustizialisti.

Libertà di pensiero, correttezza, preparazione: secondo i suoi colleghi sono queste qualità che fanno di Francesco Iacoviello un «grande» magistrato. Il sostituto procuratore generale della Cassazione che ha chiesto e ottenuto dai supremi giudici l’annullamento del processo Dell’Utri è una delle toghe più stimate. Per la sua indipendenza di giudizio, prima ancora che per i suoi studi e le sue battaglie in difesa dei diritti dell’uomo e delle regole del «giusto processo». Non può certo essere sospettato di favoritismi politici, perché viene da una militanza nelle fila del «Movimento per la giustizia» e quattro anni prima fu candidato senza successo da «Area», la lista che riunisce le due correnti di sinistra, al Consiglio direttivo della Cassazione (l’organismo di autogoverno dei magistrati della Suprema Corte). Oggi che è diventato scomodo per la sinistra, liquidando 15 anni di inchieste e di giudizi e ottenendo un nuovo processo d’Appello per Marcello dell’Utri, è diventato un bersaglio.

Il Fatto lo critica aspramente, definendolo «estroso» per le sue posizioni personali, il «Pg smonta-prove» che mina la lotta alla mafia. In tanti agitano contro di lui il fantasma di Giovanni Falcone, che ideò il concorso esterno in associazione mafiosa, definito da Iacoviello «un reato autonomo, indefinito, al quale non crede più nessuno». E Nando Dalla Chiesa parla di «una vendetta postuma» nei confronti del magistrato ucciso dalla mafia. Il leader di Magistratura Democratica, Piergiorgio Morosini, definisce «sorprendenti» le parole del Pg sul concorso esterno: «Ci credono tre sentenze delle Sezioni unite della Cassazione e molti procedimenti si basano su questo istituto».

Ma solo 15 giorni prima, al Csm, era tutto un peana su di lui. Dalla Terza Commissione è arrivata in plenum la proposta appoggiata da molti di sceglierlo come rappresentante della Procura generale della Cassazione nel «Comitato dei saggi» che deve valutare la professionalità, le capacità scientifiche e di interpretazione delle norme dei nuovi magistrati che vogliono accedere alla Suprema Corte. Togati delle diverse correnti, laici di centrodestra e centrosinistra, per una volta hanno concordato sulle qualità di equilibrio e preparazione di Iacoviello. «È senza alcuna ombra di dubbio - disse allora all’assemblea il procuratore generale Vitaliano Esposito - uno dei migliori magistrati che ho conosciuto nella mia lunga carriera». Una frase condivisa a larghissima maggioranza. La proposta è passata e il 15 marzo 2012 Iacoviello sarà a Palazzo de’ Marescialli per la prima riunione della Commissione tecnica (composta da 3 toghe, un avvocato e un docente universitario) che incontrerà la Terza Commissione del Csm per avviare i lavori. Meno di 60 anni, nato a Giugliano di Campania, per anni sostituto procuratore a Ravenna, moglie consigliere di Cassazione nel settore civile e due figlie, giovanile e sportivo, di Iacoviello raccontano che per rilassarsi e tenersi in forma ama fare footing appena può. Di processi delicati e controversi nella sua carriera ne ha seguiti molti. E ogni volta si è attirato lodi e critiche, ma sempre accompagnate dal riconoscimento della sua statura professionale. Iacoviello è quello che ha ottenuto l’annullamento delle condanne del giudice Renato Squillante nel processo Imi-Sir e del capo della polizia Gianni De Gennaro per la vicenda della scuola Diaz al G8 di Genova. È quello che ha voluto la conferma dell’assoluzione di Calogero Mannino e ha bocciato il ricorso dei magistrati di Milano contro il proscioglimento di Silvio Berlusconi per il Lodo Mondadori. Convinto della mancanza di prove sui rapporti tra Giulio Andreotti e la mafia, ha chiesto la conferma dell’assoluzione con prescrizione per i fatti ante 1980 e ha bollato come «indagine sociologica» la sentenza della Corte d’appello. Posizioni in cui si può seguire il filo logico di una coerenza non minata da pregiudizi ma fondata su solide convinzioni. Un filo che spiega la sua posizione anche nel caso Dell’Utri. Uomo di cultura dai molti interessi, Iacoviello è anche professore all’Università di Cassino, relatore di conferenze e convegni, autore di molte pubblicazioni scientifiche di alto livello e studioso soprattutto di procedura penale e delle regole del «giusto processo». La sua passione sono i diritti umani e l’approfondimento di tutti gli aspetti giuridici che li riguardano. Infatti, segue in modo particolare la Corte europea di Strasburgo e ha pubblicato degli studi sulla sua giurisprudenza. «Nessun imputato - ha detto nella sua requisitoria in Cassazione - deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri e nel caso di dell’Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio».

Già. Si spera che questo assioma valga per tutti, anche per i poveri cristi, che non si chiamino Dell'Utri. Questo valga per tutti, anche per coloro i quali non hanno le loro mogli colleghe in magistratura. 

Da Andreotti a Berlusconi i 101 politici nel tritacarne per il reato che non c’è. Ecco l’elenco stilato da Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo su “Il Giornale”. Il «virus giudiziario» creato in laboratorio ne ha fatti di danni. Nell’ultimo quarto di secolo, il concorso esterno in associazione mafiosa, un reato che «non esiste» (Giuliano Pisapia, novembre 1996), è servito solo a stroncare carriere e isolare uomini politici (Emanuele Macaluso, giugno 2000). Percentualmente più nel centrodestra, ma anche a sinistra non mancano casi eclatanti. Quelli censiti sono 101, ma la lista è interminabile.Tra i big Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, Calogero Mannino, Antonio Gava (pure risarcito per ingiusta detenzione), Carmelo Conte, Nicola Cosentino, Corrado Carnevale, Bruno Contrada, Mario Mori e decine e decine di altri sono passati per le forche caudine di una legge «bastarda» da cui sembra quasi impossibile sfuggire. E dentro ci sono caduti tutti: politici, giudici, magistrati, prefetti, sbirri. Qualche esempio: oltre al Cavaliere c’è la nota vicenda del Divo Giulio a cui è andata pure peggio: a processo addirittura per associazione mafiosa, dopo l’iniziale contestazione di concorrente esterno. Com’è finita, lo sanno tutti. Un altro dc: Calogero Mannino. Sbattuto in galera e, dopo un tira e molla tra appello e Cassazione, arriva la sentenza che lo scagiona. Un verdetto che fa scuola sul tema dei rapporti tra politica e mafia. Totò Cuffaro è invece in galera per favoreggiamento aggravato, dopo una condanna a sette anni, anche se l’iniziale accusa di concorso esterno è caduta. E don Antonio Gava? Dopo 12 anni di processi, i giudici ammettono: i pentiti Alfieri e Galasso hanno detto il falso. Idem per Carmelo Conte, ex potente ministro socialista delle Aree urbane. Il suo compagno di partito, Giuseppe Demitry, ex sottosegretario negli anni Ottanta e Novanta, s’è visto annullare senza rinvio la condanna dalla Cassazione solo nel 2003. Incappati incidentalmente nel concorso esterno anche l’ex senatore Pietro Fuda e Nino Strano. La lista delle assoluzioni e dei proscioglimenti è infinita: l’ex sottosegretario Santino Pagano, l’ex leader del Garofano Giacomo Mancini, l’ex presidente della Calabria Agazio Loiero, l’ex europarlamentare Francesco Musotto, Pino Giammarinaro, David Costa, Filiberto Scalone, Gaspare Giudice, l’ex sottosegretario alla Giustizia Salvatore Frasca, Sisinio Zito, Paolo Del Mese, l’ex sindaco di Pignataro Maggiore Giorgio Magliocca, il senatore Pdl Sergio De Gregorio, gli ex deputati regionali siciliani Nino Dina, Salvatore Cintola, Nino Amendolia, l’ex vicepresidente della Sicilia Bartolo Pellegrino. Peggio è andata al defunto ex senatore Francesco Patriarca (9 anni), a Gianfranco Occhipinti (4 anni), a Franz Gorgone (7 anni, è in carcere), a Giancarlo Cito (4 anni), a Roberto Conte (4 anni) e a Vincenzo Inzerillo (5 anni e 4 mesi) e tantissimi altri consiglieri comunali, provinciali, regionali. Posti in piedi nell’affollato limbo dove si aggirano quelli ancora indagati: si va dall’ex ministro Saverio Romano all’ex sottosegretario Nicola Cosentino, al governatore della Sicilia Raffaele Lombardo (con fratello), al senatore Antonio D’Alì (caso folle, più unico che raro: dopo ben due richieste di archiviazione i pm hanno cambiato idea, chiedendo il rinvio a giudizio!), all’avvocato Nino Mormino (storico difensore di Marcello Dell’Utri, già archiviato nel 1995), all’ex assessore comunale di Palermo Mimmo Miceli (che attende un nuovo processo d’Appello). Che dire, poi, del presidente del Senato Renato Schifani indagato secondo il settimanale l’Espresso ma non per la procura di Palermo che ha smentito l’iscrizione sul registro degli indagati. E, nel mare magnum del reato che non esiste, finirono nel 1994 pure Vittorio Sgarbi e Tiziana Maiolo – all’epoca deputati – prosciolti in un’inchiesta partita dalle sballate dichiarazioni del pentito ’ndranghetista Franco Pino. A finire nel tritacarne, molto spesso, sono state anche le toghe: di Corrado Carnevale si sa di tutto e di più. Il giudice ammazza-sentenze s’è ripreso la sua personale rivincita dopo un decennio di fango. Ma chi ricorda Ciro Demma, Giuseppe Prinzivalli, Pasquale Barreca, Carlo Aiello, Mario Pappa, Giacomo Foti, Antonio Pelaggi, Giovanni Lembo? Tutta gente indagata e, in alcuni casi, finanche arrestata per concorso esterno. Pure il pm di Brescia Fabio Salamone, l’anti-Di Pietro, si ritrovò tra le mani un avviso di garanzia per lo stesso genere di accuse. E che dire degli sbirri e dei carabinieri che, dopo aver lottato contro la Piovra, come ricompensa si sono ritrovati alla sbarra? La bastonata più dura è andata a un poliziotto esemplare come Bruno Contrada in tandem con quel galantuomo di vicequestore di Ignazio D’Antone. Condannato il primo sulla base delle parole (mai, dicasi mai, riscontrate) dei pentiti, detenuto a lungo il secondo a Santa Maria Capua Vetere. Ci sono poi Mario Mori e l’ex capo del Ros Antonio Subranni. Ai tempi fu processato e assolto il tenente Carmelo Canale, collaboratore di Borsellino, cognato del maresciallo Lombardo morto suicida per le vigliacche e false insinuazioni sul suo conto mentre stava per riportare in Italia il boss Badalamenti. Le eccellenze dell’Arma dei carabinieri sotto processo come i mafiosi cui davano la caccia. E tutto per un reato autonomo, a cui non crede più nessuno (pg Francesco Iacoviello, marzo 2011). Va detto che il concorso esterno è stato contestato anche a Massimo Ciancimino, figlio di Vito, l’ex sindaco mafioso di Palermo jr. Il che è tutto dire. Il Pm “partigiano” di Palermo, Antonio Ingroia a citato Falcone e Borsellino per esternare la sua disapprovazione alla sentenza “Dell’Utri”. Vediamo come stanno veramente le cose. Il reato di cui è accusato Dell’Utri è da anni al centro delle polemiche per colpa di pentiti strumentalizzati, testimonianze dubbie, prove ambigue. In realtà, il codice penale prevede soltanto il reato di «associazione mafiosa» all’articolo 416 bis, introdotto nel 1982. Ma dalla fine degli anni Ottanta «l’associazione esterna» è una consuetudine nei processi e una specie d’intoccabile reliquia, proprio perché è considerata un’invenzione di Falcone.

Effettivamente fu lui, nel rinvio a giudizio del maxiprocesso ter del 1987, a sottolineare la necessità di una figura giuridica capace di reprimere le condotte che definiva «fiancheggiamento, collusione, contiguità». È in base a questa logica che, dall’unione tra gli articoli 416 bis e 110 del codice penale (concorso nel reato), si è affermato il «concorso esterno in associazione mafiosa». Ma nel 1992, pochi mesi prima di morire, ecco che cosa sosteneva lo stesso Falcone: «Col nuovo codice di procedura penale (introdotto alla fine del 1989), non si potrà ancora a lungo continuare a punire il vecchio delitto di associazione (mafiosa) in quanto tale, ma bisognerà orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici (cioè omicidi, riciclaggi, estorsioni). Con la nuova procedura, infatti, la prova deve essere formata nel corso del pubblico dibattimento. Il che rende estremamente difficile, in mancanza di concreti elementi di colpevolezza per i delitti specifici, la dimostrazione dell’appartenenza di un soggetto a un’organizzazione criminosa (…). C’è il rischio, con il nuovo rito, che non si riesca a provare nemmeno l’esistenza di Cosa nostra!». Ecco perché, da vivo, Falcone era osteggiato: più chiaro di così… Purtroppo, ha avuto ragione anche in una delle sue ultime frasi, amaramente profetica: «Per essere credibili, in questo Paese bisogna essere morti». Ancora meglio se falsificati.

MAFIA E STATO: DAGLI AMICI MI GUARDI IDDIO, CHE DAI NEMICI MI GUARDO IO. BORSELLINO. UN'ALTRA VERITA'. ANCHE QUESTA DI PARTE O DI FACCIATA?

Il giudice Paolo Borsellino sapeva dell'esistenza di una trattativa tra lo Stato e la mafia. Ne sono convinti i magistrati di Caltanissetta e traspare dalle carte della nuova inchiesta sulla strage di via D'Amelio che ha portato all'arresto di quattro persone, tra cui il presunto mandante Salvuccio Madonia. Dalle indagini emerge "che della trattativa era stato informato anche il dottor Borsellino il 28 giugno del 1992. Quest'ultimo elemento aggiunge un ulteriore tassello all'ipotesi dell'esistenza di un collegamento tra la conoscenza della trattativa da parte di Borsellino, la sua percezione quale 'ostacolo' da parte di Riina e la conseguente accelerazione della esecuzione della strage". Così scrivono i pm nisseni facendo riferimento alla testimonianza di Liliana Ferraro, l'ex direttore generale del Ministero della giustizia. Secondo i magistrati nisseni il boss mafioso voleva "rivitalizzare" quella trattativa, che "sembrava essere arrivata su un binario morto", con una sanguinaria esibizione di potenza come fu in effetti l'omicidio di Borsellino e di 5 uomini della sua scorta, il 19 luglio 1992. "La tempistica della strage - scrivono i pm - è stata certamente influenzata dall'esistenza e dalla evoluzione della così detta trattativa tra uomini delle Istituzioni e Cosa Nostra". «Non bisogna mai abbandonare il percorso verso la verità, anche se è  passato tanto tempo e ci sono verità processuali definitive». Lo ha detto il Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso l’8 marzo 2012 durante la conferenza stampa a Caltanissetta per gli arresti per la strage di via D'Amelio. «Auspico che continui questa strada verso la verità e la giustizia. Non si abbandonerà mai questa idea di giustizia - dice - bisogna sempre cercare elementi per raggiungere la verità». Il procuratore nazionale Antimafia, Piero Grasso, ha detto che Paolo Borsellino «era stato messo a conoscenza dei contatti con Vito Ciancimino da parte delle istituzioni. E' un dato accertato - ha spiegato - come è accertato il fatto che l'8 giugno del 1992 c'era già un decreto legge che istituiva misure altamente repressive nei confronti della mafia con il regime del 41 bis nelle carceri. Non ci fermeremo davanti a verità precostituite. La strategia della tensione non ha mai abbandonato l'Italia. Spesso in momenti di particolare destabilizzazione e confusione del quadro politico dopo Tangentopoli - dice Grasso - c'era il pericolo di una deriva che portasse a mutamenti politici magari non graditi. È un giorno particolare per me, sia dal punto di vista personale che professionale, perché ho avuto il privilegio di raccogliere le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza che hanno cambiato la prospettiva delle indagini sulla strage di via D'Amelio» ha aggiunto il procuratore nel corso della conferenza stampa a Caltanissetta sulle ordinanze di custodia cautelare per l'eccidio eseguite nell'ambito della nuova inchiesta scaturita appunto dalle rivelazioni del pentito. Grasso, riferendosi alle dichiarazioni di Spatuzza sulla scorta di quanto apprese dal boss Graviano, ha parlato di "un palinsesto di azioni già tracciate: un percorso che partì dall'omicidio Lima fino alla fallita strage dello stadio Olimpico di Roma del '94". Il procuratore antimafia ha indicato anche tre moventi della strage: la ventilata nomina di Borsellino alla guida della Dna; le azioni repressive che il ministero della Giustizia avrebbe adottato contro la mafia "e in questo contesto Borsellino avrebbe agito nel pieno delle sue funzioni con atti concreti"; infine l'ultima causale "di tipo eversivo-terroristico che la mafia voleva attuare - ha spiegato Grasso - per evitare mutamenti politici non graditi". Una strategia che la criminalità organizzata avrebbe proseguito per accelerare le trattative, tanto che – continua Grasso – nell’autunno 1992 sarebbe stato progettato un ulteriore attentato e questa volta l’obiettivo sarebbe stato lui stesso, l’attuale procuratore nazionale antimafia. Progetto saltato, ha detto Grasso, quando Totò Riina e i suoi collaboratori sono stati arrestati. «Non bisogna mai abbandonare il percorso verso la verità, anche se è passato tanto tempo e ci sono verità processuali definitive, neanche se confermate da sentenze di Cassazione - ha concluso Grasso. - Auspico che continui questa strada verso la verità e la giustizia. Non si abbandonerà mai questa idea di giustizia – dice – bisogna sempre cercare elementi per raggiungere la verità. Tuttavia l’indagine su uno degli episodi chiave di quel periodo (il fallito attentato dell’Addaura) è a rischio prescrizione, mentre - ha detto Grasso - non ci può essere la prescrizione su fatti del genere, in uno Stato civile e democratico». «Una cosa accertata è senz'altro che Borsellino era stato messo a conoscenza dei contatti con Vito Ciancimino da parte delle istituzioni. Altro dato accertato è che l'8 giugno dell'82 c'era già un decreto legge che istituiva misure altamente repressive nei confronti della mafia», ha detto ancora Grasso ai microfoni di Sky Tg24, in riferimento alla cosiddetta trattativa Stato-mafia.

Secondo la ricostruzione di Lirio Abate, fatta su “L’Espresso”, alla fine del 1991 Cosa nostra aveva dichiarato guerra allo Stato e aveva cominciato a eliminare i politici che non assecondavano più le loro richieste, uccidendo gli uomini delle istituzioni (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) che erano di ostacolo all'avanzata dei mafiosi e avviando la ricerca di nuovi referenti politici. Totò Riina e il suo gruppo di eversivi stragisti che vanno dal cognato Leoluca Bagarella a Giovanni Brusca, passando per i sanguinari Filippo e Giuseppe Graviano fino ad arrivare a Nino Madonia e a Matteo Messina Denaro, volevano farsi largo per ottenere benefici in favore dei mafiosi facendo in modo che Cosa nostra si sostituisse, nel meridione, allo Stato. L'uccisione di Paolo Borsellino e degli agenti della Polizia di Stato, addetti alla sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano,Vincenzo Li Muli,Walter Cusina e Claudio Traina, è inserita in questa guerra fra mafia e Stato. La uccisione di Borsellino tra la guerra tra mafia e Stato la inseriscono  i magistrati della procura di Caltanissetta che hanno rivisto l'inchiesta sulla strage di via d'Amelio, chiedendo ed ottenendo quattro ordini di custodia cautelare per personaggi legati alle cosche che mai fino adesso erano stati coinvolti nelle precedenti inchieste giudiziarie. E dopo quattro anni di indagini condotte dalla Dia di Caltanissetta si scoprono nuovi retroscena nella morte di Borsellino. Ma soprattutto per la prima volta un giudice riconosce l'aggravante del fine terroristico contestato agli indagati. Le indagini svelano le forme di pressione sullo Stato per ottenere vantaggi. Pressioni consistite in alcuni omicidi, a cominciare da quello dell'eurodeputato Salvo Lima, che si inserisce in una catena di sangue che si conclude nel 1993 con le bombe di Roma, Milano e Firenze. Il fine terroristico è legato alla trattativa avviata già nel 1991 tra mafia e Stato, di cui Borsellino poteva essere considerato un ostacolo. L'indagine coordinata dal procuratore Sergio Lari, dagli aggiunti Bertone e Gozzo e dai pm della Dda Marino, Paci e Luciani, parte nel 2008 grazie alle rivelazioni del mafioso Gaspare Spatuzza, arricchite da quelle di Salvatore Tranchina, entrambi fedelissimi dei fratelli Graviano. E si scopre che nelle passate inchieste c'è stato qualche depistaggio, a cominciare dal tassello principale: il furto della Fiat 126, caricata di tritolo e fatta esplodere in via d'Amelio. Di questo furto si sono subito accusati due falsi pentiti, Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino. Del primo nessun mafioso fino al 1992 aveva mai sentito parlare perché era un piccolo pregiudicato che girava filmini porno e faceva uso di sostanze stupefacenti. Candura si inventa di essere protagonista del furto, e le sue affermazioni spostano le indagini su altri obiettivi rispetto a quelli che erano coinvolti. A distanza di 18 anni, grazie alle rivelazioni di Spatuzza si è saputo che quelle affermazioni erano fasulle. Candurra aveva mentito. Spatuzza, infatti, confessa il furto dell'auto e le sue affermazioni vengono riscontrate in tutti i punti. Ma sulle dichiarazioni di Candura e Scarantino si sono basate tre sentenze ormai definitive che hanno condannato all'ergastolo innocenti. Processi da rifare. Per questo motivo il procuratore generale Roberto Scarpinato ha chiesto la revisione dei processi. Depistaggio? A questo interrogativo non è stato ancora data risposta. Le sentenze dei precedenti processi hanno mostrato un mosaico descrittivo di quel tragico avvenimento che presentava diverse tessere mancanti. Mancavano, infatti, risposte ad alcuni interrogativi irrisolti oggetto di investigazioni rimaste senza esito: dalla sospettata responsabilità di soggetti esterni a Cosa nostra, alle ragioni per cui venne fatta sparire l'agenda rossa di Paolo Borsellino ed ancora ai motivi per cui venne attuata la strage a 57 giorni di distanza da quella di Falcone e dunque con una evidente - ed apparentemente anomala - accelerazione del programma stragista. E poi i vuoti d'indagine inerenti la identificazione di tutti coloro che parteciparono alla materiale esecuzione della strage: chi aveva posteggiata l'autovettura Fiat 126 imbottita d'esplosivo davanti la porta d'ingresso dell'edificio di via D'Amelio dove abitavano Rita Borsellino ed i suoi familiari? Chi e da dove aveva azionato il telecomando? Chi aveva risposto alla telefonata di Giovanbattista Ferrante che il pomeriggio del 19 luglio annunciava l'arrivo di Paolo Borsellino in Via D'Amelio? Ad alcuni di questi quesiti adesso i pm hanno dato una risposta. La necessità di dare una risposta a queste domande è stata sempre avvertita dalla procura di Caltanissetta che, su alcuni di questi temi, ha continuato ad indagare anche dopo la definizione dei processi precedenti, senza però approdare a significativi risultati anche per la mancanza di nuove fonti di prova in grado di consentire una svolta nell'approfondimento degli interrogativi rimasti irrisolti. Le nuove indagini che adesso hanno portato il gip ad emettere quattro ordini di custodia cautelare, non sono state avviate per ricomporre un mosaico investigativo alla ricerca dei pezzi mancanti, ma per dare una risposta a interrogativi di portata ben più dirompente nati, del tutto inaspettatamente, dalle dichiarazioni rese a cominciare dal 26 giugno 2008 dal collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, che ha fornito una versione totalmente diversa di un importante segmento esecutivo della strage di Via D'Amelio del tutto incompatibile con le precedenti versioni processuali. A seguito di ciò, è apparso fin dal primo momento evidente che, se quanto affermato da Spatuzza fosse stato vero, non sarebbe bastato trovare le tessere mancanti di un mosaico, ma sarebbe stato necessario uno sforzo investigativo di ben maggiore portata consistente anche nella individuazione dei pezzi falsi che qualcuno vi aveva quasi certamente inserito. La ricostruzione, secondo i pm, "di quella vicenda si presentava, fin dal primo momento, di una complessità inaudita, poiché avrebbe richiesto la rivisitazione di tredici anni di indagini e processi, la ricerca di nuovi elementi di prova, l'individuazione di possibili interessi oscuri e di nuove responsabilità, ma anche di probabili vittime di errori giudiziari". A ben vedere, si prospettava la necessità di avviare una ricostruzione investigativa che, in considerazione della gravità dei fatti di reato da accertare e delle aspettative dei familiari delle vittime (oltre che dell'opinione pubblica da sempre sensibile all'accertamento della verità sulle stragi) occorreva svolgere con la massima celerità e determinazione. Tuttavia i pm hanno avuto la consapevolezza che, a distanza di tanto tempo, la ricerca della verità sarebbe stata molto più difficile e complessa. Adesso l'inchiesta ha portato ad accertare, quindi, una sola fetta di zona ancora poco chiara. Tutta quella parte che riguarda il depistaggio e il probabile interessamento nell'attentato di uomini "esterni" a Cosa nostra è ancora da accertare e dimostrare. E su tutto ciò le inchieste sono ancora aperte. Nonostante siano passati 20 anni da quei tragici fatti, siamo ancora in attesa di una seconda puntata su questa zona grigia.

«Dalle nostre indagini emerge che i più alti vertici dello Stato sapevano della trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia nel '92. - Lo ha detto il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo nel corso della conferenza stampa per i quattro arresti per la strage di via D"Amelio. - Che ci fosse stata una trattativa ormai è un fatto accertato - dice Gozzo - ed è stato verificato che fosse comunicata ai più alti vertici dello Stato. Dalle nostre indagini emerge che i più alti vertici dello Stato sapevano della trattativa tra pezzi dello Stato e la mafia nel 1992, ma nessuno informò l’autorità giudiziaria. La dottoressa Ferraro (Liliana Ferraro, allora direttore degli Affari penali al ministero della giustizia) la comunicò all’allora ministro della giustizia Martelli e venne comunicata anche alla presidenza del Consiglio. Però non venne riferito nulla all’autorità giudiziaria.» Gozzo ha aggiunto che «non sono emerse responsabilità di politici, ma mi sconcerta il silenzio di alcuni politici. Se Massimo Ciancimino ha un merito è quello di avere fatto risvegliare la memoria a qualcuno». Sulla questione prescrizione sull'attentato dell'Addaura si è soffermato anche il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari: "Rischia la prescrizione perché non ci sono stati morti. Purtroppo gli anni passano e alcuni reati si prescrivono” ha detto Lari, che ha rivolto e un appello alla politica per allungare i termini delle indagini sui fatti più gravi. Resta infine il giudizio sospeso su Massimo Ciancimino: «Qualche riscontro delle sue parole è arrivato, soprattutto sui contatti tra gli ufficiali dei carabinieri e suo padre. Il suo contributo però non è stato decisivo come avrebbe potuto essere”. Più duro Lari: “E’ quasi nullo l’apporto che ha dato Massimo Ciancimino alle nostre indagini. Abbiamo ascoltato 190 files con le intercettazioni di Ciancimino per accertare il suo profilo di attendibilità. Ebbene, è venuto fuori che ha detto il falso».

Borsellino fu eliminato da Cosa nostra perché Totò Riina lo riteneva un "ostacolo" alla trattativa con esponenti delle istituzioni arenatasi "su un binario morto" e che quindi andava "rivitalizzata" con il gesto eclatante della strage. Lo ricostruisce il gip di Caltanissetta, Alessandra Bonaventura Giunta, che ha accolto le richieste della Dda nissena, nell'ambito della nuova inchiesta che ha portato alle ordinanze eseguite dalla Dia sulla strage. "La tempistica della strage è stata certamente influenzata - dice il magistrato - dall'esistenza e dall'evoluzione della così detta trattativa tra uomini delle Istituzioni e Cosa nostra". Per la Procura, "della trattativa era stato informato anche il dott. Borsellino il 28 giugno del 1992. Quest'ultimo elemento aggiunge un ulteriore tassello all'ipotesi dell'esistenza di un collegamento tra la conoscenza della trattativa da parte di Borsellino, la sua percezione quale 'ostacolo' da parte di Riina e la conseguente accelerazione della esecuzione della strage". Ad avvalorare questa tesi sono anche "le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Giovanni Brusca a proposito dell'ordine ricevuto da Salvatore Riina di sospendere, nel giugno 1992, l'esecuzione dell'attentato omicidiario nei confronti dell'on. Calogero Mannino perché c'era una vicenda più urgente da risolvere". Sono oltre 260mila le intercettazioni telefoniche ed ambientali registrate nell'ambito dell'inchiesta che ha portato all'arresto di quattro persone per la strage di via D'Amelio. I decreti di intercettazioni firmati dai magistrati sono stati complessivamente 130. Inoltre sono stati sentiti oltre 300 testimoni e 30 collaboratori di giustizia. A snocciolare i dati e i numeri dell'inchiesta coordinata dalla Dda di Caltanissetta e condotta dalla Dia nissena è il colonnello Gaetano Scillia capo centro della Direzione investigativa antimafia di Caltanissetta. Sono 350 i faldoni sulla strage di via D'Amelio. Durante l'inchiesta è stata riesaminata dai magistrati l'ingentissima documentazione riguardante le precedenti acquisizioni investigative e processuali operate nell'ambito di 28 procedimenti penali, comprese le sentenze relative a tutti i gradi dei processi sulla strage di Capaci e di via D'Amelio. Sono stati eseguiti oltre 20 confronti, tutti rigorosamente videoregistrati fra i quali alcuni svolti tra i funzionari di polizia indagati per concorso in calunnia e i loro accusatori, cioè i pentiti Scarantino, Andriotta e Candura. E poi ancora numerose esecuzioni di atti di ricognizione fotografica e personali. Decine i sopralluoghi videoregistrati molti dei quali con gli stessi pentiti Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina per ricostruire il contenuto delle loro dichiarazioni. E poi oltre 100 deleghe di indagine conferite alla Dia di Caltanissetta, molte delle quali di elevata complessità. Alla conferenza stampa del 8 marzo 2012 hanno partecipato, oltre al procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, il sostituto della Dna Maurizio de Lucia, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, i due aggiunti Amedeo Bertone e Nico Gozzo, il direttore della Dia Alfonso D'Alfonso e il capo centro di Caltanissetta della Dia Gaetano Scillia.

Nella seconda metà di giugno del 1992, Paolo Borsellino ha un cedimento nervoso e, cosa inusuale per lui, si sdraia su un divano e piange: “Non posso pensare....non posso pensare che un amico mi abbia tradito”. A ricostruire l’episodio, riportato nell’ordinanza sulla strage di via D’Amelio, sono due magistrati che con il giudice avevano lavorato a Marsala: Alessandra Camassa e Massimo Russo, poi assessore alla Sanità della Regione Siciliana. Ai colleghi che la sentono Alessandra Camassa dice: «La mia impressione fu che Paolo si sentisse tradito da una persona adulta autorevole, con la quale vi era un rapporto d’affetto: pensai che potesse trattarsi di un ufficiale di carabinieri». La ricostruzione è stata confermata da Massimo Russo che aggiunge un’altra frase di Borsellino: «qui è un nido di vipere». Secondo la ricostruzione del Gip e della Procura di Caltanissetta, Borsellino avrebbe individuato il preteso traditore, “ma il nome era talmente sconvolgente – si spiega nell’ordinanza – che neanche gli amici più cari ne sono stati messi al corrente”. La moglie del giudice, Agnese Piraino, è più esplicita e in una deposizione resa il 27 gennaio del 2010 ricorda che suo marito alla metà di giugno del 1992 si sfogò rivelandole, testualmente, che “c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”. Paolo Borsellino aveva preso l’abitudine di raccontare pochi particolari alla moglie per non metterla in pericolo. “Confermo però – fa mettere a verbale la vedova del giudice – che mi disse che il generale Subranni era ‘punciutu’. Era sbalordito, ma lo disse con tono assolutamente certo, senza svelarmi la fonte. Aggiunse che quando glielo avevano detto era stato tanto male da avere avuto conati di vomito: per lui l’Arma dei carabinieri era intoccabile…”.

A PROPOSITO DI ANTIMAFIA MILITANTE.

Quella che emargina e perseguita. Il Dr Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, direttore di “Tele Web Italia” e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie", sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno, non è finanziato, né sostenuto da alcuno, ma addirittura. accusato reiteratamente dai PM di diffamazione a mezzo stampa, senza che sia conseguita mai alcuna condanna. La sua colpa: di non avere peli sulla lingua e sulla penna, di non essere di sinistra e di non santificare i magistrati. Lui vede, sente, parla.

Una volta un tal Leonardo Sciascia scrisse («I professionisti dell'antimafia» da «Il Corriere della Sera» del 10 gennaio 1987) «... l'antimafia come strumento di potere. Che può benissimo accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando. E ne abbiamo qualche sintomo, qualche avvisaglia. Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. ... chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno».

Che forse lo scrittore siciliano avesse visto lontano?

Falcone e Borsellino: due eroi, ma non per caso. Morirono il 23 maggio e il 19 luglio dello stesso anno, il 1992. Erano amici oltre che colleghi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la loro vita è trascorsa parallela nella Sicilia dello strapotere della mafia: i loro successi e il loro terribile isolamento, il loro senso del dovere e la burocrazia nemica, la fedeltà dei loro uomini e il tradimento, la conoscenza del fenomeno Mafia e l’omertà del popolo e delle Istituzioni, l’amore per la propria terra e il sacrificio della vita. Diceva Giovanni Falcone: “Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l'essenza della dignità umana”. Guardando con gli occhi di oggi a quel periodo nel quale la Mafia vincente dei Corleonesi compì quegli omicidi così eclatanti (con Falcone morirono la moglie e tre agenti dell’auto di scorta, con Borsellino furono trucidati cinque poliziotti), pare di assistere ad un improbabile gangsters movie: bastò l’annuncio dell’incarico prima a Falcone e poi a Borsellino di Responsabile della Superprocura Antimafia ad accelerarne la morte, già decisa da tempo. Falcone e Borsellino sapevano di essere segnati come gli untori ai tempi della peste, sapevano di essere scomodi ed isolati. Nell'intervista rilasciata a Marcelle Padovani per "Cose di Cosa Nostra", Falcone attesta la sua stessa profezia: "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere." Pochi giorni prima di essere ucciso, durante un incontro organizzato dalla rivista MicroMega, Borsellino che sapeva di essere nel mirino di Cosa Nostra ebbe a dire “Mi sento come un morto che cammina”. A distanza di 16 anni nessuno ricorda con quanta ostilità e con quanta miopia vennero giudicate le azioni riformatrici in materia giudiziaria di Falcone, a partire dall’intuizione della costruzione “sovradistrettuale” del Nucleo Investigativo e della Procura Antimafia, già dai tempi della costituzione con il giudice fiorentino Caponnetto del Pool Antimafia e nel suo incarico presso il Ministero della Giustizia. La gran parte della magistratura difese le competenze di ogni ambito territoriale con veemenza, addirittura con uno sciopero, contrappose alla nomina di Falcone quella di un altro giudice, perché chiunque era meglio “del giudice traditore della Costituzione” che voleva i “Tribunali Speciali” anche se contro la Mafia. La politica dell’antimafia militante contrastò Falcone fino ad addebitagli la sottovalutazione, anzi la sottrazione di prove, verso alcuni politici siciliani di nota obbedienza mafiosa. Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone si difese davanti al CSM da un esposto presentato da Leoluca Orlando, che parlava di “prove nei cassetti”, ribattendo alle accuse che definì ”un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario” e il clima di sospetto creatosi a Palermo su tutto e su tutti “come l’anticamera del khomeinismo”. Sono gli stessi concetti che espresse Paolo Borsellino: L'equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E NO! questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale..... Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni….. dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma …tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici…. non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati. Queste frasi Paolo Borsellino andò a dirle agli studenti dell’Istituto Tecnico Professionale di Bassano del Grappa il 26 gennaio del 1989; non sembra anche questa la scena di una pessima fiction? quello che avrebbe dovuto essere uno dei migliori uomini della Sicilia va a parlare in una lontana scuola tra le Dolomiti della Mafia e dei politici “collusi” ma non condannabili. Fuori dalla Sicilia dei rancori, fuori dal clima del sospetto, lontano dagli omertosi dei palazzi del potere e dai professionisti dell’antimafia: sì Borsellino sapeva di essere un "condannato a morte". Per capire bene cosa è successo allora, occorre declinare quell’espressione oscura allora molto troppo comune: il clima dei veleni, al di là dei fatti penalmente rilevanti, era in sostanza una modalità di intendere la lotta alla mafia, il ruolo della magistratura e della politica. Certo c’erano due mondi contrapposti e ben visibili: quello che combatteva la Mafia e quello che o ne era colluso o ne negava ostinatamente l’esistenza come fenomeno criminale specifico, ma erano anche realtà molto sfaccettate al loro interno. Oggi sembra assurdo, ma gli uomini del mondo dell’Antimafia, non solo hanno poco collaborato, si sono anche apertamente combattuti: una parte della politica insisteva a dare alla Magistratura una funzione anomala di “pulizia” sociale e una parte della magistratura si intestardiva a ritagliarsi uno spazio tutto formale all’interno della comoda “coperta” di vecchie leggi di competenza. Questa è la storia dell’avversato Pool antimafia del Giudice Caponnetto, delle denunce di “inanità” a Falcone, della sua mancata nomina in favore di giudici più anziani, della battaglia anche sindacale che l’Associazione magistrati fece alla legge sulla Procura antimafia, della nomina a Prefetto di Palermo di Carlo Alberto dalla Chiesa con cui la politica tentò di salvarsi coscienza e reputazione lasciandolo senza mezzi e senza appoggi e decretandone di fatto la morte. E se l’omicidio di Falcone e Borsellino e la strage delle scorte mise fine a questa incredibile situazione italiana, consolidando la Procura Antimafia, le speciali competenze della polizia giudiziaria, il carcere “duro” cioè senza contatti esterni per i mafiosi, è ancora diffusa l’idea che la magistratura possa e debba fare quello che la politica non è capace a fare e che l’omertà sia solo paura. E’ bastata qualche eccellente assoluzione per trasformare politici notoriamente ambigui, se non collusi, in vittime dell’oscurantismo fanatico; è bastato un volto rugoso e sofferente per dimenticare le colpe del funzionario dello Stato che tradì Falcone, è bastato che la sorella del giudice Borsellino si candidasse alle elezioni per accusarla di sfruttare il nome di un “morto”, già di un morto perché era bene che rimanesse tale. Sono passati tanti anni, tante vittorie ci sono state contro la Mafia siciliana, e la sensibilità culturale nei confronti della legalità e dell’etica è fortemente cresciuta nella popolazione dell’isola e nelle istituzioni tutte, ma non sarebbe stato possibile senza questi due uomini, senza le cose che hanno fatto, gli incredibili successi conseguiti in quell’epoca e in quel clima; senza la loro stessa testimonianza di vita, e purtroppo di morte. Certo povero è un popolo che ha bisogno di Eroi, ma povero è un popolo che non conosce i suoi eroi. “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola” (Paolo Borsellino).

Su questo argomento vi è un intervento su “Il Giornale” di Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo : “L’Antimafia militante si dimentica del Pd”. Nella relazione al Parlamento riferimenti solo al Pdl. Omessi quelli al partito di Bersani su camorra e ’ndrangheta. E poi dicono che la magistratura non strizza l’occhio a una certa politica, facendolo nero all’altra parte. È uno strano torcicollo giudiziario quello della Direzione nazionale antimafia: quando c’è da menar fendenti sui rapporti tra clan e centrodestra scrivono nome e cognome dei politici coinvolti (e non ancora condannati). Appena ruotano la testa a sinistra cedono alla privacy, omettendo ogni riferimento al partito di Bersani. Sfogliando le 726 pagine della relazione consegnata al Parlamento la sigla «Pd» non compare mai mentre – sui procedimenti in corso – ripetutamente fa capolino la sigla «Pdl» e, in quattro occasioni, a scanso di equivoci, si legge per esteso «Popolo della libertà». Eppure non è che mancassero occasioni per collegare fatti di mala al Pd, come nel caso delle indagini sull’omicidio di Gino Tommasino, consigliere Pd di Castellammare di Stabia, ammazzato da un killer iscritto al Pd. Si cita senza problemi l’ex sottosegretario alla sbarra Nicola Cosentino nonostante poche righe prima i magistrati antimafia avessero scritto che «non si intende, in questa sede, far riferimento ai vari procedimenti in corso di trattazione». Nemmeno sentono il bisogno di ribadire quel che è noto a tutti, e cioè quanto è scaturito dal delitto del consigliere Pd Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale calabrese, col coinvolgimento, per altri versi, di Domenico Crea «consigliere regionale, votato, secondo l’accusa, dalle maggiori cosche di ’ndrangheta e subentrato in Consiglio dopo l’omicidio di Fortugno, in atto detenuto». A quale coalizione apparteneva Crea? Al centrosinistra, ma i pm non lo scrivono, così come per le indagini sulle cosche in Lombardia si dimenticano a quale partito facesse riferimento il circolo «Falcone&Borsellino» di Paderno Dugnano dove i capi della ’ndrangheta si davano appuntamento. E che dire di Franco La Rupa «consigliere regionale calabrese tra il 2004 ed il 2010», eletto in chissà quale area, «condannato a 5 anni per voto di scambio politico-mafioso». Al contrario si abbonda coi riferimenti Pdl: si parte da Quarto (Na) con il coinvolgimento di (nome e cognome) espressamente centrodestra. Oppure quel consigliere provinciale di Crotone (...) del quale i magistrati riportano oltre al nome addirittura il numero di preferenze. E basandosi sulle sole intercettazioni si stilano già sentenze nominative: «La coalizione che fa capo al presidente (...) si era avvantaggiata dell’appoggio elettorale anche della famiglia Arena di Isola Capo Rizzuto». E via così. Al Sud come in Liguria dove «è emersa l’operatività di un sodalizio che ha condizionato l’esito delle elezioni regionali del 2010 in favore dei candidati del Pdl (...)». Vengono riportate altre inchieste che riguardano entrambi gli schieramenti, ma la specifica doc colpisce esclusivamente il Pdl. Il caso più emblematico lo denuncia il membro Pdl Antimafia Amedeo Laboccetta. Che in un’interpellanza a più firme racconta di un boss, intercettato in cella, che parla di votare il candidato dell’Idv. Un fatto da approfondire, ma nessuno s’è preoccupato di farlo. Al contrario il sindaco del Pdl regolarmente eletto rischia la poltrona per alcuni esposti anonimi. Accade a Gragnano, nel Napoletano, dove la commissione d’accesso prefettizia richiesta dal sindaco Pdl, Annarita Patriarca, incredibilmente arriva a chiedere lo scioglimento del Comune sulla base di cattiva pubblicità e pregiudizi. Tornando al boss, la spiata nel carcere di Sulmona arriva a poche ore dal ballottaggio del 2009 tra la Patriarca e il rivale Michele Mascolo. Il boss Fabio Di Martino parla col padre, il capoclan Leonardo detto ’o lione: «Mo’ che con Michele vinciamo il ballottaggio...!» facendo intendere – secondo Laboccetta - che alle urne la «famiglia» opterà per il candidato anti-Pdl. Al ballottaggio s’imporrà la Patriarca, che ora si vuol far passare per quello che non è. Laboccetta chiede trasparenza nei controlli al Comune e invita i pm a darsi una svegliata, anche perché indagando su alcuni delinquenti di Gragnano è emerso che la camorra si sarebbe mossa per truccare le ultime primarie a Secondigliano. Il partito era il Pd, non il Pdl. Par-ti-to de-mo-cra-ti-co (tante volte i pm antimafia leggessero male).

Su queste basi nacque “MANI PULITE”.

Ruberie, complotti, casualità: Filippo Facci su “Libero Quotidiano” racconta Mani Pulite.

Dall'amnistia che salvò il Pci al nuovo codice di procedura penale del 1989: ecco tutto quello che ha favorito la nascita di Tangentopoli. Tutto parte e riporta lì, sempre a Mani Pulite, genesi di una seconda Repubblica mai nata e già vecchia: è il nostro Prima e Dopo Cristo, è l’incubatrice di un presente politico eternamente incerto tra ieri e domani. Agli spauracchi genere «non è cambiato niente» si è progressivamente sostituita una consapevolezza terrificante: è cambiato tutto, nel senso che la politica di allora oggi appare superiore anche perché diversi erano i curricula, le professionalità, le investiture dal basso: roba che oggi ha ceduto il passo alla nomina di uno bravo ogni venti amici e parenti e servi. Avevi i voti o non li avevi: non c’erano carfagne e non c’era merito di guerra che potesse bastare. Nostalgia? Per niente. Nulla giustifica come il finanziamento illegale della politica, un tempo fisiologico e necessario, fosse degenerato a Milano come nel resto del Paese. Nella capitale morale ogni appalto doveva sovvenzionare la politica in quote prestabilite (tot alla Dc, tot al Psi, tot al Pci eccetera, secondo il consenso acquisito) e le imprese a loro volta potevano prestabilire i vincitori delle gare in barba al libero mercato, formando così un «cartello» che escludeva altra concorrenza e falsava i costi. Maggioranze e opposizioni conducevano un gioco delle parti che dietro le quinte diveniva complicità e spartizione degli affari: a Milano accadeva che per determinati appalti ci fosse un cassiere unico che poi ridistribuiva agli altri partiti, Pci compreso. Sistema oliato - Il sistema era talmente oliato da rendere praticamente impossibile comprendere chi, tra imprese e partiti, avesse il coltello dalla parte del manico. Gli imprenditori si definiranno come ricattati dai politici, i politici come assediati da imprenditori ansiosi di offrire: in concreto «era un sistema», come disse Bettino Craxi, o quantomeno una «dazione ambientale», come la descrisse Di Pietro: ispirato, in realtà, da un altro magistrato che si chiamava Antonio Lombardi. Era un sistema malato di elefantiasi e degenerato negli effetti pratici ed economici: più costose e durature erano le opere e più grande era la torta da spartire, il mercato era sfalsato e così pure la selezione delle offerte migliori e più convenienti. Tutto questo, naturalmente, in linea di massima: fioccavano le eccezioni e le isole felici, mentre le degenerazioni e un senso del limite si tenevano la mano in un Paese che in qualche modo tirava avanti. Grazie al debito pubblico? I numeri, ormai, hanno smentito anche questo. Dal 1946 al 1992, la Prima Repubblica ha accumulato un debito pubblico pari a circa 6-700 miliardi di euro: il restante - ossia i 1300 miliardi di euro che hanno portato il debito pubblico italiano alle cifre odierne - lo ha fatto la Seconda Repubblica dei vari governi Berlusconi, Amato, Ciampi, D’Alema e Prodi; la Prima Repubblica accumulava una media giornaliera di 47,5 milioni di euro di debito al giorno, la Seconda è arrivata a oltre 200 milioni di euro al giorno, quasi quintuplicando la cifra. Oscar Giannino, un collega quantomeno rigoroso, ha raffrontato i governi di centrodestra e centrosinistra sulla base dei dati della Banca d’Italia: il record di debito pubblico sono stati i 330 milioni al giorno del primo governo Berlusconi, che nell’ultimo governo è sceso a 207 milioni. Perfetto, ma perché Mani pulite nacque proprio allora? Qui in genere si scontrano versioni improbabili e micro - la favoletta del magistrato onesto che smaschera i corrotti - e altre non meno improbabili e complottarde e legate a scenari internazionali. Tra Montenero di Bisaccia e Washington, non manca chi sostenga che l’inchiesta avrebbe potuto nascere in ogni momento dal Dopoguerra in poi, anche se è vero che alla fine degli anni Novanta certe disinvolture avevano superato ogni limite e così pure la tolleranza di una popolazione in progressiva crisi economica. Noi voliamo basso. Gli scenari - È inutile ricostruire e contestualizzare tutti gli scenari che indubbiamente, più che dare origine all’inchiesta, da un certo punto poi non ne impedirono la nascita come in passato sarebbe probabilmente accaduto, anzi, come probabilmente avvenne. Si possono tuttavia menzionare pochi accadimenti chiave che prepararono il terreno.

- Uno, nell’aprile 1990, fu l’amnistia che contemplava vari reati compiuti sino al 24 ottobre 1989, e tra questi il finanziamento illecito ai partiti. La demarcazione si rivelerà essenziale per giustificare l’impunità di alcune parti politiche e soprattutto per depenalizzare ogni finanziamento illecito versato al Pci dall’Unione Sovietica. Dall’ottobre 1989 al marzo 1992 non passarono che una trentina di mesi: l’intero sconvolgimento del sistema politico italiano è stato realizzato in quel periodo.

- Dirompente, nel tardo 1989, fu poi l’entrata in vigore del nuovo Codice di procedura penale Vassalli-Pisapia. Esso si proponeva, nelle intenzioni, pari dignità giuridica tra accusa e difesa, custodia cautelare come extrema ratio, segretezza delle indagini, pubblicità del processo e, soprattutto, prova che doveva formarsi rigorosamente in aula. Il totale stravolgimento delle velleità del nuovo Codice, con la complicità della classe politica e il palese dolo della magistratura, sarà una chiave di volta della prima e fondamentale parte di Mani pulite. "Troppo garantista" - Molti magistrati nei primi anni Novanta lanciavano grida d’allarme contro un nuovo Codice che paventavano come troppo garantista. Il procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 1992, definì le nuove norme addirittura «ipergarantiste» e lo stesso facevano i cronisti. Il professor Giandomenico Pisapia, presidente della commissione per la riforma del codice di procedura penale, intervistato dallo scrivente nel 1992, la mise così: «È il processo che è pubblico, non le indagini. Il nuovo Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto delle indagini c’è e serve a tutelare sia le indagini sia l’indagato che naturalmente teme che la divulgazione di notizie anticipate possa pregiudicare la sua immagine, immagine che una volta guastata non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione». L’allora vicepresidente del Csm Giovanni Galloni, sempre nel 1992, aggiunse: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l’avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio». Sembra fantascienza.

- Il referendum sulla preferenza unica proposto da Mario Segni simboleggiò poi come anche Bettino Craxi, che invitò bonariamente gli elettori a disertare le urne, non avesse polso di quanto andava montando. Alle urne si recò il 65 per cento degli italiani e il referendum passò con il 95,6 per cento di sì. Il voto celava null’altro che una forte insofferenza contro i partiti.
- Altre date rilevanti, a Mani pulite iniziata, saranno il 5 ottobre 1992 e il successivo 29 ottobre, quando la lira cioè scese al minimo storico e fu ratificato anche in Italia il Trattato di Maastricht sull’unione monetaria. Qualsiasi peculiarità italiana, di lì in poi, avrebbe dovuto allinearsi a parametri ormai imprescindibili: anche da questo, il 10 luglio 1992, nascerà una manovra finanziaria da 30.000 miliardi di lire con cui il governo di Giuliano Amato tenterà un primo risanamento del disavanzo pubblico. Nello stesso periodo verrà avviata la privatizzazione di Iri, Eni, Enel e Ina: una strada obbligata e però gravida di conseguenze sociali e occupazionali che contribuiranno a riscaldare il clima. Castello di carte - L’Italia, all’inizio del 1992, era un castello di carte che aspettava solo un refolo di vento. Crisi varie, inflazione, la Fiat che annunciava prepensionamenti, carabinieri ammazzati dalla camorra, urla contro i politici durante i funerali, l’antipolitica che strepitava dai televisori: senza contare che il capo dello Stato, Francesco Cossiga, il 2 febbraio avrebbe sciolto le Camere. E Milano, da sempre laboratorio anticipatore di ogni brezza o tempesta destinata a spirare nel paese, era una polveriera rimasta incustodita. E Di Pietro? Di Pietro era un magistrato di non buonissima fama. Non aveva rapporti neanche coi giornalisti, o non erano buoni: lo sfotticchiavano per la pronuncia o addirittura fingevano un refuso e scrivevano «Antonio Di Dietro». I giovani cronisti lo chiamavano «il troglodita». Che avesse in mente tutto fuorché Mani pulite l’ha raccontato in più occasioni Elio Veltri, che l’incontrò nei primi giorni di febbraio: il magistrato gli disse che presto avrebbe abbandonato i reati contro la pubblica amministrazione e si sarebbe dedicato alle estorsioni; aveva archiviato il caso di un’intera famiglia di Parma scomparsa nel nulla e «Chi l’ha visto?» ci aveva montato una puntata intera. A lui era piaciuto, la tv lo faceva già impazzire. Ammetterà anche Francesco Saverio Borrelli: «Non immaginavo che dall’arresto di Chiesa potesse nascere quello che è nato, ma credo che non l’immaginasse nessuno. Non l’immaginava certamente Di Pietro».

Così furono nascoste le prove nell’inchiesta sul pool di Milano. Nel ’96 la procura di Brescia ordinò per tre volte alla Digos di recuperare i tabulati dei cellulari dei pm di Mani pulite. Ma sui telefonini di Di Pietro e compagni non fu mai fatto nessun controllo, di Giancarlo Lehner  su “Il Giornale”. L’articolo tre della Costituzione riguarda tutti i cittadini italiani, salvo i magistrati di Milano. La mia non è l’opinione di parte di un berlusconiano, perché, in qualche modo, di questo privilegio sono rimasto vittima: avvenne nel corso di uno dei procedimenti penali per diffamazione a mezzo stampa intentati contro di me proprio dai magistrati del pool di Mani Pulite. Al fine di difendermi io stesso e i miei avvocati avevamo fotocopiato gli atti dell’inchiesta che la procura di Brescia aveva condotto sulla fuga di notizie che il 21 novembre del 1994 permise al Corriere della Sera di ricevere dalla procura di Milano, in tempo reale e in copia cartacea, due delle tre pagine dell’invito a comparire dei magistrati milanesi a Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, all’epoca alla guida del suo primo governo, si trovava a Napoli per partecipare da «padrone di casa» a un convegno internazionale sulla criminalità organizzata. Fotocopiando dunque il faldone «Buccini - Di Feo» (dal nome dei giornalisti del Corriere che grazie alla fuga di notizie misero a segno lo scoop, Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo) mi era capitato tra le mani un fascicolo vuoto. Il frontespizio recitava: «Tabulati utenze cellulari magistrati milanesi». Il pm bresciano che indagava sulla fuga di notizie aveva insomma ordinato alla polizia giudiziaria di raccogliere i tabulati dei cellulari dei pm del pool per verificare date, orari, periodicità delle eventuali telefonate intercorse tra le toghe milanesi ed i cronisti del Corsera. Ma, nei faldoni dell’inchiesta, questi dati non c’erano: la polizia giudiziaria aveva, dunque, disatteso l’ordine del magistrato. Senza, peraltro, esserne chiamata mai a rispondere. Il 6 ottobre 2000 il mio avvocato, Pietro Federico, pone la questione in tribunale, dicendo: «Su nostra istanza la Procura della Repubblica di Brescia, ha scritto al dottor Mariconda (dirigente della Digos alla questura di Brescia) chiedendo chiarimenti sulla mancanza di questi atti». Il dottor Mariconda, il 29 giugno 2000, aveva risposto: «In riferimento alla delega del 13 marzo 1996, a firma del dottor Salamone e dottor Bonfigli (i pm che indagavano sulla fuga di notizie), l’ufficio aveva rappresentato al pubblico ministero l’oggettiva difficoltà ad acquisire presso la Procura di Milano le utenze dei cellulari dei magistrati di quel capoluogo, in particolare il dottor Borrelli, D’Ambrosio, Colombo, Greco, Davigo e Di Pietro. Con ulteriore delega del 13 giugno 1996 il dottor Bonfigli richiedeva l’acquisizione presso il Comune di Milano dell’elenco delle utenze cellulari assegnate dal Comune alla Procura di Milano nel periodo settembre-dicembre 1994. L’ufficio, con nota del 9 ottobre 1996, forniva l’elenco delle utenze fornite dal Comune senza poter indicare a quali magistrati fossero assegnate. In data 11 novembre 1996, il dottor Bonfigli conferiva all’ufficio ulteriore delega per verificare se dalle utenze in uso ad alcuni giornalisti erano state effettuate o ricevute chiamate presso utenze in uso ai magistrati della Procura di Milano. Alla delega veniva allegata una nota dell’allora procuratore di Milano, dottor Borrelli, con l’elenco dei magistrati e delle utenze a loro assegnate. È doveroso precisare - aveva dichiarato l’uomo della Digos - che l’ufficio ha esaminato esclusivamente i tabulati relativi ai giornalisti segnalati, mentre nessuna attività di riscontro è stata svolta riguardo ai tabulati delle utenze dei magistrati». L’avvocato Federico prima a Cles, quindi in appello a Trento e, di nuovo, nella reiterazione dell’appello a Bolzano, chiese che fosse ascoltato il dirigente Digos Mariconda perché rispondesse alla seguente domanda: «È vero che mai nessun controllo venne da lei effettuato sulle utenze in entrata, in uscita, in partenza dai cellulari dei magistrati del pool di Milano querelanti, e comunque implicati e interessati ai procedimenti oggetto di causa, pur essendo stato disposto un accertamento dal dottor Bonfigli di Brescia?». Ma Mariconda non si degnò mai di venire in processo, nessuno lo costrinse a testimoniare e, alla fine il tribunale, specificamente quello di Bolzano, ritenne irrilevante ai fini dell’accertamento della verità la presenza del Mariconda. Io, naturalmente, fui condannato. *Deputato Pdl.

Ecco l'alfabeto di Mani pulite tra pigiamini e Tonino Zanza, di Luca Fazzo su “Il Giornale”.

A come Armani All’inizio di Mani Pulite, nel 1992, i cronisti giudiziari scrivono un po’ quel che gli pare, anche perché i loro capi non capiscono bene cosa sta accadendo. La prima volta che i cronisti vengono invitati alla cautela è quando il pool indaga per corruzione Giorgio Armani e gli altri stilisti del made in Italy. «Ragazzi andateci piano che questi ci danno un sacco di pubblicità».

B come Borrelli Di tutto il pool Mani Pulite, il procuratore Borrelli è l'unico al quale i cronisti danno del Lei. Non fa mai niente per caso (tranne, a volte, indossare un incredibile principe di galles a quadri rossi e verdi). L’unica volta che esce davvero dai gangheri è quando il ministro della giustizia Alfredo Biondi dichiara a Repubblica che da ragazzo il padre lo ammoniva, «Studia studia figlio mio, che altrimenti ti tocca fare il magistrato». Borrelli si infuria e esce in corridoio gridando «Trovatemi Buccini!». Arriva Goffredo Buccini, cronista del Corriere, la penna preferita dal procuratore. E Borrelli gli fa una lunga intervista in cui dà a Biondi dell’ubriacone.

C come Cinghialone È Paolo Brosio (che fingeva di essere uno sfigato ma in realtà era un cronista con i fiocchi) la mattina del 15 dicembre 1992 a dare per primo la notizia: «Hanno sparato al Cinghialone». Nel gergo, vuol dire che è partito il primo avviso di garanzia per Craxi. Sette anni dopo il procuratore Gerardo D’Ambrosio cercherà invano di convincere il resto del pool a consentire a Craxi, gravato da condanne a trent’anni di carcere, di tornare in Italia a curarsi senza passare per San Vittore. Craxi morirà due mesi dopo, latitante ad Hammamet.

D come Disgraziatamente «Disgraziatamente sono il tesoriere del Pds perché avrei preferito restare un modesto dirigente di partito»: così, seduto su una panca di pietra davanti alla sala stampa del Tribunale, si confida con i giornalisti Marcello Stefanini. L’avviso di garanzia al dirigente della Quercia spacca il pool. Di lì a poco Stefanini muore.

E come Ecolibri La pista che porta il pool Mani Pulite a indagare sui finanziamenti dalla Germania Est al Pci-Pds passa per una semisconosciuta casa editrice di nome Ecolibri, presieduta dalla sorella di Achille Occhetto, il segretario della svolta. L’inchiesta finisce con una rogatoria in Germania, condotta dal pm Ielo con folto codazzo di cronisti al seguito. La rogatoria non approda praticamente a nulla, a Berlino in compenso Paolo Brosio «cucca».

F come Frigorifero È il nome in codice di Vincenzo Pancrazi, comandante del nucleo operativo dei carabinieri, così detto per il suo carattere non tanto espansivo. La mattina presto Pancrazi convoca i giornalisti e dirama il bollettino degli arrestati della notte precedente. Molti di loro saranno già a casa la sera stessa, dopo avere confessato le proprie colpe e tirato in ballo amici e nemici, destinati a finire nel bollettino degli arrestati del giorno dopo.

G come Greco Domenica 19 giugno 1999, in una Procura deserta, Silvio Berlusconi incontra i pm Paolo Ielo e Francesco Greco. L’incontro dovrebbe servire a svelenire i rapporti tra il Cavaliere e il pool Mani Pulite, e lì per lì sembra che tutto vada bene. «È stata una svolta - spiega il procuratore, Gerardo D’Ambrosio - perché dopo anni di contrapposizioni Berlusconi ha riconosciuto il nostro ruolo. Noi abbiamo dato la garanzia che la Fininvest sarà trattata come qualunque altro indagato». È noto come è andata a finire.

I come Intercettazioni Durante tutta Mani Pulite non è mai stata fatta neanche una intercettazione telefonica.

L come Lacrime Un pomeriggio qualunque del 1993, due cronisti chiacchierano con Di Pietro nella sua stanza. Senza motivo apparente, Di Pietro si mette a piangere. I cronisti se ne vanno increduli, «sarà stanco, avrà problemi a casa». In realtà, è già partita la controinchiesta di Brescia che porterà Di Pietro alle dimissioni dalla magistratura.

M come Moroni Sergio Moroni, deputato socialista, finisce nelle cronache di Mani Pulite un giorno dell’estate del 1992, quando viene raggiunto da un avviso di garanzia. Moroni chiama un cronista per precisare la sua posizione: lo fa con garbo, quasi con timidezza. Il cronista a stento lo sta ad ascoltare: è uno dei tanti. Il 2 settembre, nella sua casa, Moroni si spara col fucile da caccia. Lascia una lettera al presidente della Camera, Giorgio Napolitano: «Ho commesso un errore accettando il sistema», scrive. «Ma non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da pogrom nei confronti della classe politica».

N come Notte La differenza tra Mani Pulite e le altre inchieste è che buona parte del lavoro si fa di notte. Di giorno gli arrestati confessano, di notte Di Pietro manda le nuove richieste di arresto al giudice che gliele firma. Quando i cronisti arrivano in Procura, di solito trovano Di Pietro in ciabatte e con la barba da fare.

O come Oscar Il 16 giugno 1994 il cassiere democristiano Severino Citaristi, recordman degli avvisi di garanzia, riceve l’ennesimo ordine di cattura. Ai domiciliari gli arriva la telefonata di consolazione del presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Gli chiedono i cronisti: non è strano che il capo dello Stato esprima solidarietà a un arrestato? «Io credo, anzi sono sicuro, che Scalfaro mi abbia chiamato come amico, visto che siamo amici da vent’anni».

P come Pigiamino Nel gergo dei cronisti di Mani Pulite, è l’intervista collettiva ai futuri arrestati. Quando si capisce che ai polsi di qualcuno stanno per scattare le manette, si va a trovarlo in ufficio e gli si fanno un po’ di domande. Il malcapitato non capisce il motivo di tanto interesse fino alla mattina dopo, quando arrivano i carabinieri a portarlo via.

Q come Questura L’inchiesta più importante della storia della Prima Repubblica viene condotta dai carabinieri. La polizia, come si può immaginare, rosica. Dalla questura vengono rivolte accorate richieste alla Procura perché anche la Squadra Mobile sia coinvolta in qualche modo nell’indagine. Ma non c’è niente da fare, alla polizia vengono lasciate solo le briciole.

R come Roccia Uno Negli anni di Mani Pulite ascoltare in redazione le radio dei carabinieri è ancora un peccato veniale. Quando le radio dicono: «Un plico per Roccia Uno» vuol dire che i carabinieri hanno arrestato qualcuno e lo stanno portando a San Vittore. Per i cronisti diventa un’abitudine bivaccare nell’androne del carcere milanese, chiacchierando con le guardie.

S come Sisde Cosa hanno fatto i servizi segreti durante Mani Pulite? Hanno dato una mano? Hanno remato contro? Non si è mai saputo. Nell’archivio di Craxi verranno però trovati appunti dei «servizi» su Di Pietro, con le stesse accuse che porteranno all’incriminazione del pm.

T come Tortura «Siamo a un passo dalla tortura», dicono il 5 agosto 1992 i difensori di Salvatore Ligresti. Gherardo Colombo ai cronisti: «Vedete un po’ voi, siete sempre davanti alla porta, sentireste qualcosa...». Tra le presunte vittime degli interrogatori, il manager Bruno Binasco, che lavora per un socio di Ligresti: che non rimane molto traumatizzato, visto che vent’anni dopo riemergerà nell’inchiesta sulle tangenti a Filippo Penati dei Ds.

U come Uccidiamo Nel 1993 il pool comincia a indagare sulla Guardia di finanza. È il troncone che porterà al primo avviso di garanzia a Berlusconi. Sui giornali cominciano a circolare i primi articoli sul giro delle mazzette all’interno delle fiamme gialle milanesi. Un colonnello, che diventerà poi generale, incontra due cronisti davanti all’ascensore di servizio della Procura. «Voi siete nostri nemici - gli dice - e noi siamo soldati. Quindi i nostri nemici li rispettiamo e li uccidiamo». Stupore.

V come Verbali Chi passa i verbali ai giornalisti? Praticamente tutti, perché Borrelli ha spiegato pubblicamente che quando vengono allegati a un’ordine di cattura non sono più segreti. Così si è creato un allegro clima da figurine Panini, in cui le carte dell’inchiesta vengono scambiate alla luce del sole. Un occhio di riguardo viene dato solo ai settimanali, Espresso e Panorama, che altrimenti il venerdì non saprebbero cosa scrivere.

W come Walter La vulgata popolare vuole che l’unico imputato di Mani Pulite finito a espiare la pena sia stato Sergio Cusani. Non è vero: anche Walter Armanini, ex assessore socialista del Comune di Milano, quando la pena divenne definitiva dovette presentarsi in carcere. Essendo un bon vivant, scelse quello di Orvieto, una antica rocca ristrutturata. In carcere riceveva i cronisti (con i quali si metteva a piangere, «sono l’unico fesso che ha pagato») ma anche le lettere d’amore della sua fidanzata, la bella attrice Demetra Hampton. In carcere si ammala di tumore, viene scarcerato e muore.

Z come Zanza «Zanza» o anche «Zanzone» è il nome in codice che i cronisti di Mani Pulite affibbiano a Di Pietro: nel gergo della malavita milanese «Zanza» sta per truffatore. E Di Pietro se lo conquista per la sua abitudine, quando i cronisti lo assillano, di toglierseli di torno rifilando loro «soffiate» che quasi sempre si rivelano dei depistaggi. Ma i cronisti, tranne qualcuno, lo adorano ugualmente.

"LO STATO": MAFIOSO, PAVIDO E BUGIARDO.

L'epistemologia è quella branca della filosofia che si occupa delle condizioni, sotto le quali si può avere conoscenza scientifica, e dei metodi per raggiungere tale conoscenza, come suggerisce peraltro l'etimologia del termine, il quale deriva dall'unione delle parole greche Epistema ("conoscenza certa", ossia "scienza") e logos (discorso). In un'accezione più ristretta l'epistemologia può essere identificata con la filosofia della scienza, la disciplina che si occupa dei fondamenti delle diverse discipline scientifiche. In epistemologia, un assioma è una proposizione o un principio che viene assunto come vero perché ritenuto evidente o perché fornisce il punto di partenza di un quadro teorico di riferimento. Il termine dogma (o domma) è utilizzato generalmente per indicare un princìpio fondamentale di una religione, o una convinzione formulate da filosofi e poste alla base delle loro dottrine, da considerarsi e credere per vero da chi si reputa loro seguace o fedele. Il termine può essere applicato in senso estensivo a discipline diverse da quelle religiose.

Bene, anzi male. In tema di mafia vi è un assioma elevato a dogma per il quale chi non è comunista, o comunque chi non è di sinistra, è per forza di cose un mafioso, un para mafioso o un sostenitore della mafia. Questo si evince dalle tante inchieste emerse in tutta Italia e dalla piega che ha assunto la cosiddetta lotta "Antimafia": lotta di parte o di facciata. E’ difficile trovare degli esponenti politici di sinistra che siano stato colpiti da inchieste di mafia, specialmente quanto i titolari delle indagini siano Pubblici Ministeri di una certa area politica. Di contro vi sono evidenti ed ostinati tentativi giudiziari di coinvolgere esponenti politici governativi del centro-destra, nonostante tutti gli schieramenti siano stati investiti di responsabilità governativa, dimostrando nei fatti di essere tutti uguali. Hanno cercato di colpire Andreotti e Berlusconi e i loro referenti istituzionali locali. Molti deputati, ma anche uomini servitori dello Stato. Come Giovanni Falcone, Bruno Contrada, Mario Mori, colpevoli di essere stati promossi a ranghi istituzionali al posto di chi altri aspirava ad occuparli: Falcone e Contrada nominati dall’area Adreottiana-craxiana; Mori da Berlusconi.

Giovanni Falcone, medaglia d’oro al valor civile. Palermo 5 agosto 1992. «Magistrato tenacemente impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, consapevole dei rischi cui andava incontro quale componente del 'pool antimafia', dedicava ogni sua energia a respingere con rigorosa coerenza la sfida sempre più minacciosa lanciata dalle organizzazioni mafiose allo Stato democratico. Proseguiva poi tale opera lucida, attenta e decisa come Direttore degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, ma veniva barbaramente trucidato in un vile agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificando la propria esistenza, vissuta al servizio delle Istituzioni.»

Nel gennaio '90, Falcone coordina un'altra importante inchiesta che porta all'arresto di trafficanti di droga colombiani e siciliani. Ma a maggio riesplose, violentissima, la polemica, allorquando Orlando interviene alla seguitissima trasmissione televisiva di Rai 3, Samarcanda dedicata all'omicidio di Giovanni Bonsignore, scagliandosi contro Falcone, che, a suo dire, avrebbe "tenuto chiusi nei cassetti" una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti della mafia. Le accuse erano indirizzate anche verso il giudice Roberto Scarpinato, oltre al procuratore Pietro Giammanco, ritenuto vicino ad Andreotti. Si asseriscono responsabilità politiche alle azioni della cupola mafiosa (il cosiddetto "terzo livello"), ma Falcone dissente sostanzialmente da queste conclusioni, sostenendo, come sempre, la necessità di prove certe e bollando simili affermazioni come "cinismo politico". Rivolto direttamente ad Orlando, dirà: "Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati". La polemica ha continuato ad alimentarsi anche dopo la morte del giudice Falcone. In particolare, la sorella Maria Falcone in un collegamento telefonico con il programma radiofonico "Mixer" ha accusato Leoluca Orlando di aver infangato suo fratello, « hai infangato il nome, la dignità e l'onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore dello Stato contro la mafia[...]lei ha approfittato di determinati limiti dei procedimenti giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario». In un'intervista a Klauscondicio, Leoluca Orlando ha dichiarato di non essersi pentito riguardo alle accuse che rivolse a Falcone. In un'intervista del 2008 al Corriere della Sera il Presidente emerito Francesco Cossiga ha imputato al Csm grosse responsabilità riguardo alla morte del Giudice Falcone, ha infatti affermato: «i primi mafiosi stanno al CSM. [Sta scherzando?] Come no? Sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la DNA e prima sottoponendolo a un interrogatorio. Quel giorno lui uscì dal CSM e venne da me piangendo. Voleva andar via. Ero stato io a imporre a Claudio Martelli di prenderlo al Ministero della Giustizia.» La polemica sancì la rottura del fronte antimafia, e da allora in poi Cosa Nostra si avvantaggerà della tensione strisciante nelle istituzioni, cosa che avvelenò sempre più il clima attorno a Falcone, isolandolo. Alle seguenti elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura del 1990, Falcone venne candidato per le liste collegate "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88", ma non viene eletto. Fattisi poi via via sempre più aspri i dissensi con Giammanco, Falcone optò per accettare la proposta di Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio e ministro di Grazia e Giustizia ad interim, a dirigere la sezione Affari Penali del ministero. In questo periodo, che va dal 1991 alla sua morte, Falcone fu molto attivo, cercando in ogni modo di rendere più incisiva l'azione della magistratura contro il crimine. Tuttavia, la vicinanza di Giovanni Falcone al socialista Claudio Martelli costò al magistrato siciliano violenti attacchi da buona parte del mondo politico. In particolare, l'appoggio di Martelli fece destare sospetti da parte dei partiti di centro sinistra che fino ad allora avevano appoggiato una possibile candidatura di Falcone. Falcone in realtà profuse tutta la propria professionalità nel preparare leggi che il Parlamento avrebbe successivamente approvato, ed in particolare sulla procura nazionale antimafia. Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone è costretto a difendersi davanti al CSM in seguito all'esposto presentato il mese prima (l'11 settembre) da Leoluca Orlando. L'esposto contro Falcone era il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato palermitano, il quale ribatté ancora alle accuse definendole «eresie, insinuazioni» e «un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario». Sempre davanti al CSM Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo, affermò che «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo». In questo contesto fortemente negativo, nel marzo 1992 viene assassinato Salvo Lima, omicidio che rappresenta un importante segnale dell'inasprimento della strategia mafiosa la quale rompe così gli equilibri consolidati ed alza il tiro verso lo Stato per ridefinire alleanze e possibili collusioni. Falcone era stato informato poco più di un anno prima con un dossier dei Carabinieri del ROS che analizzava l'imminente neo-equilibrio tra mafia, politica ed imprenditoria, ma il nuovo incarico non gli aveva permesso di ottemperare ad ulteriori approfondimenti. Il ruolo di "Superprocuratore" a cui stava lavorando avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. Ma ancor prima che egli vi venisse formalmente indicato, si riaprirono ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell'autonomia della Magistratura ed una subordinazione della stessa al potere politico. Esse sfociarono per lo più in uno sciopero dell'Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppose inizialmente Agostino Cordova. Sostenuto da Martelli, Falcone rispose sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo, presumibilmente, che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua determinazione, egli fu sempre più solo all'interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà tristemente la sua fine. Emblematicamente, Falcone ottenne i numeri per essere eletto Superprocuratore il giorno prima della sua morte. Nell'intervista rilasciata a Marcelle Padovani per "Cose di Cosa Nostra", Falcone attesta la sua stessa profezia: "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere."

Bruno Contrada. Entrato in Polizia nel 1958, frequentò a Roma il corso di istruzione presso l’Istituto superiore di polizia. Dopo alcuni ruoli nel Lazio, nel 1973 gli venne affidata la direzione della squadra mobile di Palermo. Nel 1982 transitò nei ruoli del SISDE con l’incarico di coordinarne i centri della Sicilia e della Sardegna. Nel 1986 fu chiamato a Roma presso il Reparto Operativo della Direzione del SISDE. Il 24 dicembre 1992, venne arrestato perché accusato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso (estensione giurisprudenziale dell'art. 416 bis Codice penale) sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (tra i quali Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese, Salvatore Cancemi) e rimase in regime di carcere preventivo fino al 31 luglio 1995. Il primo processo a suo carico, iniziato il 12 aprile 1994, si concluse il 19 gennaio 1996, quando, al termine di una requisitoria protrattasi per ventidue udienze, il pubblico ministero Antonio Ingroia chiese la condanna a dodici anni. Il 5 aprile 1996 i giudici disposero dieci anni di reclusione e tre di libertà vigilata. Il 4 maggio 2001 la Corte d'Appello di Palermo lo assolse con formula piena. Il 12 dicembre 2002 la Corte di Cassazione annullò la sentenza di secondo grado, ordinando un nuovo processo davanti ad una diversa sezione della Corte d'Appello di Palermo. Il 26 febbraio 2006 i giudici di secondo grado confermarono, dopo 31 ore di camera di consiglio, la sentenza di primo grado che condannava Bruno Contrada a 10 anni di carcere e al pagamento delle spese processuali. Il 10 maggio 2007 la Corte di cassazione ha confermato la sentenza di condanna in appello. Contrada venne rinchiuso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Il 24 settembre 2011 la Corte d'appello di Caltanissetta ha ammesso la revisione del processo in cui Bruno Contrada è stato condannato a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo di revisione comincerà davanti alla Corte d'appello di Caltanissetta. Due richieste analoghe, presentate dal difensore di Contrada, l'avvocato Giuseppe Lipera, erano state rigettate.

SENATO: PRESENTAZIONE LIBRO "GIUSTIZIA ASSISTITA" DI PIERO MILIO. Roma, 06 giugno 2011 - Sala Conferenze ex Hotel Bologna in via di Santa Chiara 5, presentazione di "Giustizia assistita", volume che raccoglie scritti e interventi dell'avvocato Piero Milio, ex senatore radicale e storico avvocato difensore di Bruno Contrada e del generale Mario Mori, deceduto nel 2010 a Palermo. (relatori: Pierluigi Winkler, presidente della Koiné Nuove Edizioni, avv. Basilio Milio, sen. Emanuele Macaluso, direttore de "Il Riformista", sen. Luigi Compagna, dott. Massimo Bordin, giornalista di "Radio Radicale". Moderatore dott. Massimo Martinelli, giornalista de "Il Messaggero". Saluto di Maurizio Gasparri, presidente del Gruppo Pdl al Senato. Tra i presenti, l'ex ministro Interni Nicola Mancino, il gen.le Mario Mori, Ida e Pupa, sorelle del generale Bruno Contrada, Marina Salvadore del Comitato Bruno Contrada Napoli, la quale dà un dettagliato resoconto.

«Dall’umido esilio di Liternum marciava, ieri, verso il Senato di Roma imperiale un manipolo sgangherato dei “bona fides” di Scipione Bruno Contrada. Accadeva che in contemporanea con l’ennesima archiviazione della Procura dell’ennesimo esposto del generale contro i calunniatori ed i mistificatori, la contraddizione palese della sua piena riabilitazione morale e professionale sarebbe fiorita, per contro, sulle bocche dei più alti rappresentanti istituzionali, ripresi anche dalle telecamere. Il Camel Trophey degli impavidi invecchiati accanto al generale, arrancava motivato alle porte di Roma Sud, riannusandone la grandezza e la potenza. La speranza! Provenienti dalla bidonville del Mezzogiorno reietto, oltre la Porta romana li confondeva in quel caos urbanistico l’assenza totale di pattume, creando in loro la suggestione d’essere proiettati in un'altra realtà, in un altro mondo, in un’altra vita. Troppo era durato l’esilio da Roma, da non riconoscerla più! L’occasione propizia, utile a riaccendere ceri votivi per evocare la luce nel lungo tunnel buio dell’oblio ed a rigenerare gli esuli in un’istantanea reincarnazione, come esperienza mistica, esoterica, si doveva alla generosità biodinamica, ancora attiva, di chi della Verità, nel Senato di Roma, s’era fatto testimone e maestro, l’avvocato Piero Milio che – ancora – dalla quarta dimensione faceva udire distintamente la sua voce, consentendo alla platea di visualizzarlo con la toga gettata in spalla, l’indice puntato ai calunniatori ed il braccio sinistro – quello del cuore – a cingere le spalle di Bruno Contrada e Mario Mori! L’eredità di un suo libro di memorie, rinvenuto tra i files del computer dal suo degno figliolo, il giovane e capace avvocato Basilio, veniva così, ieri, equamente divisa a vittime e carnefici: ad ognuno onori ed oneri, a seconda del ruolo da loro rivestito nella italica “Giustizia Assistita”. Parole come sassi levigati dal mare, memorie del 2001 attualissime, dacché niente è cambiato nel “sistema” ma ad oggi, in progressione geometrica, lievitando l’una sull’altra, pagine di Mafia e Giustizia incombono come la nuvolaglia nera che ingrossa sempre più il diluvio delle iniquità! L’Italia del Diritto, dalla culla alla bara. La circostanza della presentazione del libro, voleva essere il giusto tributo al ricordo di Piero Milio, scomparso da un anno; invece, si è tradotto nel tributo del grande avvocato alla Giustizia Giusta, come per un’ultima appassionata arringa, a perenne monito. Sentire risuonare in quella sede prestigiosa di nuovo il nome di Bruno Contrada, il racconto delle sue eroiche imprese, é stato emozionante fino alla lacrime, seppure una strana rabbia formicolasse nel palmo della mano che avrebbe voluto levarsi per chiedere d’essere auditi, per dire la propria, partecipando di DIRITTO, come in un agorà o in un sacro conclave e non solo quale muto spettatore. Diciotto anni di persecuzione ambivano a trovare riscatto almeno in un fotogramma di umana rivendicazione… ma il prodigio era già tutto racchiuso, avaro, nel privilegio unico della condivisione spartana dell’evento: vietate le repliche e il contraddittorio, il dibattito ed addirittura non previsto un opportuno banchetto promozionale dei libri all’editrice Koinè, tanto che il nostro canuto manipolo di reduci della Silva Gallinaria, mostrava in quel consesso, ad uso di reliquia trasportata lungo la via Capuana e la via Appia fino in Roma imperiale, una copia del libro; come Saul, noto come san Paolo di Tarsia, che da Pozzuoli a Roma recò seco le sue lettere da spedire ai Corinzi. Prescelti, nevvero? Pochi ma buoni gli invitati al rito di ufficiosa riabilitazione, quasi che gli anfitrioni istituzionali provassero ancora ancestrale imbarazzo a trattare di certe vergogne nazionali, seppure nel pieno possesso, ora, dei più ampi poteri conferiti loro dal Governo della Nazione. Pertanto, l’evento è stato di portata eccezionale, con la maggioranza assoluta di relatori insigni ed augusti ospiti, da ridurre in minoranza la sorpresissima platea, oltremodo zittita nel disagio di “eccesso di grazia” non previsto. Il senatore Macaluso, autentico istrione, bene ci appassionava alla sua Lectio Magistralis sulla degenerazione della sinistra storica in sinistra complottista, rendendo onore ai servitori dello Stato ingiustamente intrappolati nel ruolo di capri espiatori, ricordando con estrema lucidità l’uso consapevole e riservato che dei “pentiti” di mafia il giudice Falcone intendeva, fino all’abominio odierno dell’abuso mirato e relative strumentalizzazione di questi, da parte di certe procure, con i risultati che ridondano nelle cronache giustiziere quotidiane. Riferendosi al vergognoso processo Contrada, Macaluso evidenziava come il ruolo degli investigatori dei “servizi” non abbia mai goduto delle opportune protezioni dovute ai professionisti di rango che, necessariamente, nel loro pericoloso ed esclusivo lavoro, al pari dei militari cosiddetti “infiltrati” devono impattarsi e relazionarsi con criminali pericolosissimi; questa assenza di misure speciali a tutela di uomini coraggiosi mandati allo sbaraglio dallo Stato medesimo, si è rivelata un’arma a doppio taglio, finendo col conferire autorevolezza più ai criminali che agli esponenti delle forze dell’ordine e allargando ancor più il solco tra lo Stato e “certe” Procure innegabilmente politicizzate, col risultato che i migliori uomini impegnati nella lotta alla Mafia e al Terrorismo si sono trovati, come Contrada e Mori, esposti al pubblico ludibrio e messi alla sbarra quando non ristretti nelle galere di quello Stato che sarebbe stato in dovere solo di ringraziarli e di premiarne l’audacia. A Macaluso faceva eco il senatore Compagna sul ruolo giocato da Ciancimino junior in due anni di pubbliche audizioni quasi quotidianamente divulgate con evangelici titoli sensazionali e che lo trasformavano in star televisiva da reality-show, salvo, poi, il sancire da altra procura concorrente l’inidoneità e l’inadeguatezza di questi al ruolo di “collaboratore di giustizia”. Come non sottolineare che ad un comune delinquente era stata posta sul capo l’aureola di “eroe romantico” e che ai Ciancimino, agli Spatuzza, ai Brusca e compagnia, lanciatori di coltello, si offrivano addirittura spade affilate per esercitare il ricatto, volgarmente ostentato quale riscatto. Emblematico il riferimento al micidiale quantitativo di esplosivo rinvenuto nel giardino di casa del finto fesso Ciancimino che… chissà perché, per cosa e da quando lo deteneva… e che solo un mese dopo il suo casuale rinvenimento è stato regolarmente denunciato quale reato, laddove ad un comune mortale non celebre quanto il fighetto in questione, le porte del carcere si sarebbero spalancate per direttissima. Ebbene, ad un soggetto di tal tipo si è consentito, per anni, di infamare ignobilmente, con racconti fantastici persone come il generale Mori, presente anch’egli al convegno e signorilmente premuroso con la non vedente signora Ida, sorella di Bruno Contrada delle cui condizioni si informava, pregandola di portargli un solidale saluto. L’intervento di Compagna non poteva non scivolare sulla necessità di una riforma della Giustizia, sulle dolenti note della separazione delle carriere e dei controversi rapporti tra polizia giudiziaria e magistrati. A quel punto, avremmo voluto urlare la necessità dell’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul Pentitificio di Stato e ricordare anche che gli italiani, molti anni fa, con referendum votarono già a favore della responsabilità civile dei magistrati e sull’onda del breve intervento di rito di Maurizio Gasparri in ordine alla necessità di trattare le responsabilità di chi accusa e di chi giudica, tanto noialtri profughi del litorale domitio quanto l’inossidabile senatore Mauro Mellini sussultavamo sulla sedia, pensando al trasferimento, al momento inopportuno, del ministro Alfano dalla Giustizia alla segreteria del partito, con guizzi di riforma congelati sul nascere ed un futuro – eccetto i soliti imprevisti – di soli due anni per consentire al suo successore di realizzare appieno la riforma medesima. Poteva mancare all’illustre consesso che godeva dell’armonia perfetta di quegli illustri uomini di sinistra, di destra… di sopra e di sotto l’inquietante convitato di pietra? L’ex ministro degli Interni, Nicola Mancino, seduto in prima fila, immobile come un animale a sangue freddo nell’autunno avanzato, ascoltava, senza emettere suono, senza battere ciglio… e ripensando, noialtri, alla recente riesumazione del primo patto Stato-Mafia, ripescato dagli annali occulti dell’annus orribilis 1992, un brivido lungo la schiena ci coglieva nonostante l’afa insopportabile della inoltrata primavera romana. Un brivido di paura, sì, al solo pensare – stante le cronache politiche alquanto bizzose; anzi, bislacche – ad una più violenta e perniciosa riedizione di quel fallito golpe sinistro del ’92. Tuttavia, la rassicurante presenza del senatore Milio aleggiava nell’aula, percepibile ancora attraverso l’umiltà e l’eleganza cortese di suo figlio Basilio che serenamente blandiva relatori, ospiti e spettatori, rammentando senza ostentazione il coraggio della dignità messo nelle numerose ed impegnative lotte civili da suo padre, in tempi e su territorio pericolosissimi. Di lui, proprio nel ’92, Giovanni Falcone disse: “L’avvocato Milio fa parte di quella eletta schiera, in verità abbastanza esigua, di avvocati palermitani che sono pronti anche ad addossarsi questo sacrificio e i pericoli non lievi che comporta l’assunzione di certe difese”; Falcone, occorrerebbe sempre ricordarlo, aveva precedentemente gratificato con un encomio scritto anche Bruno Contrada e il risultato dell’equazione è che – certamente – tutti coloro che ora sfruttano ideologicamente la memoria di Falcone (e di Borsellino) sono gli stessi che – in puro stile mafioso – se ne liberarono. Non a caso in “Giustizia assistita” Milio, come su un Golgota ideale, ricompone una trinità di martiri: Falcone, Contrada e Mori… ed il suo libro, pronto da anni ed ostacolato per anni nella debita divulgazione è quantomai attuale. Qualcuno, tra i relatori, faceva anche un rapido accenno alla denuncia fatta a Borsellino, dopo la morte di Falcone, degli intrallazzi tra partecipazioni statali e mafie… ah! se avessimo avuto l’opportunità di intervenire avremmo chiesto ai senatori della Repubblica perché allo sfortunato ex sindacalista UIL della Fincantieri Palermo, Gioacchino Basile, che da anni chiede inutilmente di essere audito dalla Commissione Antimafia, non gli si riconosce un briciolo solo dell’autorevolezza che permea i brutti ceffi “pentiti” nell’immaginario collettivo di certi PM rampanti… La ricca performance volgeva alla fine. Il senatore Gasparri, spariva veloce dietro una porta, per impegni di rango o perché tormentato al pensiero delle domande che leggeva sulle labbra di noialtri cafoni della Silva Gallinaria. Gradevolmente, l’aristocratica e gentile direttrice editoriale della Koiné, Madrilena Lioi e gli altri relatori si attardavano cordialmente con noi, prestandosi anche al rito delle foto-ricordo. Ida Contrada, affetta da cecità, percepiva più intensamente i sentimenti di chi la circondava e rideva felice. Di ritorno al paesello, mi confidava d’essersi divertita molto al pensiero che tutti quei politici importanti s’erano lasciati fotografare con una dei “Contrada”, richiamando alla memoria, sorniona, l’episodio degli scatti fotografici di Di Pietro alla medesima mensa di Bruno Contrada, nella prenatalizia del ’92… e tutto il casino che ne scaturì!... In realtà era felice per aver di nuovo, dopo tanto tanto tempo, sentito dire così bene ed in un contesto così importante, del suo adorato fratello, il generale Bruno Contrada.»

Mario Mori è un generale e prefetto italiano. È stato comandante del ROS e direttore del SISDE.

Quel che pensa davvero del gip che l’ha rinviato a giudizio d’imperio nonostante la richiesta d’archiviazione del pm, l’ormai ex ministro all’Agricoltura, Saverio Romano, lo rende noto nel libro-intervista La Mafia addosso (il Borghese editore). Prima, però, fa una premessa a buon intenditor: dal 1991 al 2000 ho fatto di tutto, dal consigliere provinciale al presidente di banca, ero conosciutissimo e mai è girata una chiacchiera. Dal 2001 sono diventato tre volte deputato e parlamentare europeo. A un certo punto, però, arrivano le «delazioni» del pentito Campanella che - sostiene Romano - si annullano coi riscontri in atti, con alcune sentenze e con le delazioni di un altro pentito di Villabate, Mario Cusimano. «Insomma, fino a settembre dell’anno scorso (2010) ero un parlamentare dell’opposizione. Il 29 settembre ho votato la fiducia e a novembre è stato riesumato il mio caso giudiziario, che ormai era un cadavere nel quale non si poteva che chiedere l’archiviazione». Aver fatto da salvagente al governo Berlusconi - dice - è la causa di tutto. Nel libro Romano non va a caccia di colpevoli, ma riserva critiche al gip che ha proceduto con l’imputazione coatta: «In generale, i magistrati non ce l’hanno con me, ma con Berlusconi. La cosa grave è che qualcuno vorrebbe alimentare lo scandalo nei confronti di questo (ex) governo dopo otto anni di indagine e due richieste di archiviazione del mio caso, rimasto tre anni in un cassetto senza che nessuno se ne curasse più. Un caso ormai chiuso, riesumato da un’ordinanza illogico-deduttiva». Proprio così: illogico-deduttiva. «Un’ordinanza che gli esami di magistratura avrebbe provocato la bocciatura del candidato perché è frutto di personalissime convinzioni, legate a una realtà virtuale, che solo questo giudice è riuscito a partorire». E giù con gli esempi, a cominciare dalle frequentazioni con mafiosi, tipo Guttadauro, «che le carte dei pm dimostrano non esserci mai state (...)». L’unico «persuaso dell’incontro con Guttadauro è il gip, ma solo sulla base di un suo convincimento personale formato su mere illazioni e smentito da tutti gli elementi acquisiti». L’ex ministro non parla di malafede del gip Castiglia. Però non può far a meno di notare che «è stato iscritto ai Verdi e Md, dove non hanno una buona opinione di Berlusconi. Non lo dico io, ma è lui stesso a dirlo. Basta andare su alcuni blog e leggere come si è espresso nei confronti del governo e dei suoi provvedimenti». In un intervento pubblico in materia di intercettazioni, il 10 giugno 2008, su toghe.blogspot.com Castiglia «osanna un post» dove si dice che «il terrore delle intercettazioni è un problema che hanno solo i potenti e i corrotti» e poi che la legge «è la prima vera legge vergogna che riguarda i processi di Berlusconi». In un altro blog, il 15 novembre 2009, il gip loda uno studente che prende di petto l’allora Guardasigilli Alfano («complimenti, complimenti, complimenti») poi sottoscrive un duro «appello per la giustizia civile» di Md contro la riforma dell’ordinamento giudiziario. «Non voglio dimostrare la sua acrimonia verso di me - chiosa Romano - però poi leggo un’altra sua ordinanza su tizio che inequivocabilmente partecipa a un vertice di Cosa nostra, e ne archivia il caso perché partecipare a un summit mafioso non equivale a essere mafioso. Per me, invece, pur non avendo uno straccio di prova di un mio semplice contatto con la mafia, ha chiesto l’imputazione coatta».

LA VERSIONE DEL GENERALE E PREFETTO MARIO MORI.

La vera storia di un grande carabiniere sotto processo, Mario Mori, raccontata da Claudio Cerasa, tratta da “Il Foglio”.

Se Leonardo Sciascia avesse conosciuto il generale Mario Mori prima di scrivere “Il giorno della civetta” il suo capitan Bellodi non sarebbe stato un giovane poliziotto con gli occhi chiari, i capelli scuri, il viso tirato e l’accento emiliano, ma sarebbe stato piuttosto un piccolo brigadiere triestino con i capelli bianchi, i baffi corti, la voce bassa, gli occhi azzurri, un curriculum da sballo, il vaffanculo facile facile e sei numeri che hanno cambiato la sua vita: 2789/90. Quelle del generale Mori e del capitan Bellodi sono due storie che viaggiano su binari paralleli: un uomo sceso dal nord per andare in Sicilia disposto a rompersi la testa per combattere la mafia, e che dopo essere riuscito ad arrestare il più temuto dei capi-cosca improvvisamente si ritrova contro ora i politici, ora gli avvocati, ora i magistrati, ora i giudici, ora le procure e ora naturalmente i giornali. E i giornali ne riparleranno presto del generale, e c’è da scommettere che non ne parleranno bene. Il 16 giugno del 2008 la procura di Palermo ha aperto un’indagine contro Mori per “favoreggiamento aggravato” a Cosa Nostra, e gran parte dei prossimi anni il generale le dedicherà a quel processo.

Di che cosa è accusato il capitan Bellodi? La procura di Palermo ha indagato Mori come responsabile della mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995, ma il processo per favoreggiamento nasconde una storia molto particolare. A Mori è successa la stessa cosa capitata all’eroe di Sciascia: si è ritrovato di fronte a qualcuno che vuole riscrivere la storia di un periodo cruciale per l’Italia e che vuole offrire a uno dei protagonisti di quei giorni la parte dell’antagonista brutto, sporco, cattivo e, perché no?, pure compromesso. Il processo a Mori è un modo come un altro per tentare di dimostrare che una parte della stagione delle stragi, nel 1992, in particolare quella che coinvolse il giudice Paolo Borsellino, fu causata dallo stesso generale che “voleva a tutti i costi trattare con la mafia”. Ma molti non conoscono un particolare. In quegli anni Mori iniziò a raccogliere i suoi giorni in 29 agende a righe con la copertina rigida: dagli anni 80 a oggi non c’è appuntamento che Mori non abbia segnato su questi fogli, e dalla lettura di quelle pagine, tenute segrete per molto tempo, emergono delle verità molto interessanti.

Roma, due dicembre 2009. Mario Mori siede dietro la scrivania al terzo piano di un ufficio che si affaccia a strapiombo su Piazza Venezia: ha lo sguardo vispo, gli occhi un po’ scavati, i capelli tagliati corti, le mani distese poggiate sulle cosce e un libricino aperto a pagina 37 con una “x” segnata a matita accanto a un aforisma di uno degli scrittori più amati dal generale, Giacomo Leopardi. Il dettato piace molto a Mori: “La schiettezza allora può giovare, quando è usata ad arte, o quando, per la sua rarità, non l’è data fede”.

Il generale accetta di riceverci nel suo piccolo studio privato e inizia a raccontare come è cambiata la sua vita. Sono tante le ragioni per cui la carriera di Mori risulta affascinante ma vi è un aspetto che rende la sua storia molto significativa. Ed è la prima cosa che ti colpisce quando ti ritrovi di fronte a lui: ma come è possibile che un super sbirro, un grande carabiniere che ha acciuffato i capi di Cosa Nostra, che ha messo in galera tipacci come Totò Riina e che ha contribuito a smantellare numerose cupole mafiose sia, e sia stato, processato con le stesse accuse degli stessi criminali che per anni ha perseguito e arrestato? Vuoi vedere che forse c’è qualcosa, qualcosa della sua vita, qualcosa dei suoi anni a Palermo, qualcosa della sua esperienza al Sisde, che sfugge ai grandi accusatori di Mario Mori? Mori si è chiesto più volte le ragioni per cui la magistratura siciliana gli si è accanita contro, il perché di quelle pesantissime inchieste costruite con le parole di pentiti non proprio affidabili, i motivi per cui, dovendo scegliere se credere alle sue parole o a quelle di un pentito, i pm tendano a dare retta al secondo anziché al primo. E quando glielo chiedi il generale Mori che fa? Alza un po’ lo sguardo, gioca con i polsini della camicia, si dà un colpetto all’indietro sulla poltrona, allarga le braccia e poi sussurra: “Non so. Davvero. Proprio non so”.

A Roma il generale c’è tornato: alla fine del 2008 il sindaco Gianni Alemanno gli ha offerto la direzione delle Politiche della sicurezza della Capitale e Mori ha accettato di tornare in quella città dove ha studiato per cinque anni al liceo classico (era al Virgilio nella sezione C negli stessi anni in cui Adriano Sofri era nella sezione D), dove ha seguito le lezioni dell’accademia delle Armi, dove ha lavorato con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e da dove ha iniziato a costruire la sua carriera, diventando nel corso degli anni prima comandante del gruppo carabinieri di Palermo (dal 1986 al 1990), poi comandante dei Ros (dal ’96 al 2000) e infine numero uno del Sisde (fino al 2006). Sono proprio questi – gli anni del Sisde, gli anni dei servizi segreti, gli anni in cui condusse le indagini sulla morte di Massimo D’Antona, sull’omicidio di Marco Biagi, sulle conseguenze italiane dell’undici settembre – i tempi in cui Mori rimase affascinato da alcune sottili ma importanti differenze tra il combattere la mafia e combattere il terrorismo. Mori era sorpreso dalla capacità di fare gruppo dei brigatisti, e da quel loro cerchio chiuso, quasi impenetrabile. Nei brigatisti – racconta Mori – vi era un livello culturale superiore alla media della criminalità e il loro era un legame ideologico non un legame familistico, di cosca o di sangue.

Era proprio per questo che Mori riteneva fosse più semplice combattere il terrorismo piuttosto che Cosa nostra. “La mafia è come un tumore che si autoriproduce: è un mondo che resiste da molto tempo non tanto per la sua forza ma perché è una forma di costume che è legata a certe forme di cultura. I poliziotti e i magistrati potevano e possono arrestare tutti i mafiosi del mondo ma l’unico modo per distruggere alle radici la mafia – come già scritto anche da Marcelle Padovani in Cose di Cosa Nostra – è il tempo, la trasformazione dei costumi, la rivoluzione della cultura”. “Le Brigate rosse e tutte le forme di terrorismo italiane sono state invece una cosa diversa: una malattia circoscritta difficile sì da individuare ma per cui una cura esisteva: bastava solo trovarla”. Quando nella primavera del 2001 Claudio Scajola, ministro dell’Interno per un anno, chiamò Mario Mori per comunicargli che Silvio Berlusconi lo aveva appena nominato a capo dei servizi segreti, il generale pensava fosse uno scherzo. E lo credeva per due ragioni.

La prima è che il presidente del Consiglio che l’aveva appena scelto Mori non lo aveva mai visto prima, se non una sera alla fine di una cena a Monza. La seconda era invece una ragione caratteriale. Il generale sostiene che le tecniche strategiche di chi lavora nell’arma e di chi lavora nell’intelligence presentano pochi punti di contatto, e offrire dunque a uno sbirro la gestione dell’intelligence nazionale, in teoria, potrebbe nascondere alcune difficoltà non solo metodologiche. “Siete pazzi! – disse senza neanche scherzare troppo Mori a Scajola – io di intelligence non ne so nulla, al massimo, se volete, potrei guidare il Sismi”.

Racconta chi con Mori al Sisde ha lavorato a lungo che “il modo più semplice per spiegare i due diversi approcci alla criminalità che hanno forze dell’ordine e intelligence è che il poliziotto spera di catturare Osama bin Laden mentre l’uomo di intelligence, semplicemente, spera di acquisirlo come fonte. Sono due piani paralleli che non si vanno mai a incontrare. Perché l’immagine del James Bond che si arrampica sulle gru per sconfiggere le forze del male non esiste. Semmai, il rischio maggiore per un uomo di intelligence che passa le giornate a colazione, a pranzo e a cena per coltivare le fonti è quello di prendersi una cirrosi epatica”. Mori ha sempre sostenuto che individuare un grosso criminale, pedinarlo, poterne seguire le tracce e circoscriverne il raggio d’azione nasconde un problema non da poco. Che si fa? Si arresta subito il bandito o lo si segue per un po’ usandolo come esca per intrappolare nella rete della giustizia tutto ciò che lo circonda? Mori non lo confesserà mai, ma tra la prima e la seconda opzione lui sotto sotto ha sempre preferito la seconda.

Chi ha vissuto a lungo a fianco di Mario Mori racconta che quando il generale arrivò al Sisde fu rivoluzionata l’intera impostazione del lavoro. Prima di Mori, i servizi segreti tendevano a lavorare con quella che in gergo è definita “pesca a strascico”: una gigantesca rete che intrappola tutti i pesci, grandi e piccoli, che nuotano nel raggio d’azione dell’intelligence. Quando Mori arrivò al Sisde spiegò che la pesca doveva diventare subacquea. Perché la tecnica a strascico – era questa l’idea del generale – funziona quando un servizio segreto dispone di centinaia di migliaia di uomini, ma quando il numero delle truppe è parecchio inferiore la raccolta di informazioni deve essere più precisa, più mirata. E così, non appena arrivato, Mori scrisse un libriccino di cento pagine di procedura investigativa, lo fece pubblicare e lo inviò ai dirigenti dei servizi. A poco a poco, i risultati iniziarono ad arrivare.

Negli anni passati al Sisde c’è un arresto particolare che il generale ricorda più degli altri. Il 13 luglio 1979 una scarica di pallettoni sparati da un’auto in corsa ferì a morte il comandante del Nucleo carabinieri del tribunale di Roma Antonio Varisco; e quel comandante Mori lo conosceva molto bene. Per anni e anni, i servizi segreti italiani hanno tentato di arrestare il killer, e il 15 gennaio del 2004 il Sisde diede istruzione a venti poliziotti egiziani di fermare due persone all’aeroporto del Cairo: i nomi erano quelli di Rita Algranati e Maurizio Falessi, ricercati, tra le altre cose, per l’omicidio di Varisco. Fu uno dei giorni più gratificanti della carriera del generale. Il perché lo spiega lui stesso: “Non dobbiamo essere sciocchi. Chi dice che la pretesa punitiva dello stato non esiste non capisce nulla. Quel giorno passò un messaggio molto importante. Fu un arresto chiave per disgregare la rete terroristica ma fu un anche un segnale chiaro: ci sono alcuni reati che più degli altri non possono essere impuniti. E uccidere un carabiniere è esattamente uno di quelli”.

Gli anni che però formarono davvero il generale Mori furono altri. Furono quelli che trascorse in Sicilia: prima nel nucleo provinciale dei carabinieri e poi nei Ros. Non appena arrivato a Palermo, il generale comprese subito quanto fosse importante riuscire a creare una sorta di sintonia linguistica tra sbirri e mafiosi. Mori ci riuscì, ma solo dopo aver preso una piccola batosta. La prima lezione per Mori arrivò da un piccolo appartamento sulla costa occidente della Sicilia: ad Altavilla. Dopo aver ricevuto la notizia della morte di un carabiniere, i suoi uomini andarono sul posto, entrarono con i guanti di paraffina dentro una vecchia casa colonica, perquisirono le stanze, fecero perizie, raccolsero più notizie possibili e interrogarono molti testimoni: la maggior parte dei quali diceva di non aver visto nulla. Alla fine della giornata, Mori si ritrovò a parlare con un vecchio abitante del paese che al termine del colloquio – a lui che era un triestino con mamma casalinga emiliana, padre ufficiale dei carabinieri a La Spezia, bisnonni inglesi e, come ama ripetere il generale, una formazione culturale sfacciatamente mitteleuropea – gli disse: “Piemontese, chi minchia voi da noi?”. Quelle parole Mori se le ricorderà a lungo e il significato profondo dell’essersi sentito dare del piemontese lo comprese poco più avanti quando fu nominato comandante del primo comando territoriale di Palermo.

Mori ricorda infatti che in quegli anni capitava spesso che la notte le pareti della caserma non trattenessero le parole degli sbirri che interrogavano i mafiosi, e ascoltando quei dialoghi, dagli accenti così marcatamente differenti, si rese improvvisamente conto che in quel nucleo operativo che lavorava nella Sicilia occidentale, beh, il più meridionale tra i suoi colleghi era un campano. Non parlare il linguaggio della Sicilia, e più in particolare non entrare a fondo nel lessico dei mafiosi, secondo il generale era il modo migliore per non capire come portare avanti un’indagine, e questo Mori se lo mise bene in testa: lavorò molto sulla sua pronuncia, iniziò a studiare il siciliano e alla fine ottenne buoni risultati, riuscendo a poco a poco a entrare sempre di più a contatto anche con la grammatica della mafia.

“In quegli anni – racconta un uomo che ha lavorato a lungo a fianco di Mori nei Ros – il generale diceva che far proprio il linguaggio dei mafiosi significava non solo avere le carte in regola per lavorare con maggiore efficienza ma anche avere la possibilità concreta di salvare con un certo successo il culo.

Le lezioni di Mori erano due. Lui, che aveva imparato a non fidarsi eccessivamente dei collaboratori di giustizia, diceva che per definizione il pentito mafioso va preso con le pinze perché un pentito resta sempre un mafioso, e alla fine – qualsiasi cosa ti dirà e qualsiasi verità racconterà – in un modo o in un altro tenterà sempre di compiere un atto utilitaristico per la sua famiglia. La seconda cosa che ripeteva era che il mafioso ti faceva ammazzare solo quando il, chiamiamolo così, rapporto tra sbirri e criminale diventava un rapporto personale: tra me e te. Per questo, Mori ci diceva che tu puoi umiliare un mafioso magari ammanettandolo davanti a una moglie, ma non era il caso di farlo quando veniva acciuffato nel cuore della sua vera intimità: per esempio davanti alla sua amante”.

Il più grande successo ottenuto da Mori arrivò il 15 gennaio 1993 di fronte al numero 54 di via Bernini, a Palermo, quando il generale fece arrestare lui, il capo dei capi: Totò Riina. Paradossalmente, però, accadde che l’arresto del mafioso più ricercato al mondo coincise con la proiezione delle prime ombre attorno alla carriera del generale. Tutto cominciò poco dopo l’arresto. Per quindici giorni, l’abitazione del boss corleonese non fu perquisita e in molti sostennero che la mancata perlustrazione di quelle stanze fosse un modo come un altro per dare la possibilità ai mafiosi di ripulire l’abitazione e cancellare le proprie tracce. Mori – ricordando che le indagini vengono sempre coordinate dalla procura e che qualsiasi imput, prima ancora che dai capi dell’arma, deve arrivare da lì – sostiene che fu la procura a non dare l’ordine di perquisire, ma nonostante ciò nel 1997 la procura di Palermo aprì un’inchiesta sulla vicenda a carico di ignoti, “per sottrazione di documenti e favoreggiamento”.

L’indagine andò fino in fondo: nel 2002 i magistrati chiesero l’archiviazione ma il gip dispose nuove indagini. Due anni dopo stessa storia: i pm chiesero ancora una volta l’archiviazione, ma questa volta lo fecero in un modo originale: poche paginette per chiedere di archiviare e cento pagine per picchiare duro sull’indagato. A firmare quella richiesta furono i pubblici ministeri Antonio Ingroia e Michele Prestipino, che chiesero di chiudere il caso con queste concilianti parole: gli indagati, non perquisendo per diversi giorni il covo, “fornirono ai magistrati indicazioni non veritiere o comunque fuorvianti”. Inoltre, la sospensione dell’attività di osservazione del covo “determinerà un’obiettiva agevolazione di Cosa nostra”. Il nome di Mario Mori entra così nel registro degli indagati il 18 marzo 2004: pochi mesi più tardi – era il 18 febbraio 2005 – Mori e il suo braccio destro Sergio De Caprio (Capitano Ultimo, l’ufficiale dei carabinieri che ha lavorato a lungo a fianco del generale e che il 15 gennaio 1993 ammanettò Totò Riina) vengono rinviati a giudizio e un anno dopo il processo si conclude con un’assoluzione.

Tutto finito? Macché.  

Dopo essere stato assolto dall'accusa di favoreggiamento aggravato per non aver perquisito l’abitazione – e non il covo, che è cosa diversa – in cui è stato arrestato Salvatore Riina, Mori si trova costretto a difendersi da altre accuse. E da una in particolare. Perché il generale non ci gira attorno, e quando ha saputo di essere indagato ancora una volta per favoreggiamento dice che è stato certamente quello il giorno più brutto della sua vita: perché è come se la procura lo avesse sostanzialmente accusato di essere stato la causa scatenante della strage di via D’Amelio.

Nel processo in cui Mori dovrà difendersi in aula, il principale testimone dell’accusa è il colonnello dei carabinieri Michele Riccio. L’eroe della procura di Palermo, nonché principale testimone del processo contro il generale Mori, è però un personaggio dal passato molto controverso. Controverso perché il grande accusatore di Mori è uno degli uomini che fu denunciato dallo stesso generale. La storia è nota ma può essere utile ricordarla. Il generale Mori contribuì all’arresto di Riccio e fu uno dei primi a denunciare i reati commessi dal colonnello a metà degli anni 90. All’origine dei guai di Riccio vi fu la famosa Operazione Pantera. In quell’occasione – erano gli anni 90 – fu sequestrata una partita di pesce congelato da 33 tonnellate. Nascosto tra il pesce vi erano 288 chili di cocaina proveniente dalla Colombia. Tre mesi dopo il pesce fu venduto sottobanco dai carabinieri per 54 milioni.

L’operazione Pantera costò a Riccio due reati. Non soltanto contrabbando aggravato ma anche detenzione e cessione di stupefacenti: perché nel corso dell’operazione, secondo l’accusa, il colonnello occultò cinque chili di cocaina sottratti alla distruzione del reperto da uno dei suoi uomini (si chiamava Giuseppe Del Vecchio). Così, dopo essere stato condannato in primo grado a 9 anni e mezzo e poi, in secondo grado, a 4 anni e 10 mesi, nel 2001 Riccio chiese di essere sentito dal pm Nino Di Matteo su “gravi fatti riguardanti la mancata cattura di Provenzano e la morte di Luigi Ilardo”. E’ una storia complicata quella di Riccio: l’ex colonnello sostiene che nel 1995 il suo confidente Ilardo (trovato morto pochi mesi dopo) offrì la possibilità di catturare Bernardo Provenzano; racconta che i suoi uomini avrebbero seguito Ilardo fino al bivio di Mezzojuso – un piccolo comune di 3.711 abitanti a 34 chilometri da Palermo – che si sarebbero appostati in attesa del via libera e che Mori disse di non voler agire. Mentre – dice Riccio – noi “eravamo pronti e non ci voleva una grande scienza per intervenire”. Le deposizioni di Riccio sono però contestate. Uno dei testimoni dell’accusa, l’ufficiale dei carabinieri Antonio Damiano che nel ’95 prestava servizio al Ros di Caltanissetta, ha raccontato una versione diversa.

Damiano sostiene infatti di essere stato incaricato da Riccio di effettuare “un’osservazione con rilievi fotografici” al bivio di Mezzojuso, ma il punto è che in quello che Riccio considera il mancato arresto di Provenzano non solo era già stato concordato preventivamente che l’operazione avrebbe avuto la finalità di studiare il territorio, ma il grande accusatore di Mori, nonostante la relazione di servizio di quel giorno riportasse la sua presenza, in realtà – lo ammette Damiano – non era affatto presente: era rimasto in ufficio. Ad ogni modo, le parole di Riccio hanno offerto alla procura la possibilità di fare due calcoli rapidi rapidi: la mancata perquisizione del covo di Riina nel 1993 più la mancata cattura di Provenzano nel 1995 sarebbero “strettamente connesse” alla presunta trattativa tra apparati dello stato e Cosa nostra. E’ proprio questa la tesi di uno degli uomini che alla fine di gennaio verrà ascoltato come teste dell’accusa nell’aula bunker del carcere Ucciardone: Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito. Tesi che in sostanza si potrebbe riassumere così: Borsellino sarebbe stato ucciso dopo che il giudice venne a conoscenza della trattativa portata avanti tra la mafia e lo stato condotta in prima persona da suo padre e dal generale Mori. Borsellino era contrario alla trattativa e per questo, per evitare problemi, la mafia lo fece saltare in aria.

La cronaca di quei mesi offre, però, una storia un po' diversa e gran parte della verità di tutta la vicenda sembrerebbe proprio girare attorno a quel codice lì: 2789/90. Il codice fa riferimento a una delle inchieste più delicate che le forze dell’ordine portarono avanti durante gli anni 90 in Sicilia. Tutto nacque nel corso del 1989: in quegli anni Mori era già a capo del gruppo dei carabinieri di Palermo e sotto la direzione di Giovanni Falcone avviò l’inchiesta sul sistema di condizionamento degli appalti pubblici da parte di Cosa nostra. Il primo plico contenente le informative sull’indagine fu consegnato il 20 febbraio del 1991 da Mori al procuratore aggiunto di Palermo Giovanni Falcone. Ancora oggi Mori ricorda che “Giovanni sollecitò insistentemente il deposito dell’informativa rispetto ai tempi che ci eravamo prefissati per una ragione semplice: perché – diceva Falcone – non tutti vedevano di buon occhio l’indagine, e alcuni sicuramente la temevano”. In quei giorni, il giudice stava però per essere trasferito alla direzione degli affari penali del ministero della giustizia, e da Palermo dunque si stava spostando a Roma. Ma quell’inchiesta – ricorda il generale – lui voleva seguirla lo stesso e per questo Mori continuò a mantenere i contatti con Falcone. E fu proprio il giudice a riferire al generale che l’inchiesta “Mafia e appalti” non interessava più di tanto al nuovo procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco. Era davvero così?

Fatto sta che al termine dell’inchiesta “Mafia e appalti” i Ros di Mori avevano evidenziato 44 posizioni da prendere in esame per un provvedimento restrittivo, ma il 7 luglio del 1991 la procura ottenne soltanto cinque provvedimenti di custodia cautelare. Mori si arrabbiò e chiamò subito Falcone. La reazione del giudice è riportata dai diari consegnati alla giornalista di Repubblica Liana Milella, e fu questa: “Sono state scelte riduttive per evitare il coinvolgimento di personaggi politici”. Non solo. Pochi giorni dopo che Mori e il suo braccio destro Giuseppe De Donno consegnarono il rapporto alla procura di Palermo vi fu una fuga di notizie. De Donno ne venne a conoscenza attraverso il suo informatore Angelo Siino (il così detto ex ministro dei Trasporti pubblici di Cosa nostra) che raccontò ai Ros di aver saputo dell’inchiesta da fonti vicine alla procura. “Mai come in quei mesi – racconta Mori – ebbi la sensazione di agire da solo e senza referenti certi a livello giudiziario”. Successivamente, ci furono altre due valutazioni che fecero infuriare il capitano dei Ros. La prima fu quando il Tribunale del riesame consegnò agli avvocati difensori degli indagati e degli arrestati non uno stralcio dell’informativa relativa ai singoli indagati, come da prassi, ma qualcosa di più: ovvero tutte le 890 pagine di testo. “In quel modo – ricorda Mori – furono svelati i dati investigativi fino a quel momento posseduti dall’inquirente e furono chiare le direzioni che le indagini stavano prendendo”.

La seconda fu quando la procura di Palermo – ravvisando la competenza sul caso di più procure – inviò i fascicoli in mezza Sicilia ottenendo il risultato di moltiplicare il numero di occhi che osservavano da vicino quell’inchiesta. Ecco: secondo Mori il filo che lega le stragi di quell’anno – l’anno in cui furono uccisi nel giro di poche settimane prima Falcone e poi Borsellino e poi ancora un comandante della sezione di Perugia che insieme con i Ros aveva iniziato a lavorare su “Mafia e appalti”: Giuliano Guazzelli – sarebbe legato all’attenzione che Mori e Borsellino credevano fosse opportuno dare a quell’inchiesta, a quel codice maledetto. Poco prima di essere ucciso, infine, Borsellino partecipò a un incontro molto importante. Era il 25 giugno 1992 e il magistrato convocò in gran segreto nella caserma di Palermo – dunque negli uffici dei Ros – Mario Mori e il capitano De Donno. Borsellino confessò ai due che riteneva fondamentale riprendere l’inchiesta “Mafia e appalti”. Perché – sosteneva Borsellino – quello “era uno strumento per individuare gli interessi profondi di Cosa nostra e gli ambienti esterni con cui essa si relazionava”. Qualche anno più tardi, nel novembre 1997, nel corso di un’audizione alla Corte d’assise di Caltanissetta, a confermare che Paolo Borsellino credeva che studiando il filone “Mafia e appalti” si poteva giungere “all’individuazione dei moventi della strage di Capaci” fu uno dei pm che oggi indaga su Mori: il dottor Antonio Ingroia.

Le ragioni per cui l’incontro nella caserma dei carabinieri di Palermo fu mantenuto segreto vennero ammesse in quelle ore dallo stesso Borsellino. Ricorda Mori che Borsellino “non voleva che qualche suo collega potesse sapere dell’incontro”. “E nel salutarci – prosegue Mori – il dottor Borsellino ci raccomandò la massima riservatezza sull’incontro e sui suoi contenuti, in particolare nei confronti dei colleghi della procura della Repubblica di Palermo”. Secondo il generale, in quei giorni Borsellino era molto preoccupato per una serie di fatti accaduti. Uno in particolare era legato a una data precisa. Il 13 giugno 1992 uno dei mafiosi arrestati dalla procura di Palermo nell’ambito dell’inchiesta “Mafia e appalti” – il geometra Giuseppe Li Pera – si mise a disposizione degli inquirenti dicendo di essere disposto a svelare “gli illeciti meccanismi di manipolazione dei pubblici appalti”, ma i magistrati di Palermo risposero dicendo di non essere interessati. “Sì, è vero: i fatti di quei tempi – ricorda Mori – mi portarono a ritenere che anche una parte di quella magistratura temesse la prosecuzione dell’indagine che stavamo conducendo”.

Pochi giorni dopo l’attentato in cui rimase ucciso Paolo Borsellino, Mori iniziò a stabilire contatti con l’uomo che all’epoca impersonificava meglio di tutti la sintesi perfetta dei legami collusivi tra mafia, politica e imprenditoria: l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. Tra il 5 agosto e il 18 ottobre 1992, Ciancimino e Mori si incontrarono quattro volte (prima di quella data con Ciancimino vi furono dei contatti preliminari del braccio destro di Mori, De Donno) e iniziarono così a costruire un rapporto confidenziale senza renderlo però noto alla procura di Palermo. Mori non comunicò subito i contatti che aveva stabilito con Ciancimino per tre ragioni. Primo perché – e lo dice la legge – i confidenti delle forze dell’ordine non devono essere necessariamente rivelati alla procura. In secondo luogo – e queste sono parole di Mori – fu fatto “per evitare premature e indesiderate attenzioni sulla persona e per tentare di acquisire elementi informativi sicuramente nella disponibilità del Ciancimino e cercare di giungere a una piena e formale collaborazione”. Infine, è ovvio: se ci fosse stato Borsellino, dice Mori, “glielo avrei detto subito”. Ma quando Mori parlò con Ciancimino, Borsellino era già stato ammazzato.

Nonostante in molti sostengano che Mori avesse mantenuto a lungo segreti quei colloqui, in realtà gli incontri tra Mori e Ciancimino non sono una novità di oggi. Nell’autunno 1993 fu lo stesso Mori a raccontare all’allora presidente della Commissione antimafia Luciano Violante non soltanto dei suoi incontri con Ciancimino ma anche della volontà di quest’ultimo di essere ascoltato dalla commissione. Mori lo disse più volte a Violante e ogni volta che Violante se lo sentiva ripetere gli rispondeva più o meno allo stesso modo. Ponendo una condizione: “L’interessato – disse Violante il 20 ottobre 1992 nel corso di un incontro riservato con Mori – deve presentare un’istanza formale a riguardo”. Il 29 ottobre 1992, quindi, Violante convocò la commissione per spiegare qual era il suo programma di lavoro sulla materia che riguardava le inchieste sulla mafia e la politica. Nel verbale di quella seduta, tra le altre cose, si legge quanto segue: “E’ necessario sentire quei collaboratori che possono essere particolarmente utili”.

Violante fece un lungo elenco di “collaboratori”, e tra questi c’era anche Vito Ciancimino. Ecco però il giallo: giusto tre giorni prima che Violante riunisse la commissione, Ciancimino si decise a scrivere una lettera. Una lettera datata 26 ottobre 1992 indirizzata a Roma, alla sede della commissione antimafia di Palazzo San Macuto. In calce alla lettera – che negli archivi della commissione sarà registrata solo diversi anni dopo con il numero di protocollo 0356 – c’è la firma di Vito Ciancimino. Il quale sostiene di essersi messo a disposizione della commissione già dal 27 luglio 1990, e di aver ormai accettato le condizioni che aveva posto per l’audizione il predecessore di Violante (Gerardo Chiaromonte): audizione sì ma senza quella diretta televisiva che secondo Ciancimino era necessaria per essere “giudicato direttamente e non per interposta persona”. Scrive l’ex sindaco di Palermo: “Sono convinto che questo delitto (quello di Lima, ex sindaco di Palermo ed ex eurodeputato della Democrazia cristiana che il 12 marzo 1992 fu ucciso a colpi di pistola di fronte la sua villa di Mondello) faccia parte di un disegno più vasto. Un disegno che potrebbe spiegare altre cose, molte altre cose. Ancora oggi sono, pertanto, a disposizione di codesta commissione antimafia, se vorrà ascoltarmi”. Nonostante Violante avesse detto che avrebbe ascoltato Ciancimino solo se questi avesse fatto una richiesta formale alla Commissione, la commissione antimafia ricevette la lettera ma decise di non ascoltarlo.

C’è poi un altro aspetto che della storia di Mori non può essere trascurato. Perché la storia di Mori è l’esempio di come una visione burocratica della lotta alla mafia non contempli la possibilità che un super sbirro possa imparare a combattere il nemico studiandolo, osservandolo da vicino, tentando persino di parlare con il suo stesso linguaggio. E con ogni probabilità il grande peccato originale di Mori è stato quello di essere diventato un simbolo della lotta alla mafia senza aver avuto bisogno di indossare l’abito del professionista dell’antimafia. Anzi, quell’antimafia con cui Mori ha lavorato fianco a fianco per anni è stata spesso ferocemente criticata dallo stesso generale. E sulla testa di Mori la scomunica dell’antimafia palermitana arrivò quando il generale testimoniò nel processo Contrada: l’ex agente del Sisde è stato arrestato il 24 dicembre 1992 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Quando Mori fu sentito come teste non si scompose affatto e, dopo aver detto che Contrada era il “miglior poliziotto antimafia che abbia mai avuto a Palermo”, il generale disse quello che la procura di Palermo non voleva sentire. Gli chiesero se Giovanni Falcone avesse mai sospettato di Contrada e lui rispose secco così: no. La procura aveva un’altra idea e indagò persino Mori per falsa testimonianza.

Ma dietro alle accuse di connivenza fatte nei confronti del lavoro siciliano di Mori esiste anche un filone di critica culturale di cui ultimamente si è fatto portavoce lo scrittore Andrea Camilleri. La visione burocratica della lotta alla mafia ti trascina spesso anche verso conclusioni molto avventate e ti porta a credere che stabilire contatti con il nemico, studiare da dentro il suo mondo, arrivando persino a parlare il suo lessico, significhi sostanzialmente diventare suo complice. In una recente intervista, Camilleri sostiene che Leonardo Sciascia era molto affascinato da quella mafia che sembrava invece combattere. La dimostrazione pratica è nascosta dietro alcune parole del protagonista del Giorno della civetta. Sempre lui: il capitano Bellodi. “Sciascia – dice Camilleri – non avrebbe mai dovuto scrivere ‘Il giorno della civetta’: non si può fare di un mafioso un protagonista perché diventa eroe e viene nobilitato dalla scrittura. Don Mariano Arena, il capomafia del romanzo, invece giganteggia. Quella sua classificazione degli uomini – ‘omini, sott’omini, ominicchi, piglia ‘n culo e quaquaraquà – la condividiamo tutti. Quindi finisce coll’essere indirettamente una sorta di illustrazione positiva del mafioso e ci fa dimenticare che è il mandante di omicidi e fatti di sangue.

E il fatto che Sciascia faccia dire dal capitano Bellodi a don Mariano mentre lo va ad arrestare ‘Anche lei è un uomo’ è la dimostrazione che in fondo Sciascia la mafia l’ammira e la stima”. La mafia sembra invece che non apprezzò le inchieste portate avanti da Borsellino e da Mori. Pochi giorni dopo aver tentato di accelerare le indagini sull’inchiesta “Mafia e appalti”, in una 126 rossa parcheggiata in via d’Amelio, nel cuore ovest di Palermo, esplosero cento chili di tritolo e uccisero il giudice Borsellino e i suoi cinque agenti della scorta. Era il 19 luglio 1992. Solo un giorno dopo, quando ancora la camera ardente di Paolo Borsellino non era stata neppure aperta, la procura di Palermo depositò un fascicolo con una richiesta di archiviazione. Sopra quel fascicolo c’era un codice fatto di sei numeri: 2789/90.

Era l’inchiesta “Mafia e appalti”.

La versione di Mori.

Mario Mori, Giovanni Fasanella, “Ad alto rischio”, Mondadori. Il libro di chi, settentrionale paracadutato in Sicilia, era al comando di un gruppo di carabinieri del quale il più meridionale era di Caserta.

Mario Mori, generale dei Carabinieri, è stato ufficiale del controspionaggio sin dall'inizio degli anni Settanta e poi con Carlo Alberto Dalla Chiesa nei nuclei speciali antiterrorismo. È il fondatore dell'Anticrimine e del ros dell'Arma e nei primi anni Duemila ha diretto il sisde, il Servizio segreto civile. Ha condotto con successo molte operazioni sotto copertura, tra cui la cattura del boss mafioso Totò Riina.

Giovanni Fasanella, giornalista, documentarista e sceneggiatore. È autore di molti libri sulla storia segreta italiana. Tra i più noti: Segreto di Stato (con Giovanni Pellegrino e Claudio Sestrieri, Einaudi), Che cosa sono le Br (con Alberto Franceschini, Bur-Rcs),Intrigo internazionale (con Rosario Priore, Chiarelettere), 1861 (con Antonella Grippo, Sperling&Kupfer), Il golpe inglese (con Mario J. Cereghino, Chiarelettere).

Il percorso professionale di Mario Mori ha attraversato da vicino le più drammatiche e oscure stagioni della nostra Storia recente. Pupillo del generale Dalla Chiesa, nominato comandante della Sezione anticrimine di Roma il 16 marzo 1978, giorno del sequestro Moro, è stato, negli anni seguenti, uno dei massimi protagonisti della lotta al terrorismo. Dalla metà degli anni '80 è a Palermo a combattere la mafia fino a entrare nel 1990 nel Ros, l'organismo centrale dedicato alla criminalità organizzata e al terrorismo, (di cui diventerà direttore nel 1998). Oltre ad altri arresti di spicco, contribuisce alla cattura di Totò Riina. Uscito dall'Arma, andrà a dirigere il Sisde, coordinando le indagini sul terrorismo dopo l'11 settembre. (Processato e assolto per presunto favoreggiamento con Cosa Nostra, oggi è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa). In questa eccezionale autobiografia professionale, scritta con Giovanni Fasanella, racconta per la prima volta la sua verità su quasi un quarantennio di storia italiana, dal caso Peci, al sequestro D'Urso, dalle "stragi di Stato" alla cattura del "capo dei capi" Riina. Una vera e propria immersione nelle pagine più misteriose di quel periodo e la testimonianza di quanto importante, nonostante tutto, sia stata la funzione delle Istituzioni per allontanare pericolose derive.

Mario Mori, generale dei Carabinieri. All'opinione pubblica il mio nome probabilmente dirà qualcosa. Evocherà dei ricordi, vicende per certi aspetti anche spiacevoli di cui si è molto scritto sui giornali e parlato nelle aule giudiziarie. La mia, però, è una storia lunga. Da raccontare. E quella di un militare e dei suoi uomini che hanno combattuto per quarant'anni terrorismo e mafia. Nei reparti d'eccellenza dell'Arma. E ai vertici dell'intelligence, quei Servizi segreti in Italia sempre così chiacchierati." Scritta con Giovanni Fasanella, questa è la straordinaria storia "professionale" di un uomo che è stato al centro di tutti i grandi eventi italiani. Ufficiale del controspionaggio al SID, il Servizio segreto militare nei primi anni Settanta, nei nuclei speciali comandati dal generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, comandante della sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, Mori è stato uno dei protagonisti della lotta al terrorismo. A metà degli anni Ottanta è a Palermo, con Falcone e Borsellino, a combattere la mafia; nel 1998 diventa comandante del ROS, il reparto speciale dei Carabinieri, che aveva contribuito a creare. Uscito dall'Arma, dirigerà infine il sisde, il Servizio segreto italiano, che ritrova un ruolo decisivo per la sicurezza nazionale dopo i fatti dell'11 settembre. Nel corso della sua lunga carriera ha combattuto il terrorismo, arrestato Riina, messo a punto nuove tecniche d'investigazione, gestito infiltrati, ascoltato pentiti."

Crocevia di molti misteri italiani, il generale dei carabinieri Mario Mori ha scritto un libro autobiografico, che si legge come una spy story, ma al quale ha affidato il suo grido d'innocenza contro i magistrati di Palermo che lo processano per favoreggiamento della mafia, accusandolo di non avere volutamente arrestato Bernardo Provenzano dopo avere messo le manette a Totò Riina. Del processo nel libro si tace; ma la tesi che attraversa le 149 pagine equivale a una linea di difesa: contro le grandi organizzazioni criminali è necessario adottare strategie «border line», a partire da spregiudicati contatti sotto copertura per indurre l'avversario a fidarsi, e scoprirsi. Strategie che però, con una magistratura non altrettanto flessibile, possono costar care agli uomini dello Stato che le adottano.

Pioniere in Italia di queste tecniche fondate sull'uso di infiltrati fu Carlo Alberto Dalla Chiesa, del quale Mori (nato a Postumia nel 1939, prima al Sid, poi numero uno del Ros e del Sisde), fu allievo. Narrate in prima persona con efficacia giornalistica, il lettore troverà la cronaca di alcune delle più brillanti operazioni compiute dalle forze dell'ordine italiane negli ultimi decenni. A cominciare da quella – e qui davvero pare di stare al cinema – durante la quale a Napoli un ufficiale del Ros, fingendosi un imprenditore corrotto, convoca in un lussuoso albergo esponenti delle ditte legate alla camorra e ai partiti per discutere – sotto l'occhio di una telecamera nascosta – come spartire la torta dei subappalti per la Tav. O l'operazione nella quale il mafioso Giovanni Bonomo, rifugiato a fare il mercante d'arte in Costa d'Avorio (senza trattato di estradizione con l'Italia), viene attirato con la prospettiva di un affare, e arrestato, nel vicino Senegal.

E ci sono, naturalmente, gli episodi più controversi. La ricerca di un contatto con Vito Ciancimino per ottenere «informazioni di prima mano» sui piani della mafia, di cui Mori decide di tacere con la Procura nella grave convinzione che «non tutti i pm di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra». O il rinvio della perquisizione di casa Riina dopo l'arresto del 1993 (oggetto di un altro processo e di un'assoluzione), deciso, sostiene, «perché se fosse avvenuta immediatamente tutte le persone che la frequentavano si sarebbero sentite bruciate». O la mancata cattura nel 2006 del super boss mafioso Matteo Messina Denaro, che il Sisde era riuscito ad agganciare tramite un doppiogiochista, a causa dell'intervento della Procura di Palermo che mette quest'ultimo sotto inchiesta in quanto «non si è fidata».

Nelle ultime pagine, un'altra goccia di veleno indirizzata al comando generale del l'Arma: «Io, e credo anche molti altri carabinieri, avremmo gradito non una difesa delle singole persone, ma del Ros». Perché pure alla militaresca consegna del silenzio, evidentemente, c'è un limite.

Mario Mori, Giovanni Fasanella, “Ad alto rischio”, Mondadori. Su “Panorama” presentando il libro l’amaro sfogo del Generale Mario Mori.

«Più che un’ipotesi accusatoria, quella della Procura di Palermo è un castello di carta. Mancano completamente le prove dei reati che mi vengono attribuiti». È amareggiato, e molto, il generale dei carabinieri Mario Mori. Sotto processo per «collusione mafiosa», assieme al colonnello Mauro Obinu, s’è appena visto contestare dai pubblici ministeri Antonio Ingroia e Nino Di Matteo l’aggravante della mancata cattura di Bernardo Provenzano, come fosse il prezzo pagato al boss in cambio dei suoi favori nel corso di una presunta trattativa fra Stato e Cosa nostra, all’inizio degli anni Novanta. Amareggiato, sì, ma tutt’altro che rassegnato a un destino che ritiene ingiusto e paradossale. La sua, del resto, è la storia di un combattente; la storia di un uomo che ha servito il proprio Paese per 40 anni, prima contro il terrorismo e poi contro la mafia, e che infine si è ritrovato sul banco degli imputati. Ora è un libro, Ad alto rischio, pubblicato da Mondadori. È il racconto di tante operazioni coperte, condotte con tecniche e mentalità da uomo d’intelligence più che da ufficiale di polizia giudiziaria, e proprio per questo spesso sul filo del rasoio, borderline. Ma molto efficaci. Forse troppo.

Un castello di carta, lei dice, le nuove accuse che le vengono mosse a Palermo. Perché?

Carta, sì: buona solo per alimentare teoremi e polemiche politiche. Ma per quanto riguarda la responsabilità mia o di uomini appartenenti ai miei reparti, è priva di qualsiasi consistenza giudiziaria. Sono comunque pronto a contrastare sul piano processuale queste nuove accuse, visto che infine viene introdotto formalmente, e non solo mediaticamente, il tema della cosiddetta trattativa fra Stato e mafia. Sono sereno e determinato.

Qual è l’origine di questo processo palermitano?

Io ho già subito un processo con Sergio De Caprio, il mitico capitano «Ultimo», in seguito all’arresto di Totò Riina. Eravamo accusati di favoreggiamento per avere chiesto di ritardare la perquisizione nel covo del boss, dopo la sua cattura. Noi, in realtà, volevamo agire con discrezione per far cadere nella nostra rete altri pesci. Qualcuno, però, fece di tutto per enfatizzare notizie che non dovevano essere rese note. Col risultato che l’operazione rimase incompiuta e la colpa venne fatta ricadere su di noi. Fummo comunque assolti con formula piena. Però, da allora, le incomprensioni tra noi del Ros e alcuni pubblici ministeri palermitani divennero sempre più forti. Nonostante la sentenza, cominciò contro di noi una martellante campagna mediatica i cui effetti sono sotto i nostri occhi ancora oggi.

Dunque, è dai quei veleni che è nato questo secondo processo?

Proprio così. Quei pm del processo a me e a Ultimo, che pure avevano rinunciato a ricorrere in appello contro la sentenza di assoluzione, alimentarono poi la campagna mediatica contro di noi, sostenendo che la verità dei fatti era diversa da quella accertata nel corso del dibattimento. È fiorita così una sterminata letteratura complottistica in cui la cattura di Riina è rimasta sempre un «mistero», e le ombre sul nostro operato si sono allungate. Questo è il clima da cui è scaturito, nel 2008, il procedimento in corso ancora oggi a Palermo.

In questo secondo processo, il tema della «trattativa» fra Stato e mafia era sempre rimasto sullo sfondo. Ora, invece, è entrato anche formalmente nel dibattimento.

Questa è una storia molto più grave della prima. Perché le accuse nei nostri confronti sono pesantissime. E poi perché il procedimento a Palermo è stato avviato sulla base di testimonianze d’accusa fornite da personaggi a mio avviso con la coscienza non proprio adamantina, che hanno seguito una condotta non lineare e con una credibilità che si sta rivelando prossima allo zero.

Lei si riferisce a Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito, che lei avrebbe usato come canale per la presunta trattativa. Come stanno le cose, dal suo punto di vista?

Su Massimo Ciancimino che vuole che le dica? È stato accusato, a sua volta, per avere fabbricato false prove…

E su suo padre, Vito Ciancimino?

L’accusa nei nostri confronti è di averlo usato per consentirci la cattura di Riina grazie ai favori di Bernardo Provenzano, naturalmente da noi ricambiati… Non è il caso di affrontare in questa sede temi che discuteremo in dibattimento. Ma alcune cose voglio dirle. All’inizio degli anni Novanta, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, dove morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a Palermo c’era un clima d’impotenza, di generale rassegnazione e d’inerzia di fronte all’attacco mafioso. Quasi che la città si fosse fermata e aspettasse di sapere se avrebbe vinto la mafia o lo Stato prima di decidere da quale parte schierarsi.

Un clima analogo si respirava in Italia nel 1978, all’epoca del sequestro di Aldo Moro.

Proprio così. E noi, come accadde allora con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il mio mentore, non potevamo rimanere a guardare. Accettammo la sfida lanciata dalla mafia, consapevoli che anche lo Stato avrebbe dovuto alzare il tiro per vincerla. Era necessario, cioè, un salto di qualità nel modo d’investigare e di operare. Avevamo bisogno di trovare fonti autorevoli all’interno dell’organizzazione nemica, e al massimo livello. Fu in quel contesto che si stabilì un contatto fra noi e Massimo Ciancimino. Volevamo utilizzarlo per arrivare al padre. E volevamo utilizzare poi il padre, le cui disavventure giudiziarie in quel momento si stavano aggravando, per avere informazioni di primissima mano su Cosa nostra.

Ci eravate riusciti?

Eravamo ormai a un passo dal risultato. Ma, improvvisamente, fu ordinato l’arresto di Ciancimino senior per altri fatti. Un’iniziativa che ci danneggiò perché mandò in fumo tutto il nostro lavoro. Proprio come accaduto dopo la cattura di Riina.

Se ne deve dedurre che qualcuno tentò di mettervi il bastone fra le ruote?

Preferisco non rispondere a questa domanda, anche perché non ho elementi sufficienti. Tuttavia, l’effetto concreto dell’arresto di Vito Ciancimino fu proprio quello di chiuderci i varchi che stavamo faticosamente aprendo all’interno dei corleonesi. E quindi d’impedire che le nostre indagini arrivassero al livello alto e altissimo delle complicità e delle protezioni.

Scusi, generale, voi avevate informato qualcuno della vostra iniziativa, oppure operavate come un corpo totalmente separato?

Il processo verte proprio su questo punto: non avere comunicato tutte le nostre iniziative alla Procura di Palermo. Per questo sono accusato di avere agito «per inconfessabili motivi». Premesso che le mie facoltà mi consentivano di non comunicare proprio tutto alla Procura di Palermo, con la quale c’erano incomprensioni e della quale non ci fidavamo del tutto, in realtà ne informai, oltre al mio diretto superiore, una serie di personalità che all’epoca rivestivano precise cariche istituzionali.

Chi, esattamente?

Liliana Ferraro, collaboratrice di Falcone. Fernanda Contri, segretario generale della presidenza del Consiglio. Luciano Violante, presidente della commissione parlamentare Antimafia. E andai anche a Torino per parlarne con Gian Carlo Caselli, il quale in quei giorni stava per trasferirsi alla Procura di Palermo (la data d’inizio del suo incarico risale al 15 gennaio 1993). Tutti, compreso Caselli, hanno confermato. Il solo Violante ha fornito una versione diversa dei miei incontri con lui. Resta tuttavia il fatto che la versione che ho fornito al processo trova inoppugnabili riscontri negli stessi atti della commissione Antimafia, che tutti possono consultare.

Come spiega, allora, il comportamento della Procura di Palermo?

Non voglio commentare; attendo rispettosamente l’esito del processo. Tuttavia, siamo convinti di avere assolto sino in fondo il nostro dovere. Perché, a differenza di tanti altri che hanno usato per scopi personali le immagini, i nomi, la memoria dei morti di mafia, noi eravamo davvero al fianco di quei martiri quand’erano ancora in vita. Con loro abbiamo operato in perfetta sintonia e a rischio della vita. Ma c’è un tempo per ogni cosa. E arriverà anche quello, dopo la sentenza, di riprendere il discorso. Perché molti aspetti di questa bruttissima pagina della giustizia italiana meritano di essere approfonditi.

Nel marzo 1993 i parenti dei detenuti per mafia sottoposti al regime del 41 bis tentarono di fare pesanti pressioni sul presidente della Repubblica dell'epoca, Oscar Luigi Scalfaro. E non solo a lui. Lo fecero con una lettera che è stata prodotta dai pm nel processo al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, accusati della mancata cattura di Bernardo Provenzano. La lettera si prefiggeva di indurre Scalfaro a attenuare le "angherie" nei confronti dei detenuti. Adesso il contenuto della missiva viene messo in relazione con la "trattativa" tra lo Stato e la mafia avviata nel periodo intercorso fra la strage di Capaci, del 23 maggio 1992 (in cui vennero uccisi Falcone, la moglie, gli agenti di scorta), e quella di via D'Amelio (in cui vennero trucidati Borsellino e gli agenti della sua scorta), del 19 luglio 1992.

Una delle richieste contenute nel "papello" mirava proprio all'abolizione del 41 bis, il regime del carcere duro. Alcuni mesi dopo, in effetti, l'allora guardasigilli Giovanni Conso non rinnovò il regime carcerario duro nei confronti di alcune centinaia di detenuti. Conso ha sempre sostenuto che fu un'iniziativa personale. I magistrati di Palermo non escludono che fosse una forma di "apertura" nei confronti degli interlocutori della "trattativa" mediata da Vito Ciancimino. La lettera di pressioni era indirizzata a Scalfaro, ma fu inviata anche al Papa, al presidente del Consiglio, a Maurizio Costanzo (poi sfuggito a un attentato, a Roma) e a Vittorio Sgarbi ed altre personalità importanti.

Dopo avere elencato disagi e "angherie" i parenti dei detenuti, che comunque non si firmavano, si rivolgevano a Scalfaro come il più alto responsabile dell'Italia "civile": «Noi ci permettiamo di farle notare che, continuando di questo passo, di detenuti nei moriranno ma lei non si curi di loro tanto si tratta di carne da macello. Per noi e per loro resta solo la consolazione che un giorno Dio, che ha più potere di lei, sarà giusto nel suo giudizio.... lei si è vantato più volte di essere un autentico cristiano. Le consigliamo di vantarsi di meno e di amare di più. Non ci firmiamo non per paura, ma per evitare ulteriori pene ai nostri familiari .... Se lei ha dato ordine di uccidere, bene, noi ci tranquillizziamo, se non è così guardi che per noi è sempre il maggior responsabile, il più alto responsabile dell'Italia 'civile' che, con molto interesse, ha a cuore i problemi degli animali, i problemi del terzo mondo, del razzismo e dimentica questi problemi insignificanti perchè si tratta di detenuti, ovvero di "carne da macello". Al momento non crediamo che la volontà dello Stato che lei rappresenta sia così civile nel dare una risposta adeguata. La sfidiamo a smentirci».

Ecco le parole che terrorizzarono Oscar Luigi Scalfaro. Frasi scritte nel febbraio 1993 dai parenti dei mafiosi ristretti in regime di 41 bis a Pianosa e all’Asinara, rilette con inquietudine dal Presidente dopo gli attentati di Roma e Firenze. Un documento aspro nei toni, minaccioso nelle allusioni, che il 27 luglio 1993 porterà al colpo di spugna del governo di centrosinistra nella persona del ministro Giovanni Conso: niente più carcere duro per 334 detenuti, inclusi cinque esponenti di vertice di Cosa nostra. Altro che Ciancimino jr, le accuse al generale Mori, il ruolo della nascitura Forza Italia. La lettera, consegnata ai pm di Palermo dall’ex capo del Dap Sebastiano Ardita, dà una chiave di lettura plausibile all’incomprensibile decisione di revocare l’inasprimento delle regole penitenziarie attuato sull’onda della strage di via D’Amelio. Non solo. Offre un formidabile riscontro a quanto rivelato a verbale da monsignor Fabbri, aiutante del capo dei cappellani delle carceri, sollecitato da Scalfaro a supportare Conso nel defenestramento al Dap del «duro» Nicolò Amato (sollevato dall’incarico a giugno ’93) con il più morbido Adalberto Capriotti.

La lettera, per conoscenza, è inviata al Papa, a Maurizio Costanzo, al vescovo di Firenze, a Sgarbi, a magistrati e giornalisti vari. «Siamo un gruppo di familiari di detenuti - è l’incipit - sdegnati e amareggiati per tante disavventure, ci rivolgiamo a Lei non per chiedere chissà quale forma di carità o di concessione (…) ma perché riteniamo si è responsabili in prima persona, quale rappresentante e garante delle più elementari forme di civiltà». I familiari ritengono Scalfaro responsabile della violazione dei diritti minimi dei detenuti in 41 bis, ristretti in condizioni allucinanti al cui confronto «la Bosnia è un paradiso». E all’inquilino del Quirinale domandano con sarcasmo quante volte al giorno «cambi la biancheria intima», perché sa com’è, chi sta dentro ha diritto a «solo 5 chili di biancheria» a settimana. Ma «ancor più grave, e crediamo che lei debba vergognarsi di essere capo dello Stato» è che lo Stato «permette ai secondini, specialmente a Pianosa, di avere comportamenti uguali a quelli di sciacalli o teppisti della peggior specie, nel senso che trattano i detenuti peggio dei cani, usando metodi della peggior tradizione fascista. Tutto questo è vomitevole, vergognoso, indegno. Sono killer. Fanno quello che vogliono» ai detenuti, riservando «cibo schifoso» e maltrattamenti cui «si lascia libera immaginazione». Di seguito. «Immaginiamo che Ella, sotto Natale, quando l’Italia veniva stretta dal freddo gelido se ne stava al calduccio» mentre ai detenuti di Pianosa «più faceva freddo e più toglievano loro le coperte». Ora, «se lei ha dato ordine di uccidere, noi ci tranquillizziamo, se non è così, guardi che per noi è sempre il maggiore responsabile» verso chi è considerato «carne da macello». Gli autori della lettera chiedono a Scalfaro una sorta di dissociazione dal 41 bis col consequenziale stop alle torture degli «squadristi agli ordini del dittatore Amato». Continuando di questo passo, concludono rivolgendosi a Scalfaro, altri detenuti moriranno. «Non se ne curi, per noi e per loro (i detenuti) resta solo la consolazione che Dio, che ha più potere di Lei, sarà giusto nel suo giudizio (…). Lei si è vantato più volte di essere un autentico cristiano, le consigliamo di vantarsi meno e AMARE di più (…). Pensiamo che a Lei non interessino le firme, quanto verificare e trovare giusti rimedi. Al momento non crediamo che la volontà dello Stato da lei rappresentata sia così civile nel dare una risposta adeguata. La sfidiamo a smentirci». Nei fatti, smentiti.

La mafia, la politica, il 41 bis: un magistrato racconta gli angoli bui della “trattativa”. Nel libro "Ricatto allo Stato", il pm catanese Sebastiano Ardita ripercorre la storia del carcere duro per i mafiosi e dei tentativi per smantellarlo. Dai 334 beneficiati dal ministro Conso per "frenare le stragi" alla legge del governo Berlusconi "dettata" in parte dai detenuti. E nel 1993, una lettera a Scalfaro anticipava i bersagli delle stragi organizzate da Cosa nostra. C’è un tema che sopra tutti sta a cuore ai boss mafiosi, ed era contenuto nel famoso “papello” presentato allo Stato da Totò Riina per mettere fine alla stagione delle stragi: il 41 bis, il regime del carcere duro concepito da Giovanni Falcone per isolare davvero i padrini detenuti dal mondo esterno. Un regime che di rinnovo in rinnovo è tuttora in vigore, ma negli anni ha subito modifiche sostanziali che molti addetti ai lavori leggono come un ammorbidimento. Se la politica abbia mai ceduto alle richieste dei boss è materia – tra l’altro- delle inchieste avviate sulla presunta “trattativa” tra lo Stato e Cosa nostra. Nel frattempo, ognuno può farsi una propria idea leggendo "Ricatto allo Stato" (Sperling & Kupfer), scritto dal magistrato catanese Sebastiano Ardita, ex capo della Direzione generale detenuti e trattamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Da “tecnico” che ha vissuto in prima persona molti momenti chiave di questa vicenda, Ardita racconta diversi episodi inquietanti. Ricorda per esempio che nel 1993, contro il parere dei magistrati e degli investigatori antimafia, furono sollevati dal 41 bis ben 334 detenuti in un colpo solo, tra i quali diversi esponenti di Cosa nostra. Compresi “personaggi di primissimo piano quali Antonino Geraci, Vincenzo Buccafusca e Giuseppe Farinella, e di altri che sarebbero divenuti in seguito esponenti di vertice, tra cui Diego Di Trapani e Vito Vitale”. Insieme al celebre bandito Renato Vallanzasca. “A riprova del fatto che tra costoro vi fossero mafiosi di prim’ordine”, scrive ancora Ardita, “sulla base delle successive attività investigative, ben 58 di quei 334 detenuti negli anni a seguire ritornarono nel circuito speciale. E 18 di costoro sono ancora attualmente detenuti al 41 bis”. E’ l’episodio sul quale è intervenuto in tempi più recenti, nel 2010, l’allora ministro della Giovanni Conso, che in Commissione antimafia ha dichiarato di avere preso personalmente la decisione “in un’ottica, diciamo così, non di pacificazione (con certa gente, con certe forze, non si può neanche iniziare un discorso in questi termini), ma di vedere di frenare la minaccia di altre stragi”. Dal centrosinistra al centrodestra, in "Ricatto allo Stato" si trova un altro episodio significativo. Nel 2002 il governo Berlusconi prepara un disegno di legge per rendere stabile il 41 bis. Ma quando nel leggono il testo, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria restano di sasso. Era spuntato a sorpresa un articolo che riprendeva pari pari una richiesta inoltrata da un gruppo di detenuti tramite il parlamentare radicale Sergio D’Elia, relativo al meccanismo con cui il 41 bis veniva rinnovato periodicamente per ciascun singolo detenuto. Una norma garantista, “ma nessuno in quel momento avrebbe potuto immaginare quali effetti sconvolgenti avrebbe portato con sé quella sacrosanta modifica, se il Dap si fosse fatto cogliere impreparato”, si limita a commentare Ardita. Il legame fra le stragi e le vicende del 41 bis attraversa molte pagine del libro. Nel 1993 il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro riceve un esposto da un gruppo di familiari dei detenuti di Pianosa, carcere che ospita molti detenuti in regime “duro”. Un testo dal tono aggressivo e perentorio, che denuncia abusi, disagi e regole troppo ferree. Tra gli altri destinatari dell’esposto, elencati per conoscenza, figuravano il Papa, il vescovo di Firenze e Maurizio Costanzo. Pochi giorni dopo, il 14 maggio, il giornalista di Mediaset scampa per poco a un’autobomba a Roma. I successivi attentati di Firenze e, di nuovo, Roma, sembrano diretti proprio contro gli altri destinatari dell’esposto. Ecco un brano su quest’ultima vicenda tratto da "Ricatto allo Stato". <Rimane di grande interesse notare chi fossero gli altri destinatari di quell’esposto. Si trattava di nominativi aggiunti «per conoscenza», ma appariva chiaro che anche a essi veniva richiesto un intervento contro il 41 bis. Tra di essi spiccavano i nomi del papa, del vescovo di Firenze, di Maurizio Costanzo. Non a caso, pochi giorni dopo, il 14 maggio, lo stesso Costanzo sarebbe stato oggetto di un attentato all’uscita dal Teatro Parioli, dove conduceva il suo talk show televisivo. Si trattava evidentemente di un avvertimento nei confronti di un giornalista impegnato contro la mafia, ma anche di una richiesta di aiuto per rendere pubblico il problema dei detenuti sulle isole. Non può escludersi che l’inerzia di Costanzo alle sollecitazioni di Cosa Nostra e il suo risoluto impegno antimafia venissero ritenuti meritevoli di una punizione esemplare. E altrettanto inquietante appare la circostanza che il successivo attentato, sempre nel maggio 1993, ebbe come teatro Firenze. Mentre il terzo attentato risultò direttamente rivolto al papa, perché avvenne proprio ai danni del Vaticano nel successivo mese di luglio. Insomma, quell’indirizzario, ben guardato, aveva tutto l’aspetto di una victim list, se non proprio di persone, almeno di luoghi a esse collegati, e la figura del presidente della Repubblica rimaneva in cima a quell’elenco di bersagli possibili. Ma Scalfaro, così come gli altri destinatari che avevano già subìto un attentato, mantenne un profilo rigoroso e distaccato rispetto a quelle sollecitazioni, negandosi a ogni richiesta di intervento. Non una parola, non un commento, non un intervento istituzionale per attenuare il regime 41 bis e allontanare da sé quei pericoli. Se quell’esposto-minaccia venne preso in considerazione ai fini del mantenimento o della revoca del 41 bis nel successivo mese di novembre 1993, e quanto peso vi venne attribuito, non è facile dirlo, anche perché non se ne fa cenno in nessun atto ufficiale. Certo è che, anche alla luce degli attentati che ne seguirono, avrebbe dovuto essere oggetto della massima attenzione.>

BORSELLINO, L'ULTIMA VERITÀ.

E la verità è servita. A tacitare i gli ipocriti ed i collusi. La mafia è nello Stato o è proprio questo Stato?

Una nuova verità sulle stragi di mafia del 1992 e sui depistaggi delle relative indagini spunta dagli atti della revisione del processo per Via D'Amelio. Il collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino parla delle minacce che lo convinsero ad autoaccusarsi dell'attentato. Gaspare Spatuzza, l'uomo che rubò la Fiat 126 servita per la strage, racconta come la portò fino al garage in cui fu imbottita di esplosivo. Inchiesta di “La Repubblica”.

Con le torture un balordo di quartiere si inventò killer di Borsellino. Scarantino:"Mi promettevano soldi. Devi diventare come Buscetta". Vincenzo Scarantino, palermitano "malacarne" senza quarti di nobiltà mafiosa, restituisce una sconvolgente ricostruzione che affiora dagli atti sulla revisione del processo per l'attentato di via Mariano D'Amelio. Nelle carte l'interrogatorio del 28 settembre 2009, davanti al procuratore Sergio Lari, gli aggiunti Nico Gozzo e Amedeo Bertone, i sostituti Nicolò Marino e Stefano Luciani. Alle ore 19,40, in una stanza del centro Dia di Caltanissetta, dopo una giornata di contestazioni, il pentito crolla. "Io non sapevo neanche dov'era via D'Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano...". Vincenzo Scarantino e altri due falsi pentiti raccontano ai magistrati di Caltanissetta come Arnaldo La Barbera, superpoliziotto a capo del Gruppo Falcone Borsellino, deviò l'indagine costruendo una falsa verità. Quello che era considerato il testimone più importante della strage Borsellino comincia così il suo racconto: "Io non sapevo neanche dov'era via D'Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano, mi picchiavano, mi facevano morire di fame". Il balordo di borgata è diventato "superpentito" sotto sevizie di poliziotti e agenti penitenziari, depistando l'indagine su uno dei grandi misteri d'Italia. E' questa la verità di Vincenzo Scarantino, palermitano "malacarne" senza quarti di nobiltà mafiosa, una sconvolgente ricostruzione che affiora dagli atti della revisione del processo per l'attentato di via Mariano D'Amelio. Nella denuncia di Scarantino viene descritta una "Guantanamo prima di Guantanamo" qui in Italia, crudeltà e violenze per far confessare retroscena di massacri mai compiuti. Dopo tanti anni s'indaga ancora su quelle torture ma non c'è certezza sui personaggi implicati: da una parte le confessioni di un pentito costruito sicuramente "a tavolino" e dall'altra la difesa di poliziotti che negano tutto. E' in un drammatico interrogatorio del 28 settembre 2009 che Vincenzo Scarantino, per la prima volta, spiega con quali metodi è stato costretto ad autoaccusarsi della strage Borsellino: "Per non farmi mangiare, mi facevano trovare mosche nella pasta. Una volta a Pianosa sentì due guardie che parlavano... un tipo con i baffi, un brigadiere siciliano, diceva all'altro: "Piscia, piscia". Una volta quel brigadiere mi alzò pure le mani. Un'altra volta, dopo che andai dal dentista, mi fecero credere che avevo l'Aids, mentre si trattava di una semplice epatite". Poi entra in scena Arnaldo La Barbera, il poliziotto che con decreto della Presidenza del Consiglio è stato messo capo del "Gruppo Falcone Borsellino", la struttura investigativa che indagava sulle stragi siciliane del 1992. E' ancora Scarantino che parla: "E lui mi disse: "Tu devi confessare". Ma io gli ripetevo: "Non so niente". Lui insisteva: "Tu devi diventare come Buscetta, importante come Buscetta. E allora, poco a poco, io sono entrato nel personaggio, cominciavo ad accusare tutti. Avevo 27 anni, stavo male. La Barbera mi disse pure che lo Stato avrebbe acquistato alcuni magazzini, alcune case che avevo: "Ti diamo 200 milioni, esci dal carcere e non ci entri più"...". Il balordo di borgata ha cominciato a fare nomi: "Mi venivano suggeriti, non è che me li dicevano in modo esplicito. Si parlava e mi dicevano: "Ma questo c'era, ma quest'altro c'era pure?". Il dottore La Barbera mi faceva capire... E così m'inventai la storia di una riunione, volevano trovare i colpevoli attraverso me. E io gli ripetevo: ma cosa vi devo dire che non saccio niente". Iniziano gli interrogatori con i magistrati. E Scarantino viene "preparato" dai poliziotti: "Prima di ogni incontro vedevo La Barbera, quando poi arrivavano i magistrati non riuscivo mai a ritrattare".

Iniziano le udienze del processo per la strage di via D'Amelio: "Prima un certo Michele leggeva i miei verbali, e io li mettevo in memoria... Una volta mi ricordo che avevo bevuto... una volta nell'aula bunker ho pianto di birra... Ma io ci stavo male, avevo i figli, avevo mia madre, ci stavo bene fuori, ma non vivevo, non ero in pace con me stesso. Io, scusando il termine, quando andavo in bagno piangevo e speravo sempre che potesse uscire un pentito che mi smentiva". Un giorno Scarantino vuole dire la verità. E' il 1995. Ma non ce la fa: "Arrivò il dottore Bo. Gli dissi: io voglio tornare in carcere. Il rimorso mi stava mangiando il cervello. Non riuscivo a stare tranquillo. Il dottore Bo mi disse: 'Va bene ti portiamo in carcere". Iniziò una discussione. Un poliziotto che era con lui mi acchiappa per il collo e mi punta la pistola addosso. Gli altri poliziotti che erano là gli dicevano: no, queste cose no davanti ai bambini".

L'inchiesta dei procuratori di Caltanissetta che indagano sull'uccisione di Paolo Borsellino - il capo Sergio Lari, Domenico Gozzo, Amedeo Bertone, Nicolò Marino e Stefano Luciani - ha concentrato tutti i sospetti del depistaggio su Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002 per un tumore al cervello.  Ma insieme a lui sotto accusa per calunnia ci sono oggi anche tre funzionari, ragazzi al tempo, appena usciti dalla scuola di polizia: Mario Bo, Salvatore La Barbera, Vincenzo Ricciardi. Tutti esecutori di ordini, poliziotti che non potevano fare un solo passo senza l'autorizzazione del loro capo. Per i pubblici ministeri non è ancora chiaro il ruolo che avrebbero avuto i tre (loro smentiscono, naturalmente, ogni circostanza riferita da Scarantino)  e fino ad ora le investigazioni "non hanno consentito di trovare sufficienti elementi di riscontro alle accuse formulate nei loro confronti dagli ex collaboratori". L'inchiesta però non è chiusa. I magistrati decideranno se archiviare o chiedere per i tre poliziotti il rinvio a giudizio. Il resto delle carte sulla strage di via D'Amelio sono state trasmesse per la revisione del processo alla Corte di Appello di Catania e sette imputati, in carcere dal 1993 per le false accuse di Scarantino, sono stati scarcerati. Dentro l'indagine di Caltanissetta non c'è solo la testimonianza del balordo della Guadagna ma anche quelle di due suoi amici, Salvatore Candura e Francesco Andriotta, anche loro minacciati per fare confessare una strage della quale sapevano niente.

Candura: "Non sono un mafioso. La Barbera mi minacciava". Neanche due mesi dopo la strage di via d'Amelio fu arrestato per un furto di una 126 e per violenza carnale. Fu il primo a fare il nome di Scarantino: "Mi ha commissionato il furto dell'auto". E' stato anche il primo a ritrattare, il 10 marzo 2009, davanti ai magistrati di Caltanissetta. E racconta: "Mi diceva tu devi sostenere sempre questa tesi, non ti creare problemi. Ti prometto che ti farò dare un aiuto dallo Stato, 200 milioni, ti faccio aprire un'attività, ti faccio sistemare per tutta la vita". E' lo stesso copione. Pressioni, minacce, sevizie. Ecco la confessione di Salvatore Candura, un altro dei testi chiave della strage Borsellino, quello che avrebbe rubato la Fiat 126 poi usata per fare saltare in aria il magistrato. Interrogatorio del 10 marzo 2009: "La Barbera mi diceva: tu devi sostenere sempre questa tesi, non ti creare problemi. Ti prometto che ti farò dare un aiuto dallo Stato, 200 milioni, ti faccio aprire un'attività, ti faccio sistemare per tutta la vita. Un giorno dovevo essere interrogato. E' venuto prima La Barbera e mi disse: "Scarantino dice che tu hai riportato l'auto alla Guadagna. Tu devi insistere che hai portato la macchina dove hai sempre detto. Tu devi dire sempre questa tesi". Ho passato anni d'inferno". E ancora: "Io quella 126 non l'ho mai rubata. Io sono stato suggerito di tutte queste cose. Il giorno che fui arrestato per violenza carnale, vengo portato in questura e interrogato dal dottore Arnaldo La Barbera che mi chiese: 'Tu ne sai parlare di macchine? Ne sai parlare di 126?".  Io sono un ladro di macchine, non sono un mafioso. I poliziotti mi rassicuravano: se il dottore La Barbera ti ha detto che devi stare tranquillo... noi ti imposteremo, ti faremo aprire un'attività, ma che cazzo vai cercando?".

Poi c'è anche la confessione di  Francesco Andriotta, un ergastolano che ha giurato nel 1993 di avere sentito - in cella - dalla voce di Scarantino che era stato lui a fare la strage. Interrogatorio del 17 luglio 2009: "C'erano delle volte che io volevo ritrattare. Ho preso anche delle botte dentro, in carcere... Io non sapevo nulla della strage di via d'Amelio, ma non sono io che ho costruito le cose. Il tutto è stato costruito dal dottore La Barbera e dal dottore Bo. Mi avevano promesso che mi avrebbero fatto togliere l'ergastolo. Me lo disse anche un giovane funzionario, che si chiamava pure La Barbera". E giura: "Scarantino non mi ha detto nulla su via D'Amelio, anzi parlando con me si è sempre protestato innocente. Mi disse che era sottoposto a violenze fisiche e psichiche per confessare di avere partecipato alla strage. Io prima inventai che il colore della 126 era celeste. Poi dissi che era bianco. Ma il colore mi fu suggerito. Loro scrivevano degli appunti, e poi io dovevo bruciare il biglietto". Andriotta: "Nudo alle tre del mattino, all'aria aperta e con un cappio al collo". Anche Francesco Andriotta parla delle violenze subite nell'interrogatorio del 17 luglio 2009. Francesco Andriotta racconta anche delle violenze degli agenti penitenziari: "Mi fecero una perquisizione, intorno alle tre e mezza del mattino. Mi hanno fatto uscire nudo all'aria. Qualcuno mi ha messo un cappio e diceva: tu devi collaborare. Ma io non ho niente da collaborare, dicevo. Sentivo anche le urla di Scarantino. Stavo male, perché lui mi ha sempre detto che non c'entrava niente con la strage". Alla fine, Andriotta dice ai procuratori di Caltanissetta: "Io ho paura, ho l'ergastolo, ma io voglio vivere, voglio pagare la mia pena. Però da vivo, non da morto".

L'assassinio del giudice Paolo Borsellino torna a far notizia grazie alle rivelazioni del colonnello Umberto Sinico, sentito come teste della difesa al processo Mori.

«Borsellino - rivela in aula l'ufficiale - sapeva dell'attentato ma scelse il sacrificio».

Alla fine di giugno del 1992 i carabinieri erano andati dal giudice a dirgli che un informatore aveva rivelato alcune voci, che giravano nell'ambiente carcerario, di un attentato nei suoi confronti. Borsellino avrebbe così risposto: «Lo so, lo so, devo lasciare qualche spiraglio, altrimenti se la prendono con la mia famiglia». Nel giro di pochi giorni, il 19 luglio, in via D’Amelio, a Palermo, saltò in aria un'auto imbottita di tritolo che fece morire Borsellino e altre cinque persone.

"Borsellino scelse il sacrificio". Qual è la novità che emerge da queste affermazioni? Sostanzialmente è questa: il magistrato si sarebbe votato consapevolmente al sacrificio lasciando qualche lato scoperto nella sua sicurezza ed esponendosi ai rischi di un attentato, nella speranza di preservare la sua famiglia dal rischio di possibili ritorsioni. L’informatore, ha detto Sinico, era Girolamo D’Anna, di Terrasini, "in confidenza" con il maresciallo che comandava la stazione del paese a 40 chilometri da Palermo, Antonino Lombardo, poi morto suicida nel marzo del ’95. «A sentire D’Anna, nel carcere di Fossombrone, andammo io - ha detto Sinico - Lombardo e il comandante della compagnia di Carini, Giovanni Baudo, ma Lombardo fu il solo a parlare con Girolamo D’Anna, che disse dell’esplosivo e dell’idea di attentato. Subito ripartimmo e andammo dal procuratore a riferirglielo e lui ci rispose in quel modo, di saperlo e di dover lasciare qualche spiraglio. Procuratore, risposi io, allora cambiamo mestiere».

Secondo quanto racconta Sinico D’Anna era un uomo d’onore "posato", cioè estromesso, perché vicino a Gaetano Badalamenti: "Era persona di grande carisma, veniva interpellato dai vertici della sua parte criminale".

Nessun contrasto coi carabinieri. Quanto riferito in aula da Sinico esclude sia che vi fossero contrasti tra Borsellino e la sezione Anticrimine dei carabinieri di Palermo, sia le tesi secondo cui al magistrato fu nascosto dai carabinieri che fosse arrivato l’esplosivo per compiere l’attentato ai suoi danni.

Il giorno prima di morire Paolo Borsellino confidò alla moglie Agnese inquietanti convinzioni sulla propria fine, che considerava imminente: «Era perfettamente consapevole che il suo destino era segnato, tanto da avermi riferito in più circostanze che il suo tempo stava per scadere». Coltivava sensazioni fosche, condivise in uno degli ultimi colloqui con la donna della sua vita: «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini, senza essere seguiti dalla scorta. Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo». A nemmeno ventiquattr'ore da questi cupi presentimenti, alle 16.58 di domenica 19 luglio, dopo una nuova gita nella casa di Carini il giudice saltò in aria insieme a cinque agenti di scorta in via Mariano D'Amelio, davanti all'abitazione palermitana di sua madre.

Le dichiarazioni di Agnese Borsellino riportate sul “Il Corriere della Sera” sono contenute in due verbali d'interrogatorio davanti ai pubblici ministeri di Caltanissetta titolari della nuova inchiesta sulla strage di via D'Amelio, nell'agosto 2009 e nel gennaio 2010, trasmessi alla Procura di Palermo che indaga sulla presunta trattativa fra lo Stato e Cosa Nostra. La testimonianza della signora Borsellino consegna altri frammenti di verità su sospetti e turbamenti del magistrato assassinato quasi vent'anni fa. Dalla fretta di acquisire elementi sulla strage di Capaci in cui era morto il suo amico Giovanni Falcone, nella consapevolezza che presto sarebbe a toccato anche lui - «prova ne sia che, pochi giorni prima di essere ucciso, si confessò e fece la comunione», dice la moglie - ai dubbi sui contatti fra rappresentanti delle istituzioni e della mafia.

Alla domanda se il marito le abbia mai detto di aver saputo «di una trattativa tra appartenenti al Ros dei carabinieri e Vito Ciancimino o altri soggetti appartenenti a Cosa Nostra o a servizi segreti "deviati"», la signora Borsellino risponde: «Non ho mai ricevuto tale tipo di confidenza da Paolo, che mai mi riferì di trattative in atto tra Cosa Nostra e appartenenti al Ros e ai servizi "deviati". Non posso tuttavia escludere che egli fosse venuto a conoscenza di una vicenda del genere e non me l'avesse riferita, in quanto era in genere una persona estremamente riservata».

Ciò nonostante, in un altro colloquio riferì alla moglie l'improvviso indizio su una presunta connivenza con Cosa Nostra dell'allora comandante del Ros, che conosceva da tempo: «Notai Paolo sconvolto, e nell'occasione mi disse testualmente "ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu (cioè affiliato a Cosa Nostra)...". Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l'Arma dei Carabinieri era intoccabile».

Poi ci furono la frase sul timore di essere ucciso con la complicità o la colpevole indifferenza di altri soggetti, addirittura di «colleghi», e la rivelazione di un ulteriore sospetto: «Ricordo che mio marito mi disse testualmente che "c'era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato". Me lo disse intorno alla metà di giugno del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la "mafia in diretta", parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano. In quello stesso periodo chiudeva sempre le serrande della stanza da letto di questa casa (l'abitazione palermitana dei Borsellino) temendo di essere visto da Castello Utveggio». Mi diceva "ci possono vedere a casa"». Il castello è sul Monte Pellegrino, sede di un centro studi ritenuto una copertura del servizio segreto civile, su cui si sono appuntate molte indagini. Ma gli ultimi accertamenti svolti dai pm di Caltanissetta portano a escludere collegamenti tra quella località e la strage di via D'Amelio.

Che Borsellino fosse a conoscenza dei contatti del capitano Giuseppe De Donno e del colonnello Mario Mori (all'epoca ufficiali del Ros, poi indagati nell'inchiesta sulla trattativa) con l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino è un dato acquisito dopo le dichiarazioni dell'ex direttore generale del ministero della Giustizia Liliana Ferraro, che ne parlò allo stesso Borsellino alla fine di giugno del '92. Il colloquio avvenne in una saletta dell'aeroporto di Fiumicino. C'era anche la moglie del magistrato, che ai pubblici ministeri ha dichiarato: «Mio marito non mi fece partecipare all'incontro con la dottoressa Ferraro. Anche successivamente, non mi riferì nulla, salvo quanto detto dal ministro Andò (titolare della Difesa, presente anche lui a Fiumicino) che, per quello che mi venne riferito da mio marito, disse che era giunta notizia da fonte confidenziale che dovevano fare una strage per ucciderlo, e che ciò sarebbe avvenuto a mezzo di esplosivo. Mi disse che era stata inviata una nota alla Procura di Palermo al riguardo, e che Andò, di fronte alla sorpresa di mio marito, gli chiese: "Come mai non sa niente?". In pratica, la nota che riguardava la sicurezza di mio marito era arrivata sul tavolo del procuratore Giammanco, ma Paolo non lo sapeva. Paolo mi disse, poi, che l'indomani incontrò Giammanco nel suo ufficio, e gli chiese conto di questo fatto. Giammanco si giustificò dicendo che aveva mandato la lettera alla magistratura competente, e cioè alla Procura di Caltanissetta. Mi ricordo che Paolo perse le staffe, tanto da farsi male a una delle mani che, mi disse, batté violentemente sul tavolo del procuratore».

Agnese Borsellino aggiunge che dopo la riunione di Fiumicino «mio marito non mi disse nulla che riguardava Ciancimino». I dissapori tra il magistrato antimafia, allora procuratore aggiunto a Palermo, e il capo dell'ufficio Pietro Giammanco si riferivano anche alla gestione di nuovi pentiti, come Gaspare Mutolo. Ecco perché, a proposito dei timori confessati durante l'ultima passeggiata sul lungomare, la signora Agnese spiega: «Non mi fece alcun nome, malgrado io gli avessi chiesto ulteriori spiegazioni; ciò anche per non rendermi depositaria di confidenze che avrebbero potuto mettere a repentaglio la mia incolumità... Comunque non posso negare che quando Paolo si riferì ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l'allora procuratore Giammanco».

La strage di via D’Amelio, il diritto che si rovescia, le gravi accuse dell’avvocato Di Gregorio. Il Pensiero di Valter Vecellio, giornalista vice-caporedattore del TG2 RAI e direttore del giornale telematico Notizie Radicali, uno degli organi ufficiali del movimento dei Radicali Italiani.

La notizia crimine c’è tutta, eppure nulla si muove, tutto tace. E dire che l’intervista è stata rilasciata a un settimanale tra i più diffusi, ed è da credere che sia stata attentamente letta e soppesata. Niente. Niente dal Consiglio Superiore della Magistratura, e niente di niente da chi, pur sovente loquacissimo, questa volta sembra non aver colto l’occasione.

L’intervista è quella che Andrea Marcenaro ha realizzato con l’avvocato Rosalba Di Gregorio, e pubblicata su “Panorama”, titolo: “Quel pasticciaccio orribile di via D’Amelio”. Il sommario spiega che Di Gregorio “ha difeso quattro dei sette condannato all’ergastolo per la strage mafiosa, tutti scarcerati grazie a nuove indagini. Ma non è contenta. Perché ha vissuto ingiustizie terribili. Anche sulla sua pelle”. Si può aggiungere che Di Gregorio, assieme al marito Francesco Marasà, anche lui avvocato, nel 1990 ha pubblicato un libretto di utile lettura allora, di ancor più utile lettura oggi: “L’altra faccia dei pentiti”, pubblicato da “La Bottega di Hefesto”. Libretto che coglie i “pentiti” in “alcune delle loro contraddittorie dichiarazioni, scoperti a dire bugie, pronti a chiedere vantaggi, ricattatori ed arroganti quando si rifiutano di parlare”, e che agli autori hanno fatto nascere un dubbio: «Ci siamo chiesti, leggendo centinaia e centinaia di pagine, alla ricerca del materiale necessario per preparare la difesa di cittadini imputati nel processo: ma è proprio vero che i pentiti sono ‘collaboratori di giustizia’?». La conclusione cui si giunge è che certo, il “pentito” può collaborare, ma “solo se, come elemento d’accusa è attendibile”. Ed è questo, evidentemente, il punto dolente.

E dolenti s’arriva all’intervista a “Panorama” e alla strage di via D’Amelio a Palermo. Quando il 19 luglio del 1992 – era domenica – il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, vengono dilaniati da una Fiat 126 imbottita di tritolo. Per quella strage, grazie soprattutto alle dichiarazioni di un “pentito”, Vincenzo Scarantino, nel 2002 sono condannati all’ergastolo Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana, Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Giuseppe Urso, Cosimo Vernengo, oltre allo stesso Scarantino. Il 27 ottobre 2011 la Corte d’Appello di Catania, sulla base delle dichiarazioni di un altro “pentito”, Gaspare Spatuzza, e di nuove indagini svolte dalla procura di Caltanissetta ha sospeso l’esecuzione della pena per sette di loro. L’unico che resta in cella è Scotto, che deve scontare residui di pena per altri reati.

«Dovevano essere scarcerati 17 anni fa», dice lapidaria Di Gregorio. Si dirà: dichiarazione ovvia, dato che difende quattro degli imputati. Però il racconto fa sobbalzare: «Estate 1995: fase istruttoria del processo Borsellino-bis. Il pentito Scarantino telefona a un giornalista di Mediaset, che registra la conversazione, e gli dice di voler ritrattare le accuse: ho detto fesserie, sono tutte balle, voglio ritrattare tutto».

L’avvocato Di Gregorio sostiene che il testo di questa conversazione non le è mai stato dato, «perché i pubblici ministeri lo sequestrarono». L’avvocato presenta istanza per fissare i termini di un incidente probatorio: «Non venni degnata di risposta, fecero finta di nulla. A tutt’oggi la difesa non è in possesso del nastro», e accusa esplicitamente la pubblica accusa di aver nascosto e sequestrato gli elementi a favore degli imputati. Si converrà che non è cosa da poco. Forse i tre pubblici ministeri Carmelo Petralia, Anna Maria Palma e Nino Di Matteo avranno e hanno le loro buone, ottime ragioni. Piacerebbe conoscerle. Piacerebbe sapere se le cose sono andate come Di Gregorio le racconta, o se si tratta di forzatura e “invenzione”; piacerebbe che qualcuno glielo domandasse…

Dice altro, l’avvocato Di Gregorio: «Fra centinaia di migliaia di pagine, era mi pare il 1995, scopriamo quasi per caso una lettera del procuratore aggiunto di Caltanissetta al suo omologo di Palermo: ti trasmetto i confronti tra Scarantino e i tre pentiti Cancemi, Di Matteo e La Barbera…Se sono stati messi a confronto, ho dedotto io, vuol dire che ci sono tre pentiti che, in tutto o in parte, contestano le dichiarazioni di Scarantino. Non si procede a un confronto, se no. Per cui chiedo di avere il testo dei tre confronti».

La risposta è che i confronti non ci sono. Di Gregorio insiste: «E arriva una seconda risposta: gli atti non vi riguardano, perché non parlano degli imputati in questo processo».

Il fatto è che invece ne parlavano. Lo spiega lo stesso Di Gregorio: «Quando nel 1997 verranno spiccati i mandati di cattura per il Borsellino ter, tra gli indagati c’è anche Cancemi. Abbiamo scoperto allora la bugia che il confronto non avesse riguardato gli imputati di cui sopra. Altrochè se li aveva riguardati. E qui viene il bello. Eravamo in udienza a Torino e i PM ribadirono in aula la loro affermazione. A quel punto chiedemmo l’invio degli atti a Torino per denunciare i PM stessi per false dichiarazioni in atto pubblico. I PM chiesero a loro volta la trasmissione degli atti a Torino per procedere contro di noi per calunnia. Conclusione: la procura di Torino ha archiviato tutto. Come ha fatto? O noi calunniavamo loro, o loro falsavano. In mezzo non c’era niente. Non poteva esserci niente. Eppure la Procura di Torino ha archiviato per tutti. Lì ho capito che Scarantino era sacro».

A questo punto occorre chiedersi che cosa sta scritto nel verbale del confronto tra Scarantino e Cancemi; e conviene lasciare sempre la parola a Di Gregorio: «Cancemi aveva detto a Scarantino: ma che dici? Che ne sai tu? Chi ti ha raccontato tutte queste balle su via D’Amelio? Chi ti ha messo in bocca tutte queste minchiate? Scarantino non fece migliore figura di quella che avrebbe fatto nell’aula di Como nel 1998, quando chiese di togliere il paravento e dichiarò: non so niente, mi hanno costretto, mi hanno obbligato. Poi ritrattò la ritrattazione, poi di aver ritrattato la ritrattazione. Scarantino era Scarantino. Un poveretto. Ma il processo restava appeso a un oracolo così: 17 anni in questo modo».

Di Gregorio poi racconta episodi che la riguardano direttamente: tra i suoi clienti Giovanni Bontate, fratello del boss Stefano. «Imparentato con lui figurava un tale Di Gregorio, e qualcuno in procura pensò di avere fatto 13. Aprirono un’indagine, solo che quello non c’entrava un accidente con me». Senza aprire un’indagine era sufficiente andare a chiedere all’anagrafe. C’è poi un altro “pentito”, Gaspare Mutolo: sostiene che due fratelli di Di Gregorio sono mafiosi. Ma Rosalba Di Gregorio non ha fratelli. Poi tocca al marito Francesco Marasà, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa: «Ricordo bene tutto, ricordo perfettamente anche il contesto in cui uscì fuori questa notizia. Nacque appena facemmo la denuncia a Torino su quei confronti con Scarantino messi ‘in sonno’». Di Gregorio dice di voler credere alla coincidenza. Per inciso: Marasà viene assolto in primo, secondo e terzo grado.

Conclusione? «Si può rimanere devastati, si può essere annullati. O si può, nonostante tutto, andare avanti come ho fatto io. Mi sono fatto tatuare uno scorpione sul polso. L’ho fatto dopo l’ennesima assoluzione di mio marito. E’ stato un gesto d’istinto, per esorcizzare il passato e dare un messaggio: attenti, d’ora in poi mordo anch’io».

Il libro di Di Gregorio e Marasà cui si è fatto cenno all’inizio, si apre con un brano dalle “Storie” di Erodoto: «La calunnia è una cosa tremenda: sono due quelli che commettono ingiustizia, e uno quello che la subisce. Infatti il calunniatore commette ingiustizia denigrando una persona in sua assenza, e colui che ascolta commette egualmente ingiustizia accettando quello che gli viene detto prima di essersi potuto accertare del vero». Profetico.

Dall’inchiesta de “Il Corriere della Sera”. L'appunto del Servizio segreto civile partì dal centro Sisde di Palermo il 13 agosto 1992, nemmeno un mese dopo la strage di Via D'Amelio che aveva ucciso il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Protocollo numero 2298/Z.3068, diretto a Roma. C'era scritto che da «contatti informali» si potevano prevedere imminenti sviluppi sugli autori del furto della macchina imbottita di tritolo e «sul luogo ove la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell'attentato».

Oggi quell'appunto è senza padre. Nessuno degli agenti all'epoca in servizio tra Palermo e Roma ha saputo spiegarne origine e significato. Nemmeno colui che probabilmente lo firmò, il quale sostiene di non ricordare nulla di quello strano documento. Strano e «inquietante», come lo definiscono i pubblici ministeri della Procura di Caltanissetta nella memoria conclusiva stesa a tre anni dalla riapertura dell'inchiesta sulla strage. Perché a quella data non c'era ancora l'ombra di un pentito che parlasse del garage che avrebbe nascosto la Fiat 126 rubata per l'attentato. Solo un mese più tardi, il 13 settembre, Salvatore Candura cominciò a parlare della macchina fino ad autoaccusarsi del furto «commesso su incarico di Vincenzo Scarantino che gli aveva promesso un compenso di 500.000 lire». Poi arrivò l'altro «collaboratore di giustizia» Francesco Andriotta, decisivo per la successiva confessione di Scarantino. Falsa come quelle di Andriotta e Candura, ma tutte giudicate attendibili e messe a fondamento di condanne definitive. Finché tre anni fa è arrivato il vero ladro della 126, Gaspare Spatuzza, a riscrivere la storia della strage di via D'Amelio.

Dunque la teoria dei pentiti bugiardi fu anticipata da un documento del Sisde sugli imminenti risultati della Squadra mobile palermitana guidata da Arnaldo La Barbera, investigatore sagace e stimato successivamente divenuto questore di Palermo, Napoli e Roma, assurto ai vertici dell'antiterrorismo e dell' intelligence fino alla prematura scomparsa nel 2002. Un depistaggio sul quale continuano a interrogarsi i magistrati di Caltanissetta: fu un «complotto istituzionale» per chiudere in fretta l'indagine sulla morte di Borsellino, oppure un grave ma «semplice» errore investigativo, commesso dopo aver imboccato una strada che era «doveroso» esplorare?

La storia dell'indagine sbagliata, per come è stata ricostruita dalla Procura nissena, non ha sciolto il mistero. Che si alimenta con la clamorosa ritrattazione (successiva al pentimento di Spatuzza) del falso collaboratore Candura. Il quale nell'interrogatorio del 10 marzo 2009 ha ammesso che diciassette anni prima s'inventò tutto. Trasformando la sua confessione in un atto d'accusa.

Riassumono i pm nella memoria inviata alla commissione parlamentare antimafia: «Egli dichiarava di non aver affatto rubato l'auto; di essere stato indotto ad accusarsi del furto e a chiamare in causa lo Scarantino a seguito delle pressioni fattegli dal dott. Arnaldo La Barbera, che l'aveva "messo con le spalle al muro" dopo che lo stesso era stato arrestato per violenza carnale; di aver conseguentemente, a seguito delle minacce fattegli dal dott. La Barbera oltre che della promessa di un consistente aiuto economico da parte dello Stato, deciso ad autoaccusarsi del furto chiamando in causa lo Scarantino che peraltro gli era stato indicato dallo stesso La Barbera come committente del furto; di aver patito durante il periodo della sua "collaborazione" con lo Stato varie minacce da parte dei funzionari di polizia che riguardavano ora la propria incolumità personale, ora quella dei propri figli».

Tre funzionari di polizia che all'epoca collaboravano con La Barbera nel gruppo investigativo Falcone-Borsellino sono tuttora indagati per calunnia in un procedimento parallelo a quello sulla strage che non s'è concluso. Interrogati, hanno negato qualsiasi irregolarità nelle indagini, e tantomeno i maltrattamenti denunciati dai falsi pentiti. Le cui dichiarazioni più recenti presentano ancora, secondo gli inquirenti, elementi di ambiguità e di incertezza. Tuttavia una spiegazione alle bugie ci deve essere. Anche a quelle di Francesco Andriotta, che raccontò di aver ricevuto in carcere le confidenze di Scarantino sulla sua partecipazione all'attentato di via D'Amelio, ne riferì ai poliziotti finché lo stesso Scarantino si convinse a collaborare con i magistrati. Ma dopo la nuova verità di Spatuzza, pure Andriotta ha fatto marcia indietro. Precisando, tra l'altro, che «nulla sapeva della strage, di non essere stato lui a "costruire le cose" bensì il dott. Arnaldo La Barbera, e che mai Scarantino gli aveva rivelato particolari sulla strage per la quale, anzi, si era sempre protestato innocente».

Nell'ultimo interrogatorio del 24 febbraio scorso, riferendosi a un particolare delle indagini di 17 anni fa, il falso pentito ha detto: «Feci quelle dichiarazioni perché i poliziotti che le Signorie Loro mi menzionano mi diedero degli appunti che contenevano ciò che avrei dovuto riferire ai magistrati». E ai pm che gli domandavano se confermava quanto aveva riferito in un precedente verbale, «e cioè che ogni volta che incontrava i magistrati per essere interrogato, poco prima aveva un colloquio con i funzionari di polizia che gli suggerivano gli argomenti di cui avrebbe dovuto parlare», Andriotta ha risposto: «Confermo».

A conclusione degli accertamenti svolti finora, gli inquirenti affermano che «non si evidenziano elementi decisivi per riscontrare o cestinare l'ipotesi di una "eclatante forzatura investigativa" spintasi sino alla creazione delle false dichiarazioni di Andriotta in merito alle confidenze dello Scarantino sotto la regia degli uomini del cosiddetto Gruppo Falcone-Borsellino». Tuttavia, gli stessi pubblici ministeri scrivono: «Il probabile innamoramento di quel tortuoso sentiero che non si volle più abbandonare, nonostante alcune più o meno palesi incongruenze che provenivano dalle prime fonti di accusa, autorizza oggi questo Ufficio ad avanzare anche l'ipotesi che gli investigatori possano aver operato "forzature" più o meno spregiudicate, facendo ricorso all'aiuto di personaggi che non si possono definire certo "disinteressati"». E infine: «Accanto alle altre ipotesi prospettate, è con pari logica sostenibile che possa esservi stato un vero e proprio "indottrinamento" di Andriotta da parte degli investigatori».

Insomma, resta l'alternativa tra errore in buona fede e falsa pista costruita a tavolino. E a gettare un'ulteriore ombra è la deposizione di un ex poliziotto che all'epoca faceva parte del gruppo Falcone-Borsellino e in seguito ne fu allontanato, Gioacchino Genchi, discusso consulente di molte inchieste giudiziarie: «Ricordo che nel maggio 1993 Arnaldo La Barbera, piangendo, mi disse che doveva diventare questore e che le indagini sulle stragi, faccio riferimento a quella Borsellino, dovevano prendere una certa piega, nel senso che non si poteva più mantenere un'ampia impostazione delle stragi, ma bisognava focalizzare solo quei dati concreti che potevano portare ad immediati risultati, più limitati, ma concreti...».

Come quello garantito dalla pista Candura-Andriotta-Scarantino, oggi sconfessata da Spatuzza. Ma le dichiarazioni di Scarantino non preoccupavano affatto Giuseppe Graviano, il capo-mafia autentico regista della strage di via D'Amelio. Forse gli facevano persino comodo, poiché spostavano l'attenzione dalla sua cosca ad altre. L'ha ricordato uno degli ultimi pentiti considerato attendibile dagli inquirenti, Fabio Tranchina, autista del boss di cui ha svelato il ruolo di esecutore materiale dell'omicidio Borsellino. Del presunto mafioso che riempiva verbali su verbali, Giuseppe Graviano disse: « Parrassi, parrassi quantu vuoli ». Parlasse, parlasse quanto vuole. Lui sapeva che la verità era un'altra.

Da un’inchiesta di “La Repubblica”. Ecco, nelle oltre mille pagine con cui i magistrati di Caltanissetta hanno chiesto la revisione del processo sulla strage di via D'Amelio e di cui Repubblica è venuta in possesso, quella che potrebbe essere la definitiva ricostruzione sull'autobomba che uccise Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. La racconta il pentito Gaspare Spatuzza, l'uomo che rubò la Fiat 126 servita per la strage e che la portò, tappa dopo tappa per dieci giorni, fino al garage in cui fu imbottita di esplosivo alla presenza di un misterioso personaggio estraneo a Cosa Nostra.

La Corte d'appello di Catania respinge la richiesta di revisione del processo per la strage di via d'Amelio del 19 luglio 1992 e sospende, però, l'esecuzione della pena per otto imputati, sette dei quali condannati all'ergastolo. L'istanza di revisione, presentata dal pg di Caltanissetta Roberto Scarpinato, è nata dalle nuove rivelazioni di Gaspare Spatuzza che ha chiamato in causa i fratelli Graviano di Brancaccio, e riguardava Salvatore Profeta, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Gaetano Scotto, Gaetano Murana (condannati all'ergastolo) e Vincenzo Scarantino, il collaboratore di giustizia la cui sentenza a 18 anni è diventata definitiva nonostante la ritrattazione. L'istanza di revisione riguardava anche Salvatore Candura, Salvatore Tomaselli e Giuseppe Orofino (condannati a pene fino a 9 anni) che hanno già espiato la condanna. Tutti sono stati scarcerati tranne Scotto, che resta in carcere per scontare altre condanne, e Profeta, che tornerà in libertà nelle ore successive. "Sono confuso. Non so come pagare, con questi soldi non sono pratico. Io sono rimasto alle lire": queste le prime parole di Murana fuori dal carcere. Murana ha chiamato il difensore, Rosalba Di Gregorio, appena libero. "Sono felice", le ha detto.

La versione di Scarantino, peraltro ritrattata, determinante per le condanne all'ergastolo dei sette è stata ritenuta totalmente inattendibile dalle nuove indagini avviate dopo la collaborazione con la giustizia di Spatuzza e a Caltanissetta si procede anche contro tre poliziotti del gruppo investigativo sulle stragi che avrebbero avallato la falsa ricostruzione di Scarantino. Secondo i giudici di Catania, però, occorre che ci sia una nuova sentenza, quantomeno a carico di Scarantino per il reato di calunnia nei confronti degli imputati condannati, prima di potere revisionare la sentenza. Reato di calunnia a rischio prescrizione. Intanto, però, al di là della questione tecnica, il verdetto di Catania segna un primo determinante traguardo sulla strada della verità sull'eccidio che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della sua scorta. In sette, ad eccezione di Scotto saranno liberi. Scotto ha infatti un'altra condanna per droga e per tentato omicidio. L'ex pentito Scarantino ha finito di espiare una condanna a 8 anni inflittagli a Roma per la calunnia nei confronti dei pm che indagarono sulla strage a partire dalla sua confessione e un'altra a 9 anni per droga. 

Il primo dei condannati ora liberati ad essere stato arrestato è Salvatore Profeta, condotto in carcere nel 1993. Gli altri erano stati arrestati nel 1994. La Mattina e Gambino rimasero latitanti fino al 1997 quando furono catturati insieme con il boss Pietro Aglieri.

Chi aveva posteggiato l'autovettura Fiat 126 imbottita d'esplosivo davanti la porta d'ingresso dell'edificio di via D'Amelio dove abitavano Rita Borsellino e i suoi familiari? Chi aveva azionato il telecomando e da dove? Chi aveva risposto alla telefonata di Giovanbattista Ferrante che il pomeriggio del 19 luglio annunciava l'arrivo di Paolo Borsellino in Via D'Amelio? I magistrati di Caltanissetta rispondono a queste domande in 1135 pagine di memoria.

Nelle parole del pentito Gaspare Spatuzza il percorso della Fiat 126 che uccise Paolo Borsellino. L'automobile viene rubata, riparata e condotta in Villasevaglios. Spatuzza trova ad attenderlo due boss di Brancaccio, Renzino Tinnirello e Ciccio Tagliavia, e un misterioso personaggio sui cinquant'anni che non appartiene a Cosa Nostra. L'auto viene imbottita di esplosivo e "innescata". Giuseppe Graviano, alle 16 e 58, del 19 luglio '92 preme il pulsante che uccide il magistrato. "Io so di via D'Amelio perché l'auto imbottita di tritolo l'ho rubata io". Comincia così la narrazione con cui Gaspare Spatuzza riscrive la strage di Borsellino e della sua scorta e scagiona otto palermitani condannati all'ergastolo per quel reato. Una testimonianza ricca di dettagli, compresa la descrizione di un misterioso cinquantenne, "non di Cosa Nostra", che aspettava la Fiat 126 nel garage dove fu trasformata in autobomba: un uomo che potrebbe essere il collegamento con i servizi deviati.

Tutto cominciò con una soffiata. Ancora oggi non si sa esattamente da dove è venuta. Forse dal Sisde, il servizio segreto civile che l’ha trasmessa alla polizia di Palermo. O forse dalla polizia di Palermo, che l’ha trasmessa al Sisde. Era una soffiata fasulla. Sull’auto che aveva fatto saltare in aria Paolo Borsellino e sui mafiosi che l’avevano rubata. Dopo quasi vent’anni, è arrivato però Gaspare Spatuzza che ha riscritto la storia delle stragi siciliane. Lo  racconta lui come hanno ammazzato, il 19 luglio del 1992, l’erede di Falcone. Cancellando con le sue confessioni indagini pilotate e processi passati al vaglio della Cassazione, indicando depistaggi e piste ingannevoli. Un romanzo nero riscontrato punto dopo punto negli ultimi due anni. In una drammatica narrazione Gaspare Spatuzza rivela come i boss – e probabilmente qualcun altro – prepararono ed eseguirono il massacro."Io so di via D’Amelio perché l’auto imbottita di tritolo l’ho rubata io…". Comincia così il primo interrogatorio – il 26 giugno del 2008 – dell’uomo d’onore di Brancaccio con il procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari. “La Repubblica” è venuta in possesso delle 1138 pagine della richiesta di revisione con la quale la magistratura di Caltanissetta ha chiesto la "sospensione della pena" per otto imputati ingiustamente condannati all’ergastolo, otto palermitani trascinati nel gorgo delle investigazioni da falsi collaboratori di giustizia e da un’inchiesta poliziesca che oggi è sotto accusa. Se quasi vent’anni fa, poliziotti e pubblici ministeri si erano fidati (dopo quella soffiata "inquietante", come la definiscono i procuratori siciliani) del picciotto di borgata Vincenzo Scarantino che li ha portati verso il nulla, adesso Gaspare Spatuzza spiega come andarono veramente le cose. E parla soprattutto di sé. Di quando lui – e non Scarantino, il bugiardo - rubò quella Fiat 126 che poi servì per l’attentato. Di come la portò in giro per Palermo. Fra garage e magazzini, dalla foce del fiume Oreto fin sotto la casa della madre del magistrato.Tutte le falsità del pentito Scarantino si erano concentrate proprio sul furto di quella 126. Ecco la nuova versione di Gaspare Spatuzza. Con un disegno di suo pugno del luogo dove rubò l’auto. Con tutte le foto del percorso dell’utilitaria attraverso Palermo: dal box dove fu custodita al box dove fu imbottita di esplosivo.

Parla Gaspare Spatuzza: «Io fui incaricato di un furto di una Fiat 126 da Fifetto Cannella, per ordine del boss Giuseppe Graviano. In quel momento ho pensato subito al giudice Rocco Chinnici, anche lui saltò su una 126... ma non sapevo ancora a cosa mi stavo prestando... L’ho rubata io insieme a Vittorio Tutino, nella notte fra l’8 e il 9 luglio, dieci giorni prima della strage. Poi, l’ho tenuta in diversi magazzini - Il pentito racconta come preparano la strage, giorno dopo giorno - Cannella, mi disse che avrei dovuto rubare proprio una 126. Era prima di mezzanotte. L’abbiamo trovata in una stradina che collega via Oreto Nuova con via Fichi d’India… io rimango in macchina… vedendo che lui, il Tutino, aveva perso del tempo… cerco di andare a vedere cosa stava combinando… quindi scendo dalla macchina e gli dico: ‘Ma che fai?’… e lui mi dice: ‘Mi viene difficile a rompere il blocca sterzo’… rimango lì con lui che poi è riuscito a romperlo ma non ce la facciamo a metterla in moto perché aveva rotto tutti i fili, quindi decidiamo di portarla via a spinta». L’auto che ucciderà il procuratore Borsellino, dieci notti prima era una carcassa che neanche partiva. Ricorda ancora Spatuzza: «La macchina era sul rossiccio e tra l’amaranto e il sangue di bue… comunque era di un colore rosso spento… quindi attraversiamo verso Brancaccio e la portiamo in un magazzino di Fondo Schifano. Percorriamo via Fichi d’India, San Ciro, via San Gaetano fino al capannone dove io avevo già iniziato la ‘macinatura’ dell’esplosivo che era nascosto in alcuni fusti di metallo.-  Poi Spatuzza e Tutino avvertono Fifetto Cannella e Giuseppe Graviano - Abbiamo la macchina - Poi ancora Spatuzza incontra da solo il suo boss,Giuseppe Graviano, quello che lui chiama "Madre Natura". Dice - Mi fa un sacco di domande: mi chiede di questa 126… dove l’avevo rubata, se era intestata a persone di nostra conoscenza e gli ho detto di no, se qualcuno l’aveva già cercata e gli ho detto ancora di no. Gli ho spiegato che c’era la frizione bruciata, e per bruciare la frizione in quel genere… sicuramente la macchina era di una donna perché le donne portano i tacchi… quindi hanno il problema di staccare la frizione. E poi gli ho anche detto che ci ha… il problema della frenatura… che freni non ce ne ha… lui mi dice: ‘Puliscila tutta e di levare tutti i santini e anche l’immagine di Santa Rosalia’. Io quindi la pulisco tutta… levo tutti i segnali di riferimento che si poteva e ho bruciato i documenti, fogli, tutto quello che esisteva l’ho bruciato… anche un ombrello ».

Dopo due giorni Gaspare Spatuzza sposta l’auto in un altro suo magazzino di corso dei Mille, dove poi porta un meccanico. «Sono andato a cercare a questo Maurizio Costa e gli ho detto che dovevamo fare un lavoretto nella 126, gli ho spiegato che si doveva fare la frenatura ma non gli ho detto altro. Gli ho fatto capire che l’auto era di un latitante e gli ho fatto capire anche che non doveva parlare. Quindi sono andato a comprare i ganasci, olio e altri pezzi. Ho speso quasi centomila lire». Spatuzza riceve da Vittorio Tutino due batterie e un antennino da collegare a un telecomando. E anche l’ordine di rubare due targhe di altre Fiat 126 per metterle sopra all’autobomba. Il boss Graviano gli raccomanda di rubare le targhe il sabato mattina, il 18 luglio. Così il furto, probabilmente, verrà denunciato solo il lunedì successivo. Dopo la strage.E’ a quel punto che venerdì 17 luglio, verso le tre del pomeriggio, una Fiat 126 color amaranto scivola per le vie di Palermo carica di tritolo. Alla guida c’è Gaspare Spatuzza, accanto a lui Fifetto Cannella. Appena s’infila in corso dei Mille, Spatuzza incrocia con lo sguardo Nino Mangano, il capo del mandamento di Brancaccio che gli fa da battistrada su un’altra automobile. Spatuzza è sorpreso, poi capisce che è lì un po’ per controllarlo e un po’ per proteggerlo. Corso dei Mille, via Roccella, via Ventisette Maggio, piazza dell’Ucciardone dove c’è il vecchio carcere. Proprio, in quella piazza, c’è un posto di blocco della Guardia di Finanza. La staffetta Mangano avverte Spatuzza, che svolta all’improvviso verso il Borgo Vecchio. Si ferma a un chiosco, prende tempo. Quando Nino Mangano gli dice che la strada è libera, la Fiat 126 ritorna indietro, supera l’Ucciardone e punta verso la via Don Orione. Dopo poche decine di metri l’utilitaria sparisce dentro un garage di via Villasevaglios 17. C’è uno scivolo di cemento, c’è un cancello di ferro e poi una saracinesca. Quando sale, Gaspare Spatuzza infila il muso della Fiat 126 lì dentro, dove ci sono ad aspettarlo due uomini. Uno è Renzo Tinnirello della "famiglia" di corso dei Mille, l’altro è Ciccio Tagliavia di Brancaccio. Ma alle loro spalle, nell’ombra, c’è anche uno sconosciuto, un uomo di una cinquantina d'anni che non è un mafioso. Nel 2009 Gaspare Spatuzza aveva indicato quell’uomo, con nome e cognome, come un appartenente ai servizi segreti. Nel 2010 ha fatto marcia indietro, parlando solo "di una certa somiglianza". Spento il motore della Fiat 126, Tinnirello dice a Spatuzza di pulire lo sterzo per cancellare le sue impronte digitali. Poi Tinnirello e Tagliavia imbottiscono l’auto e preparano l’innesco. Gaspare Spatuzza torna verso la sua Brancaccio, passa dall’Ucciardone ("il posto di blocco della Finanza non c’era più") e intuisce - dalla vicinanza con la casa della madre di Paolo Borsellino - a cosa servirà quella Fiat 126.

Era dalla prima settimana di luglio che erano cominciati gli appostamenti in via Mariano D’Amelio. Il primo sopralluogo. Poi, il secondo sopralluogo "circa una settimana prima della strage". Li avevano fatti Fabio Tranchina e Giuseppe Graviano. Il boss aveva chiesto a Tranchina  di procurarsi anche un appartamento lì vicino ("senza agenzie, mi raccomando...") ma poi aveva visto un giardino dietro la casa della madre del magistrato e aveva deciso di piazzarsi lì con il telecomando. Sabato 11 luglio il boss Salvatore Biondino e i due cugini Salvatore Biondo e Giovan Battista Ferrante (uno detto "il  lungo" e l’altro "il corto") provano il telecomando in campagna. Lunedì 13 luglio i Ganci della Noce contattano Antonino Galliano e lo avvertono di "tenersi pronto per pedinare" Borsellino la domenica successiva. Il 16 luglio Salvatore Biondino dice a Giovanni Brusca che è "sotto lavoro" ma che non ha bisogno di aiuto per la strage. Il 17 luglio Biondino chiama Ferrante e gli ordina "di tenersi libero per domenica che c’è da fare". Sabato 18 luglio Raffaele Ganci informa Salvatore Cancemi che, il giorno dopo, Borsellino morirà.Alle sette del mattino di domenica 19 luglio i mafiosi delle "famiglie" della Noce, di San Lorenzo e di Porta Nuova sono "in osservazione" intorno a via Mariano D’Amelio. Alle 16,58 il procuratore salta in aria con cinque agenti della sua scorta. Sono stati solo i mafiosi? Scrive il procuratore Sergio Lari nella richiesta di revisione del processo Borsellino presentata alla procura generale di Catania: "Dopo diciannove anni, potrebbe sembrare singolare, se non addirittura anomalo, che siano state avviate nuove indagini destinate a mettere in discussione ‘verità’ che ormai sembravano acquisite". E, riferendosi alle false piste, il procuratore scrive: "Bisogna comprendere se con i depistaggi si volevano coprire la responsabilità di ‘soggetti esterni’ a Cosa Nostra riconducibili ad apparati deviati dei servizi segreti, ovvero ad altre Istituzioni o a organizzazioni terroristico-eversive".

IL PATTO MAFIA-STATO, LE ORIGINI. Al tempo delle stragi c'è stata una trattativa con Cosa Nostra per 'risparmiare' ministri e politici. Dopo 19 anni, i procuratori di Palermo ipotizzano che dopo l'uccisione di Salvo Lima (marzo 1992) altri fossero nel mirino dei Corleonesi. E il Viminale era così preoccupato da spedire un fax per lanciare l'allerta. Dal 2009 si indaga su "strategie destabilizzanti" ed "eventi omicidiari" che nel 1992 avrebbero potuto insanguinare il Paese. Secondo i magistrati, la trattativa tra Stato e mafia non è dipesa da Totò Riina, ma dalla volontà di evitare episodi stragisti, assassinii e sequestri di leader di partito e di governo: da Andreotti a Mannino, da Vizzini a Martelli, ecco chi era nel mirino delle cosche. I segreti di quei giorni in un documento del Viminale. Oggi sappiamo perché, al tempo delle stragi, c'è stata una trattativa con la mafia. Sappiamo che non l'ha voluta Totò Riina, ma l'ha voluta lo Stato: per salvare la vita di alcuni uomini politici. Erano in una lista nera. Un elenco di ministri.  E fra loro c'era anche - come riportava una nota del Viminale alla fine dell'inverno 1992 - quello che veniva considerato "il futuro presidente della Repubblica", ossia Giulio Andreotti. Dopo diciannove anni avvolti nell'omertà e nei depistaggi, su quel patto segreto i procuratori di Palermo stanno seguendo una pista che porta dritta a una conclusione: dopo l'uccisione dell'eurodeputato siciliano Salvo Lima e dopo quella del giudice Giovanni Falcone, qualcun altro era finito nel mirino dei Corleonesi e così ha ordinato - a uomini di fiducia dei reparti investigativi - di agganciare i boss per fermare i sicari e salvarsi la pelle. Pezzi da novanta della politica che i mafiosi, a torto o a ragione, consideravano "traditori". Amici o complici che non avevano rispettato accordi antichi, gente che in passato (nel migliore dei casi) si era presa i voti di Cosa Nostra e poi aveva voltato le spalle dimenticando tutto. La lista nera che hanno ricostruito i magistrati siciliani è il risultato di una lunghissima attività istruttoria iniziata nella primavera del 2009 e che è stata completata con l'acquisizione, un mese e mezzo fa, di un documento del ministero dell'Interno su "strategie destabilizzanti" e "eventi omicidiari" che nel 1992 avrebbero insanguinato il Paese. Il documento è diventato pubblico il 10 ottobre 2011, depositato dai pm al processo contro il generale Mario Mori, accusato di avere favorito la latitanza di Bernardo Provenzano. Un dibattimento che è diventato, di fatto, un "pezzo" della trattativa fra Stato e mafia. Ma torniamo all'elenco dei bersagli della mafia scoperti dagli investigatori. Si apre con quello che era allora il ministro per gli Interventi Straordinari per il Mezzogiorno, Calogero Mannino, un ras in Sicilia. E poi Carlo Vizzini, palermitano, ministro delle Poste e Telecomunicazioni. Il ministro della Giustizia Claudio Martelli, che da poco più di un anno aveva chiamato accanto a sé Giovanni Falcone come direttore generale degli Affari penali al ministero di via Arenula. E Salvo Andò, catanese, socialista craxiano, ministro della Difesa. C'era anche Sebastiano Purpura, un politico siciliano che diciannove anni prima era assessore regionale al Bilancio e soprattutto era un fedelissimo di Salvo Lima. Sono loro i primi nomi che compaiono nell'indagine dei magistrati di Palermo. L'inchiesta sulla trattativa sembra arrivata a una svolta decisiva. Dalla montagna di carte - centinaia di interrogatori, confronti all'americana, deposizione di pentiti, sequestro di atti - sul negoziato cominciato subito dopo la strage Falcone e poco prima della strage Borsellino è affiorato il "movente", probabilmente è stata individuata la ragione che ha portato uomini degli apparati ad avvicinare personaggi come l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino e che ha convinto successivamente lo stesso Totò Riina a scrivere il "papello", quella piattaforma di rivendicazioni giudiziarie e carcerarie in favore di Cosa Nostra da sottoporre allo Stato. Sconti di pena, revisione del maxi processo, abolizione del carcere duro in cambio del silenzio delle armi. Il filo che seguono i pm siciliani - indagano Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Paolo Guido - parte dagli omicidi Lima e Falcone. Lima, uomo vicino a Cosa Nostra e vicerè siciliano di Giulio Andreotti, viene ucciso il 12 marzo 1992 fra i vialetti di Mondello. Colpito alle spalle, proprio come un traditore. Fatto fuori dai Corleonesi perché "non ha rispettato i patti". In sostanza, Lima paga il conto per non avere più "garantito" Cosa Nostra, in particolare muore "per non essere riuscito a far aggiustare il maxi processo in Cassazione". L'omicidio Lima cambia per sempre la storia di Palermo e fa saltare tutti gli equilibri politici in Italia. Il primo che paga un altro conto - che poi è sempre lo stesso - è Giulio Andreotti, presidente del Consiglio per la settima volta in quel 1992 e in pole position per l'elezione di fine primavera alla Presidenza della Repubblica. Ma il delitto Lima lo "brucia", gli sbarra per sempre la strada per il Quirinale, dove il 24 maggio - dopo tante fumate nere e a ventiquattro ore dalla strage di Capaci - salirà Oscar Luigi Scalfaro. E' comunque già all'indomani del delitto Lima che il ministero dell'Interno, a firma del potentissimo capo della polizia Vincenzo Parisi, dirama un telegramma di due pagine indirizzato a tutti i prefetti e a tutti i questori, all'alto commissario per la lotta alla mafia, al direttore della Dia, ai capi del servizio segreto civile e a quello militare "e per conoscenza al comando generale dell'Arma dei carabinieri e al comando generale della Guardia di finanza". Porta la data del 16 marzo del 1992, appena quattro giorni dall'omicidio di Palermo. Il capo della polizia cita alcune fonti che annunciano "nel periodo marzo luglio corrente anno, campagna terroristica con omicidi esponenti Dc, Psi et Pds, nonché sequestro et omicidio futuro presidente della Repubblica. Quadro strategia comprendente anche episodi stragisti". Più avanti il telegramma di Parisi invita "at più attenta vigilanza" per il ministro Calogero Mannino e per il ministro Carlo Vizzini. Quello di Parisi non è un "avviso" di routine. Ed è subito evidente. Passano altri quattro giorni e il ministro dell'Interno Vincenzo Scotti riferisce di "un piano destabilizzante" in un'audizione alla commissione Affari Costituzionali del Senato. Ma tutti danno addosso a Scotti. Non gli credono. C'è anche una misteriosa fuga di notizie sul telegramma di Parisi e salta fuori il nome di una delle "fonti confidenziali" che segnala gli attentati: è un detenuto, tale Elio Ciolini, con un passato di depistatore e calunniatore. Ciolini in quel momento è nel carcere di Sollicciano, dove sconta una pena a nove anni per false rivelazioni sulla strage alla stazione di Bologna. Tutti dicono che è un bluff. Tutti tranne il ministro Scotti e il capo della polizia Parisi che nel suo dispaccio scrive di "fondati indizi sull'esistenza di un progetto di destabilizzazione del sistema democratico del nostro Paese". Probabilmente Parisi, oltre a Ciolini, ha altre "fonti". Ma il suo allarme cade incredibilmente nel vuoto.Il presidente del Consiglio Andreotti si precipita a parlare "dello scherzo di un pataccaro", il presidente della Repubblica Cossiga ridimensiona il pericolo. In quegli stessi giorni qualcuno, sfidando un imponente servizio di sicurezza, entra nello studio romano del ministro Scotti in via Pietro Cossa, a Prati, e mette a soqquadro tutto senza rubare nulla. Un avvertimento. Come siano andate le cose poi, è noto. Dopo Lima, il 23 maggio 1992 c'è la strage di Capaci. Dopo Falcone, il 19 luglio 1992, c'è la strage di via Mariano D'Amelio. E' fra Capaci e via Mariano D'Amelio - ne sono convinti i procuratori di Palermo - che inizia la trattativa fra Stato e mafia. Paolo Borsellino ne viene a conoscenza, si mette di traverso e lo uccidono. Alcuni di quegli uomini politici indicati nella lista dei pm siciliani sono sempre più spaventati, prendono contatti negli stati maggiori dei reparti investigativi e qualcuno trova il modo di "dialogare" con Cosa Nostra. Prima con l'ex sindaco Vito Ciancimino, poi con altri personaggi che sono ancora nell'ombra. Ma nei giorni e nei mesi successivi accade molto altro, fra Roma e Palermo. Vincenzo Scotti, che l'8 giugno insieme al Guardasigilli Martelli firma un decreto (il 41 bis) per il carcere duro ai mafiosi, a inizio luglio è improvvisamente dirottato alla Farnesina e il suo posto all'Interno è preso da Nicola Mancino. Neanche un anno dopo Giulio Andreotti finisce sotto processo per mafia, e alla fine si salverà con una prescrizione. Totò Riina viene venduto e catturato in circostanze misteriosissime nel gennaio 1993. E così Cosa Nostra, senza più delitti eccellenti, assicura allo Stato italiano una lunga stagione di "pace". Tutti gli uomini politici di quella lista nera sono vivi. E scomparsi dalla grande scena politica. E' il 16 marzo del 1992, quando questo documento, a firma del capo della Polizia Vincenzo Parisi, viene inviato a tutti: prefetti, questori, l’alto commissario per la lotta alla mafia, il direttore della Dia, i capi del servizio segreto civile e a quello militare. Quattro giorni prima, il 12 marzo, è morto a Palermo Salvo Lima, ucciso dalla mafia. Il ministero degli Interni, in questa nota, dichiara di temere che "Nel periodo marzo luglio corrente anno, campagna terroristica con omicidi esponenti Dc, Psi et Pds, nonché sequestro et omicidio futuro presidente della Repubblica. Quadro strategia comprendente anche episodi stragisti". Più avanti il telegramma di Parisi invita "at più attenta vigilanza" per il ministro Calogero Mannino e per il ministro Carlo Vizzini. Nel mirino della criminalità c'è anche Giulio Andreotti.  La lista nera che hanno ricostruito i magistrati siciliani è il risultato di una lunghissima attività istruttoria iniziata nella primavera del 2009 e che è stata completata, un mese e mezzo fa, con l'acquisizione di queste due pagine che sono diventate pubbliche il 10 ottobre 2011.

"Il nemico è sempre lì, in attesa, pronto a colpire. Ma noi non riusciamo neppure a metterci d'accordo sull'elezione del presidente della Repubblica. Cosa Nostra delinque senza soste, mentre noi litighiamo senza soste". Era il 19 maggio 1992 quando Giovanni Falcone rilasciò la sua ultima intervista a “La Repubblica” di Napoli. Quattro giorni dopo, domenica 23 maggio 1992, il magistrato volò a Palermo. A Capaci, a pochi chilometri dall'aeroporto, 500 chili di tritolo fecero saltare in aria la sua macchina e quelle della scorta. Oltre al giudice Giovanni Falcone, persero la vita anche la moglie e i tre carabinieri che lo accompagnavano.

Il 1992 è l'anno delle stragi, quello degli attacchi del clan dei corleonesi contro lo Stato. È l'anno della violenza, delle bombe di Capaci e via D'Amelio e delle minacce. È l'anno della trattativa e del 'papello' in cui Cosa Nostra presenta un elenco di richieste per porre fine alla stagione stragista. È l'anno in cui le elezioni politiche del 5-6 aprile lasciano l'Italia in una crisi drammatica e profonda, che getta discredito sulle vecchie élite politiche travolte dai primi avvisi di garanzia della stagione tangentopoli. È l'anno in cui Giulio Andreotti vede sfumare la propria elezione al Quirinale, al suo posto si insedia Oscar Luigi Scalfaro. 

Il 17 gennaio la Camera, con voto di fiducia, approva il decreto che istituisce la Direzione nazionale antimafia. A volerla è Giovanni Falcone. Il magistrato era stato chiamato da Claudio Martelli alla direzione generale degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia. L'obiettivo è avere uno strumento utile a contrastare la criminalità organizzata e coordinare, in ambito nazionale, le indagini di tutte le procure.

Pochi giorni dopo, il 30 gennaio, la prima sezione penale della Cassazione pronuncia la sentenza definitiva che chiude il Maxiprocesso di Palermo: 360 condannati su 474 imputati. Il totale è da record: 2665 anni di carcere, 11 miliardi e mezzo di lire di multe e 114 assoluzioni. Gli ergastoli invece sono 19, tutti per i principali killer e boss mafiosi: Michele Greco, Giuseppe Marchese, Salvatore Riina, Giuseppe Lucchese Micciché e Bernardo Provenzano.

Il 17 febbraio scatta l'ora delle manette di Mario Chiesa. Il faccendiere viene colto in flagrante mentre accetta una tangente di sette milioni di lire da un imprenditore. Bettino Craxi lo definisce "mariuolo". Antonio Di Pietro lo fa arrestare. Lui è inconsapevole ma diventerà il simbolo di Tangentopoli, quell'intreccio fra politica e affari, uomini dei maggiori partiti di governo e opposizione, grandi imprese, grandi imprenditori e manager.

Il 12 marzo è Palermo a tornare sotto i riflettori. La mafia uccide Salvo Lima, deputato della Democrazia cristiana al Parlamento europeo, ex sindaco di Palermo e capo della locale corrente andreottiana. Il cadavere del 'console' di Andreotti in Sicilia era ancora sul marciapiede quando tutti notarono l'atipicità del delitto. Troppe domande restavano senza risposta: "Perché hanno lasciato in vita i testimoni oculari? Perchè non hanno bruciato la motocicletta dopo l'omicidio? Perchè hanno sparato solo con una pistola?". Fu subito chiaro che si trattò di un delitto di stampo mafioso, restava incerto il movente. In realtà, si dirà qualche anno più tardi, Lima pagò il conto per non avere più "garantito" Cosa Nostra, in particolare morì "per non essere riuscito a far aggiustare il maxi processo in Cassazione". Il delitto di Lima non fu un caso isolato. Il giorno prima, l'11 marzo, a Castellammare di Stabia viene ucciso Sebastiano Corrado, un consigliere comunale del Pds. Due killer lo ammazzano con cinque colpi calibro 7.65, in una stradina del centro, in pieno giorno. 'Stava dalla parte giusta', dice chi lo conosceva. In realtà, più tardi, si scoprirà che Corrado era impegolato in traffici poco puliti con la malavita organizzata.

Giovedì 13 marzo, cinque pallottole calibro 45 uccidono Salvatore Gaglio, 50 anni, segretario della Federazione del Psi di Bruxelles. Erano le cinque e mezzo  del pomeriggio e Salvatore Gaglio, siciliano, usciva di casa per svolgere le sue incombenze abituali, prima di recarsi a Mons dove era atteso per una riunione di partito che avrebbe dovuto organizzare la partecipazione degli immigrati alle elezioni italiane del 5 aprile. I giornali parlano subito di "delitto di mafia".

Manca poco meno di un mese alle politiche. Il presidente del Senato Giovanni Spadolini denuncia "un assalto della criminalità organizzata tendente a piegare la Repubblica" e invita alla mobilitazione: "Bisogna avere il coraggio di dire che occorre ricostituire un Fronte morale nazionale dopo le elezioni, chiuse queste polemiche, volto principalmente a restituire allo Stato la sovranità che ha perduto su una parte delle sue regioni".

Il 5 aprile si vota: la Democrazia cristiana prende il 29,7% dei voti; il Pds 16,1%; Psi 13,6%; Lega Nord 8,7%; Prc 5,6%; Pri 4,4%; Pli 2,9%. Il 24 aprile si dimette il settimo governo Andreotti. Il giorno dopo il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga annuncia le sue dimissioni in un discorso televisivo, due mesi prima del termine della sua carica. 

Il 2 maggio il Tribunale di Milano invia un avviso di garanzia a Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, socialisti, ex sindaci di Milano, sono indagati nell'ambito dell'inchiesta mani pulite. Simili provvedimenti giungeranno in maggio a numerosi imprenditori e politici lombardi. 

Il 23 maggio, sull'autostrada che collega Palermo all'aeroporto di Punta Raisi esplode una carica di tritolo che uccide il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti di scorta.

Il 19 luglio a Palermo, in via D'Amelio, un'autobomba massacra il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Dicono che fu ucciso perché sapeva ed era contrario alla trattativa Mafia-Stato. In particolare l'obiettivo di Cosa Nostra era l'abolizione del 41 bis e la revisione del maxi-processo. La prima vede protagonisti il boss Ciancimino e Mario Mori, vicecapo del Ros dei Carabinieri. La seconda invece Antonino Gioè (killer delle stragi) e Paolo Bellini, confidente dei carabinieri.

Il 10 agosto viene approvato in via definitiva un pacchetto di misure contro la mafia: invio in Sicilia di 7000 uomini dell'esercito; oltre 100 boss mafiosi vengono trasferiti nel carcere dell'Asinara.L'anno si conclude con il primo avviso di garanzia al segretario del PSI Bettino Craxi per corruzione, ricettazione e violazione del finanziamento pubblico ai partiti.

Tutto il resto è noto, la stagione di Tangentopoli mise alla porta o ridimensionò fortemente partiti storici come la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano, il PSDI, il PLI e aprì la stagione della Seconda Repubblica.

Anche Totò Riina, il capo dei capi, da 18 anni "carcerato modello", rinchiuso nella prigione di Opera, parla in qualche modo di quei giorni cruciali del 1992. Lo fa nei due interrogatori del luglio 2009 e del luglio 2010 di cui Repubblica ha pubblicato i verbali poi oscurati da una decisione della Procura di Caltanissetta. Quei verbali, tutt'ora consultabili sul web (centinaia di siti li hanno scaricati prima del decreto di "oscuramento" e "sequestro preventivo") assumono un interesse anche maggiore alla luce della pista che, in questi mesi, la Procura di Palermo sta seguendo. Pista che porta al telegramma del 16 marzo 1992 in cui il capo della Polizia Vincenzo Parisi parlava di un'ipotesi stragista e di omicidi "eccellenti" che la mafia stava preparando: quelli di Andreotti, Vizzini, Mannino, Andò e Martelli. Il timore che la strage si concretizzasse avrebbe portato lo Stato a trattare con Cosa Nostra per salvare le loro vite. Negli interrogatori, Riina non parla esplicitamente di quei fatti e di quei giorni, ma qualcosa dice. Soprattutto dove afferma che qualcuno ha avuto interesse a venderlo e a farlo arrestare e che qualcuno non è Balduccio Di Maggio. Qui, infatti, Riina chiama in causa Nicola Mancino che, proprio in quelle settimane di luglio, subito dopo la strage di Capaci, era subentrato a Vincenzo Scotti sulla scomodissima poltrona di ministro degli Interni. E ricorda che Mancino "annunciò" la sua imminente cattura sei giorni prima che lo prendessero nel suo covo in pieno centro di Palermo nel gennaio 1993. Riina esclude che a tradirlo sia stato Balduccio Di Maggio, non esclude Provenzano (ma poi afferma che Provenzano ha la sola colpa di essere "troppo scrittore", insomma, di scrivere troppi pizzini). Il capo dei capi si chiede come facesse Mancino a sapere che stavano per mettergli le manette. E, implicitamente, sembra chiedersi se qualcuno dell'apparato dello Stato fosse in contatto con quelli che l'hanno venduto. In un altro punto, Riina parla del famoso "papello" di Ciancimino (una sorta di "minuta" dell'accordo Stato-mafia) negando di averlo mai visto ("sotto ci dovrebbe essere la mia firma") e tutto il resto della sua deposizione è teso a dire che lui con l'accordo non c'entra. E in altri momenti dei suoi incontri con i magistrati di Caltanissetta, Riina sembra quasi chiedere alla giustizia di rispondere ad alcuni suoi dubbi su come sono andate davvero le cose. E' come se, a distanza di anni, anche al Capo dei capi i conti non tornassero, almeno non del tutto: sull'eventuale trattativa, sugli autori e i mandanti delle stragi e delle bombe. Da Capaci a via D'Amelio, da Firenze (via dei Georgofili), a Roma (San Giovanni in Laterano) a Milano (Via Palestro), la mafia era certamente coinvolta, ma, oggi, neppure Totò Riina sembra sicuro di conoscere tutti i protagonisti. E, tra le righe, sembra chiedere, ancora una volta, una mano allo Stato.

Sequestro "preventivo" (dodici ore dopo la loro pubblicazione sul web) per i verbali dei due interrogatori di Totò Riina (luglio 2009 e luglio 2010) pubblicati (per ampi stralci) in versione cartacea e, contemporaneamente, in versione integrale, su Repubblica.it nella sezione "RE Le inchieste". La decisione è stata presa dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta che ha emanato un "decreto di sequestro preventivo" e ha indagato i giornalisti Attilio Bolzoni (Repubblica) e Lirio Abbate (L'Espresso) per violazione del segreto istruttorio in concorso con "pubblici ufficiali da individuare". Il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e il suo aggiunto Domenico Gozzo hanno ordinato a due ufficiali di Polizia giudiziaria (che si sono presentati nella sede del Gruppo Espresso in via Cristoforo Colombo a Roma) di provvedere a "estrarre e copiare su supporto informatico le pagine oggetto di sequestro". Si tratta di nove file tra i quali ci sono effettivamente i verbali degli interrogatori, ma anche una serie di articoli a firma di Bolzoni e Abbate, una innocente ricostruzione della vita e della carriera criminale di Riina e una galleria di foto del "Capo dei capi". Un provvedimento clamoroso per l'informazione italiana su internet. Assolutamente particolare per l'importanza del media, per il carattere "preventivo" e per il tipo di reato ipotizzato, cioé la violazione del segreto istruttorio. E anche, apparentemente, privo di risultati pratici. A quest'ora, infatti, i verbali sono stati letti da almeno due milioni di utenti unici molti dei quali li hanno scaricati e ricopiati su altri siti e blog. Il risultato è che la lettura dei verbali è ancora possibile su centinaia di pagine web. Il decreto di sequestro recita: "Si deve evidenziare come la misura appaia necessaria per impedire l'aggravamento e la protrazione delle conseguenze del reato. In tal caso, le conseguenze sono ravvisabili in un aumento esponenziale della diffusione della conoscenza delle notizie riservate e segrete contenute nella documentazione pubblicata su internet". Ma la "diffusione" inevitabilmente continuerà e sarà praticamente impossibile fermarla.

Ma cosa contenevano i verbali dell'interrogatorio di Riina? Il boss di Cosa Nostra aveva chiesto di essere sentito in due diverse riprese. A novembre, il capomafia da 17 anni all'ergastolo in regime di isolamento, farà ottantuno anni. Nonostante i malanni dell’età - due infarti, l’ipertrofia prostatica, una cirrosi da epatite C - e il perenne isolamento, a sentirlo parlare sembra quello che era prima. Un capo. Forse il tempo non passa mai per lo "zio Totò". Vive fuori dal mondo e si sente al centro del mondo. E’ sepolto dal 1993 in un buco (una cella lunga tre metri e larga centottanta centimetri), si mostra duro e puro però sotto sotto nasconde qualche fragilità. Cedimenti mai, non è il tipo. Solo piccole debolezze. E’ sempre lui ma – da quello che si legge nei verbali – si può capire che un po’ gli si è sciolta la lingua. Dopo un’ esistenza di ostinato silenzio Salvatore Riina concede e si concede. Allude, ammicca, annuncia, nega, conferma, rettifica, pontifica su tutto e tutti. Difficile supporre che si tratti di strategia difensiva con i tredici ergastoli che ha da scontare, è più probabile che voglia levarsi qualche sassolino dalla scarpa. E mandare messaggi ad amici e nemici.Dalle sue parole – racchiuse in due verbali di interrogatorio top secret dei magistrati di Caltanissetta – affiora anche un autoritratto inedito del boss di Corleone. Con Totò Riina che racconta Totò Riina chiacchierando di stragi e di pubblici ministeri, di vecchi compari, di paesani suoi, di generali, spie, di senatori e di pentiti. Colloqui e sproloqui di alta mafiosità. Nel suo stile e in un molto approssimativo italiano, a modo suo Salvatore Riina si confessa per la prima volta. Ce l’ha con quel furbacchione di Massimo Ciancimino "che vi usa per recuperare i soldi perduti di suo padre". E’ risentito con il procuratore Gian Carlo Caselli "che non mi ha mai chiesto se ho baciato o no Andreotti". Ricorda Paolo Borsellino ed esorta ad indagare sulla scomparsa della sua agenda rossa. Ironizza su un Bernardo Provenzano "troppo scrittore" per quella mania dei pizzini ritrovati nei covi di mezza Sicilia. Chiede conto e ragione della chiaroveggenza dell’ allora ministro degli Interni Nicola Mancino sulla sua cattura. E poi parla e straparla. Di trattative e papelli, di traditori veri e presunti, della "tiratura morale" di Luciano Violante, della sua condizione carceraria - "Non mi pozzo fare neanche un bidè pei telecamere 24 ore su 24" - e naturalmente di sé: "Aio 80 anni e si hanno una volta sola. A 80 anni c’è morte. Gli anni sono gli anni". Però come vedete non sono proprio abbattuto.. penso che tirerò ancora un altro po’". Il pensiero di quello che ancora oggi viene indicato come il capo dei capi della Cosa Nostra siciliana è dentro un centinaio di pagine (settantatré nell’interrogatorio del 24 luglio 2009 e trentatré nell’interrogatorio del 1 luglio 2010) che di fatto – se si esclude un breve e brusco incontro del 22 aprile 1996 fra lui e il procuratore di Firenze Pier Luigi Vigna – rappresentano le uniche testimonianze ufficiali di Totò Riina dal giorno del suo arresto avvenuto nel gennaio del 1993. L’interrogatorio del luglio 2009 l’ ha voluto proprio lui, quando ha chiesto di presentarsi davanti al procuratore capo Sergio Lari "per fare dichiarazioni spontanee". Insomma, dopo tanto tempo abbiamo scoperto che lo "zio Totò" non è muto.

PARLIAMO DI MAFIA DENTRO LO STATO

Le talpe dentro la Procura, un'inchiesta di di Paolo Biondani su “L’Espresso”.

Carabinieri, vigili, funzionari al servizio delle cosche. Persino un uomo dei servizi segreti lavorava per il clan Pelle, quello del boss evaso dall'ospedale. E anche negli uffici dei pm di Milano c'è chi informava la 'ndrangheta.

La maxi-inchiesta sulla 'ndrangheta lombarda è ancora segretissima, quando una squadra di carabinieri dell'antimafia riesce a nascondere una telecamera di fronte alla villa di un capoclan. I pm milanesi vogliono scoprire (e poter documentare) chi incontra. La missione è difficile: l'inquisito per mafia, ufficialmente imprenditore, è molto guardingo, si circonda di collaboratori-sentinelle e abita in una via di Giussano, nella popolosissima Brianza, dove è difficile passare inosservati. Per giorni i militari si fingono operai al lavoro per strada e finalmente piazzano la telecamera in cima a un lampione. Il 20 gennaio 2009 le immagini cominciano ad essere registrate nella vicina stazione dell'Arma di Seregno. Ma appena sei giorni dopo, l'inchiesta è bruciata. Un complice avverte il mafioso di aver ricevuto "un'ambasciata dallo sbirro". Una soffiata precisissima: la descrizione esatta dell'inquadratura che arriva sul monitor dei militari. Un'immagine che può essere vista solo dall'interno della caserma. Da un traditore dello Stato. E dei tanti carabinieri onesti che rischiano la vita per poco più di mille euro al mese.

Un anno e mezzo dopo, nel luglio 2010, quando scatta la storica retata con trecento arresti tra Milano e la Calabria, anche i presunti mafiosi brianzoli finiscono in manette, incastrati da altre microspie. Ma la talpa in divisa resta tuttora senza nome. Insieme a troppi altri uomini dello Stato passati al servizio dell'Antistato. Al Sud come nell'insospettato Nord.

"L'Espresso" ha raccontato come l'emissario della cosiddetta P3 si è presentato dal procuratore aggiunto di Milano, Nicola Cerrato, cercando di carpire informazioni sull'inchiesta contro la 'ndrangheta: Pasqualino Lombardi voleva sapere se fossero indagati cinque politici del Pdl lombardo e domandò (invano) di incontrare il pm Ilda Boccassini. L'emissario disse che lo mandava il governatore Roberto Formigoni, con cui aveva rapporti diretti. Dei cinque, il più vicino ai boss era l'allora assessore regionale Massimo Ponzoni (l'unico indagato, ma per altre corruzioni), però anche gli altri quattro erano citati nelle intercettazioni antimafia. Come faceva Lombardi a sapere così esattamente quali politici comparivano in atti giudiziari ancora top secret?

Giudici come Giovanni Falcone hanno insegnato che la criminalità esiste in tutti i Paesi ed è contro lo Stato, ma in Italia la mafia è dentro lo Stato. Ora l'emergenza riguarda la 'ndrangheta, che è diventata l'organizzazione più ricca e potente. Esaminando solo le indagini più recenti sulle cosche in Lombardia, "l'Espresso" ha contato almeno 18 talpe: pubblici ufficiali che hanno svelato i segreti delle inchieste, ma sono rimasti in gran parte "non identificati", come denunciano i giudici sottolineando la "gravità", "pericolosità" ed "evidenza" dei loro tradimenti. Tra i tanti, c'è perfino un "militare in servizio alla Direzione distrettuale antimafia di Milano", ossia negli uffici della procura. Una talpa mai smascherata, ma attiva almeno fino al 2009, visto che a fine anno un mafioso del clan di Milano-Pioltello allertava i complici dicendo di aver "visto insieme a quello della Dda tutte le carte con i nostri nomi" e "le microspie in macchina".

La certezza che la 'ndrangheta è riuscita a infiltrarsi perfino nella loro inchiesta, i pm milanesi la ricavano quando sentono gli stessi affiliati parlare di una seconda talpa, che a differenza della prima ha un nome: "Michele, il carabiniere di Rho che ci passava informazioni sulle intercettazioni in cambio della mancia". A Rho, il comune dell'Expo 2015, l'inchiesta travolge quattro carabinieri accusati di corruzione. L'appuntato Michele, al secolo Berlingieri, viene arrestato addirittura per concorso esterno in associazione mafiosa. A incastrarlo è il video di un omicidio. Il 25 gennaio 2010 il figlio di un boss calabrese ammazza a colpi di pistola un giovane albanese in un bar. L'appuntato Michele, ignaro che i colleghi di Monza lo stanno filmando, entra nel locale, raccoglie i bossoli e li risistema per truccare la scena del delitto. Quando il killer passa la pistola a un complice, lo lascia uscire indisturbato. Poi stringe la mano al padre dell'assassino. Commento dei mafiosi: "Michele lo sbirro si è comportato benissimo".

Dalle stesse indagini saltano fuori storie di blitz antidroga organizzati tra Milano e Varese per togliere di mezzo gli spacciatori concorrenti della 'ndrangheta. Ignoti funzionari dell'Anas che, quando la procura deve farsi autorizzare una videoripresa sulla statale, avvisano in diretta un boss, che annulla un summit con decine di mafiosi. Cittadini derubati di auto o furgoni che, seguendo il loro Gps, guidano una pattuglia da uno sfasciacarrozze, che non viene controllato, ma salvato. E quando i carabinieri onesti arrestano tutti, si scopre che proprio lì c'era "un arsenale di armi da guerra della 'ndrangheta".

Nelle ordinanze del 2011 spunta perfino "suor talpa". Paolo Martino, boss reggino con ricchi interessi e molti amici tra politica e discoteche a Milano (il più famoso è Lele Mora), prima dell'arresto si ritrova una microspia in macchina. Al che si rivolge alla sorella, che è religiosa delle Paoline nonché vicedirettore sanitario dell'ospedale cattolico di Albano Laziale. "Informati dalla tua consorella", le dice furbescamente. Tre settimane dopo, la suora gli spiattella che c'è un pentito: "Ho sentito quella persona lì, mi ha detto di stare attenta... quel personaggio sta a cantà". Un aiuto alla mafia arriva pure dalle polizie municipali tanto amate dalla Lega: a Lurago d'Erba il comandante locale controlla le targhe delle auto dell'antimafia e avverte i boss (si spera ignorandone lo spessore criminale) riuniti nel loro maneggio.

Intanto il direttore sanitario del carcere di Monza chiede voti e favori a un mafioso appena scarcerato (e poi ammazzato). Mentre un maresciallo "non identificato" avverte un padrino di Pioltello, in teoria ai domiciliari, di "non girare sulla sua Bmw", dove in effetti i carabinieri hanno piazzato una cimice. E non manca "un sottufficiale in servizio alla procura di Monza" che non denuncia due ricettatori, pur sentendosi dire che "nascondono armi" poi finite alla 'ndrangheta.

Nei rapporti con le talpe, i mafiosi sembrano seguire un codice. Ogni boss protegge l'identità dei propri informatori: un tesoro da nascondere anche ai complici. Proprio le indagini di Milano e Reggio dimostrano però che la 'ndrangheta è un'organizzazione "unitaria e verticistica". Per cui la singola talpa rischia di favorire tutte la 'ndrine. E di manipolare anche le indagini più serie, come ha denunciato il procuratore Giuseppe Pignatone alla commissione Antimafia: il boss informato in anticipo ha il potere di decidere quali amici salvare e quali nemici far arrestare. Ora la scoperta di una rete di talpe così ramificata perfino a Milano rafforza i sospetti che la 'ndrangheta continui a beneficiare di un livello ancora segreto di complicità clamorose e inconfessabili.

"La vicenda più inquietante", secondo i giudici antimafia, almeno per ora è l'arresto di Giovanni Zumbo, ex custode giudiziario di immobili e società sequestrate alla mafia calabrese, nonché collaboratore del Sismi dal 2004 al 2006, quando il servizio segreto militare era in mano al generale Nicolò Pollari e al suo uomo forte Marco Mancini. Nel marzo 2010 l'allora insospettabile Zumbo, accompagnato da un mafioso, Giovanni Ficara, viene intercettato mentre racconta a un superlatitante, Giuseppe Pelle, tutti i particolari della maxi-inchiesta ancora top secret di Milano e Reggio. Non lo fa "per soldi", ma perché, come spiega lui stesso ai boss, "ho fatto parte e faccio tuttora parte di un sistema molto vasto", formato da uomini dello Stato che in realtà sono "i peggiori criminali": "Hanno fatto cose che solo a sentirle, a me viene freddo".

Dopo l'arresto per mafia, Zumbo è stato rinviato a giudizio, con il boss Ficara e due complici, anche per le armi e l'esplosivo fatti ritrovare a Reggio nel gennaio 2010, nel giorno della visita del presidente della Repubblica. Un depistaggio spettacolare, inscenato per accreditarsi come confidente con i magistrati della nuova guardia. E rubare altre soffiate. Ordinandone la cattura, i giudici avvertono che Zumbo si era messo a disposizione dei mafiosi "perché incaricato da qualcuno, interessato a entrare in rapporto con i boss a costo di vanificare le più importanti indagini dei carabinieri contro la 'ndrangheta".

Qualcuno "alla cui volontà non poteva sottrarsi".

Il procuratore Pignatone lo ha definito "il puparo". Il suo nome resta un mistero: le indagini documentano solo che i due boss dei clan Pelle e Ficara-Latella "convocarono" la loro talpa, dopo aver avuto una prima soffiata da un agente segreto, ex militare, in contatto con altri tre 007, con un passato nel Ros. Dopo un anno di carcere duro, Zumbo ha parlato una sola volta con i magistrati, ripetendo lo sfogo che aveva confidato a un ufficiale dei carabinieri fin dal giorno dell'arresto: "I servizi mi avevano lasciato in pace per un po', ma all'inizio del 2010 sono tornati a inquietarmi per collaborare. Se mi pento io, succede un terremoto". "Dal boss Pelle, io sono stato mandato", aveva aggiunto Zumbo, che si rifiuta però di fare il nome del suo "puparo" in divisa. Tra Milano e Reggio non si escludono sorprese esplosive sui complici eccellenti della 'ndrangheta.

Il coraggio di dire la verità. Mafia ed Antimafia: un tutt’uno. L'Inchiesta che segue e che culmina con la resa dello Stato e lì a dimostrarlo. Il 4 novembre 1993 il 41 bis non fu rinnovato per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone. A rivelarlo, dinanzi alla commissione Antimafia, l’11 novembre 2010, è stato l'ex Ministro di Grazia e Giustizia Giovanni Conso, il quale rivestì la carica tra il 1993 e il 1994 nei governi di sinistra Amato e Ciampi. Conso ha spiegato di avere preso quella decisione «per fermare la minaccia di nuove stragi».

Certo è che sul tema tutti hanno perso la memoria. Una mano la offre Gaetano Gifuni, potentissimo segretario generale della Presidenza della Repubblica, sia con Oscar Luigi Scalfaro che con Carlo Azelio Ciampi. Un uomo che ha seguito e accompagnato, favorito e assecondato le vicende italiane, ricoprendo un ruolo chiave (è stato anche capace d'interrompere la carriera d'alto funzionario del Senato per andare a fare il ministro, per poi riprenderla e continuare a crescere). Nel mese di gennaio 2011 Gifuni è stato sentito, quale persona informata dei fatti, da magistrati della procura di Palermo. Gifuni dice: Scalfaro volle Alberto Capriotti alla direzione del Dipartimento amministrazione penitenziaria. Lo nominarono, di comune accordo, Giovanni Conso, Ciampi e Scalfaro, ma quest'ultimo era l'unico a conoscerlo. Gifuni non fa che confermare che il governo procedette ad una nomina importantissima, essendo, di fatto, eterodiretto. Capriotti, dodici giorni dopo la nomina, suggerirà al governo di alleggerire il carcere duro per i mafiosi, quale segno distensivo. Dice che fra Scalfaro e Nicolò Amato vi erano solo rapporti istituzionali. Nulla di significativo. In realtà il Presidente della Repubblica detestava l'allora direttore generale del Dap. Lo stesso Gifuni ce ne offre un indizio: Amato andò a chiedergli per quale motivo veniva fatto fuori, e lui poté rispondergli solo che la decisione era già stata presa. Com'è facile immaginare, non c'è nulla di normale, in ciò. Ad un certo punto, però, la memoria di Gifuni diventa un monumento al problema, che c'incaponiamo a segnalare: no, dice, nell'immediatezza degli attentati del 1993 non s'è mai parlato del 41 bis, ovvero del carcere duro, come possibile causa, non ne fecero cenno alcuno né Scalfaro né Ciampi. Peccato, però, che l'allora ministro degli Interni, Nicola Mancino, poi vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, abbia dichiarato il contrario: capii subito che le bombe erano mafiose e che dovevano mettersi in relazione con il regime carcerario. Peccato, inoltre, che lo capì il ministro della Giustizia, Conso, il quale, su suggerimento di Capriotti, voluto da Scalfaro, revocò il carcere duro per placare la mafia bombarola. Mancino e Conso erano ministri di Ciampi, e Ciampi, come correttamente Gifuni ricorda, lavorava a stretto contatto con Scalfaro. Com'è possibile che i primi due ricordino e i secondi abbiano un incolmabile vuoto? Eppure il 10 novembre del 1993 l'allora presidente della commissione bicamerale antimafia, il per nulla sprovveduto Luciano Violante, chiede lumi sulla gestione dei detenuti sottoposti a 41 bis. Domanda preveggente o gesto cautelante? Sta di fatto che pure lui, dopo, perde la memoria. Fortuna che provvide Conso, giurista anziano e servitore dritto, il quale, diciassette anni dopo, gettò fosforo nelle menti altrui: fu il governo Ciampi, nel 1993, a togliere i mafiosi dal carcere duro. Vero. Ancora uno sforzo, che la memoria comincia a tornare.

Intervistato ai microfoni del TG Rai Sicilia del 12 dicembre 2010, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari non ha dubbi sull’assassinio del magistrato Borsellino e sulla strage di via d’Amelio del 1992: «L’accordo ci fu e le nostre indagini, seppure dopo tanti anni, hanno potuto accertare inconfutabilmente che Paolo Borsellino fu informato dell’esistenza di una trattativa tra Stato e mafia sin dal 28 giugno. Borsellino – e per Lari è rigoroso il condizionale -  potrebbe essere stato ucciso perchè intendeva contrastare quell’accordo. Ma un’altra ragione può essere ravvisata nell’ipotesi che Totò Riina autonomamente abbia deciso di accelerare una strage già programmata, in quanto la trattativa non stava andando in porto. In ogni caso, la trattativa, in un senso o nell’altro, ha avuto un ruolo nell’anticipazione della decisione di uccidere Paolo Borsellino. A informare il giudice Borsellino il 28 giugno 1992 era stata Liliana Ferraro, all’epoca capo di gabinetto del ministro Claudio Martelli e collaboratrice di Giovanni Falcone alla direzione Affari penali del Ministero della Giustizia. La dottoressa Ferraro, peraltro, ha confermato il colloquio con Borsellino durante il processo al generale Mario Mori. L’indagine in corso - ribadisce il procuratore Lari - mina alle fondamenta anni di altre indagini, arrivate anche a condanne definitive».

Tutto quanto detto è niente se poi i nuovi movimenti politici, nati per rinnovare, non sono altro che strumenti di restaurazione. Esemplare è il fenomeno della Lega Nord, assunta a fustigatrice di sprechi ed illegalità, con l’intento di tagliare fuori il sud canceroso e cancrenoso dell’Italia, per paura d’infettarsi.

«Quello che ho detto è documentato. L’incontro tra il consigliere regionale leghista e gli uomini delle cosche è negli atti dei pm Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone. E ricordo al ministro Maroni della Lega Nord che l’unico direttore di una Asl arrestato per `ndrangheta è quello di Pavia, dove comune, provincia e regione sono amministrati anche dal suo partito: stiamo parlando di una Asl che gestisce strutture di eccellenza e fa girare 700 milioni di euro l’anno. E ricordo che l’ultimo sindaco arrestato in un procedimento per collusioni con le cosche calabresi è quello di Borgarello: un paese alle porte di Pavia non una cittadina della Locride». Lo afferma Roberto Saviano in un colloquio che sarà pubblicato su L’Espresso, riferendosi a quanto affermato durante la trasmissione `Vieni via con me´ su Rai Tre il 15 novembre 2010. «La mia frase era chiara, chiunque può riascoltarla: “La ´ndrangheta al Nord, come al Sud, cerca il potere della politica e al Nord interloquisce con la Lega”. Non si tratta di illazioni, ma di elementi concreti che emergono dalle indagini e che devono essere sottoposti all’attenzione dell’opinione pubblica: in Lombardia la Lega è forza di governo e oggi gli uomini delle cosche calabresi, attivi nella regione da decenni, puntano a investire i loro capitali nei cantieri dell’Expo 2015. È un’analisi della Superprocura antimafia, lungamente discussa nella commissione parlamentare proprio perché, per entrare negli appalti, loro hanno bisogno della politica e soprattutto della politica che controlla la spesa sul territorio. Per questo tutta la criminalità organizzata guarda con favore a una riforma federalista del Paese: vogliono centri di costo alla loro portata». La `ndrangheta al Nord? «Certo - dice Saviano - cerca di interloquire con la Lega, ma le inchieste mostrano come in tutte le Regioni si stia manifestando un fenomeno molto più inquietante, quello sì che dovrebbe indignare il ministro dell’Interno: le mafie scommettono sul federalismo». Alle mafie, spiega ancora Saviano nel colloquio con L’Espresso, «piace un certa idea di federalismo quella che potrebbe consegnargli gran parte del Sud. In passato Cosa nostra l’ha cavalcata per contrastare la prospettiva di un potere centrale troppo forte: meglio la secessione dell’isola che dovere fare i conti con uno Stato deciso a cancellare la mafia. E la stessa istanza è stata riproposta dall’ala dura dei corleonesi negli anni delle stragi, quando di fronte al crollo della prima Repubblica Gianfranco Miglio, il `padre nobile´ della Lega, benediceva la nascita al Sud di tanti partitini autonomisti intrisi di massoneria e amici degli amici: sono fatti acclarati, non illazioni». «Oggi la prospettiva è semplice - aggiunge - la mentalità delle mafie è essenzialmente predatoria, puntano a divorare le risorse ed è molto più facile farlo nelle capitali regionali che non a Roma: possono fare pesare il loro controllo del territorio, la loro violenza, i loro voti e i loro soldi. Per questo con il livello di infiltrazione che c’è nelle regioni del meridione, il federalismo potrebbe finire con l’essere un regalo e far diventare Campania, Calabria e Sicilia davvero `cose nostre´, un nome che non è stato scelto a caso. Perchè oggi la forza delle mafie non è più nella capacità di usare la violenza, ma nella disponibilità quasi illimitata di capitali, affidati a facce pulite e capaci di condizionare la politica soprattutto a livello locale». «Io non mi arrendo - prosegue Saviano - Il risultato di pubblico di `Vieni via con me´ mi ha stupito e convinto di quanto sia importante continuare su questa strada. La gente vuole sapere, è avida di informazione, domanda verità, ma non trova risposte dalla televisione e si abbandona nella sfiducia che è l’elemento di cui si compone la palude in cui il Paese rischia di affondare: fango, solo fango, niente altro che fango».

Le inchieste sulla mafia a Milano a partire dagli Anni '90 non sono mancate (“La mafia all'ombra del Duomo”, “Duomo Connection”). Ed è su sentieri di ragnatele infide, impastate di business e sangue, condizionamenti e infiltrazioni nella pubblica amministrazione, che avviluppano politica (eloquenti i capitoli dedicati alle responsabilità degli imprenditori del Nord che hanno aiutato i mafiosi), criminalità organizzata, economia e società che getta lo scandaglio, il nuovo e denso lavoro di Enzo Ciconte ('Ndrangheta Padana”, edito da Rubbettino). L'intento è dimostrare, carte giudiziarie alla mano (anzitutto la maxi-inchiesta delle Dda di Reggio e Milano di luglio 2010 con centinaia di arresti, operazione “Crimine”) che la Lombardia è infestata dalla mafia, dai suoi traffici e dai suoi soldi. Oggi Nord e Sud sono uniti da fenomeni predatori e dall'evanescenza di ogni etica pubblica. Scendere a patti con la 'ndrangheta e farla sedere al suo stesso tavolo come ha fatto il Nord, non è meno immorale delle coperture che essa ha avuto al Sud. Discutere di questione settentrionale o meridionale appare, in queste condizioni, un diversivo per non affrontare il cancro che uccide la democrazia italiana. In duecento pagine, Ciconte documenta attraverso quali canali gli 'ndranghetisti si sono infiltrati al Nord, «diventando interlocutori di primo piano di imprenditori e uomini politici». Sulla scorta di quanto - specie negli ultimi anni - asseriscono diversi magistrati calabresi e lombardi, e utilizzando i dati della più vasta operazione (luglio 2010) mai condotta nei confronti delle mafie, e della 'ndrangheta in particolare, nella storia del Paese (ivi incluso un filmato, cliccatissimo su Youtube, che viola i segreti e le ritualità delle riunioni di 'ndrangheta nella terra di Alberto da Giussano), il docente di Storia della criminalità organizzata all'Università di Roma Tre, ribadisce l'idea che la 'ndrangheta ha due capitali: Milano e Reggio Calabria. Una verità su cui la politica ha preferito, salvo lodevoli eccezioni, chiudere gli occhi. Al punto che, nonostante Bossi e l'orgoglio celtico, che a parole sembrano quanto di più distante dai riti criminali, la stessa Lega con il predominio mafioso ha convissuto. E non tanto perché ha accolto il consiglio dato a Palermo nel 2001 dal ministro Pietro Lunardi che auspicava una convivenza con la mafia, ma perché l'ideologo della Lega, Gianfranco Miglio, teorizzava, “la costituzionalizzazione” della mafia. Fanno riflettere alcune affermazioni di Ciconte: «Negli ultimi quindici anni la 'ndrangheta ha conteso alla Lega il controllo del territorio padano. Non è vero che al Nord c'è solo la Lega che controlla il territorio, c'è anche la 'ndrangheta che, esattamente nelle stesse località dove c'è un forte insediamento della Lega, gestisce potere, agisce economicamente, fa investimenti, interviene in vari campi anche sociali, ha una presenza in politica». In sostanza, spiega lo storico delle mafie «l'egemonia politico e territoriale della Lega non ha comportato la scomparsa della 'ndrangheta». E c'è di peggio: «A voler essere precisi, s'è realizzata una coabitazione tra Lega e 'ndrangheta esattamente negli stessi territori. Una presa di coscienza si avverte. La mafia nel Nord c'è. Ci si guarda bene, come s'è fatto per decenni, di dire che è un corpo estraneo, un'abitudine dei terroni. Il consiglio regionale della Lombardia ha tenuto una seduta straordinaria sull'inquinamento mafioso e due commissioni, quella lombarda che sta redigendo un unico testo di legge per garantire la trasparenza negli appalti e quella antimafia della Calabria, iniziano a dialogare. Franco Abruzzo, ex presidente dell'Ordine dei giornalisti lombardo e calabrese critico per come vanno le cose nel Mezzogiorno, asserisce che Milano «ha deciso nel bene e nel male, dal '700 ad oggi, tutte le svolte nazionali, dall'Illuminismo al Risorgimento, la grande guerra, il fascismo, la resistenza, il centrosinistra, tangentopoli, la Lega Nord e Forza Italia». In questo senso, ci si attenderebbe che arrivasse proprio dall'ex capitale morale un forte impulso culturale e politico per ridurre agli stremi “la politica barbarica”, le mafie e la corruzione. Ma oggi, come spiega “'Ndrangheta Padana”, la 'ndrangheta e le mafie subiscono nel Sud un arretramento, mentre gli agglomerati mafiosi diventano floridi e influenti nel Nord.

Ma ancora più interessante è quanto scrive Gianni Barbacetto sul Fatto Quotidiano del 16 settembre 2010. Quello che segue è un riassunto delle parti più importanti degli articoli. Leggere per credere. Nei primi anni Novanta la Lega Nord ha predicato la divisione dell’Italia in tre “cantoni” (Nord, Centro, Sud). Proprio allora, un complesso meccanismo si è messo in moto per raggiungere quell’obiettivo. Lo racconta una vecchia indagine della Procura di Palermo chiamata “Sistemi criminali“. Mentre si disfaceva il sistema dei partiti della Prima Repubblica, che le indagini di Mani Pulite avevano rivelato essere il sistema di Tangentopoli, una serie disparata di forze e di poteri si erano messi all’opera per rimpiazzare il vecchio regime. Massoni, reduci della P2, uomini dei servizi segreti, fascisti ed eversori di lungo corso, boss di Cosa Nostra e della ’ndrangheta avevano cercato di far nascere le leghe del Sud. Contrapposte ma complici della Lega nord. Della composita compagnia facevano parte il Maestro Venerabile Licio Gelli e tanti altri massoni delle logge meridionali, l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino e gli uomini di Cosa Nostra che riferivano a Leoluca Bagarella, i fascisti Stefano Delle Chiaie, Adriano Tilgher, Giancarlo Rognoni. Il collaboratore di giustizia Leonardo Messina nel 1993 racconta ai pm di Palermo che con i suoi colleghi di Cosa Nostra gli era capitato di parlare di Bossi, che nell’autunno del 1991 era stato a Catania. “Io lo consideravo un nemico della Sicilia”, diceva Messina. “Perché un’altra volta che viene qua non lo ammazziamo?”. Gli altri lo fermano: “Ma che sei pazzo? Bossi è giusto”. E poi gli spiegano di aver saputo da Totò Riina che non tanto Bossi, quanto il senatore Miglio, era collegato a “una parte della Democrazia cristiana e della massoneria che faceva capo all’onorevole Andreotte a Licio Gelli (capo della P2, n.d.r.)”. E che era in corso un lavoro, a cui erano impegnati “Gelli, Andreotti e non meglio precisate forze imprenditoriali del Nord interessate alla separazione dell’Italia in più Stati“, con “anche l’appoggio di potenze straniere”. “Dopo la Lega del Nord sarebbe nata una Lega del Sud, in maniera tale da non apparire espressione di Cosa Nostra, ma in effetti al servizio di Cosa Nostra; e in questo modo noi saremmo divenuti Stato”. Scrivono i magistrati: “Uno dei protagonisti dell’operazione sarebbe stato Gianfranco Miglio”. Farneticazioni? I pm Antonio Ingroia e Roberto Scarpinato trovano qualche riscontro. Interrogano un ambiguo faccendiere, arrestato nel 1996 dalla Procura di Aosta per truffa internazionale: Gianmario Ferramonti, personaggio-chiave nella genesi del movimento leghista, amministratore della Pontidafin, la finanziaria del Carroccio, strettamente legato al professor Miglio; ma anche al centro di una fitta rete di relazioni con personaggi di spicco della massoneria italiana e internazionale e con insospettabili entrature istituzionali in ambienti dei servizi di sicurezza nazionali e stranieri. In seguito, è lo stesso Gianfranco Miglio, ideologo della Lega Nord, a confermare almeno parte delle “farneticazioni” di Leonardo Messina. In una clamorosa intervista al Giornale, nel 1999 conferma di essere stato davvero in contatto con Andreotti, proprio nel 1992: per svolgere una trattativa segreta che negoziasse l’appoggio della Lega alla candidatura del Divo Giulio alla presidenza della Repubblica, in cambio di una politica favorevole al progetto federalista del Carroccio (e a un posto di senatore a vita per Miglio). “Con Andreotti ci trovammo a trattare di nascosto a Villa Madama, sulle pendici di Monte Mario, davanti a un camino spento”, confessa Miglio. Trattativa abortita per l’opposizione dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che nonostante le insistenze di Andreotti nega al professore la nomina a senatore a vita. Nella stessa intervista, Miglio parla anche di mafia: “Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ’ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate”. Ecco il progetto di Miglio: “Costituzionalizzare” la mafia, affidandole in gestione il Sud.

"Metastasi. Sangue, soldi e politica tra Nord e Sud. La nuova 'ndrangheta nella confessione di un pentito". Il libro Di Gianluigi Nuzzi e Claudio Antonelli.

“Quando un pentito racconta dei maneggi che stanno dentro il parlamento, dietro le regioni, nei comuni grandi e piccoli, deve prepararsi a essere attaccato e screditato. ti fanno passare da infame due volte. Io ho deciso: parlo.” Dalla testimonianza del collaboratore di giustizia Giuseppe Di Bella. La Pianura padana come l’Aspromonte. Ormai le ’ndrine controllano il Nord e fanno affari con chiunque. Il nuovo libro dell’autore di "VATICANO SPA" offre una prospettiva inedita per capire un fenomeno ormai “vecchio”. Di trent’anni. Solo che tutti hanno fatto finta di niente. Un esercito di 1500 persone che controlla dagli anni Settanta non solo il traffico di armi e di cocaina, ma anche un’importante quota della liquidità lombarda; sì. quella dei salotti buoni, dei politici, dei cavalieri del lavoro, delle camere di commercio, delle amministrazioni locali. Trent’anni di mazzette (e se necessario di omicidi) per ottenere licenze edilizie e controllare una buona parte degli immobili commerciali del Nord Italia (Varese, Lecco, Milano, Como), avendo un dominio ferreo del territorio anche grazie alla continua e capillare attività di estorsione. Adesso la testimonianza di un pentito qui raccolta permette di capire perché tutto ciò è stato possibile e di avere a disposizione verità e retroscena a volte incredibili. Il boss che si intrattiene con il futuro Ministro della Giustizia, il traffico d’armi con le Br, il commercio di uranio, l’incontro con Andreotti, il patto tra ’ndrangheta e cinesi, il caso di un industriale delle armi rapito, poi liberato, ed eletto in Parlamento per fare gli interessi della ’ndrangheta. Persino il caso di un famoso stilista ammazzato, ma che forse ammazzato non è. Anche qui c’entra la ’ndrangheta, gli amici di Coco Trovato trovano la soluzione per ogni problema. Soprattutto per riciclare denaro sporco e fagocitare le attività produttive più redditizie. Tutto fatto secondo rituali e regole che arrivano da lontano e che si appoggiano su codici famigliari e amicali che vanno rispettati. Sempre. Se no la punizione arriva, puntuale, anche a distanza di anni. E fa paura: la paura del nostro testimone che qui fa tutti i nomi e i cognomi delle storie che racconta, la paura di chi ha sfidato un codice d’onore e adesso è solo.

Un libro-confessione, “Metastasi”, un pentito di mafia che sceglie di rendere pubblico quello che sa, perché l’ha promesso alla moglie morente nel 2009. Nasce un atto d’accusa, a firma dei giornalisti Gianluigi Nuzzi e Claudio Antonelli. E subito il libro è stato acquisito dalla procura della Capitale, perché contiene «molte importanti notizie», sulle quali il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, capo della Distrettuale antimafia, ha deciso di avviare le indagini. A scegliere di parlare è Giuseppe Di Bella, per 25 anni uomo di fiducia di Franco Coco Trovato, feroce narcotrafficante e boss di primo piano della ’ndrangheta del Nord Italia, che ha sempre agito tra il milanese e il lecchese e che dal 1992 è in carcere per scontare l’ergastolo.

Il collaboratore di giustizia, considerato attendibile, descrive di come la ’ndrangheta avesse allungato sempre di più le mani sugli affari del Nord. Parla di un ex ministro della Lega che nel libro è chiamato “Gamma”, e di due noti imprenditori della zona, “Alfa” e “Beta”, che avrebbero facilitato la scalata del boss calabrese in Padania, condividendo con lui affari e interessi. Ci sono dentro quattro delitti irrisolti, i presunti rapporti tra Giulio Andreotti e Brusca, la morte di Gianni Versace e i presunti contatti tra i capi clan e il fratello Santo. Del politico della Lega viene detto praticamente tutto, e cioè che è un ormai storico e affermato esponente del Carroccio, ma che nel 1990, quando era ancora un leader emergente, rincorreva i voti del narcotraffico. Il boss lo avrebbe incontrato un pomeriggio di vent’anni fa a Lecco, proprio alla vigilia del grande boom del partito del Senatùr. Da quel giorno Trovato disse ai suoi: «Votate Lega e fate buon pubblicità», dando il via al sodalizio. In casa Lega l’allarme è già scattato. Umberto Bossi e i suoi fedelissimi hanno approntato un crisis management per evitare che il caso si abbatta come un ciclone sul partito. Le nuove dichiarazioni di Di Bella, che già nel 2002 dopo 29 verbali ha contribuito a fare arrestare centinaia di persone, sono sulla scrivania del procuratore aggiunto Capaldo, mentre sia il Carroccio sia i Versace hanno smentito qualsiasi ipotesi di connivenze e collusioni. “Metastasi” recupera le origini, dagli acquisti di armi dai partigiani ai rapporti con le Br, offre chiavi di interpretazione inedite. Come quella della morte di Gianni Versace. È stato davvero Cunanan ad ammazzare lo stilista a Miami o forse è stata un’esecuzione, come sostiene il Buscetta della ’ndrangheta, Filippo Barreca? E sempre Di Bella svela di aver ricevuto l’incarico di recuperare le ceneri dello stilista in un giallo ancora da risolvere.

Sui legami tra criminalità organizzata e Carroccio spuntava un autorevole esponente del Carroccio. Sul Giornale lo dicono chiaro e tondo e accolgono la sua replica. Chi è l’esponente autorevole della Lega Nord che negli anni Novanta in quel di Lecco chiedeva i voti alla ‘ndrangheta secondo le parole di un pentito? "Il Fatto" lo adombrava, "Il Giornale toglie ogni dubbio: trattasi di Roberto Castelli.

Ecco quanto detto dal pentito Giuseppe Di Bella: «E il 1990 è l’anno in cui la Lega registra il suo primo boom in Lombardia: 1 milione 183 mila voti, il 18,9% delle preferenze. Un anno chiave, dunque». Immediata la reazione di Roberto Castelli: “Di Bella è uno dei tanti mistificatori che purtroppo abbondano nel mondo dei pentiti”. Il senatore del Carroccio ha deciso di intervenire in difesa del suo partito. “Leggo su alcuni quotidiani – ha scritto sul suo profilo facebook e immediatamente ripreso dalle agenzie di stampa – che sarebbe saltato fuori il solito pentito che parla di un esponente leghista che avrebbe fatto accordi con il clan Coco Trovato a Lecco nel 1990. In quegli anni soltanto la Lega combatteva la mafia ”, sostiene Castelli. “È troppo comodo lanciare accuse e insinuazioni a cui non si può ribattere, con l’evidente tentativo di fermare l’avanzata della Lega in Lombardia”, aggiunge. “Invito questo ’signor pentito’ a fare nomi e cognomi. I riscontri diranno se ha detto la verità o se è uno dei tanti mistificatori che purtroppo abbondano nel mondo dei pentiti. Da un lato ci sono le affermazioni di un mafioso, dall’altro la storia della Lega che è sotto gli occhi di tutti”.

Eppure, anche se Castelli - eletto a Lecco, suo feudo fino agli anni scorsi – si arrabbia, quanto racconta il pentito sembra avere una certa credibilità: Una realtà che Di Bella fotografa nel libro con dovizia di particolari. Racconta dell’ascesa al potere di Coco Trovato. Ricostruisce almeno quattro omicidi irrisolti e racconta episodi ormai finiti nel dimenticatoio dei “casi stravaganti”. Come il tentativo di trafugare le ceneri di Gianni Versace la notte di San Silvestro. “La ‘ndrangheta – riporta il Corriere della Sera – ci aveva dato un anticipo di 150 milioni di lire e ci aveva ordinato di rubare l’urna con le ceneri dello stilista”. La parte più rilevante del libro, stando alle anticipazioni, rimane quella dedicata ai rapporti con la politica. Con la Lega, di nuovo tirata in ballo. Con ancora gli echi della polemica scaturita dalle dichiarazioni di Roberto Saviano. Quella frase, “l’organizzazione mafiosa al nord interloquisce con la Lega”, che ha scaturito la reazione scomposta del ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Frase che il libro ripete, entrando nello specifico: città di Lecco, anno 1990, “gamma” grazie ai voti della ‘ndrangheta arriva a importanti incarichi di governo. “E’ assurdo, io ho sempre combattuto le cosche”, risponde però Castelli in un’intervista al Giornale. “I miei unici contatti con le cosche risalgono a quando li ho mandati al 41bis come ministro della Giustizia”, ribadisce. ‘Ho combattuto la ‘ndrangheta per tutta la vita, la Lega combatte la ‘ndrangheta da sempre, dagli anni in cui gli altri, tutti gli altri, dormivano e non si accorgevano del potere crescente dei boss trapiantati al Nord’. Le dichiarazioni del pentito Giuseppe Di Bella contenute nel libro ‘Metastasi’ di Nuzzi e Antonelli su un esponente leghista che avrebbe fatto accordi con il clan Coco Trovato a Lecco nel 1990 non lo toccano. ‘Coco Trovato – afferma l'ex Guardasigilli leghista – era il don Rodrigo di Lecco, un personaggio tutto in ombra’. E poi aggiunge: ‘Si fa riferimento a me? Lo dicano chiaramente’. Il ‘regno’ di Coco Trovato, sottolinea il senatore del Carroccio, ‘fini’ nel ‘92, quando la Lega si impadronì di Lecco e sindaco diventò Pogliani’. Trovato ‘fu sepolto al 41 bis’ e ‘il ministro che ha stabilizzato il 41 bis sono io’. Bah, a chi credere?? Comunque, per molto meno si sono costruiti teoremi giudiziari contro esponenti politici, con conseguente condanna.

CENTRO NORD: DOVE COMANDANO LE MAFIE.

Un’inchiesta di “Panorama”, periodico che certo non può essere tacciato di essere di sinistra come Saviano. Camorra e ‘ndrangheta, soprattutto, si espandono in territori considerati fino a ieri sconosciuti. Di mafia al Nord si è parlato molto e le operazioni di polizia hanno dimostrato che si tratta di una realtà radicata. L’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia ha descritto questa penetrazione. Anche regioni apparentemente poco appetibili per le cosche però sono ormai coinvolte.

Emilia Romagna. Qui la ‘ndrangheta ha “colonie” potenti e si è affiancata alla camorra, Casalesi in testa. Le cosche sono attive nelle province di Bologna, Modena, Reggio Emilia e Parma, dove il clan dei Grande Aracri ha una presenza stabile e dove vivono persone riconducibili alle ‘ndrine dei Barbaro, degli Strangio, dei Nirta e dei Bellocco. Anche nelle altre province della regione, come Ferrara, Forlì, Piacenza, ci sono stati tentativi di espansione da parte della mafia. Scrive la Dia che in una regione che è tra le più ricche d’Italia si moltiplicano “i rischi di inquinamento dell’economia legale”, la mafia ha “parzialmente ma visibilmente” messo da parte i metodi “criminali aggressivi”, per creare “vere e proprie holding imprenditoriali”. Più che un’infiltrazione sarebbe una vera fusione con l’economia regionale, grazie a cui i clan sono costantemente “in grado di aggiudicarsi gli appalti ed acquisire le concessioni”. A Rimini le cosche crotonesi “mantengono il controllo di bische clandestine, estorsioni, usura e traffico di stupefacenti”.

Liguria. Nella regione, spiega ancora la Dia, “è tradizionalmente radicata la presenza di note espansioni di ‘ndrine a Genova, nel ponente ligure e nella riviera di levante”. Traffico di stupefacenti, estorsioni, usura, gioco d’azzardo, controllo dei locali notturni per lo sfruttamento della prostituzione “costituiscono i maggiori settori dell’arricchimento” per le cosche e “non meno importante è la significativa presenza, attraverso capitali di incerta provenienza, nei campi dell’imprenditoria edile e dello smaltimento dei rifiuti”. “In Liguria non amministrano i liguri, amministriamo noi calabresi”, giurava il boss Mimmo Gangemi durante un raduno con altri capi cosca nelle campagne del Reggino. Mentre Armando Spataro, procuratore aggiunto a Milano, ha definito la Liguria “prima porta della ‘ndrangheta al Nord”.

Piemonte. La Dia ha rilevato “una qualificata presenza di soggetti riconducibili alle ‘ndrine del vibonese, della locride, dell’area ionica e tirrenica della provincia di Reggio Calabria”, i clan calabresi “attraverso imprese controllate” fanno affari prevalentemente nel settore degli appalti pubblici dove, spesso, operano attraverso i subappalti. Un altro “settore primario” dei gruppi ‘ndranghetisti presenti in Regione è rappresentato dal traffico di droga. Tra le operazioni portate a termine nel primo semestre del 2010 la Direzione investigativa antimafia ricorda il sequestro di beni a due fratelli residenti a Tortona, figli di un noto esponente della ‘ndrangheta reggina ucciso nell’ambito della faida che negli anni ‘70 contrappose i Facchineri ai Raso-Albanese-Gullace.

Veneto. L’attenzione delle mafie sulla regione ai primi posti della produttività del Paese è inevitabile. La Dia ha registrato “segnali di interesse” della ‘ndrangheta in Veneto verso i settori dell’economia locale e “una significativa incidenza percentuale delle segnalazioni per operazioni finanziarie sospette”, tanto da indurre gli inquirenti a intensificare i controlli.

Lombardia. La regione è al centro dell’interesse di chi si occupa di mafia al Nord e lo scorso luglio l’operazione “Il Crimine”, con 300 arresti tra Calabria e Lombardia, ha definito chiaramente il contesto. Secondo la Dia, la ‘ndrangheta “interagisce con gli ambienti imprenditoriali lombardi” e c’è “il coinvolgimento di alcuni personaggi, rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore che, mantenendo fede ad impegni assunti con talune significative componenti organicamente inserite nelle cosche, hanno agevolato l’assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative”. Per penetrare nel tessuto sociale, le cosche, che in Lombardia godono di una certa autonomia ma dipendono sempre dalla regione d’origine, favorite da “una serie di fattori ambientali”, consolidano la “mafia imprenditrice calabrese” che con “propri e sfuggenti cartelli d’imprese” si infiltra nel “sistema degli appalti pubblici, nel combinato settore del movimento terra e in alcuni segmenti dell’edilizia privata”. La penetrazione nel sistema legale dell’area lombarda, è favorita, dice la Direzione investigativa antimafia, da “nuove e sfuggenti tecniche di infiltrazione, che hanno sostituito le capacità di intimidazione con due nuovi fattori condizionanti: il ricorso al massimo ribasso” nelle gare d’appalto e la “decisiva importanza contrattuale attribuita ai fattori temporali molto ristretti per la conclusione delle opere”. La Dia ha anche chiesto “un razionale programma di prevenzione” che consenta di bloccare le possibili infiltrazioni della ‘ndrangheta “in previsione delle opere previste per l’Expo 2015”. La Direzione auspica che l’azione dello Stato “coinvolga non solo le autorità istituzionalmente deputate alla vigilanza, ma anche tutti i soggetti a vario titolo coinvolti e consenta di individuare per tempo eventuali criticità”. Il cosiddetto “ciclo degli inerti”, la cantieristica e la logistica collegata, la manodopera e le bonifiche ambientali “costituiscono i settori maggiormente esposti al rischio di infiltrazione dell’intero indotto che si muove attorno alle grandi opere, agli appalti pubblici e privati”. Gli esperti del Viminale concludono che “il condizionamento ambientale” della ‘ndrangheta su parte dell’economia lombarda, va inteso come “partecipazione ormai pacificamente accettata di società riconducibili ai cartelli calabresi a determinati segmenti, in espansione, del settore edile, sia pubblico che privato”.

Toscana. La Direzione investigativa antimafia avverte che la regione è diventata “territorio di elezione di alcune qualificate propaggini della ‘ndrangheta” e per quanto riguarda il tessuto socio economico ed imprenditoriale invita a “una realistica presa d’atto sulla rinnovata pericolosità delle presenze di elementi riconducibili alle cosche mafiose calabresi”, sull’aumento delle estorsioni e sugli intrecci societari e investimenti di provenienza criminale. Il procuratore capo di Firenze, Giuseppe Quattrocchi, ha spiegato che “se per infiltrazioni mafiose in Toscana si intende una presa di possesso del territorio, devo dire che non è così. Ma è ovvio che trattandosi di una regione con un tessuto denso di attività imprenditoriali, queste diventano appetibili per la criminalità organizzata. Indaghiamo sul trasferimento in Toscana di procedure, criteri, capitali delle mafie tradizionali di cui, però, questo non è territorio di elezione”.

Lazio. Secondo un rapporto della Confesercenti regionale, nel Lazio più di un commerciante su tre è stato vittima di usura, il centro storico romano, le sue attività imprenditoriali, i locali e i negozi sono il terreno scelto dalla ‘ndrangheta per fare affari, mentre centri commerciali e ipermercati della periferia sono un’esclusiva della camorra. Ma le infiltrazioni mafiose negli appalti e nelle altre attività economiche della regione non sono una novità. Il procuratore capo di Tivoli Luigi De Ficchy ha sottolineato che da più di trent’anni la ‘ndragheta investe nella capitale e che “le infiltrazioni mafiose si possono definire invisibili perché non si palesano con fatti di sangue, ma con investimenti, riciclaggio e usura”.

Molise. L’attenzione, anche mediatica, sulla nuova emergenza rifiuti in Campania ha costretto la camorra a spostare il traffico illecito di rifiuti tossici su un altro fronte, quello molisano. Se ne è occupata di recente anche la giornalista del Mattino, minacciata di morte dalla mafia, Rosaria Capacchione, che scrive: “Si sono trasferiti in Molise gli eco mafiosi collegati al clan dei Casalesi, gli uomini che hanno gestito il trasporto dei rifiuti tossici fino alle discariche, ormai sequestrate e inagibili, di Giugliano, Licola, Parete. Operano soprattutto in provincia di Isernia, non disdegnano quella di Campobasso dove corteggiano due impianti autorizzati dalla Regione: la discarica di Montavano e il depuratore Cosib di Termoli”. Dietro, un business molto redditizio per chi trasporta il percolato e i veleni accumulati in Campania ma non solo e che in buona parte non arrivano neppure agli impianti, ma vengono scaricati per strada, lungo le campagne e i boschi disabitati.

PARLIAMO DI MAFIA.

LA MAFIA è una presenza discreta e silenziosa, che cerca di evitare i clamori della cronaca con lo spargimento di sangue. Ma la mafia c’è ed incombe pericolosamente sulla vita sociale e democratica dell’Italia, anche se di essa, per omertà dei media, non vi è adeguata consapevolezza nei cittadini e nelle istituzioni. C’è “la mafia bianca”, sodalizio massonico delle lobby e delle caste, insinuata nelle istituzioni e nei poteri dello Stato, che si attiva direttamente per influenzare le scelte e la gestione della cosa pubblica. Poi c’è “la mafia nera”, la criminalità organizzata comune che non ha cessato di mettere in discussione l’autorità dello Stato e continua la cura dei suoi tradizionali interessi: dal traffico di stupefacenti e di clandestini, all’usura e al racket delle estorsioni, fino allo sfruttamento della prostituzione e del gioco d'azzardo. Entrambe le mafie, cosa ancora più grave, tentano di mettere le mani sulla gestione degli appalti pubblici finanziati da fondi nazionali od europei, insinuandosi nelle pieghe della vita politica e amministrativa, come dimostrano alcune indagini della magistratura su ipotesi di rapporti illeciti di taluni rappresentanti della pubblica amministrazione e del mondo dell’imprenditoria e della stessa magistratura con esponenti della criminalità organizzata, in vicende dal rilevante profilo economico e finanziate con i soldi dei cittadini.

Arrestare boss, assassini, estorsori, usurai è importante, ma per sconfiggere la mafia bisogna prevenirla, combattere il suo sistema di potere, incidere sulle sue complicità, estirpare le coperture che creano cultura, prassi e contesti mafiosi. L’uomo non è libero, la società è malata se le minacce e le intimidazioni creano nei cittadini paura, angoscia e terrore, alimentano un cancro morale che intorbida le coscienze, condiziona la democrazia e la convivenza civile. Ma l’insicurezza nei cittadini onesti viene talvolta alimentata anche dalla soggezione che impone la burocrazia, dall’arroganza che promana dal potere politico, amministrativo e giudiziario, dall’umiliazione che spesso gli eletti nelle istituzioni pubbliche impongono ai cittadini solo per ascoltare le loro esigenze, richieste o proposte. Consiglieri comunali, provinciali, regionali, assessori e parlamentari, sindaci e presidenti di ogni ordine e grado diventano spesso “irraggiungibili” una volta eletti, anche dai loro stessi più prossimi elettori. Segretari, addetti stampa, attendenti e portaborse creano filtri e contro-filtri, una cortina fumogena impenetrabile, tanto che per poterla squarciare bisogna farsi raccomandare. E la pratica della raccomandazione è il primo viatico alla cultura della mafiosità.

Prassi agevolata dall’inerzia e dall’indifferenza, se non addirittura dalla collusione della magistratura, spesso sorda alle richieste di intervento dei cittadini onesti e coraggiosi.

Il rapporto tra i cittadini e tra i cittadini e lo Stato è regolata dalla legge. Dove non vi è cogenza di legge, ossia rispetto e applicazione della stessa, vi è anarchia. In questa caso vige la legge del più forte e non la forza della legge. Il sistema di potere esecutivo e giudiziario hanno le loro responsabilità e debbono fare un esame di coscienza.

Insomma: le Istituzioni il rispetto lo devono meritare non pretendere. Dove le istituzioni colludono, i cittadini emulano.

“La mafia nera”, che in Puglia prende le sembianze mediatiche della Sacra corona unita, come Cosa nostra in Sicilia, la ‘Ndrangeta in Calabria, “i Basilichi” in Basilicata e la Camorra in Campania, è innominata nelle regioni del nord Italia, dove è ben radicata e in commistione con quella dell’est Europa. Essa è ancora viva ed opera efficacemente anche quando non uccide. In realtà essa si articola in una miriade di consorterie malavitose in continuo rimescolamento conflittuale e alla ricerca della supremazia territoriale. Una presenza flessibile e tendenzialmente discreta, che evita il clamore degli episodi delittuosi estremi proprio per potersi mimetizzare e infiltrare nelle istituzioni. Esercita soprusi e prepotenze nei confronti di comuni cittadini, imprenditori, commercianti, ma anche giudici, politici, pubblici amministratori, giornalisti. Uno stillicidio quotidiano di notizie ne segnala continuamente la presenza preoccupante, ma troppo spesso vengono evitate, ignorate, dimenticate in fretta, forse per esorcizzare la paura di scoprire di vivere in una regione che rischia di essere dominata dalla mafia.

Ma vivere con gli occhi bendati, le orecchie tappate e le mani sulla bocca, come le tre famose scimmiette, non serve a nulla. La realtà è un’altra: è quella della paura e delle intimidazioni quotidiane subite da chi non vuole sottostare alle regole della mafia. Una sequenza impressionante di piccoli e grandi episodi che fanno correre il contachilometri della criminalità.

Gli amministratori pubblici non ne sono esenti. Nel campionario c’è di tutto: la testa di cavallo mozzata lasciata davanti all’abitazione, l’auto incendiata, la bomba esplosa all’esterno del Municipio, i colpi di pistola contro le finestre, la lettera minatoria con le cartucce di un fucile.

L'Italia sta scoprendo un nuovo modo di fare politica. Non attraverso le elezioni, ma con le intimidazioni. Difficile dare una lettura omogenea delle vicende, perché ogni Comune ha una storia a sé. Insomma, non è detto che tutti gli amministratori colpiti finiscano per pagare così l’impegno contro l’illegalità o la crociata per un’amministrazione trasparente.

Secondo gli investigatori, si può finire nel mirino anche per non aver rispettato - ad esempio - patti precedentemente stabiliti. Oppure perché singoli cittadini decidono di vendicarsi ricorrendo ai metodi tipici della criminalità organizzata, adottandone le modalità, pur essendo esterni ai clan. Tre chiavi di lettura diverse, che rendono ancora più difficile l’attività di chi cerca di dare nomi e cognomi ai mandanti. Ma gli esperti non tralasciano le piste investigative più inquietanti. Bombe, proiettili e minacce porterebbero o all’infiltrazione diretta nelle amministrazioni comunali o alla ricerca delle dimissioni di un amministratore per sostituirlo con un altro di fiducia della Piovra spa. D’altra parte, la criminalità di casa nostra ha sempre mostrato una spiccata flessibilità operativa. E l’atto intimidatorio non è altro che una prova di forza, una esibizione di muscoli da parte di chi è convinto di controllare il territorio. Un particolare non sfuggito, di recente, alla Direzione nazionale antimafia. In una relazione si sottolineavano, tra l’altro, alcune peculiarità. Come l’intervento di boss e picciotti nell’intercettare i flussi finanziari destinati alla realizzazione di grandi opere (contratti d’area, distretti tecnologici, energie alternative, smaltimento rifiuti), o attraverso la strategia del «doppio binario», adottata per infiltrarsi nei subappalti (movimento terra) e facendo pressioni (estorsioni) nei confronti di imprese affidatarie di lavori ad alto profilo tecnologico. Vanno di moda, anche, l’affidamento di servizi ai clan, la costituzione di società per la gestione di piccoli affari, le ingerenze e il controllo di attività come l’affissione dei manifesti elettorali, gli accordi di natura elettorale (richieste di voti in cambio di assunzioni).

Esemplare è il caso di Santi Cosma e Damiano (LT). Un consigliere comunale di quel comune, adempiendo al suo dovere di vigilanza e controllo sulla legittimità degli atti amministrativi degli enti territoriali, con altri associati dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie del posto, ha presentato vari esposti alle autorità competenti laziali. Esposti circostanziati e provati. Da questa meritoria attività è conseguita una duplice interrogazione parlamentare e un intervento da parte del Direttore Regionale del Dipartimento del Territorio della Regione Lazio. Di questo si è dato conto sul portale di informazione dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, per rendere coscienti i cittadini di una realtà sottaciuta. Dalle risposte istituzionali scaturisce una vasta infiltrazione mafiosa e ripetute illegittimità perpetrate a danno del territorio locale e dei suoi abitanti, in particolare sul territorio del basso Lazio, in provincia di Latina, da qui la richiesta di scioglimento dei consigli comunali di Santi Cosma e Damiano e di Minturno. Pur palesandosi la fondatezza delle accuse e il diritto-dovere costituzionale di informare i cittadini, oltretutto riportando fedelmente il contenuto di atti pubblici, la reazione è stata la presentazione di una denuncia per calunnia e diffamazione a danno del consigliere comunale e del Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande. Denuncia infondata in fatto e in diritto, ma per la quale la Procura di Roma ha proceduto, in palese incompetenza territoriale, riconducibile a Latina (domicilio consigliere) o a Taranto (luogo di pubblicazione). Nessuna informazione di garanzia e nessuna informazione sul diritto di difesa. Insomma, non si conosce il chi, il come, il quando e il perché della denuncia, oltre che ogni informazione utile al diritto di difesa.

Dato che la mafia ti uccide, o ti affama, o ti condanna, ci si chiede: ma in questa Italia alla rovescia, è conveniente uscire dalla conformità omologata per lottare a favore di ideali di giustizia?? Agli occhi dei giustizialisti a senso unico e di facciata, che vogliono al Parlamento Deputati incensurati, pur se incapaci ed inetti, quelli che lottano per la giustizia, l’uguaglianza e la libertà, se condannati in base alle denunce di cui sopra, sarebbero meritevoli di essere eletti in Parlamento ??

La mafia non è una entità astratta a cui dare la colpa nel momento in cui non si può o non si vuole trovare il responsabile di un reato. La mafia è un atteggiamento.

Al sud Italia ci sono organizzazioni mafiose italiane: "Cosa Nostra" in Sicilia; "Ndrangheta" in Calabria; "Sacra Corona Unita" in Puglia; "Basilichi" in Basilicata; "Camorra" in Campania.

Mario Portanova è nato a Milano nel 1967. Giornalista, lavora per il settimanale Diario. Ha pubblicato con Giampiero Rossi e Franco Stefanoni, Mafia a Milano. (Editori Riuniti).

Abitualmente non si pensa al Nord Italia come vittima della criminalità organizzata, eppure le cose non stanno proprio così: puoi darci qualche elemento di comprensione in più?

"Le organizzazioni mafiose sono presenti e solide nel Nord Italia da decenni, soprattutto in Lombardia e Piemonte. Le analisi più recenti della Direzione nazionale antimafia segnalano consistenti presenze mafiose in Liguria, Valle d’Aosta e persino in Trentino-Alto Adige. A Milano, per esempio, l’arrivo di Cosa nostra risale agli anni Cinquanta, quando si stabilì in città Giuseppe Doto detto Joe Adonis, mafioso espulso dagli Stati Uniti. Luciano Liggio, il capostipite dei Corleonesi, abitava stabilmente a Milano quando fu arrestato nel 1974. E pochi ricordano che nel 1983 fu la ‘ndrangheta piemontese a uccidere il procuratore capo di Torino Bruno Caccia. Il consolidamento delle organizzazioni mafiose è avvenuto in parallelo con le grandi ondate migratorie dal Sud e con la pratica di mandare i mafiosi al soggiorno obbligato al Nord per allontanarli dai loro affari nelle terre d’origine. Le grandi operazioni antimafia in Lombardia degli anni Novanta hanno svelato le dimensioni del fenomeno: tra il 1990 e il 1994 gli arresti di mafia furono circa duemila. Tanto in Piemonte quanto in Lombardia, oggi l’organizzazione criminale più forte è indubbiamente la ‘ndrangheta, che controlla in particolare il traffico di droga ed è presente con le sue imprese anche nell’economia lecita."

Il denaro circola di certo a Milano più che altrove, i grandi capitali illeciti trovano un terreno interessante nel capoluogo lombardo. In quali settori, a tuo parere, vengono investiti e riciclati i guadagni "sporchi"?

"A Milano ci sono stati periodici allarmi sulla penetrazione dei capitali mafiosi in Borsa, ma non si è mai arrivati a nulla di concreto, probabilmente anche per la difficoltà di tracciare i soldi che circolano in piazza Affari. Negli anni Sessanta-Settanta ci fu il caso eclatante di Michele Sindona, i cui legami con la mafia siciliana sono stati accertati oltre ogni dubbio in sede processuale. Nel 1979 fu un killer della mafia italo-americana, William Arico, assoldato da Sindona, a uccidere a Milano l’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore dell’impero del finanziere ormai travolto dalla bancarotta. L’ombra di Cosa nostra (e un ruolo certo della Banda della Magliana) appare anche nel caso Roberto Calvi-Banco Ambrosiano, per il quale ci sono procedimenti giudiziari ancora in corso. Le indagini hanno, però, dimostrato che la criminalità organizzata del Nord investe i suoi enormi guadagni illeciti sopratutto in attività economiche relativamente piccole: ristoranti e pizzerie, bar, negozi, imprese edili e immobiliari, concessionarie d'auto e in generale imprese che partecipano ad appalti pubblici. I patrimoni sono comunque enormi: nel 1993, alla famiglia "ndrangheta" dei Papalia, insediata a Buccinasco, nell'Hinterland sud di Milano, furono sequestrati beni stimati in 100-150 miliardi di lire."

Da qualche anno sono presenti nel nostro territorio altre "mafie" oltre a quelle nostrane: quali sono le più pericolose e in che modo operano?

"Certamente la mafia albanese, in particolare kosovara, ha un ruolo importante nel traffico di droga al Nord, così come le organizzazioni nordafricane. Nel traffico di droga, spesso le mafie straniere cooperano con quelle italiane. Come avviene nell’economia legale, agli immigrati stranieri vengono poi affidati i lavori di livello più basso, cioè il trasporto e lo spaccio. Gli investigatori guardano con sempre maggiore preoccupazione alla mafia cinese insediata nelle comunità del Nord Italia. È una mafia che opera quasi esclusivamente all’interno delle comunità cinesi, quindi molto difficile da perseguire. Le sue attività principali riguardano l’immigrazione clandestina, la droga, la prostituzione, la contraffazione, il lavoro nero in condizioni di schiavitù."

Nonostante l'evidenza dei fatti, con la cronaca che ci parla di continui arresti per associazione mafiosa con infiltrazioni in appalti pubblici e nel tessuto economico locale in tutto il territorio nazionale, qualcuno si ostina a relegare il fenomeno "Mafia" solo nel territorio del Sud Italia.

La camorra a Parma? "Continuo affiorare dei segnali di pericolose contaminazioni criminali del territorio regionale (con riferimento, soprattutto, alle province di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza) e all'influenza sia di gruppi mafiosi originari del crotonese e della provincia di Palermo sia, soprattutto, del potente cartello dei Casalesi". E ancora: "Ai protagonisti di tali insediamenti criminosi, attivi soprattutto nella zona di Modena, Reggio Emilia e Parma è risultata riconducibile la pressione estorsiva esercitata sul mercato dell'edilizia privata, attraverso l'esportazione dei moduli operativi tipici delle zone camorristiche, ormai non soltanto nei confronti di imprenditori edili provenienti dalla medesima area geografica, ma anche locali. L'obiettivo rilievo di tale pressione estorsiva di matrice mafiosa appare in sé dimostrato in plurimi ambiti investigativi, in ragione della loro obiettiva connessione con la struttura originaria dei Casalesi". Ci sono cose che un prefetto non può non sapere. Ci sono cose che il massimo rappresentante dello Stato in una provincia non può ignorare. Le frasi che descrivono la penetrazione camorristica nella provincia di Parma provengono dal più ufficiale dei documenti: la relazione annuale della Direzione nazionale antimafia, la superprocura che coordina e dirige la lotta alla criminalità organizzata.

Un prefetto come Paolo Scarpis, che è stato questore di Milano e ha passato una vita in polizia può ignorare queste cose? Il prefetto di Parma con due interviste ha attaccato e insultato Roberto Saviano. Scarpis ha dichiarato: "Non mi risultano indagini di nessun tipo che riguardino mafia, camorra e 'ndrangheta a Parma". E ha aggiunto, riferendosi allo scrittore campano: "Sono sparate di una persona che sta a ottocento chilometri di distanza, che ha visto Parma di passaggio. Il tentativo di allarmismo è fuori luogo e se qualcuno è così convinto di saperne di più dei professionisti del settore, si faccia avanti facendo nomi e cognomi".

Nomi e cognomi sono stati scritti in 'Gomorra' e negli articoli che Saviano ha firmato su 'L'espresso'. Sono stati scritti in un'inchiesta di copertina del giornale dedicata alla colonizzazione camorristica dell'Emilia Romagna che ha causato la perquisizione della redazione. Sono stati scritti in quattro libri pubblicati nell'ultimo anno. Ma soprattutto sono stati scritti nella sentenza di primo grado che ha condannato imprenditori parmensi come affiliati al clan dei Casalesi. Come poteva il rappresentante dello Stato a Parma ignorarli? Scarpis si è difeso sostenendo di avere prima chiesto informazioni alla Procura di Parma. Una dichiarazione che aumenta i dubbi sulla sua competenza: dal 1992 il codice affida le indagini di mafia e camorra nella regione esclusivamente alla Direzione distrettuale di Bologna. Quella che ha firmato la relazione citata e ha smentito pubblicamente il prefetto con una dichiarazione del procuratore Silverio Piro: "Sono sorpreso per quelle parole, le infiltrazioni ci sono e continuano".

Infatti quello che viene descritto dalla Procura nazionale nella sua relazione è solo l'aggiornamento: i fenomeni registrati nel corso del 2008, non la storia dello sbarco delle cosche lungo la via Emilia.

Mentre nello stesso dossier si parla delle indagini su alcune grandi imprese di Parma accusate di avere fatto accordi con Cosa nostra per gestire gli appalti nel Sud. Può un prefetto ignorare tutto questo e insultare chi rischia la vita per averlo invece scritto e ribadito?

Da Parma il Siulp, il più importante sindacato di polizia, si è rivolto al ministro Roberto Maroni chiedendo le dimissioni di Scarpis: ha ricordato un illustre precedente, quello di Claudio Scajola che lasciò il Viminale dopo le frasi ingiuriose nei confronti di Marco Biagi, il giuslavorista assassinato dalle Br. Saviano invece è ancora vivo, grazie anche alla scorta che lo Stato gli garantisce, quello stesso Stato che permette ancora a Scarpis di rappresentarlo.

"Parlare di mafia in Veneto? Ma se qui la mafia non c´è". Quante volte si è detto e ripetuto: e in Veneto si lavora sodo. Eppure qui sono stati mandati al confino personaggi che hanno contribuito a scrivere alcune delle pagine più importanti della mafia. Qui sono arrivati "Totuccio" Contorno, Salvatore Badalamenti, nipote di quel "Tano" che fece ammazzare Peppino Impastato. Qui Giuseppe Madonia ha potuto condurre i propri business, con la complicità di alcuni imprenditori locali. Ma il Veneto non ha solo importato mafia: l´ha pure creata. In nessun´altra regione italiana, al di fuori di quelle meridionali, è nata un´organizzazione con le caratteristiche del 416 bis. Il Veneto l´ha avuta e l´ha chiamata Mala del Brenta.

Questo è il sunto del libro “A casa nostra. Cinquant’anni di mafia e criminalità in Veneto” di Danilo Guarretta e Monica Zornetta.

Il clan Lo Piccolo puntava a Nordest. Aveva messo gli occhi su una serie di operazioni edilizie a Chioggia (Venezia) e nella zona termale di Abano (Padova). Sono gli sviluppi dell'indagine palermitana che, tra l'altro, ha condotto all'arresto dell'avvocato Marcello Trapani, che continuava a tessere le fila per conto dei Lo Piccolo. Obiettivi: mettere le mani sul Palermo calcio e, soprattutto, «diversificare» al Nord.

Ecco l'articolo pubblicato il 25 settembre 2008 su Nuova Venezia, Mattino di Padova e Tribuna di Treviso.

La mafia in Veneto. Infiltrazioni: un'emergenza nazionale. Lo si sospettava. Meglio, lo si temeva. Bastava ascoltare gli allarmi lanciati da Roberto Saviano, autore di «Gomorra». O prendere sul serio le analisi del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: «La criminalità organizzata è ormai una realtà anche al Nord. E’ nelle regioni più ricche che cerca la maggiore redditività ai suoi investimenti». Bene, se ce ne fosse stato bisogno, ecco la prova provata: la mafia sta arrivando (è arrivata?) pure nel ricco Nordest. Il clan palermitano dei Lo Piccolo aveva messo gli occhi sulla riqualificazione del porto di Chioggia e puntava ad aggiudicarsi una serie di interventi edilizi nella città lagunare così come nella zona termale di Abano. Affari per diversi milioni di euro, messi in piedi con una rete di collusioni in sede locale.

Cosa nostra ha mille vite, come i gatti. E come lo stesso clan dei Lo Piccolo. Salvatore, erede di Bernardo Provenzano, è stato arrestato, insieme con il figlio Sandro, il 5 novembre 2007, dopo 25 anni di latitanza. Qualche giorno prima, per l’esattezza il 25 settembre, aveva fatto in tempo a costituire la società «Petra», quella che appunto doveva operare a Chioggia. Non solo il clan cercava di riorganizzarsi, ma non aveva cessato le mire espansioniste.

Per il Nordest è un brutto risveglio. È vero che la mafia del Brenta di Felice Maniero aveva provato a muoversi in collegamento con le famiglie del Sud. Ma sono vicende che si perdono negli anni e nelle cronache. Il tentato sbarco a Chioggia è un segnale forte, mette in evidenza una precisa strategia: la mafia, prima azienda italiana con 90 miliardi di fatturato (più dell’Eni, per intenderci), pari al 7 per cento del Pil (dati contenuti nel rapporto Sos impresa della Confesercenti), segue l’odore dei soldi. E nel Veneto, finalmente avviato a realizzare le grandi infrastrutture, di soldi da qui ai prossimi 10-20 anni ne gireranno parecchi.

Qualcuno, se vuole, può continuare a pensare che cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta siano problemi del Mezzogiorno. Di più, il cancro del Mezzogiorno, il vero freno al suo sviluppo, il motivo per cui le regioni meridionali non sono appetibili al capitale privato. Non è così. La mafia è un’emergenza nazionale e come tale va affrontata. Perché la piovra, in epoca di globalizzazione, va a caccia di affari ovunque. Figurarsi se si ferma al Sud. A Varese e in Brianza, di recente, è stato scoperto un traffico di rifiuti tossici, l’ultimo megabusiness della malavita. A Milano si sta discutendo sull’opportunità di creare una commissione che vigili sugli appalti dell’Expo 2015, dopo che la Procura di Busto Arsizio ha aperto un fascicolo sui rischi di infiltrazione mafiosa. Ora la storia di Chioggia.

Deve reagire lo Stato, certo. Ma anche per le associazioni degli imprenditori (in primis i costruttori dell’Ance) e dei commercianti è venuto il momento di passare dalle parole ai fatti: bisogna scoprire ed espellere chi ha collusioni mafiose. È la scelta compiuta da Ivan Lo Bello, presidente della Confindustria siciliana. Occorre estenderla a tutte le categorie. E a tutta Italia.

"Diverse persone mi hanno riferito, parlando dei loro problemi con le amministrazioni di tanti piccoli paesi, che la mafia c'è anche in Trentino". Parola del difensore civico della provincia di Trento Donata Borgonovo Re. Chi l’avrebbe mai detto che nella provincia di Trento c’è la mafia? Certo, non è la mafia intesa normalmente, quella assassina, più precisamente si tratta di comportamenti che hanno del mafioso soprattutto nei piccoli comuni del Trentino.

Il difensore civico ha detto che nei piccoli comuni chi ha un certo cognome e fa parte della maggioranza trova dappertutto le porte aperte, chi invece è escluso da questa cerchia non gode di determinate corsie preferenziali. Insomma, un comportamento di tipo mafioso.

Alla faccia dell’imparzialità della pubblica amministrazione, diciamo noi.

Esiste un modo di trattare la gente non alla stessa maniera, ma dividendo fra serie A e serie B in base a “legami, simpatie, leggi non scritte” e molti amministratori si comporterebbero come “padri-padroni sulle loro comunità”, afferma Borgonovo Re, la quale riporta l’opinione a lei espressa da molti cittadini per cui ritiene che tali affermazioni debbano essere verificate sul campo.

Dopo le reazioni stizzite del presidente della giunta provinciale Lorenzo Dellai e della sua Margherita, che ha chiesto le dimissioni del difensore civico, il difensore civico ha precisato che “mafia è un termine sicuramente esagerato: giovedì l’ho usato nella mia relazione semplicemente perché lo sentiamo ripetere spesso dai cittadini che vengono da noi a chiedere aiuto. Non posso negare che io e i miei collaboratori siamo rimasti colpiti dalla frequenza con la quale ci dicono ‘la mafia esiste anche in Trentino’ e questo vuol dire che c’è un problema. Credo che in Trentino sia diffusa una cattiva cultura dell’amministrare, per la quale il sindaco considera il Comune come ‘cosa sua’. E non si tratta di casi sporadici”.

Le affermazioni del difensore civico giungono a poche settimane da un’altra polemica sollevata da un Sindaco sempre del Trentino il quale aveva affermato che chi non è allineato alla maggioranza di Giunta provinciale viene in certo qual modo boicottato. Sono seguite precisazioni. Ma tant’è, un certo malcontento fra i Sindaci ci sarà: perché evidentemente anche qui ci saranno quelli di serie a e di serie b, quelli che vengono quasi sempre accontentati e quelli invece che per vari motivi vengono in qualche modo boicottati.

PARLIAMO DEL REATO DI MAFIA.

L'associazione per delinquere di tipo mafioso è una fattispecie di reato prevista dal Codice Penale italiano, all'art. 416 bis e all'art. 416 ter, e quindi all'interno del V Titolo della Seconda Parte del codice stesso, ossia nella parte disciplinante i Delitti contro l’ordine pubblico.

Fino al 1982 per far fronte ai delitti di mafia si faceva ricorso all'art. 416 (associazione per delinquere), ma tale fattispecie è ben presto risultata inefficace di fronte alla vastità e alle dimensioni del fenomeno mafia. Tra le finalità perseguite dai soggetti uniti dal vincolo associativo ve ne erano anche di lecite, e ciò costituì il più grande limite all'applicazione dell'art. 416.

Il 19 settembre 1982 l’uccisione del Generale Dalla Chiesa e la immediatamente successiva reazione di sdegno da parte dell’opinione pubblica, portò lo Stato, nel giro di 20 giorni, a formulare l'art. 416 bis, dando così la propria risposta al grave fatto di sangue e perseguendo l'obiettivo di porre freno al problema mafia.

La nuova fattispecie prevede l'individuazione dei mezzi e degli obbiettivi in presenza dei quali siamo di fronte ad una associazione di tipo mafioso. Il legislatore per la prima volta nel 1982 dà una definizione del concetto di mafia.

Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa una associazione è la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di che ne deriva.

Gli obiettivi sono:

il compimento di delitti;

acquisire il controllo o la gestione di attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti o altri servizi pubblici;

procurare profitto o vantaggio a se o a altri;

limitare il libero esercizio del diritto di voto;

procurare a se o ad altri voti durante le consultazioni elettorali.

Gli ultimi due obiettivi sono stati inseriti nel 1992 nell'ambito delle misure adottate a seguito delle stragi di Capaci (attentato a Giovanni Falcone) e di Via D’Amelio (attentato a Paolo Borsellino).

Il 416 bis dispone inoltre la confisca dei beni, nonché l'applicabilità di tale fattispecie anche nell'ipotesi di Camorra o di altre associazioni riconducibili a quelle di tipo mafioso, comunque localmente denominate, tipo “la Ndrangheta” o “la Sacra Corona Unita”.

Ad un’attenta lettura della legge, essa non discrimina le pari attività devianti di lobby, caste e sodalizi istituzionali, ma per questi soggetti, detentori del potere, scatta l’impunità e l’immunità. Al contrario, quando un soggetto al loro interno viene emarginato, per il medesimo scatta il reato che non è reato. Il Concorso esterno in associazione di tipo mafioso o Concorso esterno in associazione mafiosa, sono delle espressioni per indicare un particolare comportamento delittuoso non definito in sede legislativa. Alla carenza di definizione in sede legislativa formale è stato supplito con elementi di prassi giudiziaria. Ossia: la Magistratura si sostituisce al Parlamento.

PARLIAMO DE "I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA".

Citazioni di Leonardo Sciascia, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo all’acqua di rose:

«…l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà... Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini... E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi... E ancora più in giù: i piglianculo, che vanno diventando un esercito... E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre... » (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961).

«.. Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961).

«Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole, vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966).

«I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia ?» (Leonardo Sciascia, I professionisti dell'antimafia, da Il Corriere della Sera, del 10 gennaio 1987).

“Persecuzioni che vanno evitate” scriveva Lino Iannuzzi sul “Tempo” del 23 ottobre 2008. riferendosi all’assoluzione di Calogero Mannino.

“Più che condannarlo per mafia, ne volevano fare un pentito, il primo grande pentito della politica. Se ci fossero riusciti, probabilmente la storia dei grandi processi di mafia ai politici darebbe stata diversa, i professionisti dell'antimafia non ne sarebbero usciti così clamorosamente sconfitti.”

Il processo a Mannino è stato il più "caselliano" dei processi per mafia, quello che più ha risentito dei teoremi, del climax e del metodo della procura diretta da Gian Carlo Caselli, più dello stesso processo a Andreotti. Ma ha avuto un protagonista eccezionale che ha oscurato la fama dei suoi colleghi più autorevoli e più famosi, dei Lo Forte, dei Natoli, degli Scarpinato, dello stesso Caselli.

I processi a Mannino sono durati più di 14 anni, il solo processo di primo grado è stato il più lungo processo per mafia celebrato a Palermo, è durato più di 5 anni e mezzo, 300 udienze, 400 testimoni, 25 "pentiti",oltre 50mila pagine di atti processuali: fino all'assoluzione con formula piena "per non aver commesso il fatto".

E tre anni dopo il primo processo d'appello, la condanna a 5 anni e 4 mesi, l'annullamento della Cassazione, il secondo processo d'appello, la sospensione per attendere il pronunciamento della Corte Costituzionale (che ha bocciata la legge che prevedeva che bastasse l'assoluzione in primo grado per chiudere la partita), e il secondo processo d'appello, fino alla definitiva assoluzione.

Ebbene, per i due anni dell'inchiesta iniziale, per i cinque anni e mezzo del processo di primo grado, per i due anni del primo processo d'appello, per i due anni di attesa per l'annullamento della Cassazione, per la sospensione, per tutto il tempo del secondo processo d'appello, l'accusa contro Mannino è stata sostenuta sempre dallo stesso magistrato, il pm Vittorio Teresi, che ha fatto in tempo a fare le indagini preliminari, il processo di primo grado, il primo processo d'appello dopo tre anni, e si è trovato persino pronto, dopo altri tre anni, a sostenere l'accusa nel secondo processo d'appello, dopo l'annullamento e la sospensione.

Il processo a Mannino ha avuto un unico inquisitore, che è diventato anche requirente in primo e in secondo grado, e persino nel secondo grado: Vittorio Teresi ha praticamente dedicato la vita, la parte più importante della sua vita, a inquisire e ad accusare Mannino. Più dello Stato, più della procura di Palermo, è stato Teresi a processare Mannino.

E che cosa ha detto e ripetuto Teresi contro Mannino per 14 anni l'aveva già detto il Procuratore generale della Cassazione Vincenzo Siniscalchi nella requisitoria con cui ha chiesto e ottenuto l'annullamento della sentenza di condanna di Mannino, che aveva fatto proprie e trascritte testualmente le accuse pronunciate da Teresi: "Nella sentenza di condanna di Mannino non c'è nulla, mi sono trovato di fronte al nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c'è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici. Nulla che indichi un patto elettorale con la mafia, favori in cambio di voti, un patto così serio, preciso e concreto che la sua sola esistenza, con l'impegno e la coscienza da parte del politico, possa valere a sostanziare l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe mai essere scritta…".

Ma Vittorio Teresi non è né un folle, né un caso isolato.

Quando il Procuratore generale Siniscalchi ha bollato con parole di fuoco il sistema accusatorio di Teresi, e i giudici della Corte d'Appello che le avevano fatte proprie, è insorta tutta la giunta esecutiva dell'Associazione magistrati di Palermo e prima ancora che la Cassazione si pronunciasse sulle richieste di Siniscalchi.

"Le espressioni pronunciate dal Procuratore generale - è scritto nel comunicato della giunta - hanno gettata una ingiusta e infondata ombra sulla professionalità dei colleghi che hanno emesso la sentenza di condanna di Mannino in netto contrasto con i doveri sanciti dal codice etico adottato dall'Associazione nazionale dei magistrati, e in particolare con il dovere sancito dall'articolo 13 comma III, che prescrive che il pubblico ministero debba astenersi da critiche e apprezzamenti sulla professionalità dei giudici".

E i magistrati di Palermo attraverso la loro giunta esecutiva chiedevano "l'intervento dell'Associazione nazionale e del Consiglio superiore della magistratura per quanto eventualmente di loro competenza: l'Anm e il Csm dovevano processare e punire il procuratore generale della Cassazione che si era permesso di criticare il pm e i giudici che avevano condannato Mannino (e di conseguenza la Cassazione che, con le stesse motivazioni del Pg annullerà la sentenza di condanna a Mannino).

Forse nessun altro processo come quello a Mannino serve a raccontare e a spiegare che cosa è successo a Palermo (Italia) negli ultimi quindici anni e che cosa sono stati i processi di mafia ai politici. Secondo Jannuzzi il caso Teresi è solo più evidente, più scoperto e più sfacciato: “il pm è sempre lo stesso, i pm dei processi politici sono sempre gli stessi, sempre gli stessi sono i "pentiti", stessa è la tecnica con cui si predispongono certe Corti d'Appello, veri e propri plotoni d'esecuzione, che devono annullare in fretta le assoluzioni conquistate in primo grado (straordinaria la somiglianza con la storia dei processi a Mannino il metodo con cui fu costituita la Corte d'Appello che annullò l'assoluzione in primo grado di Corrado Carnevale, e quella con cui la Corte d'Appello sporcò con la storia della prescrizione l'assoluzione in primo grado di Andreotti), gli stessi sono i teoremi di certe sentenze che, come disse Siniscalchi, sono un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, sentenze che non avrebbero mai dovuto essere scritte”.

Un fatto è certo: mafia e antimafia a volte s'incrociano.

Sesso in cambio di una accelerazione nelle pratiche burocratiche per accedere al fondo vittime del racket e dell'usura. Le associazioni 'Sos racket e usura' e 'Sos Italia libera' hanno raccolto le testimonianze di sette giovani, che denunciano le presunte violenze sessuali e ricatti subiti da un ex prefetto dell'anti-racket romano, che controllava il fondo nazionale per le vittime dell'usura.

L'associazione 'sos racket e usura' - consorzio che raccoglie 70 associazioni - ha presentato un esposto al tribunale di Milano. Tra le presunte vittime vi sono due donne, una di Milano e un'extracomunitaria residente a Torino, che erano minorenni all'epoca dei fatti; una 38enne di Brescia, una bergamasca di 40 anni e alcune modelle ingaggiate per uno spot anti-usura, in realtà mai realizzato. L'associazione si era sciolta il 7 febbraio 2010 dopo le minacce rivolte al suo presidente Frediano Manzi.

Sul sito Sos-racket-usura.org, è stata pubblicata una lunga lettera, con video testimonianze. "Vi raccontiamo le storie delle vittime di usura e estorsione - si legge nella lettera - che si sono rivolte al comitato nazionale antiracket a Roma per accedere ai fondi, e che sono state oggetto di attenzioni sessuali da parte del commissario". "In sostanza emerge che in certi casi - racconta l'associazione - l'avere rapporti sessuali con il prefetto Carlo Ferrigno, condizionava l'accesso al fondo" e mettono in rete le sette testimonianze, a prova di quanto affermato. "Non potevamo più tacere - dicono - come associazioni antiracket abbiamo il dovere di denunciare questo scandalo fatto di ricatti, minacce, intimidazioni e richieste di natura sessuale, che sono state perpetrate nel tempo dal commissario straordinario antiracket, nominato dal governo in un periodo di tempo che va dall'anno 2003 all'anno 2006".

In un video, una delle vittime (38 anni, bresciana, col volto oscurato per renderla irriconoscibile) ha raccontato la terribile parabola che l'ha trasformata da vittima dell'usura a vittima di ricatto e violenza sessuale. Nella testimonianza, la donna ripercorre tutte le fasi della vicenda, dal primo incontro col prefetto nel 2006 (che all'inizio chiama "sua eccellenza", per rispetto e riverenza), ai primi approcci di lui (le chiede di dargli del tu, poi la fa portare dal collaboratore nella sua abitazione privata per "guardare le carte" e si presenta con l'accappatoio slacciato, in evidenza i genitali). Fino ai due tentativi di forzare un rapporto sessuale con la donna, preceduti da minacce e violenza fisica.

Le vittime che l'associazione ha rintracciato e "che ci hanno confidato queste violenze sono originarie di Milano, Bergamo, Brescia e Roma; come i reati e le violenze si sono consumati a Milano, Torino, Roma". "Era abitudine del commissario antiracket inviare il suo fido segretario e autista, con la macchina in dotazione del ministero, a prelevare prostitute giovani e soprattutto minorenni - prosegue la clamorosa denuncia - per fare orge e festini presso l'abitazione del prefetto a Roma; si afferma che il prefetto facesse abitudinariamente uso di cocaina. Sempre Tonino, ha accompagnato più volte le vittime di usura presso l'abitazione del prefetto, e lo stesso autista gli avrebbe procurato sostanze stupefacenti".

L'associazione ha chiesto l'apertura immediata di un'inchiesta da parte della procura della Repubblica, "affinché accerti quanto da noi denunciato pubblicamente" e che si verifichi "come sono stati distribuiti i fondi e con quali criteri nel periodo in cui il funzionario è stato commissario straordinario antiracket". Infine, lanciano un appello "a tutti coloro che hanno subito ricatti, minacce o 'attenzioni' del genere. Abbiano il coraggio di parlare e prendano contatto con l'autorità giudiziaria".

Le cronache ci parlano di un imprenditore depredato dalla mafia. Un risarcimento da incassare dallo Stato. E le richieste di denaro di chi avrebbe dovuto aiutarlo. Rappresentanti di categoria, Magistrati. Poliziotti. Tutti paladini anti-cosche, ma con soci e legami pericolosi. Rapporti privilegiati di alcune associazioni antimafia con la magistratura e la politica di sinistra.

Il trucco è in agguato. Come nell'antiusura, colpita per giunta dal fenomeno delle finte vittime. «Nell'arco del 2007», dice il commissario nazionale antiracket Raffaele Lauro, «abbiamo risarcito 143 persone e bocciato 176 richieste». Idem per le estorsioni: «A fronte di 161 accoglimenti ci sono stati 147 rifiuti». In pratica 323 persone si sono dichiarate vittime, ma non lo erano. Il che confonde: in Calabria (42 sì al risarcimento, 26 no) come in Sicilia (62 sì, 28 no), in Puglia (16 sì, 18 no) come in Campania (24 sì, 19 no).

E si somma a un'altra questione: la limpidezza delle organizzazioni impegnate contro mafia e pizzo.

A un certo punto, per esempio, sono spariti 100 mila euro dalle casse dell'associazione antiracket di Caltanissetta. Il presidente Mario Rino Biancheri si è dovuto dimettere, e il prefetto ha sciolto la struttura. Un caso limite, assicura Lauro: «Le associazioni e fondazioni iscritte alle prefetture svolgono un lavoro eccellente. E altrettanto vale per Tano Grasso, il presidente onorario della Fai, la Federazione delle associazioni antiracket e antiusura italiane». Una figura simbolo, Grasso, nella lotta al pizzo. Fondatore nel '90 dell'Acio (l'associazione dei commercianti di Capo d'Orlando contro le estorsioni), è stato deputato del Pds, membro della commissione parlamentare Antimafia e commissario nazionale antiracket. Eppure il suo è un caso, come risulta da un’inchiesta del “L’Espresso”, così emblematico di come in Sicilia frequentazioni e amici possano essere scivolosi, anche per un paladino dell'antiracket.

Attualmente, infatti, il nome di Grasso è citato a Catania negli atti di un processo scomodo. Principali accusati sono Giuseppe Gambino, ex magistrato della Direzione distrettuale antimafia di Messina, e il vicequestore di Messina Mario Ceraolo Spurio, ex ispettore del commissariato di Capo d'Orlando: entrambi sotto processo per vari reati, tra i quali avere manovrato il pentito Orlando Galati Giordano contro l'imprenditore Vincenzo Sindoni (oggi sindaco di Capo d'Orlando); il tutto per favorire Luciano Milio, suo concorrente in affari. Grasso, secondo le carte dei pubblici ministeri, ha frequentato sia Ceraolo che Gambino e Milio.

A illustrare il lato oscuro dell'antimafia, ci ha pensato il collaboratore di giustizia Francesco Campanella, ex presidente del consiglio comunale di Villabate (20 chilometri a est di Palermo), complice di un piano per inscenare la finta guerra all'illegalità.

In questa logica, ha favorito la nascita di un osservatorio permanente sulla criminalità e il fenomeno mafioso. E, ciliegina sulla torta, ha sponsorizzato la cittadinanza onoraria al Capitano Ultimo e Raoul Bova, suo alter ego televisivo. Risultato: un pedigree antimafia in sintonia con le cosche.

«Una storia terribile», commenta Angela Napoli, membro della commissione parlamentare Antimafia, «ma agevolata da un atteggiamento diffuso: nessuno punta il dito contro la finta lotta all'illegalità. È un terreno minato, meglio tacere e lasciare campo libero». L'esatto opposto di quello che fa lei, protagonista in Calabria di una polemica con la cooperativa agricola Valle del Bonamico, creata nel 1995 a Locri dal vescovo Giancarlo Maria Bregantini. Una struttura cresciuta, spiega il sito Internet, per strappare alla 'ndrangheta i giovani disoccupati. Ma anche una società «che dà lavoro ai figli dei boss», ha denunciato Angela Napoli, «nonché sede di cospicui finanziamenti, molti devoluti a rappresentanti delle cosche della 'ndrangheta di Platì e di San Luca».

Il pizzo è un male del meridione, ma perché nessuno parla degli appalti, delle grandi aziende che come la Calcestruzzi fanno accordi con Cosa nostra? E ancora: perché non si analizza com'è gestito il finanziamento pubblico dalle associazioni antimafia?». Di recente, racconta, è stata contattata dai giornalisti di "Annozero". Con loro, per la puntata del 22 novembre 2007, si è presentata alla sede della Fondazione Giovanni e Francesca Falcone. «Volevamo chiedere a Maria Falcone perché non appoggiasse la protesta contro la mancata equiparazione tra le vittime del terrorismo e quelle della mafia e del dovere. Ma non abbiamo potuto: la sede era chiusa con un catenaccio. Non solo. Tutte le volte che ho telefonato, o mi sono presentata alla fondazione, non ho trovato nessuno. Possibile? Chi verifica, lì e altrove, come si fa antimafia?».

Per completezza va detto che "Annozero" non ha trasmesso il servizio, e Sonia Alfano non è stata avvertita dalla redazione: «L'ho scoperto in studio», spiega, «partecipando da ospite alla puntata».

Quanto a Maria Falcone replica che «tre pomeriggi alla settimana la sede è chiusa», e comunque la sua missione è «insegnare legalità nelle scuole italiane, e organizzare ogni 23 maggio un convegno con politici e esperti di mafia». Iniziative che hanno un forte significato simbolico, in Sicilia e fuori, ma fanno i conti con un clima ostico, dove la confusione impera anche nelle istituzioni. Esempio tipico, il bilancio della Regione Sicilia. All'interno, infatti, si legge che le «associazioni, fondazioni e centri studi impegnati nella lotta alla mafia» ricevono 580 mila euro l'anno. Ma non è così: 77 mila 468 euro sono stanziati per il centro studi Cesare Terranova, 180 mila 759 per la Fondazione Falcone, 77 mila 468 per la Fondazione Gaetano Costa e 50 mila al Centro studi Pio La Torre. Restano invece inutilizzati 194 mila 305 euro, che giacciono nelle casse regionali. Discutibile. E paradossale, pure, in una terra sempre a caccia di finanziamenti.

Ma meno stravagante di quanto è accaduto alla Regione Calabria. All'ordine del giorno c'era la costituzione della Consulta antimafia della giunta, una task force che affronta temi centrali: dal protocollo d'intesa sui beni confiscati alla 'ndrangheta fino al progetto "Scuola antimafia", per aiutare i docenti a «veicolare le migliori informazioni su legalità e sicurezza». Questioni, si legge, gestite dal presidente della Regione Agazio Loiero con (tra gli altri) il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Vincenzo Macrì e con il prefetto di Reggio Calabria Francesco Antonio Musolino. Ma anche con Francesco De Grano: il dirigente generale del Dipartimento attività produttive «responsabile dell'Apq (Accordo programma quadro) legalità e sicurezza». Lo stesso De Grano indagato nell'indagine "Why not" sui poteri occulti calabresi e la spartizione dei fondi comunitari. Proprio come Loiero.

Il tanto parlare di lotta alla mafia, certo sembra tutto una presa in giro, se poi le cronache ti parlano di vittime che preferiscono pagare il “pizzo”. Sui giornali si legge “È disposto a pagare il pizzo a patto che gli restituiscano ciò che gli è stato rubato. A scendere a compromessi con i suoi aguzzini è Giuseppe Cappelli, 58 anni di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. Egli ha subìto una serie di furti nella villetta che sta costruendo nella periferia del paese. Prima una motozappa, poi mobili antichi, tappeti e piante. Qualche mese fa ha denunciato tutto ai carabinieri che bloccarono i 5 malviventi, ai quali, però, il magistrato non ha convalidato l’arresto. Una volta liberi gli aguzzini avrebbero ricominciato con i furti, pretendendo, tra l’altro, il ritiro della denuncia.”

Non da meno è la trasfigurazione o la confusione dei ruoli. Un colpo di mannaia e, di colpo, è stato «decapitato» il corpo della Stradale di Lecce. Un vero e proprio choc per le forze dell'ordine salentine che, di colpo, si sono trovate alle prese con un'attività concussiva che andava avanti da decenni. Sono finiti in manette 16 agenti della polizia stradale di Lecce con l'accusa di associazione per delinquere finalizzata alla concussione. Gli arresti sono stati eseguiti al termine di sei mesi di indagine durante i quali sono stati fatte numerose intercettazioni. L'attività investigativa è stata coordinata dalla procura di Lecce è stata condotta dagli stessi agenti della questura e della polizia stradale. Gli investigatori hanno scoperto un consolidato sistema di concussione che durava da almeno 20 anni, e si concretizzava nella riscossione di somme di denaro o nell'acquisizione di beni materiali da parte dei poliziotti. A pagare erano imprenditori e commercianti - almeno un centinaio le aziende «taglieggiate» - per evitare i controlli delle loro merci sulle strade.

Un caso particolare è quello di un poliziotto intercettato che ipotizzava con un collega, anche lui del «giro», di poter andare in pensione avendo ottenuto «mazzette» complessive di circa 40 mila euro, estorte nell'arco di un triennio. Una sorta di «liquidazione» frutto delle attività concussive. Questo lascia intendere il livello illegale attivato dai poliziotti «infedeli».

I sedici agenti erano tutti in servizio a Lecce dove lavorano in totale circa 36 agenti. La metà del corpo è stata, quindi, decapitata dall'indagine che comunque non ha interessato il distaccamento di Maglie, la seconda sezione della polizia stradale salentina.

Il capo della procura salentina, Cataldo Motta, già capo della Direzione Distrettuale Antimafia, così commenta: «C'è soddisfazione per aver fatto emergere questa situazione molto grave, soddisfazione tuttavia temperata dal fatto che si tratta di agenti di polizia con i quali siamo abituati a lavorare e a condividere gli interventi per la legalità. L'aspetto che crea maggiore amarezza è proprio questo».

Sul fronte delle indagini ha aggiunto: «La possibilità di un'indagine così approfondita si è presentata solo quando abbiamo avuto una denuncia non anonima dall'interno della stessa sezione di polizia stradale. E poi c'è stato l'invio, con lettera anonima, di un elenco di aziende che pagavano gli agenti».

Ci si chiede come mai per i poliziotti non sia stato prevista l’associazione di stampo mafioso finalizzata all’estorsione? Forse i mafiosi non sono tutti uguali?

«Me ne vado via per sempre con la mia famiglia, non sarò più deriso per le mie denunce e io e i miei famigliari non saremo più costretti a subire non solo le aggressioni dei criminali, ma anche le umiliazioni da parte di chi, come un magistrato, è arrivato a dire che sono mentalmente instabile».

Lo ha detto l'imprenditore Francesco Dipalo, appena rientrato ad Altamura. L'uomo era stato via per cinque giorni senza dare notizie e suscitando preoccupazioni nei famigliari, che temevano potesse essere stato vittima di gruppi criminali dopo le sue denunce di estorsioni e aggressioni. Dipalo ha spiegato di essersi allontanato per cercare un luogo dove poter trasferire la propria famiglia, aggiungendo di non aver potuto avvertire neppure i suoi congiunti per non correre rischi.

A una domanda se vi siano state sottovalutazioni delle sue denunce, Dipalo ha detto che se ci sono state non gli interessa più, aggiungendo che «tutti possono constatare che da parte dello Stato non c'è stata alcuna reazione». Di chi sia la responsabilità, «della procura di Bari o di Matera, della polizia di Bari o di Matera, «non m'interessa più».

Questo è poca cosa in confronto al racconto di un giudice in prima linea.

"Vivo e lavoro in Calabria, il luogo delle regole capovolte, la terra dell'inenarrabile che tuttavia vorrei provare a narrare. Perché da noi non accade nulla di diverso da quanto accade altrove, accade semplicemente di più. Siamo sempre dieci passi avanti nel declino civile, politico, istituzionale e forse potremmo descrivere il paesaggio dietro la curva che non avete ancora imboccato ...".

Comincia così il racconto di Emilio Sirianni, giudice del lavoro a Cosenza. Calabrese, 47 anni, di cui 11 trascorsi nelle Procure della Regione, è un "giudice di frontiera", come si dice di chi lavora nelle "sedi disagiate" impegnate nella lotta alla mafia. Luoghi dove spesso si finisce non per scelta ma per necessità, con la speranza di andarsene, prima o poi, in una sede "agiata".
Il suo è un racconto inedito, anche se qualche tempo fa lo ha in parte anticipato in un Congresso di "Magistratura democratica", gelando la platea.

È il racconto della magistratura che in Calabria vive e lavora, ma non quella che solitamente finisce sulle pagine dei giornali, eroica o collusa a seconda dei casi.

Il suo non è un racconto di veleni o di corvi, di faide o di lotte di potere. Ma di una magistratura che - per indifferenza o pigrizia, per paura o connivenza, per furbizia o conformismo - gira la testa dall'altra parte, strizza l'occhio ad alcuni imputati, non vigila e non fa domande sulle anomalie dell'ufficio. E "che accetta - dice Sirianni - l'umiliante baratto fra la convenienza personale e la rinuncia a qualsiasi prospettiva di cambiamento, perché l'unico cambiamento immaginabile è il premio di essere trasferito nell'agognata sede agiata".

Una magistratura, insomma, incapace di "autogovernarsi", qui più che altrove, e che contribuisce a indebolire la credibilità dello Stato.

Una fotografia desolante, anche se non deve far dimenticare l'impegno, la professionalità e il sacrificio dei giudici "che tirano la carretta nell'oscurità" e vivono una solitudine diversa, perché non l'hanno scelta.

"Così come, in Calabria, non ci si scandalizza per un concorso truccato ma lo si accetta come una fatalità, allo stesso modo - spiega Sirianni - il magistrato calabrese quasi mai reagisce o denuncia, preferisce adattarsi a prassi dubbie, assistere indifferente a condotte inammissibili. La stessa indifferenza che soffocala cosiddetta società civile si respira nei corridoi dei palazzi di giustizia".

Il racconto. Nel novembre 2006 fu arrestato un Presidente di sezione del Tribunale civile di Vibo Valentia (Patrizia Pasquin) insieme ad alcuni pericolosi "ndranghetisti" locali.

"Il Tribunale di Vibo ha competenza su una zona ad altissima densità mafiosa. Eppure, sia prima sia dopo l'arresto c'è stato un silenzio assordante da parte dei colleghi di quel Tribunale.

Possibile che nessuno avesse mai notato strane frequentazioni o comportamenti sospetti?

Precedentemente, durante la campagna elettorale per il C.S.M., andammo a Rossano, piccolo Tribunale con giovanissimi colleghi: l'unico argomento che animò il dibattito fu l'estensione dei benefici della sede disagiata ai cosiddetti ‘equiparati'. Eppure, anche lì c'erano problemi seri: forti scontri con gli avvocati, un presidente che per un biennio si era visto bocciare dal C.S.M. le tabelle (l'organizzazione dell'ufficio - ndr) e persino un giudice destituito a causa di diverse condanne per reati gravi e che aveva l'abitudine di non depositare le sentenze".

Molti uffici calabresi, soprattutto quelli piccoli, "si svuotano ogni venerdì, al massimo, e tornano a riempirsi solo il lunedì o il martedì successivo: tutti tornano a casa - per lo più in Campania, in Puglia, nel Lazio - senza che il capo abbia nulla da obiettare. Alla sua condiscendenza corrisponde la rinuncia a criticarne l'operato".

Vibo Valentia, Rossano, ma anche Locri, Palmi, "sono tutti fortini assediati, in zone ad altissima densità criminale in cui si lavora male e si vive in totale separatezza dal resto della Regione. Ma di solito se ne parla solo per denunciare carenza di mezzi e di uomini.

Eppure ne accadono di fatti strani. Come quando, morto il Procuratore Rocco Lombardo, la Procura di Locri fu lasciata reggere per mesi da un giovanissimo collega e solo quando fu trasferito venne finalmente affidata a uno dei più esperti P.M. della Procura di Reggio Calabria, il quale accertò, a fine 2003, l'esistenza di 4.200 procedimenti con termini di indagine scaduti da anni, su un totale di 5.000, e di circa 9.000 procedimenti ‘fantasma', cioè risultanti dal registro ma inesistenti in ufficio.

Dati, peraltro, già riscontrati in un'ispezione del 2001, senza che nulla accadesse".

Di chi è la colpa? Del C.S.M.? Del ministero? Prima ancora dei magistrati, sostiene Sirianni. "Perché troppi magistrati calabresi organizzano le loro giornate con il solo obiettivo di sopravvivere. Si chiudono in ufficio, alzano un muro invisibile che li separa dalla comunità. Ma in Calabria non basta fare il proprio lavoro. Bisogna guardare che cosa accade fuori dalla porta, anche a costo di perdere la tranquillità".

PARLIAMO DI ANTIMAFIA PARTIGIANA.

La "Associazione Contro Tutte le Mafie" - ONLUS è una associazione nazionale contro le ingiustizie e le illegalità, iscritta per obbligo di legge, ai fini dell'attività antiracket ed antiusura, solo presso la Prefettura - UTG di Taranto, competente sulla sede legale. Non ha sostegno politico perchè è apartitica e non nasconde gli abusi e le omissioni del sistema di potere, tra cui i magistrati, e la codardia della società civile. Per questo non riceve alcun finanziamento pubblico, o assegnazione da parte della magistratura dei beni confiscati. Il suo presidente è, spesso, perseguito per diffamazione, solo perchè riporta sui portali web associativi le interrogazioni parlamentari o gli articoli di stampa sugli insabbiamenti delle inchieste scomode. Le scuole non lo invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Pur affrontando questioni attinenti la camorra, la mafia, la 'ndrangheta, la sacra corona unita, la mafia russa, ecc; pur essendo stato ringraziato dal Commissario governativo per la collaborazione svolta ed invitato da questi a partecipare al forum tenuto a Napoli coi Prefetti del Sud Italia per parlare di Mafie e sicurezza, la Prefettura di Taranto, non solo non gli dà la scorta, ma gli diniega la richiesta del porto d'armi per difesa personale. La regione Puglia non iscrive la stessa associazione all'albo regionale, né il comune di Avetrana, città della sede legale, ha iscritto l'associazione presso l'albo comunale. Il sostegno mediatico è inesistente, tanto che vi è stata interrogazione parlamentare del sen. Russo Spena per chiedere perchè Rai 1 non ha trasmesso il servizio di 10 minuti dedicato all'associazione, autorizzato dall'apposita commissione parlamentare. L'editoria ha rifiutato le pubblicazione del saggio d'inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", il sunto e l'elenco degli scandali  e i misteri italiani, senza peli sulla lingua.

L’associazione "Libera" è un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto. I magistrati assegnano a loro i beni confiscati. Le scuole invitano i loro rappresentanti. Il sostegno mediatico è imponente, come se "Libera" fosse l'unico sodalizio antimafia esistente in Italia. La regione Puglia, con giunta di sinistra, riconosce a loro cospicui finanziamenti, pur non essendo iscritta all'Albo regionale.

200 mila euro. In favore della Cooperativa “Terre di Puglia – Libera Terra” (100 mila euro) e dell’Associazione Libera di don Luigi Ciotti (100 mila euro).

La cooperativa denominata «Terre di Puglia – Libera Terra» è formata da giovani pugliesi e si occupa della gestione dei terreni agricoli e degli altri beni confiscati alla Sacra Corona Unita. Attualmente, in partenariato con la Prefettura e la Provincia di Brindisi, con l’Associazione Libera ed Italia Lavoro Spa, gestisce un progetto che prevede l’impiego a fini agricoli dei terreni confiscati alle mafie nella provincia di Brindisi, nei comuni di Mesagne, Torchiarolo e San Pietro Vernotico.

L’Associazione Libera di don Luigi Ciotti in Puglia sosterrà il progetto MOMArt (Motore Meridiano delle Arti), che prevede la trasformazione di una ex discoteca di Adelfia (Ba), centrale di spaccio e illegalità, in un luogo generatore di sviluppo sociale e civile per i giovani pugliesi. Per il raggiungimento di questo obiettivo la Giunta il 15 luglio 2008 ha approvato un protocollo d’intesa tra Regione Puglia, Tribunale di Bari, Commissario governativo per i beni confiscati e Associazione Libera.

Il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie denuncia una palese ingiustizia e discriminazione politica che viene perpetrata da parte della Giunta della Regione Puglia guidata da Nicola Vendola e dal suo assessore competente Loredana Capone.

«Sin dal 27 settembre 2008, avendone titolo anche in virtù di una verifica della Guardia di Finanza che ne attesta la reale attività, il sodalizio nazionale riconosciuto dal Ministero dell’Interno ha chiesto l’iscrizione all’Albo Regionale delle associazioni antiracket ed antiusura – dice il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie -. La risposta che è stata data è che l’Albo non è stato ancora costituito, nonostante in pompa magna si sia dato risalto della sua emanazione per legge. Intanto però la Giunta Vendola si prodiga a finanziare ed a promuovere “Libera” e le sue associate in ogni modo, pur non essendo iscritta all’albo non ancora costituito. Ciò che dico è confermato dalle varie determine di finanziamento delle varie convenzioni e così come appare su “Striscia La Notizia”del 18 novembre 2011. In occasione del servizio di Fabio e Mingo in tema di favoritismi e privilegi l’assessore alle risorse umane, Maria Campese, pur non essendo competente sulla materia della mafia, in bella vista presso i suoi uffici sfoggiava un muro tappezzato di manifesti di “Libera”, da cui si palesava la scritta “I beni confiscati sono Cosa Nostra”.

Spero che questa ipocrisia antimafia cessi e la Giunta Vendola sia meno partigiana, perché oltre a discriminarle, perché non sono comuniste, nuoce a quelle associazioni che si battono veramente contro le mafie. Spero che sia dato dovuto risalto alla denuncia, in quanto abbiamo bisogno del sostegno istituzionale per poter continuare a svolgere la nostra attività.»  

In un'intervista a Magazine del Corriere della Sera, si rivela che non c'erano motivi perchè a Roberto Saviano, autore di “Gomorra”, Mondadori editore, venisse assegnata la scorta. Vittorio Pisani, capo della Squadra Mobile di Napoli, è un poliziotto con gli “attributi” che ha ottenuto l'importante incarico all'età di 40 anni; rischia la pelle tutti i giorni e, persona seria in questo mondo di quaquaraquà e opportunisti. Intervistato da Vittorio Zincone ha detto le cose come stanno: “Resto perplesso quando vedo scortare persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni”.

Da notare che Pisani non è il solo uomo d'azione in prima fila contro la criminalità organizzata ad esprimere perplessità sulla figura di Saviano. Ricordiamo il "precedente" del prefetto di Parma, Paolo Scarpis, già questore con al suo attivo importanti successi contro le mafie italiane e internazionali, che aveva liquidato come "sparate" certe uscite del giornalista napoletano.

All'ex collaboratore de “Il Manifesto” è però stata concessa l'assidua compagnia d'un folto manipolo di guardie del corpo, che oltrepassa ogni ridicolo, schierando persino cani anti-bomba; eppure, rivela Pisani, “a noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta”. In cosa consistevano le pretese minacce subite dal giornalista campano? Si parla di volantini e scritte sui muri: armamentario da studentelli, tutte cose che hanno ben poco a che fare con il modus operandi dei camorristi. Si arriva così al “fiore all'occhiello” di Saviano, il presunto attentato con autobomba che avrebbe dovuto consacrarlo come uomo da abbattere, proiettandolo nell'olimpo dei Falcone e Borsellino: una chiacchiera presa subito per buona, che venne completamente smontata dalle indagini rivelandosi una clamorosa bufala, tuttavia strombazzata ai quattro venti e senza alcun rigore dalla grancassa dell'informazione-spettacolo di sinistra.

D'altro canto, gli scritti del giornalista napoletano non tolgono certo il sonno alla criminalità organizzata, al punto che il film prontamente tratto da Gomorra viene clonato tale e quale dai camorristi e venduto nei circuiti della contraffazione. Tuttavia Roberto Saviano, sull'onda della popolarità antimafia e dell'autocommiserazione per la “vita sotto scorta”, è diventato un miliardario di fama mondiale che, oltre a sfornare libri alla moda e presenziare ovunque, collabora a testate come L'espresso e La Repubblica, negli Stati Uniti con il Washington Post e il Time, in Spagna con El Pais, in Germania con Die Zeit e Der Spiegel, in Svezia con Expressen e in Gran Bretagna con il Times. Intanto continua a lamentarsi dell'opprimente presenza di autista e guardaspalle (un benefit per cui tanti vip fanno carte false) piangendo sul conto in banca che giganteggia.

Una domanda da scrittore a scrittore: se Saviano fosse uno scrittore antimafia di destra, avrebbe avuto tanta attenzione, tale da meritare film e scorta? E perché ad Antonio Giangrande, autore del saggio di inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", che scrive 100 volte cose più gravi e pericolose, toccando gli interessi di mafie, lobby, caste e massonerie, oltre che denunciare il comportamento dei cittadini collusi o codardi, viene negato addirittura il porto d’armi ?

PARLIAMO DI MAFIA E MAGISTRATURA.

La lotta alla mafia è anche storia di martiri. Così la pensa Sgarbi con un suo editoriale del 29 ottobre 2010 su “Il Giornale”. «È una storia lunga e vergognosa. Comincio con le accuse naturalmente da Santoro di Leoluca Orlando nei confronti del maresciallo Lombardo, accusato di essere colluso con la mafia. Il maresciallo Lombardo era il comandante dei Carabinieri di Terrasini. Infamato, senza fondamento e senza prove, si uccise. Analoghe accuse furono fatte dal procuratore Caselli al tenente dei Carabinieri Canale, uomo capace, che godeva l'assoluta fiducia di Borsellino. Ucciso Borsellino, anche Canale fu ritenuto colluso con la mafia. Forte e coraggioso, ha resistito, per anni, difendendosi nei tribunali. Dopo essere stato mortificato e umiliato per anni, è stato riconosciuto innocente. Destino diverso è toccato a Bruno Contrada, condannato senza prove e difeso strenuamente da un avvocato «coraggioso e radicale» come Pietro Millio. Non si è mai capito che cosa abbia fatto Contrada, in che modo abbia favorito la mafia. Si sa soltanto che investigava in epoche e con metodi in cui non c'erano pentiti à gogo e intercettazioni ambientali capillari; e occorreva utilizzare i confidenti, garantendo loro favori e parziali impunità. Per la stessa ragione fu arrestato l’allora colonnello (poi promosso generale) Conforti, comandante dei Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio artistico. Cosa aveva fatto Conforti? Aveva, con grande abilità, ritrovato la reliquia della mandibola di Sant'Antonio da Padova sottratta al tesoro del santo dalla cosiddetta mafia del Brenta, per volontà di Felice Maniero detto "Faccia d'Angelo". Naturalmente Conforti ottenne lo straordinario risultato attraverso confidenti avvicinati con l'abilità di non farsi riconoscere e con gli espedienti del mestiere di ogni buon investigatore. Operazione non corretta. Dopo averlo difeso in televisione con grande veemenza, lo andai a trovare nel carcere militare di Peschiera dove stava in una cella stretta e profonda, come Silvio Pellico. Lo vidi in maniche di camicia, desolato, ma non umiliato, sconcertato ma non pentito, e lontano dall'idea di avere compiuto un qualsivoglia delitto. Era in carcere per aver compiuto il suo dovere. Sull'aereo che mi portava a Verona, il destino mi fece sedere a fianco di un ragazzotto dall'aria furba e tranquilla: era lo stesso Felice Maniero, pentito e quindi libero, autore del furto per cui il colonnello era in galera. Un rovesciamento tipico della giustizia malata. Avendomi riconosciuto, e conoscendo il mio temperamento, Maniero cercò di farsi piccolo nel suo sedile, forse temendo che io lo aggredissi. Ero più che indignato. Andavo a trovare un uomo onesto in galera, mentre il delinquente era libero e impunito. Dopo qualche tempo, a forza di urlare, Conforti fu liberato. Inutile dire che l'accusa era senza fondamento e che dopo qualche tempo fu completamente prosciolto (e, appunto, promosso). Erano comunque tempi difficili. Un uomo da tutti riconosciuto onesto e capace, e un valoroso magistrato, Luigi Lombardini, si convinse, al di là delle sue competenze dirette, a occuparsi del rapimento di Silvia Melis. La situazione appariva drammatica, perché non c'erano precedenti di rapiti in Sardegna che fossero stati liberati senza pagare il riscatto. Ci fu dunque una trattativa e Lombardini fece la sua parte, trattando e forse incontrando i rapitori. Nichi Grauso, con la tipica valentia dei veri sardi, mise la somma necessaria e andò direttamente a consegnarla. La Melis fu così liberata trovando il modo di far credere che fosse scappata. Indagati tutti, per non aver lasciato morire l'ostaggio e, in particolare, incriminato Lombardini per essersi messo in mezzo e aver tentato una trattativa. Fu così messo sotto inchiesta dalla Procura di Palermo, ancora una volta Caselli con quattro sostituti procuratori. Appena usciti dalla sua stanza i «colleghi» di Palermo, che erano ancora vicini, e in attesa di essere perquisito e magari arrestato, prese una pistola dal cassetto della sua scrivania e si sparò. La causa scatenante del gesto non mi pare dubbia; ma il Csm che si occupò della vicenda non osservò l’anomalia dell’irruzione e dello scioccante interrogatorio, ma concluse che tutto era stato regolare, che nessuno aveva commesso abusi, e che l'interrogatorio era stato formalmente corretto. Insomma, Lombardini si era ucciso perché era troppo sensibile. Cazzi suoi. In tempi più recenti abbiamo assistito a l'incriminazione e alla condanna di un altro generale, il generale Ganzer, che io ho anche incontrato e che, essendo stato tutta la vita diligente corretto e operoso nel combattere i trafficanti di droga, improvvisamente ha deciso di farsi complice dei suoi nemici e collaborare con loro a spacciare la droga. Un esempio di pentitismo alla rovescia. Si è pentito di essere onesto, ottenendo grandi risultati, nella zona grigia delle inchieste tra collaboratori e confidenti creandosi con ciò non imprevedibili nemici, è stato condannato a 14 anni di carcere, dunque dire che ha scelto di fare il carabiniere, non perché credeva nella giustizia e nell'onestà, ma perché non vedeva l'ora di avere l'occasione di diventare un criminale. Non diversamente aveva lavorato nei servizi segreti (da noi sempre sospettati delle peggiori infamie e, per così dire, fisiologicamente deviati) il generale Pollari, cercando di contrastare il terrorismo, non potendo pensare di farlo convertendo fanatici kamikaze islamici. Anche lui un genio del male, per di più servile nei confronti del governo. Perché non chiedere, per Pollari, 12 anni di carcere? Insomma, i criminali vanno cercati tra le forze dell'ordine. L'esempio più luminoso è il generale Mori. Torturato per anni, trascinandolo sotto processo per favoreggiamento aggravato in relazione alla mancata cattura di Bernando Provenzano, oggi viene incriminato per concorso esterno in associazione mafiosa. Naturalmente, a concorrere a questa attività criminosa, non poteva mancare anche un altro carabiniere, il colonnello Giuseppe De Donno, e anche il capitano Antonello Angeli. Insomma, tre carabinieri che avendo il compito di combattere la mafia, hanno pensato di favorirla. Per favorirla meglio, il generale Mario Mori ha catturato Totò Riina. E per farsi perdonare non ha perquisito bene il suo covo, così come il capitano Angeli non ha aperto la cassaforte di Massimo Ciancimino dove era custodito il «papello» con le richieste di Totò Riina allo Stato. Gente strana questi carabinieri: mettono in galera i mafiosi e non aprono le casseforti. Insomma il figlio e collaboratore del padre Vito Ciancimino mafioso, e il generale Mori, in questa insalata russa hanno le stesse responsabilità nel concorrere a sostenere la mafia. Ma di Ciancimino si capiscono le ragioni. Di Mori, di De Donno, e di Angeli restano misteriose. Inutile pensare alla missione compiuta. Occorre sputtanarli confondendo le carte in una assoluta mancanza di rispetto e di rigore morale per chi ha deciso da che parte del campo stare. Ma, inseguendo i criminali, si è fatto loro simile. Continuo a guardare con indignazione i professionisti dell'Antimafia e credo che la verità l'abbia intuita il colonnello De Caprio, il capitano «Ultimo», che, riconoscendo «le più raffinate manovre Corleonesi» parla di «un attacco da parte di forze oscure che dall'interno di Cosa nostra vogliono distruggere il valoroso generale Mori». Non sarà che Riina si vendica del generale Mori attraverso i magistrati che lo hanno incriminato?»

Filippo Facci, noto per la sua libertà intellettuale e il suo coraggio, su “Libero” del 12 aprile 2010, ha scritto un articolo intervista, che fa capire tante cose sulla Mafia e sull’Antimafia e su come i cittadini vengono influenzati dalla disinformazione di regime - Lui è quello delle «cattive frequentazioni» addebitate a Marco Travaglio, quello con cui divise una vacanza in Sicilia prima che l’arrestassero e poi condannassero per favoreggiamento. Non l’hanno condannato per mafia, però l’uomo che avrebbe favorito si chiama Michele Aiello, ex re delle cliniche, e lui sì, è stato condannato come prestanome di Bernardo Provenzano. È il maresciallo della Finanza Giuseppe Ciuro, detto Pippo: lui e il pm Antonio Ingroia, nei primi anni Duemila, dividevano la stanza dell’ufficio al secondo piano del palazzo di giustizia palermitano. Fu lui a indagare su Marcello Dell’Utri e sui finanziamenti Fininvest, fu lui che il 26 novembre 2002 compartecipò all’interrogatorio di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi dopo aver vergato un’informativa sul Cavaliere, e fu lui, pure, a deporre al processo Dell’Utri e a sostenere che un nipote di Tommaso Buscetta fosse stato socio di Fininvest. Ai tempi girava sotto scorta. E che destino, ora: addivenire a celebrità per via di un paio di vacanzine con Marco Travaglio, anzi «Marco», quel bravo ragazzo torinese che nel marzo 2001 aveva combinato un pasticcio alla trasmissione «Satyricon» di Daniele Luttazzi: Marcolino aveva rispolverato le accuse rivolte a Berlusconi e Dell’Utri quali «mandanti esterni» della strage di Capaci, anche se la Procura di Caltanissetta aveva fatto richiesta d’archiviazione un mese prima della trasmissione. E chi fornì il materiale per «L’odore dei soldi», che pure oggi è spazzatura? Tutta farina di Ciuro. Pippo aveva fatto il suo lavoro, Travaglio stava facendo il suo.

Io faccio il mio, e incontro Pippo Ciuro per puro caso: anche se non è un caso se sono a Palermo a passeggiare con un amico avvocato. È Ciuro a riconoscermi, mi dice addirittura che uno dei suoi figli mi legge sempre. E si chiacchiera. Non so neppure come arriviamo a parlare del generale Mario Mori e del Capitano Ultimo, alias Sergio De Caprio, l’uomo che arrestò Totò Riina.

«Sono due grandi, io lo so perché ho fatto le indagini, quindi lo so».

E allora perché li hanno messi in mezzo?

«La verità posso dirtela? È che volevano fottere Ingroia e Caselli, e io sono l’anello più piccolo di tutto questo marchingegno».

Non capisco neanche bene di che parla, ma questa non è un’intervista, Ciuro non ne rilascia mai. Questo è un colloquio rubato e registrato in piedi, per strada, alle 16 e 41 del 17 marzo.

Ingroia e Caselli però t'hanno mollato.

«Quando succede un casino del genere, e tu vieni messo all’angolo, prendi solo cazzotti. Se sei bravo esci alle lunghe, e io col passare del tempo ne sono sicuro che salterà fuori la verità. Ne sono veramente convinto... quand’era ora di andare a testimoniare, però, minchia, Pippo Ciuro andava bene per tutti... o quando c’era da andare a fare le cose più sporche, nel senso di andare a fare le indagini più complicate... Mi spedivano ovunque, in piena indagine sul covo di Riina, a sentire tutti... con ampia delega... ci sono i verbali...».

E perché ti avrebbero fatto fuori?

«Hanno voluto eliminarmi per qualcosa che devo aver fatto in buona fede, anzi ottima... non lo so, guarda, non l’ho ancora capito dopo 7 anni, te lo giuro sulla tomba dei miei genitori».

Pippo Ciuro fu arrestato il 4 novembre 2003 per concorso esterno in associazione mafiosa più altri reati: con lui un altro maresciallo, Giorgio Riolo. I due furono accusati d’aver sistematicamente informato delle indagini il citato Michele Aiello, anch’egli arrestato, ex primo contribuente siciliano, fondatore e patron della mitica clinica Santa Teresa a Bagheria dove fu curato anche Bernardo Provenzano. Ciuro, che sino a tre mesi prima era in vacanza con Travaglio e Ingroia, sarà definito «figura estremamente compromessa col sistema criminale» prima di essere condannato in Appello a 4 anni e 8 mesi per favoreggiamento e violazione di segreti informatici. Le accuse più gravi sono cadute tutte. L’indagine era stata condotta dai pm Giuseppe Pignatone, Maurizio De Lucia, Michele Prestipino e Nino Di Matteo.

«Di Matteo... allora ti confido una cosa: nell’estate 2002 e 2003 c’era pure lui lì a farsi le vacanze. Non dormiva lì, ma veniva a mangiare a casa mia insieme a Ingroia e a Travaglio e a tutti gli altri... e faceva le indagini contro di me. Tanto per farti capire che bell’ambiente siamo».

Ma anche Ingroia, in vacanza con te, sapeva che eri indagato?

«No, Ingroia non è vero che lo sapeva».

L’ha scritto Travaglio: «Seppi da Ingroia che lui era al corrente delle indagini su Ciuro fin da prima dell’estate, ma che, d’intesa con il procuratore capo, aveva dovuto continuare a comportarsi con lui come se nulla fosse, per non destare sospetti».

«No, Ingroia non lo sapeva. Sai quando gliel’hanno detto? Tra luglio e agosto... vatti a vedere le carte. Andiamoci a pigliare un caffè».

Fa un freddo poco palermitano. Si chiacchiera di tutto un po’.

Appiccicarti l’amicizia con Aiello può essere servito a qualcuno?

«Michele Aiello, sino a quando è successo quello che è successo, era uno che i signori magistrati ci sono andati a cena, si sono fatti costruire le case, e quando lui aveva bisogno correvano. Ma non solo loro».

Gli accenno di quando Ingroia, che Ciuro chiamava «il Professore» o «il dottore», si fece ristrutturare da Aiello un vecchio casolare del padre, a Calatafimi. Ingroia ne parlò al telefono con Aiello il 28 febbraio 2003, ore 9.36: discorsi su mattonelle, tramezzi e colori. Ingroia e D’Aiello cenarono anche assieme. Imbarazzante. Una vicenda poco approfondita, mi pare.

«E te lo sei chiesto perché? Ma non soltanto per la faccenda della casa di Ingroia, che è una minchiata. Il dottore Di Pisa: la casa gliel’ha costruita Aiello, gliel'ha ristrutturata... e ha pagato... anche a Paolo Giudice, oggi procuratore aggiunto, persona perbenissimo.... La domanda allora è: ma scusate, come vi rivolgete a uno, Aiello, che già dal 1996 compariva nei pizzini di Toto Riina?

Ma nessuno niente sapeva?».

I magistrati credevano l’Aiello mafioso fosse un altro, un omonimo di Caltanissetta.

«E intanto l’altro, quello coimputato con me, continuava  fare la sua vita normale... ma tu l’hai vista mai la realtà che aveva costruito?»

Un centro medico all'avanguardia. Frequentato da tutti, magistrati compresi.

«La gente non aveva davvero bisogno di andare al Nord... vai a vederla adesso, la clinica, l’hanno distrutta... che schifo. La vuoi fare una bella indagine a Palermo? Allora vedi tutti i sequestri giudiziari in mano a chi sono... sempre gli stessi... Altro che Ciuro che faceva le ferie con Travaglio. Che poi, di quei giorni lì, sbagliano tutti l’anno. Giuseppe D’Avanzo ha scritto su Repubblica che nel 2002 io e Travaglio abbiamo fatto le vacanze insieme: ma Travaglio era all’Hotel Torre Artale, a Trabia, e io al residence Golden Hill... lui certo, è venuto ospite invitato da me, a pranzo o a cena, ma al Golden Hill in vacanza ci è venuto l’anno dopo, una decina di giorni in cui ci saremo visti in tutto tre volte, anche perché io la mattina me ne andavo a lavorare regolarmente come Ingroia, che era lì. Certo, eravamo tutti nello stesso residence e poi magari la sera ci vedevamo».

Più tardi, Pippo Ciuro mi invierà la querela che sporse contro D’Avanzo dopo l’articolo del 14 maggio 2008, quando mise in mezzo Travaglio e scrisse che il maresciallo aveva rivelato segreti utili a favorire la latitanza di Provenzano. E questo, in effetti, risulta falso. Nella querela, poi, si definisce pure falso che «il mafioso Aiello, per il tramite del suo complice Ciuro, avrebbe pagato il soggiorno a Trabia del Travaglio». Ipotesi che, va ripetuto, nessuno su Libero o sul Giornale ha mai scritto o minimamente creduto, e tantomeno ha scagliato contro Travaglio ad Annozero: epperò Marcolino non ha fatto che difendersi da un’accusa che nessuno, appunto, a parte D’Avanzo, gli aveva mai rivolto. Ed è giunto a scrivere, Travaglio, che dei colleghi come Maurizio Belpietro o Nicola Porro «sguazzano nella merda».

Allora la faccenda delle ferie pagate è una balla.

«È una minchiata di quelle grosse».

E perché l’avvocato di D’Aiello l’ha confermata?

«Ma no, ha smentito tutto».

Quando?

«Non mi ricordo, ma ha smentito. Ma poi: se c’era il regime di amministrazione controllata, come avrebbe potuto l’hotel emettere due fatture? Una l’ha esibita Travaglio, pagata con carta di credito, mi pare 5600 euro...».

Lascia stare. Una sola cosa mi ha sempre incuriosito: perché a Torre Artale Travaglio ha speso quella cifra mentre l’anno dopo, al residence con voi per dieci giorni, solo mille euro per quattro persone? Non è un po’ poco?

«Ma no, costa così. Torre Artale costava tanto perché è a cinque stelle».

Solo mille euro. Interessante.

«È un’oasi di pace, dovresti venirci».

Pippo Ciuro mi parla a lungo del suo caso giudiziario, mi svela retroscena inquietanti e risvolti anche intimi, familiari. Questo è un colloquio rubato e perciò non ne parlerò: quando vorrà, lo farà lui.

«Se io esplodo ne ho per tutti, altro che bomba atomica. Qualcuno mi ha anche chiesto: siccome conoscevi i cazzi di tutti, perché non ti sei difeso attaccando? Ma io mi devo difendere solo per quello di cui sono accusato. La mia salvezza è che da questo D’Aiello io non ho mai preso neanche una lira... la prima volta che sento Marco però glielo voglio dire: la vogliamo organizzare una bella trasmissione? Però si dovrebbero scagliare contro certi giudici...».

Sì, buonanotte. Ma il rapporto con Travaglio è rimasto buono? Vi siete più sentiti?

«No, non... forse una volta sola».

Si chiacchiera ancora del suo caso, di ristoranti, di cannoli, di cassate, di giornalisti.

«Io li rispetto molto, i giornalisti. Me li ricordo che venivano sempre lì, che uscivano tutte le notizie sottobanco... perché escono tutte di lì, eh? È inutile ci prendiamo per il culo».

Si parla di intercettazioni. Dell’inchiesta di Trani.

«Ma per favore, ma quali talpe... ma da dove volete che uscissero le notizie, scusa? Guarda, se volessero non avrebbero bisogno di intervenire sulle intercettazioni: basta che nel decreto scrivi chi sono i responsabili delle intercettazioni, come si faceva una volta. I nostri capitani o colonnelli ci dicevano: tu e tu siete responsabili delle intercettazioni. Facevano un ordine di servizio. E se usciva una notizia ti facevano un culo così. Caso strano, le intercettazioni non uscivano mai... C’erano tuoi colleghi che mi mandavano i pezzi e mi chiedevano: sono giusti? A una donna, una cretina sgrammaticata, glielo riscrissi tutto... È una categoria, la tua... Quando ho testimoniato al processo Dell’Utri, minchia, ce ne fosse stato uno che ha scritto le cose per come erano andate...».

E i magistrati?

«Hanno bisogno delle prime pagine, sennò non possono vivere... stanno male».

Tu davi le notizie a Travaglio?

«No, assolutamente... a me nessuno mi ha mai usato. Quando lui voleva qualcosa telefonava a Ingroia. Comunque diglielo, al tuo direttore: state tranquilli, Travaglio non mi frequentava... Io poi, per voi, non sono un nemico, tu magari mi consideri un nemico, ma anzi... io compravo Libero, Il Giornale...». Ecco perché ti hanno messo dentro. Sono prove a carico.

Una parte rilevante della magistratura calabrese non è affatto estranea al sistema criminale che gestisce affari in Calabria.

Lo ha detto Luigi De Magistris, giudice del Riesame di Napoli, in un’intervista a Sky Tg24 del 18 ottobre 2008. E ha continuato: «Senza una parte della magistratura collusa, la criminalità organizzata sarebbe stata sconfitta. E il collante in questo sistema sono i poteri occulti che gestiscono le istituzioni. Io stavo indagando su questo fronte e ritengo che uno dei motivi principali del fatto che io sia stato allontanato dalla Calabria risiede proprio in questi fatti».

Luigi De Magistris ha perso il 16 settembre 2008 il suo incarico da pubblico ministero della Procura di Catanzaro per assumere quello di giudice del riesame a Napoli, prima di candidarsi con l'IDV alle elezioni europee. A chiedere il trasferimento di De Magistris era stato l’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella, circa presunte irregolarità da parte del pm nella gestione delle inchieste Why Not, Poseidone e Toghe Lucane. Solo gli atti di quest’ultima erano rimasti a De Magistris, mentre Why not fu avocata dalla Procura generale e la delega per Poseidone gli fu tolta dall’allora procuratore di Catanzaro, Mariano Lombardi.

Il Csm, al termine del procedimento, accogliendo solo in parte le richieste della Procura generale, ha deciso nel gennaio scorso la sanzione della censura ed il trasferimento di sede e di funzioni per il magistrato. Al magistrato, tra l’altro, erano stati contestati due provvedimenti «abnormi»: quello con cui aveva disposto che i nomi di due suoi indagati fossero chiusi in un armadio blindato e il decreto di perquisizione nei confronti di un magistrato di Potenza, in cui si riferivano fatti «non pertinenti come la relazione extraconiugale tra due magistrati».

Si è aperto un conflitto dagli esiti imprevedibili tra i magistrati di Salerno e quelli di Catanzaro: dopo il sequestro e le perquisizioni ordinati dalla Procura di Salerno a danno dei loro colleghi della Procura Generale e della Procura di Catanzaro è, infatti, scattata un'analoga azione nel capoluogo calabrese. Ma la questione Salerno-Catanzaro è diventato un enorme e senza precedenti caso nazionale che ha visto protagonisti il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il vicepresidente del Csm Nicola Mancino.

Il Capo dello Stato ha chiesto alla Procura di Salerno ed a quella di Catanzaro la trasmissione di "ogni notizia e - ove possibile - ogni atto utile a meglio conoscere una vicenda senza precedenti", le perquisizioni e il sequestro degli atti delle inchieste Why Not e Poseidone, al centro dell'attuale battaglia giudiziaria, inchieste che aveva all'inizio Luigi De Magistris, poi avocate e revocate. L'iniziativa decisa dalla procura calabrese "ha introdotto - secondo una nota del Quirinale - elementi di ulteriore, grave preoccupazione sul piano delle conseguenze istituzionali, configurando un aperto, aspro contrasto tra Uffici giudiziari".

Il Vice presidente del Csm, Nicola Mancino, è invece citato da De Magistris per una telefonata fatta ad Antonio Saladino, il principale indagato dell'inchiesta Why Not. Mancino, dopo aver precisato che quella telefonata fu fatta da un collaboratore del suo studio, si è detto pronto a lasciare il suo incarico. "Se una campagna di stampa - ha detto Mancino - dovesse incidere sulla mia autonomia, non esiterei a togliere l'incomodo". A Mancino hanno espresso solidarietà i componenti del Csm, secondo i quali gli attacchi al vicepresidente mirano a "colpire tutti noi" ed esponenti politici dei due schieramenti.

In una intervista a "Il Foglio", del 5 dicembre 2008, il Guardasigilli definisce lo scontro tra le due procure la dimostrazione che "siamo all'implosione di un ordine giudiziario, che non solo si trasforma in potere ma pretende anche di non incontrare limiti".

Ma è nel merito della vicenda che la guerra tra le due procure è aspra e non risparmia i magistrati di Salerno, sette in tutto, in testa il procuratore Luigi Apicella, che ora sono indagati per i reati di abuso e interruzione di pubblico ufficio. L'azione giudiziaria avviata dalla procura generale di Catanzaro è, secondo il procuratore Enzo Jannelli, una reazione ad un "provvedimento eversivo e finalizzato alla destabilizzazione di una istituzione dello Stato".

Mentre negli uffici giudiziari di Catanzaro l'attività diventava così frenetica, con un susseguirsi di incontri tra magistrati e carabinieri, a Salerno la notizia del sequestro e dell'indagine è stata appresa con sorpresa. Il commento del procuratore campano, Luigi Apicella, è secco e perentorio. "Non dico nulla - ha detto - non commento. La situazione è molto delicata direi delicatissima. Non abbiamo nulla da dire".

"Siamo sgomenti e preoccupati, ciò che è in gioco è la credibilità della funzione giudiziaria". E' quanto dichiarano il presidente e il segretario dell'Associazione Nazionale Magistrati, Luca Palamara e Giuseppe Cascini, in merito alla 'guerra' tra le procure di Catanzaro e Salerno sul caso De Magistris.

Che sia un caso «senza precedenti» lo ha scritto il Segretario generale del Quirinale, Donato Marra, nella lettera al Procuratore generale presso la Corte d'appello di Salerno. E «senza precedenti» è anche l'iniziativa di Giorgio Napolitano, che per ben due volte è intervenuto nella guerra tra Procure non in veste di Presidente del Csm, ma come Presidente della Repubblica, garante del buon funzionamento della giurisdizione e della sua «indefettibilità» sancita dalla Corte costituzionale. Il sequestro dell'inchiesta Why not da parte dei magistrati salernitani è un caso «con gravi implicazioni istituzionali» e la successiva reazione dei magistrati di Catanzaro, che hanno sequestrato gli atti sequestrati e iscritto nel registro degli indagati i colleghi di Salerno, conferma che è in atto un «aperto, aspro contrasto tra Uffici giudiziari». Il Capo dello Stato è «gravemente preoccupato» per il rischio, più che concreto, che il processo resti paralizzato sine die.

Il punto è che, già con il sequestro disposto dalla Procura di Salerno, gli atti di indagine rischiano di diventare pubblici prima del tempo. E questa è una delle tante anomalie di una vicenda che «ha mandato in tilt» il sistema giurisdizionale, spiegano al Colle. Si è verificato un corto circuito istituzionale per cui un processo è stato, di fatto, bloccato.

La vicenda, oltre che inquietante, è diventata surreale e grottesca. Salerno indaga sulle toghe di Catanzaro e sequestra l'inchiesta Why not (nessuna delle due Procure può proseguire le indagini); Catanzaro sequestra gli atti sequestrati e indaga sui colleghi salernitani; per motivi di competenza, l'inchiesta dovrebbe finire a Napoli dove, però, c'è Luigi De Magistris, parte offesa nel procedimento aperto a Salerno, per cui gli atti potrebbero dirigersi nella capitale... Ma se in questo bailamme ci fossero dei detenuti, che fine farebbero? A chi dovrebbero rivolgersi? Possibile che non ci fossero altri strumenti per acquisire le carte? È vero o no che Salerno aveva chiesto copia degli atti a Catanzaro e la risposta è stata negativa perché erano coperti da segreto? Oppure il rifiuto non stava in piedi?

Giovedì 4 dicembre 2008. È una data da annotarsi perché sotto questa luna la magistratura, come ordine (potere) dello Stato, autonomo e indipendente da qualsiasi altro potere, raggiunge il punto più basso del suo prestigio istituzionale; livelli infimi di attendibilità, di rispetto di se stessa, di ossequio alle regole.

Si infligge da sola, come in preda a una follia autodistruttiva, un'umiliazione che lascerà tracce durevoli. Coinvolge nella mischia, ingaggiata irresponsabilmente da due procure (Salerno, Catanzaro) anche il capo dello Stato. Giorgio Napolitano chiede notizie e, se non segreti, atti dell'inchiesta che i due uffici, come bambini prepotenti e irresponsabili, si sequestrano e controsequestrano accusandosi reciprocamente di reato.

Non c'è nessuno che si salva in questa storia, da qualsiasi parte si guardi. La procura di Salerno indaga, su denuncia di Luigi De Magistris, sugli ostacoli che hanno impedito al magistrato di concludere le inchieste Why Not e Poseidone. Mette sotto accusa i procuratori di Catanzaro; il procuratore generale della Cassazione che ha promosso il provvedimento disciplinare contro De Magistris; il sostituto procuratore generale che ha sostenuto l'accusa al palazzo dei Marescialli; il vicepresidente del consiglio superiore e, nei fatti, l'intero Consiglio.

Con un decreto di perquisizione di 1.700 pagine porta via da Catanzaro i fascicoli delle inchieste ancora in corso. La procura di Catanzaro replica che l'iniziativa è "un atto eversivo". Mette sott'inchiesta, a sua volta, le toghe di Salerno per abuso d'ufficio e interruzione di pubblico servizio e si riprende i fascicoli. E’ un abuso allucinante. Se vi fossero stati commessi dei reati non è Catanzaro competente su Salerno, ai sensi dell’art. 11 del Codice di Procedura Penale. Il Presidente della Repubblica, dinanzi all'inerzia di una procura generale della Cassazione, si muove. Con un'iniziativa senza precedenti e, secondo alcuni addetti impropria, chiede a Salerno notizie utili sull'inchiesta (contro Catanzaro) e più tardi lo stesso fa con Catanzaro (contro Salerno).

Sono ore di smarrimento per chi ha fiducia nella funzione giudiziaria. Un ufficio essenziale dello Stato di diritto pare affidato a bande che si fanno la guerra in modo così estremo e furioso da coinvolgere anche l'arbitro. Del tutto irresponsabilmente, stracciano ogni apparenza di decoro, di leale collaborazione istituzionale, ogni traccia di rispetto delle regole e delle sentenze già scritte. Un cittadino non può che pensare che la sua libertà personale, i suoi beni, la sua reputazione sono affidati a una consorteria scriteriata e incosciente. Non può che prendere atto che il "potere diffuso" della giurisdizione è fallito come si è rivelato una rovina la gerarchizzazione degli uffici. Non può che concludere che la magistratura (per l'imprudenza o l'arroganza di pochi) appare non consapevole che autonomia e indipendenza si declinano con responsabilità o si perdono per sempre.

A Marsala il 26 aprile 2009 si è tenuto un incontro con i cittadini per parlare di mafia, proprio con De Magistris, Salvatore Borsellino e Gioachino Genchi.

Tra le altre cose Salvatore Borsellino (fratello di Paolo) ci ha ricordato che il procuratore capo a Marsala, Di Pisa, era stato accusato di essere stato il famoso “corvo” che mandava le lettere anonime a Falcone e ci ha detto che l’allora sostituto procuratore generale Marianna Li Calzi lo assolse in appello e non si poté andare in Cassazione perché si ricorse alla inconsistenza delle prove (impronta digitale) raccolta dall’alto commissario antimafia Sica. La Li Calzi volò in parlamento con Forza Italia e successivamente divenne sottosegretario alla giustizia sotto il governo Amato.

De Magistris ha parlato chiaramente che in Italia ci sono fette di magistratura deviata e parti di essa avvezze ormai ad un certo tipo di conformismo che non “disturba” il potere dominante. Si è inoltre meravigliato per le mancate dimissioni del vice presidente del CSM, Nicola Mancino, non tanto per le vicende di cui lo stesso De Magistris è coinvolto, ma soprattutto per le cose che afferma Salvatore Borsellino, il quale accusa Mancino di mentire quando sostiene di non ricordare chi fosse Paolo Borsellino al ministero il primo luglio, 18 giorni prima della strage di via D’Amelio. Lo stesso Paolo Borsellino era stato richiamato urgentemente al ministero mentre stava acquisendo informazioni vitali dal pentito Gaspare Mutolo, il quale aveva fatto i nomi di Contrada ed il giudice Signorino. Giudice che sottoposto successivamente ad interrogatorio si suicidò.

Genchi ci ha informato che fra non molto tempo la verità su certi misfatti verrà fuori. “Verranno fuori tutte le porcherie che magistrati e politici corrotti e collusi hanno prodotto in questi decenni”. Quando c’era da accusarlo tutta la grancassa mediatica ha fatto uno scalpore unico, per il fantomatico “archivio” che non esiste. Quando il tribunale del riesame di Roma ha dichiarato che non c’era nulla di penalmente rilevante, nessuno che ne parla. I procuratori romani Tori e Rossi non ridanno indietro il materiale sequestrato, andando chiaramente contro la legge, e Genchi si è appellato addirittura a Napolitano. Pezzi di democrazia che cadono, come le case in Abruzzo.

Dalla vicenda "personale" di De Magistris, come quella di Salvatore Borsellino e Gioacchino Genchi passa gran parte del tessuto sociale, imprenditoriale-finanziario e ovviamente politico del nostro paese. Nessuno lo evidenzia però. Da quì emerge un quadro, che percorre con una linea di continuità i grandi affari, ma anche i misteri e le pagine buie della storia italiana.

Nei canali di comunicazione classici non viene detto questo, si cerca di confondere e di fare passare tutt’altri messaggi. No, non lo dicono che nelle indagini condotte dal vice-questore Gioacchino Genchi a poche ore dalla strage di via D’Amelio, con le tracce delle telefonate partite e ricevute dal Castello Utveggio (dove si trovava un centro dei servizi segreti) si percorreva passo passo l’itinerario che il giudice Borsellino stava facendo prima di avvicinarsi alla casa della madre. No, non lo dicono che nelle indagini che lo stesso Genchi stava portando avanti per le inchieste Why Not e Poseidone, commissionategli dalla Procura di Catanzaro da Luigi De Magistris, ci sono, ed è sconvolgente, gli stessi protagonisti, gli stessi personaggi nei quali il consulente informatico si era imbattuto nelle indagini successive alle due stragi del ’92. Entrambe queste inchieste, volte a fare chiarezza, l’una sui mandanti delle stragi e le altre più recenti, sui maxi-finanziamenti della comunità europea in Calabria hanno avuto uno stop.

No, non lo dicono che nelle indagini che lo stesso Genchi stava portando avanti per le inchieste Why Not e Poseidone, commissionategli dalla Procura di Catanzaro da Luigi De Magistris, ci sono, ed è sconvolgente, gli stessi protagonisti, gli stessi personaggi nei quali il consulente informatico si era imbattuto nelle indagini successive alle due stragi del ’92. Entrambe queste inchieste, volte a fare chiarezza, l’una sui mandanti delle stragi e le altre più recenti, sui maxi-finanziamenti della comunità europea in Calabria hanno avuto uno stop.

Il blocco che è stato dato, è chiaro che ha una stessa origine. Un altro punto cruciale del discorso di Salvatore Borsellino è quando parla del giudice Corrado Carnevale, il cui nome a molti non dice nulla, ma i cittadini devono sapere che è il giudice cosiddetto “ammazzasentenze”. Carnevale nella sua funzione di presidente della I sezione della Suprema Corte di Cassazione cancellò circa cinquecento sentenze di mafia, ma quando arrivò Giovanni Falcone alla direzione degli Affari Penali del Ministero, si accorse della sua posizione di monopolio, che lo poneva sempre con la stessa sezione a giudicare sui più grandi processi a “Cosa Nostra”.

Allora fu deciso un criterio di rotazione che portò alle sentenze del 30 Gennaio ’92, le quali confermavano le condanne di Palermo; stavolta però non c’era Carnevale a presiedere quel collegio. Dal giugno 2007 il giudice Carnevale, dopo la condanna, dopo quello che ha detto su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non solo nelle intercettazioni, ma confermandolo apertamente, e dopo una “piena assoluzione” è tornato a ricoprire il suo ruolo nella I sezione civile della Cassazione. Dire che tutto ciò è scandaloso, è dire poco.

Conoscere il fenomeno mediatico Luigi De Magistris significa conoscere l'intero sistema giudiziario.

Per farlo bene, senza essere accusati di faziosità da alcuno, presentiamo il personaggio così come viene visto da due giornalisti, che di lui hanno delle considerazioni opposte.

Marco Travaglio sull'"Unità.it" scrive di lui con un articolo denominato "Il coniglio superiore".

"Innocente. Capito? Innocente. Secondo la Procura di Salerno, che ha ricevuto per tre anni una raffica di denunce da parte dei suoi superiori e di suoi indagati, Luigi de Magistris non ha fatto nulla di illecito. Va archiviato perché s'è comportato sempre correttamente. Mai fughe di notizie, mai passato carte segrete a giornalisti, mai perseguitato né calunniato nessuno, mai abusato del suo ufficio. Semmai erano i suoi superiori a commettere contro di lui i reati che addossavano a lui.

«A causa delle sue inchieste - scrivono al gip i pm salernitani Nuzzi e Verasani - il dott. De Magistris ha subito costantemente pressioni, interferenze e iniziative volte a determinarne il definitivo allontanamento dalla sede di Catanzaro e l'esautorazione dei poteri inquirenti». Un complotto che coinvolge magistrati, politici, forze dell'ordine, ispettori ministeriali e forse membri del Csm, tutti allarmati dalla «intensità e incisività delle sue indagini».

Complotto andato a segno, se si pensa che i magistrati e i politici indagati da De Magistris, compresi quelli che hanno intercettato cronisti e agenti di polizia giudiziaria per indagare indirettamente sul pm, son rimasti al loro posto o han fatto carriera, mentre De Magistris è stato scippato delle inchieste più scottanti (Poseidone, Why Not e Toghe Lucane), poi trasferito dal Csm con espresso divieto di fare mai più il pm. Uno dei suoi indagati, l'ex magistrato ed ex governatore Fi Chiaravalloti, l'aveva previsto in una telefonata in cui proponeva di affidare lo scomodo pm alle cure della camorra: «De Magistris passerà gli anni suoi a difendersi». Ovviamente Chiaravalloti è rimasto al suo posto di numero due dell'Authority della Privacy. De Magistris invece, se la Cassazione non annullerà la condanna del Csm, dovrà sloggiare da Catanzaro e smettere di fare l'inquirente.

In un paese normale, ammesso e non concesso che queste vergogne possano accadere, ci sarebbe la fila sotto casa del magistrato per chiedergli scusa. Ma, nel paese della vergogna, non si scusa nessuno. Resta da vedere se finalmente, ora che le 900 pagine della Procura di Salerno sono depositate, il Consiglio superiore della magistratura si deciderà a fare qualcosa. Non contro De Magistris (ha già fatto abbastanza), ma contro chi «concertò una serie di interventi a suo danno», per infangare «la correttezza formale e sostanziale della sua azione inquirente»; contro quel «contesto giudiziario connotato da un'allarmante commistione di ruoli e fortemente condizionato da interessi extragiurisdizionali, anche di illecita natura»; contro chi l'ha bersagliato con «denunce infondate, strumentali e gravi; contro quegli alti magistrati, di Catanzaro e di Potenza, che spifferavano notizie segrete delle indagini di De Magistris per far ricadere su di lui la colpa delle indiscrezioni. Si dirà: queste cose si scoprono soltanto ora. Eh no: il Csm le sapeva dallo scorso ottobre, quando i pm Nuzzi e Verasani furono ascoltati a Palazzo dei Marescialli e anticiparono le prime conclusioni delle loro inchieste.

Anticiparono che le accuse a De Magistris erano frutto di un'abile orchestrazione (mentre le sue indagini erano «corrette e buone, senz'alcuna fuga di notizie»), e che gli unici illeciti, gravissimi, emersi riguardavano proprio i superiori e gli indagati di De Magistris. Fecero pure i nomi dei magistrati di Catanzaro, Matera e Potenza, degli ispettori ministeriali, dei giornalisti, dai politici e dei faccendieri indagati anche a Salerno per corruzione giudiziaria, minacce, calunnie, rivelazioni di segreti ai danni di De Magistris. Denunciarono le interferenze dei suoi capi, Lombardi e Murone, nelle indagini. Rivelazioni agghiaccianti che avrebbero dovuto suggerire l'immediata sospensione dei magistrati coinvolti e l'immediato stop a ogni procedimento disciplinare a carico del pm. La difesa di De Magistris questo chiese: che si attendesse l'esito delle indagini di Salerno. Il Csm non volle sentire ragioni e procedette con la foga di un plotone di esecuzione. Quasi che la sentenza di condanna fosse già scritta.

Per fortuna, contrariamente alla macabra profezia di Chiaravalloti, De Magistris ha finito di difendersi, e ora si spera che qualcun altro prenda il suo posto. C'è un giudice a Berlino. Anzi, a Salerno".

Di sponda opposta, invece, Filippo Facci scrive di lui su "Il Giornale".

“Luigi De Magistris è candidato alle elezioni europee, ma anche alla poltrona di peggior magistrato italiano della storia recente. Sin dal 1996, appena insediato alla Procura di Catanzaro, si occupò di reati contro la pubblica amministrazione, però nessuno dei suoi indagati è stato mai condannato per reati, appunto, contro la pubblica amministrazione. Neanche uno. Mai. Luigi De Magistris ha perso tutti i processi da lui istruiti tra i pochissimi che non si sono arenati prima ancora di giungere in dibattimento: cancellati, polverizzati, distrutti da gip, organi del riesame, Corti d’Appello, di Cassazione, Tribunali, chiunque abbia avuto modo di verificare l’incredibile imperizia di questo magistrato che con le sue inchieste totalmente fallimentari, ma ben orchestrate sui giornali prima di scoppiare poi come bolle, ha distrutto vite, persone, famiglie, imprese, posti di lavoro e reputazioni. Il tutto facendo anche spendere milioni di euro per consulenze allucinanti (vedi caso Genchi) e così pure per rifondere tutti gli innocenti ingiustamente incarcerati in anni di disinvoltura scandalosamente impunita, o meglio: premiata, ora, con una candidatura che rappresenta la fuga finale da una corporazione che lo stava progressivamente espellendo.

Luigi De Magistris è stato candidato da Antonio Di Pietro nonostante persino Massimo Di Noia, avvocato storico proprio di Di Pietro, ebbe a invocare dei provvedimenti disciplinari contro De Magistris. A dimostrare tutto questo non è soltanto l’inchiesta con cui il Giornale ripercorre la storia del candidato dell’Italia dei Valori: è stata la stessa Magistratura nelle sedi opportune, come si dice. Basti leggere, per esempio, il parere con cui il Consiglio Giudiziario si espresse sulla nomina di De Magistris a magistrato di Corte d’Appello: doveva essere un passaggio scontato, solo un timbro per consacrare una progressione in carriera, che i Consigli Giudiziari tendono quasi sempre a rilasciare in positivo: i magistrati giudicati negativamente, di norma, non superano l’uno per mille del totale.

Ma nel caso di De Magistris, il 18 giugno 2008, il relatore Bruno Arcuri fece suonare una musica che raramente si era sentita in una sede come quella: «Prendendo possesso del mio ufficio di Procuratore generale, iniziavo la mia esperienza in Calabria con vivo interesse per il dr. De Magistris dopo aver letto di lui sulla stampa e averlo visto in televisione. Fui subito colpito dalle notizie che andavo apprendendo presso i colleghi tutti: i procedimenti da lui istruiti, di grande impatto sociale perché istruiti contro i cosiddetti colletti bianchi, erano quasi tutti abortiti con provvedimenti di archiviazione, con sentenze di non doversi procedere e con sentenze ampiamente assolutorie.

Voci che mi stupirono perché in contrasto con la rappresentazione che ne davano i media». Seguiva un’analisi che denotava «una serie numerosissima di insuccessi », la «anomalia dei provvedimenti adottati », «procedimenti infausti », «omessa indicazione dei reati e delle fonti di prova», questo mentre De Magistris, ogni volta, «perseverava nell’adozione di provvedimenti immotivati malgrado i continui insuccessi».

Poi l’affondo del Procuratore generale: «Di fronte a una tale patologia, forse unica nel panorama delle iniziative di un pm, a meno di configurare una magistratura disattenta se non collusa concentri di potere criminale (come ha configurato De Magistris con esternazioni mediatiche), non si sfugge a un’alternativa secca: o le persone indagate sono tutte esenti da responsabilità penali, o i giudici di Catanzaro sono tutti non professionalmente idonei se non corrotti». «Il dato certo è che il dr. De Magistris è del tutto inadeguato, sul piano professionale e sul piano dell’equilibrio e sul piano dei diritti delle persone solo sospettate di reato, a svolgere quanto meno le funzioni di pm». E questa, mai pubblicata come tutto il seguito, è solo la relazione introduttiva. Il parere finale, reperibile nel fascicolo personale di De Magistris, è a tal punto esplicito da meritare un’altra citazione testuale: «Le tesi accusatorie sono cadute spesso per errori evitabili ed evidenziati dall’organo giudicante», «Sono emersi rilievi negativi per l’anomalia di molti provvedimenti adottati.

I procedimenti di rilevante impatto sociale hanno trovato clamorose smentite», «Il rapporto statistico indagini/giudizio lascia emergere un’anomalia, poiché numerosi procedimenti non hanno condotto a nessuna fondatezza. Non solo: nei provvedimenti si configurano violazioni manifeste di legge (addirittura diritti costituzionali), ovvero si radicano prassi senza alcun fondamento normativo, come in materia di intercettazioni». La conclusione del Consiglio fu clamorosa: «Giudizio finale negativo. Le voci capacità e preparazione presentano profili di evidente deficit», «gravi vizio lacune; tecniche di indagine discutibili; procedimenti fondati su ipotesi accusatorie che non hanno trovato conferma, attività carente dal punto di vista dell’approfondimento e della preparazione». Il Consiglio giudiziario, oltretutto, aveva preso in esame solo il periodo 2002-2008 e aveva quindi tralasciato i devastanti buchi nell’acqua fatti da De Magistris a partire dal 1996, quando gli addetti ai lavori, a Catanzaro, cominciarono a soprannominarlo «Giginedduflop».

Il magistrato il 12 luglio rispose alla bocciatura nel solito modo: denunciando. Preparando, cioè, carte bollate contro chi si era permesso di criticarlo o contraddirlo. «Ho tempestivamente informato la Procura di Salerno dei numerosi profili di illiceità anche penali contenuti negli atti sopra citati». Cioè: denunciò il Consiglio giudiziario, il cui parere, pure, sarà condiviso anche dal Csm. Poi negò la pura evidenza: «Non si tiene conto dei provvedimenti che hanno confermato le ipotesi dell’accusa». Ma di questi provvedimenti non ne citò neanche uno. In compenso scrisse questo: «La mia condotta è stata irreprensibile e le indagini svolte con correttezza e professionalità», «chi mi conosce sa quanto sia rispettoso di tutte le persone. Del resto, una persona non diviene per caso un punto di riferimento per tanti». Tanti elettori, se possibile. Denunciare i colleghi che avevano respinto i suoi provvedimenti, per De Magistris, era una regola sistematica già da anni: ha denunciato gip, giudici del Riesame, magistrati d’Appello e di Cassazione. Il tutto per decisioni sgradite, ma contro le quali, spesso, non ha mai neppure proposto impugnazione. Invece di fare ricorso, cioè, denunciava direttamente i giudici. De Magistris ha denunciato un avvocato generale dello Stato che aveva revocato un suo procedimento, revoca poi confermata dalla Cassazione. Ha denunciato un ispettore che aveva rilevato gravi irregolarità nella gestione della sua inchiesta Toghe lucane. Ha denunciato un pubblico ministero di Matera che lo aveva messo sotto indagine. Ha denunciato il presidente del Tribunale del Riesame di Catanzaro che aveva annullato diverse sue richieste d’arresto: annullamenti poi confermati dalla Cassazione. De Magistris ha inquisito la madre di una sua collega di tribunale, Maria Teresa Carè, prima che ovviamente fosse prosciolta; poi ha indagato anche il marito della collega prima che fosse assolto pure lui.

Ha indagato il marito del giudice Abigaille Mellace senza neppure iscriverlo nel registro degli indagati, e chiedendone pure l’arresto: richiesta respinta dal gip, dal Tribunale della Libertà e dalla Corte di Cassazione; la casa della collega fu tuttavia perquisita. De Magistris, ai magistrati di Salerno, racconterà di quest’ultima sua indagine omettendo che il marito della collega era stato completamente assolto. I magistrati di Salerno, sul punto, non gli fecero domande. Forse già sapevano, e sennò lo ripetiamo, che nelle indagini sulla pubblica amministrazione fatte da Luigi De Magistris a Catanzaro nessuno è mai stato condannato. Nessuno. Mai.

Luigi De Magistris fu nominato magistrato di tribunale l'8 luglio 1996. Giunse a Catanzaro quell'anno stesso, ventinovenne, e si presentò ai colleghi incitando sin da subito alla «moralizzazione della cosa pubblica». Quest'ultima espressione comparirà nell'ordine d'arresto della sua prima inchiesta importante, la 1471/96.

La clinica degli orrori. Così ribattezzarono un'indagine grazie alla quale ventuno incensurati di una clinica privata, Villa Nuccia, finirono in galera con le accuse più turpi: violenza contro un centinaio di malati mentali, omicidio dei medesimi, favoreggiamento di latitanti, falsi certificati per esonerare dei figli di mafiosi dal militare, cose del genere. De Magistris mostrò già allora una certa disinvoltura nel contestare il peggio: sequestro di persona, omicidio, falso, maltrattamenti, associazione per delinquere finalizzata alla corruzione. Il clamore mediatico fu enorme, e la stampa prese finalmente conoscenza del personaggio: La vita in diretta (Raidue) si soffermò sul caso per settimane. Tutto era fondato sulle confidenze rese a De Magistris da Mario Ammirato, un ex infermiere; oltre alle sue parole, il nulla. Le richieste d'arresto iniziavano così: «Nell’ambito dell’attività di indagine rivolta alla moralizzazione della cosa pubblica...». Era partita la lunga rincorsa di Luigi De Magistris verso fantomatiche lobby di potere da perseguire a tutti i costi.

Tra gli arrestati principali c'era il primario Antonino Bonura, già medico militare pluridecorato con alle spalle diverse missioni all'estero: peraltro era medico legale nella stessa Procura che l'aveva arrestato, e dopo la carcerazione gli venne un infarto. De Magistris, a un anno dal primo arresto, lo incarcerò una seconda volta: fu l'unico errore di cui il magistrato ebbe a scusarsi pubblicamente. È di allora anche un primo tentativo di coinvolgere in qualche modo Giuseppe Chiaravalloti, ai tempi avvocato generale presso la Corte d'Appello e futuro presidente della Regione: il pm lo tirò in ballo sul presupposto che in clinica avesse abbracciato Antonino Bonura.

De Magistris chiese i rinvii a giudizio del caso ma l’udienza preliminare sfociò in una sentenza di non luogo a procedere per tutti: Vittoria Palazzo, Corrado Decimo, Vincenzo Lombardi, Achille Tomaino, Massimo Aria, Giuseppe Giannini, Francesco Trapasso, Alfonso Colosimo, Salvatore Moschella e Giovanni Ferragina. Prosciolti. De Magistris impugnò la sentenza, ma il 22 gennaio 1999 la Corte d’Appello di Catanzaro confermò i proscioglimenti in toto. La vicenda, complicatissima, si inerpicherà in un totale di undici processi in dieci anni, e alla fine saranno assolti tutti gli imputati tranne uno: Mario Ammirato, proprio lui, il confidente di De Magistris. Il cardiopatico Bonura e il trapiantato di fegato Salvatore Moschella, invece, ricevettero rispettivamente 50mila e 180mila euro per ingiusta detenzione. Ma la clinica era ormai sputtanata e dovettero cederla. La Corte d'Appello liquidò ingenti riparazioni anche per gli altri.

Sono di allora i primi scontri con Giancarlo Pittelli, avvocato dei succitati e negli anni a venire parlamentare di Forza Italia: per De Magistris una sorta di nemico pubblico. Sempre in campo sanitario, Pittelli fronteggerà il magistrato in molti altri procedimenti tra i quali uno discretamente demenziale: De Magistris accusò di falso alcuni farmacisti comunali che a suo dire non avevano obliterato alcune fustelle, ossia i talloncini dei prezzi che ci sono sulle scatole dei medicinali; tuttavia verrà fuori che i farmacisti non avevano potuto obliterare le fustelle perché De Magistris, per altro procedimento, gli aveva già sequestrato l'apparecchietto per l’obliterazione. Archiviazione.

Il secondo clamoroso buco nell'acqua fu il procedimento 496/97, in cui De Magistris accusò di abuso d'ufficio gli amministratori comunali Giovanni Alcaro, Giuseppe Mazzullo, Lucia Rubino, Valerio Zimatore, Domenico Tallini, Michelino Lanzo, Costantino Mustari e Fausto Rippa. L'accusa, in sostanza, fu quella d'aver riassunto in comune questo Fausto Rippa con una delibera irregolare. A stabilire che lo era, regolare, c'era già una sentenza del Tar, la numero 864 del 5 settembre 1995: ma De Magistris chiese il rinvio a giudizio lo stesso, e il 15 dicembre 1997 il giudice decise per il non luogo a procedere. Motivazione: insussistenza del fatto. L'appello di De Magistris verrà dichiarato inammissibile.

Provveditore, anzi procuratore. L'indagine sulla costruzione del nuovo palazzo di giustizia di Catanzaro (609/96) fu naturalmente un altro flop. De Magistris ipotizzò dei generici «tentativo di abuso d’ufficio» e «tentativo di truffa aggravata» ai danni di Giuseppe Gatto e Antonio Rinaldi e Valerio Zimatore. L'impostazione accusatoria implicava necessariamente la complicità dei vertici della magistratura catanzarese, che formalmente non furono però indagati. Era ancora presto. Ovviamente il sequestro del palazzo in costruzione venne subito revocato dal Tribunale della libertà, ma attorno a De Magistris cominciarono a succedere delle cose strane. La trascrizione delle intercettazioni telefoniche di Giuseppe Gatto, infatti, fu artefatta: non solo la frase «provveditore generale» fu sostituita con «procuratore generale», ma tra parentesi fu messo il nome di Giuseppe Chiaravalloti, appunto procuratore generale a Reggio Calabria. Quest'ultimo, stupito, trasmise una rimostranza al Comando Generale dei Carabinieri: ma fu lui che fu inquisito per calunnia e diffamazione ai danni del capitano responsabile della trascrizione telefonica. Ovviamente Chiaravalloti sarà prosciolto in udienza preliminare e anche in Appello, mentre il capitano responsabile della trascrizione se la caverà con delle sanzioni disciplinari; ma a questo buco nell'acqua, poi, si aggiungerà la richiesta di processare i succitati Gatto e Rinaldi e Zimatore con la decisione del giudice, il 25 febbraio 1998, di non processare nessuno. De Magistris fece appello. Respinto.

Non pago, De Magistris trasmise alla Procura di Messina (competente su Reggio Calabria) una nota dove si ipotizzava che Chiaravalloti avesse rivelato dei segreti d'ufficio: ma il giudice archiviò. Dalla sentenza peraltro si evinse che De Magistris aveva indagato su Chiaravalloti quando il medesimo era ancora avvocato generale a Catanzaro, ossia nella stessa sede giudiziaria dove operava De Magistris: una procura, cioè, aveva indagato su se stessa.

Se molti giovani avvocati rammentano De Magistris anche se non l’hanno mai incontrato, è per via della sua inchiesta su presunte irregolarità negli esami di procuratore legale a Catanzaro. Più che presunte, le irregolarità erano certe: risultò evidente, su 2.301 partecipanti all'esame, che 2.295 avevano copiato. Il problema è che De Magistris, pur indagando praticamente tutti i 2.000 candidati, non ebbe modo di dimostrarlo: il procedimento finì in nulla. Restò notevole la pretesa del magistrato affinché i commissari d'esame, davanti ai carabinieri, aprissero anzitempo le buste degli elaborati col rischio di invalidarle tutte.

Era un De Magistris ancora acerbo, comunque. Certe fisse, come quella d'inquisire soprattutto politici e magistrati, erano già ben delineate: ma ogni volta sbatteva la capa contro i controlli di legittimità dei suoi colleghi, ossia giudici, gip, gup, riesame, Appello, Cassazione, annullamenti, assoluzioni, proscioglimenti. Il De Magistris che tornerà a Catanzaro nel 2002, dopo un interregno nella natia Napoli, risolverà ogni problema adottando soprattutto un genere di provvedimenti che per essere spiccati non abbisognano neppure della fastidiosa convalida di un giudice: perquisizioni, sequestri probatori, interdizioni, fermi di polizia eccetera. Anche la sua propensione a intercettare mezzo mondo, alleandosi con le fantasie spionistiche dei vari Gioacchino Genchi, era tutto sommato ancora timida. Si stava solo scaldando.

Di ritorno a Catanzaro dopo quattro anni a Napoli, nel 2002, Luigi De Magistris tornò a scatenarsi con inchieste caratterizzate da perquisizioni, fermi di polizia e soprattutto sequestri, atti che non abbisognavano di nessun controllo da parte dei colleghi. Tra le sue nuove fisse, quella di sequestrare grandi alberghi o maxi strutture turistiche ancora in costruzione, creando spaventosi danni economici e mandando a spasso quantità incredibili di lavoratori.

Nel 2003 sequestrò due villaggi turistici a Botricello (Catanzaro) e mise sotto indagine diciotto persone. Il sequestro durò quattro anni e ogni finanziamento europeo del caso, circa nove miliardi di lire, andò perso. Il 13 maggio 2007, dopo quasi tre anni di udienza preliminare, il giudice Tiziana Macrì proscioglierà tutti i malcapitati e ne citerà la «condotta corretta e trasparente». Non mancò la comica: mentre i villaggi erano sotto sequestro, affidati quindi a dei custodi giudiziari, capitò un avvelenamento collettivo dei villeggianti: ma De Magistris mandò un avviso di garanzia ai proprietari estromessi. Meno divertente sarà la maniera in cui De Magistris, in altri procedimenti, cercherà di delegittimare il giudice Tiziana Macrì a dispetto del suo noto impegno in processi contro la criminalità organizzata.

Altro sequestro, nel marzo 2004, fu quello dei cantieri per la costruzione del paese-albergo di Davoli Marina nonchè di una struttura abitativa in località Berenice: De Magistris si concentrò sulla concessione edilizia n. 15 del 23/5/2003 e indagò un po’ di persone, suo solito. Orbene: il Tribunale della libertà revocò il sequestro per totale insussistenza dei presupposti, e il dissequestro divenne definitivo perché De Magistris, come moltissime altre volte, non fece neanche ricorso. Incalcolabili i danni alle imprese e ai titolari del progetto. A casa 1800 lavoratori.

Ma il capolavoro di De Magistris, a margine dell’evanescente e mai conclusa inchiesta «Toghe lucane», resterà il sequestro del Centro Turistico Ecologico Marinagri. Si tratta di un grande comprensorio ecologico e turistico, in fase di ultimazione, che prevede un porto marino e imponenti strutture ricettive e residenziali. Il magistrato tentò di sequestrarlo una prima volta nel 2007, ma il Tribunale della libertà e la Cassazione gli risposero picche. De Magistris ottenne ugualmente il sequestro, un anno dopo, in virtù di presunte violazioni del Piano di Assetto Idrogeologico: piano che la competente Autorità di Bacino aveva già ritenuto assolutamente regolare. De Magistris, per farla breve, sosteneva che il centro turistico fosse a rischio inondazione. Marinagri è stato promosso dalla Regione Basilicata e finanziato dallo Stato con 15 milioni di euro; il suo iter procedurale iniziò nel 1987 ed è passato al vaglio di governi, regioni, comuni e competenze. Un gruppo di privati ha già costruito e contrattualizzato opere per 100 milioni di euro, di cui 80 già pagati a 47 imprese appaltatrici: si parla di 1726 lavoratori fermi da più di un anno (senza contare i 293 acquirenti italiani ed esteri) e questo perché De Magistris non ha concluso l’inchiesta prima di salutare e candidarsi. Ora si confida che l’inchiesta finisca un po’ come tutte quelle di De Magistris, e che insomma scatti il dissequestro. L’Autorità di bacino, una decina di giorni fa, ha ribadito che Marinagri non correrà rischi di inondazione per almeno 500 anni. Il nuovo pm che ha ereditato l’inchiesta, Vincenzo Capomollo, si è già detto favorevole al dissequestro. Ma tutto tace, anche perché a complicare le cose c’è che De Magistris, nella sua inchiesta a strascico, ipotizzò collegamenti illeciti tra gli amministratori della struttura e alcuni magistrati di Potenza e Matera, più politici vari. Le persone coinvolte furono 14, e tra queste il senatore Nicola Buccico di An e i procuratori Giuseppe Chieco, Giuseppe Galante, Felicia Genovese e Iside Granese. Tra le accuse, ovviamente, quelle di aver cercato d’insabbiare un’inchiesta che era di sabbia già di suo.

A Policoro, dove vivono centinaia di famiglie investite dal sequestro di Marinagri, hanno addirittura costituito una «Associazione vittime di De Magistris» che ha già migliaia di iscritti. Il presidente di Marinagri, Vincenzo Vitale, ha chiesto al magistrato un risarcimento di 25 milioni di euro, mentre Antonio Tisci, capogruppo di An in Basilicata, l’ha messa così: «Sembra ormai un malvezzo di quella magistratura che segue le orme di Antonio Di Pietro quello di iniziare indagini, rendersi conto di non poterle portare a termine, gettare fango su un territorio e poi candidarsi utilizzando indagini incomplete come unico strumento di comunicazione». «De Magistris», ha scritto invece Nino Grasso, editorialista de La Nuova, «è come quei somari che a scuola fanno un uso disinvolto dei verbi e dell’ortografia, salvo addebitare ai professori l’incapacità di leggere tra le righe del suo tema».

De Magistris, nelle pause, sequestrava anche ospedali regionali. Agli albori del 2004, infatti, chiese il sequestro preventivo dell’intero Pugliese-Ciaccio di Catanzaro: ma il gip respinse la richiesta. Chiese anche l’arresto di dieci persone accusate di associazione per delinquere per via di un appalto di lavanderia: ma il gip concesse le manette solo per tre. Poi, il 24 febbraio 2004, De Magistris il sequestro se lo dispose da solo, con un provvedimento controfirmato anche da un altro magistrato. Immaginarsi il clamore: arrivarono anche le telecamere di Ballarò, e l’11 marzo Giovanni Floris dedicò al caso quasi un’intera puntata che fece molto arrabbiare i politici locali. Il Tribunale della libertà comunque revocò il sequestro dell’ospedale il 18 marzo successivo, ed evidenziò macroscopici errori di diritto. Il provvedimento fu definitivo anche perché De Magistris, dopo aver sequestrato un ospedale, non fece neanche ricorso perché fosse ri-sequestrato: forse aveva cambiato idea, e comunque le telecamere di Ballarò se n’erano già andate. Il procedimento, com’era chiaro sin dall’inizio, finì a Roma per competenza: e in quella sede, il 29 luglio 2007, il gip dichiarerà inutilizzabili tutte le intercettazioni disposte da De Magistris, e decreterà il non luogo a procedere per tutti. Prosciolti.

Ma non c’è spazio per elencare tutti i fallimenti di De Magistris, tutti gli innocenti sbattuti su giornali sempre informatissimi. A un certo punto il pm s’inventò che un giornalista di un periodico (subito arrestato) aveva ordito un piano per delegittimare alcuni magistrati di Reggio Calabria. Contestò l'associazione per delinquere all’ex parlamentare di Forza Italia Amedeo Matacena e anche agli avvocati Ugo Colonna e Francesco Gangemi, ma il Riesame annullò tutti gli arresti spiegando che le intercettazioni erano inutilizzabili anche perché tra gli interlocutori figuravano dei parlamentari. Informazioni di garanzia raggiunsero anche il sottosegretario Giuseppe Valentino (An), il presidente della Commissione antimafia Angela Napoli (Forza Italia), sinché il presidente dei gip archiviò tutto, denunciando gravi violazioni costituzionali nel comportamento di De Magistris. La Corte d’appello di Catanzaro s’incaricò di versare i danni a tutti gli innocenti arrestati.

Innocente era anche Rosa Felicetti, stimata professoressa catanzarese già protagonista di encomiabili iniziative nel mondo del volontariato. De Magistris la mandò ad arrestare assieme ad altre 56 persone con un’accusa da brivido: associazione per delinquere finalizzata all’introduzione di clandestini da avviare a lavoro, alla prostituzione e al traffico d'organi. L’accusa a Rosa Felicetti si tradurrà nell’aver assunto una badante clandestina per la madre morente, eventuale reato che, notò il gip, non prevedeva neppure il carcere. E in ogni caso reato non fu: le assoluzioni con formula piena furono la regola. Una delle regole di Luigi De Magistris, ormai maturo per affrontare le tre inchieste gemelle (Poseidon, Why not e Toghe lucane) che trasformeranno ogni sconfitta della giustizia in un suo successo politico.

E pensare che Luigi De Magistris su parentele e legami vari ci ha costruito intere e vagheggianti inchieste, tutte miseramente fallite. De Magistris, per dire, ha inquisito la madre di una sua collega di tribunale prima che ovviamente fosse prosciolta. De Magistris ha indagato il marito di un’altra sua collega prima che ovviamente fosse assolto anche lui. Tutte le sue istruttorie-patacca del resto sono intrise di «Tizio è molto amico di Caio», «ho visto Sempronio baciare Caia», poi varia gente «cugina di» e «parente di». Parentele e legami come preavvisi di colpevolezza. Il Consiglio giudiziario di Catanzaro, nel bocciare la sua nomina a magistrato di Corte d’Appello, nel giugno scorso stigmatizzò le sue «inconcludenti fonti di prova» in quanto corrispondenti a semplici «rapporti personali tra gli indagati». Legami e parentele, per lui, erano tutta roba buona.

E adesso? Che direbbe, ora, di uno come lui? Lui, mediaticamente, è stato fatto esplodere da Michele Santoro: e ora, a Salerno, è stato prosciolto da una cognata di Michele Santoro. Immaginarsi la connection che ci costruirebbe lui medesimo, considerando che un suo cognato (di De Magistris) è pm a Catanzaro e che una zia di sua moglie (la moglie di De Magistris) lavora proprio a Il quotidiano, giornale schieratissimo a suo favore. Chissà. Intanto è stato prosciolto dalla cognata di Santoro, anche se resta inquisito per calunnia a Firenze e per svariate altre imputazioni a Salerno. Sarà divertentissimo leggere le motivazioni scritte dalla cognata: anche perché le prove dei reati attribuiti a De Magistris (abuso d’ufficio e concorso in diffusione di notizie coperte da segreto) a noi mortali parevano davvero smaccate, perbacco.

Che Luigi De Magistris abbia fatto indagini anche a tempo scaduto non è un’ipotesi: è prova scritta, cartacea, stracerta. Per sapere che c’è stato uno scambio di notizie dalle inchieste di De Magistris ai giornalisti (Carlo Vulpio del Corriere incontrò De Magistris persino ad Eurodisney) basta leggere gli stessi giornali o, meglio ancora, le intercettazioni del caso. De Magistris, nell’agenda del suo cellulare, aveva memorizzato i numeri di Marco Lillo dell'Espresso, Sandro Ruotolo di Annozero, Carlo Vulpio del Corriere (una telenovela, la loro), e poi di Federica Sciarelli di Raitre (la incontrò in un albergo) e Antonio Massari della Stampa (che gli dedicò anche un libro) e Peter Gomez de l'Espresso (con cui cenò alla presenza di Gioacchino Genchi) e ancora Stefania Papaleo del Quotidiano: e molti, molti altri ancora. Due giornaliste andarono a casa sua, di De Magistris, a serata inoltrata; e una delle due preparò addirittura una rassegna stampa estiva personalizzata per il magistrato. Ma va tutto bene, non c’è stata violazione né niente. L’ha deciso la cognata di Santoro. Ci mancava pure lei.”

Altro magistrato rappresentativo del sistema giudiziario è Clementina Forleo.

Le sue accuse in un libro: «Indagare sulla destra va bene, ma se cambi colore di caimano ti fai male».

«Fino a Tangentopoli, e fino a qualche anno fa, il problema era dell’indipendenza della magistratura dal potere politico, adesso è dell’indipendenza del magistrato rispetto alla magistratura ». Il «singolo magistrato » che «non si vuole allineare, non si vuole schierare, vuole essere libero, finisce per pagare i suoi errori. E li paga cari». Parola del gip Clementina Forleo, che il Csm ha trasferito a Cremona per incompatibilità ambientale, la quale vede questa situazione come la conseguenza degli «eccessi» di Mani Pulite, specialmente nell’uso del carcere, che hanno «rafforzato il consenso popolare verso certa politica» e minato «la fiducia» nei magistrati.

Torna sul tema dei «poteri forti», Forleo, in un libro-intervista di Antonio Massari ( "Clementina Forleo. Un giudice contro. 2008, Alberti editore). Nel '94, quando lei diventò giudice a Milano, i «magistrati erano uniti» nella «battaglia fisiologica e sempre in corso» contro un potere politico che «aveva un colore ben definito: c’era un nemico». «Berlusconi?», chiede l’autore. «Il pool si ribellò a un decreto del governo Berlusconi» risponde parlando in astratto. I fatti erano «gravissimi, ma lo strumento carcerario doveva essere limitato ai più gravi». E anche se «il sistema era talmente radicato che c’erano poche vie d’uscita», non farlo fu un errore. Il risultato del rafforzamento del potere politico è che ora i magistrati sono «più prudenti» e gli inquirenti «finiscono comunque per rispondere alle logiche di potere interne, nonostante l’obbligatorietà dell’azione penale», ragiona Forleo, gip dell’inchiesta Unipol-Antonveneta, firmataria della custodia per il banchiere Gianpiero Fiorani, chiedendosi retoricamente se «Fazio (indagato) e sua moglie sarebbero rimasti liberi all’epoca di Tangentopoli». «Fiorani, in galera, c’è finito. Fazio invece no. Né lui che all’epoca dei fatti era il governatore della Banca d’Italia, né sua moglie che, peraltro, non mi risulta sia stata indagata, neanche per favoreggiamento, nonostante fosse anch’ella in contatto con Fiorani» con cui scambiava «informazioni importanti».

«Oggi si è rotto l’idillio tra certa magistratura e certa politica e ciò ha causato autentici scempi, quale il silenzio dell’Anm di fronte alla vicenda di Luigi De Magistris», il quale aveva scoperto che tra i magistrati potevano esserci «personaggi conniventi con i potentati politici ed economici». La magistratura faccia «i conti con se stessa» affrontando «la questione morale», perché «oggi il singolo magistrato è più debole» e c’è il rischio che qualcuno possa «scivolare in comodi compromessi», come le è già capitato di vedere con amarezza. Le sue posizioni a difesa di de Magistris, per la separazione delle carriere, contro le correnti e la richiesta al Parlamento di usare nell’inchiesta Unipol le telefonate degli allora ds Latorre e D’Alema («consapevoli complici di un disegno criminoso», scrisse) hanno dato il via ai «vergognosi attacchi» contro di lei, anche dalla magistratura: «Si sono toccati i fili che fanno morire. Perché fino a quando s’era attaccato il nemico della magistratura, il nemico di destra, era andato tutto bene. Avevo avuto la solidarietà. La magistratura era stata compatta nel proteggere il giudice Forleo. Poi, quando spunteranno caimani d’altro colore, tutti si dilegueranno».

Tre giorni dopo, lesse l’appello ai giudici del presidente Napolitano alla «riservatezza» e a non inserire in atti «valutazioni non pertinenti» come «una pressione» che le fece «male», «un’offesa al Paese». In un altro passaggio definisce caimano «il potere esecutivo, qualunque colore abbia». Il libro ripercorre i procedimenti del Csm che l’avrebbe trasferita dopo «un processo sommario», «una pagina nera nella storia della magistratura » che l’ha fatta sentire come «un dissidente perseguitato», dichiara. Lì parlò dell’ex procuratore Gerardo D’Ambrosio il quale, eletto senatore ds, si schierò «contro la trascrizione delle telefonate». Lo vide andare a pranzo con i pm delle scalate bancarie e la cosa la indignò: «Se qualcuno lascia la toga per diventare un politico, poi dovrebbe avere il buon gusto di non creare confusione di ruoli. Io non ho avuto dubbi sul rigore dei colleghi: colsi l’inopportunità del gesto di D’Ambrosio». L’ex procuratore ha sempre ribattuto che si trattò di un incontro occasionale e non si parlò delle inchieste. Una rivelazione, infine. Ha ricevuto la proposta di candidatura. Da chi? «Non dal centrodestra» né dall’Idv di Di Pietro.

Clementina Forleo diviene famosa come giudice quando scagionò dall'accusa di terrorismo internazionale due tunisini, Maher Boujahia e Ali Toumi, e il marocchino Mohamed Daki. Alcuni media italiani ed internazionali criticarono la sua decisione, motivata in base alla distinzione tra guerriglieri e terroristi (i primi compiono azioni contro obiettivi di natura militare, i secondi contro la popolazione civile). L'assoluzione fu poi annullata dalla Cassazione ed infine la seconda Corte d'Assise d'Appello, in data 23 ottobre 2007, ha rilevato la natura prettamente terroristica e non militare di alcuni dei piani contestati agli imputati ed ha condannato per terrorismo internazionale Mohamed Daki a 4 anni di reclusione mentre i due tunisini a 6 anni.

Altro fatto di dominio pubblico riguarda l'intervento della Forleo, in data 8 luglio 2005, in difesa di un extracomunitario, fermato in metropolitana senza biglietto da alcuni poliziotti, che hanno quindi tentato di arrestarlo. Il Gip è intervenuto, qualificandosi come magistrato, lamentando un eccessivo uso di violenza da parte degli agenti, che l'hanno successivamente querelata.

Il 28 agosto 2005 in un incidente automobilistico sulla strada tra Francavilla Fontana e Sava, nel brindisino, perde entrambi i genitori, il padre Gaspare Forleo, 77 anni, avvocato ed ex sindaco di Francavilla Fontana, e sua moglie Stella Bungaro, 75 anni, insegnante di matematica.

Nel 1992, Forleo venne criticata per non aver disposto il giudizio a seguito di una denuncia per diffamazione presentata dalla famiglia di Enzo Tortora contro il pentito Gianni Melluso, che in un'intervista ad un settimanale aveva ribadito le sue accuse nei confronti di Tortora. Nella vicenda Tortora il magistrato è stato investito da una bufera mediatica. “Quando la famiglia del giornalista – si racconta in  "Applausi e sputi. Le due vite di Enzo Tortora", il libro di Vittorio Pezzuto - querelò per diffamazione aggravata il pentito di camorra Gianni Melluso, che seguitava a sostenere la colpevolezza di Tortora, il gip Forleo nel dicembre 1994 assolse Melluso e se ne uscì con questa frase: ‘L’assoluzione di Enzo Tortora rappresenta in realtà soltanto la verità processuale e non anche la verità reale del fatto storicamente accaduto’. In sintesi, secondo la Forleo, Tortora, assolto in Appello e in Cassazione, poteva realmente essere stato un camorrista”.

A partire dall'estate 2005 Forleo ha cominciato ad occuparsi del caso Antonveneta, noto come Bancopoli. Il caso Antonveneta rappresenta la svolta fondamentale della carriera del magistrato che, nelle sue precedenti pronunce giudiziarie, aveva registrato critiche dall’esterno dell’ordine giudiziario ma era stata sempre difesa dagli organismi associativi della magistratura e dal CSM: è infatti alla luce degli sviluppi del caso che si è intrapresa una doppia azione nei suoi confronti, una per incompatibilità ambientale/funzionale e l’altra di tipo disciplinare.

La prima iniziativa, che ha prodotto la proposta di trasferimento e di affiancamento obbligatorio di Forleo con altri colleghi, ha avuto luogo nella prima commissione del CSM e reagisce alla bufera mediatica attivata da un’intervista resa dal GIP di Milano alla trasmissione di Rai-2 “Annozero”. Nella dichiarazione Forleo rendeva noto di sentirsi esposta a rappresaglie dei potenti per le inchieste da lei condotte, e di averne fatto menzione in un esposto presentato ai carabinieri e del quale era stata investita per competenza la procura della Repubblica presso il tribunale di Brescia. Nel corso della dichiarazione resa alla commissione consiliare del CSM presieduta dalla professoressa Vacca (autrice della proposta di trasferimento, accolta all’unanimità dei presenti), il giudice Forleo espose i fatti che avevano a suo modo di vedere corroborato la convinzione esposta nella trasmissione televisiva (colloqui con il suo superiore in Tribunale e con il giudice Imposimato), ma anche i suoi antichi sospetti in ordine alla scarsa professionalità delle forze dell’ordine pugliesi ed alle fonti che avrebbero passato ai giornali i contenuti di parte del suo esposto.

La seconda iniziativa ruota intorno alle inchieste del 2007 sui cosiddetti "Furbetti del quartierino". La procura aveva intercettato delle telefonate di imprenditori sotto inchiesta per reati finanziari e alcune di queste telefonate erano dirette a parlamentari. La Legge Boato imponeva in questo caso che le intercettazioni non potessero essere usate come prova senza che il parlamento avesse concesso l'autorizzazione. La procura passò quindi le telefonate a Forleo (in qualità di GIP) che doveva valutarne la rilevanza penale ed eventualmente richiedere al parlamento il permesso di usarle. Forleo chiese l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni che coinvolgevano alcuni parlamentari (Piero Fassino, Massimo D’Alema, Romano Cominciali, Nicola Latorre, Salvatore Cicu) non soltanto come prova contro gli imprenditori inquisiti, ma anche come materiale indiziario per poter inquisire alcuni gli stessi parlamentari che, secondo quanto scrisse nella richiesta, "appaiono [...] consapevoli complici di un disegno criminoso". Il presidente della Giunta delle autorizzazioni della Camera, deputato Carlo Giovanardi, definì la richiesta un’inammissibile anticipazione di giudizio, in quanto preannunciava che l’autorizzazione sarebbe servita a consentire l’iscrizione dei cinque parlamentari sul registro degli indagati. Per il Procuratore della Cassazione Delli Priscoli ciò avrebbe violato il principio secondo cui l’azione penale procede dal pubblico ministero e non dal GIP (quale è Forleo), la quale avrebbe così compiuto un atto abnorme sanzionabile disciplinarmente. Nella medesima audizione dinanzi alla prima commissione del CSM Clementina Forleo ricordò che in Procura a Milano il procuratore aggiunto Greco (in un’intervista al Sole 24 ore) condivideva la tesi che per l’iscrizione a registro occorresse la previa autorizzazione parlamentare, che la legge obbliga a far richiedere dal GIP; una tesi, peraltro, non condivisa da altre Procure, come Catanzaro, dove il pm Luigi De Magistris iscrisse Clemente Mastella a registro degli indagati in virtù di un’intercettazione di una telefonata con l’indagato Saladino, senza che di questo utilizzo fosse previamente richiesta l’autorizzazione alla Camera di appartenenza di Mastella.

L’avvicinamento per approssimazioni alla strada corretta per utilizzare le intercettazioni è stato reso particolarmente difficoltoso dalla scarsa giurisprudenza sulla “legge Boato” (140/2003) e dalle molteplici e divergenti prassi esistenti tra le varie Procure. In più, il GIP Forleo era stata destinataria di moniti alquanto espliciti, in ordine alle conseguenze processuali di un utilizzo privo di autorizzazione, dall’unico documento approvato dal Parlamento nell’imminenza dell’esplosione del caso, la relazione del senatore Giovanni Crema a nome della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato nella XV legislatura. Il testo ammoniva anche la Procura di Milano alla tutela della riservatezza delle conversazioni dei parlamentari, cosa che aveva convinto la Procura per due anni a mai sbobinare le intercettazioni in questione (secondo una prassi sino ad allora seguita solo per le erronee intercettazioni dei colloqui avvocato-cliente). Clementina Forleo quindi fu particolarmente garantista, per la funzione parlamentare, nel rendere noto a che scopo intendesse utilizzare le intercettazioni (invece di richiedere l’autorizzazione “in bianco” che avanzarono altri giudici in passato), ma facendo ciò si espose alla critica di aver surrettiziamente reintrodotto l’abolita autorizzazione a procedere (allo scopo di dare massimo rilievo mediatico alla richiesta e precostituirne l’esito di accoglimento da parte della Camera, sotto l’impeto dell’opinione pubblica). La procedura di trasferimento d'ufficio, attivata presso il CSM, non ha riscontrato mala fede nella condotta di Forleo, ma ha ritenuto che le pubbliche dichiarazioni rese dall'interessata abbiano leso il decoro dell'ordine giudiziario e giustificassero il suo trasferimento in altra sede.

Anche in questo caso di convesso soccorre Marco Travaglio su "L'Unità" con l'articolo "Uliwood party".

"Il tempo, dice il proverbio, è galantuomo. E aiuta a distinguere i galantuomini dai mascalzoni. Due galantuomini, Clementina Forleo e Luigi De Magistris, vengono attaccati, perseguitati, infangati da una campagna politico-mediatica che avrebbe stroncato un bisonte. Ma non si sono lasciati abbattere. Hanno risposto colpo su colpo nelle «sedi competenti». Ora in quelle sedi la verità comincia a emergere. A Salerno, dove De Magistris ha denunciato i superiori per le fughe di notizie che poi venivano attribuite a lui, le indagini sarebbero a buon punto: non è lontano il giorno in cui chi l’ha condannato al Csm dovrà vergognarsi e chiedergli scusa. E da Potenza giungono notizie analoghe sul cosiddetto «caso Forleo».

La Procura lucana, cui si era rivolta la gip di Milano, ipotizza un complotto architettato contro di lei da due pm e da un tenente dei Carabinieri di Brindisi. Nella primavera-estate del 2005, mentre Clementina intercetta lo sgovernatore Fazio e i furbetti a colloquio con i loro protettori politici, i suoi genitori vengono minacciati di morte con telefonate (o semplici squilli notturni) e lettere anonime, poi si vedono incendiare la tenuta agricola e la villa in campagna, infine perdono la vita in un incidente d’auto. Senza ipotizzare l’incidente doloso (alla guida c’era suo marito, salvo per un pelo), la Forleo ha denunciato da tempo alla Procura di Brindisi gli inquietanti episodi che l’hanno preceduto. Per scoprire chi ne siano gli autori, occorreva acquisire i tabulati telefonici non solo dei genitori della giudice, ma anche dei numeri chiamanti e soprattutto mettere sotto controllo il telefono di casa dei minacciati (gli squilli, non attivando il traffico commerciale, nei tabulati non risultano).

Ma il pm Alberto Santacatterina chiede ai carabinieri solo i tabulati, senza intercettazioni. E quelli fanno ancora meno: si limitano ad acquisire i tabulati di casa Forleo, non quelli ­fondamentali - delle chiamate in entrata. Lei chiama il tenente Pasquale Ferrari ­ lo stesso incaricato della sua tutela in Puglia - per sollecitarlo a fare il suo dovere. Telefonata burrascosa («si vergogni di indossare la divisa», avrebbe detto la giudice), che l’ufficiale segnala al procuratore di Brindisi, dottor Giannuzzi. Questi però l’archivia subito a «modello 45» (notizie non costituenti reato): un innocuo sfogo personale e nulla più. Intanto la Procura ha chiesto pure l’archiviazione sulle minacce ai genitori. Il gip però respinge la richiesta, ordinando indagini più approfondite. Che però non vengono fatte e il caso finisce definitivamente in archivio. Così si comincia a dire che Clementina, avendo denunciato ad Annozero «tentativi di delegittimazione da soggetti istituzionali e forze dell’ordine», è una pazza visionaria: s’è perfino inventata le minacce ai genitori. Il Csm, per la gioia di un Parlamento ancora sotto choc per l’ordinanza Unipol-Antonveneta, apre una pratica per trasferirla: per avere screditato integerrimi colleghi e ufficiali «con accuse infondate».

In realtà erano fondatissime, ma qualcuno ha fatto in modo di ridicolizzarle. È, appunto, il presunto complotto su cui lavora la Procura di Potenza, orchestrato «al solo fine di dare una lezione» alla Forleo. Occhio alle date. L’8 giugno 2007 il procuratore Giannuzzi archivia il caso della telefonata al tenente. Il 20 luglio la gip chiede alle Camere di poter usare le intercettazioni sulle scalate anche contro alcuni politici e finisce nella bufera. Il 14 agosto, mentre Giannuzzi è in ferie, il tenente Ferrari presenta una denuncia scritta contro la Forleo, ancora per la telefonata: guarda caso, proprio quand’è di turno per le questioni urgenti (per quelle ordinarie bisogna attendere la ripresa autunnale) il pm Antonino Negro, amico dell’ufficiale e del pm Santacatterina.

I tre, sempre secondo la Procura di Potenza, «concordano tra loro il testo della denuncia» e la data della presentazione per gestirla con le proprie mani e “dare una lezione” a Clementina, «esponendo una versione diversa da quanto sarebbe realmente accaduto nella conversazione telefonica tra Forleo e Ferrari». Negro, di turno proprio quel giorno, apre il fascicolo e se lo intesta. Ma non potrebbe: l’affare non è urgente. E poi dovrebbe avvertire il capo, che ha già archiviato il caso. Fortuna che la Forleo, in vacanza in Puglia, si arma di registratore, cerca di capire cosa le stanno facendo e scopre la tresca, subito denunciata a Potenza e al Csm. A quel punto pare che Ferrari si dica disposto a ritirare la denuncia.

Ma lei tira diritto e chiede al Pg di Brindisi di avocare l’inchiesta a Negro. Il quale, per tutta risposta, chiude le indagini a tempo di record e la rinvia a giudizio per minacce al tenente. Ora sulla strana triangolazione Ferraro-Negro-Santacatterina sta facendo luce il pm di Potenza Cristina Correale che, nell’invito a comparire inviato per interrogarli, li accusa di abuso d’ufficio (e Santacatterina anche di falso). Quale abuso? Presentando la denuncia «in periodo feriale, nella settimana in cui era di turno il dr. Negro per far sì che il predetto venisse designato titolare del procedimento in violazione delle tabelle in vigore in ufficio, veniva arrecato intenzionalmente a Forleo un danno ingiusto». Cioè l’apertura di un processo per un fatto già archiviato. Altro danno: le indagini lacunose sulle minacce ai genitori.

Lì Santacatterina e Ferrari «indebitamente omettevano di curare l’effettiva acquisizione dei tabulati», anche se poi il pm, nel chiedere l’archiviazione del caso, «attestava falsamente» di averli «acquisiti ed esaminati» e di non aver trovato «telefonate utili alle indagini» (ipotesi di falso). Un bel quadretto che, se confermato dalle indagini, costringerà un bel po’ di politici, giornalisti, magistrati, alte e basse cariche istituzionali a chiedere scusa alla Forleo. E magari a vergognarsi. Sempreché le scuse e la vergogna, nel frattempo, non siano cadute in prescrizione."

Carlo Vulpio, già inviato del Corriere della Sera è uno tra quelli che ha seguito passo passo le inchieste della procura di Catanzaro portate avanti dal Pm Luigi De Magistris. Le ha seguite così da vicino che è stato incriminato assieme al Pm e ad altri giornalisti per associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa. Lui, in particolare, per concorso morale.

Capi d’accusa mai ipotizzati da quando esiste la Repubblica. Ma torniamo al libro.

Vulpio parte da una premessa che poi è l’intuizione dalla quale partono le inchieste Why Not e Poseidon, le due sottratte a De Magistris: dimenticate Tangentopoli, o almeno quella delle mazzette, quelle dei soldi sporchi che passano di mano in mano, e che magari alla fine finiscono in un cesso. Storia vecchia.

Oggi la nuova Tangentopoli si basa su fondi pubblici, soprattutto europei, che non arrivano in Italia e poi vengono spartiti, ma hanno già il timbro di appartenenza quando partono da Bruxelles. Chi prova a scoperchiare questo sistema politicamente tacito e trasversale è proprio il Pm campano, che con perfetta coscienza va incontro alla “profezia Chiaravalloti” (ex presidente della regione Calabria, premiato con la presidenza dell’Authority) intercettato mentre parla con la segretaria: “Lo dobbiamo ammazzare… no… gli facciamo le cause civili per il risarcimento danni e affidiamo la gestione alla camorra… Vedrai, passerà i suoi anni a difendersi”.

Il libro è un’ottima chiave di lettura per capire su cosa davvero stava indagando De Magistris prima di essere esautorato d’ufficio, e soprattutto perché fosse fisiologica una simile fine per quelle inchieste: fare luce su questi traffici di denaro pubblico avrebbe significato far saltare i piani alti della politica e della magistratura.

Vulpio ricompone pazientemente ogni singolo tassello di un puzzle che alla fine sviluppa uno scenario da golpe: magistrati che fanno parte di comitati d’affari e acquistano proprietà da costruttori che nel frattempo stanno indagando, tecnici e funzionari che collaborano con il Pm (Gioacchino Genchi, il mago delle tecnologie investigative, il maresciallo Pasquale Zacheo, insostituibile archivio vivente, il prototipo del Bellodi di Sciascia) vengono trasferiti e viene loro revocato l’incarico, il tutto in un habitat in cui la massoneria ha gli uomini giusti nei posti strategici.

Grande spazio, naturalmente, all’inchiesta regina, Why not, che ruota attorno all’uomo del destino, Antonino Saladino, amico di tutti, di tutti quelli che stanno al potere, si intende. Vulpio non dimentica di occuparsi di Toghe Lucane, l’unica inchiesta rimasta in mano a De Magistris (ma c’è tempo anche per quella), che indaga su un comitato d'affari di politici, magistrati, avvocati, imprenditorie funzionari che avrebbe gestito grosse operazioni economiche in Basilicata.

Nel libro vengono raccontati degli episodi che a prima vista non c’entrano nulla con la storia giudiziaria che si dipana tra Lucania, una volta Felix oggi Appetix, e la Calabria. Come quella dei “fidanzatini di Policoro”, in Basilicata, apparentemente morti in un incidente poi diventato duplice omicidio, causato forse dalla paura che la ragazza raccontasse di festini hard a base di coca ai quali partecipavano magistrati e politici. Anzi, ormai è più che un sospetto.

Pagine e pagine dedicate alla “collega ideale” di Luigi De Magistris, Clementina Forleo, l’unica scesa veramente in campo per difendere il collega dalla canea che lo stava delegittimando. E l’unica, che assieme a De Magistris sta difendendo l’autonomia della magistratura, mentre altri colleghi sono sazi e soddisfatti del tacito accordo Mastelliano che accontenta tutti con posti al Ministero e favori amichevoli.

Carlo Vulpio racconta i fatti inediti delle devastazioni alle proprietà della famiglia Forleo in Puglia mentre Clementina si occupava di scalate a Milano: la villa demolita, il raccolto dato alle fiamme, e ultimo, lo strano incidente in cui morirono i suoi genitori.

Cose che il giudice, che secondo il Csm soffre di vittimismo, non ha mai raccontato.

E’ un libro pieno di circostanze, di date e di fatti, che si legge come un romanzo ma ha la struttura della migliore inchiesta giornalistica.

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”.

Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

Al momento giusto nell’indagine sbagliata. Qualcuno ha definito più o meno così, la posizione di Gioacchino Genchi, il consulente delle procure (ormai) più famoso d’Italia. Le cui consulenze, anche se nessuno ama ricordarlo, sono risultate più di una volta utili anche alle difese, per scagionare cittadini, che altrimenti erano destinati ad essere colpevoli predestinati.

Proprio il caso Genchi – propaggine del caso De Magistris - è tornato infatti alla ribalta delle cronache quando gli uomini del Reparto Tecnico del Ros di Roma, guidati dal colonnello Pasquale Angelosanto, hanno fatto irruzione nella luminosa abitazione-ufficio dello stesso Genchi.

Le motivazioni del decreto di perquisizione non si discostano dalle accuse mosse da tempo da certa politica, dal Csm e più recentemente dal Copasir. E riguardano la presunta illecita acquisizione “di tabulati di comunicazioni di membri del Parlamento” e la presunta illecita acquisizione “di tabulati telefonici relativi ad utenze in uso ad appartenenti ai servizi di sicurezza”. Insomma, lo ricorda anche il legale del Dott. Genchi, Fabio Repici, tutte contestazioni infondate se si legge “il decreto di sequestro emesso qualche mese fa dalla Procura di Salerno a carico di magistrati catanzaresi”. Un documento nel quale, spiega Repici, non solo c’è “la prova della correttezza dell’operato del Dr. Genchi”, ma anche quella “degli esorbitanti errori commessi dal funzionario del Ros che ha operato prima su delega della Procura generale di Catanzaro e che oggi opera per conto della Procura di Roma”. Quel Pasquale Angelosanto, autore di informative che Repici, ancora, ritiene siano caratterizzate da “abnormi incongruenze” e “marchiani errori”.

Nel decreto di perquisizione di Salerno a danno dei magistrati di Catanzaro, giudicato perfettamente legittimo dal competente Tribunale del Riesame, si legge che “sulle attività di acquisizione, studio, elaborazione analitico-relazionale dei dati di traffico telefonico, gli esiti delle indagini tecniche condotte dai Carabinieri del Ros – Reparto Indagini Tecniche su delega del Generale Ufficio avocante e compendiate nella relazione del 12 gennaio 2008 a firma del Colonnello Pasquale Angelosanto, non trovano conferma nelle risultanze investigative acquisite da questo Ufficio”. Eppure ieri, lo stesso Angelosanto, sentito anche come testimone davanti alla Disciplinare del Csm, guidava i Carabinieri che si muovevano, alla ricerca di chissà quali documenti, in tutti i luoghi “nella disponibilità” del funzionario di polizia indagato. Mentre lo stesso si trovava a Milano, da dove è rientrato solo in serata.

E chissà se al Col. Angelosanto (e magari a qualcun altro) avrà fatto piacere la straordinaria concomitanza delle perquisizioni con l’uscita di un articolo sul settimanale “Left”. Nel quale sono riportate le dichiarazioni dello stesso Genchi che attacca proprio il Reparto Operativo Speciale dei Carabinieri nelle “porcherie” del quale, dice, “mi imbatto dal 1989”.

L’articolo, che avrebbe potuto suscitare scalpore e creare fastidi al Ros, è infatti passato a notizia di terzo o quarto piano, o addirittura ignorato dai media. E in quell’articolo, tra l’altro, il consulente ricorda il suo ruolo da protagonista nelle indagini svolte in seguito alla strage di Via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. Mentre si accenna a quella presunta trattativa tra mafia e Stato sulla quale Massimo Ciancimino, figlio di Don Vito, ha recentemente cominciato a rilasciare dichiarazioni alla Procura di Palermo. Partendo proprio da Via D’Amelio.

Gioacchino Genchi, l'esperto informatico indagato per abuso d'ufficio e violazione della privacy, in un'intervista al programma "Reality" che è andato in onda domenica, 15 marzo, alle 23.40 su La7, ha ricordato quelle indagini. “Il motivo della mia delegittimazione – ha detto – nasce dalle inchieste sui mandanti esterni a quella strage”. Perché “nell’inchiesta Why Not, in cui ho collaborato con il procuratore De Magistris, ho ritrovato, senza volerlo, le stesse persone in cui mi ero imbattuto nelle indagini di Caltanissetta”. Forse persone che appartengono ai cosiddetti poteri forti (forze dell’ordine e servizi segreti compresi) dei quali si fa cenno nei decreti di archiviazione delle indagini sui mandati esterni alle stragi o nel processo in corso a Palermo o nelle stesse indagini sottratte al Dott. De Magistris che, è lui stesso a dichiararlo, stavano svelando l’esistenza di una nuova P2. Molto più potente e organizzata della prima.

Da questo punto di osservazione, se fosse confermato, apparirebbero ancora più chiari i violenti attacchi perpetrati ai danni del Dott. Genchi. E la definizione di uomo al momento giusto nell’indagine sbagliata assumerebbe un altro significato. Inoltre in quella occasione Genchi parla anche di magistrati che vanno a cena con personaggi in cui sono coinvolti in inchieste tenute dagli stessi magistrati e di cui si è chiesta l’archiviazione giorni dopo.

In un comunicato stampa, l’avvocato Repici ha dichiarato, ancora, che “ciò che si sta compiendo è la prosecuzione di una strategia di delegittimazione nei confronti del dr. Genchi, quale funzionario di polizia e consulente dell’A.g., che trova ragione nei fondamentali accertamenti fatti dal dr. Genchi sulla strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992”. Le indagini condotte oggi contro di lui, quindi, sarebbero soltanto il pretesto per fermare al momento giusto l’uomo che già in passato avrebbe arrecato non pochi fastidi.

A Palermo fa freddo. Anzi, c’è il gelo. Non è solo un fatto climatico, anche se fino a pochi giorni fa nevicava alle porte della città, ma è la bomba virtuale esplosa sulla testa del procuratore capo Francesco Messineo cha ha fatto precipitare la temperatura di colpo. Un articolo pubblicato su Repubblica ha ufficialmente riaperto la stagione dei veleni su uno degli uffici più delicati d’Italia. «Il cognato del procuratore è un uomo d’onore», titolava venerdì 6 marzo 2009 il quotidiano. E oltre all’inverno prolungato di quest’anno, a gelare le anticamere della Procura è sopraggiunta la memoria della “stagione dei veleni”, quella delle talpe e delle lettere anonime, quella dell’isolamento di alcuni magistrati, fra cui Giovanni Falcone, fra la fine degli anni Ottanta e l’estate delle stragi del Novantadue. Ovvio, il Csm apre subito un’inchiesta. Ovvio, i sostituti e i collaboratori di Messineo esprimono la propria solidarietà al capo. Il ministro Alfano sembra voler inviare un’ispezione immediata al palazzo di Giustizia di Palermo. Poi ci ripensa, gli ispettori rimangono a Roma.

Si comincia a pensare se non a una bufala intera a una “mezza” bufala, a una polpetta avvelenata a cui qualche cronista forse ha abboccato. Certo che quel titolo rimane. La carriera del procuratore di Palermo, dal 6 marzo 2009, probabilmente è segnata. Cosa è accaduto? Qualcuno ha fatto pervenire alla stampa l’informazione sul fatto che l’Arma dei carabinieri aveva intercettato due anni fa il cognato del procuratore capo, Sergio Maria Sacco, marito della sorella della moglie di Messineo, gettando sul parente l’ombra di concorso esterno a Cosa nostra. La vicenda era vecchia e archiviata, ma piove in forma di cronaca in questa gelida Palermo. Anche perché, si scopre dopo, Sacco non è stato neanche indagato per quella telefonata intercettata, e altre accuse dei decenni precedenti lo avevano visto assolto. Tutto a conoscenza anche del Csm da anni, appunto. Chi ha fatto la soffiata (che soffiata non è) alla stampa?

Mistero. Sono stati i carabinieri, o meglio i Ros, con cui comunque Messineo ha costruito un rapporto esclusivo tenendo fuori dal gioco grosso, a volte, le forze di polizia? Erano irritati che il loro primato sulle indagini a Palermo fosse messo in discussione dopo gli ultimi riassetti di nomine e promozioni in Procura? Oppure: la “gola profonda” va cercata nelle fila della polizia di Stato, nell’ottica dello scontro ormai sempre più palese fra le due forze? O ancora, si tratta di un’ulteriore offensiva da parte di chi ha già decapitato le procure di Catanzaro e Salerno, come raccontano gli stessi pm di Palermo in un comunicato? La vicenda Sacco è «molto datata, già nota al Csm e valutata come irrilevante in occasione della nomina di Messineo a procuratore» e «non ha mai prodotto all’interno dell’ufficio riserve o limiti di alcun genere, anche per il ritrovato entusiasmo nel lavoro di gruppo, nella tradizione dello storico pool antimafia, e per l’effettiva gestione collegiale dell’ufficio». E poi, sempre secondo i pm, la polpetta avvelenata viene servita in «coincidenza temporale col progredire di delicatissime indagini sulle relazioni esterne di Cosa nostra». Qualcuno disse, decenni fa, «si sente tintinnare di sciabole». A farne le spese, l’intero ambiente.

«Una volta per toglierci di mezzo ci ammazzavano - spiega un tagliente Roberto Scarpinato, storico pm del processo a Giulio Andreotti, a lato di un convegno - ora non ne hanno bisogno. Ci sono altri modi per ridurci al silenzio. Chissà, forse dovremmo esserne pure grati». Ci pensa un po’ su e chiede al suo collega Antonio Ingroia, sostituto procuratore, che gli siede accanto: «Come si chiamava quel ministro dei Lavori pubblici che diceva che dovevamo conviverci con la mafia?». Ingroia sorride: «Lunardi, credo fosse Lunardi». Conclude Scarpinato: «Ecco, sì, forse dovremo imparare a conviverci con la mafia».

A Palermo si gela. Fa freddo anche a piazza Principe di Camporeale cercando il sotterraneo sede dello studio di Gioacchino Genchi, che da investigatore della polizia, prima, e consulente in quasi tutte le principali inchieste “di punta” delle procure italiane, poi, è diventato, nel giro di poche settimane, il nemico numero uno della democrazia italiana. L’uomo che avrebbe confezionato dossier, secondo alcuni politici e la stampa nazionale, su milioni di italiani.

Sulla rivista Left e su agoravox si legge la testimonianza autentica di Gioacchino Genchi.

L’intervista è stata realizzata da Pietro Orsatti il 7 marzo 2009.

Pietro Orsatti (PO): “Il tuo lavoro non é quello di intercettare qualcuno?”

Gioacchino Genchi (GG): “No, assolutamente.”

PO: “Tu non hai mai messo una microscopia?”

GG: “No, assolutamente no. Guarda, io ho fatto una sola intercettazione telefonica in vita mia. Quando abbiamo cambiato casa ed avevo il telefono nello studio, in cucina ed in camera da letto. Io ero nello studio, dovevo fare una telefonata, ho alzato il telefono, ed ho sentito mia moglie che parlava con sua madre. Però non ci ho capito nulla perché parlavano in sloveno. Questa é stata l’unica intercettazione fatta in vita mia. Ho chiamato subito il tecnico ed ho fatto cambiare l’impianto di modo che, anche a casa mia, se uno alzava il telefono, gli altri dovevano stare isolati. Se quella é un’intercettazione quella si l’ho fatta, ma comunque non ci ho capito nulla perché parlano in sloveno, perché mia moglie é di origine della minoranza slovena di Gorizia”.

PO: “Tu ti sei ritrovato a dover fare un incastro fondamentalmente di dati telefonici ed utenze e questo tu non lo fai solo per WHY NOT, tu lo fai da decenni.”

GG: “Si da sempre. È molto semplice, te lo riepilogo in due battute. Parliamo di WHY NOT ovviamente e non di altre indagini di De Magistris, perché io questo lavoro a Catanzaro lo facevo già da diversi anni, prima in processi di mafia ed omicidio con sentenze, che hanno dato ergastoli per stragi, facendo esattamente le stesse cose, anzi forse facendo qualcosa di molto di più in termini di acquisizione di dati e di intercettazioni. L’indagine WHY NOT non aveva nessuna intercettazione. De Magistris non ha fatto intercettazioni né sapeva di disporne, tanto che quando mi ha conferito l’incarico – leggi bene la relazione che io ho fatto a Salerno sulla presunta acquisizione del tabulato del cellulare di Mastella – nel conferimento dell’incarico di De Magistris non é stato inserito di analizzare ed incrociare le intercettazioni ed i tabulati, perché De Magistris non sapeva quando mi ha dato l’incarico che avrebbe acquisito le intercettazioni. Dopo che mi dato l’incarico, eravamo a fine marzo. De Magistris le ha acquisite dalla procura di Lamezia. Dei carabinieri si sono presentati da lui ed hanno detto “dottor De Magistris, anni fa noi abbiamo intercettato Saladino in un’indagine per delle minacce che aveva subito e ci sono delle intercettazioni importanti”. Quindi il conferimento dell’incarico é già il primo atto importante con i quesiti, che sono gli stessi quesiti che da più di vent’anni io ricevo da tutti i magistrati d’Italia, compresi i magistrati che siedono e si sono seduti al consiglio superiore della magistratura,. Quindi se De Magistris deve essere sanzionato, perché quei quesiti sono debordanti, illegittimi etc, bisogna annullare tutte le sentenze di ergastolo che sono state date sulla base di quegli incarichi e bisogna punire tutti i magistrati d´Italia, giudici, pubblici ministeri, presidenti di Corte d’Assise, magistrati, che sono ancora in Cassazione e che sono pure alla Procura Generale della Cassazione e che mi hanno dato lo stesso identico quesito e lo stesso identico incarico. L’incarico, ripeto, non prevedeva di analizzare le intercettazioni telefoniche perché le intercettazioni di Saladino sono sopravvenute al processo WHY NOT, sono arrivate dopo. Le intercettazioni di Saladino mi sono state consegnate da De Magistris quando é venuto a Palermo ed abbiamo avuto una riunione di due giorni (19-20 aprile 2007) a venti-trenta giorni dal conferimento dell’incarico, ed abbiamo fatto una riunione operativa in cui dovevamo trattare altri temi ed alla quale hanno partecipato Woodcock, un ufficiale di polizia giudiziaria di Woodcock, il dottor De Magistris ed il consulente finanziario, il dott. Sagona, un ispettore in pensione della Banca d’Italia. Abbiamo parlato di tutto tranne che di Mastella, di Saladino e dell’indagine WHY NOT perché la riunione atteneva ad altri ambiti di collegamento investigativo con le indagini di Woodcock sulla massoneria in particolare. Questo é forse il punto che ha preoccupato. Di questo comunque ne parliamo dopo. Quando é venuto De Magistris mi ha portato queste intercettazioni, che noi abbiamo trattato nelle settimane successive. Quando abbiamo acquisito i tabulati, io ho scritto fino alla noia nelle relazioni successive che bisognava chiedere l’autorizzazione al Parlamento per le intercettazioni e per i tabulati dei parlamentari, di cui frattanto erano state individuate le utenze. Noi potevano individuare le utenze dei parlamentari, che avevano un telefono intestato a loro. Per esempio Prodi aveva un telefono intestato a Romano Prodi, che non é stato acquisito perché Prodi era parlamentare. Il senatore di Pietro aveva un telefono intestato ad Antonio di Pietro, di cui non si potevano certamente acquisire i tabulati. Ma se un parlamentare utilizza dei telefoni, che saltano da una società ad un ente ad un ministero e poi un altro ministero e poi alla Camera e poi al Senato, se un parlamentare non utilizza i telefoni a sé intestati e cambia sedici apparecchi con la stessa SIM e la stessa SIM la cambia sei volte, intestandola da una parte all´altra, come si fa a stabilire che é un parlamentare? Aggiungo che se un parlamentare attiva a nome proprio decine di schede, come é successo per un altro parlamentare, di cui sono stati acquisiti i tabulati, e le proprie schede vengono date a diverse persone e magari le stesse schede le troviamo in una dinamica di un duplice omicidio, la protezione va a quel parlamentare, ma non può essere estesa a tutti i soggetti, i portaborse, i colleghi di studio, gli avvocati - e forse anche non avvocati – dello stesso parlamentare, che ricevono le schede ed usano le schede intestate al parlamentare. Poi si dice nel rapporto del ROS, falsamente, che la scheda era intestata alla Camera dei deputati mentre non é vero. La scheda era intestata al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e non solo era cambiata l’intestazione, ma era pure cambiata l’azienda telefonica da TIM a WIND e poi da WIND a TIM di nuovo. Quindi era una confusione ed era impossibile stabilire, se non si faceva il tabulato, di chi era quel cellulare, che é stato acquisito per ragioni assolutamente diverse. É stato acquisito perché risultavano dei contatti telefonici nel range delle intercettazioni, quando già sapevamo solo il periodo delle intercettazioni, mentre il cellulare di Saladino si muoveva a Roma ed aveva altri tipi di contatti telefonici prima e dopo che erano già stati rivelati come di interesse. Quindi si é acquisito immediatamente il tabulato per non perdere il tempo pregresso. Perché qual é il punto di partenza? La test dott.ssa Caterina Merante ha riempito decine di pagine di verbali, in cui ha fatto tutta una serie di dichiarazioni che riguardavano una serie di soggetti e di fatti molto gravi con collusioni istituzionali, che andavano dai servizi di sicurezza alla politica al giornalismo al mondo degli affari, dell’imprenditoria, della finanza, delle forze di polizia, della guardia di finanza, della polizia di Stato, del Ministero dell’Interno. Queste dichiarazioni dovevano essere riscontrate. Le dichiarazioni della Merante sono della primavera del 2007 – iniziano a fine marzo – e riguardano fatti precedenti risalenti ai primi anni 2000. Quindi noi avevamo 24 mesi di tempo per prendere i tabulati. Ecco quindi l’esigenza di acquisizione immediata dei tabulati senza poter eseguire quelle verifiche che, quand’anche fossero state fatte, le acquisizioni sarebbero state legittime. Il ROS dice “Genchi si doveva fermare - e lo stesso dice Rutelli - perché quel cellulare era intestato alla Camera dei deputati”. Ma il ROS non dice che fra le stesse acquisizioni di diversi mesi dopo risulta che quando io avevo già individuato che quel cellulare era di Mastella avevo scritto al Pubblico Ministero che bisognava chiedere l’autorizzazione al Parlamento. Ma non solo, avevo anche scritto che bisognava chiedere l’autorizzazione al Parlamento anche per le intercettazioni indirette, perché così diceva la legge Boato. Io non sapevo che di lì a qualche settimana la Corte Costituzionale avrebbe dichiarato illegittime quelle norme della legge Boato, che prevedevano l’impossibilità di utilizzare le intercettazioni indirette dei parlamentari. Quindi questo era il mio scrupolo, il mio zelo istituzionale e la mia perfetta conoscenza delle norme e tutela del mio lavoro e del lavoro del PM. Basta leggere le relazioni, che il ROS guarda caso non ha citato. Perché ha dato alla Procura Generale, che se l´é chiesto perché era su commissione il lavoro fatto, e poi al COPASIR e poi alla procura di Roma, una rappresentazione totalmente alterata della realtà”.

PO: “Ma perché il ROS ha puntato te e perché su WHY NOT ?”

GG: “Probabilmente si sono voluti pulire il coltello, perché io dal 1989 mi imbatto in delle porcherie fatte dal ROS”.

PO: “Quindi é qui la vicenda, chiamiamola il conflitto tra una parte dello Stato ed un'altra.”

GG: “Io ritengo che abbiano voluto colpire me ben oltre la mia funzione di consulente dell’autorità giudiziaria, per quello che io rappresento, ho rappresentato, per quello che io ho fatto in passato e per quello che é stato il mio ruolo anche all’interno della Polizia di Stato.”

PO: “Tu rappresenti te stesso ed il tuo lavoro.”

GG: “Io rappresento me stesso, il mio lavoro ed una massa enorme di persone per bene con le quali io ho lavorato, compresi ufficiali e sottoufficiali del ROS, magistrati e funzionari di Polizia.”

PO: “Raccontiamola questa storia”.

GG: “Nell´89 c'é l'attentato all'Addaura ed iniziano una serie di sospetti”.

PO: “L´attentato all'Addaura é quello della bomba a danno di Falcone, che poi dicono che non era una bomba.”

GG: “I sospetti si materializzano poi nel ´92, allorché viene riferito ai magistrati di Caltanissetta, e prima ai magistrati di Palermo da un maresciallo dei carabinieri, un artificiere, che il congegno esplosivo sarebbe stato consegnato a un funzionario di polizia, che si trovava presente sul posto. Io immediatamente con La Barbera svolgo degli accertamenti, che riguardavano questo funzionario di polizia, che già per la verità era indicato per la sua amicizia con Contrada e per alcuni suoi rapporti che aveva avuto a Palermo con qualcuno di molto sospetto e dimostro che quel funzionario di polizia non avrebbe mai potuto ricevere quel congegno, che viene maldestramente fatto esplodere e brillare e non consente di stabilire chiaramente come era stato congegnato effettivamente quell’attentato e se si trattava di un vero attentato, o se voleva essere solo un’intimidazione. Io dimostro che quel funzionario si trovava in tutt’altra sede in quel momento. Questo maresciallo dei carabinieri é stato condannato per false dichiarazioni al pubblico ministero. Poi le occasioni per aver lavorato sulla trattativa e per essere stato messo anche da parte, io e La Barbera, quando stava per arrivare l’onnipotenza del ROS a Palermo, che avrebbe assicurato, come ha assicurato, grandi successi. Sicuramente la cattura di Riina é stato un grande risultato. Però se si fossero fatte pure le indagini sul covo di Riina. Io mi preoccupo di più di come ci si é arrivati alla cattura di Riina e possibilmente del fatto stesso che Riina sia stato reso latitante per tanti anni. Perché vedi le catture sono certamente un successo dello Stato, ma sono allo stesso tempo un successo dello Stato, che dimostra l’insuccesso o le connivenze dello Stato per tutto il tempo in cui i latitanti, poi catturati, sono rimasti tali. Plaudire a chi ha catturato Provenzano, quando ormai si trovava in uno stato quasi larvale, é certamente giusto perché é il risultato di un’attività di intelligence di poliziotti, che hanno dato la vita e sacrificato affetti”.

PO: “É la fine di un percorso diciamo”.

GG: “Però io mi chiedo, se in uno Stato che si rispetti e che si chiami tale con la S maiuscola, possa essere consentito che un soggetto di quel genere possa restare per più di quarant’anni latitante. E' veramente un assurdo pensare a questo e che poi venga trovato sotto casa a mangiare ricotta e cicoria, solo perché si seguono un paio di mutande. Io non penso che Provenzano si sia cambiato le mutande solo quella volta negli ultimi quarant’anni. Penso che se le sia cambiate altre volte o qualcuno gliele lavava pure queste benedette mutande, no?”

PO: “Ti faccio una domanda. Ritorniamo al ´92. Il ´92 é un anno cruciale per la Repubblica italiana. Sei d'accordo?"

GG: “Si, però le cose cruciali del ´92 nessuno le dice. Tutti parlano di quello che c’é dopo le stragi e nessuno dice quello che c’é prima. Nel ´92 ci sono due attacchi concentrici al sistema politico: uno viene dalle inchieste su tangentopoli e dalla procura di Milano e da altre autorità giudiziarie che seguono, alcune bene altre meno bene e alcune addirittura male. L’esempio ed il metodo investigativo della procura di Milano ed un altro che viene da un Presidente della Repubblica, che inizia a picconare il sistema, di cui aveva fatto parte e che lo aveva generato e che si chiama Francesco Cossiga. Si tratta di un Presidente della Repubblica che é giunto al limite del suo mandato ed inizia a togliersi tutti i sassolini dalle scarpe e che fa, oggi si direbbe, “outing”. Un Presidente della Repubblica che viene attaccato concentricamente e viene messo pure in stato di accusa con l´impeachment ed é costretto a dimettersi. Ed é costretto a dimettersi, perché c´é un qualcuno che in Italia vuole accelerare, c´é un qualcuno che probabilmente già studiava, od era in pantaloncini corti e si allenava, come accade per i giocatori che sono in panchina, per prendere le redini dell’Italia. E magari, per prendere le redini dell´Italia, avrebbe voluto pure utilizzare i percorsi dell’autorità giudiziaria, strumentalizzare alcune iniziative ed inchieste giudiziarie. Ma é ancora presto per parlare di questo. I dati sono questi: un Presidente della Repubblica viene fatto dimettere e la strage di Capaci avviene mentre si sta votando l’elezione del Capo dello Stato, interrompendo quello che é il corso, che quel Parlamento di inquisiti e tutto quello che vogliamo, comunque un Parlamento eletto, si stava dando, con la proposta di un altro ben diverso Presidente della Repubblica. Questi sono i fatti di cui pochissimi parlano”.

PO: “Però tu ti ritrovi in quel momento ad essere vice-questore a Palermo.”

GG: “No io in quel momento ero appena commissario. Io sono entrato in polizia nel marzo dell´86 e nel ´92 ero commissario capo da poco. Dirigevo la zona telecomunicazioni per la Sicilia occidentale ed in concomitanza delle stragi Parisi mi vollero affiancare un ulteriore incarico operativo di direzione del nucleo anticrimine, cioè un gruppo di una sessantina di poliziotti dotati di autovetture velocissime, di armamento e di equipaggiamento per eseguire immediatamente dei blitz e dei controlli, quindi un’attività operativa. Infatti sono stati i miei ragazzi a trovare nella collinetta di Capaci il famoso bigliettino con il numero del telefonino del responsabile SISDE di Palermo “NECP300 portare in assistenza”. Vedi caso NECP300 é lo stesso telefono che noi trovammo poi clonato ad Antonino Gioè e La Barbera nel covo di via Ughetti dopo la cattura, che fu fatta grazie ad un’operazione di intelligence della Procura della Repubblica di Palermo, dai magistrati Lo Voi e Pignatone.”

PO: “Quindi il 19 luglio tu ti ritrovi un paio di ore dopo?”

GG: “No, un po' prima. Sono andato in via D'Amelio con il mio autista che ancora si ricorda. Ci guardiamo mentre ancora le macchine erano in fiamme. Borsellino ancora fumava per terra. I pezzi di Emanuela Loi cadevano dalle pareti, dall’intonaco del palazzo, e certamente là era scoppiato un ordigno, che non poteva essere stato azionato sul posto. Perché se fosse stato azionato sul posto chiunque…”

PO: “Sarebbe stato come minimo ferito o mutilato”

GG: “No, sarebbe stato un attentato kamikaze e là non erano stati trovati dei morti, se non dei poliziotti e Borsellino. É da escludere che gli stessi poliziotti si siano fatti essi stessi un attentato, e non poteva essere nei palazzi adiacenti perché sarebbe stato travolto dall'onda d'urto. Le modalità dell'acceleramento nella posa della macchina hanno pure escluso che ci potesse essere un effetto ritardato, cioè che si preme e scatta dopo 5 secondi, perché c'é stata l'osservazione diretta di Paolo Borsellino, che é uscito dalla macchina, si é avvicinato al citofono e la macchina era messa proprio all'ingresso del cancelletto di via D'Amelio e quindi é stata quasi collegata all'impulso del citofono.”

PO: “C’é un unico punto.”

GG: “Guardando e considerando che tutta la parte montuosa dell'altura di Monte Pellegrino é inaccessibile, eccetto le strade, da cui non si poteva certamente mettersi sul ciglio della strada ed aspettare che Borsellino arrivasse, ho realizzato due ragionamenti. Uno deve essere stato fondamentale l'elemento informativo, quando Borsellino sarebbe andato là, perché tieni conto che non ci si può appostare con il joystick in mano per aspettare per mesi e giorni che arrivi Borsellino, qualcuno te lo deve pure dire quando Borsellino sta arrivando. Due ci vuole un punto di osservazione: siccome in via D'Amelio era stata fatta anche l'intercettazione del telefono dell'abitazione per carpire questi elementi informativi e siccome l'intercettazione abusiva poteva essere eseguita solo in un ambito ristretto, non poteva essere eseguita da Londra o da Milano o da Bruxelles, doveva necessariamente essere eseguita da un ambito molto ristretto – allora abbiamo ipotizzato a questo punto che ci fosse un'unica postazione di ascolto clandestino e di avvistamento. Poi abbiamo anche riflettuto su una cosa importante: Borsellino andava da decenni a villeggiare a Villagrazia di Carini, dove si poteva uccidere pure con la fiocina di un fucile subacqueo, perché andava là e prendeva il bagno. Infatti aveva il costume blu da bagno di TERITAL nella borsa, che si é sporcata per l'incendio della macchina, ma che era intatta. Si trattava di una borsa in pelle marrone al cui interno c'erano il costume e la batteria di un cellulare MICROTAC, la batteria quella doppia, batteria che poi i familiari donarono al fidanzato della figlia e che ha utilizzato fino a qualche anno fa. Per dire come quell’incendio non ha distrutto la macchina di Borsellino, non ha distrutto la borsa, non ha distrutto la batteria, che é di per sé infiammabile. L'unica cosa che si é infiammata, forse perché era rossa, é l'agenda che non si é più trovata.”

PO: “Ma questa borsa che passeggia per via D’Amelio in quei momenti… quel video é impressionante.”

GG: “Certamente quel video c'é. Magari forse la contestazione di furto dell’agenda mi é sembrata pure a me un po' eccessiva, però, insomma, io non so se le cose che ha detto l'ufficiale – io non le ho lette, non conosco gli atti - siano perfettamente aderenti al vero. Quindi probabilmente la contestazione di furto non ci sta, come é stato correttamente osservato anche dalla Cassazione, però certamente c'é una grossa discrasia di una borsa, che conteneva un'agenda e di un'agenda che non si é più trovata. Non solo. E’ tutto l'elemento acceleratore della strage dietro questa agenda, che sparisce con il tentativo di cancellare gli ultimi giorni di vita di Borsellino. Se poi vai a considerare quando é stata rubata la macchina, la 126 utilizzata per la strage,…”

PO: “Tu ad un certo punto ti ritrovi lì, Castello Utveggio, capisci che sono circolate…”

GG: “Guarda, io ti leggo quello che ho già dichiarato in un'intervista, che poi é stata per esigenze tecniche tagliata a proposito della vicenda Castello Utveggio e della vicenda Spatuzza. Tieni presente che dopo la creazione dei gruppi Falcone-Borsellino, io li lascio a maggio 2003.”

PO: “Lasci o te li fanno lasciare?”

GG: “No no lascio. Sono stato io ad andarmene, non é assolutamente vero che mi la fanno lasciare, sono stato io volontariamente ad andarmene. Questo risulta nei processi, non é stato smentito, c’é la mia nota con la quale io rientro in servizio.”

PO: “Perché c’é un po' di pubblicistica che dice che sei stato allontanato, tu sei stato trasferito un periodo.”

GG: “No, io sono stato trasferito nell'ottobre precedente, quando ci fu il tentativo di allontanare me e poi La Barbera. Anche La Barbera fu trasferito. Ed i gruppi nascono perché la dott.ssa Boccassini ed il dott. Cardella, in particolare, si impongono sul Ministero dell'Interno e devo dire anche Tinebra, perché queste risorse investigative e queste persone – in particolare il dott. La Barbera, io e basta – potessimo rioccuparci delle indagini. Perché, dopo che apriamo il fronte sui servizi, in particolare dopo che apriamo il fronte su Contrada perché sia chiaro, noi siamo stati trasferiti. Ma non era tanto un trasferimento mio e di La Barbera, ma lo smantellamento di una struttura della Polizia di Stato, perché tutto doveva passare in mano al ROS. Questo é il disegno ancora più perfido di questa scelta che in quel momento fu fatta”.

PO: “Ma che cosa gli hai fatto ai ROS, che cosa gli hai toccato? C´é un pezzo del ROS che comunque ti ha puntato.”

GG: “Sì, sicuramente”.

PO: “Non del ROS, dell’arma dei carabinieri.”

GG: „No, guarda, l'arma dei carabinieri lo escludo tassativamente, perché l'arma dei carabinieri é fatta di persone serie. Il pericolo é fatto da persone che entrano ed escono dai servizi di sicurezza e dal ROS e che, in questi vari passaggi, si dimenticano intanto di essere dei carabinieri. Perché é normale e fisiologico che una persona della Polizia possa andare nei servizi di sicurezza, alla DIGOS, all'UCIGOS, allo SCO e poi rientrare e fare il questore o qualunque cosa. Però la cosa importante é che questo poliziotto o carabiniere, che transita, che possa andare pure al RIS, alla territoriale, comandare una compagnia, poi comandare un reparto operativo, poi andare al ROS etc, sto carabiniere o ufficiale dei carabinieri non deve mai dimenticare di essere un carabiniere e di avere giurato fedeltà allo Stato in quanto carabiniere. Perché se dimentica questo, allora comincia ad essere molto pericoloso”.

PO: “Ma é una questione politica?”

GG: “Eh sì, é una questione politica. Io mi occupo di queste indagini con De Magistris e le tolgono a De Magistris, le tolgono a me ed affidano tutto al ROS ed il ROS combina il pataracchio, che ha combinato, secondo me, anche in danno dei magistrati di Catanzaro, perché Iannelli non é colui che ha avocato l'indagine. Iannelli é colui, a cui é stata prospettata una rappresentazione totalmente falsa di quelle indagini illegali, che il ROS ha fatto su De Magistris e su di me. Io vado da Mentana e Mentana subito dopo la mia trasmissione viene cacciato. Viene messo un nuovo conduttore di MATRIX, che la prima trasmissione che fa é con Mori del ROS. Un bravo giornalista, Nicola Biondo, fa un'inchiesta sul ROS sull'Unità e qualche giorno dopo stavano per chiudere l'Unità. Io adesso non vorrei, però comincia ad esser molto preoccupante. Qui il vero problema, ed io l'ho scritto nel mio blog, é l'attuazione della direttiva Napolitano. Io mi augurerei che Napolitano, che ha fatto quella splendida circolare, che voleva evitare concentramenti di potere e di informazione su questi organi di Polizia, che operano all'esterno dell’ambito istituzionale e giurisdizionale dello Stato, se non ha avuto la forza di farla valere come Ministro dell'Interno, quantomento, abbia la forza di farla valere come Presidente della Repubblica”.

PO: “Prima facevi un accenno alla massoneria.”

GG: ”La massoneria oggi bisogna porla in una dimensione diversa da come siamo stati abituati. Io mi sono occupato in numerosissime occasioni di indagini sulla massoneria ed ho realizzato una conclusione. Sono state fatte intercettazioni, sono state fatte perquisizioni e, per i ricordi che ho io, tutti i soggetti a cui sono stati trovati i paramenti massonici, i grembiulini, sono stati sempre prosciolti alla fine delle indagini. Magari c'erano condotte riprovevoli dal punto di vista morale e politico, però di reati nemmeno l'ombra. Il vero problema é invece quando i grembiulini non si trovano, i cosiddetti affiliati all'orecchio. I veri problemi non sono le singole logge, che poi tra l'altro sono sempre in lite tra di loro, i veri problemi sono quando queste logge vengono aggregate e si autoaggregano anche senza volerlo, per la sola volontà di chi sta facendo le indagini. Ritengo che in questo De Magistris, e nel mio piccolo forse anche io, abbiamo avuto il primato di aggregare delle logge e delle consorterie massoniche o paramassoniche, che possono poi anche chiamarsi Compagnia delle Opere o Opus Dei. Qualcuno, quando pensa alla massoneria, pensa solo ai compassi, solo a Gelli, pensa solo ad una cosiddetta massoneria laica. Io vi invito a leggere il libro di Pinotti, quello che c’é sull’Opus Dei, e vi assicuro che esce fuori un quadro di Gelli persino quale campione di democrazia al cospetto di quello che emerge dall’Opus Dei, se sono vere le cose, che sono scritte in quel libro”.

PO: “Quindi questa componente continua ad esistere, si parla addirittura di nuove possibili logge coperte.”

GG: “Sì sono tutta una serie di aggregazioni e sub-aggregazioni, che ormai utilizzano internet e non utilizzano più le regole della tessera, del numero e del codice e che utilizzano un sistema di accordi trasversali, specie con la frantumazione dei partiti e delle ideologie, con il valere degli accordi trasversali, dei sistemi degli inciuci, che partono dal mondo della politica per arrivare a quello della finanza, passando e controllando totalmente il mondo dell'informazione. È evidente che in una situazione di questo genere, specie se questi soggetti apparentemente disgiunti vengono attaccati contemporaneamente, é chiaro che si uniscano. Infatti l'unisono, anche parlamentare, degli attacchi che si sono avuti all'attività ed al lavoro del dottor De Magistris, ed in particolare al mio, con una mistificazione di numeri e nomi senza uguali che ha lasciato persino di stucco alcuni parlamentari. Io ovviamente non posso dire chi, ma io sono stato contattato da diversi parlamentari, che sono rimasti assolutamente stupiti di quello che é accaduto. Non riuscivano a capire il come ed il perché. Il come ed il perché sta nel fatto che pochi, ma buoni, si sono uniti ed hanno orchestrato l’inciucio”.

PO: “Davvero pochi?”

GG: “Fortunatamente si, sono pochi ma buoni nel senso di peggiori.”

PO: “Cioè che controllano comunque il sistema informativo”.

GG: “Si, controllano il sistema informativo ed hanno cercato di controllare il sistema parlamentare. Però secondo me non ci sono riusciti.”

PO: “Dici che qualche anticorpo c’é ancora?”

GG: “Si io credo che il nostro Parlamento e la nostra politica abbiano dei grossi anticorpi.”

PO: “Ma Mentana? Aveva già lanciato dei segnali.”

GG: “Mentana é stato un incontro-scontro interessante. Io non conoscevo Mentana, mi trovavo alla redazione della Sciarelli, a CHI L`HA VISTO, e stavamo per andare in trasmissione. Mi ha chiamato un mio amico, che é un regista della Sciarelli, dicendomi che un suo amico, che é un regista che lavora con Mentana, voleva contattarmi e voleva sentirmi, perché Mentana voleva fare una puntata di MATRIX con me. Contemporaneamente mi é giunto un messaggino di Mentana sul cellulare. Ci siamo sentiti, io gli ho dato la disponibilità e gli ho detto se aveva bisogno di qualche argomento. Mi ha detto che pensava a tutto lui e che stava organizzando. Gli ho chiesto allora di sapere cosa stava organizzando, anche per prepararmi, e mi ha detto che era tutto a sorpresa e non poteva dirmi nulla. Io non ho insistito, anzi ho apprezzato la serietà di un giornalista, che voleva lavorare sull'elemento sorpresa, anche per animare la trasmissione. Quindi mi ha invitato per il pomeriggio successivo per andare agli studi e registrare la trasmissione. A questo punto ho detto no: io vengo con piacere ed accetto qualunque tipo di sfida con lei, visto che sarà certamente una sfida da come si sta palesando, però io vengo in trasmissione solo a condizione che la trasmissione sia in diretta. Mi ha detto: “Ma dai che facciamo tardi, così poi la vediamo in TV e magari stiamo assieme la sera.” Io ho detto: “No, mi dispiace Mentana, ma io non vado in trasmissioni registrate.”

PO: “E lui ha accettato?”

GG: “Lui ha accettato ed ha detto “non c'é problema. Anzi così abbiamo pure un po' più di tempo per preparare i servizi e lavoriamo meglio anche nel pomeriggio”. Io non so che tipo di permessi abbia chiesto lui, però certamente lui voleva fare una trasmissione per rilanciare il Presidente del Consiglio. Lui probabilmente era andato sotto con l'intervista a Di Pietro e Saviano, ma con la mia si voleva riprendere, perché c'era un cartellone enorme, tanto che mi sono sentito male quando sono entrato in quello studio  nel vedere quella gigantografia con le dichiarazioni del Presidente del Consiglio. Tra l'altro, mi ha anche fatto dire prima, quello che io avevo già anticipato e cioè che, secondo me, Berlusconi era stato probabilmente depistato, quando ha detto “il più grande scandalo”, perché io l'ho sentito, quando lui in un'intervista per strada aveva detto “se sono vere le cose che riportano i giornali”, perché lui non era stato in Consiglio dei Ministri o al Copasir e non aveva sentito i servizi, ma si trovava in Sardegna, dove forse qualche entità dei servizi c'é pure, quantomeno quelli che stavano costruendo alla Maddalena e di cui mi stavo occupando, però Berlusconi non aveva modo di avere informazioni in tempo reale ed ha rilasciato una dichiarazione di assoluta gravità. Ma io che non ritenevo di avere un fatto personale con Berlusconi, anche perché devo dire con tutta onestà che, dall'indagine WHY NOT, Berlusconi non era assolutamente emerso e forse questo é stato il guaio, perché se fosse emerso, avremmo trovato più solidarietà. Quantomeno nella magistratura associata ed invece questo non c'é stato. Quindi il presidente Berlusconi si é scagliato diciamo contro di me. Allora Mentana, dopo che io difendo il presidente Berlusconi, nel senso di dire “secondo me il presidente Berlusconi é stato informato male”, io non posso prendermela con chi ha solo avuto la leggerezza nel riferire al presidente del consiglio un'informazione appresa dalla stampa - infatti io sono un uomo dello Stato e mi tocca difendere il Presidente del Consiglio indipendentemente dal fatto se l'ho votato o meno – mi lancia subito dopo il servizio di Berlusconi, che non parlava per strada con gli stessi giornalisti, a cui aveva detto le cose, che avevo sentito io, ma il comizio che aveva fatto dentro un teatro, nel quale non aveva assolutamente parlato dei giornali e se sono vere le cose che hanno riportato i giornali, ma ha dato per scontato che io avevo intercettato tutti gli italiani. Quindi tra l'altro, se avessi intercettato tutti gli italiani, avrei intercettato lui e quelli e quelle che parlavano con lui. Quindi avrei avuto quelle famose intercettazioni, che molti mi hanno chiesto quando lui ha detto “se esce una mia intercettazione io lascio l'Italia”. Io sono stato tempestato di telefonate “Genchi tira fuori le intercettazioni di Berlusconi perché così facciamo bingo”. Io ho detto mi dispiace, ma con tutta la buona volontà io il presidente Berlusconi non l'ho intercettato. Non solo: io non ho intercettato nemmeno le gentili signorine che si sarebbero intrattenute al telefono con il presidente Berlusconi. Con tutto quello che posso fare per l'Italia, io vi posso portare intercettazioni mafiose, di assassini, di criminali, degli amici di Saladino, che sono in Parlamento, ma il presidente Berlusconi purtroppo in questo non c'entra, perché se ci fosse entrato, forse i destini della nostra indagine, forse, sarebbero stati diversi. Però Berlusconi, insomma, certamente non devo insegnargli io come fare il Presidente del Consiglio. Lui si avvale delle sue fonti informative ed io gli auguro di avere buoni risultati. Però io devo dire una cosa: devono stare molto attenti a queste sirene che girano attorno ai palazzi. Un grande generale scrisse che un esercito che fonda le sue forze sull'arruolamento dei traditori vincerà le prime battaglie, ma perderà sicuramente la guerra”.

Ogni anno ricorre l’anniversario della strage di Capaci. Ma chi fa la festa a Falcone? Quelli che in vita lo attaccavano.

Al chilometro 4 tra Punta Raisi e Palermo, il 23 maggio 1992, esplosero 500 chili di esplosivo, che spazzarono via tre auto blindate, che non riuscirono a proteggere Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.

Purtroppo è anche il giorno, in cui la triste ricorrenza viene imbracciata elettoralmente da un genere di militanza che Falcone detestava: come l’antipolitica di Beppe Grillo e l’antimafia di Sonia Alfano. Questi sono al servizio di quell’Italia dei valori che, non solo dà voce ad Antonio Di Pietro e Luigi De Magistris e la stessa Sonia Alfano, ma da anni accoglie il maggior responsabile della campagna, che contribuì all’isolamento di Falcone poco prima che morisse: parliamo di Leoluca Orlando.

Il democristiano Leoluca Orlando era diventato sindaco di Palermo e aveva inaugurato una cosiddetta primavera che auspicava un gioco di sponda tra procura e istituzioni. Poi, nell’estate 1989, il pentito Giuseppe Pellegriti accusò l’andreottiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti palermitani, una calunnia che Falcone fiutò subito. Orlando cominciò a dire e non dire che Falcone volesse proteggere Andreotti. Durante una puntata di «Samarcanda» Orlando lo disse chiaramente: il giudice aveva dei documenti sui delitti eccellenti ma li teneva chiusi nei cassetti della Procura di Palermo. Una menzogna che verrà ripetuta a ritornello, dimostrata come falsa anche davanti al Csm. È di quel periodo anche un primo e sottovalutatissimo attentato a Falcone, una bomba ritrovata nella sua casa all’Addaura. Poi, quando Falcone accettò l’invito del Guardasigilli Claudio Martelli a dirigere gli Affari penali, la gragnuola delle accuse si fece ancora più infame. Dissero che si era venduto al potere politico e contro di lui si scagliarono la sinistra, gli andreottiani, il Giornale di Napoli («Dovremo guardarci da due Cosa Nostra») e poi Repubblica e anche il Giornale. Memorabile un titolo dell’Unità: «Falcone preferì insabbiare tutto».

L’autunno di Falcone. Poi, a macerie fumanti, ecco il tentativo di sfruttare la morte di Falcone per portare acqua a Mani pulite. Falcone morì un sabato, e il lunedì la Repubblica uscì in edizione straordinaria col titolo «L’ultima telefonata con Di Pietro». Svolgimento: «Provava un’affettuosa invidia per Colombo e Di Pietro», «si è saputo solo ieri che Falcone seguiva l’inchiesta sulle tangenti», «una tonnellata di tritolo ha spezzato il suo contributo all’indagine milanese». Perfetto un riquadrino di Repubblica: «Arriva Antonio Di Pietro da Milano, il giudice delle tangenti, il Falcone del Nord... con lui c’è Leoluca Orlando». Falcone, in realtà, stava solo disponendo alcune rogatorie internazionali chieste dal Pool Mani pulite: era il suo lavoro. Saranno Claudio Martelli e Ilda Boccassini, da emisferi diversi, a spiegare che Falcone era affranto perché il Pool di Milano a quanto pare non si fidava di lui. La verità processuale sulla sua morte la racconterà Giovanni Brusca, l’uomo che azionò il telecomando che uccise il giudice e tutti gli altri: «Era il primo magistrato che era riuscito a metterci seriamente in difficoltà. Lo odiavamo, lo abbiamo sempre odiato... Prendemmo la decisione iniziale di ucciderlo, per la prima volta, alla fine del 1982... Non tramontò mai il progetto di ucciderlo». Dal 23 maggio 1992 undici inchieste hanno affrontato la strage di Capaci, sei processi hanno inchiodato i corleonesi alle rivelazioni di Brusca, infinite altre indagini hanno esplorato e sfibrato la favola dei «mandanti» Berlusconi e Dell’Utri indagati a Palermo, Caltanissetta e Firenze: tutto sempre archiviato.

L’inverno della giustizia. Ma non mai finita. A Rebibbia corre appunto il processo a carico del prefetto Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, ex ufficiali del Ros accusati di favoreggiamento per aver impedito la cattura di Bernardo Provenzano nell’ottobre 1995: questa almeno l’accusa scaturita da una testimonianza del colonnello Michele Riccio dei Carabinieri. Difficile, ora, riassumere i passaggi pirandelliani che hanno portato a ciò che tanto affascina Antonio Ingroia: la già stra-affrontata, peraltro, tesi di un’improbabile trattativa tra Stato e mafia nel 1992-1993, qualcosa che avrebbe portato appunto lo Stato a trucidare Falcone e Borsellino.

Per capire il presente, a Palermo si ricorre sempre al passato. Così i conflitti di oggi si comparano con i veleni di ieri. Che si ripetono, come una maledizione che aleggia sul palazzo dell’antimafia. Il procuratore Piero Grasso, dopo aver estromesso dalle indagini su Cosa nostra gli uomini che ieri avevano lavorato con Giovanni Falcone, oggi «è ormai un generale senza esercito», ha commentato Massimo Russo, sostituto procuratore e presidente palermitano dell’Associazione magistrati.

Presente, passato: «Gli amici di Falcone sono stati sconfitti», ha commentato il procuratore aggiunto Gioacchino Natoli, dimettendosi dalla direzione distrettuale antimafia in contrasto con Grasso. Ieri, oggi: «Siamo tornati ai tempi del procuratore Pietro Giammanco», protestano molti sostituti procuratori. Giammanco, accusato di non voler fare le indagini antimafia e di emarginare Falcone, dovette dimettersi in seguito all’ondata d’indignazione (dentro e fuori il palazzo di Giustizia palermitano) che seguì alle stragi del 1992 in cui morirono Falcone e Borsellino. Se ne andò anche Giuseppe Pignatone, braccio destro di Giammanco, a cui Falcone aveva dedicato pagine terribili nei suoi diari. Un decennio dopo, proprio Pignatone, che non ha mai rinnegato il suo stile di lavoro contrario alle indagini in pool, è tornato a essere l’uomo fidato del capo (questa volta Grasso) e il plenipotenziario delle indagini su Cosa nostra a Palermo.

Oggi nessuno mette in discussione la correttezza di un uomo con la storia di Grasso. Ma il punto di crisi restano le indagini su mafia e politica: si possono mettere sotto inchiesta i potenti, si possono indagare i rapporti tra la mafia che spara e i signori della politica e degli appalti? Per un decennio, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, la procura di Gian Carlo Caselli (e di Roberto Scarpinato, di Guido Lo Forte, di Gioacchino Natoli, di Antonio Ingroia e di tanti altri) ha risposto sì. Sostenuta, almeno in un primo tempo, da un formidabile movimento antimafia nel Paese e perfino dal consenso, o almeno dal silenzio, di una politica debole, che attraversava un momento di crisi.

Oggi i tempi sono tornati difficili. La politica è tornata forte. E Grasso ha scelto la via di salvare il salvabile, di concentrarsi sulla mafia che spara, senza spingere l’acceleratore sui rapporti tra questa e i poteri. Così ha ostentato la sua discontinuità con la linea Caselli, per esempio non firmando il ricorso in appello contro l’assoluzione in primo grado di Giulio Andreotti.

Ha bluffato con Antonino Giuffrè, presentato come il nuovo Buscetta. Ha riorganizzato l’ufficio escludendo la vecchia guardia e concentrando le indagini più delicate nelle mani di Pignatone. Chi lo conosce bene spiega che su queste scelte hanno pesato anche motivi personali, come una sorta di complesso d’inferiorità nei confronti di Caselli e dei «caselliani», da cui vuole mostrarsi differente in tutto. Altri, invece, ricordano che anche Falcone, a metà degli anni Ottanta (ancora il passato per tentare di spiegare il presente) diceva che quando la politica è forte è meglio non entrare in rotta di collisione con il potere, «altrimenti non riesci ad arrestare nemmeno Nitto Santapaola».

Dove finisce la prudenza e comincia la connivenza? Oggi restano aperti i conti con il passato (rappresentato da Andreotti e dai suoi rapporti con gli uomini di Cosa nostra), ma anche con il presente: i «mandanti esterni» delle stragi del 1992-93, la mancata perquisizione del «covo» di Totò Riina, il ruolo di Marcello Dell’Utri, la nascita di Forza Italia in Sicilia, la gestione degli appalti, le indagini su Totò Cuffaro e su altissimi esponenti di Forza Italia... La nuova mafia si sta riorganizzando in simbiosi con la politica e gli oppositori di Grasso sostengono che se non si affrontano questi nodi, ha perfino poco senso «arrestare Santapaola». L’equilibrio tra prudenza e rigore è difficile.

Le accuse di Caponnetto a Andreotti, Lima, il procuratore Giammanco e i suoi alleati: in un libro la testimonianza dell' ex capo del pool antimafia di Palermo, “ ecco chi ha tradito Falcone e Borsellino.

Finalmente un testimone oculare, diretto e d' eccezione - al di sopra di ogni sospetto, insinuazione e veleno - racconta "dall'interno" la nascita, la vita e la distruzione del pool antimafia di Palermo. Ricorda le trappole che traditori, infidi come serpenti, sistemarono intorno a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che di quel pool furono le anime. Svela le pressioni che, in nome e per conto di Giulio Andreotti, furono fatte sugli uffici giudiziari per chiudere in fretta un' inchiesta pericolosa.

Annota il groviglio di interessi corporativi, correntizi e politici che ha paralizzato e paralizza il CSM. Indica con i nomi e i cognomi gli abitanti di quella "grande ed influente area grigia" del Palazzo di Giustizia, magistrati "che non emergeranno mai dal limbo dell' inefficienza, che hanno sempre una ragione in più per non indagare".

Il testimone d' eccezione si chiama Antonino Caponnetto, ha 72 anni, è stato consigliere istruttore a Palermo dal novembre del 1983 al marzo del 1988, è stato il magistrato che ha organizzato e diretto il pool antimafia, è stato padre amico e fratello per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

La sua testimonianza è stata raccolta da Saverio Lodato e sarà in libreria con il titolo "I miei giorni a Palermo" (Garzanti, editore).

Antonino Caponnetto è sempre pacato, minuzioso nella documentazione, freddo nel ragionamento. Non è tenero. Non è tenero con nessuno. Non risparmia nessuno. Né i magistrati "poco convincenti" che sistemarono ogni genere di ostacolo sulla strada di Falcone, prima, di Borsellino, dopo. Né intellettuali, come Sciascia, che, ispirato "per meschina bega" da qualcuno, "si prestò al gioco senza capire la gravità delle sue affermazioni mentre era in atto una campagna di stampa volta a delegittimare il pool e il maxiprocesso". Né politici come Giulio Andreotti e Salvo Lima.

Caponnetto ricorda "due episodi singolari": "un paio di telefonate di Ombretta Fumagalli, già membro del Csm, e uno strano incontro con Riccardo Boccia, che allora era commissario per la lotta alla mafia". "La Fumagalli - racconta il Consigliere - mi sollecitava a prendere in esame il procedimento contro Andreotti per l' accusa di falsa testimonianza nel processo Dalla Chiesa, durante il suo interrogatorio reso a Roma". "Dovrebbe esserle giunto un processo di competenza", dice la Fumagalli nella sua prima telefonata. E aggiunge: "Riguarda l' onorevole Andreotti. Lei capisce la situazione, quindi la pregherei di esaminarlo celermente". Caponnetto ha già assegnato il processo al suo vice. La Fumagalli "si infastidì per questa decisione e me ne chiese la spiegazione". Caponnetto è costretto a ricordare al consigliere del Csm "i suoi poteri". "La Fumagalli discusse ancora e io risposi: "La mia impressione posso dirgliela fin d' ora. Noi non siamo competenti, dal momento che il reato è stato consumato a Roma...". La spiegazione non convinse la Fumagalli che telefonò e ritelefonò per sentirsi finalmente dire che "gli atti erano stati trasferiti alla pretura di Roma". Racconta Caponnetto: "La Fumagalli cominciò a farsi insistente: 'Ma come è possibile che non ravvisiate la vostra competenza per connessione' . Fui costretto a risponderle seccamente per evitare il ripetersi di quelle telefonate. La mia impressione è che volessero che il procedimento fosse definito a Palermo, e non a Roma. Può darsi che a Palermo si sentissero più sicuri".

Il secondo singolare episodio riguarda Salvo Lima. Alcuni parlamentari di Democrazia Proletaria consegnano all'Ufficio Istruzione un dossier sul viceré siciliano di Andreotti. E subito da Roma partono le contromosse. Sentiamo Caponnetto: "Qualche giorno dopo, sul Messaggero, uscì un articolo di Andreotti su Lima. Quella mattina Falcone entrò nel mio ufficio con quel giornale in mano e mi chiese cosa ne pensassi. 'Attenti a quello che fate' : fu questa l' impressione che ricavai dall'articolo. Giovanni fu tassativo: 'Per me è un chiarissimo segnale: Salvo Lima non si tocca' ". "Qualche giorno dopo - continua il Consigliere - si fece vivo Boccia e mi convocò nel suo ufficio. Dopo una serie di preamboli superflui e cordiali... mi chiese se ero in grado di confermargli o meno l' esistenza di procedimenti contro uomini politici. Non fece il nome di Lima, ma ritenni di poter collegare questo suo interessamento alle polemiche che si stavano sviluppando. Lo rassicurai che in quel momento non c' era niente... e così poté tranquillizzare chi di dovere". "Se i pentiti avessero parlato", conclude Caponnetto, "le cose con Lima sarebbero andate diversamente": "quell'uomo politico, per anni, ha svolto la sua funzione di mediatore, di garante, fra le cosche di mafia e il potere politico".

Non tutti, in quel Palazzo di Giustizia di Palermo, si comportavano come Caponnetto. Non tutti "si tenevano lontani da certe conoscenze, da certe lusinghe, da certe frequentazioni".

Ne sono la prova le difficoltà che, una volta ritornato a Firenze Caponnetto, incontrano Falcone e Borsellino.

Difficoltà che hanno nomi e cognomi. Caponnetto li elenca a cominciare da quello dell'ex procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco ("Falcone mi aveva parlato dei suoi rapporti di amicizia con Mario D' Acquisto - andreottiano -, con forti riserve e perplessità"). "Ma Giammanco non è stato il solo ostacolo che Falcone e Borsellino hanno incontrato sul loro cammino. Sono rimasti vittime di una situazione in cui Giammanco aveva l'appoggio dei sostituti Pignatone e Lo Forte, e quello dei due procuratori aggiunti, Aliquò e Spallitta.

Posso ricordare le amarezze che Falcone mi raccontava al telefono, quando mi diceva di sentirsi come un leone in gabbia, o di quando mi riferiva delle umiliazioni - testualmente - e dei contrasti che lo dividevano dal gruppo dirigenziale della procura. Parlava proprio di gruppo dirigenziale... Falcone mi diceva spesso: "Non pensavo di trovarmi in questa situazione, devo trovare come uscirmene in qualche modo". Giovanni Falcone decise di farla finita quando dovette ingoiare il rospo, l'ultimo, delle requisitoria sui delitti politici Reina, Mattarella, La Torre. "Falcone - svela Caponnetto - non voleva firmarla perché riteneva che fosse necessario dare seguito alla memoria della parte civile della famiglia La Torre.

Si trovò di fronte un muro di no: quelli del procuratore capo e dei suoi sostituti. Poi si adattò a firmare la requisitoria. Era stanco delle polemiche ed era un uomo delle istituzioni: si rendeva conto che negare la sua firma a quella requisitoria, in quel processo, avrebbe significato fare sprofondare il Palazzo di Giustizia di Palermo in un' altra estate di scandali. Così decise di andare a Roma... e solo gli stupidi potevano pensare che un uomo, un magistrato come Giovanni Falcone, potesse legarsi a un qualsiasi carro politico o comunque essere condizionato nel suo lavoro, anche in minima parte, da influenze politiche". La palude che inghiottì Falcone, dopo la sua morte a Capaci, si strinse anche intorno a Paolo Borsellino. Caponnetto: "Che cosa non va? gli chiedevo. Mi ritrovo più o meno nelle stessa situazione in cui si ritrovava Giovanni". Ed esprimeva valutazioni analoghe a quelle di Falcone sullo staff dirigenziale della Procura. Aggiungeva: "Come carattere, io e Giovanni siamo diversi. Io cerco di evitare scontri frontali, aperti, cerco di svolgere il mio lavoro, nel modo migliore, di adattarmi alla situazione, di crearmi una nicchia... Ma non è facile, non sono molti quelli su cui posso contare. Anzi, sono pochissimi...".

Dopo anni i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio - che hanno segnato le resa della giustizia di fronte alle Mafie - sono ancora sconosciuti. “A volto coperto”, come si dice in gergo giudiziario, visto che diverse inchieste per scoprire il terzo o quarto livello erano partite. Alcune si sono perse, ovviamente, per strada, altre archiviate, o con qualche brandello ancora in corso. E’ lo spaccato della giustizia nostrana, sempre pronta ad assicurare alla galere il mafioso o il camorrista che viene trovato con la pistola fumante in mano o col pollice sul detonatore: mai in grado di colpire più in alto, vuoi sul fronte degli affari (il mondo degli appalti), vuoi, soprattutto, su quello politico, storicamente e strettamente legato agli altri due. Ora si riparte dell’agendina rossa. Quella che Paolo Borsellino portava sempre con sé, nella sua borsa. Anche quel 19 luglio 1992, quando la sua auto saltò in aria. Scrive Marzio Tristano su Antimafia 2000, una delle poche, battagliere riviste rimaste sul campo nel contrasto alla delinquenza organizzata: «Di quella borsa, affumicata e bagnata dagli idranti dei vigili del fuoco, esiste un’immagine, scattata da un fotografo professionista palermitano, che è stata appena acquisita dalla Dia di Caltanissetta. La foto ritrae un ufficiale dei carabinieri nell’inferno di via D’Amelio. Dietro si notano le auto ancora in fiamme, in mano l’uomo ha una borsa di cuoio. La procura di Caltanissetta - prosegue Tristano - vuole adesso ricostruire a ritroso il percorso della borsa fino alla sua apertura, descritta nel verbale di sequestro che attesta l’assenza dell’agendina rossa di Borsellino». Aggiunge Tristano: «E’ la prima volta dopo tredici anni che si indaga sui misteri di quella agendina di Borsellino, la cui sparizione venne immediatamente denunciata da colleghi e familiari. Un’agenda da tutti ritenuta importante per ricostruire incontri, spostamenti e attività di quei frenetici 56 giorni, dalla strage di Capaci, in cui Borsellino si tuffò nelle indagini antimafia con la consapevolezza del martirio». «Un’agenda che potrebbe contenere la verità sulla morte di Borsellino», è il commento di Carmelo Canale, il più stretto collaboratore di Borsellino, accusato a sua volta di collusioni mafiose, assolto (ma la procura ha presentato appello).

Così ricostruisce Simone Falanca nel suo volume Alfa & Beta: «L’ufficiale (Canale,) ha ricordato che Borsellino, una settimana prima dell’attentato, era stato da lui visto mentre scriveva “nella stanza di un albergo di Salerno dove eravamo andati per il battesimo del figlio di un suo collega. Era preoccupato - prosegue il racconto di Canale ripreso nel suo libro da Falanca - avevo capito che quell'agenda era il suo testamento. In quell’agenda, ne sono sicuro, c’era anche la verità su chi e perché aveva ucciso Falcone”». Continua Falanca: «Il dato interessante è che quell’agenda non può essere stata sottratta dagli attentatori, che agirono da lontano, con un telecomando. E’ stata certamente sottratta da qualche investigatore giunto tra i primi sul posto. Anche in altri atti degli inquirenti che indagarono sulle stragi del 1992-1993 ricompare il nome di Lorenzo Narracci, vicecapo del Sisde a Palermo fino a 9 anni fa. Narracci, oltre ad essere stato raggiunto da una telefonata di Bruno Contrada partita 80 secondi dopo lo scoppio della bomba che uccise Paolo Borsellino, è anche l’utente cui apparteneva il il numero di cellulare annotato su un biglietto, trovato dagli investigatori sulla montagna dove fu premuto il telecomando per uccidere Giovanni Falcone. Una ulteriore coincidenza vuole che proprio in via Fauro, teatro dell’attentato a Maurizio Costanzo, abiti proprio lui, Lorenzo Narracci».

Passiamo al secondo, nuovo elemento sul fronte delle inchieste per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. E’ fresco del 14 maggio il decreto di archiviazione con il quale il gip del tribunale di Caltanissetta, Giovanbattista Tona, mette una pietra sulla pista del Castello di Utveggio, secondo non pochi la chiave dei misteri per l’assassinio di Borsellino e della sua scorta. Proprio su quella pista, scrive ancora Falanca, a proposito di Gioacchino Genchi, l’esperto informatico al quale la stessa procura di Caltanissetta aveva affidato le indagini per decodificare i traffici telefonici (su rete fissa e cellulare) dopo la strage di via D’Amelio. «Genchi scopre che diverse persone (non mafiosi) hanno tenuto sotto controllo i telefoni di Borsellino, che erano stati clonati, e forse hanno controllato dall’alto, dal monte Pellegrino, la zona della strage». Continua Alfa & Beta: «Il Sisde - in quegli anni controllato a Palermo da Bruno Contrada - secondo Genchi aveva un suo centro all’interno del Castello Utveggio, un centro che operava sotto la copertura di un misterioso centro studi, il Cerisdi. Pochi secondi dopo l’esplosione (dell’auto in via D’Amelio, ndr), dalla sede Sisde di Utveggio - sempre vuota la domenica, tranne quella - parte una telefonata che raggiunge il cellulare di Contrada».E’ lo stesso Tona a rammentarla nel provvedimento di archiviazione del caso Contrada (ed è sempre Tona, poi, a firmare le archiviazioni per Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, sulla scottante inchiesta dei mandanti a volto coperto delle due stragi).

Nel recentissimo decreto di archiviazione, Tona ricorda come «la sentenza della corte d’assise d’appello segnalava l’esigenza di approfondire ulteriormente ipotesi ed elementi sin qui trascurati, nella prospettiva di individuare complici o mandanti esterni all’organizzazione mafiosa cosa nostra». E proprio Tona ribadisce: «A seguito di tale sentenza divenuta irrevocabile, il pm riprendeva le indagini, partendo proprio dalle dichiarazioni del Genchi. Rispondendo ad apposita delega la Dia di Caltanissetta procedeva a escutere nuovamente il Genchi, e individuava un cospicuo raggio di attività investigative aventi ad oggetto organismi e persone che potevano contare sulla disponibilità dei locali di Castello Utveggio». Le indagini, però, partoriscono il classico topolino. E il pm Tona in poche, sbrigative parole, archivia il tutto. Come si trattasse di una bega condominiale.

L’ennesimo colpo di spugna. Ma restano, pesanti come macigni, gli interrogativi sulle due stragi. Irrisolti. Con la sola condanna per gli “esecutori”, tutti “regolarmente” condannati. La manovalanza di Riina e Provenzano, a partire da Brusca & company. Per i mandanti, è ancora tutto “coperto”… Raccontano alla procura di Palermo: «Hanno parlato i pentiti, Giovanni Brusca e Nino Giuffrè. Le verbalizzazioni in parecchi punti coincidono, in altri no. Sostanzialmente, c’è una differenza tra i due: Brusca parla soprattutto della “trattativa“ che sarebbe intercorsa con lo Stato, a inizio anni ’90, per ottenere vantaggi legislativi dalla nuova classe politica in favore di Cosa nostra; Giuffrè parla soprattutto di appalti, di rapporti tra imprenditori, politici e mafiosi».

Ecco cosa scrive il sito antimafia Città Nuove Corleone: «Il procuratore di Caltanissetta, Francesco Messineo, che coordina l’inchiesta contro ignoti, ipotizza che le motivazioni delle due stragi del ’92 siano coincidenti, ma l’attentato a Borsellino avrebbe subito un’accelerazione perché Riina era alla ricerca di nuovi referenti politici che tardavano ad arrivare». Continua, nella sua minuziosa disamina, il sito siciliano: «Gli inquirenti si chiedono ora se la ricostruzione di Giuffrè possa rappresentare un movente aggiuntivo, rispetto a quello indicato da Brusca, o se un’ipotesi esclude l’altra. I magistrati della Dda vogliono accertare il motivo per il quale Provenzano avrebbe ordinato la morte di Borsellino, se ciò sia legato agli appalti o alla “trattativa”. I pm sottolineano anche il fatto che Riina, come emerge delle dichiarazioni di numerosi pentiti, in quel periodo non sarebbe stato “in sintonia” con Provenzano. Perchè il boss latitante avrebbe dovuto aiutare Riina a dare un altro colpetto dopo Falcone?». La risposta di Giuffrè sarebbe stata: «la curiosità per i boss è l’anticamera della sbirritudine».

Le versioni di Brusca e Provenzano però non sono antitetiche, come alcuni oggi sostengono. Ecco, ad esempio, cosa scriveva, un paio d’anni fa, il giudice Paolo Tescaroli nel volume Perché fu ucciso Giovanni Falcone. «In Cosa nostra, secondo Brusca, esisteva la preoccupazione che Falcone potesse imprimere, diventando procuratore nazionale antimafia, un impulso alle investigazioni nel settore inerente alla gestione illecita degli appalti. Ha spiegato (Brusca, ndr) che le indagini in quel settore non erano iniziate “in quel momento”, Falcone aveva iniziato con i Costanzo e il comune di Baucina e proseguito con l’indagine nei confronti di Angelo Siino. Ha affermato che Falcone - attraverso questo tipo di investigazioni, che nel passato avevano attinto anche Vito Ciancimino - aveva la possibilità di indagare, oltre che nel settore economico, nei confronti degli imprenditori e dei politici con i quali i primi “andavano a trattare”. Specificatamente, Falcone aveva contribuito a bloccare il progetto, che l’organizzazione aveva in cantiere nel 1991, mirante proprio a impostare nuovi collegamenti istituzionali per il tramite di strutture imprenditoriali». Secondo la minuziosa ricostruzione di Tescaroli, dunque, le verbalizzazioni di Brusca non solo non indeboliscono, ma addirittura rafforzano la pista-appalti quale movente primo per l’eliminazione di Falcone (e, quindi, di Borsellino).

Ma esiste un testimone ben più importante per dimostrare la determinazione di Falcone sul fronte delle commesse arcimiliardarie che sanciscono il patto politica-mafia-imprese. E’ Antonio Di Pietro, a quel tempo sconosciuto pm alla procura di Milano, che da mesi ha puntato i riflettori sulle “portappalti”, imprese cioè create - o rilevate - ad hoc per fare man bassa di commesse sotto l’ala protettrice di un politico (se possibile, un ministro). Le strade investigative dei due magistrati, quindi, a un certo punto viaggiano su binari paralleli. Ecco cosa dichiara Di Pietro, sentito come teste al processo di via D’Amelio: «Cercammo di immaginare un meccanismo investigativo che potesse far capire cosa succedeva per gli appalti che le grosse imprese nazionali avevano non solo in Sicilia, ma anche in Calabria e in Campania. Aprii, per esempio, su Foggia, aprii su Napoli, aprii su Reggio Calabria. Mi resi conto che bisognava guardare su tutti gli appalti». Di Pietro, su questo fronte, comincia a lavorare sia con Falcone che con Borsellino. L’attuale leader dell’Italia dei Valori ricorda, davanti ai giudici, una frase che Falcone pronunciava spesso: «E’ inutile che perdi tempo con le rogatorie, te lo ricordi com’è andata con il conto protezione…. Invece, individua l’appalto, individua l’appalto. Me lo ripetè anche due o tre giorni prima di morire».

Ma quali appalti, quali “imprese” potrebbero essere finite al centro delle indagini di Falcone e Borsellino (e poi anche di Di Pietro, che dopo solo tre anni ha, guarda caso, abbandonato la toga)? Una chiave del mistero può essere rintracciata nel dossier mafia-appalti, una montagna investigativa di 900 pagine commissionata al Ros di Palermo e finita sulla scrivania di Falcone - con tutto il suo carico, è il caso di dirlo, esplosivo - a febbraio ’91. Dopo un giro per la verità un po’ tortuoso: lo “intercetta” l’allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, il quale pensa bene di smistarlo subito (senza un plausibile motivo) non a chi lo aveva commissionato, Falcone, ma al ministro della Giustizia Claudio Martelli, che un paio di mesi dopo chiamerà lo stesso Falcone a Roma. Misteri di Palazzo…

Ironia del destino, parecchie imprese che fanno capolino del maxi dossier “mafia-appalti” redatto nel ’90 e recapitato a Falcone a febbraio ’92, sono le stesse sulle quali sta indagando, sul versante milanese (con diramazioni svizzere per le esportazioni di capitali all’estero e i lavaggi di danaro) Di Pietro, e sulle quale poi punterà l’indice, in un infuocato intervento alla commissione Antimafia, nel ’95, l’ex magistrato Ferdinando Imposimato. E una maxi commessa, in particolare, entra nel mirino degli investigatori: quella per i lavori dell’Alta velocità, “decisi” a livello governativo nel ’90. A dieci anni esatti dal terremoto da 70 mila miliardi di vecchie lire che ha significato il decollo per tante portappalti e parecchi politici di casa nostra. Stesso copione per la Tav, ma qui la torta è molto più grossa. Tutti in carrozza, alla partenza, per la modesta cifra di 25 mila miliardi circa, che nel giro di un decennio andranno a oltrepassare i 150 mila (ma il pozzo continua a succhiare risorse).

Ecco cosa scrive Sandro Provvisionato nel volume Corruzione ad Alta Velocità, che ha raccontato per filo e per segno il saccheggio perpetrato alla casse dello Stato: «Il 2 marzo 1994 il processo mafia-appalti, che ha visto alla sbarra solo cinque imputati, si conclude con una serie di condanne. Il dato singolare è che nel ’95 Imposimato, occupandosi di ben altre vicende, torni ad inciampare in alcune di quelle stesse società oggetto delle attenzioni della magistratura di Palermo. Ed è anche singolare che sulla sua scrivania finisca un rapporto, quello dello Sco, che, trattando dell’oggi, riguarda ancora fatti di ieri». «In sostanza si afferma - continua Provvisionato - che nell’Alta velocità ci sono anche società, come la "Calcestruzzi", accusate di essere controllate da Cosa nostra. Come se dopo indagini, rapporti, inchieste e processi nulla fosse cambiato. E il sistema degli appalti si fosse bellamente spostato dalla Sicilia verso nord, in Campania e in altre regioni». E conclude: «Uno scenario che vede in primo piano il mai del tutto sconfitto sistema degli appalti, nel quale sarebbe maturata almeno una delle stragi che insanguinarono il 1992, quella in cui morì Paolo Borsellino, quasi ossessionato, nei giorni immediatamente precedenti la sua tragica fine, proprio da quel dossier, il dossier Mafia-appalti». parola ai massoni.

Precise le dichiarazioni di Angelo Siino, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, minuziosamente ricostruite da Tescaroli. «Siino ha posto in rilevo di ritenere che le indagini promosse da Falcone nel settore della gestione illecita degli appalti avevano “creato dei presupposti” che hanno portato alla sua eliminazione. Ha anche evidenziato che Borsellino, nel periodo immediatamente successivo all’uccisione di Falcone, aveva pubblicamente affermato che una pista da seguire era quella degli “appalti” e che “senza dubbio c’era stato un qualcosa che aveva determinato l’uccisione di Falcone a causa del suo volersi filare sulla questione degli appalti”». Nelle verbalizzazioni di Siino torna alla ribalta il nome di un’impresa, la Calcestruzzi, in odore di garofano. E non solo. Secondo u’ ministro, Falcone aveva compreso che dietro le quotazioni in borsa del gruppo Ferruzzi c’era effettivamente Cosa nostra e che tra quest’ultima e una frangia del Psi, quella riconducibile a Martelli, era intercorso un accordo.

Ma leggiamo altre dichiarazioni di Siino, questa volta raccolte dai magistrati partenopei nell’ambito di una grossa inchiesta (ora passata a Roma), su massoneria, mafia & appalti. In particolare, Siino ricostruisce il contenuto di diversi colloqui intercorsi con un confratello massone, il siculo-napoletano Salvatore Spinello (il cui nome ha fatto capolino anche nel caso Telekom Serbia). «Spinello mi parlò - dichiara il ministro di Cosa nostra - dei finanziamenti che dovevano affluire per la realizzazione dei lavori per la terza corsia (della Napoli-Roma) e della Tav. Mi disse nel 1991 che lui poteva decidere sui lavori della Tav perché aveva collegamenti con i personaggi che avevano tutti in mano. In occasione dei vari incontri, vantò rapporti di conoscenza con Craxi e Martelli, mi preannunziò il trasferimento di Falcone (al ministero della Giustizia), mi disse in particolare che aveva rapporti con gli onorevoli Pomicino e Di Donato, mi segnalò l’impresa Icla (la regina del dopoterremoto e non solo) che all’epoca aveva problemi in un lavoro sull’autostrada Messina-Palermo».

Le testimonianze di Chiaromonte, Patrono e Boccassini puntano il dito contro giudici e politici di sinistra. Nella sentenza della Corte di Cassazione sul fallito attentato dell'Addaura alla villa di Giovanni Falcone, si dice giustamente che il Giudice fu vittima di un "infame linciaggio" e di "torbidi giochi di potere"e di "improvvidi e sleali attacchi anche all'interno dell'ambito istituzionale", ma almeno a giudicare da ciò che hanno riportato le agenzie e i giornali, mancano i nomi giusti dei responsabili.

Chi furono gli autori del linciaggio di Giovanni Falcone?

E' possibile individuarli facilmente sulla scorta di ciò che hanno detto e hanno scritto tre testimoni d'eccezione, testimoni informati, documentati e insospettabili: il senatore comunista Gerardo Chiaromonte, all'epoca presidente della Commissione parlamentare antimafia; il professore Mario Patrono, Ordinario di Diritto pubblico all'Università di Roma e all'epoca membro del Consiglio superiore della magistratura, proprio il Csm che "processò" Falcone; e la dottoressa Ilda Boccassini, sostituto procuratore di Milano e di Falcone amica carissima.

Scrive nelle sue memorie il senatore del Pds Gerardo Chiaromonte, presidente della Commissione parlamentare antimafia: "Dopo la strage di Capaci tutti si proclamarono ammiratori di Giovanni Falcone.

Quante menzogne ascoltai in quei giorni! Fece bene Ilda Boccassini, giudice a Milano, in un'assemblea che si tenne il giorno dopo a Palazzo di Giustizia di quella città, a prendere la parola e a denunciare, con quella passione intransigente certo, ma anche un pò fanatica che la distingueva, a indicare con nome e cognome i giudici milanesi che si mostravano compunti e addolorati per la morte di Falcone, ma che fino al giorno prima avevano detto di lui cose pesanti e offensive (fra i nomi che fece c'era purtroppo anche qualcuno che oggi conduce l'indagine 'Mani pulite).

"Non giriamoci intorno: l'accusa principale che da parte di molti suoi colleghi e anche da parte di gruppi politici (non solo la Rete di Leoluca Orlando) era stata rivolta a Falcone era quella di aver di fatto abbandonato la lotta alla mafia e di essere diventato, più o meno, uno strumento del potere politico, per conseguire le sue sfrenate ambizioni personali e di protagonismo.

Ho parlato di gruppi e uomini politici (e la mia angoscia deriva dal fatto che non potevo escludere, da questi ultimi, personalità e parlamentari del Pds).

Conobbi Falcone nell'estate del 1988, prima a casa di Giuseppe Ayala, e poi a cena dal segretario della Federazione parlamentare del Pci che era allora Michele Figurelli. Era presente in questa seconda occasione anche Leoluca Orlando. Ricordo la discussione che si svolse tra Falcone e Leoluca Orlando su Andreotti. Orlando era implacabile. Il suo giudizio era durissimo e senza appello. Affermava che c'erano tutti gli elementi per agire contro Andreotti sul piano giudiziario. E Falcone si affaticava a spiegare che per condannare o anche solo per incriminare una persona, un giudice non può basarsi sui "si dice" e sui "ragionamenti politici". Deve avere le prove. E poi aggiungeva che di Andreotti non si poteva parlare solo per alcune sue amicizie, più o meno ambigue, ma per il complesso della sua personalità politica, per il prestigio di cui godeva fuori del nostro Paese,eccetera...

"Poi ci fu l'attentato fallito a Falcone nella casa sul mare all'Addaura. Mi telefonò Leoluca Orlando e mi invitò a partecipare a una riunione straordinaria del Consiglio comunale di Palermo. Orlando fece un lungo discorso. Qualche tempo dopo mi fece notare egli stesso che in quel discorso non aveva mai pronunciato la parola mafia. Io non capii bene cosa volesse dire. Ne riparlammo a Roma, quando lo incontrai nello studio del senatore Paolo Cabras, che era il vice presidente della Commissione parlamentare antimafia, quando parlò di un attentato misterioso non attribuibile solo e semplicisticamente alla mafia. La cosa fu chiarita successivamente da alcuni seguaci di Orlando, i quali sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto, per farsi pubblicità e per rafforzare la sua candidatura a procuratore aggiunto...".

Scrive ancora Chiaromonte: "D'altra parte Falcone era assai cauto sul problema dei rapporti tra mafia e politica: certo non li negava, ma vedeva il rapporto esistente come capovolto rispetto al passato e metteva in dubbio l'esistenza di un terzo livello.

Le sue dichiarazioni su questo punto provocarono l'ira funesta di Leoluca Orlando, dei suoi seguaci e purtroppo anche di quegli esponenti del Pds che in modo assai schematico parlavano e sparlavano di cose di mafia. Questa polemica da sinistra scoppiò con virulenza in varie occasioni; quando Leoluca Orlando accusò i magistrati palermitani di tenere le prove nei cassetti e di non cacciarle fuori per non turbare i notabili politici (questa accusa era diretta soprattutto contro il procuratore Giammanco ma coinvolgeva anche Falcone); quando Falcone firmò la sentenza di rinvio a giudizio per alcuni omicidi eccellenti e soprattutto per quello di Piersanti Mattarella (e Pino Arlacchi scrisse che quella requisitoria era un documento giudiziario scadente sotto ogni aspetto, fuorviante, un grosso errore); quando Falcone interrogò il pentito Pellegriti, che aveva fatto il nome di Salvo Lima, e lo denunciò per calunnia, avendo riscontrato nelle dichiarazioni di Pellegriti una serie di falsità.

Si disse poi che Falcone avrebbe comunicato per telefono a Andreotti questa sua decisione e di recente Andreotti lo ha confermato. Ma in verità Falcone mi negò sempre questo fatto. Vero o falso che fosse, si scatenò un putiferio e Falcone divenne, da amico del Pci, amico di Andreotti, con Vitalone che gli faceva da tramite...

"Dal Pci a Andreotti e poi da Andreotti a Martelli: quando Falcone accettò l'invito rivoltogli dal ministro di andare a lavorare al ministero di Grazia e Giustizia. Qui Falcone lavorò a preparare le leggi che il Parlamento avrebbe successivamente approvato e in particolare quelle sulle procure distrettuali antimafia e sulla procura nazionale antimafia e anche quella sulla Dia. Naturalmente si può discutere sulla giustezza e l'efficacia di tali leggi. Ma da questo a passare all'affermazione che Falcone agiva al servizio di Martelli, per attentare con tali leggi all'autonomia della magistratura ci corre molta strada. Ed è una strada che ancora oggi suscita in me sdegno per quelli che la imboccarono.

Da questa campagna non fu estraneo il Pds, o suoi importanti esponenti, e anche alcuni dirigenti siciliani. E questo mi dispiacque moltissimo. Anche alla Camera dei deputati, mentre si discuteva sulla procura nazionale antimafia, un esponente del gruppo degli indipendenti di sinistra presentò un emendamento ad hoc per escludere Falcone da questa carica e il gruppo del Pds votò a favore di tale emendamento. Poi si aprì il periodo delle candidature da presentare al Csm per l'incarico di Procuratore nazionale antimafia.

Molti autorevoli magistrati (fra i quali Pierluigi Vigna di Firenze) non presentarono la loro candidatura per non ostacolare la nomina di Giovanni Falcone. Ma la presentò invece il procuratore di Palmi Agostino Cordova, magistrato che io stimo molto e che vidi lo stesso giorno che aveva parlato con Martelli. Non mi disse nulla nè mi comunicò la sua decisione di presentarsi come candidato a Procuratore nazionale antimafia, notizia che appresi l'indomani leggendo i giornali.

La cosa mi apparve strana. Perchè Cordova si presentò candidato, praticamente in concorrenza con Falcone? Ci fu qualcuno che gli suggerì questo? Non lo so. Quel che so è che la sua candidatura servì al Csm per bocciare quella di Giovanni Falcone. Un autorevole membro del Csm, eletto al Parlamento su proposta del Pds, scrisse un articolo sull'' Unità' in cui si affermava che, è certo Falcone era il più adatto a ricoprire quell'incarico, ma che il Csm non poteva nominarlo perché amico e consigliere del potere politico, cioè di Martelli, che voleva colpire l'autonomia della magistratura. Se questo è stato l'argomento che ha ispirato la decisione di non nominare Falcone non ho alcuna esitazione a dire che si trattò di una totale assurdità e ingiustizia". (da "I miei anni all'Antimafia"di Gerardo Chiaromonte, Calice Editori,pag.77-87).

Scrive il professore Mario Patrono, ordinario di Diritto pubblico all'Università di Roma e membro del Csm, nelle sue memorie: "La vicenda del pentito Giuseppe Pellegriti, incriminato per calunnia da Falcone, fuoriesce da una dimensione strettamente giudiziaria, ma sarà destinata a funzionare come un autentico contropiede nei confronti di quella strategia che il Pci e tutto lo schieramento di coloro che Leonardo Sciascia definiva i professionisti dell'Antimafia andavano imbastendo con particolare riferimento agli omicidi eccellenti (Reina, Mattarella, La Torre), al fine di dimostrare l'esistenza, accanto e al di sopra della Cupola mafiosa, di un livello politico di fiancheggiamento della mafia, il famoso terzo livello.

Da Giovanni Falcone ci si attendeva, da parte di costoro, l'incriminazione, o quanto meno l'audizione di Salvo Lima, proconsole in Sicilia di Giulio Andreotti, che allora governava a Palazzo Chigi.

Il contropiede di Falcone fu tanto devastante quanto imprevisto.

Pochi giorni prima, in una finestra del quotidiano la Repubblica del 20 agosto 1989 dal titolo “Violante: Siamo vicini a una verità pericolosa”, si riportano i brani salienti di un editoriale di Luciano Violante. Questi scriveva: 'Siamo vicini a una verità pericolosa che può squarciare il sipario che finora ha nascosto il livello politico della strage di Bologna e degli assassini di Palermo.

Qual'era la verità nascosta di cui Violante si mostrava così sicuro profeta e soprattutto, come egli era riuscito a concepirla? Sta di fatto che sulla Repubblica del 29 luglio precedente (venti giorni prima veniva riportata la notizia di un convegno svoltosi a Mondello, vicino Palermo, del cosiddetto Coordinamento antimafia (quello stesso che aveva dato del “quaqquaraqà” a Leonardo Sciascia e ne aveva decretato l'espulsione dalla società civile), dove insieme ai soliti noti (il sindaco Orlando, il presidente del Coordinamento antimafia Carmine Mancuso, l'avvocato Alfredo Galasso, il prete sociologo Ennio Pintacuda), è presente anche il magistrato Libero Mancuso della procura di Bologna, quello stesso magistrato che, guarda caso, ha raccolto le dichiarazioni del pentito Pellegriti, che accusava Salvo Lima di essere il mandante dell'uccisione di Piersanti Mattarella.

E' dopo il caso Pellegriti che il clima intorno a Giovanni Falcone cambia quasi all'improvviso. Partono contro di lui una serie di attacchi provenienti dal fronte antimafia, guidato dalla Rete con il sostegno del Pci. Leoluca Orlando e Alfredo Galasso portano fin dentro il Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, un esposto con le accuse contro Falcone, colpevole di nascondere nei cassetti le prove della connivenza di certi politici con la mafia. Di fronte alla gravità di tali accuse Giovanni Falcone conosce l'umiliazione di doversi difendere dinanzi al Csm. Convocato il 15 ottobre 1991 dinanzi alla prima Commissione del Csm, quella competente per i trasferimenti d'ufficio dei magistrati, Falcone subisce un vero e proprio terzo grado.

Rintuzza le accuse di Orlando, definendole eresie, insinuazioni e un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario. Confina nel limbo dei sospetti le dichiarazioni emergenti dagli atti giudiziari, che riferiscono dei rapporti tra esponenti mafiosi e l'onorevole Lima. Accenna a tutta una serie di 'strane frequentazioni di Pellegriti e a convegni carcerari in cui certe persone hanno incontrato Pellegriti.

Grida che non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l'anticamera della verità. La cultura del sospetto è l'anticamera del khomeinismo. Denuncia il linciaggio morale continuo nei suoi confronti, da quando ha emesso il mandato di cattura nei confronti di Vito Ciancimino, perchè quel mandato di cattura non è piaciuto, in quanto dimostra che, nonostante la presenza del sindaco Orlando, la situazione degli appalti del Comune continuava ad essere la stessa e Ciancimino continuava a imperare sottobanco.

E conclude: Orlando ormai ha bisogno della temperatura sempre più alta. Sarà costretto a spararla ogni giorno più grossa. Per ottenere questo risultato lui e i suoi amici sono disposti a tutto, anche a passare sui cadaveri dei loro genitori. Questo è cinismo politico. Mi fa paura...

Ma l'accerchiamento di Falcone non è opera solo dei politici, della Rete, del Pci Pds. Incredibilmente i suoi più cari amici, i magistrati a cui è stato più vicino, non hanno esitazione a sottoscrivere pubblicamente contro di lui.

Il 28 ottobre 1991 sessanta magistrati firmano una lettera contro la “sua Superprocura”, definendola “uno strumento inadeguato, pericoloso, controproducente”: una lettera che tanta amarezza cagionò a Giovanni Falcone.

Le prime firme sotto il documento sono quelle di Antonino Caponnetto, di Giancarlo Caselli e di Elena Paciotti" (da "Il cono d'ombra di Mario Patrono, Cerri editore, pag. 103-105).

Dice il sostituto procuratore Ilda Boccassini nell'aula magna del Palazzo di Giustizia di Milano, il giorno delle celebrazioni in morte di Giovanni Falcone, rivolta ai suoi colleghi magistrati: "Voi avete fatto morire Giovanni Falcone, con la vostra indifferenza e le vostre critiche".

Voi lo avete infangato, voi diffidavate di lui. E adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali.

Mi sono chiesta a lungo se dovessi intervenire o no. Ma lo devo a Giovanni, devo parlare...Due mesi fa ero a Palermo in un'assemblea dell'Associazione magistrati.

Non potrò mai dimenticare quel giorno...Le parole più gentili, specialmente dalla sinistra, da Magistratura democratica, erano queste: Falcone si è venduto al potere politico...Mario Almerighi lo ha definito un nemico politico...Tu, Gherardo Colombo, che diffidavi di lui, perchè sei andato ai suoi funerali?". (dal "Corriere della sera" del 24 maggio 1992, due giorni dopo la strage di Capaci).

Questi sono i nomi che mancano nella sentenza della Cassazione:

Leoluca Orlando in primo luogo e quelli che insieme a lui denunciarono Falcone al Csm perché nascondeva le prove delle collusioni dei politici con la mafia;

Luciano Violante e quelli che con lui costruirono la trappola del falso pentito Pellegriti per incastrare Andreotti e furono bloccati da Falcone;

Giancarlo Caselli e i magistrati che firmarono assieme a lui il manifesto contro la Superprocura di Falcone;

Elena Paciotti e i membri del Csm che votarono contro di lui per la carica di Superprocuratore;

Mario Almerighi che lo definiva "il nostro peggiore nemico";

Gerando Colombo che diffidava di lui e andò ai suoi funerali;

i magistrati di Magistratura democratica che accusarono Falcone di essersi venduto al potere politico.

Questi sono i nomi dei responsabili dell'"infame linciaggio", dei "torbidi giochi di potere", degli "improvvidi e sleali attacchi anche all'interno dell'ambito istituzionale" e della "manovra di isolamento e di delegittimazione".

La manovra che ha aperto la strada alla mafia, non solo per il fallito attentato all'Addaura, ma anche e soprattutto, tre anni dopo, per la strage di Capaci e il sacrificio supremo di Giovanni Falcone.

Ma falcone non è il solo a subire le ritorsioni.

Il procuratore della repubblica di Napoli accusò alcuni gip del distretto partenopeo di tenere nei cassetti richieste d'arresto per 700 camorristi.

Ottocento magistrati del distretto di Napoli, tutti chiamati a palazzo di giustizia dall'Anm. E per parlare di una cosa sola: le dichiarazioni esplosive del procuratore della Repubblica Agostino Cordova davanti alla commissione Antimafia. E' proprio lui a salire simbolicamente sul banco degli imputati. Mentre il ministro della Giustizia Roberto Castelli manda gli ispettori negli uffici giudiziari. Pm contro pm, giudici accusati di abbandonare nei cassetti richieste di arresto per 700 camorristi.

Questa è stata la denuncia a freddo di Agostino Cordova, lui che vide consegnare al Consiglio superiore della Magistratura un documento con le firme di 64 sostituti, più della metà, nel quale veniva contestata la sua gestione e l'organizzazione degli uffici giudiziari partenopei.

E non bisogna dimenticare i 4 processi del Capitano Ultimo.

Il giallo che non è mai stato un giallo, una storia che nessuno ha voluto ascoltare, un epilogo pressoché scontato, che vede il Capitano Ultimo l'unica persona processata quattro volte per aver svolto il proprio lavoro nonostante abbiano fatto di tutto per impedirglielo.

Il primo processo: dall'arma dei carabinieri. Ultimo ha subìto il suo primo processo dalla sua famiglia, l'arma dei Carabinieri che ha servito con la massima professionalità, lealtà e a rischio della propria vita. Subito dopo l'arresto di Riina il suo gruppo fu sciolto e furono abbassate le sue note caratteristiche da persona "eccellente" a "superiore alla media". Dopo una serie di richieste che Ultimo fatte all'arma per poter lavorare con il massimo rendimento, vedendo che l'unica cosa che otteneva era precarietà e mancanza di strutture e di personale, il "capitano" chiede un trasferimento ad un altro reparto. In risposta ad Ultimo, un comunicato all'ansa dell'ex comandante del Ros Sabato Palazzo, replica di aver dato la massima disponibilità a Sergio De Caprio. Il nome di Ultimo fino ad allora era sconosciuto per ovvi motivi di sicurezza. A distanza di qualche anno, a seguito di un blitz anticamorra a Pozzuoli, Sabato Palazzo e' chiamato a rispondere per reati quali corruzione, falso, favoreggiamento aggravato e abuso di ufficio.

Il secondo processo: giudiziario. Qui possiamo cominciare dalla fine: dopo un anno di processo e di tentativi di incriminare chi ha - di fatto - trovato e catturato il capo di Cosa Nostra, siamo tornati al punto di partenza. Il 19 febbraio 2005, esattamente un anno fa, i PM dichiararono "per noi sarebbe difficile andare a rappresentare un'accusa alla quale non crediamo". I PM avevano chiesto già due volte l'archiviazione, il non luogo a procedere, perché "il fatto non costituisce reato, o, in subordine, il proscioglimento", ma il Gip , la scaltra Vincenzina Massa, (che ha combattuto con le unghie e con i denti per farci assistere a questo penoso spettacolo da circo), espertissima di antimafia, evidentemente, impose ai pubblici ministeri l'incriminazione coatta con l'ipotesi di favoreggiamento aggravato nei confronti di Cosa Nostra, reato che non prevede prescrizione, stilando un rapporto in cui spiegava la assoluta necessità di incriminare i due ufficiali. Nell'ordinanza di imputazione coatta il Gip fa riferimento al verbale di sopralluogo e alla documentazione fotografica che dimostrano l'esatto contrario di quel che sostiene nel provvedimento. In queste 35 pagine di motivazioni, la Gip si chiedeva che fine aveva fatto la cassaforte asportata dal muro, per esempio. Peccato però che la cassaforte non è mai stata asportata, nè tanto meno è stata trovata aperta dai carabinieri quando il 2 febbraio poterono finalmente eseguire la perquisizione. Fu usata infatti la fiamma ossidrica per aprire la cassaforte dal retro. Ad un anno dal processo, i PM devono aver dimenticato il motivo del processo, perché il reato di cui vengono accusati gli imputati è quello di favoreggiamento a Cosa Nostra. Un solo reato, per cui però vengono fatte due richieste: una di assoluzione perché il fatto non sussiste, e l'altra di prescrizione perché il favoreggiamento potrebbe essere semplice, e non aggravato, citando anche la discussa legge Cirielli in realtà inapplicabile per questo processo. Una cosa ci sfugge: se, come dice Ingroia, "favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra non c'è stato" nei confronti di chi c'è stato? Addirittura il pm Prestipino apre la requisitoria con elogi nei confronti degli imputati: «Quello che oggi si conclude è un processo particolare, sia per i due imputati rappresentanti delle istituzioni, le cui qualità professionali non sono mai state messe in discussione, sia per le note vicende procedimentali che lo hanno caratterizzato». Se Ultimo non ha favoreggiato Cosa Nostra e nel caso del Covo di Riina ci sono delle ombre, chi sono i responsabili? Nel diario degli appuntamenti del sostituto procuratore Aliquò si legge in data 27 gennaio che nel corso di una riunione con i vertici del Ros, seppur la procura sollecitasse l'effettuazione di una perquisizione nella villa di via Bernini, l'allora colonnello Mori "sembra non avere urgenza e dice che l'osservazione del complesso di via Bernini stava creando tensione e stress al personale operante, accennando alla sua sospensione". Peccato però che quel giorno il colonnello Mori stava interrogando Vito Ciancimino nell'aula bunker di Rebibbia, in compagnia proprio della sua pubblica accusa Antonio Ingroia (che tra le altre cose aveva lodato la "scrupolosa e minuziosa cronaca del dottor Aliquò in presa diretta"). Diverse inesattezze sono riportate nel famoso e scrupoloso diario, compreso l'avvenuto arresto della Bagarella. Ma non era un errore di data. La famosa riunione con Mori non c'è mai stata, ed a documentare il tutto sono i registri con le autorizzazioni dell'arma sui vari spostamenti di tutti. Aliquò ha quindi prodotto documenti falsi? Purtroppo per lui questa non è un'opinione, ma un fatto inconfutabile provabile dai verbali degli interrogatori con Ciancimino. E che sarebbe giusto approfondire. La storia, quella vera, quella che nessuno ha potuto smontare per l'ovvietà dell'andamento logico dei fatti, e per i documenti presentati in questo processo, e' che via Bernini, dopo l'arresto di Riina, doveva essere il punto di partenza di Ultimo per riuscire a catturare anche tutta l'imprenditoria che i fratelli Sansone stavano tenendo in piedi. Per continuare a tenere osservata via Bernini e a controllare le 8 utenze telefoniche riconducibili ai Sansone trovate in quel comprensorio, bisognava trovare un modo per depistare chi ci abitava dentro, per far credere che nessuno sapesse che quel covo era in una situazione di pericolo. Fu quindi deciso di fuorviare la stampa, di non dire che il covo di Riina era in via Bernini, e furono mandati inizialmente tutti i giornalisti altrove, mettendo così' Ultimo e il suo gruppo in condizioni di poter fare i lavori di polizia giudiziaria per effettuare i dovuti accertamenti bancari, intercettazioni telefoniche, pedinamenti ecc.. Malauguratamente all'interno dell'arma ci furono delle inopportune fughe di notizie che portarono giornalisti come Bolzoni e altri, a piantonare via Bernini, 54 per fare lo scoop, favoreggiando così Cosa Nostra. Chi viveva in quel comprensorio, ovviamente, avrà avuto modo di fiutare il pericolo vedendo giornalisti curiosi nei dintorni a fare domande su Riina, bruciando così tutta la copertura. (Interrogatorio del 2003 durante le indagini preliminari: "[...]il Maggiore RIPOLLINO aveva avvisato i giornalisti di quale era l'abitazione di RIINA, mentre in Procura era stato deciso di non rivelarlo, infatti era stata fatta l'attività su Fondo Gelsomino per non svelare che invece sapevamo dove stava RIINA e quindi una farsa totale, cioè se noi decidiamo di non dirlo, quello invece lo dice, mi dice che senso ha, comunque l'esigenza nostra era quella di sparire, lasciarli quanto più possibile tranquilli e di riprenderli nel momento in cui loro, che sicuramente si saranno verificati cinquantamila volte, si ritenevano tranquilli, riprendevano la loro normale attività di Cosa Nostra e noi allora saremmo dovuti essere lì e avremmo fatto la stessa attività che avevamo fatto sui GANCI. Questo è quello in cui credo e su questo mi ci sono giocato la mia vita, la mia professionalità ".) Un'altra domanda lecita è: se Ultimo non avesse insistito per tenere d'occhio via Bernini invece di Fondo Gelsomino, come richiesto dal procuratore aggiunto Aliquò e dal colonnello Cagnazzo, Riina sarebbe dietro le sbarre adesso? Ci sono altri tasselli, oltre a tutto questo, meritevoli di attenzione. Un muratore, Angelo Parisi, ha raccontato che tra il 20 e il 22 gennaio gli venne confermato l'incarico dal padrone della casa di via Bernini, Giuseppe Montalbano, di svolgere di lavori di ristrutturazione «del bagno, coloritura, togliere carta da parati, eliminare umidità dalle pareti'». Per fare ciò «spostammo i mobili che abbiamo coperto per non impolverarli », «lavorammo due o tre giorni », dopodiché «una mattina andammo in via Bernini 54 e trovammo un sacco di carabinieri». La perquisizione è del 2 febbraio. Tutto torna. Per quanto riguarda invece l'altro giallo, quello della mancanza di osservazione con le telecamere in via Bernini, il punto è che il metodo che Ultimo ha usato (e sempre con successo) non è quello di tutti, e cioè per tenere sotto controllo un'abitazione, non solo non e' necessario tenere puntate le telecamere 24 ore su 24, ma è un modo di fare vivamente sconsigliato. Un'attività consecutiva con il furgone per troppi giorni porta solo ad insospettire la "preda", quindi per tenere sotto controllo costante la zona, bisognava pedinare, fare ricerche bancarie (infatti il 26 fu trasmessa alla procura tutta la situazione patrimoniale dei Sansone che era stata richiesta) ascoltare le telefonate, seguire, all'occasione usare le telecamere, ma non in maniera troppo presente e ossessiva, perché se l'osservazione doveva essere costante nel tempo non potevano permettersi di farsi beccare in maniera idiota, magari montando un carrello elevatore sul palo della luce per montare una telecamera all'interno del comprensorio. Questo si, sarebbe stato deleterio, oltre che stupido. Ma queste cose non sono informazioni che si sanno, perché c'è il processo. Sono tutti fatti che in fase istruttoria hanno convinto i PM alla non colpevolezza dei due ufficiali. Gli stessi fatti, poi, che hanno convinto i PM delle loro colpevolezza, e poi ancora della loro innocenza e "indiscussa capacità". Il fine di Ultimo insomma, non era la cattura di Riina e basta, ma seguire i Sansone, e ricostituiremo i circuiti politico imprenditoriali. Un'operazione questa che in Sicilia deve essere o bloccata. I metodi sono stati quelli che vediamo adesso. Teniamo anche conto che questo processo ha giovato a Cosa Nostra perché adesso sanno come il gruppo di Ultimo opera (operava, è meglio), sanno anche i nomi e i cognomi di tutti gli appartenenti all'operazione dell'arresto di Riina.

Il terzo processo: da Cosa Nostra. "Numerosi collaboratori di giustizia dal 1993 al 1997 riferiscono dell'esistenza di un progetto "aperto" di Cosa Nostra (Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella), finalizzato all'uccisione di Ultimo. Secondo Gioacchino La Barbera, Leoluca Bagarella avrebbe offerto ad un carabiniere (mai identificato) un miliardo di lire per ottenere notizie utili all'individuazione dell'ufficiale (fonte: L'azione - tecniche di lotta anticrimine)". Ora però, dalle ultime testimonianze dei pentiti, Ultimo non doveva essere ucciso, doveva essere solo sequestrato. Per fare una partitina a carte, magari. A tressette col morto, forse. Pare che ad ogni modo, a quanto risulta dai pentiti, l'ufficiale è stato individuato, e il progetto di "sequestro" fosse avallato anche dallo stesso Provenzano. Brusca però di cose ne dice tante. Ha riferito che molti pensavano che Provenzano fosse un confidente dei Carabinieri. Ad ogni modo, chiedendo allo stesso Ultimo cosa pensasse delle esternazioni di Brusca su presunte collaborazioni di Provenzano, Ultimo risponde: "in Cosa Nostra non esiste il sospetto, se uno e' sospettato di essere collaboratore, muore. Non si fa salotto, ì', quella è una guerra. Si ammazzano tra familiari consanguinei stretti, solo per il sospetto che ci sia collaborazione con i Carabinieri. Ad ogni modo, se Provenzano, il capo di Cosa Nostra, fosse un nostro collaboratore, non ci sarebbe neanche la lotta alla mafia, non ci sarebbe la mafia. Ma poi, come mai Provenzano collabora con i carabinieri e Brusca lo cattura la Polizia, Bagarella la Dia, ecc ecc?" E come Brusca, Giusy Vitale è stata una delle protagoniste di questo spettacolo, di cui vorrò farmi restituire il biglietto, perché e' stato uno spettacolo niente affatto divertente, niente affatto giusto, a prescindere dalle decisioni del giudice.

Il quarto processo: mediatico. "I carabinieri del Ros che arrestarono Totò Riina abbandonarono la postazione nascondendo al procuratore Caselli che se n'erano andati, che avevano lasciato libera una squadretta di mafiosi di infilarsi là dentro e svuotare il covo del boss dei boss. Questa e' una vicenda molto italiana, Leonardo Sciascia l'avrebbe chiamata una "storia semplice". Questo è un pezzo di articolo di Bolzoni preso da antimafiaduemila. Ma dove le abbiamo sentite queste parole? Ah, si, da Ingroia, nella requisitoria. (La mancata perquisizione del covo del boss mafioso Totò Riina subito dopo il suo arresto e la cessazione dell'attività di osservazione decisi dal Ros senza avvertire la Procura ''altro non è che 'Una storia semplice''). Si farà forse preparare i testi da Bolzoni? Scherzi a parte, Bolzoni non ha fatto altro che parlare di Ultimo come "l'uomo famoso grazie alla fiction", l'uomo che senza una soffiata non avrebbe mai preso Riina, affermando il falso con la storia dei mafiosetti entrati a svaligiare casa, ha solo buttato fango, mettendo a caratteri cubitali le colpe additate ai due ufficiali, perché "così dicono i pentiti". Questo perché? Perché ha scritto un libro che avalla la tesi della trattativa tra Stato e Mafia. Su queste dichiarazioni non ha mai voluto rilasciare nessuna fonte avvalendosi della facoltà di non rispondere tutelata dal segreto professionale. Un pò come se si dicesse che Ferrara è un pedofilo senza poter mai provare nulla. Intanto il dubbio rimane, il libro vende, guadagna, ma la persona rimane infangata agli occhi di chi non ha fonti alternative ai giornali "enbedded", gli autorizzati a parlare di questi argomenti. Durante le udienze, tra bolzoni e Lodato c'era la gara tra i "non so, non ricordo". Addirittura Bolzoni non ha potuto confermare quanto scritto in un suo libro perché non l'aveva riletto!!! (leggi verbale). Il processo mediatico non finisce con i giornali "Repubblica" o "L'unita' ", che titola l'articolo della requisitoria "Mori salvato dalla Cirielli" sapendo benissimo che la Cirielli non è neanche applicabile nè a questo processo nè per questo tipo di reato. Il processo mediatico va oltre. Il giorno che è iniziato il processo, anticipando il palinsesto di una settimana, viene mandato in onda il film "L'uomo sbagliato", la storia di Daniele Barillà , condannato per errore giudiziario in una operazione portata avanti con l'aiuto dello stesso capitano Ultimo. Una cosa strana è che il regista del film è lo stesso che ha diretto la fiction "Ultimo", la prima serie, poi scalcato da Michele Soavi. Dopo essere stato scalzato da un altro regista, stranamente, fa un film che narra le gesta sbagliate del capitano di cui ha raccontato l'arresto di Riina. Rivalsa?

Al capitano Ultimo gli è andata bene. A Bruno Contrada è andata peggio.

Contrada entra in Polizia nel 1959 alla Questura di Latina.

Nel 1962 gli viene affidata la direzione della Sezione Volanti alla Questura di Palermo.

Successivamente ricopre diversi incarichi tra cui dirigente della Sezione Catturandi, della Sezione Antimafia e di quella Investigativa.

Dal 1973 all'ottobre 1976 dirige la Squadra della Questura di Palermo.

Dall'ottobre 1976 al gennaio 1982 dirige la Criminalpol per la Sicilia Occidentale.

Dal gennaio 1982 al settembre 1982 coordina gli uffici SISDE della Sicilia e della Sardegna.

Dal settembre 1982 al dicembre 1985 è capo di gabinetto dell'Alto Commissario per la lotta alla mafia, Emanuele De Francesco mantenendo l'incarico di coordinatore dei centri SISDE delle isole.

Nel gennaio 1986 viene trasferito a Roma e nominato responsabile del III reparto operativo del SISDE.

Nel 1987 gli viene inoltre affidata la direzione di una squadra di 20 uomini che acquisiscono notizie su latitanti del terrorismo e della criminalità organizzata, sempre all'interno del SISDE.

Tra l'agosto del 1991 e l'agosto 1992 coordina i centri SISDE del Lazio e dirige il gruppo "Roma 3" che si occupa di criminalità organizzata.

Il 22/2/1991 viene nominato dirigente generale di Pubblica Sicurezza.

Dall'agosto al novembre 1992 torna in Sicilia per coordinare un gruppo di indagine del SISDE sulle stragi di Falcone e Borsellino.

Il primo pentito ad accusare Contrada di collusione con la mafia fu Tommaso Buscetta nel 1984, il quale dichiarò: "Ho saputo da Rosario Riccobono che Contrada gli passava informazioni sulle operazioni della polizia".

Il giudice istruttore Giovanni Falcone, successivamente, archiviò il caso.

L'inchiesta è stata riaperta nel 1992 in seguito alle rivelazioni di Mutolo ("Riccobono mi disse che Contrada era a disposizione. Per questa ragione gli aveva regalato una macchina e messo a disposizione un appartamento") , Buscetta, Marchese ("Nel 1981 mio zio Filippo mi mandò ad avvertire Riina di una imminente perquisizione che era stata segnalata da Contrada. Mio zio mi disse che il poliziotto faceva avere le notizie a Salvatore e Michele Greco") e Spatola ("Vidi Contrada a pranzo con Riccobono in un ristorante di Sferracavallo").

Il 24 Dicembre 1992 Contrada viene arrestato. Il giorno dell'arresto di Bruno Contrada, l'allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi, prende le difese del poliziotto inquisito, avanzando sospetti sui pentiti: "Contrada è un funzionario che ha sempre fatto il suo dovere e per quanto consta all'amministrazione si tratta di un uomo assolutamente irreprensibile".

Nel frattempo si sono aggiunte le rivelazioni di Marino Mannoia ("Sono a conoscenza di uno stretto rapporto fra Riccobono e Contrada: l'uno faceva il confidente dell'altro. Lo stesso avveniva con Stefano Bontade"), Cancemi ("Giuseppe Calò e Giovanni Lipari mi hanno detto che Contrada era nelle mani di Stefano Bontade al quale aveva fatto avere patente e porto d'armi") e Scavuzzo.

Il processo a carico di Contrada inizia il 12 aprile 1994, la documentazione raccolta dalla Procura ammontava a 32.000 pagine, contenute in 18 fascicoli.

Nel corso del processo altri tre pentiti hanno accusato Contrada: Costa ("Appresa per televisione la notizia dell'arresto di Contrada, Vincenzo Spadaro, mio compagno di cella, ebbe ad esclamare: "nu cunsumarù (espressione siciliana che significa: ce lo hanno rovinato)", Pirrone ("Lavoravo in un locale di cabaret; una volta, insieme al mio titolare, che intratteneva rapporti con la malavita, mi recai da Contrada, in questura, per consegnargli alcuni biglietti di invito. Fu in quell'occasione che appresi che Contrada era vicino al clan Riccobono") e Pennino (" Contrada mi interrogò dopo l'omicidio del segretario regionale della DC Michele Reina: ebbi la sensazione che volesse depistare le indagini").

Il pentito Gaspare Mutolo, all'udienza dell'8 giugno 1994, dichiara: "Sino alla prima metà degli anni Settanta, Contrada, insieme ad altri integerrimi funzionari di polizia, Boris Giuliano, Ignazio D'Antone e Antonino De Luca, era per la mafia un nemico da eliminare.

C'erano due linee all'interno di Cosa nostra, quella morbida dei boss Gaetano Badalamenti e Stefano Bontade che sosteneva di "avvicinare" i poliziotti e quella dura, del clan dei corleonesi che propendeva per un attacco frontale allo Stato.

Ebbi l'incarico di pedinare Contrada per scoprire le sue abitudini. Quando fui scarcerato, nel 1981 Rosario Riccobono mi disse che Contrada era a nostra disposizione. Cosa nostra poteva contare su una miriade di uomini delle istituzioni per ottenere protezioni e per "aggiustare i processi"e nell'udienza del 13/7/94 prosegue:"Riccobono mi diceva che Contrada gli dava notizie sulle operazioni di polizia. Quando era in arrivo una retata, lui lo chiamava e i mafiosi scappavano".

Nel luglio del 1995, gli avvocati difensori presentano una richiesta di scarcerazione, accolta dal Tribunale il 31 luglio. All'udienza del 29 settembre 1995, i PM chiedono l'acquisizione agli atti del processo di alcune pagine dei diari di Contrada relativi agli incontri avvenuti fra il 1979 e il 1980 con l'avvocato Bellassai, capo gruppo della loggia P2 in Sicilia.

Lino Iannuzzi sul sito di Bruno Contrada ha scritto la storie di due poliziotti. La storia delle vite parallele di Bruno Contrada e di Gianni De Gennaro.

Un singolare destino accomuna i due poliziotti, Bruno Contrada e Gianni De Gennaro. Un destino crudele e beffardo. Crudele per Contrada,la vittima, beffardo per De Gennaro, il carnefice. La carriera di Gianni De Gennaro è cominciata la vigilia di Natale del 1992, quando ha fatto arrestare il suo collega Bruno Contrada, e termina oggi, proprio quando le porte del carcere militare di Santa Maria Capua Vetere si sono chiuse,forse per sempre, dopo 15 anni di processi,alle spalle di Contrada.: “Avevo pronta la pistola con il colpo in canna - mi ha detto Contrada,seduto sulla branda della cella - poi ho guardato la fotografia di mio figlio con la divisa della polizia,e non mi sono sparato. Morirò qui dentro,è come fossi già morto”. Il “morto” Contrada ha afferrato il vivo De Gennaro e l'ha consumato:la loro storia è cominciata insieme, e insieme finisce.

Era già stato scritto, come in un racconto di Borges. “Caino, sia maledetto Caino”, aveva urlato Adriana, la moglie di Contrada, nella stanza dell'ospedale di Palermo, dove avevano trasportato d'urgenza il marito, svenuto nell'aula del tribunale quando il pm aveva introdotto l'ennesimo “pentito” che lo accusava di intelligenza con la mafia. Bruno Contrada aveva riaperto gli occhi nella sala di rianimazione, aveva gridato: “Vogliono annientarmi...”, aveva implorato che lo lasciassero morire, aveva tentato di impadronirsi della pistola del carabiniere di guardia, aveva strappato dalle mani dell' infermiere la siringa infilandosela nel collo... E'stato in quel momento che la donna piccola e minuta ha preso a urlare: “Caino, maledetto Caino, è Caino che me lo ha ammazzato...”.

“Caino - ha spiegato ai giornalisti che, richiamati dalle urla, le si affollavano intorno Adriana Del Vecchio,insegnante di lettere e latino in pensione - è un collega di mio marito, è lui che ha voluto che Bruno finisse in carcere. E' qualcuno che ha capito che la Sicilia e la mafia potevano essere usate come trampolino di lancio per fare carriera. Ma non ha trovato il campo libero, perché davanti a lui, molto più avanti per anzianità e nei ruoli, c'era Bruno Contrada. Doveva eliminarlo, è lui l'autore della congiura, è lui che ha arruolato e ha imbeccato i ‘pentiti' che lo accusano...”. La maledizione di Adriana ha accompagnato Gianni De Gennaro, come l'ombra di Banco, per tutti questi lunghi 15 anni della sua brillante carriera e l'ha atteso, paziente e inesorabile, sulla soglia del carcere militare di Santa Maria Capua Vetere.

Le lotte di potere in seno agli apparati dello Stato - Come è nata la Dia, la nostra polizia politica, e come De Gennaro se ne è impadronita - La fabbrica dei ‘pentiti' - I processi politici mascherati da processi antimafia.

Bruno Contrada è stato il più famoso poliziotto di Palermo, la memoria storica della lotta alla mafia, uno spietato cacciatore di mafiosi, quando non c'erano ancora i “pentiti” e le intercettazioni ambientali, quando bisognava sporcarsi le mani con i “confidenti”, rischiando ogni giorno la vita e l'onore: ogni giorno si poteva venire uccisi dalla mafia assieme al confidente, o venire disonorati dall'antimafia con l'accusa di essere il confidente del confidente.

Gianni De Gennaro ha fatto fuori Contrada quando questi era già passato al Sisde e aveva preparato per incarico del governo il progetto di trasformare il servizio segreto civile in una direzione antimafia.

De Gennaro, allora dirigente della squadra mobile, aveva un altro progetto, caro a Luciano Violante e ai giustizialisti del Pci e ai magistrati professionisti dell'antimafia, quello di organizzare la Dia, una direzione antimafia svincolata dai servizi e dalla stessa direzione generale della polizia e dal governo: quella che presto il presidente Cossiga avrebbe definito, chiedendone la soppressione, “la nostra ‘polizia politica', la nostra Ovra, la nostra Gestapo, il nostro Kgb”, lo strumento più efficace per liquidare gli avversari con l'uso e l'abuso dei “pentiti” e dei processi politici.

Liquidato Contrada e il suo progetto, De Gennaro creò la Dia e ne assunse il controllo, e inventò la “fabbrica dei pentiti”, divenne il “Signore dei “pentiti”. De Gennaro è stato l'artefice vero della macelleria politica in nome dell'antimafia, più di Luciano Violante, più dei magistrati professionisti del giustizialismo.

Come avrebbe potuto Luciano Violante liquidare gli avversari politici con la commissione parlamentare antimafia; come avrebbero potuto le procure indagarli e i giudici di Palermo processarli, se De Gennaro, il suggeritore, non avesse fornito a getto continuo all'uno e agli altri i “pentiti”?

Come avrebbero potuto processare Contrada, il suo collega che gli dava ombra, e dopo di lui i politici, Andreotti e Mannino e Musotto e i magistrati garantisti, Corrado Carnevale e Barreca e Prinzivalli, e poi naturalmente Berlusconi, indagato per riciclaggio e per strage, e Marcello Dell'Utri, che è ancora sotto processo, e tutti gli altri, se De Gennaro, il regista, con la Dia non avesse reclutato, addestrato e pagato i “pentiti” per accusarli?

De Gennaro soffia Buscetta a Contrada e lo riporta in Italia - Le due facce e i due verbali di Buscetta - E' il boss Riccobono che fa da confidente a Contrada oppure è Contrada il confidente di Riccobono?

Il primo “pentito” su cui De Gennaro mette le mani è, niente di meno, Tommaso Buscetta.

Contrada è ancora in piena attività di servizio ed è proprio lui che ha scovato Buscetta in Brasile, lo ha contatto attraverso un suo collaboratore, il capo della squadra mobile Ignazio D'Antone, poi passato anche lui al Sisde, e si appresta a recarsi di persona a prelevarlo per portarlo in Italia.

De Gennaro lo precede, gli soffia Buscetta, come gli soffierà il progetto della direzione antimafia,lo porta in Italia e lo consegna a Giovanni Falcone. Lo consegna per modo di dire, perché Buscetta rimarrà sempre e soprattutto nelle mani di De Gennaro, per tutto il tempo che resterà in Italia,e anche quando, dopo il maxiprocesso, sarà spedito negli Stati Uniti, sotto la sorveglianza dei Marshall.

Buscetta rimarrà sempre sotto il controllo e la gestione di De Gennaro, che non lo molla per un momento,e lo presta a Falcone, prima, a Violante e a Caselli, otto anni dopo, solo dopo averlo confessato e comunicato, ed essere sicuro di ciò che il “pentito” dirà e di ciò che non dirà. Buscetta non è di Falcone, non è di Violante o di Caselli, Buscetta è di De Gennaro, e guai a chi glielo tocca.

De Gennaro è discreto,non compare, sta sempre dietro le quinte, e tace. Come il ventriloquo, De Gennaro parla per bocca di Buscetta, come parlerà, e accuserà e fare processare e farà condannare, con la voce di tutti gli altri “pentiti”.

Tanto per cominciare, De Gennaro, prima ancora di consegnargli Buscetta, metterà in guardia Falcone: non fidarti di Contrada, gli dice, Buscetta mi ha confidato che Contrada a Palermo è in combutta con Cosa Nostra, in particolare è il “confidente” del boss Rosario Riccobono. In realtà, Buscetta a Falcone, nel corso dei lunghi e riservatissimi interrogatori(se ne conoscerà il contenuto soltanto dopo mesi e solo al maxiprocesso:proprio come(non)è avvenuto e(non)avviene oggi, con i presunti “eredi” di Falcone,tutto è già sui giornali il giorno dopo)dirà, farà verbalizzare e firmerà il contrario: è Rosario Riccobono il confidente di Contrada e non viceversa, la mafia lo sa o lo sospetta, al punto che nell'ambiente parlano di Riccobono come dello “sbirro” (e presto lo uccideranno).

Sarà solo molti anni dopo, e dopo l'assassinio di Falcone, che Buscetta, ripescato da De Gennaro negli Stati Uniti, dove Falcone l'aveva spedito dopo il maxiprocesso, interrogato dagli “eredi” di Falcone che indagano su Contrada, cambierà radicalmente versione: è Contrada, dirà, che fa il confidente di Riccobono, lo informa delle indagini su di lui e lo avverte in anticipo delle retate predisposte per catturarlo(confrontare i due verbali di interrogatori, firmati da Buscetta a quasi dieci anni di distanza, per credere!) E' solo un gioco di parole, uno scambio di ruoli tra il boss e il poliziotto, il soggetto che diventa complemento oggetto e viceversa: ma basterà a fare di Contrada un rinnegato.

Richiesto di spiegare perché ha letteralmente ribaltato, a distanza di otto anni, le sue dichiarazioni, e ha detto a Caselli esattamente il contrario di ciò che aveva detto a Falcone, Buscetta risponde: “Quel verbale del 1984 fu una imposizione di Falcone. Io non volevo farlo, fu lui a costringermi. Il dottor Falcone,che mi aveva sempre interrogato da solo e scriveva personalmente il verbale, quel giorno mi propose di fare assistere all'interrogatorio il commissario Ninni Cassarà. Io rifiutai dicendo che non mi fidavo della polizia di Palermo, ché c'era corruzione e legami con Cosa Nostra: Falcone allora mi chiese di fare i nomi, e io di nome in nome arrivai pure a Contrada. Falcone insistette che bisognava verbalizzare. C'era grande tensione e il verbale venne così, era nato male...”. A questo punto, gli domandano perché, una volta che era stato costretto a parlarne, non aveva detto a Falcone di Contrada tutto quello che dirà, otto anni dopo, a Caselli. E Buscetta si giustifica così: “Effettivamente Falcone, che io stimavo, non approfondì l'argomento. C'è stata forse una manchevolezza da parte sua. Si vede che, se manca qualcosa fu Falcone che non fece le domande...”. Insomma, se Buscetta non accusò Contrada a Falcone, fu perché Falcone non gli fece la domanda giusta. Otto anni dopo, la domanda giusta gliel'ha fatta Caselli, e Buscetta gli ha finalmente risposto a tono, inguaiando Contrada.

Ignazio D'Antone sarà a sua volta punito per essersi permesso di contattate Buscetta in Brasile prima di De Gennaro:accusato a sua volta di intelligenza con la mafia, processato e condannato in via definitiva ancor prima di Contrada, è già da tempo rinchiuso nel carcere militare dove l'ha appena raggiunto Contrada. D'Antone venne anche coinvolto, e Contrada attraverso di lui, nell'attentato subito da Falcone nella sua casa all'Addaura. Si insinuò che lui, o chi per lui, avesse fatto sparire le prove che l'attentato poteva essere mortale. Era un tentativo di coinvolgere Contrada in qualcosa di ben altra portata che non fossero gli intrallazzi con i confidenti: come l'accusa che Contrada fosse stato personalmente presente sulla scena dell'attentato di via D'Amelio che costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta. Contrada come il servizio segreto deviato dalla massoneria e dai “sistemi criminali” che, per conto di Giulio Andreotti, ammazza Falcone e Borsellino e con le stragi distrugge la prima Repubblica, per far posto a Marcello Dell'Utri e a Silvio Berlusconi.

Il processo a Contrada doveva essere la prova generale del processo a Andreotti, il processo a Andreotti non per associazione mafiosa, come fu, ma per strage e complotto contro la Repubblica. Ma questa è un'altra storia,la pista principale poi abbandonata, e se ne parlerà in un'altra puntata.

Totuccio Contorno doveva essere negli Stati Uniti, ma lo trovano in Sicilia,nel triangolo della morte,in mezzo a 17 cadaveri - Come e perché Luciano Violante per difendere De Gennaro ricatta Giovanni Falcone.

De Gennaro mette le mani anche sull'altro “pentito” del maxiprocesso, Salvatore Contorno.

Anche Contorno è, o dovrebbe essere, negli Stati Uniti, sempre spedito per precauzione da Falcone, e sotto la protezione della polizia americana. Ma non è così. Il 26 maggio 1989 Contorno viene sorpreso,a fatica e con sorpresa riconosciuto, e catturato dalla squadra mobile di Palermo in Sicilia, a migliaia di chilometri di distanza dal New Jersey, in un casolare e insieme a un suo cugino e a un gruppo di fuoco di picciotti armati di lupara e di mitra, nel triangolo della morte Bagheria-Altavilla-Casteldaccia, dove nei giorni precedenti sono stati ammazzati diciassette mafiosi, uno al giorno, e tutti appartenenti alle cosche dei “corleonesi”, nemici di Contorno e di suo cugino.

Chi li ha ammazzati? Cosa ci fa Contorno in Sicilia? Perché ha lasciato la protezione americana ed è tornato segretamente in Sicilia, all'insaputa della stessa polizia di Palermo? Chi lo ha chiamato? Chi lo ha protetto? Non si sa niente, non si capisce niente, finché alla commissione antimafia arrivano le bobine delle intercettazioni delle telefonate intercorse tra Contorno, proprio quando si trova in Sicilia, e De Gennaro, che all'epoca è già vicecapo della Dia. Non solo De Gennaro nelle telefonate mostra di conoscere perfettamente i movimenti del “pentito”, ma Contorno al telefono gli parla confidenzialmente e gli dà del “tu”, e lo sbirro gli chiede insistentemente se “ci sono novità”. Ce ne sarebbe già quanto basta per sospendere De Gennaro dal servizio e per sottoporlo al procedimento disciplinare, se non addirittura a un processo penale con l'accusa di favoreggiamento e di mandante di “assassinii di Stato”.

Invece, per interrogare Contorno si riunisce in seduta segreta un comitato ristretto della commissione parlamentare antimafia, e di esso entra a far parte Luciano Violante, che all'epoca è vicepresidente della commissione.

I verbali di questa riunione sono tuttora stranamente “segretati”, ma chi li ha letti ha scoperto che Violante per l'occasione non si è limitato a difendere a spada tratta De Gennaro (come ha sempre fatto e fa anche oggi che De Gennaro è stato licenziato), ma ha assediato Contorno di domande tanto documentate di notizie che al momento potevano conoscere solo De Gennaro e lo stesso Contorno, quanto oblique e capziose, nel tentativo di fargli ammettere che a conoscenza della sua fuga dagli Usa e del suo ritorno in Sicilia non era stato solo De Gennaro, ma lo sapeva (e magari l'aveva autorizzato) anche Giovanni Falcone, all'epoca alla direzione degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia.

Con un obiettivo fin troppo scoperto: quello di trasferire le responsabilità dell'affare da De Gennaro a Falcone, che da quando collabora con il ministro Claudio Martelli e con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti è considerato da Violante e dai suoi amici un “traditore”. E'un ricatto: prima di punire De Gennaro, dovete infamare e dovete far fuori anche Falcone. Esattamente come Violante farà molti anni dopo, in occasione della “macelleria messicana” al G8 di Genova.

Membro del comitato parlamentare che deve indagare (quando si indaga su De Gennaro, nell'organismo che deve indagare c'è sempre lui) Violante sostiene che,qualsiasi cosa sia successo a Genova, ”la responsabilità è politica e non amministrativa”, e che “il dottor De Gennaro ha rivestito un ruolo importante nella difesa della democrazia italiana”. Morale: De Gennaro è intoccabile, e il responsabile di quanto è successo a Genova non è il capo della polizia, ma il ministro dell'Interno,che è il forzaitaliota Scajola. Da allora Scajola, graziato per i fatti di Genova assieme a De Gennaro, non farà che difendere e lodare il suo capo della polizia. Fino ad oggi, fino a quando De Gennaro sarà destituito, Scajola continuerà a difenderlo e a lodarlo pubblicamente in ogni occasione.

Ricattato da Violante per conto di De Gennaro, Scajola è rimasto grato per la vita ai suoi ricattatori.

De Gennaro prima incastra Andreotti poi scarica Caselli. E De Gennaro non è un ingrato, e volentieri ricambia, ogni volta che Violante è in difficoltà, non esita ad esporsi per difenderlo. Come quella volta che Giovanni Brusca, il braccio destro di Totò Riina, catturato e “pentito”, racconta che ha viaggiato in aereo da Palermo a Roma con Luciano Violante e hanno concordato insieme la trappola per Andreotti (la prima cosa è provata,la seconda no). Quando esplodono le dichiarazioni di Brusca, De Gennaro si precipita a rintuzzarle dicendo tutto il male possibile del mafioso e tutto il bene possibile del suo compare del Pci. Ma esagera, e costringe Giorgio Napolitano, che al momento è ministro dell'Interno, a rimbrottarlo pubblicamente: non tocca a lei, che è un funzionario dello Stato, gli dice, intervenire pubblicamente in queste questioni.

Non altrettanto solidale De Gennaro sarà sempre con il terzo membro della combriccola, il procuratore Giancarlo Caselli, spedito in fretta da Torino a Palermo,giusto in tempo per processare Contrada, Andreotti, Carnevale e compagnia cantando.

E' stato lo stesso Andreotti a rivelare che fu proprio De Gennaro, che aveva arruolato e fornito a Caselli i “pentiti” per processarlo, a recarsi a casa sua per tranquillizzarlo: caro presidente, gli disse De Gennaro, non stia a preoccuparsi, perché a tutti questi “pentiti” e alle loro accuse mancano i riscontri e le prove, alla fine non potranno che assolverla.

Nei riguardi di Caselli, che ci fa la figura del tonto della compagnia, De Gennaro fa anche di peggio.

Nominato capo della polizia con il consenso anche della Casa della Libertà, ed essendo ormai scontata l'assoluzione di Andreotti, i giornalisti di “Repubblica” che a De Gennaro non hanno mai smesso di voler bene, prima durante e dopo, al punto da indurre Francesco Cossiga a presentare un'interrogazione al ministro degli Interni per accertare se addirittura di De Gennaro non fossero a libro paga, “per chiarire definitivamente come stanno le cose tra Caselli e De Gennaro”, scrivono: “E' già dal 1992 che i rapporti tra il nuovo capo della polizia e i magistrati di Palermo sono, se non agitati, per lo meno problematici.

Pur avendo lavorato di buona lena per incastrare Andreotti, De Gennaro non ha mai pensato che le prove raccolte fossero sufficienti e che fossero solidi i riscontri alle dichiarazioni dei ‘pentiti' ed ha sempre espresso i suoi dubbi, convinto come è sempre stato che Andreotti andasse prosciolto già nelle indagini preliminari. Ma rimase inascoltato e finì incastrato da protagonista nella vicenda, con sulle spalle il mantello del perfido burattinaio...”. Infatti, Andreotti non lo ha mai nominato direttamente e mai lo ha accusato, ma ha sempre parlato di un “suggeritore”: dei tre, scartato Caselli per insuperabile incapacità, non restavano che Violante o De Gennaro. Ma Violante è piuttosto l'ispiratore dell'operazione, il suggeritore dei pentiti indispensabili al processo non poteva essere che De Gennaro. Caselli farà anche l'errore di scrivere a “Repubblica” per respingere sdegnosamente le “illazioni” dei giornalisti: De Gennaro non mi ha mai manifestato i suoi dubbi, scrive, e comunque contro Andreotti le prove c'erano, e in abbondanza. Risate dei giornalisti, di Andreotti, di De Gennaro, e dei lettori.

Marcello Pera corre in soccorso di De Gennaro e impedisce a Contrada di denunciare i suoi carnefici.

Non sono solo Luciano Violante e i giustizialisti della sinistra ad accorrere a coprire i misfatti di De Gennaro e a maramaldeggiare su Contrada.

Dopo quasi dieci anni di processi, Contrada, condannato a 10 anni in primo grado, viene clamorosamente assolto in appello con formula piena e annuncia per il giorno dopo la lettura della sentenza una conferenza stampa: Contrada, scrivono i giornali e preannuncia la televisione domani rivelerà i retroscena della congiura ordita contro di lui e farà i nomi e i cognomi dei congiurati.

E' a questo punto che compare sul “Corriere della sera” una intervista del senatore Marcello Pera, all'epoca responsabile di Forza Italia per i problemi della Giustizia, che ha il sapore amaro di un invito a tacere, è a tutti gli effetti una censura e un veto:”Non è più il momento - dice Pera - delle polemiche e la decisione del tribunale di Palermo, che ha assolto il dottor Bruno Contrada, non deve servire ad avvelenare ancora il clima del Paese”.

Insomma, intende Pera, Contrada alla fine è stato assolto: che altro vuole? Si contenti di essersela cavata così a buon mercato, e se ne stia zitto e soprattutto non si azzardi a chiamare in causa il capo della polizia.

Quello che vorrebbe e dovrebbe essere il difensore e il garantista per antonomasia del Partito della Libertà è in combutta con lo sbirro dei “pentiti” e il carnefice degli stessi esponenti della Casa della Libertà, e chiude la bocca alla vittima. Non è un caso isolato: il connubio Pera-De Gennaro dura nel tempo e organizza anche convegni e dibattiti in comune, fino al punto di provocare la reazione indignata di Filippo Mancuso, illustre e stimato magistrato veramente garantista e poi ministro della Giustizia del governo Dini, epurato ad personam perché vuole mandare gli ispettori a Milano e a Palermo. Mancuso, invitato a fare da relatore a uno di questi convegni organizzati dal filosofo delle scienze e dallo sbirro, rovescia il tavolo: con De Gennaro no, esclama, e lo scaccia dalla tribuna.

Intanto Contrada disdice la sera stessa dell'intervista di Pera la conferenza stampa e contemporaneamente invia un telegramma al capo della polizia Gianni De Gennaro: ”Nel frastuono di voci dissonanti voglio che una sola si senta e sovrasti su tutte: quella della mia assoluta dedizione, passata presente e futura, alla polizia di Stato e al suo capo”. Questo è l'uomo, lo sbirro tutto di un pezzo che ha giurato che fin quando De Gennaro sarà il capo della polizia, non parlerà.

Rosario Spatola ‘testimone oculare' di un pranzo che non c'è stato nella saletta riservata che non è mai esistita - Alla procura di Palermo i ‘pentiti' si confessano e cambiano versione a volontà - Il ‘pentito' è tanto più credibile quanto più è assassino e quanta più gente ha ammazzato.

Contrada non parlerà mai più. Subirà in silenzio l'ignominia delle calunnie di una dozzina di “pentiti” reclutati dalla Dia di De Gennaro, che finiranno per smentirsi e per accusarsi a vicenda: come Rosario Spatola, che dice di averlo visto pranzare con Rosario Riccobono nella saletta riservata di un noto ristorante di Palermo che, si scoprirà con le planimetrie esibite dagli avvocati della difesa, non ha mai avuto una saletta riservata.

Spatola, oltre che clamorosamente smentito, finirà espulso dal programma di protezione perché con i soldi dello stipendio dello Stato fa uso e traffico di stupefacenti. A sua volta Spatola si vendicherà rivelando che lui e gli altri “pentiti” sono stati “combinati” e che Gaspare Mutolo, il “pentito” primo tra gli accusatori di Contrada (e sempre dopo aver fatto quattro chiacchiere con De Gennaro), riceve a cena a casa sua gli altri “pentiti” esibiti dall'accusa, per concordare le deposizioni, e i giornalisti portavoce della procura perché pubblichino le accuse a Contrada prima ancora che siano formulate nell'aula del processo.

Nella sentenza di condanna che conclude il processo di primo grado Mutolo è presentato come la “bocca della verità” ed è descritto come il “pentito” più attendibile perché è di tutti il più assassino, quello che ne ha ucciso più di tutti. Gli domandano: quanti omicidi ha fatto? E Mutolo risponde: “Ma guardi, io tra gli omicidi e gli strangolamenti, insomma, sono più di 30,30 omicidi che ho fatto in tre anni, dal '73 al '76, e in un piccolo periodo dall'81 all'82...”. Perché,scrivono i giudici nella sentenza di condanna, “un primo indice di affidabilità delle notizie riferite dal collaboratore di giustizia deve rinvenirsi nello spessore mafioso degli uomini d'onore”. Come dire che la credibilità di un “pentito” che accusa la si misura in proporzione agli omicidi che ha commesso e allo “spessore mafioso” dei compari che ha frequentato. Più il “pentito” è mafioso, più è scellerato, più è ignobile, più è assassino, più ne ha assassinati, più è credibile, più le sue accuse rispondono sicuramente a verità.

E chi è più credibile di Gaspare Mutolo, detto “u saittuni”, il topo di fogna?

Francesco Di Carlo accompagna Stefano Bontate e Mimmo Teresi a Milano a far visita e a baciare ilvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri - De Gennaro lo va a prendere nelle carceri inglesi e gli fa un'offerta che Di Carlo non può rifiutare - Cosimo Cirfeta viene ‘suicidato' in carcere con una bomboletta di gas.

Così Francesco De Carlo, reclutato da De Gennaro nelle carceri inglesi, dove era detenuto per traffico di stupefacenti, e dove gli inviati di De Gennaro gli hanno fatto un'offerta che non poteva rifiutare: se ci dici qualcosa su Contrada, ti tiriamo fuori di qui, facendoti risparmiare sette anni di carcere, e ti riportiamo libero e stipendiato in Italia... E' lo stesso Di Carlo che sosterrà di aver accompagnato a Milano da Berlusconi e da Dell'Utri i capi di Cosa Nostra Stefano Bontate e Mimmo Teresi, per trattare di “affari” e per garantire che la mafia non farà del male ai figli del padrone della Fininvest.

Si scoprirà e si proverà, ma soltanto dopo anni dalla deposizione e nel corso del processo d'appello a Dell'Utri, che nel periodo in cui Di Carlo avrebbe accompagnato Bontate e Teresi a far visita a Berlusconi (e ad abbracciarlo e baciarlo, Di Carlo testimone oculare), Bontate era recluso sotto costante sorveglianza al soggiorno obbligato a Pescara e poteva muoversi sotto scorta solo per presenziare al suo processo in corso a Palermo, e Teresi era al soggiorno obbligato a Foligno. Di Carlo sarà poi che sorpreso nel cortile del carcere in cui è detenuto mentre arruola a sua volta altri “pentiti” per accusare Dell'Utri e concordare le accuse. Cosimo Cirfeta, il “pentito” che ha sorpreso e denunciato Di Carlo e i “pentiti” suoi complici, è stato “suicidato” nella sua cella con una bomboletta di gas.

Francesco Marino Mannoia non sa niente di Contrada e lo dichiara a verbale, ma il verbale sparisce - Come è perché il mafioso Mannoia è più "uomo d'onore" dei pm di Palermo.

Il caso del “pentito” Francesco Marino Mannoia è ancora più clamoroso e scandaloso. Nel corso del processo di primo grado Mannoia depone che Contrada e Riccobono facevano i confidenti l'uno dell'altro”, e Contrada viene condannato. Al processo di appello gli avvocati di Contrada scoprono che esistono i verbali di due precedenti interrogatori di Mannoia, dove il “pentito”, richiesto dai pm se sa e può dire qualcosa di Contrada, dichiara di non saperne assolutamente nulla. Il presidente della Corte d'appello, la prima, quella che assolverà Contrada, domanda ai pm perché i verbali di quei due interrogatori sono stati nascosti e non sono stati portati al processo. Il pm Antonio Ingroia gli risponde che non hanno portato quei verbali perché “li avevamo ritenuti irrilevanti perché non riferivano alcuna circostanza a carico di Contrada” e perché l'accusa “è interessata solo ai documenti che sono a sostegno delle tesi accusatorie”.

Lo Stato di diritto e la Costituzione si declinano così nella cultura dei professionisti dell'antimafia. Persino Mannoia, mafioso e delinquente e assassino, dimostrerà di avere più senso della giustizia degli inquisitori della procura di Palermo, e in particolare di questo Ingroia che nasconde i documenti della difesa e si esalta solo con quelli che accusano. Richiamato a deporre due anni dopo dalla Corte d'appello che assolverà Contrada, Mannoia dichiara: tutto quello che vi ho raccontato non è mai stato a mia diretta conoscenza, l'ho solo sentito dire in giro, “mi auguro che voi vogliate restituire l'onore a quest'uomo”. Come quei giudici faranno, il 4 maggio del 2001, nove anni dopo l'arresto della vigilia di Natale del '92, lo assolveranno con formula piena, perché “il fatto non sussiste”.

E con questa motivazione: “La sola frequentazione di Contrada con i boss mafiosi, senza il corredo di ulteriori manifestazioni significative o indizianti, non costituisce prova della sua volontà di prestare sostegno all'associazione criminosa. Le accuse dei collaboranti, alcuni dei quali possono essere portatori di sindrome rivendicatoria, difettano in linea di massima della necessaria specificità, riducendosi a mere affermazioni basate su apprezzamenti personali o considerazioni soggettive, mentre le circostanze esaminate e considerate come elementi di riscontro,si rivelano prive di valore probatorio”.

L'assoluzione, in effetti, è valsa a Contrada solo la restituzione della sciabola d'ordinanza che gli era stata sequestrata, nove anni prima, al momento dell'arresto. Presto la Cassazione annullerà la sentenza di assoluzione e i giudici del nuovo processo d'appello gli rifileranno, pari pari, i dieci anni di galera che gli avevano inflitto i giudici di primo grado e che la prima Corte d'appello gli avevano tolti. In compenso, nonostante l'intervenuta condanna, non gli sarà sequestrata nuovamente la sciabola.

L'anfora rubata dalla mafia e che non è mai esistita, l'amante di Contrada a cui non è stata mai regalata l'Alfa Romeo, la parrucchiera che scopre i segreti dei boss sotto il casco della permanente, la medium che ha visto e sentito in sogno Giovanni Falcone, le notizie ricevute dai ‘pentiti' dall'oltretomba, il sorriso che inganna nella terra di Pirandello.

Degli altri “pentiti” non metterebbe nemmeno conto parlare, la tragedia viene sommersa dalla farsa. Tale Pietro Scavuzzo, più che rispettabile per il numero degli assassinii commessi, e quindi più che credibile, racconta che un giorno è salito in un appartamento di via Roma a Palermo, accompagnato da un esperto archeologo, presentatogli da un cittadino svizzero di nome Ludwig, e ricevuti da una signora dell'apparente età di 50-55 anni,che li fa accomodare in una stanza per valutare l'autenticità e il prezzo di mercato di un'anfora antica, che è stata regalata dalla mafia a Contrada, e che a sua volta Contrada deve regalare al vice questore di Trapani.

Mesi e mesi di indagini e di accertamenti, decine e decine di agenti alla caccia, milioni di spese per individuare l'appartamento, l'archeologo, lo svizzero Ludwig, la signora cinquantenne, l'anfora antica.

Senza risultato: l'appartamento, l'archeologo, Ludwig, la signora cinquantenne, l'anfora non si trovano, non se ne scopre l'ubicazione, il numero civico, né si trova il nome, né il cognome dei supposti protagonisti della seduta archeologica, il vice questore, perquisito lui, la casa del padre, le case dei fratelli, delle sorelle, dei figli, non si trovano anfore, niente di niente, non esistono.

Ma che significa? “Tuttavia - scrivono i giudici nella sentenza di condanna - la mancata individuazione dell'appartamento non è idonea a smentire la veridicità delle dichiarazione del collaborante, atteso che il periodo riportato colloca il momento dell'incontro in un periodo in cui era possibile la presenza di Contrada a Palermo...”. Nessuno l'ha visto, nessuno li ha visti, nessuno processualmente esiste, e tuttavia “ci poteva stare, si potevano incontrare,possono esistere” e possono aver nascosto, chi sa dove, l'anfora della mafia che non si trova e non sarà mai più trovata. Un altro “pentito” denuncia che sono scomparsi 15 milioni dai conti di Riccobono e che il boss in realtà li ha regalati a Contrada, che ci ha comprato un'auto AlfaRomeo per regalarla alla sua amante. Perché, come sostiene e anche dimostra l'accusa, a Contrada “piacciono le donne”, e la mafia gliene offre a bizzeffe e gli da i soldi per mantenerle. Ricerche per mesi dell'amante di Contrada e dell'AlfaRomeo, inchiesta a tappeto su tutte le signore di Palermo che posseggono un'AlfaRomeo, finché gli avvocati dimostrano che quei 15 milioni Riccobono li ha spesi per regalare un'auto alla moglie, otto milioni, e un'auto alla madre, sette milioni.

Tra i testi dell'accusa c'è pure una parrucchiera che avrebbe ricevuto le confidenze di una sua cliente, figlia di un boss “amico” di Contrada mentre le faceva la messa in piega, e una medium che ha visto in sogno Giovanni Falcone che l'avvertiva che sarebbe stato presto ammazzato anche Paolo Borsellino e che l'assassino dell'uno e dell'altro è Contrada. E accanto alla parrucchiera e alla medium c'è la famosa investigatrice svizzera Carla Del Ponte, che ha inquisito Oliviero Tognoli, un industriale riciclatore dei soldi della mafia, fuggito in Svizzera mentre stavano per arrestarlo a Palermo. La Del Ponte sostiene, e depone sotto giuramento in tal senso, che Tognoli ha confessato che ad avvertirlo per farlo fuggire in tempo è stato Contrada. Ma nel verbale dell'interrogatorio firmato da Tognoli l'accusa a Contrada non c'è: “Pare comunque inverosimile - scriveranno i magistrati della Camera dei ricorsi penali del tribunale di appello di Lugano - che un magistrato che ha controfirmato i verbali resi da Tognoli, deponga poi attribuendo allo stesso Tognoli dichiarazioni diametralmente opposte a quelle verbalizzate, come appare problematico dare rilevanza alle dichiarazioni di coloro che erano istituzionalmente presenti all'interrogato di Tognoli e che riferiscono di dichiarazioni che sarebbe state rese, ma non risultano riportate nel verbale”. Perché è successo anche questo, che i presenti all'interrogatorio hanno riferito che Tognoli non disse né verbalizzò nulla contro Contrada, ma a domanda estemporanea e fuori verbale di Giovanni Falcone (“Non sarà stato Contrada ad avvertirla...?”) aveva risposto con un sorriso:”un sorriso - arriva a dire lo stesso Falcone - che per chi conosce il linguaggio dei siciliani, e in specie della mafia, non poteva che avere un significato, quello di confermare che ad informarlo era stato Contrada...”.

Ecco il dilemma: che vorrà dire l'ambiguo sorriso di un siciliano? Vuole dire “sì” o vuole dire “no”? Alla risposta a questa domanda è appeso il destino di Bruno Contrada.

Sta di fatto che col tempo si scoprirà chi è veramente stato ad informare Contrada, non è stato il Tognoli, sfinge sorridente, ma un poliziotto di Palermo notoriamente suo amico da tempo. Nel frattempo, anche per quel “sorriso” alla siciliana, Contrada viene condannato a dieci anni di galera.

Contrada condannato in primo grado, assolto in appello, l'assoluzione cancellata dalla Cassazione, ricondannato nel secondo appello, la sentenza confermata dalla seconda Cassazione.

Quando poi Contrada sarà assolto in appello, la Cassazione annullerà “per mancanza di struttura logica nella motivazione” e dispone un nuovo giudizio per confermare o contestare la “logica” della motivazione della assoluzione.

Si scoprirà che i segugi di Palermo, appena dopo l'assoluzione di Contrada in appello, hanno intercettata una conversazione tra due presunti mafiosi, che è in loro possesso dall'11 novembre del 2001, da sei mesi dopo l'assoluzione di Contrada, e l'hanno tenuta nascosta fino a quando la Cassazione non ha annullato la sentenza di assoluzione. Nella conversazione intercettata uno dei due mafiosi dice all'altro: “Questo Contrada ha due palle d'acciaio, grosse come le ruote di un automobile...”. E l'altro replica: “Iddu ci fici scappare...”. Che significa? C'è una duplice esegesi, alcuni dei periti sostengono che vuol dire che Contrada aveva aperto le porte della cella per favorire la loro evasione, o quanto meno li aveva avvertiti alla vigilia di una retata; altri esperti sostengono che vuol dire che Contrada li ha sorpresi sul lavoro e li ha messi in fuga. Come che sia, al secondo appello Contrada verrà ricondannato anche per l'interpretazione controversa di una telefonata.

Le accuse a Contrada, tutte le accuse, nessuna esclusa, si basano sul “de relato”, nessun “pentito” sa le cose che dice di scienza propria, tutti riferiscono per sentito dire. Molti si basano persino sul “de relato” dall'oltretomba, quelli che le cose gliele avrebbero dette, sono tutti morti. Buscetta riferisce cose che dice di aver apprese da Riccobono e da Bontate: Bontate è morto ammazzato il 23 aprile del 1981, 14 anni prima del processo a Contrada e della deposizione di Buscetta; Riccobono è morto ammazzato il 30 novembre del 1982, 13 anni prima. Mutolo riferisce da Riccobono, morto. Marino Mannoia riferisce da Bontate e Riccobono, idem. Spatola riferisce del pranzo di Contrada con Riccobono in saletta del ristorante che non è mai esistita e con Riccobono che è morto,idem. Quando gli avvocati di Contrada esibiscono la planimetria del ristorante che smentisce Spatola, i pm richiamano il “pentito” e gli fanno cambiare versione: Contrada e Riccobono non mangiavano in una saletta, dirà Spatola, ma in un angolo appartato del ristorante, accanto al cesso.

Cinque capi della polizia, due capi del controspionaggio, tre alti commissari per la lotta alla mafia, due generali della Guardia di Finanza, venti tra questori e funzionari di Ps, dieci ufficiali dei Carabinieri, una cinquantina di agenti e due ministri difendono Contrada - Ma i giudici di Palermo credono solo agli assassini.

Contro le accuse di questi “pentiti” sono sfilati a deporre in difesa di Contrada cinque capi della polizia, Parlato, Coronas, Porpora, Parisi e Masone, e due capi del controspionaggio, Malpica e Voci, e tre alti commissari per la lotta contro la mafia, De Francesco, Boccia e Finocchiaro, due generali di divisione della Guardia di Finanza, Mola e Pizzuti, e 20 tra questori e funzionari di Ps, e 10 ufficiali dei carabinieri, e una cinquantina di agenti delle squadre mobili, e due ministri. Il più prestigioso dei capi della polizia che abbia avuto l'Italia, Vincenzo Parisi, proprio lui che ha preso a benvolere De Gennaro e lo ha protetto e agevolato nelle carriera, dichiara al processo: “Bruno Contrada è un investigatore straordinario: il suo è un curriculum brillantissimo ed egli ha sempre dimostrato una conoscenza straordinariamente approfondita del fenomeno mafioso, di cui è una memoria storica eccezionale. E per questo ha ricevuto per trentatrè volte elogi dall'amministrazione e dalla magistratura.

Bisogna far luce - concludeva Parisi - su eventuali interessi ed eventuali corvi che hanno ispirato ai ‘pentiti' le loro accuse e le loro rivelazioni così tardive. I fatti di cui loro parlano sarebbero avvenuti più di dieci anni fa: perché i ‘pentiti' parlano solo ora e chi li manovra?. Io vedo un pericolo per la democrazia...”. E a Giacomo Mancini, segretario del Psi, Parisi confiderà: “Questo De Gennaro mi preoccupa, si sta sempre più legando a Luciano Violante e ai comunisti, ed è sempre più spregiudicato nei metodi che adotta nelle indagini...”.

Il prefetto Emanuele De Francesco, che è stato il primo alto commissario antimafia e poi è stato direttore del Sisde, ha raccontato ai giudici dello “specioso malanimo” agitato contro Contrada, quando era il suo capo di Gabinetto, da certe “lobby” o “cordate”, così le ha chiamate, del ministero dell'Interno, e ha raccontato che a un certo punto il fenomeno divenne così evidente e scandaloso che fu costretto a scrivere una lettera(esibita al processo)all'allora presidente della Repubblica Scalfaro per denunciare questi attacchi a Contrada che “provenivano dall'interno della Questura”.

Un Altro prefetto, Angelo Finocchiaro, che è stato direttore del Sismi, era già andato a deporre dinanzi alla commissione parlamentare antimafia per denunciare “gli attacchi ripetuti e proditori” e “la campagna denigratoria” contro Contrada e il Sisde. Finocchiaro fece dinanzi ai giudici una clamorosa rivelazione: una notte c'era stata una misteriosa “irruzione” negli uffici del Sisde, il servizio segreto civile, degli agenti della Dia diretti da De Gennaro. Che cercavano? Cosa portarono via? Chi ce li aveva mandati? ”Contrada - dice Emanuele Macaluso, l'ex esponente del Pci che più ne sa della Sicilia e della mafia - si è trovato al crocevia di un periodo di transizione che naturalmente ha coinvolto anche gli apparati. Bisognerebbe scrivere un libro sulla guerra degli apparati, sulla guerra tra polizia e carabinieri, sulla guerra tra i servizi segreti e i vari corpi speciali, sulla guerra sferrata e vinta da De Gennaro...”.

Del resto, è stato il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga a chiedere, a un certo punto, lo scioglimento della Dia, accusandola di aver adottato i metodi propri di un servizio segreto di polizia politica”.

Ma i giudici di primo grado e quelli del secondo appello hanno creduto, piuttosto che al fior fiore dei funzionari e dei servitori dello Stato, agli assassini e ai peggiori lestofanti, senza riscontri e senza prove, ma sempre reclutati e addestrati e pagati per la bisogna dalla Dia diretta da De Gennaro. Gli hanno creduto e li hanno premiati, mettendoli in libertà, perché magari, come è avvenuto ed è stato giudiziariamente accertato per Spatola e Contorno, potessero tornare a delinquere, e finanziati dallo Stato. Il presidente della seconda Corte di appello, quella che a differenza della prima, ha condannato Contrada, si era già pronunciato per la colpevolezza di Contrada quando, cinque anni prima, in qualità di gip, gli aveva negato la scarcerazione, nonostante due anni e mezzo - due anni e mezzo! - già passati in isolamento a Forte Boccea, e le gravi condizioni di salute: era assolutamente incompatibile a partecipare e a presiedere la Corte, ma ce l'avevano messo appositamente.

15 anni di processi e di prigione a Contrada, 15 anni di splendida carriera a De Gennaro - Sempre d'accordo a sostenere De Gennaro la destra e la sinistra - Solo Cossiga lo accusa: uomo insincero, tortuoso, ipocrita, falso, cinico e ambiguo, la sua Dia è come l'Ovra, la Gestapo,il Kgb - Il ministro dell'Interno non risponde Cossiga presenta le sue dimissioni da senatore a vita - La Giustizia come la intende il pm Antonio Ingroia.

Arrestato alla vigilia di Natale del '92,alle 7 del mattino, la vittima del “Processo” di Kafka (“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché alle 7 del mattino bussarono alla sua porta...”), Contrada aveva allora 62 anni, è rimasto rinchiuso per due anni e sette mesi in un carcere militare riaperto solo per lui,e prima ancora che cominciasse il processo (intanto reclutavano i “pentiti”), e dopo 15 anni trascorsi tra il processo di primo grado, i due processi di appello,le due volte in Cassazione, è tornato in galera a 77 anni per scontare altri otto anni,e forse per non riuscirne più da vivo. Nel frattempo, Gianni De Gennaro ha fatto la sua splendida carriera. Dopo ogni sfornata di “pentiti”, dopo ogni processo politico, il suggeritore De Gennaro aveva uno scatto di carriera, vicecapo e capo della Dia prima, vicecapo e capo della polizia dopo, con gli uomini a lui fedeli sistemati in tutti i posti chiave, con quelli che non erano d'accordo emarginati, epurati, sempre con il rischio di fare la fine di Contrada.

Due poliziotti: a Contrada 15 anni di processi e di galera, a De Gennaro 15 anni di carriera. Con il centro sinistra e il centro destra sempre d'accordo, la sinistra lo ha nominato capo della polizia, la destra lo ha riconfermato, con tutti, o quasi tutti sempre a difenderlo: Scajola o Amato, Violante o Pera, giustizialisti di professione o garantisti da operetta. Era rimasto soltanto Cossiga a tener duro: “Farò di tutto per far cacciare De Gennaro - aveva gridato qualche mese fa in pieno Senato - un uomo insincero, tortuoso, ipocrita, falso, un personaggio cinico e ambiguo che usa spregiudicatamente la sua influenza, un losco figuro di tale bassezza morale che è passato indenne da manutengolo della Fbi americana, dalla tragedia del G8 di Genova, che è passato indenne dopo aver confezionato la polpetta avvelenata che ha portato alle dimissioni di un ministro dell'Interno,che è passato indenne da tante cose...”(Senato della Repubblica, XV legislatura,81°seduta, 23 novembre 2006, resoconto stenografico,pagina 72).

Cossiga ha presentato una decina di interrogazioni e di interpellanze.

Il ministro dell'Interno non gli ha mai risposto,il Parlamento non ne ha mai discusso, la stampa e la televisione hanno sempre taciuto. Anche l'ultima volta, dopo l'ennesima interrogazione e dopo le accuse più violente e clamorose che siano state mai pronunciate in un Parlamento, il ministro non ha risposto pubblicamente a Cossiga (soltanto ha inviato a Cossiga dopo un mese un biglietto “privato”, il cui contenuto è rimasto segreto). Cossiga ha presentato le dimissioni da senatore a vita: ”Tanto, non conto niente - ha dichiarato - il Senato della Repubblica non conta più niente”. E ha chiesto scusa.

Il Presidente emerito della Repubblica ha chiesto scusa allo sbirro, al carnefice di Contrada e di tanti altri. Il Senato ha respinto le dimissioni di Cossiga. Il Governo, dopo sette anni e un mese che ha diretto la polizia, ha destituito De Gennaro, non senza ricoprirlo di ringraziamenti e di elogi. Contrada ha bussato al portone del carcere militare di Santa Maria Capua Vetere e si è consegnato.

Il solito pm di Palermo Antonio Ingroia, quello che ha sostenuto l'accusa contro Contrada, ed è lo stesso che ha sostenuto l'accusa contro Dell'Utri nel processo di primo grado, e utilizzando gli stessi “pentiti”, si è dichiarato “soddisfatto” di come è finita per Contrada in Cassazione dopo 15 anni: “E' la dimostrazione - ha detto - che avevamo ragione,che il processo che gli abbiamo fatto era giusto”.

La storia dei giorni delle stragi così l'ha descritta in un interrogatorio del 7 aprile 2008, rimasto fino ad oggi segreto, Massimo Ciancimino, il figlio dell'ex sindaco di Palermo, Vito. "Una ventina di giorni prima della strage Borsellino, mio padre mi disse che aspettava una persona - racconta il rampollo di don Vito, di recente condannato per riciclaggio - quell'uomo venne nella villa che avevamo affittato a Monte Pellegrino. La busta conteneva le richieste di Cosa nostra, il papello. Io non l'ho visto, ma mio padre me ne parlò: c'era un elenco di 10-12 richieste. C'era ad esempio qualche immunità: volevano che le famiglie dei mafiosi venissero lasciate in pace". "Mio padre si dannava - prosegue Massimo Ciancimino - perché su tre-quattro cose si poteva anche intavolare una discussione, ma su sette, otto, mi disse: saranno irricevibili".

Erano i giorni in cui Vito Ciancimino incontrava anche un ufficiale del Reparto operativo speciale dei carabinieri, il capitano Giuseppe De Donno: "Voleva un aiuto per la cattura dei superlatitanti", dice Massimo Ciancimino. Ma dopo quella misteriosa consegna del papello, il pensiero del vecchio Ciancimino fu uno solo: "Mi disse di contattare De Donno, siamo partiti per Roma. La busta è partita con mio padre".

Ciancimino junior accusa: "Prima della strage Borsellino, ci furono tre incontri con i carabinieri, di cui due alla presenza del generale del ROS Mario Mori, ex capo del SISDE".

Chiedono i pm nell'interrogatorio: "Suo padre riferì di queste richieste, di quel foglio di carta ai carabinieri?". Risposta: "Sì, le ha riferite. Anche perché lui tornò da Palermo con il preciso... di incontrare il generale Mori e di raccontare qual era stato il contenuto dell'incontro. Ma era amareggiato: vedrai che mi manderanno a fanculo perché sono richieste inaccettabili, improponibili". Ciancimino conclude: "Mio padre mi raccontò poi che la trattativa si era chiusa nel momento in cui i carabinieri avevano chiesto la consegna di Riina".

È stato condannato a una sfilza di ergastoli per decine di omicidi e per le più sanguinarie stragi di mafia, a cominciare da quelle di Capaci e via D'Amelio. Sa che ogni sua parola può essere interpretata come un messaggio obliquo. Ma quando il 19 luglio 2009 Totò Riina, il capo dei corleonesi, è uscito dalla cella a regime di carcere duro per incontrare in una saletta il suo avvocato, Luca Cianferoni, aveva bisogno di sfogarsi: «Ne so poco perché qui non mi passano nemmeno i giornali. Ma questa storia della "trattativa", di un mio "patto" con lo Stato, di tutti gli impasti con carabinieri e servizi segreti legati al fatto di via D'Amelio non sta proprio in piedi. Io della strage non ne so parlare. Borsellino l'ammazzarono loro». Un boato così fragoroso e inquietante nemmeno il suo avvocato se l'aspettava, proprio nel diciassettesimo avversario del massacro. Ovvia la domanda immediata: «Loro? Chi sono "loro"?». E arriva la risposta, a differenza di tante altre volte, dei silenzi ermetici di tante udienze dibattimentali: «Loro sono quelli che hanno fatto la trattativa, quelli che hanno scritto il "papello", come lo chiamano. Ma io della trattativa non posso saperne niente di niente. Perché io sono oggetto, non soggetto di trattativa. E la stessa cosa è per quel foglio con le richieste che qualcuno avrebbe presentato attraverso Vito Ciancimino. Mai scritto da me. Facciamo pure la perizia calligrafica appena viene fuori e scopriremo che io non ho niente a che fare con questa vicenda».

Evidente il richiamo al documento che il figlio di «don Vito», Massimo Ciancimino, sarebbe finalmente pronto a consegnare ai magistrati di Palermo e Caltanissetta, a loro volta impegnati in una revisione delle inchieste sulle stragi di Capaci e via D'Amelio. Fatti nuovi che per molti osservatori e anche per tanti familiari di vittime di mafia la stessa magistratura avrebbe potuto mettere a fuoco già alcuni anni fa, bloccata da omissioni e depistaggi denunciati negli ultimi giorni soprattutto dal fratello di Paolo Borsellino. Ma stavolta a pensarla così, per un paradosso tutto da interpretare, è proprio Salvatore Riina nello sfogo destinato a intercettare gli spinosi argomenti del processo in corso al generale Mario Mori e al colonnello Giuseppe De Donno: «Sono stati i giudici a bloccare l'accertamento perché ho chiesto io a Firenze quattro anni fa di sentire Massimo Ciancimino, per chiedergli quello che sta tirando fuori solo adesso. Ci ho provato a parlare di Ciancimino padre come tenutario di una trattativa con i carabinieri. E volevo che li sentissero tutti in aula, a Firenze. Ma i giudici non hanno ammesso l'esame. Ora parlano tutti di misteri. Ma ci potevamo arrivare, come dicevo io, quattro anni fa a parlare di una trattativa che io ho subito come un oggetto, sulla mia testa». E insiste con l'avvocato Cianferoni ricordandogli tutti i dubbi che gli vengono in cella ripensando a storie e personaggi vicini a Ciancimino padre: «La trattativa questi signori l'hanno fatta sopra di me. Non l'ho fatta io, estraneo ai patti di cui si parla».

Il boss dei boss, indicato come lo stragista più sanguinario di Cosa Nostra e come l'uomo che voleva fare la guerra per fare la pace, ribalta così il quadro. Forse anticipando una difesa da proporre negli eventuali nuovi processi determinati dalla possibile revisione, ma blocca ogni interpretazione: «Per me credo che non cambierà nulla anche con le nuove dichiarazioni di questo pentito, Spatuzza. Non sto facendo calcoli. Ma si deve almeno sapere che io la trattativa non l'ho coltivata». Sarà un modo per rovesciare la responsabilità sull'altro grande capo, Bernardo Provenzano? Riflette un po' Riina perché sa che molti dietro il suo arresto vedono proprio la mano di «don Binnu». «Mai detto e mai pensato», assicura a Cianferoni che trasferisce la convinzione. Aggiungendo l'ultima osservazione di Riina, pur esposta naturalmente a un basso tasso di credibilità: «Le dicerie su Provenzano sono false. Come la storia di Di Maggio. Trattativa, stragi e il mio arresto sono una faccenda molto più alta. Tocca i piani alti della politica. Bisogna capire che Borsellino è morto per mafia e appalti, non per i mafiosi». Politica? E qui riflette il legale di Riina che lo segue dal 1997, certo di interpretarne il pensiero: «Parla di politica intesa come "centri di interesse". E a quell'epoca erano tutti in fibrillazione. Insomma, per capire che cosa c'è dietro la morte di Borsellino bisogna risalire a Milano, non fermarsi a Palermo. E guardare al nesso fra Tangentopoli e le bombe della Sicilia. Quando volevano cambiare tutto».

Non è tutto. Due magistrati si sono presentati al procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e al suo vice Domenico Gozzo. Due giovani colleghi di Paolo Borsellino a Marsala, un uomo e una donna. Hanno messo a verbale: "Un giorno di quell'estate siamo andati a trovare Paolo nel suo ufficio a Palermo, era stravolto. Si è alzato dalla sedia, si è disteso sul divano, si è coperto il volto con le mani ed è scoppiato a piangere. Era distrutto e ripeteva: "Un amico mi ha tradito, un amico mi ha tradito..."".

La vedova Borsellino ai pm: "Ecco tutti i sospetti di Paolo". Lo stralcio dei verbali su un articolo de “La Repubblica”.

Ha parlato come non aveva fatto mai, dopo diciassette anni. Per dire tutto. Il suo interrogatorio è cominciato così: "Avevo paura, non tanto per me ma avevo paura per i miei figli e poi per i miei nipoti. Adesso però so che è arrivato il momento di riferire anche i particolari più piccoli o apparentemente insignificanti". È la vedova che ricorda gli ultimi due giorni di vita di Paolo Borsellino. È la signora Agnese che spiega ai magistrati di Caltanissetta cosa accadde nelle 48 ore precedenti alla strage di via Mariano D'Amelio.

Il verbale di interrogatorio è del settembre 2009, lei da una parte e i procuratori di Caltanissetta Sergio Lari e Domenico Gozzo dall'altra. Lei si è presentata spontaneamente per raccontare "quando Paolo tornò da Roma il 17 di luglio". Il 17 luglio 1992, due giorni prima dell'autobomba. Paolo Borsellino è a Roma per interrogare il boss Gaspare Mutolo, un mafioso della Piana dei Colli che aveva deciso di pentirsi dopo l'uccisione di Giovanni Falcone. È venerdì pomeriggio, Borsellino lascia il boss e gli dà appuntamento per il lunedì successivo.

Quando atterra a Palermo non passa dal Tribunale ma va subito da sua moglie. "Mi chiese di stare soli, mi pregò di andare a fare una passeggiata sulla spiaggia di Villagrazia di Carini", ricorda la signora Agnese. Per la prima volta in tanti anni il procuratore Borsellino non si fa scortare e si concede una lunga camminata abbracciando la moglie. Non parlava mai con lei del suo lavoro, ma quella volta Paolo Borsellino "aveva voglia di sfogarsi". Racconta ancora la signora Agnese: "Dopo qualche minuto di silenzio, Paolo mi ha detto: 'Sai Agnese, ho appena visto la mafia in faccia...'". Un paio d'ore prima aveva raccolto le confessioni di Gaspare Mutolo. Su magistrati collusi, su superpoliziotti che erano spie, su avvocati e ingegneri e medici e commercialisti che erano al servizio dei padrini di Corleone. Non dice altro Paolo Borsellino. Informa soltanto la moglie che lunedì tornerà a Roma, "per interrogare ancora Mutolo".

Il sabato passa tranquillamente, la domenica mattina - il 19 luglio, il giorno della strage - il telefono di casa Borsellino squilla. È sempre Agnese che ricorda: "Quel giorno, molto presto, mio marito ricevette una telefonata dell'allora procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco. Mi disse che lo "autorizzava" a proseguire gli interrogatori con il pentito Mutolo che, per organizzazione interna all'ufficio, dovevano essere gestiti invece dal procuratore aggiunto Vittorio Aliquò".

Lo sa bene Paolo Borsellino che sta per morire. E ai procuratori di Caltanissetta Agnese l'ha ribadito un'altra volta: "Paolo aveva appreso qualche giorno prima che Cosa Nostra voleva ucciderlo".

Un'informazione che arrivava da alcune intercettazioni ambientali "in un carcere dov'erano rinchiusi dei mafiosi". Una minaccia per lui e per altri due magistrati, Gioacchino Natoli e Francesco Lo Voi. Ricorda sempre la vedova: "Così un giorno Paolo chiamò i suoi due colleghi e disse loro di andare via da Palermo, di concedersi una vacanza. Li consigliò anche di andare in giro armati, con una pistola". Gioacchino Natoli e Lo Voi gli danno ascolto, ma lui - Borsellino - rimane a Palermo. Sa che è condannato a morte. E ormai sa anche della "trattativa" che alcuni apparati dello Stato portano avanti con Riina e i suoi Corleonesi. Ufficiali dei carabinieri, quelli dei Ros, il colonnello Mario Mori - "l'anima" dei reparti speciali - e il fidato capitano Giuseppe De Donno. Probabilmente, questa è l'ipotesi dei procuratori di Caltanissetta e di Palermo, Paolo Borsellino muore proprio perché contrario a quella "trattativa".

Nella nuova inchiesta sulle stragi siciliane e sui patti e i ricatti con i Corleonesi, ogni giorno scivolano nuovi nomi. L'ultimo è quello del generale Antonino Subranni, al tempo comandante dei Ros e superiore diretto di Mori. Un testimone ha rivelato ai procuratori di Caltanissetta una battuta di Borsellino: "L'ha fatta a me personalmente qualche giorno prima di essere ammazzato. Mi ha detto: 'Il generale Subranni è punciutu" (cioè uomo di Cosa nostra)...'".

Un'affermazione forte ma detta nello stile di Paolo Borsellino, come battuta appunto. Cosa avesse voluto veramente dire il procuratore, lo scopriranno i magistrati di Caltanissetta. La frase è stata comunque messa a verbale. E il verbale è stato secretato.

Il nome del generale Subranni è affiorato anche nelle ultime rivelazioni di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. Nella sua intervista a Sandro Ruotolo per Annozero (però questa parte non è andata in onda ma è stata acquisita dalla procura di Caltanissetta), Massimo Ciancimino sosteneva: "Mio padre per la sua natura corleonese non si è mai fidato dei carabinieri. E quando il colonello Mori e il capitano De Donno cercano di instaurare questo tipo di trattativa, è chiaro che a mio padre viene il dubbio: ma come fanno questi due soggetti che di fatto non sono riusciti nemmeno a fare il mio di processo (quello sugli appalti) a offrire garanzie concrete?...". E conclude Ciancimino: "In un primo momento gli viene detto che c'è il loro referente capo, il generale Subranni...". È un'altra indagine nell'indagine sui misteri delle stragi siciliane.

Su “Il Tempo” le considerazioni di Salvatore Borsellino.

Ha visto che cosa l’ex ministro Vizzini ha dichiarato al Tempo? «Sì, ho letto». Dice che nel loro ultimo incontro, tre giorni prima della strage, Paolo si soffermò in particolare sui rapporti tra mafia e appalti... «In quel tempo gli interessi di mio fratello erano concentrati sul nesso mafia-appalti. E su quella trattativa con lo Stato, io ripeto. Comunque nelle carte, nell’agenda grigia di Paolo». «Ho anche trovato tracce di questi loro incontri. E vorrei chiedere a Vizzini se Paolo gli parlò del dossier che aveva appena ricevuto dal sindacalista Gioacchino Basile riguardo alle infiltrazioni del clan Galatolo nel porto di Palermo. Così...»

E che cosa pensa delle rivelazioni di Claudio Martelli che l'ex sindaco Ciancimino nel giugno del '92 si sarebbe offerto di collaborare in cambio di protezioni politiche? «Penso quello che penso per Violante. Tante persone cominciano a ricordare cose che se avessero detto 16, 15 anni fa non ci troveremmo al punto in cui ci troviamo... Non vorrei che questi improvvisi sussulti di memoria avvengano ora, magari prima di essere sentiti da questi magistrati che stanno portando avanti le indagini adesso».

Salvatore Borsellino è il fratello del magistrato ucciso con la sua scorta a via d'Amelio il 19 luglio '92. Ingegnere in pensione, vive a Milano da 40 anni. E io mi scuso con questo uomo mite, ma dalla volontà ferrea di fare chiarezza, se non tutto di quanto mi ha raccontato mi sembra condivisibile. Perché a volte il dolore può far aggrappare a certezze che tali non sono. Ma ci sono due o tre cose che ripete e che vanno ascoltate.

Da tempo insiste che vuole vedere nelle vesti di imputato Nicola Mancino, divenuto ministro dell'Interno poco dopo la strage di Capaci in cui furono uccisi Falcone, la moglie e tre agenti della scorta e poco prima che fosse ucciso Borsellino, poi vicepresidente del Csm. Perché? «Perché è reticente. Perché sull'incontro con mio fratello, il primo giugno del '92 a Roma, ha dato versioni inverosimili. Prima ha detto di non ricordarlo, l'incontro. Poi ha detto di averlo visto al ministero dell'Interno sì, ma di avergli solo stretto la mano. Cose diverse. Ogni tanto dice qualcosa in più. Se Paolo sull'agenda grigia al primo giugno scrive la parola "Mancino" è perché aveva un appuntamento preciso con lui. Un'agenda che compilava la sera, ora per ora con gli impegni della giornata, fino alla partenza da Fiumicino per tornare a Palermo». L'agenda grigia è quella che non è sparita, il magistrato vi annotava gli appuntamenti. Ad essere scomparsa dopo l'attentato è invece l'agenda rossa, secondo l'opinione più diffusa - e Salvatore Borsellino l'ha fatta sua - perchè conteneva «i segreti sulla strage di Capaci» in cui fu ucciso Giovanni Falcone.

Ma Lino Jannuzzi su questo giornale ha acutamente osservato che è un'offesa per un servitore dello Stato come Paolo Borsellino pensare che potesse confinare «segreti» di quella portata in un diario senza tradurli in atti e provvedimenti giudiziari). E invece? «Mancino ha sostenuto di non ricordare l'incontro perché non conosceva la fisionomia, fisicamente mio fratello, e Paolo non era uomo da andare ad omaggiare nessuno. È una menzogna. Dopo Falcone tutti si aspettavano che ammazzassero anche lui. Mancino, ministro dell'Interno, come fa a dire che non lo conosceva? Il suo predecessore al Viminale, Enzo Scotti, lo conosceva bene. Semmai sarebbe da chiedersi perché Scotti fu sostituito in fretta e furia...» Cosa vuol dire? «Che se Mancino sostiene ciò che non è credibile, sono portato a pensare che stia nascondendo qualcosa». Da 3-4 anni Salvatore Borsellino - «ma è un'opinione personale» - si è convinto che quel giorno il fratello Paolo andò da Mancino a parlargli «della trattativa che i Ros avevano avviato con la criminalità organizzata per mettere fine all'offensiva stragista della mafia».

«In cambio lo Stato avrebbe dovuto ammorbidire i provvedimenti presi dopo la morte di Falcone. Con Paolo vivo quella trattativa non sarebbe andata avanti». Ma ha l'onestà intellettuale di sottolineare che è «un'opinione personale». Al contrario di tanti mafiologi. Perché a distanza di anni e di molti processi la «trattativa» scellerata tra Stato e Antistato resta un teorema. Alla base del quale c'è il «papello» - ovvero l'elenco di richieste che sarebbe stato presentato dal boss Totò Riina - ma in origine lo ha visto e ne ha parlato solo Attilio Bolzoni di Repubblica, spalleggiato da Saverio Lodato dell'Unità, salvo poi non fare un'ottima figura nelle aule di giustizia una volta chiamati a darne conto. Aria fritta.

Ma torniamo ad ascoltare Salvatore Borsellino. Suo fratello lasciò trapelare qualcosa con i familiari? «È quasi offensivo quello che mi sta chiedendo. Paolo era una persona seria, non parlava in casa del suo lavoro anche per la tutela dei familiari. Però aveva ripetuto più volte che avrebbe detto ciò che sapeva della strage di Capaci ai magistrati di Caltanisetta». Ma non ne ha avuto il tempo? «No, non ne ha avuto il tempo». E bisogna seguire il ragionamento di quest'uomo che a distanza di 17 anni non ha visto diminuire, anzi, dolore e rabbia. Una rabbia, vissuta in modo molto borghese, molto composto, ma anche molto determinato. «Vede, l'assassinio di Paolo era stato progettato dalla mafia ma non per quel momento. Come ha rivelato Giovanni Brusca (collaboratore di giustizia) quando Riina disse che si doveva fare l'attentato di Capaci molti si opposero. Falcone era inviso all'interno della magistratura. Ma era molto sostenuto dall'opinione pubblica. La sua uccisione avrebbe provocato la reazione più forte dello Stato, come effettivamente fu».

Dopo il massacro di Capaci il Parlamento convertì in legge il cosiddetto decreto Falcone sui collaboratori di giustizia, furono trasferiti nelle carceri speciali 400 boss mafiosi. «Nel luglio '92 non era alla mafia che interessava l'eliminazione di mio fratello. La mafia doveva fare un favore a qualcuno. Quello che è accaduto non possiamo stabilirlo né io né lei. Io ho fiducia nella magistratura, in questi magistrati che ora stanno dimostrando di voler andare in fondo. E allora si capirà perché altri giudici, altri magistrati non hanno voluto vedere, non hanno voluto accertare, non hanno voluto capire».

Un atto di notifica o una lunga nota di spese. Questo, in siciliano, significa la parola “papellu”. Il conto che lo Stato avrebbe dovuto pagare per fermare le stragi di Cosa Nostra dopo la morte del giudice Giovanni Falcone è contenuto in un foglio di carta sgualcito scritto in stampatello, che Massimo Ciancimino, figlio di don  Vito, l'ex sindaco di Palermo morto nel 2002, dopo un lungo tira e molla ha fatto finalmente avere il 15 ottobre 2009 alla Procura del capoluogo siciliano.

Il foglio contiene 12 richieste: l’abolizione del 41 bis (il regime del carcere duro per i mafiosi); la revisione del maxiprocesso di Palermo che si era concluso con dodici condanne all’ergastolo per la cupola di Cosa Nostra con il ricorso, nientemeno, alla corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo; l’arresto per mafia solo in flagranza di reato (è la richiesta più curiosa: come si configurerebbe quest’eventuale flagranza? Forse con un killer con coppola e lupara…); la scarcerazione per i detenuti 70enni; (la richiesta più previdente, vista la sorte di Riina e Provenzano); l’abolizione della legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei beni mafiosi; l’abolizione della censura carceraria della posta; il trasferimento dei boss in carceri vicini a casa; la chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara (è l’unica richiesta esaudita, anche se non certo per merito del “papello”); la riforma della legge sui pentiti; una misteriosa riforma della giustizia “all’americana”; defiscalizzazione della tassa sulla benzina in Sicilia (una richiesta effettivamente portata avanti da molti governi della Regione); c’è infine l’indicazione per la creazione di un “Sud partito”, anche questa di grande attualità.

A parlare per primo del “papello” era stato il pentito Giovanni Brusca, il 13 gennaio del 1998: interrogato nel corso del processo di Firenze sulle stragi del ‘93, Brusca aveva riferito dell’esistenza di una trattativa tra il capo di Cosa nostra, Riina, e lo Stato, intavolata dopo la strage di Capaci. Sarebbe stato lo stesso capo di Cosa nostra a informarlo di quel dialogo: «Si sono fatti sotto - gli avrebbe detto - gli ho presentato un “papello” di richieste lungo così».

La trattativa con la mafia nei primi anni ’90 c’è stata ed anzi Cosa Nostra aveva capito di poter ricattare lo Stato. A sostenerlo è il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, intervistato dal Tg3 del 18 ottobre 2009. «Quando Riina dice a Brusca, come lui ci riferisce, che "si sono fatti sotto" vuol dire che è scattato il meccanismo di ricatto nei confronti dello Stato: la strage di Falcone ha funzionato in questo modo. L’accelerazione probabile della strage di Borsellino può allora essere servita a riattivare, ad accelerare la trattativa con i rappresentanti delle istituzioni», dice Grasso. Per il procuratore «il momento era terribile, bisognava cercare di fermare questa deriva stragista che era iniziata con la strage di Falcone: questi contatti dovevano servire a questo e ad avere degli interlocutori credibili. Il problema - continua - è di non riconoscere a Cosa nostra un ruolo tale da essere al livello di trattare con lo Stato, ma non c’è dubbio che questo primo contatto ha creato delle aspettative che poi ha creato ulteriori conseguenze». In ogni caso dopo l’arresto di don Vito Ciancimino e Riina «le stragi prendono un’altra strada, ma continuano. Io ritengo - conclude Grasso - che ci sia sempre un unico filo che collega le stragi iniziali, come l’omicidio Lima, a tutte le altre, tra cui quelle mancate dell’attentato all’Olimpico».

L'intervista in serata al Tg3 ha fatto seguito a un'altra, uscita sulla Stampa, nella quale il procuratore nazionale antimafia sosteneva che la trattativa tra Stato e mafia «ha salvato la vita a molti ministri.

Anche via D'Amelio -afferma Grasso- potrebbe essere stata fatta per "riscaldare" la trattativa. In principio pensavano di attaccare il potere politico e avevano in cantiere gli assassinii di Calogero Mannino, di Martelli, Andreotti, Vizzini e forse mi sfugge qualche altro nome. Cambiano obiettivo - dice il magistrato - probabilmente perché capiscono che non possono colpire chi dovrebbe esaudire le loro richieste. In questo senso si può dire che la trattativa abbia salvato la vita a molti politici». Grasso, cita le carte processuali e anche di un "papellino" comparso poco tempo prima del "papello": «Potrebbe essere stato consegnato ai carabinieri del Ros, al col. Mori che nega l'episodio, da uno strano collaboratore dei servizi che chiedeva l'abolizione dell'ergastolo per i capimafia Luciano Liggio, Giovanbattista Pullará, Pippo Calò, Giuseppe Giacomo Gambino e Bernardo Brusca. Anche quelle richieste ovviamente finirono nel nulla perchè irrealizzabili».

«Stranamente negli ultimi giorni che precedettero via d'Amelio, mio marito mi faceva abbassare la serranda della stanza da letto, perché diceva che ci potevano osservare dal Castello Utveggio». È questo un passaggio dell'intervista rilasciata a La Storia Siamo Noi di Rai Educational, da Agnese Borsellino, la moglie del magistrato ucciso assieme agli agenti della scorta nella strage di via D'Amelio. L'intervista andrà in onda lunedì 19 ottobre 2009 alle 23.30 su RaiDue. Il castello Utveggio si trova sul monte Pellegrino e domina dall'alto la città di Palermo; secondo alcuni esperti di mafia, tra cui l'ex consulente di diverse Procure Gioacchino Genchi, sarebbe stato un punto di osservazione da parte di apparati dei servizi segreti.

L’interrogatorio a Palermo di Luciano Violante, a conoscenza della trattativa fra Stato e mafia (è già stato ascoltato dai Pm il 23 luglio 2009 sui suoi rapporti con Vito Ciancimino) indirettamente rispolvera vecchi interrogativi sul ruolo oscuro ricoperto dalla sinistra prima delle stragi del ’92. L’ex presidente della commissione Antimafia che sfilerà all’udienza del processo sui presunti favoritismi del Ros al boss Provenzano, dovrà spiegare perché con 17 anni di ritardo s’è ricordato improvvisamente di quella «trattativa». E dovrà spiegare molto altro: ad esempio, perché ha affermato il falso sulle «sole tre volte» in cui incontrò il generale Mori (sarebbero molte di più); perché ha detto di non aver mai voluto avere a che fare con Ciancimino, quando agli atti della commissione si scopre che proprio lui suggerì di ascoltare l’ex sindaco di Palermo che ne aveva fatto richiesta; perché poi non l’ha più ascoltato in coincidenza con le dichiarazioni del politico siciliano che aprivano squarci sulla sinistra locale e nazionale; perché, dunque, ha detto che Mori voleva farlo incontrare a tu per tu con Ciancimino, quando così non era. E perché non andò lui dai magistrati e denunciare l’esistenza di una trattativa segreta gestita dal generale Mori, anziché scaricare la colpa su Mori che non avrebbe dato seguito alle sue sollecitazioni di avvertire subito i Pm di Palermo.

Gli interrogativi crescono allorché si vanno a rileggere le dichiarazioni dei due Ciancimino, padre e figlio. Entrambi sostengono che Totò Riina di fronte al papello «con le proposte irricevibili» rispose picche «perché aveva le spalle guardate» o «coperte». Da chi le avesse coperte o guardate, già prima delle stragi, nessuno lo sa. Non lo sa Vito Ciancimino, ma ne prende atto quando viene trattato con sufficienza dalla persona a cui chiede disponibilità a dare a ascolto alle proposte del Ros. Lo conferma il figlio Massimo. Lo rivelano fior di pentiti, da Cangemi a Brusca fino a Giuffrè, allorché parlano dell’esistenza di «referenti istituzionali» che trattavano esclusivamente con Riina prima delle bombe, anche se loro non sanno chi diavolo siano. Prendete Giovanni Brusca, quello che ebbe la malaugurata idea di rivelare il suo incontro con Luciano Violante sul volo Roma-Palermo e che poi, fra mille polemiche che gli costarono lo status di pentito, ritrattò (il suo avvocato finì addirittura sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa!).

Al processo Dell’Utri se ne è uscito così: via via che facevamo le stragi da Capaci a via d’Amelio, fino alle stragi del ’93, «la sinistra sapeva». Sempre Brusca nei vari processi sulle stragi ha sostenuto che vi era una «concomitanza di interessi» nel senso che, per quanto riguardava Cosa nostra, questa non era interessata più di tanto a far perdere la presidenza della repubblica ad Andreotti, «ma che di fatto l’omicidio Lima non era bastato e così, ci venne detto, venne deciso di colpire Falcone». Secondo Cangemi, la morte di Falcone «servì a prendere due piccioni con una fava».

Ai suoi fedelissimi, infatti, Riina potè dire di aver vendicato il maxiprocesso con l’uccisione di Lima e di Falcone, ma in realtà - sibila Cangemi - l’interesse di Cosa nostra è «coinciso con interessi altri e diversi». Questi altri e diversi interessi potrebbero coincidere con l’intenzione, di cui parlano altri pentiti, di provare a uccidere Falcone all’uscita di un ristorante romano nel periodo in cui il giudice veniva bocciato nella corsa alla direzione dell’ufficio istruzione di Palermo. Quel giorno, all’improvviso, il commando viene bloccato. Se non se ne fa più nulla non è perché la soffiata sul ristorante dove il giudice mangiava è sbagliata. Riina, senza convocare la commissione, sposta l’attentato dal «cuore» politico di Roma al «cuore» della mafia, in Sicilia. Il botto sarà eclatante, dice, e fa niente che poi la reazione dello Stato si farà sentire, perché tanto vi è «l’assicurazione» che i danni fatti a Capaci dopo un po’ di anni di sofferenze «saranno ripagati» e «nulla di rilevante» ricadrà su di noi: sarà un caso, ma il 41 bis, il carcere duro per i boss, dopo Falcone non verrà attuato.

Per capire chi siano coloro i quali, a livello più alto, «avevano interesse a sbalzare di sella chi comandava» (copyright Brusca e Cangemi) si sarebbe dovuto indagare sulla «trattativa pre-stragi» che consentiva a Riina di piazzare tritolo avendo le «spalle coperte». L’indagine non s’è fatta forse perché non portava a Berlusconi, il quale oltre a non avere interesse a far sbalzare di sella il «Caf» che a quei tempi comandava (Craxi era suo amico), da Cosa nostra era minacciato - al contrario delle coop rosse che in quel periodo facevano affari a Bagheria per decisione di Provenzano - con estorsioni alla Standa e attentati alle antenne di famiglia.

Sempre Brusca ha riferito che la mafia aveva chiesto a Berlusconi di risolvere i loro problemi e di non preoccuparsi dei suoi avversari che non lo potevano tenere sotto schiaffo perché «non possono far finta di cadere dalle nuvole in quanto ci sono di mezzo anche loro». Tutto ciò accadeva, ripetiamo, in anni in cui Riina aveva le «spalle coperte» sulle bombe che portarono al disfacimento del «Caf», all’elezione di Scalfaro al posto di Andreotti, a quella di Napolitano alla presidenza della Camera, all’avvio di una nuova stagione politica che però abortì per la nascita, e la vittoria al voto, di Forza Italia.

Che avvenne dopo le stragi, con buona pace per chi non segue il filo rosso volendo Berlusconi mafioso a tutti i costi.

Signor Gianni Ienna, lei è stato un noto costruttore palermitano e ha subito una condanna come associato mafioso. Per la giustizia lei era al soldo della mafia. E secondo alcune accuse, attraverso i boss Graviano, in contatto con Berlusconi.

«Falsità, tutte dimostrate documentalmente al processo. Avrebbero voluto che tirassi in ballo Berlusconi, che mai avevo visto e conosciuto in vita mia. Se vuole vi spiego come nasce il maldestro tentativo di trascinare il premier in fatti di mafia».

Prego.

«Capisco solo oggi il perché tutte le mie sventure giudiziarie iniziarono nel 1994, anno di nascita di Forza Italia. Fino ad allora ero stato uno stimato imprenditore, conosciuto da tutti, avendo costruito più di 7.000 appartamenti a Palermo ceduti a giudici, esponenti delle forze dell’ordine, politici di destra e di sinistra. Addirittura il giudice Guarnotta, membro del primo pool antimafia spingeva perché acquistassi il Palermo calcio e lo riportassi ai fasti del passato. Durante la bufera delle prime indagini finanziarie su larga scala ero stato interrogato dal giudice Falcone il quale mi aveva rassicurato sulla mia estraneità alle dinamiche mafiose, e difatti alcun provvedimento di alcuna natura era stato mai preso contro di me».

E a Berlusconi come ci arriviamo?

«Il 1994, anno dell’apertura dell’hotel San Paolo Palace, avevo dato in concessione al tributarista Mario Buonadonna, la sala conferenze della struttura per una manifestazione connessa alla creazione di un club di Forza Italia, partito che stava per nascere in quei giorni. Per me era tutto all’insegna della legalità, vi era la presenza di molti giudici, tra i quali mi ricordo in particolare Alfonso Giordano, che aveva presieduto il primo maxi-processo. Gli diedi le sale a titolo gratuito e loro pagarono il rinfresco».

Non si è mai speso per Forza Italia?

«Mai interessato di politica, com’è stato dimostrato al processo. Quel maledetto circolo fu per me l’inizio della fine. Iniziarono i sequestri dei beni, fui sbattuto in carcere, ma la mia unica colpa era quella di pagare il pizzo ai boss, compreso ai Graviano di cui sarei stato alleato e tramite per Berlusconi».

Il pentito Giuffrè dice, appunto, che lei era il punto di contatto fra il premier e i boss Graviano.

«Io non ho mai conosciuto Giuffrè, sarei pronto a un confronto con lui, pure subito, non ho mai conosciuto l’onorevole Berlusconi. Minchiate».

E i Graviano?

«Escludo assolutamente che facessero riferimento a Forza Italia. Perché proprio in quel periodo mi fecero chiamare, per ordinarmi di sostenere un partito politico, ma non era quello che era dentro il mio albergo, è facile intuire che mi avrebbero detto di procedere con Forza Italia, se fosse stato quello, dato che loro sapevano che il circolo era stato fondato dentro l’albergo. Invece mi dissero di aspettare perché c’era un altro partito da sostenere poi, fui arrestato e non si disse più niente. L’ho detto in ogni sede, ma i magistrati volevano sempre sapere altro».

Cioè?

«Volevano che confessassi questo legame con Berlusconi, mai io non avevo nulla da confessare. A chiederlo con insistenza c’erano due pm, un uomo e una donna, interessatissimi a quel club di Forza Italia, pm che oggi vedo impegnatissimi in indagini sui politici. Nel 1996 stremato da due anni di carcerazione preventiva, mi fecero capire che se avessi parlato, sarei uscito dal carcere e mi avrebbero restituito il patrimonio. Le domande si fecero sempre più pressanti. Io non ce la facevo più, non ero un criminale, ero in carcere da due anni, sull’orlo di un esaurimento nervoso, e su suggerimento dell’avvocato di allora, feci delle dichiarazioni autoaccusatorie. Ma riguardanti solo me. Non me la sentivo assolutamente di dire falsità su Forza Italia o su Berlusconi, perché non avevo idea neanche di cosa i pm volessero sapere».

Certo è che la gente deve sapere come si svolgono i processi di mafia dopo Falcone e Borsellino e come si ottengono le condanne.

Pentiti ad orologeria, magistrati politicizzati e media asserviti: di chi aver paura, della mafia o dell’antimafia ??

Maurizio Costanzo, il re dei talk-show, anni fa subì un attentato al quale scampò per miracolo. L’autobomba, che doveva uccidere lui e la moglie Maria De Filippi, saltò in aria con qualche secondo di ritardo. Agguato di mafia. Amico del giudice Giovanni, ospite alle sue trasmissioni su Canale 5, rete televisiva di Silvio Berlusconi, Costanzo si impegnò come uomo e giornalista nella lotta alla mafia. Proprio questo suo impegno sembra essere la causa, il 14 maggio 1993, di un attentato. Un'utilitaria imbottita di novanta chilogrammi di tritolo esplose in via Ruggiero Fauro (vicino al Teatro Parioli).

Tra gli attentatori c’era Gaspare Spatuzza, il pentito che ha accusato Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri di essere i mandanti dell’epoca stragista (Roma, Firenze, Milano). In un’intervista al Riformista, il conduttore Mediaset ha lanciato una bomba sulla sua bomba. Premette: «Io non ci crederei nemmeno se mi portassero davanti il pentito». Poi affonda. Confessa che «questa storia», cioè le accuse di mafia a Berlusconi, la conosce da tempo. «Dopo il processo di Firenze sulle stragi fui avvicinato nello stesso periodo, ma in diversi momenti da tre persone: D’Alema, Caselli e Violante. Tutti e tre - racconta - mi dissero più o meno la stessa cosa: “Guarda che il mandante del tuo attentato è Berlusconi”. Non ci ho mai creduto. Assolutamente».

Il processo di Firenze ha ricondotto la responsabilità delle bombe a Riina e Bagarella. Costanzo stesso è convinto che Cosa nostra voleva eliminarlo per il suo impegno antimafia, legato soprattutto a una trasmissione in tandem con Michele Santoro. Ma qualcuno vuol convincerlo che dietro la mafia c’è Berlusconi. Dicono a Costanzo che la mafia non è la mente degli attentati, ma solo il braccio: la tesi di Spatuzza è preannunciata prima che questi la rilasci anni dopo. Una «scossa» nel campo berlusconiano, che D’Alema è specialista a preannunciare.

Gente che ha ammazzato magistrati, sciolto nell’acido bambini, lastricato le strade di innocenti crivellati dal piombo, quando si mette a collaborare con la giustizia non lo fa quasi mai in modo serio, coerente, trasparente. A distanza di anni, ricorda improvvisamente ciò che aveva dimenticato, o negato di sapere, per mesi, giorni o anni interi. Gaspare Spatuzza, il pentito che solo dopo un anno e un’infinità di interrogatori (oltre tremila pagine) accosta il nome di Berlusconi alle stragi di mafia del ’93, incarna alla perfezione il prototipo del pentito che ritrova senno e memoria con sospetto ritardo.

Il primo interrogatorio è del 9 luglio 2008. Spatuzza racconta di come il boss Giuseppe Graviano gli parlò «genericamente di politica» senza mai fare nomi dei suoi referenti: «Ci dice se capivamo di politica, ci spiega che praticamente c’è in piedi una situazione che se va, alla fine ne avremo tutti i benefici». Nomi, niente. Parla del fallito attentato a Maurizio Costanzo, della bomba agli Uffizi di Firenze «perché eravamo in guerra totale con lo Stato», della strage mancata all’Olimpico di Roma, dell’intenzione di uccidere il pentito Contorno. In ballo c’è il progetto della dissociazione. La trattativa va a rilento. «Graviano mi dice: se non arriva niente da dove deve arrivare è bene cominciare a trattare coi magistrati». In un colloquio con il boss, continua Spatuzza, «parlammo genericamente di politica. Personalmente avevo avuto un solo contatto diretto con la politica, tramite i Graviano, nel 1986-87 allorquando ci fu detto di cercare voti per i socialisti, cosa che facemmo. In concreto furono eletti Martelli che altre tre siciliani, si disse che era quaterna».

Secondo interrogatorio, niente nomi eccellenti nemmeno stavolta. È il 17 luglio 2008: «A Graviamo dissi: ci stiamo portando dietro un po’ troppi morti, esprimevo il malessere di tutto il gruppo delle stragi (...) perché stavamo facendo attività di tipo terroristico estranee alle nostre abitudini». «C’era malessere in Cosa nostra verso gli stragisti perché veniva addebitata a noi un aggravamento delle condizioni della detenzione e in particolare del 41bis (carcere duro). Fu per questa ragione che Graviano volle chiarire che aveva questi contatti. Io trassi la convinzione che per come operava Graviano vi era un accordo diretto». Singolare. Per Spatuzza, mentre il governo Berlusconi inasprisce il carcere duro, Graviano (che è all’ergastolo in 41bis) dice che va tutto bene. Nomi? Nessuno. «Come ho già detto la volta scorsa Graviano non esternò chi fosse il politico con il quale aveva questo accordo di tipo politico, anche perché i Graviano furono arrestati e tutto finì lì». Il pm insiste. Fa presente che il mafioso Romeo sostiene che Spatuzza abbia fatto riferimento al premier. Macché: «Escludo di aver potuto fare con fondatezza qualsivoglia nominativo perché non potevo conoscerlo in quanto a suo tempo Graviano non me lo aveva svelato. Se avessi avuto contezza del nominativo l’avrei senz’altro detto nell'interrogatorio». Su Dell’Utri sa poco e niente. Ma poiché la famiglia Mangano aveva costituto una società che si occupava di pubblicità, per deduzione Spatuzza osserva che «si sapeva che questo era il settore nel quale operava Dell’Utri».

Di deduzione in deduzione arriviamo al terzo interrogatorio: 28 luglio 2008. Spatuzza, che è un soldato, dice di aver protestato furiosamente con Giuseppe Graviano (che è il boss) per i morti innocenti delle stragi. «Gli ho detto: noi siamo contrari a uccidere persone innocenti, è contrario alla nostra ideologia, alla nostra sottocultura, il mio sentimento vale per tutti». Al pm, però, interessa il filone politico: «Nel '94, periodo prossimo alle elezioni, come vi muovevate a livello spicciolo di gestire questa politica?».  Spatuzza non si scompone: «No, non ho avuto modo di gestire io, poi i Graviamo sono stati arrestati. Io ero una creatura di Graviano, hanno cercato di tenermi un po' distante». Spatuzza non sa, il pm chiede: «Ma c'era questo accordo?». Il pentito, spazientito: «Certo!». Ora è il pm a frenare: «Non voglio dirlo io, non voglio passare avanti alle sue parole... ». Spatuzza: «Se Graviamo mi diceva dobbiamo sostenere (alle elezioni, ndr) Tizio o a Caio, io lo avrei saputo». Il pm non si arrende. «Quando Graviano vi fa capire che c'è questo accordo la controparte cosa si aspettava? Cosa nostra voleva benefici, ma la controparte, fra virgolette politica, cosa si riprometteva? Ve lo disse Graviano? Ve lo fece capire?». Spatuzza: «No» I magistrati puntano poi a capire come mai i Graviano frequentassero tanto Milano, Spatuzza non se lo sa spiegare e all’ennesima insistenza, taglia corto in un italiano incerto. «Se io avrei saputo il mandante di quelle stragi non lo avrei nascosto. Cioè non l’avrei neanche dimenticato. Ma figuratevi se io so il nome del mandante!». Figuriamoci se lo sa. Il pm non si dà per vinto, ma poi, di fronte all’ostinazione di Spatuzza, esplode: «No, no, lasciamo perdere, quello l’ha bell’e detto che non sa niente».

Nuovo giro a verbale, altro interrogatorio: 10 settembre 2008. Messo a confronto col mafioso Lo Nigro, il Nostro viene smentito e ridicolizzato sull’incontro con Graviano: «Senti, io rispetto le tue scelte, ma sei sicuro di quel che dici?». Spatuzza si risente: «Ma così mi dai del bugiardo, e io non lo sono». Ennesimo interrogatorio, siamo al 14 settembre. Graviano è a confronto con Spatuzza che gli legge una lettera, dove non parla di politici. Invita solo il boss a pentirsi: «Caro Giusè, quello che mi ha spinto a scrivere è quell’essere cristiano che mi fa amare l'uomo come è stato creato a immagine e somiglianza di Dio».

L’essere cristiano di Spatuzza lo porta, il 17 dicembre 2008, a regalare altre perle sui colloqui col giudice Vigna fino al progetto di dissociazione portato avanti dal boss Calò. I magistrati chiedono ancora dei politici: «Per me quelli che si dovevano muovere e di cui Giuseppe Graviano poteva parlare erano gli stessi politici con cui lui aveva preso accordi dei quali ci riferì nel 1993. Questo è quanto capii in quel momento. Sull’identità, almeno a livello politico di questo interlocutore, anche solo come area di appartenenza, Filippo Graviano non mi dette in quella circostanza alcun dettaglio». Niente da fare, il nome di Berlusconi non esce ancora.

Il 16 marzo 2009 nuovo verbale: si discute della presenza milanese dei fratelli Graviano («insolita, era più sicuro se restavano nel loro quartiere») e degli affari dei boss al nord. Spatuzza giura di non sapere niente. Il pm torna sull’argomento più importante: i mandanti, vuole i politici delle stragi.  «Come ho riferito - taglia corto Spatuzza - non posso sapere, perché Graviano non me ne parlò mai, quale fosse l'interlocutore politico a fare le stragi. Ho poi pensato, ma è un mio pensiero, che le stragi fossero state fatte per creare un diversivo ai processi di Mani pulite». Un diversivo, «pensa» Spatuzza. Che aggiunge sibillino: «Posso dire che i Graviano sono ricchissimi e che non mi risulta che il loro patrimonio sia stato mai minimamente intaccato. In sostanza questa possibilità che loro hanno di riferire l’identità dell'interlocutore politico implicato nelle stragi è un jolly o un asso tenuto nella manica».

Finalmente arriviamo al 16 giugno 2009, giorno della liberazione. Spatuzza mette le mani avanti: «Da quando ho avviato la mia collaborazione ho paura che possano esserci problemi di sicurezza in relazioni alle dichiarazioni che sto facendo. Mi sono sempre posto il problema di una collaborazione nel modo più corretto perché non ho da chiedere niente a nessuno essendo stato, per me, un vero e proprio problema di coscienza. Quando maturai questo progetto all’inizio del 2008 sapevo che i temi che avrei affrontato erano molto pesanti e pericolosi, mi rendevo conto che sarei andato a toccare una decisione giudiziaria importante affondando temi politici (...). Non volevo in alcun modo che la mia eventuale ammissione al programma di protezione potesse essere legata a nomi di politici o comunque di altre personalità tirate in ballo per rendere più interessanti le mie dichiarazioni». Detto ciò, Spatuzza si libera del macigno: «Effettivamente Graviano disse che queste persone erano più affidabili dei quattro socialisti del 1989. Usò con entusiasmo la frase “abbiamo il paese nelle mani”. Circa i nomi con le quali l’accordo si era chiuso fece esplicitamente il nome di Berlusconi».

L’uomo che solo nel ’94 entrerà in politica, per Spatuzza è il mandante delle stragi del ’93. Bah!!

Ma allora ci si chiede: lotta alla mafia o lotta politica??

Dopo tre processi e 11 anni di udienze, il senatore a vita Giulio Andreotti è stato assolto definitivamente dall’accusa di associazione mafiosa. Ma resta ancora un ultimo passaggio per chiarire se la sua immagine potrà uscire completamente riabilitata dal processo del secolo: anche la Cassazione, infatti, assolve per i reati successivi all’82, ma conferma «il non doversi procedere per il reato di associazione a delinquere sui fatti precedenti all’82 a causa dell’intervenuta prescrizione». A sostenere l’accusa in primo grado del suo ultimo processo a Palermo fu Giancarlo Caselli. In quel primo grado Andreotti fu assolto per insufficienza di prove.

Quella che segue è una sintesi a cura di Enrico Bellavia dei temi affrontati nel corso del processo di primo grado, anche in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.

Enrico Bellavia giornalista a Palermo per il quotidiano "La Repubblica" e collaboratore del "L'espresso" e "MicroMega".

Ogni lettore emetta la sua sentenza in base a dati certi e non a riporti ideologici.

ACCUSA: nel 1968 - subito dopo le elezioni politiche - Salvo Lima aderisce alla corrente di Andreotti, che grazie al nuovo contributo si trasforma da semplice corrente laziale (2 per cento circa degli aderenti al partito della Dc) in corrente di rilievo nazionale (10 per cento circa), determinante per gli equilibri interni della DC.

DIFESA: L'apporto di Lima non ha mai modificato il peso di Andreotti dentro al partito. Il prestigio e la sua forza elettorale preesistevano. L'autorevolezza di Andreotti non derivava dalla corrente, come sostiene la Procura, perché gli incarichi di governo sono settoriali, limitati e temporanei. Gli incarichi di governo hanno coperto 39 anni su 50 di carriera politica.

ACCUSA: in quel periodo Salvo Lima, figlio dell'uomo d'onore Vincenzo Lima, è uno dei politici più fortemente appoggiati da Cosa Nostra (in particolare da Stefano Bontate), ed è legatissimo ai cugini Salvo, dei quali è il principale referente politico.

DIFESA: né a carico di Lima, né a carico dei Salvo era mai stato adottato alcun provvedimento giudiziario, né si aveva contezza delle frequentazioni dei Salvo, che Andreotti - peraltro - non ha mai conosciuto. I Salvo, oltretutto, avevano simpatie politiche per i dorotei.

ACCUSA: nel 1976, dopo Lima, Andreotti accetta un accordo con Vito Ciancimino, legatissimo ai "Corleonesi". Il patto viene stipulato a Palazzo Chigi, in un incontro cui partecipano Andreotti, Salvo Lima, Vito Ciancimino, Mario D'Acquisto, Giovanni Matta. Ciancimino viene anche finanziato dalla corrente andreottiana (tramite Gaetano Caltagirone) e a Palermo Lima gli paga le tessere. Questo accordo, in forme più o meno palesi, dura certamente fino al congresso regionale della Dc di Agrigento del 1983.

DIFESA: si tratta di normali accordi politici all'interno di un quadro politico locale, di cui Andreotti si disinteressava. Nessuno dei protagonisti era coinvolto, allora, in vicende giudiziarie. I rapporti con Ciancimino sono stati episodici e legati al ruolo politico-istituzionale di Ciancimino in Sicilia.

ACCUSA: i rapporti tra Andreotti e gli esponenti di Cosa Nostra dei quali Lima è già espressione si intensificano, e diventano diretti, nel periodo 1978-1979, quando si verificano delle situazioni gravemente critiche, che inducono Andreotti a servirsi di Cosa Nostra. Andreotti incontra segretamente alcuni capimafia.

DIFESA: Andreotti non ha mai incontrato alcun esponente di Cosa nostra, né poteva farlo, dato che essendo sempre sotto scorta, i suoi spostamenti e i suoi contatti non potevano passare inosservati. Inverosimili e contraddittorie le ricostruzioni dei collaboratori e della Procura.

ACCUSA: la prima di tali situazioni è il sequestro Moro. In una prima fase della vicenda, per input di Salvo Lima e dei cugini Salvo, Bontate si attiva per favorire la liberazione di Moro, e a tal fine incarica Buscetta di contattare le Br. Poi arriva il contrordine. Il motivo del contrordine si può individuare nel contenuto dei documenti scritti da Moro, in cui lo statista rapito attacca pesantemente Andreotti con rivelazioni che in parte saranno rinvenute soltanto 12 anni dopo il sequestro (nel covo di via Montenevoso a Milano nell'ottobre 1990).

DIFESA: i giudizi di Moro sono di un uomo che sente la fine imminente, sotto la pressione dei carcerieri. La ricostruzione della Procura sugli scritti dello statista assassinato dalle BR non è corretta. Andreotti non poteva promuovere alcun genere di rapporti con Cosa nostra per intervenire sulle Brigate Rosse. Il suo governo era per la linea della fermezza.

ACCUSA: nel periodo compreso tra il dicembre 1978 ed il gennaio 1979, il generale Dalla Chiesa cerca di acquisire informazioni nel circuito carcerario anche sugli scritti di Moro ed ha contatti con Pecorelli, il quale è pure interessato allo stesso argomento. Pecorelli viene a conoscenza di parti omesse del memoriale Moro, e dall'ottobre del 1978 sulla rivista OP intensifica gli attacchi contro Andreotti e Vitalone (scandali Italcasse e Sindona).

DIFESA: quei contatti rientravano nell'ambito delle competenze del generale. Il decreto con il quale Dalla Chiesa fu nominato a capo del coordinamento delle attività contro il terrorismo e il crimine organizzato porta la firma di Andreotti e dei ministri Rognoni e Ruffini. Andreotti ha subito negli anni diverse campagne di stampa tese a delegittimarlo.

ACCUSA: Vitalone cerca di indurre Pecorelli a cessare gli attacchi (cena alla Famiglia piemontese ed Evangelisti gli offre denaro (subito 30 milioni datigli da Gaetano Caltagirone) per non fargli pubblicare il numero di OP con la copertina dedicata agli assegni del Presidente.

DIFESA: Pecorelli aveva chiesto un sostegno economico per la rivista. Altri, e non Andreotti, lo avevano sostenuto.

ACCUSA: Il 20 marzo 1979 Pecorelli viene ucciso a Roma da Massimo Carminati, un killer neofascista incaricato da Danilo Abbruciati (esponente della banda della Magliana ed uomo di Pippo Calò), e da Michelangelo La Barbera (uomo d'onore della famiglia di Boccadifalco, a quell'epoca assai vicino anche a Stefano Bontate). L'omicidio è stato commissionato a Cosa Nostra dai cugini Salvo per conto di Andreotti ed agli uomini della banda della Magliana da Claudio Vitalone.

DIFESA: Questa è l'impostazione accusatoria della Procura di Perugia ma non una verità processualmente accertata; è fondata essenzialmente sul racconto, riferitogli da Gateano Badalamenti, di Tommaso Buscetta. Badalamenti lo ha smentito. Numerose emergenze oggettive lo smentiscono.

ACCUSA: Nello stesso periodo del 1979, presumibilmente per gli stessi motivi che determinano l'omicidio di Pecorelli (segreti di Moro riguardanti Andreotti), Stefano Bontate "per ragioni legate a questioni che riguardavano ambienti politici cui lo stesso Bontate era vicino" matura il disegno di eliminare Dalla Chiesa, e tenta di organizzare il delitto facendo in modo che le Br se ne attribuiscano la paternità; Buscetta contatta le Br, ma queste rifiutano l'offerta.

DIFESA: Di questo parla solo Buscetta, i brigatisti lo smentiscono. Perché la mafia doveva avvertire preventivamente le Br?

ACCUSA: Sempre verso la fine del 1978 Andreotti, utilizzando come tramite Evangelisti (allora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio) fa ripetute pressioni sulla Banca d'Italia (in particolare su Mario Sarcinelli, allora Capo della Viglianza), in favore di Sindona.

DIFESA: Andreotti non si è mai interessato dei destini personali di Sindona.
Fu invece un avvocato di Sindona a consegnare ad Evangelisti lo schema su un possibile salvataggio della banca. Quando avvenne l'incontro, Andreotti era all'estero. Del progetto di intervento, il governo delegò l'ex ministro Gaetano Stammati. Verificata l'impossibilità di andare avanti, il caso fu archiviato.

ACCUSA: Sempre tra il 1978 ed il 1979 Andreotti incontra ben 10 volte (25 luglio 1978; 1o settembre 1978; 5 ottobre 1978; 15 dicembre 1978; 8 gennaio 1979; 23 febbraio 1979; 22 marzo 1979; 26 giugno 1979; 5 settembre 1979; 21 maggio 1980) il difensore di Michele Sindona, Rodolfo Guzzi, mostrandosi più che disponibile a tutte le iniziative volte a favorire lo stesso Sindona, sia per il salvataggio finanziario, sia per evitargli l'estradizione. A favore di Sindona si muove, d'intesa con Andreotti, anche Licio Gelli.

DIFESA: Andreotti ha conosciuto superficialmente Gelli, ma non si è mai interessato dei suoi affari. Quanto a Sindona, lo ha conosciuto quando era uno stimato banchiere, ma non ha mosso un dito per condizionarne l'ascesa o il salvataggio dal crack economico.

ACCUSA: Nel 1979 nasce in Sicilia il caso Mattarella. Il presidente della Regione Siciliana, fino ad allora partecipe di equilibri politici con Lima e lo stesso Ciancimino, comincia ad andare concretamente contro gli interessi di Cosa Nostra e della "cattiva politica".

DIFESA: E' una ricostruzione - peraltro opinabile - che si basa su elementi di fatto con cui Andreotti non ha nulla a che vedere. La Procura intende creare uno scenario adatto, in cui poter calare il racconto di Marino Mannoia.

ACCUSA: Nella primavera-estate del 1979 (sicuramente dopo l'omicidio di Michele Reina, commesso a Palermo il 9 marzo 1979), Andreotti, in una riunione svoltasi in una riserva di caccia con Stefano Bontate, Salvo Lima, i cugini Salvo, viene informato del nuovo corso della politica di Mattarella. Prende tempo e Bontate commenterà: "Staremo a vedere". Sempre nella primavera-estate del 1979 (tra l'1 maggio e il 31 agosto), a riprova dell'intensità dei rapporti che ormai lo legano a Cosa Nostra, Andreotti ha a Catania un incontro con Benedetto Santapaola, cui partecipa Lima.

DIFESA: Andreotti non ha mai incontrato mafiosi; le date e le indicazioni fornite dalla Procura sono inconfutabilmente contraddette da documenti ufficiali che testimoniano la presenza dell'uomo politico in tutt'altra parte.

ACCUSA: verso la fine di ottobre del 1979 Mattarella, insistendo nella sua linea politica che lo ha ormai contrapposto agli interessi di Cosa Nostra e dei suoi referenti politici ha un incontro con Virginio Rognoni (allora Ministro dell'Interno) per manifestargli le gravi preoccupazioni che gli derivavano dall'interno del suo stesso partito; al suo capo di gabinetto, Maria Grazia Trizzino, riferisce: "Se dovesse succedere qualcosa di molto grave per la mia persona, si ricordi questo incontro con il Ministro Rognoni, perchè a questo incontro è da ricollegare quanto di grave mi potrà accadere". Proprio nello stesso periodo, si era infatti consolidato il rapporto di alleanza tra gli andreottiani e Ciancimino. Quest'ultimo, per input dei Corleonesi, aderisce alla corrente andreottiana. Il 6 gennaio 1980 viene ucciso a Palermo Piersanti Mattarella. L'omicidio, secondo quanto riconosciuto dalla recente sentenza della Corte di Assise di Palermo è deliberato dalla Commissione; sono d'accordo, anche se non formalmente partecipi della decisione, i cugini Salvo. Pochi mesi dopo, Andreotti ritorna in Sicilia e - in una villetta alla periferia di Palermo incontra Bontate, Lima, i cugini Salvo. Andreotti protesta per l'omicidio ma, quando Bontate lo minaccia di ritirare il sostegno elettorale di Cosa Nostra alla sua corrente politica, accetta la situazione.

DIFESA: la fonte degli incontri palermitani è solo Marino Mannoia, che mente e si contraddice. In un caso il racconto è indiretto. Mentre del successivo incontro palermitano, Marino Mannoia dice di essere stato testimone oculare. Secondo Mannoia Andreotti sarebbe arrivato dall'aeroporto di Trapani. Piloti e responsabili di compagnie aeree lo smentiscono. Ma, in generale, il capitolo dei viaggi è smentito dalla notorietà di Andreotti, che chiunque avrebbe potuto riconoscere.

ACCUSA: Andreotti, dopo aver ritenuto di poter utilizzare Cosa Nostra per i suoi fini di potere, e dopo le vicende del sequestro Moro, di Sindona e di Pecorelli, non può più ritrarsi dal patto criminoso con l'organizzazione mafiosa, ma è anzi costretto a consolidarlo. Infatti, anche dopo l'omicidio Mattarella, permangono intensi i suoi rapporti personali e politici non soltanto con l'onorevole Lima, ma anche con i cugini Salvo. Andreotti ha sempre negato, contro ogni evidenza, di conoscere i Salvo e ciò ben si comprende, poichè questi rapporti rappresentano un riscontro non soltanto dei suoi rapporti con Cosa Nostra, ma anche del suo possibile coinvolgimento in gravissimi fatti specifici quali gli omicidi di Pecorelli e del generale Dalla Chiesa. I rapporti tra Andreotti e i cugini Salvo sono invece inconfutabilmente provati mediante fotografie, e numerose testimonianze. Così come saranno inconfutabilmente provati i rapporti intrattenuti con i cugini Salvo dal senatore Claudio Vitalone. Il 3 settembre 1982 viene ucciso a Palermo Dalla Chiesa. Il generale, in un colloquio avuto con Andreotti, il 5 aprile 1982, e sempre incredibilmente negato da Andreotti, aveva chiaramente detto a quest'ultimo che non avrebbe avuto riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingevano i suoi grandi elettori e successivamente aveva definito la corrente andreottiana a Palermo la famiglia politica più inquinata del luogo, aggiungendo che gli andreottiani c'erano dentro fino al collo.

DIFESA: Andreotti non conosce i Salvo; era amico di Dalla Chiesa, lo stimava, tanto da volerlo a Palermo; criticò aspramente il mancato conferimento dei poteri speciali da lui chiesti e stigmatizzò che gli venisse sottratta la competenza sulla criminalità delle altre regioni del Sud. Nel colloquio che ebbe con Andreotti, richiesto dal generale, Dalla Chiesa gli comunicò che Mario D'Acquisto, allora presidente della Regione, lo aveva invitato a colazione e ad Andreotti che rispondeva che la cosa non gli appariva strana, il generale obiettò che non conosceva la diffidenza che al sud si ha per i carabinieri. Andreotti non sapeva delle resistenze ambientali che Dalla Chiesa ha riferito nel suo diario privato, sotto forma di dialogo con la moglie defunta; ma se vi fosse stato motivo per prendere le distanze da qualcuno, il generale lo avrebbe certamente avvertito.

ACCUSA: dopo la presa del potere in Cosa Nostra da parte dei Corleonesi, i rapporti tra Andreotti e Cosa Nostra diventano più difficili ma, quando la corrente andreottiana non si impegna a sufficienza contro il maxi-processo, e soprattutto quando viene approvata la legge Mancino-Violante del 17 febbraio 1987, che sostanzialmente preclude la possibilità della scarcerazione degli uomini d'onore detenuti, Cosa Nostra reagisce; in occasione delle elezioni politiche del 16 giugno 1987, indirizza i consensi elettorali a favore del Psi.

DIFESA: la Dc non ha mai risentito in Sicilia di flessioni determinate da accordi con Cosa Nostra. Andreotti, comunque, non si occupava delle vicende locali ed era impegnato nell'attività di governo. Non entrava nel merito della formazione delle liste. Confrontando i dati siciliani si passa dal 37,9 dell'83 al 38,8 del'87 contro un 41 per cento del '92. Il Psi ha avuto questo andamento: 13,3 (nell'83), 14,9 (nell'87) e 14 (nel '92).

ACCUSA: La posizione di Lima e di Ignazio Salvo che sono sopravvissuti alla guerra di mafia del 1981-82 proprio perchè utilizzati dai Corleonesi quali tramiti con Andreotti si fa pericolosissima. Andreotti è costretto ad incontrarsi con Riina, sia per salvare la vita a Lima, sia per non compromettere il potere della sua corrente. L'incontro con Riina, Lima, e Ignazio Salvo avviene a Palermo nell'autunno del 1987. In quel periodo, e precisamente il 20 settembre 1987, Andreotti si trova a Palermo per partecipare alla Festa dell'Amicizia, e nella sua giornata c'è un vuoto di circa 4 ore (dall'ora di pranzo al tardo pomeriggio) in cui nessuno, neppure il suo abituale personale di scorta, sa dove egli sia andato.

DIFESA: Per la Festa del 1987, Andreotti non si è mai mosso da Villa Igiea, dove risiedeva durante la sua permanenza a Palermo. La sua scorta avrebbe notato ogni spostamento e così la vigilanza predisposta da Polizia e Carabinieri. Il resto sono solo ricostruzioni di collaboratori inaffidabili, anche perché continuano a delinquere mentre si trovano sotto la protezione dello Stato (Di Maggio).

ACCUSA: nel 1987 inizia l'opera di sgretolamento del maxi-processo con una lunga serie di provvedimenti della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione basati su una tecnica di valutazione delle prove (e soprattutto delle dichiarazioni dei pentiti) "che apprezzava atomisticamente ogni singolo indizio, e concludeva per ciascuno che di per sè non era idoneo a confortare le circostanze che intendeva provare, nè a contribuire ad una valutazione di attendibilità del complesso indiziario". Nel maggio-giugno 1991 il Presidente Carnevale designa, per la trattazione in Cassazione del maxi-processo, un collegio che - secondo le previsioni dello stesso Carnevale non potrà che annullare le condanne. Questo disegno fallisce per iniziativa del Presidente Brancaccio che, nell'ottobre 1991, designa come Presidente del collegio Arnaldo Valente, il quale determina la conferma delle condanne, senza che gli altri componenti del collegio, come dirà lo stesso Carnevale, abbiano il coraggio di metterglisi contro. A riprova delle dichiarazioni dei collaboranti sulla esistenza di un canale politico diretto a condizionare l'esito del maxi-processo in senso favorevole a Cosa Nostra, si dimostreranno i rapporti tra Andreotti e Carnevale, diretti e per tramite di Claudio Vitalone (sempre negati dagli interessati), attraverso prove fotografiche, documentali e testimonianze.

DIFESA: Andreotti non aveva con Carnevale rapporti di conoscenza intensa, né di assidua frequentazione. Carnevale non ha mai ottenuto alcun incarico su interessamento di Andreotti, né per il premio della Fondazione Fiuggi, né per altro, contrariamente a quanto sostenuto da Vittorio Sbardella, (già vicino al senatore, le cui dichiarazioni furono raccolte in incidente probatorio prima di morire). Anzi, la testimonianza di Sbardella era molto condizionata dai contrasti interni della Dc. Tuttavia lo stesso Sbardella smentì che Andreotti conoscesse i Salvo. Quanto al premio Fiuggi, è probabile che Carnevale sia arrivato lì per i suoi pregressi rapporti di esperto con il ministero dell'Industria. Su alcune decisioni della sezione del giudice Carnevale, Andreotti intervenne pubblicamente. Dopo la scarcerazione di 40 boss, Andreotti, allora presidente del Consiglio, dichiarò pubblicamente che sarebbe intervenuto per "correggere un offesa al popolo italiano". Non subì affatto il decreto, come ha sostenuto l'ex guardasigilli, Claudio Martelli, ma anzi ne fu il promotore, prefigurando anche una modifica costituzionale che riducesse al primo grado la presunzione di innocenza. La difesa ha poi rintracciato numerose sentenze della prima sezione che smentiscono i collaboratori che parlano di processi aggiustati su interessamento di Carnevale. Il magistrato, oltretutto, ha chiarito che non decise sul maxiprocesso perché aveva già chiesto il trasferimento alla corte d'appello di Roma. E se Andreotti era interessato a che presiedesse la corte del maxiprocesso, perché avrebbe dovuto interessarsi del suo trasferimento. Vitalone ha smentito di avere mai affrontato la questione con Andreotti.

ACCUSA: il 30 gennaio 1992, quando la Cassazione conferma le condanne del maxi-processo, Riina scatena la vendetta di Cosa Nostra contro i politici che hanno tradito. Il 12 marzo 1992 viene ucciso a Palermo Salvo Lima. Nell'estate del 1992, dopo la strage di Capaci, Brusca e Bagarella concepiscono un attentato contro Andreotti, appunto perché, dopo avere usato Cosa Nostra, ha tradito. Il 17 settembre 1992 viene ucciso a Santa Flavia Ignazio Salvo.

DIFESA: le dichiarazioni dei pentiti che si riscontrano tra loro con aggiustamenti di tiro successivi offrono questa come spiegazione dei delitti, a corollario di un teorema accusatorio costruito sull'asse Andreotti-Salvo del quale non c'è prova.

È tutta da riscrivere la storia delle stragi siciliane. Le inchieste sono partite con quasi vent'anni di ritardo per disattenzioni investigative e deviazioni, un depistaggio che ha voluto Totò Riina e i suoi Corleonesi come unici protagonisti del terrore. Tutto era riconoscibile già allora: bastava indagare su quelle "presenze estranee" a Cosa Nostra. Ma nessuno l'ha fatto.

Vent'anni dopo è stata capovolta tutta la dinamica del fallito attentato dell'Addaura. Ci sono testimonianze che rivelano un'altra verità e che irrobustiscono sempre di più l'ipotesi di un "mandante di Stato".

La scena del crimine è da spostare di ventiquattro ore: la borsa con i candelotti di dinamite è stata sistemata sugli scogli non il 21 giugno del 1989 ma la mattina prima, il 20 giugno. E, da quello che sta emergendo dalle investigazioni, sembra che fossero due i 'gruppi presenti quel giorno davanti alla villa di Falcone. Uno era a terra, formato da mafiosi della famiglia dell'Acquasanta e da uomini dei servizi segreti. E l'altro era in mare, su un canotto giallo o color arancio con a bordo due sub. I due sommozzatori non erano di "appoggio" al primo gruppo: erano lì per evitare che la dinamite esplodesse. Non c'è certezza sull'identità dei due sommozzatori ma un ragionevole sospetto sì: uno sarebbe stato Antonino Agostino, l'altro Emanuele Piazza.

Il primo, Agostino, ufficialmente era un agente del commissariato San Lorenzo ma in realtà un cacciatore di latitanti. Venne ammazzato insieme alla moglie Ida Castellucci il 5 agosto del 1989, nemmeno due mesi dopo l'Addaura. Mai scoperti i suoi assassini. Anche Totò Riina ordinò una "indagine" interna a Cosa Nostra per capire chi avesse ucciso il poliziotto: "Anche lui non riuscì a sapere nulla", ha riferito il pentito Giovanbattista Ferrante. "È stato ucciso perché voleva rivelare i legami mafiosi con alcuni della questura di Palermo. Anche sua moglie sapeva: per questo hanno ucciso anche lei", ha raccontato invece il collaboratore di giustizia Oreste Pagano. Per l'uccisione di Antonino Agostino, la squadra mobile di Palermo seguì per mesi un'improbabile "pista passionale". Qualche mese fa i magistrati di Palermo hanno ascoltato un testimone - un funzionario di polizia - che ha raccontato di avere ricevuto una confidenza proprio dal giudice Falcone, andato a trovarlo una sera nel suo commissariato: "Questo omicidio l'hanno fatto contro di me e contro di lei". Parlava dell'agente Antonino Agostino.

Il secondo sommozzatore, Piazza, era un ex agente di polizia che aveva anche lui cominciato a collaborare con i servizi segreti (il Sisde) nella ricerca dei latitanti. Emanuele Piazza è stato ucciso il 15 marzo del 1990. Una "talpa" avvisò i mafiosi che l'ex agente di polizia stava lavorando per gli apparati di sicurezza. I boss lo attirarono in una trappola e lo strangolarono. Anche per il suo omicidio, la squadra mobile di Palermo indirizzò inizialmente le ricerche su "una fuga della vittima in Tunisia, in compagnia di una donna".

Un depistaggio nelle indagini sul primo omicidio, un altro depistaggio nelle indagini sul secondo omicidio. Sul fallito attentato dell'Addaura sta affiorando un contesto sempre più spaventoso: un pezzo di Stato voleva Falcone morto e un altro pezzo di Stato lo voleva vivo. Ma chi ha deviato le indagini sugli omicidi di Antonino Agostino ed Emanuele Piazza? Chi ha voluto indirizzare i sospetti verso la "pista passionale" per spiegare le uccisioni dei due poliziotti?

Un giallo nel giallo è nascosto fra altre pieghe del fascicolo sull'Addaura: si stanno cercando da mesi gli identikit dei due sommozzatori, ricostruiti attraverso le indicazioni di alcuni bagnanti che il 20 giugno del 1989 erano nella zona di mare dove volevano uccidere Giovanni Falcone. Quotidiani e agenzie di stampa avevano, al tempo, dato ampio risalto alla notizia di quegli identikit: oggi c'è il sospetto che non siano mai stati consegnati alla magistratura. Entrare nelle indagini dell'Addaura è come sprofondare nelle sabbie mobili.

Se l'affaire dell'Addaura è il punto di partenza di tutte le indagini sulle altre stragi siciliane, è un affaire con troppi morti. E molti interrogativi. Ad esempio, perché le indagini sull'attentato al giudice sono partite con vent'anni di ritardo? E chi ha ucciso tutti i testimoni dell'Addaura?

Morto è Francesco Paolo Gaeta, un piccolo "malacarne" della borgata dell'Acquasanta, che il giorno del fallito attentato aveva casualmente assistito alle manovre militari intorno alla villa del giudice. Qualche tempo dopo, Gaeta fu ucciso a colpi di pistola: il caso fu archiviato come regolamento di conti fra spacciatori.

Morto è il mafioso Luigi Ilardo. Era un informatore del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, e all'ufficiale aveva detto: "Noi sapevamo che a Palermo c'era un agente che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro. Siamo venuti a sapere che era anche nei pressi di Villagrazia quando uccisero il poliziotto Agostino". Il mafioso Luigi Ilardo è stato assassinato qualche giorno prima di mettere a verbale le sue confessioni.

Morto Ilardo. Morto Falcone. Morto l'agente Nino Agostino. Morto il collaboratore del Sisde Emanuele Piazza.

È caccia aperta all'uomo con la faccia da mostro. Qualcuno dice che si è vicini a un riconoscimento, qualcun altro giura che quell'uomo non si troverà mai perché anche lui è morto da anni. Così come è caccia aperta ad altri "agenti dei servizi" legati ai boss di Corleone. Uno, in particolare, chiamato di volta in volta "Carlo" o "signor Franco": un uomo degli apparati che per una ventina di anni è stato al fianco dell'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Trattava con lui e con Totò Riina nell'estate del 1992.

Sono due i livelli del coinvolgimento degli apparati di sicurezza all'ombra delle stragi: ci sono i servizi sospettati di aver trattato con la mafia e ci sono i servizi sospettati di avere avuto un ruolo attivo negli attentati. Se non si scopriranno queste trame, non sapremo mai chi davvero ha ucciso Falcone e Borsellino e perché. C'è puzza di spie in ogni massacro siciliano. Misteri di mafia che si confondono con misteri di Stato.

Il 4 novembre 1993 il 41 bis non fu rinnovato per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone. A rivelarlo, dinanzi alla commissione Antimafia, l’11 novembre 2010, è stato l'ex Ministro di Grazia e Giustizia Giovanni Conso, il quale rivestì la carica tra il 1993 e il 1994 nei governi Amato e Ciampi. Conso ha spiegato di avere preso quella decisione «per fermare la minaccia di nuove stragi». L'ex guardasigilli ha continuato dicendo - «C’era già stato l’arresto di Riina, e si parlava di un cambio di passo della mafia con il nuovo capo, Provenzano. Il vice di Riina aveva un’altra visione: puntare sull’aspetto economico ed abbandonare le stragi. Ecco perché decisi di lasciar stare un atto che non era obbligatorio». E' questo un passaggio che merita attenzione e necessita di chiarimenti a parere dei parlamentari Luigi Li Gotti e Giuseppe Lumia, i quali si chiedono come potesse Conso conoscere "la linea adottata da Provenzano all’interno di Cosa Nostra se alla fine del ’93 Provenzano era ancora uno sconosciuto per gli investigatori". Numerose sono state le reazioni di stupore e indignazione dei parenti delle vittime delle stragi di mafia degli anni 1992 e 1993, mentre i giudici palermitani, che indagano sui quei fatti, hanno dichiarato che le rivelazioni di Conso rappresentano, per loro, delle autentiche novità. Solo per la cronaca è importante ricordare che il regime del carcere duro era uno degli argomenti cui faceva riferimento il cosiddetto "papello", il famigerato documento, che rappresenterebbe la prova della scellerata trattativa tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato, di cui ha parlato in modo particolareggiato Massimo Ciancimino. Sette mesi dopo la strage Borsellino, non c'era solo la linea della fermezza contro i boss di Cosa nostra. Una nota riservata dell'allora direttore dell'amministrazione penitenziaria Nicolo' Amato suggeriva al ministro della Giustizia Giovanni Conso di revocare il carcere duro ai mafiosi. L'appunto, il ''numero 115077 del 6 marzo 1993''. La nota del Dap non era solo un'iniziativa di Amato. E' lui stesso a scriverlo, citando una riunione del comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza convocato in quei giorni. Sarà forse perchè non chiama in causa Berlusconi, ma ben altri personaggi riconducibili a sinistra e tutta una altra storia politica, ma il fatto oggettivo è che le dichiarazioni di Conso a proposito della sospensione del 41bis a oltre 100 carcerati già sottoposti a questo tipo di regime di detenzione - notizia per molti aspetti di per sè sconvolgente - è passata in una sorta di silenzio stampa.

I rapporti della mafia con la politica, la trattativa, i contatti con Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, Nicola Mancino come destinatario del papello di Totò Riina: sono diversi i temi affrontati da Giovanni Brusca nella sua deposizione il 3 maggio 2011 a Firenze nell'aula bunker in occasione del processo sulla strage dei Georgofili, in cui il pentito sostiene, prima di tutto, che «nel 1992 Cosa nostra aveva rapporti con la sinistra, con politici locali, con Lima e a livello nazionale con Andreotti.»

E parla a lungo di Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. «Con le stragi del '93 non c'entrano - dice Brusca - perché la situazione è collegata al passato. Non sono i mandanti esterni delle stragi di mafia del 1993». Il loro coinvolgimento come controparte per la criminalità organizzata si sarebbe manifestato subito dopo, secondo il pentito. «In una conversazione - ha precisato il pentito - si parlava di Berlusconi e di Dell'Utri quali mandanti esterni delle stragi, io dicevo che non c'entravano niente.» Brusca riferisce però di aver contattato Silvio Berlusconi nel 1993 attraverso Mangano e Dell'Utri, per avvertirlo che in mancanza di un accordo la stagione delle bombe sarebbe continuata. Nella seconda metà del 1993 «mandai Mangano a Milano ad avvertire Dell'Utri e, attraverso lui, Berlusconi che si apprestava a diventare premier, che senza revisione del maxiprocesso e del 41 bis le stragi sarebbero continuate - ha detto il pentito - Mangano - ha aggiunto - tornò dicendo che aveva parlato con Dell'Utri, che si era messo a disposizione.» Un altro avvicinamento ci sarebbe stato nel 1994. «Nel 1994, con Bagarella ho un contatto con Dell'Utri, attraverso Mangano, per avere modo di "arrivare" a Silvio Berlusconi - dice ancora Brusca nella sua deposizione. A Dell'Utri fu detto che il governo, allora guidato dal centrosinistra, sapeva e che da lì in poi per avere benefici si era intavolato un altro rapporto politico. Mancino non c'era più. Questo contatto con Dell'Utri venne fuori perché Brusca sapeva che Mangano lavorava ad Arcore. A Mangano «chiesi se conosceva Berlusconi e lui disse di sì e che ci saremmo potuti arrivare tramite Dell'Utri, contattabile attraverso un uomo delle pulizie di Canale 5. La richiesta era l'allentamento del 41 bis. Era la fine del 1993 o l'inizio del 1994, dopo la vicenda Contorno, che è nel 1994». Dell'Utri e Vito Ciancimino si sarebbero offerti come tramite tra la mafia e la Lega e un altro soggetto politico: è quanto avrebbe riferito Totò Riina a Giovanni Brusca, dopo l'uccisione del giudice Giovanni Falcone, ha riferito poi il pentito. Fino all'attentato contro Falcone, ha spiegato Brusca, l'obiettivo di Totò Riina era di influenzare il maxi-processo di mafia a Palermo. In seguito, sarebbero subentrati Marcello Dell'Utri e Vito Ciancimino che volevano "portare" a Riina la Lega e un altro soggetto politico, che Brusca dice di non ricordare.

Nelle sue dichiarazioni Brusca tira in ballo Nicola Mancino, che, secondo il pentito, sarebbe stato destinatario delle richieste avanzate da Riina. Dopo l'uccisione di Falcone, Totò Riina consegnò un "papello", un foglio di richieste, all'allora ministro degli Interni Mancino (poi diventato vicepresidente del CSM, l'autogoverno dei magistrati), dice Brusca, che preferisce parlare di "un'offerta" piuttosto che di una "trattativa", precisando di non aver visto il papello, ma di sapere "quali erano le richieste: la revisione del maxi processo, l'applicazione della legge Gozzini, la legge sulla confisca". Il boss di Cosa Nostra non avrebbe poi riferito quale fosse "il tramite", ma solo il destinatario finale, «e fece il nome dell'onorevole Mancino, allora ministro dell'Interno». Il papello sarebbe stato recapitato quando, nelle parole di Riina riportate da Brusca, "finalmente si sono fatti sotto". Quanto all'esistenza di una "trattativa" vera e propria tra mafia e Stato, Brusca ha risposto alle domande del giudice Nicola Pisano, ripetendo che «per quel che mi riguarda, la base di tutto era il maxi-processo. Tutto il resto e il 41 bis è diventato in base agli sviluppi. La richiesta di attenuare o eliminare il regime di carcere duro sarebbe venuta dopo Borsellino - ha aggiunto: in quel momento si collocherebbe la cosiddetta trattativa, quest'offerta che arriva da Riina, per quelli che sono i miei ricordi». Il 41 bis sarebbe dunque diventato un aggravante dal punto di vista dei mafiosi. In particolare, Brusca ha fatto cenno ai "maltrattamenti nelle carceri": «C'erano sempre stati i maltrattamenti nei racconti degli uomini d'onore più anziani - ha risposto a una domanda del giudice - ma questa volta erano violenze generalizzate a Pianosa e l'Asinara. Con questo - ha concluso Brusca - non voglio giustificare o accusare».

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.  

 (Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)   

Lasciatemi votare 

con un salmone in mano 

vi salverò il paese 

io sono un norvegese…  

MAGISTRATI POCO ONOREVOLI.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

Il signor Scialpi ed il 13 maledetto. Cerca di riscuotere la vincita dal 1981. Il venditore ambulante di Taranto combatte da 33 anni una guerra legale contro il Coni. La sua vincita (1 miliardo di lire) non è stata mai riconosciuta ma lui non si arrende, scrive di Angela Geraci  su “Il Corriere della Sera”. Il pomeriggio del 1° novembre 1981 un ragazzo pugliese di 28 anni si ritrova all’improvviso straricco. Si chiama Martino Scialpi, fa il venditore ambulante e quella domenica ha appena fatto 13 al Totocalcio. Ha comprato una schedina in una ricevitoria di Ginosa, in provincia di Taranto, e ha indovinato tutti i risultati delle partite: ha vinto più di un miliardo di lire. Non sa ancora che tutti quei soldi, però, non li vedrà mai. O, almeno, non li ha visti fino a oggi che ha 61 anni e ha passato gli ultimi 33 a combattere nelle aule di giustizia per riscuotere la sua vincita, tirando in ballo anche il Coni che quella vittoria non l’ha mai riconosciuta. Adesso con la rivalutazione (e il risarcimento danni), ha calcolato Scialpi, quella schedina varrebbe circa 9 milioni di euro. L’ultima speranza rimasta al commerciante è un udienza fissata il 4 novembre al tribunale di Roma: dopo aver ascoltato le parti, il giudice deciderà se accogliere o meno la richiesta di archiviazione dell’indagine contro il Coni fatta dalla pm. E allora Scialpi saprà se deve rassegnarsi o può ancora continuare a sognare. Tutta colpa di una lunga e complicata serie di eventi che parte dalla «sparizione» della matrice della sua schedina vincente. Il Totocalcio si è sempre rifiutato di pagare la vincita affermando che la titolare della ricevitoria aveva smarrito la matrice della schedina. Di fatto il tagliandino che avrebbe cambiato la vita di Scialpi non è mai arrivato nell’«archivio corazzato» della commissione del Totocalcio di Bari. Ma la storia è più complessa e inizia a rimbalzare da un aula di tribunale all’altra, di ricorso in ricorso. Perché c’è un problema anche per quanto riguarda il posto in cui l’uomo ha comprato la schedina. Scialpi coinvolge i vertici del Coni che si difendono esibendo un documento che prova la cessione dell’attività della ricevitoria da un proprietario all’altro, con la conseguente revoca della concessione. Insomma, la ricevitoria dove Scialpi aveva tentato la fortuna non avrebbe avuto le carte in regola per vendere le schedine in quel momento. Scialpi viene anche accusato di truffa e falso ma poi è assolto con formula piena. Una sentenza del tribunale di Taranto nel 1987 accerta l’autenticità della schedina e gliela restituisce. Passano gli anni, il commerciante continua a chiedere giustizia in un turbinio di carte bollate, perizie, ricorsi e richieste di annullamento di sentenze, fra il penale e il civile. Come quando, nel 2008, chiede che venga annullato il verdetto della corte d’appello-sezione civile di Roma che nel 1985 ha dato ragione al Coni. Scialpi e il suo avvocato portano ai magistrati una doppia perizia grafologica e merceologica disposta nel 2004 dal gip del tribunale di Bari: gli esperti (il chimico Roberto Ciarrocca e il grafologo Romeo Di Desiderio) sostengono che le carte presentate dal Coni sul passaggio di proprietà della ricevitoria sono state «manipolate». Sembra addirittura che il documento datato 5 agosto 1981 sia stato in realtà redatto in un’epoca vicino al 1991. I processi vanno avanti, tra i tribunali di Taranto, Bari e Roma. Nel 2012 il giudice civile di Roma emette un’ordinanza in cui intima al Coni di riconoscere a Scialpi oltre 2 milioni e 340 mila euro. Ma il venditore ambulante di Martina Franca deve aspettare ancora: il 19 settembre è prevista l’udienza in cui si dovrà decidere sul procedimento di pignoramento, avviato dal legale del commerciante ai danni del Coni, per un ammontare di circa 4 milioni di euro, su beni immobili e presso terzi riconducibili al Comitato Olimpico. Intanto sono stati indagati, con l’accusa di aver prodotto documenti falsi, l’avvocato Luigi Condemi del Coni, l’avvocato Enrico De Francesco di Taranto e l’ex responsabile Coni per la zona di Bari Mario Bernacca. Ma il pm ha chiesto l’archiviazione dell’indagine. Scialpi si è opposto e il 4 novembre ci sarà l’ennesima discussione fra le parti, dopo di che il giudice deciderà se accogliere la richiesta di archiviare il procedimento o meno . «Da trenta anni inseguo una vincita che doveva cambiarmi la vita e invece me l’ha rovinata - diceva Scialpi all’Ansa nel 2011 - Ho speso più di 400 mila euro, guadagnati con umile lavoro di commerciante in aree pubbliche, in perizie, spese legali, fotocopie e viaggi per seguire in mezza Italia le decine di cause contro il Coni». Da parte sua il Comitato Olimpico non rilascia più commenti su questa storia (che periodicamente, da oltre tre decenni, torna a galla) e rimanda all’ultima nota diffusa, un anno fa: «Non esiste alcuna sentenza del tribunale di Taranto, della Cassazione o di qualsiasi altro giudice che abbia accertato il preteso diritto del signor Scialpi al pagamento di una vincita al Totocalcio - si legge nella nota dell’8 luglio 2013 -. Il signor Scialpi è sempre uscito soccombente da tutti i giudizi intentati al Coni». «Continueremo a tutelare il denaro pubblico che gestiamo - dice ancora il Coni - dai tentativi di aggressione del signor Scialpi». L’avvocato Guglielmo Boccia, legale di Scialpi, è invece fiducioso quando parla al telefono da Martina Franca: «Siamo sereni perché iniziamo a vedere la fine di un percorso lungo decenni e abbiamo fiducia nella giustizia: solo così si spiega la tenacia di Scialpi che ha 33 procedimenti aperti e ha perso casa e lavoro per avere la sua vincita». Un muro contro muro, dunque, che dura dal 1981. I casi sono due: o il commerciante è un folle che ha dedicato metà della sua vita a perseguitare il Coni oppure è un uomo che lotta per un sogno a cui ha diritto. Da una lontana domenica d’inverno di trentatrè anni fa.

Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe.

Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace?

«Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon.

Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione.

L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana.

Possibile che sia un bugiardo?  I dubbi mi han portato a fare delle ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso esimermi  dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero (salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei 1500 contati redazionali.

«Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino - scrive Michele Imperio -. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio - scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e su “La Notte on line” -  A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?). Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro, assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà.»

Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato...

«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».

Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare...

«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».

«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.

Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?

«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».

CHI SONO I MAFIOSI? GUERRA IN PROCURA A TARANTO. PIETRO ARGENTINO E MATTEO DI GIORGIO. PROCURATORI DELLA REPUBBLICA ACCOMUNATI DALLO STESSO DESTINO?

Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio, scrive Michele Imperio su “Tarastv”. A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triasi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo poitico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazarano nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nle corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?) Ora - guarda un pò - anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Notizia dell'ultima ora: il dott. Sebastio e la dott.sa Todisco stanno litigando fra loro per chi dovrà essere il prossimo candidato del P.D. a sindaco di Taranto dopo le prossime dimissioni dell'attuale sindaco Ippazio Stefano. Si sta studiando però una mediazione: Todisco sindaco e Sebastio parlamentare. E dovere morale di ogni cittadino di Taranto impedire che si verifichi sia una cosa che l'altra. In quanto entrambe le cose per come si sono maturate FANNO SCIHFO!!!!!!!!!!!!!!!!!

Voglio raccontare ai lettori de “La Notte” uno strano caso giudiziario verificatosi qualche giorno fa presso il Tribunale di Potenza che doveva giudicare un Magistrato di Taranto, l’ex sostituto Procuratore della Repubblica Matteo Di Giorgio, scrive Michele Imperio su “La notte on line”. Una storia travagliata quella di Di Giorgio cominciata nell’ottobre 2010 con la richiesta di un mandato di cattura in carcere mitigata dal g.i.p. di Potenza in arresti domiciliari eseguito dai Carabinieri del Comando provinciale di Potenza con accuse infamanti che vanno dalla concussione alla corruzione all’abuso di ufficio alla minaccia al termine di un’inchiesta avviata circa due anni prima (2008) e coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza, competente sui magistrati del Distretto della Corte di Appello di Taranto. Se tutte le accuse fossero vere c’è da chiedersi dove stava in quegli anni (2001 – 2008) il suo Procuratore Capo e come mai Di Giorgio avrebbe subito una strana trasformazione simile a quella descritta nel celebre romanzo di Robert Louis Stevenson fra Mister Jekill il buono che si tramutava, grazie all’assunzione di un unguento speciale, nel suo alter ego cattivo mister Hyde. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Poi, del tutto improvvisamente, il cambiamento! Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008 ma – secondo l’accusa – coltivata fin dal 2001 (questa è la data del primo reato per il quale la stessa Procura di Potenza esclude che abbia preso denaro, mirando egli già da allora cioè dal 2001, soltanto ai voti, 2001-2008) sarà stato l’antagonismo con il parlamentare del P.D. del suo paese, Rocco Loreto, fatto sta che da migliore sostituto procuratore della Repubblica della Procura di Taranto, Di Giorgio si è trasformato di botto in un incallito concussore e corruttore tanto da essere arrestato, processato e poi condannato il 30 aprile scorso a ben 15 anni di reclusione! Quindici anni di reclusione! Avete capito bene! Il Tribunale ha ritenuto a suo carico tutti i sette capi di imputazione anche quelli annullati dalla Cassazione, tra cui due concussioni, nemmeno unite dal beneficio della continuazione (che si da anche ai mafiosi) una in danno di un imprenditore, Di Battista, il quale sarebbe fallito per causa sua (ma l’imprenditore nega), vari reati di corruzione e infine anche reati di abuso d’ufficio e di minacce inseriti in questo castelletto di ben sette capi di imputazioni. Pensate! Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non poso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente cirtici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Mai sia che si offendesse il nostro equivalente della vacca sacra della religione Indù: il giudice santificato, che emana sempre condanne e non somministra mai assoluzioni. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Ma la cosa non finisce qui! Perché al caso, sicuramente clamoroso del giudice Matteo Di Giorgio, si è aggiunto nello stesso processo un altro caso altrettanto clamoroso, che riguarda un altro Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto il Procuratore Aggiunto dott. Pietro Argentino. Questi ha avuto la sventura di essere chiamato come testimone dal dott. Matteo Di Giorgio. E in base a un dovere civico, abbastanza elementare, si è presentato per deporre. Ebbene non ci crederete! La sua deposizione insieme a quella di altri venti testimoni (fra cui cinque eccellenti un vicequestore in forza alla Questura di Taranto e quattro marescialli!) è stata inviata dal Tribunale di Potenza ai P.M. di quella Procura affinchè procedano contro il dott. Argentino e gli altri venti malcapitati per il reato di falsa testimonianza! Pensate! Venti più uno! L’avv. Giandomenico Caiazza presidente del Comitato Radicale per la Giustizia “Piero Calamandrei” ha giustamente sottolineato l’assurdità di un Procuratore Aggiunto (Argentino) che fra pochi giorni dovrà sostenere una delicatissima requisitoria nel noto processo a carico dei dirigenti dell’Ilva di Taranto e nello stesso tempo deve apparire al grande pubblico come gravato del sospetto di una falsa testimonianza che gli proviene da un altro Tribunale della Repubblica. Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correenti9 democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato, la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro assassinato e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella anche lui assassinato, la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ebbene quest’ultimo segmento politico della Sinistra Democristiana nel tempo dapprima ha annichilìto e assorbito la Sinistra Morotea grazie ai delitti che prima richiamavamo e cioè la strage di via Fani, il delitto Mattarella, il falso suicidio del figlio dell’on.le Carlo Donat Cattin e poi ha tentato di egemonizzare tutta la Democrazia Cristiana con le stragi del 1992 e con i noti processi Andreotti e di Tangentopoli. Scalfaro è morto per cui diciamo pace all’anima sua (che ne ha tanto bisogno;) ma uno dei protagonisti di quell’epopea il senatore Nicola Mancino oggi risponde di falsa testimonianza nel noto processo della trattativa perché secondo i valorosi Magistrati di Palermo nasconderebbe qualcosa ma più di qualcuno pensa che la sua imputazione subirà nel tempo un aggravio, tecnicamente chiamato contestazione suppletiva. Forse per strage. Nello schieramento politico italiano hanno sempre operato almeno tre segmenti ultra atlantisti e quindi alla bisogna stragisti quando qualche altro segmento politico non si adeguava ai comandi americani. I tre segmenti politici cavalier serventi erano un piccolo segmento politico interno al Partito Socialista, un piccolo segmento politico interno al Movimento Sociale poi divenuto Alleanza Nazionale (in pratica la Destra Neofascista finiana) e infine un terzo segmento politico costituito dalla cosiddetta Sinistra Politica Democristiana. Sta di fatto che mentre il segmento atlantista socialista è stato soppresso, quello finiano si è ridoto all’1%, il segmento politico della Sinistra Politica Democristiana nel tempo si è espanso sempre di più e adesso attraverso il renzismo sta cercando di fagocitare anche la vecchia nomenclatura dell’ex Partito Comunista confluita nel P.D. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Potrete trovare maggiori dettagli su questa vicenda cliccando su Internet “OK Notizie Virgilio Magistrati milanesi e magistrati di Puglia 7a. puntata. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.) un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città perché corre voce che due Magistrati uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà. Alcuni dicono che io parlo male dei Magistrati. E invece ne parlo bene quando se ne deve parlare bene. Ne parlo male quando se ne deve parlare male. Il Procuratore Aggiunto Pietro Argentino è un Magistrato molto valoroso, noto alle cronache per aver risolto brillantemente molti casi di cui si è occupato tra i quali quello di Sara Scazzi la ragazzina uccisa per gelosia dalla cugina Sabrina Misseri, nell’ambito di un delitto cosiddetto familiare. Il delitto familiare è sempre molto difficile da dipanare per assenza di testimoni diretti (vedi per esempio i casi di Chiara Poggi e di Yara Gambirasio dove gli inquirenti in alktre Procure da anni brancolano nel buio o prendono granchi). Ma evidentemente nella Magistratura italiana il merito ed il valore non contano più. Non ti assicura nopiù nemmeno un minimo di rispetto e di considerazione. Ciò che conta è soltanto l’appartenenza politica, in vista di future promozioni, incarichi apicali, passaggi in politica e vari. Singolare è poi la tempistica della incriminazione per falsa testimonianza subita dal dott. Pietro Argentino, il quale dopo essere stato per anni in predicato di diventare Procuratore Capo proprio della Procura della Repubblica di Potenza, da pochi giorni assegnata ad altro Magistrato, sicuramente ora sarebbe un temibile concorrente per il Magistrato a cui la Procura di Taranto è stata già predestinata, un o di destra, posto che il dott. Franco Sebastio attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto fra poco meno di un anno, dovrà lasciare l’incarico per raggiunti limiti di età. Anche sulla Procura di Potenza quindi aleggia il dubbio che, per lo meno per il periodo in cui non è stata diretta dal dott. Giovanni Colangelo, Magistrato eccellentissimo, ora Procuratore Capo della Repubblica di Napoli, sia e sia stata politicamente orientata. Su questo ci potrei scrivere pure un libro. La Sinistra politica democristiana pugliese quindi, supportata da altri organismi giudiziari, tende ormai a espellere da tutto il terriotrio della Puglia sia gli esponenti politici che i Magistrati, eventualmente anche di Sinistra, che non sono congeniali al suo progetto politico o che comunque ne possano impedire la piena attuazione. E’ ormai fatto acclarato che per conseguire l’obiettivo ormai certa Magistratura non incrimina più e non condanna più il soggetto mirato in base alla sussistenza di una responsabilità penale bensì lo incrimina e eventualmente lo condanna in base alla convenienza politica del momento. Lo strumento maggiormente adoperato per spingere il pollice verso è la cosiddetta concussione presunta. Cioè io giudice presumo dalle intercettazioni, dalle mie deduzioni dalle mie elucubrazioni mentali che tu imputato abbia concusso qualcuno e quindi ti imputo di concussione. Il Tribunale sulle stesse basi ti condanna anche se la parte asseritamente concussa nega che vi sia stata mai una concussione. E così per tornare ai casi concreti della Puglia l’imprenditore Di Battista nel processo Di Giorgio sarebbe stato concusso – secondo i giudici di Potenza – dal Magistrato Mateo Di Giorgio, il Di Battista nega di essere mai stato concusso ma Di Giorgio viene ugualmente condannato, il prof. Giorgio Assennato nel processo Ilva di Taranto sarebbe stato concusso dal governatore della Puglia Niky Vendola, il prof. Giorgio Assennato nega di essere mai stato concusso, Niky Vendola viene ugualmente rinviato a giudizio, il funzionare della provincia di Taranto dott. Luigi Romandini sarebbe stato concusso dall’ex presidente della provincia di Taranto dott. Gianni Florido (arrestato per questo motivo), il dott. Luigi Romandini nega di essere mai stato concusso, Gianni Florido viene ugualmente rinviato a giudizio per concussione. Cioè la concussione viene utilizzata come strumento per l’eliminazione dell’uomo politico o del Magistrato scomodo da maciullare. Quando poi qualcuno depone come tetimone in senso contrario al teorema e quindi potrebbe minare – come si dice in gergo – l’impianto accusatorio, allora scatta un secondo strumento distruttivo, la falsa testimonianza anch’essa trasformata in mezzo politico-giudiziario per conseguire l’obiettivo politico di eliminazione del’avversario politico. E’ quindi con questo strumento,ossia con la falsa testimonianza che è stato colpito a affondato come fosse una pedina del gioco della battaglia navale, il Procuratore Aggiunto della Procura della Repubblica di Taranto, Pietro Argentino, incauto teste a discarico del dott. Matteo Di Giorgio. Ma chi è causa del suo mal pianga se stesso Ma come! Non lo sapevano il dott. Pietro Argentino e gli altri 24 testimoni che il destinatario della loro testimonianza Matteo Di Giorgio era stato investito da una specie di fatwa da parte del Tribunale di Potenza e da parte della Sinistra politica democristiana? Cristo – cari amici – si è fermato a Eboli e questo lo sapevamo. Ma siamo sicuri che Komeini non stia salendo dalla Sicilia?

Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino, continua Michele Imperio. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. “Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. Perché la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità. La cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo”. Questo diceva Giovanni Falcone, esasperato, quando altri colleghi e altri uomini politici (segnatamente Libero Mancuso e Leoluca Orlando Cascio, ormai è passato tantissimo tempo e dunque possiamo fare anche i nomi) lo volevano coinvolgere nell’accusa di mafia contro il senatore Giulio Andreotti. E Giovanni Falcone con quel suo inattaccabile senso del dovere e del giusto, rispose smontando il falso pentito Pellegriti, che Leoluca Orlando (politico) e Libero Mancuso (Magistrato) gli avevano propinato e smontò quindi le sue false accuse contro Salvo Lima (andreottiano) accusato di essere il mandante occulto dell’omicidio Dalla Chiesa. Non solo! Ma per ulteriore sfregio dei komeinisti Giovanni Falcone si fece nominare direttore degli affari generali penali del Ministero di Grazia e Giustizia nell’ultimo governo Andreotti. Si sa come finì. I komeinisti gli fecero pagare con la vita questo affronto. Però quello era ancora un komeinismo spietato ma romantico. Perchè quel komeinismo giudiziario era ispirato da convinzioni ideologiche determinate dai pennivendoli di “Repubblica” i quali avevano riempito la testa a tutti noi (chissà per quali recondite ragioni) che Giulio Andreotti e tutti gli andreottiani erano collusi con Cosa Nostra, convinzioni però poi rientrate. Lo ricordo ancora Leoluca Orlando Cascio che tuonava in tutti i teatri d’Italia: “Andreotti non è semplicemente connivente con la mafia! Andreotti è egli stesso mafioso! Lui ha fatto assassinare Piersanti Mattarela” (l’amico suo) Adesso – dicono – Leoluca Orlando Cascio non si parla più con Antonio Di Pietro. E le ragioni sono evidenti. Lo ricordo ancora il komeinista Luciano Violante, grande ispiratore e suggeritore del processo Andreotti. Al termine del processo lo stesso Luciano Violante ammise: “E’ vero: il suggeritore sono stato io! Ma se tornassi indietro nel tempo non lo rifarei più!” Oggi Luciano Violante potrebbe anche essere un buon presidente della repubblica. Ma nessuno lo candida e i nuovi komeinisti lo snobbano. Lo ricordo ancora Giancarlo Caselli Procuratore di Palermo dopo che ignoti gli ammazzarono sotto il naso nella stanza del piano di sopra Luigi Lombardini, il Magistrato sardo che la cultura komeinista del sospetto indicava essere il regista di tutti i sequestri di persona in Sardegna. Mentre invece la verità era che altri Magistrati (non lui, anzi lui li voleva denunciare) vi avevano lucrato. Nella vicenda Lombardini – disse uno sconsolato Giancarlo Caselli – sono stato strumentalizzato. Ma da chi e per che cosa? Ma oggi il komeinismo ideologico-giudiziario dei Caselli dei Violante dei Mancuso, degli Orlando-Cascio non c’è più, è stato sostituito da un altro komeinismo giudiziario tutto proteso a costruire e a distruggere carriere di magistrati e di uomini politici, secondo l’andazzo momentaneo della giostra. Ma voglio tornare al caso specifico dei magistrati tarantini Matteo Di Giorgio e Pietro Argentino. Se il dott. Matteo Di Giorgio Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto il quale risiede in un piccolo paese della provincia di Taranto, Castellaneta, di sole 17.000 anime (dove quindi tutti si conoscono con tutti) si attiva presso l’amministrazione Comunale perché un poveraccio, suo conoscente, possa gestire un bar pur non disponendo della relativa licenza, ecco che questo è chiaramente un gesto di umanità di Di Giorgio nei confornti del viandante con contenuti – diciamolo pure – non proprio legittimi. Ma è pur sempre un gesto di umanità e quindi non è un reato. Senonchè che ti fa la cultura del sospetto? Ti fa pensare che il Magistrato Matteo Di Giorgio nutre già dal 2001 una grande passione politica e che quindi compia quel gesto non per un senso di umanità ma per sperare nel futuro voto del viandante e quindi per costituirsi già da allora (2001) una clientela politica, uno zoccolo duro di consensi per conseguire e rendere vincente nel 2009 la sua candidatura alla presidenza della provincia di Taranto. Ecco un caso in cui la cultura del sospetto applicata al diritto trasforma un fatto giuridicamente irrilevante in una possibile condotta delittuosa (abuso innominato in atti di ufficio ove il vantaggio patrimoniale richiesto dalla norma viene – con astrazioni metafisiche – equiparato al vantaggio politico che si trae dal voto del viandante). Questo è un caso. Ma esaminiamone anche un altro. Se il dott. Matteo Di Giorgio Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto il quale – lo ripetiamo – risiede in un piccolo paese della provincia di Taranto Castellaneta di sole 17.000 anime (dove quindi tutti si conoscono con tutti) scopre in un suo processo a lui assegnato che il genero di un altolocato del paese spaccia droga in discoteca e quindi sta per andare incontro a otto anni di galera, mosso da senso di pietà e questa volta anche da quel senso tutto paesano di rispetto della reciproca conoscenza, ne copre la responsabilità ma tuttavia chiede all’altolocato per decenza di dimettersi quanto meno dal consiglio comunale di cui è membro, tutto questo chiaramente viene fatto per pietà, per solidarietà paesana, per rispetto, per reciproca conoscenza, per quello che volete voi. Ma anche qui interviene la cultura komeinista del sospetto che fa insinuare che in realtà Matteo Di Giorgio approfitti della situazione per puntare con quelle dimissioni a indebolire la maggioranza e quindi a far cadere il piccolo consiglio comunale di Castellaneta per far si che la sua parte politica prenda il sopravvento e quindi lo supporti da posizioni di forza nella sua successiva ascesa al potere (dopo alcuni anni) alla presidenza della provincia di Taranto. Già, ma a parte il fatto che quindici anni di galera per queste cose fanno ridere, il problema è: dov’è la prova di questi retropensieri del dott. Matteo Di Giorgio? Quale norma equipara la speranza anche minima di un vantaggio politico al vantaggio patrimoniale? Il sospetto se volete ci può anche stare ma la prova, intendo dire la prova in senso tecnico, l’elemento che appaga la coscienza del Magistrato che deve affermare una responsabilità penale e che quindi deve sentenziare la distruzione di un uomo, quella prova – dico – dove sta? Volete voi lettori la riprova che sia così? Queste sette denunce a carico del dott. Matteo Di Giorgio, che sarebbero state redatte su ispirazione di un uomo politico suo antagonista, il senatore Rocco Loreto, sono state diversamente valutate nel tempo venendo considerate in certi periodi storici del tutto irrilevanti (perché parliamo del 2001 mica di ieri), in altri periodi storici accuse addirittura calunniose in altri periodi storici ancora accuse riferite a fatti di reato gravissimi punibili con una pena al carcere di quindici anni e passa di reclusione. Che il dott. Matteo De Giorgio abbia manifestato nel 2009 una forte propensione a candidarsi presidente della provincia di Taranto questo è vero, che l’inchiesta sia partita anzi ripartita in funzione di questa candidatura questo pure è vero, che Di Giorgio abbia mai concusso qualcuno o abbia mai strumentalizzato la funzione giudiziaria questo è falso. E’ completamente falso! O meglio è il frutto della cultura del sospetto su qualcosa che non è provato. Inoltre la cultura giudiziaria del sospetto ha completamente mutato nel tempo i contenuti del reato più grave fra quelli contestati a Di Giorgio, ossia la concussione. Una volta per aversi la concussione il pubblico ufficiale doveva terrorizzare il concusso fino al punto che quello, compulsato dal pubblico ufficiale violento e malfattore si faceva piccolo piccolo e, ob torto collo, cedeva alle sue perverse pressioni intimorito dal cosiddetto metus pubblicae potestatis ossia dal terrore che quello gli incuteva. Oggi invece basta un “ti cambio di posto” che la concussione è bella che consumata. Conosco personalmente sia il dott. Matteo Di Giorgio che il dott. Pietro Argentino e posso dire che sono due ottimi Magistrati, grandi lavoratori, buoni investigatori, discreti oratori ma soprattutto sono due Magistrati indipendenti, non agganciati ad alcun segmento del Potere Politico. Argentino aveva un lontano parente parlamentare di Forza Italia che è morto, Di Giorgio nemmeno quello. Ma proprio qui sta il problema: proprio perché questi soggetti sono personaggi valorosi Di Giorgio sicuramente avrebbe fatto una brillante carriera politica, Argentino sarebbe avanzato ulteriormente in Magistratura: da Procuratore Aggiunto sarebbe diventato Procuratore Capo. Ma allora che ne sarebbe stato delle carriere che il Potere Politico aveva già riservato ai predestinati, gente mediocre e di mala fede? Infatti l’incriminazione per falsa testimonianza di Argentino cade giusto pochi giorno dopo l’assegnazione a un altro Magistrato della carica di Procuratore Capo della Repubblica di Potenza, incarico per il quale anche il dott. Argentino aveva fatto domanda al CSM. Quindi a questo punto non rimane ad Argentino che ripiegare sulla carica di Procuratore Capo della Repubblica di Taranto, da affidarsi fra breve e per la quale certamente Argentino è il Magistrato che ha più titoli. Ma qui parliamo di Taranto! Cioè di un letamaio istituzionale! Dove i problemi non sono certamente il bar aperto senza licenza o le false testimonianze di Argentino o le inesistenti concussioni di Di Giorgio. Un letamaio che invece deve essere gestito da chi necessariamente ha la capacità e la volontà di adeguarsi al letamaio. Ma per spiegarvi tutto questo mi serve un altro capitolo.

Dopo tanti anni di attività professionale ho ormai maturato la convinzione che due segmenti politici dello intero schieramento politico nazionale e precisamente la destra neofascista oggi di Mario Monti e di Gianfranco Fini ma ieri anche di altri soggetti politici e la Sinistra politica democristiana, da non confondersi con la Sinistra sociale democristiana (Cisl e vecchia corrente di Forze Nuove) e nemmeno con la sinistra morotea democristiana (Aldo Moro e Piersanti Mattarella ieri, Dario Franceschini e Giuseppe Gargani oggi) che erano e sono un’altra cosa, la Sinistra politica democristiana – dicevo – (Prodi Romano, Scalfaro Oscar Luigi, Mancino Nicola e De Mita Ciriaco ieri Renzi Matteo oggi e il loro regista di sempre De Benedetti Carlo, questi due segmenti politici – dicevo – non svolgono semplicemente un’attività politica ma esercitano anche una funzione di intelligence di tipo deviato, continua Michele Imperio. Forse dispiacerò qualcuno ma voglio ricordare a me stesso che in seguito alle indagini sulla strage di Peteano il terrorista neofascista Vincenzo Vinciguerra - reo confesso per la strage – rivelò che nell’ormai lontano 1982 il segretario del MSI di allora Giorgio Almirante aveva fatto pervenire la somma di 35.000 dollari a tal Carlo Cicuttini, dirigente del MSI friulano e coautore della strage, affinché egli modificasse la sua voce durante la sua latitanza in Spagna mediante un apposito intervento alle corde vocali. Tale intervento si rendeva necessario perché Cicuttini, oltre ad aver collocato materialmente la bomba assieme a Vinciguerra, si era reso autore della telefonata che aveva attirato in trappola i poveri carabinieri, poi trucidati. La sua voce era stata identificata mediante successivo confronto con la registrazione di un comizio del MSI da lui tenuto. Che cosa avevano scoperto quei poveri carabinieri se è vero come è vero che nel giugno del 1986, a seguito dell’emersione di documenti che provavano il passaggio del denaro tramite una banca di Lugano, il Banco di Bilbao ed il Banco Atlantico, Giorgio Almirante e l’avvocato goriziano Eno Pascoli vennero rinviati a giudizio per il reato di favoreggiamento aggravato verso i due terroristi neofascisti? Ed è emblematico anche come andò la cosa. Enzo Pascoli venne condannato; Giorgio Almirante invece, dopo un’iniziale condanna, si fece più volte scudo dell’immunità parlamentare, all’epoca ancora riconosciuta a deputati e senatori, si sottrasse perfino agli interrogatori e infine si avvalse di un’amnistia grazie alla quale uscì definitivamente dal processo. nonostante la legge ne prevedesse la rinunciabilità. Cicuttini, dirigente del MSI friulano – mai disconosciuto da Giorgio Almirante ripeto – fuggito in Spagna, venne catturato a ventisei anni dalla strage, nell’aprile del 1998, quando fu vittima egli stesso di una trappola: la procura di Venezia gli fece offrire un lavoro a Tolosa dove, recatosi convinto di intraprendere le trattative contrattuali, venne arrestato dalla polizia ed estradato dalla Francia. Questi agenti deviati neofascisti ci sono ancora, probabilmente essi si riconoscono ora nella corrente politica di Mario Monti (che non a caso fa la guerra al partito di Gianni Alemanno, Giorgia Meloni, La Russa, Giorgio Crosetto, Adriana Poli Bortone) e sono infiltrati ovunque, nella classe politica, nei Servizi, nella Polizia, nei Carabinieri, Ovunque. Ma sono infiltrati anche e sopratutto in alcuni segmenti della Magistratura associata (Magistratura indipendente). Analogamente avviene per la Sinistra Politica Democristiana. Ricordo anche qui che quando nel 1978 la polizia stava per scoprire la prigione di Aldo Moro in via Gradoli sulla Cassia a Roma, il giovane Romano Prodi si presentò personalmente alla Polizia di Roma per depistare quelle indagini e spostare le stesse da via Gradoli in Roma in Gradoli città dell’Abruzzo, e ciò perché Aldo Moro non fosse salvato ma fosse assassinato. Dopo che qualcuno (Riccardo Misasi Sinistra D.C.?) aveva mobilitato quindici picciotti della 'nrdina calabrese dei Nirta inducendoli a portarsi il 16 maggio 1978 in via Fani il giorno del rapimento Moro pronti ad intervenire nel caso le cose non si fossero messe nel verso giusto degli stragisti. La storia di Vittorio Mangano stalliere di Silvio Berlusconi (finanza laica) negli anni 70 non viene mai raccontata mai nella sua completezza. Prima del’assunzione di Mangano come stalliere Silvio Berlusconi fece tenere negli uffici della Edilnord una riunione cui parteciparono dopo essere appositamente venuti da Palermo, Stefano Bontade e Mimmo Teresi, all’epoca numeri 1 e n. 2 di Cosa Nostra Siciliana. Costoro decisero di ingaggiare il Mangano per dare un segnale alla Ndrangheta calabrese allora eterodiretta da soggetti della Sinistra poltica democristiana (Nicola Mancino, Riccardo Misasi e company.?) affinchè si comprendesse che Berlusconi fosse sotto la protezione di Cosa Nostra e quindi che i figli di Berlusconi (finanza laica) non potevano essere rapiti e sequestrati. Questo particolare però non viene mai rimarcato. Perché? Perchè altrimenti si porrebbe in modo naturale il quesito: Perché mai analoghe attenzioni non furono mai rivolte dalla Ndrangheta nei confronti dei figli di Carlo De Benedetti o dei figli o dei nipoti di Giovanni Agnelli (finanza ebrea e finanza cattolica?) Magistrati e politici dell’uno e del’altro segmento politico (Destra neofascista e Sinistra politica democristiana) hanno sempre provveduto a clamorose coperture e depistaggi. Ma per farlo essi devono poter accelerare le proprie carriere. E come accelerare le carriere di questi? Stroncando le carriere dei loro rivali! Così come certamente è stata accelerata la carriera di Marco Dinapoli, Magistratura Indipendente, attuale Procuratore Capo della Repubblica di Brindisi. Chi di noi non si è sentito inorridito dai rapporti di amorosi sensi emersi dalle indagini fra questo Procuratore della Repubblica di Brindisi e il terrorista neofascista autore dell’odiosa strage di Brindisi Giovanni Vantaggiato rapporti di amorosi sensi intesi a far si che Vantaggiato non fosse imputato dell’aggravante del gesto a scopo terroristico e si scappottasse quindi la pena dell’ergastolo? Procura della Repubblica di Potenza e CSM si erano già messi meritoriamente all’opera quando anche i lampioni hanno compreso che un alto vertice istituzionale (probabilmente proprio il Presidente della Repubblica) ha bloccato tutto. Ebbene quell’attentato è servito. E’ servito a mandare un messaggio ad alcuni valorosi Magistrati per cui chiunque si fosse avvicinato troppo alla vera verità sulla strage di Capaci (simboleggiata dalla scuola brindisina Falcone e Morvillo) era un uomo morto. E proprio in quei giorni il valoroso Procuratore Capo della Repubblica di Caltanisetta stava scoprendo interessanti novità in ordine alla strage di Capaci. Dalle indagini stavano infatti emergendo responsabilità di altri soggetti neofascisti che avevano materialmente partecipato alla strage e il cui nominativo non era mai emerso prima di allora nelle indagini stesse. Ebbene anche il valoroso Procuratore di Caltanisetta Sergio Lari si è fermato e di quelle indagini non si ha più notizia. Questo caso dimostra che cellule stragiste e criminali sia della Destra neofascista diciamo così finiana e montiana che anche della Sinistra Politica Democristiana (oggi renziana) sono presenti anche all’intero della Magistratura e anzi i Magistrati che vi aderiscono godono di carriere accelerate. Il caso Di Giorgio (il Magistrato di Taranto condannato a quindici anni di reclusione) (ma da chiamarsi ora il caso Argentino-Di Giorgio) è stato finora prospettato come una sorta di lunghissimo qui pro quo fra un Magistrato della città di Castellaneta (piccolo paese in provincia di Taranto) e un parlamentare della stessa cittadina pugliese, il senatore del P.D. Rocco Loreto (nella foto), mentre invece questo caso trascende e di molto questo singolo aspetto del problema, perché esso è conseguenza del fatto che nella provincia di Taranto opera da moltissimo tempo una cellula stragista e criminale istituzionale della Sinistra politica democristiana con presenze attiva ancora oggi anche all’interno delle Istituzioni e segnatamente nella Magistratura e il caso Di Giorgio-Argentino è un singolo capitolo di una guerra in corso fra Magistratura laica e Magistratura cattolica, analogo al conflitto in essere, da sempre, fra finanza laica e finanza cattolica, se volete anche fra criminalità laica e criminalità cattolica (laddove il termine cattolico è adoperato ovviamente in senso lato, molto lato), delle cui prove dirò fra poco.

“Il sospetto non è l’anticamera della verità, il sospetto è l’anticamera del khomeinismo”. Così diceva Giovanni Falcone, davanti al CSM che l’accusava. Ma che cosa aveva voluto dire con quella espressione Giovanni Falcone? Si chiede e continua Michele Imperio. Quando nel 1978 la rivolta popolare in Iran era ormai esplosa contro lo scia Reza Pahlavi, costringendolo a fuggire dal paese, l’ayatollah, Khomeyni, tornato dall’esilio in Iran il 1º febbraio 1979, instaurava nel paese una sorta di dittatura teocratica il komeinismo appunto ossia una “repubblica islamica”, basta sulla persecuzione dell’avversario politico e sul terrore. Il komeinismo dette vita a una durissima repressione contro i collaboratori del deposto scià: migliaia di essi furono arrestati e fucilati dopo processi sommari; altri furono mandati in esilio o imprigionati e i rimanenti fuggirono dal paese. In pochi mesi si considera siano state fucilate circa 5.000 persone e mandate in esilio altre 10.000. Dunque Giovanni Falcone accusava esplicitamente alcuni suoi colleghi Magistrati di voler strumentalizzare la funzione giudiziaria per instaurare un nuovo regime politico simile a quello dell’ayatollah Komeyni. Mi chiedo: Questo disegno politico sta ora subendo un’accelerazione? I magistrati tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio fanno parte di un’epurazione da parte di loro colleghi simile a quella che ci è stata in Iran? Un fatto è certo: il nuovo strumento della falsa testimonianza di massa non è stato adoperato solo a Potenza nel corso del processo Di Giorgio ma anche a Trapani dal Tribunale che ha giudicato il caso Rostagno e che ha mandato sotto processo per falsa testimonianza dieci testimoni che lì avevano deposto. Il testimone che non corrobora la tesi dell’accusa è incriminato. Ma il Tribunale di Trapani ci teneva a far sapere a noi italiani la verità su quel delitto? Perché Mauro Rostagno il quale era di Torino si trovava a Trapani? Chi ce lo aveva mandato? E per fare che cosa? Mauro Rostagno aveva a che fare o no con l’omicidio del commissario Luigi Calabresi? Era stato incriminato per questo motivo oppure no? Voleva per caso uscirsene dal caso Calabresi ricattando lo Stato e denunciando i traffici d’armi internazionali che avvenivano tramite l’aeroporto in disuso di Trapani, di cui lui era uno dei custodi? Perché il suo socio coofondatore della comunità per il recupero dei tossicodipendenti Saman Francesco Cardella è vissuto per lungo tempo a Managua in Nicaragua, protetto dai nostri Servizi Segreti? Chi gli ha fatto avere l’incarico di ambasciatore di alcuni paesi arabi in Nicaragua? Come faceva Cardella a possedere addirittura un aereo personale gestendo semplicemente e a distanza una serie di comunità per tossicodipendenti? Perché all’inizio degli anni ’90, si erano allungati su Cardella i sospetti che potesse c’entrare con l’omicidio di Mauro Rostagno? Come mai Fausto Cardella è stato testimone di nozze di quel Claudio Martelli, suocero del n. 2 del Sisde Michele Finocchi gran gestore di traffici d’armi colossali che costarono la vita a Giovanni Falcone, giacchè siamo in tema e in date di anniversari di stragi di stato (23 maggio)? Ed allora domandiamo: Rispondono a questi interrogativi i magistrati siciliani che hanno giudicato il caso Rostagno? Ma assolutamente no! Loro concentrano la attenzione solo sugli esecutori materiali del delitto: Cosa Nostra, quasi in una sorta di ritorsione per aver rivelato Cosa Nostra i depistaggi sulle stragi dei vari Tinebra la Barbera Bo Ricciardi e quindi Vincenzo Parisi, il lacchè di Scalfaro e di Mancino, Michele Finocchi, il suocero di Claudio Martelli e di chi c’era dietro di loro. E spediscono dieci testimoni (dicasi dieci) sotto processo per falsa testimonianza! Come a Potenza! Tale e quale! E allora questa falsa testimonianza di massa è la nuova frontiera del komeynismo giudiziario? Ed è un caso che essa coinvolga a Potenza non già Ciccio Lapizza ma Il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino, Magistrato ripudiato dal regime per aver prestato la sua testimonianza all’appestato Matteo Di Giorgio? Ormai non v’è più un Magistrato nell’Italia Meridionale che non cerca di distinguersi per usare le sentenze come le scimitarre, per incriminare decine di testimoni, per mandare il messaggio alla gente che sono tutti delinquenti tutti mafiosi, tutti falsi testimoni quelli che la pensano diversamente da Matteo Renzi, tranne loro i magistrati i soli a essere buoni bravi e belli in questo paese di corrotti e di uomini del malaffare. Ma le cose stanno proprio così? Le presunte false testimonianze di Argentino o i bar aperti senza licenza di Di Giorgio sono i veri casi scandalosi di una Magistratura tarantina per il resto illibata e integerrima? Un Magistrato che è stato per lungo tempo presidente di collegio nel Tribunale di Taranto mi raccontava questo episodio capitatogli una decina di anni fa. Un giorno si presenta a lui il caso di un pluripregiudicato tarantino trasferitosi nel casertano, gravato da quattro pagine di precedenti penali (comprensive di quasi tutti i reati), il quale aveva ricettato assegni per l’importo di 700 milioni delle vecchie lire provenienti da varie rapine e furti a Roma come nel casertano e colto con le mani nel sacco (cioè con i soldi in tasca) al valico di Ventimiglia. Ebbene si presentano a questo presidente del collegio l’avvocato difensore del ricettatore e il sostituto procuratore d d’udienza. Entrambi chiedono per questo pluripregiudicato il minimo della pena con tutti i benefici compresa la sospensione della pena e la diminuzione della pena stessa per il patteggiamento. Il presidente del collegio allora li prende tutti e due (avvocato e sostituto procuratore) e li sbatte fuori dalla sua stanza a mali parole. Qualche giorno dopo il presidente del collegio incontra il sostituto procuratore e questi gli fa: “Adesso sono cazzi tuoi! Ti sei messo contro il Procuratore! Il Procuratore ci teneva a quella persona!” Il Procuratore in questione si chiamava Giovanni Massagli (Sinistra politica democristiana grande amico di Nicola Mancino) deceduto qualche mese fa. Personaggio controverso questo Massagli, secondo alcuni un sant’uomo, secondo altri un demone, autore di un libro sui simboli della Massoneria (che c’entrava lui con la Massoneria?), noto persecutore di nemici politici, depistatore nel 1991 di una strage importante, la strage della barberia (1° ottobre 1991) nel corso della quale fu ucciso (non casualmente come fu detto) tal Giuseppe Ierone, un parente di alcuni agenti segreti belgi coinvolti nel grande traffico d’armi internazionale e nell’omicidio di un ex ministro belga. Il pluripregiudicato cui il Procuratore ci teneva si chiamava invece A. F., esponente del del clan casertano dei Piccolo-Quaqquaroni, ex assessore dc a Taranto, arrestato per associazione mafiosa e accusato di reati gravissimi. A. F. avrebbe non solo truccato appalti, ma sarebbe stato anche il mandante dell’ attentato dinamitardo del ‘ 92 contro la televisione locale «AT6». Secondo il rapporto redatto alla fine degli anni 80 dall’alto comissario anti-mafia Domenico Sica, A. F., terzo degli eletti nella lista D.C. del Consiglio Comunale di Taranto, era diventato componente della Commissione elettorale del comune di Taranto e punto di riferimento per un gruppo, all’interno della Sinistra Politica democristiana, i cui esponenti ricoprivano incarichi di rilievo. Dalla relazione Antimafia del 1991 risultava che uno di questi tal Alessio Magistro, era stato denunciato dalla locale sezione del Coreco all’autorità giudiziaria, in quanto avrebbe falsamente attestato di non avere mai avuto precedenti penali, al fine di conseguire la nomina a Presidente della azienda dei rifiuti di Taranto”. Il 3 aprile 1994 A. F. veniva fermato dalla Guardia di Finanza al valico autostradale di Ventimiglia e accusato di esportazione di valuta: in realtà era riciclaggio ma quel reato allora ancora non esisteva. F. aveva con se ben 700 milioni di vecchie lire tra contanti ed assegni. Alcuni di quei titoli erano assegni circolari della Banca Nazionale del Lavoro per un ammontare di 135 milioni di lire, che erano stati indebitamente sottratti all’INPS di Roma, altri erano assegni circolari dell’Istituto Centrale delle Banche Popolari Italiane, rapinati il 4 novembre 1987 a un furgone portavalori sull’autostrada Caserta – Salerno, per un valore di 305 milioni. Camorra pura quindi! E servizi segreti deviati! Infatti arrestato A. F. veniva stranamente subito rilasciato. Il fatto più eclatante che lo riguardava si verificava però nel 1998. Il 2 settembre di quell’anno vengono assassinati a Brescia due uomini a lui molto vicini originari di Taranto, che però F. aveva trasferito nel casertano, il già nominato Alessio Magistro e l’avvocato Stefano Punzi. Per volontà di A. F., Alessio Magistro era stato alcuni anni prima presidente dell’Azienda municipalizzata dei rifiuti di Taranto e Stefano Punzi era un avvocato che aveva chiuso il suo studio legale a Taranto per aprirne un altro a Caserta senza accorsamento! A. F. li aveva infiltrati in una cosca camorristica casertana quella dei Belforte-Mazzacane in lotta in quel tempo per il predominio sul territorio con il clan rivale dei Piccolo-Quaqquaroni. Però poi sia Magistro che Punzi furono assassinati. Secondo la ricostruzione dell’accusa che fu fatta a processo, Magistro e Punzi avevano ricevuto il compito di preparare il terreno per assassinare Domenico Belforte, uno dei capi di questo clan Belforte-Mazzacane, il quale in quel momento si trovava al soggiorno obbligato nel Bresciano. Belforte avrebbe però giocato d’anticipo eliminando l’ex direttore dell’AMIU di Taranto e l’avvocato Punzi, uomini del F.. Alessio Magistro venne ucciso a colpi d’arma da fuoco nel piazzale dell’ ipermercato Rondinelle di Roncadelle (Brescia) mentre Stefano Punzi venne trovato carbonizzato all’interno della sua auto a Brandico, nella Bassa Bresciana. Resta da capire per quale motivo il Sisde o questa particolare fazione del Sisde nel 1998 aveva così clamorosamente preso le parti del clan dei Piccolo Quaqquaroni contro quelle dei Belmonte Mazzacane. C’è anche da dire che una volta tre esponenti del clan dei Piccolo-Quaqquaroni erano stati arrestati e nel corso dell’operazione la polizia aveva rinvenuto, in un capannone nella loro disponibilità, un mitragliatore Uzi in uso all’esercito israeliano. Questo spiega molto per non dire che spiega tutto. Anche l’amicizia del F. con il Procuratore di Taranto Giovanni Massagli, il quale si curava che sul piano giudiziario non gli accadesse mai niente. Infatti non gli succede mai niente. Anzi dai processi risultava che F. veniva sistematicamente avvertito delle indagini che c’erano su di lui da un altro agente del Sisde tal Nicola Curia. E recentemente la manina misteriosa di un Magistrato aveva infiltrato in un processo a suo carico in Corte di Appello un falso conteggio della prescrizione per fargli prescrivere i reati. Ancora all’anno 2000 A. F. nonostante l’attentato dinamitardo ad Antenna Taranto 6, (1992) il riciclaggio dei 700 milioni (1994), il mancato omicidio di Domenico Belforte (1998), A. F. non è stato mai ancora giudicato da nessun Tribunale (chissà perchè ……….mha…………..lentezze della giustizia ………………….). Mi chiedo: ha senso in questo contesto andare dietro i bar aperti senza licenza da Di Giorgio o le presunte false testimonianze di Argentino? Adesso sono cazzi tuoi! Ti sei messo contro il Procuratore! Il Procuratore ci teneva molto a quella persona!. Mi chiedo: dove siamo? a Cristo che si è fermato a Eboli? Oppure a Komeini che sta salendo dalla Sicilia?

Taranto: la città in cui una parte della Magistratura si è ribellata totalmente al Potere Politico, scrive Michele Imperio su “La Notte On Line”. Procede nel caos più assoluto l’opera risanatrice – se così si può chiamare – dell’Ilva di Taranto. I fatti più recenti sono che il g.i.p. del Tribunale di Taranto che si occupa di questa vicenda Patrizia Todisco ha respinto un’istanza del commissario governativo Sandro Bondi intesa a ottenere il reimpiego nell’opera di risanamento di 230 milioni di euro sequestrati alla famiglia Riva, come disposto da una delle leggi chiamate salva-Ilva, minacciando un nuovo sequestro senza facoltà d’uso da parte del Procuratore della Repubblica Franco Sebastio perchè i lavori di risanamento si stanno svolgendo con ritardo. Ormai tutti a Taranto hanno compreso che, al di là della vicenda giuridica e dell’opera risanatrice, due schieramenti sono a confronto in singolar tenzone fra loro. L’uno che vuole ribaltare la titolarità dello stabilimento e passarlo dai Riva ad un altro gruppo industriale, segnatamente i Gavio, dei quali – secondo taluni – sarebbe socio occulto il potente ex Ministro dei Trasporti tarantino Claudio Signorile, l’altro invece che vorrebbe risanare l’Ilva nel segno della continuità della famiglia Riva. Il primo schieramento si fa forte di alcuni segmenti mediatici e politici. Scrive l’Huffigston post un blog molto vicino al settimanale “L’Espresso” e quindi all’ex Sinistra democristiana di Carlo De Benedetti e di Matteo Renzi: “La storia dell’Ilva è nota, ed è noto che dopo anni di colpevole distrazione la magistratura è intervenuta per riportare legalità nel polo siderurgico tarantino, uno dei più grandi e dei peggio gestiti, rispetto all’impatto su ambiente e salute, del mondo. Diranno le sentenze, se e quando arriveranno, in che dimensione e fino a quale profondità la politica nazionale e locale si sia fatta autrice o complice di reati; in particolare complice dei reati contestati alla famiglia Riva, che acquistò per poche lire la fabbrica dall’Iri negli anni ’90 e per quindici anni ha accumulato miliardi di profitti (Falso: Riva ha gestito l’Ilva per quindici anni l’ha pagata un miliardo e mezzo di vecchie lire nel 1995 il massimo che potesse pagare un imprenditore privato dell’acciaio italiano in quanto la produzione di acciaio era stata fino ad allora quasi tutta in mano pubblica e negli anni buoni i profitti sono ammontati fino a un massimo di 800 milioni di euro ma poi ci sono stati anche gli anni di crisi n.d.r.) senza impiegarne lo “zero virgola” per ridurre, come prescrive la legge e come si è fatto nella siderurgia di mezzo mondo dalla Germania alla Corea (con il concorso finanziario al 50% dello Stato, che in Italia invece non vuole contribuire n.d.r.), la potenza di avvelenamento dei forni e dei depositi (tuttora a cielo aperto) di ferro e carbone (Falso anche questo: Riva ha investito in ambientalizzazione e precisamente in elettrofiltri, sistema dell’urea, altoforno 4 rifatto ex novo e altre opere oltre 4 miliardi di euro n.d.r). Ma in attesa dei processi e delle sentenze – continua l’Huffigton post – alcune verità già sono assodate. Una è che dei veleni dell’Ilva e delle omissioni dei Riva si sa da tempo. Le prime denunce sull’altissimo impatto inquinante della fabbrica di acciaio tarantina risalgono a più di vent’anni fa, merito di associazioni ecologiste e di gruppi auto-organizzati di abitanti di Taranto che a lungo sono stati gli unici a urlare che mettere lavoro contro ambiente e salute era una scelta senza dignità e senza futuro. Gli altri, quasi tutti gli altri, hanno lasciato che il problema marcisse: l’azienda naturalmente, il sindacato, la politica. Di questa fitta rete di silenzi, compiacenze e aperte complicità ha fatto parte integrante la sinistra, che governa la Regione da 8 anni e Taranto da 6. La sinistra che con troppi suoi esponenti sia locali che nazionali ha intrattenuto robuste relazioni “informali” con i Riva: valgano per tutti gli esempi di Pierluigi Bersani (ieri osannato in quanto supporter di Prodi presidente della Repubblica oggi invece criminalizzato in quanto ostile a Matteo Renzi n.d.r.), che da responsabile economico dei Ds accolse dai proprietari dell’Ilva nel 2006 un finanziamento elettorale di 100 mila euro – formalmente lecito ma quanto meno “inopportuno” -, o di Ludovico Vico, già deputato Pd e oggi commissario del Partito democratico a Lecce, che nel 2010 al telefono con Girolamo Archinà (“spicciafaccende” dei Riva) prometteva di far “buttare sangue” a uno dei due scriventi, colpevole di battersi in Parlamento contro un’ennesima norma “ad aziendam” inventata per legalizzare l’illegalità dell’Ilva.” Il segmento politico che appoggia i Gavio è quello che ruota attorno al ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni dell’allegra brigata Saccomanni, Draghi, gitanti del Britannia e vari e della rediviva corrente del P.D. che fa capo all’on.le Claudio Signorile. L’imprenditore Beniamino Gavio aveva dato notizia tramite il quotidiano “Repubblica” di essere a capo di una cordata di imprenditori interessata a rilevare l’Ilva e a risanarla. Tra questi aveva incluso anche l’imprenditore Vittorio Malacalza imprenditore notoriamente molto liquido. Ma intervistato da “Il Messaggero” Vittorio Malacalza lo ha smentito: “La cordata di imprenditori per l’Ilva proposta da Beniamino Gavio – ha detto – “non e’ una boutade”, ma “e’ un”operazione difficile” e la famiglia Malacalza al momento non intende farsi coinvolgere. Ho letto le dichiarazioni di Gavio e, dopo quell’ipotesi qualcuno mi ha anche chiamato dal ministero dell’Economia per sapere se veramente eravamo interessati. Dunque il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni spinge in questa direzione. Gavio quindi ha bleffato dichiarando disponibilità che in effetti non ci sono e quindi – allo stato – l’ipotesi più plausibile per un risanamento italiano (a meno che non si voglia dare anche l’Ilva a soggetti stranieri) rimane ancora quella dei Riva, i quali sono già titolari dello stabilimento e quindi non devono alcunchè per rilevarlo e inoltre sono gli imprenditori dell’acciaio in Italia dotati ancora di maggiori disponibilità finanziarie. Ma Emilio Riva il capostipite fiaccato dai processi e ormai ottantaseienne sta morendo e i figli vorrebbero – giustamente – una garanzia politica che lo stabilimento dopo il risanamento rimanga il loro e non passi invece, risanato e per un piatto di lenticchie a qualche altro imprenditore sostenuto da parti politiche a loro avverse. A livello mediatico i Riva non hanno alcuno sponsor mentre a livello politico essi sono – forse – sostenuti dall’attuale ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, il quale recentemente ha autorizzato con decreto ministeriale senza prescrizioni alcune discariche interne all’Ilva per le quali la Procura della Repubblica di Taranto, ritenendole illegittime, aveva disposto addirittura l’arresto del presidente  della Provincia Gianni Florido ultimo dei moikani P.D. pro-Riva e tuttora detenuto neanche per averle autorizzate ma solo per aver tentato, senza riuscirci, di farle autorizzare con prescrizioni. Ma i Riva sono mal visti dal gruppo pelilliano-signoriliano che attualmente spadroneggia nel P.D. tarantino. All’ultimo congresso provinciale del P.D. i floridiani (ossia i seguaci del presidente della Provincia Gianni Florido attualmente detenuto per la questione delle discariche e di tendenza lavorista) sono praticamente scomparsi e tutta la segreteria comunale e provinciale si compone ora di pelilliani-signoriliani (pelilliani da Michele Pelillo deputato unico rappresentate del P.D. tarantino in Parlamento e vicino alle posizioni dell’on.le Claudio Signorile) i quali ora si atteggiano a spassionati ambientalisti. C’è stato alcuni mesi fa un referendum cittadino in questo senso cha ha visto la partecipazione di solo il 15% della cittadinanza, a riprova del favore della cittadinanza per il risanamento e non per la dismissione dell’impianto. Ebbene il nuovo segretario del P.D. Walter Musillo appena eletto, ha significativamente dichiarato: “Al referendum  per la dismissione o la continuità dell’Ilva ho votato per la totale dismissione dell’Ilva”. Quasi a voler far intendere quale sarà la sua linea politica: spingere per la dismissione totale dell’impianto per assimilare il P.d. alla Todisco, agli ambientalisti e ai grillini e al tempo stesso per favorire lo spossessamento della titolarità dello stabilimento in capo ai Riva se dovesse prendere piede il piano Gavio-Signorile.

Continua Michele Imperio su “La Notte On Line”. Il partito socialista dal nostro punto di vista era un bel partito. Ha garantito liberà e benessere agli italiani per quasi cinquanta anni (1945-1992). Ha supportato molti imprenditori di successo che hanno dato benessere e occupazione a migliaia di famiglie italiane. Però il Partito Socialista aveva al suo interno una pecora zoppa. Questa pecora zoppa era l’on.le Claudio Signorile. Anche lui come altri esponenti socialisti ha puntato su alcuni imprenditori Lucio Manisco Simi, Aldo Belleli (Belleli) ma poi li ha scaricati. I maligni dicono perchè non ha ricevuto quanto richiesto. Però non si possono comprendere – secondo noi – le odierne vicende giudiziarie dell’Ilva di Taranto se prima non si conoscono sia pure per pochi cenni le vicende personali di questo ex parlamentare. Dopo le stragi palermitane del 1992 che servirono – come disse Riina – a sbalzare di sella Craxi e Andreotti e dopo le inchieste parallele alle stragi cosiddette di Tangentopoli, nessun socialista è rimasto politicamente in vita tranne lui Claudio Signorile. Nessuna inchiesta lo ha mai sfiorato né mai la stampa ha pronunciato il suo nome. Una volta è stato processato e condannato a tre anni di reclusione per la bancarotta fraudolenta di Edilevante la società che gestiva il giornale di sua proprietà il Quotidiano di Lecce Brindisi e Taranto. Ebbene mai alcun giornale locale ha dedicato un rigo a questa vicenda. Mai! Chi lo ha saputo, se lo ha saputo, è per il tramite del passaparola. Sicuramente ha entratura anche in magistratura perchè le inchieste sul finanziamento illegale del partito socialista non lo hanno mai nemmeno sfiorato. Nel tempo Signorile ha fatto una metamorfosi, si è trasformato da uomo politico in business men, cioè il soggetto che mette la sua fitta rete di relazioni nella stampa, nella politica, probabilmente anche nella magistratura a disposizione di imprenditori che vogliono emergere e che sorretti da lui, effettivamente emergono. Che stia ora dietro i Gavio non è un mistero per nessuno e – guarda caso – Bemiamino Gavio da Alessandria è già – in pratica – il principale imprenditore che opera nel porto di Taranto. Ora è anche interessato a rilevare l’Ilva. Lo dice lui stesso al quotidiano “Repubblica”: «Sono pronto a dar vita a una cordata con banche e imprenditori per rilevare l’Ilva». L’annuncio di una nuova avventura imprenditoriale in uno dei pochi business che ancora mancano al gruppo, l’acciaio, oppure una sorta di chiamata alle armi della migliore imprenditoria italiana per evitare che il colosso malato faccia la fine di Parmalat e, una volta risanato, finisca in mani straniere? La battaglia perduta con il gruppo Salini per il controllo di Impregilo si è conclusa con una buonuscita di poco inferiore ai cinquecento milioni. E ora questa liquidità potrebbe essere investita in nuove operazioni. Magari in alleanza con l’altra famiglia più liquida d’Italia, i Malacalza, che dall’addio alla produzione siderurgica hanno incassato più di un miliardo di euro. Il patron Vittorio, che di Marcellino Gavio, padre di Beniamino era grande amico, per il momento resta alla finestra. Lui non è uomo da cordata, anche se ritiene la sfida “stimolante e difficile”, ma la mossa di Gavio ha bisogno dei suoi tempi e potrebbe presto riservare nuove sorprese. Si tratta solo di attendere, anche perché nella massima riservatezza il governo sarebbe già sceso in campo per verificare le reali disponibilità delle banche e degli imprenditori “sollecitati” da Beniamino Gavio con le sue dichiarazioni. Signorile ha sempre considerato Taranto una cosa sua e ha sempre concorso indirettamente per l’elezione del sindaco. Nel 1993 totalmente integrato nel PDS dopo la fine rovinosa del partito socialista Signorile in pieno scandalo delle lenzuola d’oro, uno scandalo che sembrava doverlo lambire ma che poi – dopo la morte misteriosa di Ludovico Ligato - non lo ha più interessato, impose alla Sinistra tarantina il suo candidato sindaco che era nientedimeno che l’allora Procuratore Aggiunto della Repubblica Gaetano Minervini, quindi un Magistrato. Minervini perse le elezioni non fu eletto sindaco. La colpa fu attribuita alla sponsorizzazione di Signorile il quale, per questo motivo venne temporaneamente scaricato dal PDS. Un altro sarebbe a quel punto politicamente morto ma Signorile no, lui può fare tutto quello che vuole, stare a destra come stare a sinistra. Fa un accordo con Silvio Berlusconi per le successive elezioni regionali. La sua nuova proiezione politica, la dott.sa Rossana Di Bello (Forza Italia), eletta alla Regione Puglia nel listino bloccato senza voti, diventa immediatamente assessore regionale al turismo nella Giunta Distaso (centro-destra) e poi per due volte  sindaco di Taranto per un centro-destra di marca finiana-democristiana che esclude la destra civica locale. Sia nella prima che nella seconda occasione Claudio Signorile si mobilita a suo sostegno. Ma un anno dopo la sua seconda elezione Signorile ripassa nel P.D., la dott.sa Di Bello non lo segue e litiga con l’ex parlamentare. Ebbene sul capo della dott.sa Di Bello si riversano quasi contemporaneamente un dissesto dei conti del Comune e trentasei processi per abuso innominato in atti d’ufficio più la minaccia di un mandato di cattura se non si dimette immediatamente da sindaco. Lei si dimette – ovviamente – ma dopo nella fase dibattimentale in nessuno di questi trentasei processi la Giudicante trova il vantaggio patrimoniale essenziale e la sussistenza del reato. Dunque per trentacinque volte la Di Bello viene  assolta. Manca ancora all’appello il trentaseiesimo processo da cui pure la dott.sa Rosanna Di Bello sarà assolta ma che viene di volta in volta rinviato per non sbloccare il sequestro dei beni del coimputato l’ex vicesindaco di Taranto on.le Michele Tucci, con grave disdoro della Procura della Repubblica. Il giudice che ha istruito questi trentasei processi è la stessa persona che il Procuratore capo della Repubblica Franco Sebastio ha selezionato all’atto del al suo insediamento (2009) – su diciannove magistrati in organico alla Procura della Repubblica di Taranto – per condurre l’inchiesta “Ambiente Svenduto” quella che riguarda le presunte corruzioni poste in essere dall’Ilva per andare avanti in condizioni di illegalità sotto il profilo del’impatto ambientale. Questo Magistrato che conduce questa inchiesta ha sicuramente qualche contatto con il signoriliano onorevole Michele Pelillo se è vero come è vero che a inizio 2012 quando c’è la campagna elettorale per l’elezione del sindaco (vinta  dal vendoliano Ippazio Stefano proprio grazie al veto opposto dalla direzione regionale del P.D. alla candidatura del signoriliano Michele Pelillo) Pelillo in televisione dichiara furioso: IO SO CHI NON VUOLE CHE IO DIVENTI SINDACO A TARANTO!  CHI NON LO VUOLE E’ LA GRANDE INDUSTRIA, MA VEDRETE!!!!!!!! VEDRETE CHE FINE FARA’ LA GRANDE INDUSTRIA!!!!!!!!!! VEDRETE!!!!!!!!!!!! E infatti pochi mesi dopo a luglio 2012 dopo che Ippazio Stefano ha vinto le elezioni comunali (si dice per l’appoggio di Emilio Riva patron dell’Ilva) parte con gran clamore l’inchiesta sull’Ilva con il sequestro senza facoltà d’uso dell’impianto (per fortuna non andato in porto grazie all’intervento del governo che così ha evitato che quarantamila lavoratori fra occupazione diretta e indotta fra Taranto e Genova andassero a spasso) l’arresto di Emilio e Nicola Riva i titolari dello stabilimento poi esteso anche al figlio di Emilio Fabio Riva tuttora latitante a Londra, l’arresto dell’addetto alle pubbliche relazioni dell’Ilva Girolamo Archinà, dell’assessore provinciale Michele Conserva, del presidente della Provincia Gianni Florido, l’incriminazione a piede libero del governatore della Puglia Niky Vendola dell’assessore all’ambiente Lorenzo Nicastro,, dell’onorevole Nicola Fratoianni, del sindaco di Taranto Ippazio Stefano, il maxisequestro di otto miliardi di euro in danno della famiglia Riva. Insomma una strage. L’inchiesta è sicuramente una risposta al dramma ambientale tarantino, laddove l’inquinamento prodotto dall’Ilva (ma non solo dall’Ilva) è tale che ci sono bambini che si ammalano di cancro a sette anni e che consapevoli del loro destino scrivono al padre: Papà distruggi quel mostro (riferito all’Ilva)! Ma dietro il dramma c’è anche la strumentalizzazione. Se ne accorge per primo il vescovo di Taranto Mons. Benigno Papa il quale già nel 2009 pubblicamente denuncia: “quello che non dovrebbe accadere è cavalcare la giusta tematica della salvaguardia dell’ambiente per motivazioni strumentali cioè non tanto perchè stia veramente a cuore questo problema  ma perché dalla protesta si possa ricavare un qualche utile personale o di gruppo. Qualora dovesse accadere questo, dovrei pensare che ci sia un inquinamento spirituale che è peggiore dell’inquinamento ambientale!” Perchè parlava così? Era per caso informato Benigno Papa di quanto alcuni Magistrati e alcuni politici stavano per fare? Voleva mandare un messaggio a quei Magistrati? Non lo sappiamo. Sappiamo per certo però che quelle parole sono state pagate a caro prezzo perché nel Norimberga bis (così viene chiamato a Taranto il processo Ambiente svenduto con 56 imputati eccellenti) c’è anche il suo segretario particolare Marco Gerardo che a momenti veniva arrestato dai magistrati della Procura per aver accettato da Emilio Riva un contributo di poche migliaia di euro per una processione. Alcuni addirittura insinuano che anche quella sarebbe stata una tangente. Pazzesco! L’inchiesta “Norimberga bis” o “Ambiente Svenduto” come lo si vuol chiamare, viene condotta con un sospetta severità : il presidente della Provincia Gianni Florido ha una discussione con un suo funzionario Luigi Romandini? Tentata concussione! Arrestato! Il presidente della Regione Niky Vendola ha una discussione con un suo funzionario Giorgio Assennato? Concussione! Incriminato! E hai voglia a chiarire da parte di Assennato per otto ore che non c’è stata nessuna concussione. Solo differenti punti di vista tra lui e il governatore Niky Vendola laddove alla fine Giorgio Assennato ha riconosciuto che il presidente Vendola aveva ragione e lui torto! Niente da fare! Incriminato anche lui! Per falsa testimonianza! Il sindaco di Taranto Ippazio Stefano non ha avuto discussioni con nessuno (per fortuna sua) ma viene incriminato lo stesso! Anche lui! Omissioni di atti d’ufficio! Non ha emesso ordinanze contingibili e urgenti! Il sindaco confida agli amici: “Non capisco cosa stia succedendo! Mi sento boicottato da tutti! In particolare da quelli del P.D.”. In effetti i Magistrati cercano di creare un clima di “caccia alle streghe” di “dagli all’untore” intorno all’inchiesta “Ambiente Svenduto”. Chiunque non si è allineato sin da principio alla linea di ambientalismo estremo sostenuta da verdi e grillini e anche dalla Procura viene criminalizzato. Ma ciò non per ragioni di giustizia bensì per chiari scopi politici. Il primo è chiaramente quello di assimilare i giudici e il P.D. al movimento ambientalista estremo di Beppe Grillo: e quindi lo scopo è quello di fare di Taranto il primo laboratorio politico in Italia per la formazione di una maggioranza alternativa a quella delle larghe intese (Grillo-Verdi-P.D). Il secondo – come abbiamo già detto – è quello di favorire il passaggio di proprietà dell’Ilva di Taranto a un altro gruppo industriale che potrebbe diventare sponsor di quell’altra maggioranza alternativa alle larghe intese. Lo denuncia questa volta non viene dall’arcivescovo ma dal quotidiano “Il Sole 24 ore” L’intento dei giudici di Taranto – scrive espressamente il giornale  della Confindustria – sembra essere quello di spossessare i Riva della titolarità della fabbrica.

L’Ilva di Taranto è strettamente connessa all’Ilva di Genova nel senso che a Taranto si produce l’acciaio a caldo che serve anche alle produzioni a freddo di Genova, continua Michele Imperio su “La Notte On Line”. Se si ferma l’Ilva di Taranto si ferma anche l’Ilva di Genova. Né si possono differenziare le due proprietà nel senso di attribuire a una famiglia la proprietà dello stabilimento di Taranto e ad altra famiglia la proprietà dello stabilimento di Genova. Questa è la principale ragione per cui è in atto un incredibile scontro fra Magistratura e Potere Politico. Da una parte infatti quella fetta di Magistratura tarantina di fede o di impronta signoriliana (diciamo così ) fa il tifo per la soluzione Gavio-Signorile. Dall’altra parte il Potere Politico ligure ma anche quello nazionale semplicemente aborriscono all’idea che le maestranze liguri possano finire sotto le grinfie di un Signorile e si comportano di conseguenza. Secondo il Procuratore generale della Corte di Appello di Lecce Giuseppe Vignola, Magistrato integerrimo e universalmente stimato, la mossa di minacciare la chiusura totale e definitiva dell’Ilva adottata dal dott. Franco Sebastio Procuratore Capo della Repubblica di Taranto il 12 luglio 2012 era una mossa tendente in realtà a sollecitare il Governo a revisionare l’Aia concessa all’Ilva. Infatti un un’intervista a “Repubblica” del 18 agosto u.s. il dott. Giuseppe Vignola ha così dichiarato: “Questa (la revisione dell’Aia) è proprio una bella notizia. Leggo che i ministri hanno sostanzialmente recepito tutte le nostre indicazioni, facendole proprie e inserendole come diktat nell’Aia, l’autorizzazione governativa che permette all’Ilva di lavorare. Se non le rispettano, devono chiudere. È lo stesso concetto che sostenevamo noi. Significa quindi che quello che era stato fatto andava nella direzione giusta, e soprattutto che non eravamo impazziti. Ordinare la chiusura di una produzione industriale è stato un provvedimento assai sofferto, ma secondo noi era l’unica strada percorribile. Il punto principale è che l’Ilva rispetti le prescrizioni. Se lo può fare, continuando a produrre per noi non ci sono problemi. La risposta in questo senso la potranno dare i tecnici che sono stati nominati custodi, ma credo che sia assolutamente possibile. Fermo restando la legge, deve prevalere il buon senso………… Il sequestro era inevitabile. Siamo di fronte a un lavoro davvero ineccepibile che non ci lasciava altre strade, visto anche l’atteggiamento tenuto fino a quel momento dell’Ilva. L’azienda, lo dissi subito dopo il sequestro, di giorno rispettava le prescrizioni imposte e di notte le violava come confermano i rilievi fotografici che abbiamo eseguito per più di un mese nel corso dell’inchiesta. Non era un atteggiamento collaborativo e la maggior parte delle volte nascondeva i problemi con interventi di facciata. Sono davvero contento dell’intervento del governo. Mai come in questo momento sono contento della sintonia tra pezzi dello Stato proprio nel momento in cui sembrava riprodursi un braccio di ferro tra politica e magistratura. Mi dà tranquillità, non volevamo sentirci soli in una battaglia così importante. Una battaglia che stiamo vincendo”. Quindi un conflitto Magistratura -potere Politico, secondo Vignola, solo apparente e momentaneo e rivolto a fin di bene. Però i Magistrati tarantini, che fino a un certo punto si sono coordinati con lui, non sono sembrati poi del suo stesso parere. Infatti subito dopo l’emissione dell’AIA la Procura di Taranto ha abbandonato questo coordinamento (diciamo così) con la Procura Generale di Lecce e ha imbastito invece una strana alleanza con la Procura della Repubblica di Milano. Infatti Procura di Taranto e Procura di Milano in sinergia fra loro dopo la revisione dell’Aia e al fine di far fallire ogni possibile accordo fra Stato e impresa, hanno caricato l’Ilva di due sequestri non a caso notificati a Riva lo stesso giorno. uno del valore di otto miliardi e mezzo di euro proveniente dalla Procura della Repubblica di Taranto , l’altro del valore di un miliardo e mezzo di euro proveniente dalla Procura della Repubblica di Milano per frode fiscale, provvedimenti che – peraltro – hanno inibito Riva dal presentare e dal finanziare il piano industriale per il risanamento, che doveva essere presentato il giorno dopo. Come si spiega allora questa mossa, particolarmente aggressiva, con le parole rassicuranti del Procuratore Generale della Corte di Appello di Lecce? Il tempestivo intervento della Procura della Repubblica di Milano in questa vicenda fa pensare invece all’ennesimo tentativo di questo Ufficio Giudiziario di voler condizionare al massimo livello possibile tutte le vicende politiche di questo paese nel terrore che possa salire al Potere un giorno una coalizione di governo che faccia finalmente luce sia sulle odiose responsabilità di questa Procura nelle stragi di Palermo del 1992 (ne era sicuramente coinvolto il suo giudice Francesco Di Maggio e i suoi due agenti segreti a lui più vicini gli ordinovisti neofascisti Rosario Cataffi e Giuseppe Gullotti) sia sulle sue altrettanto odiose responsabilità nella cosiddetta trattativa Stato-Magistratura-Mafia, che cominciò proprio a Milano nel 1994 quando alcuni Magistrati della Procura della Repubblica di Milano (e segnatamente – secondo la denuncia di Pierluigi Vigna Armando Spataro, Francesco Di Maggio e Alberto Nobili, marito di Ilda Boccassini) decisero di coprire i miliardari traffici illeciti dell’Autoparco Milanese di Cosa Nostra in cambio di indicibili contropartite politiche. Quali odiose manovre politiche si nascondono dunque dietro lo smarcamento dalla Procura Generale di Lecce sotto questa nuova sinergia fra Procura della Repubblica di Taranto e Procura della Repubblica di Milano? Otto miliardi di euro di cui si vorrebbe il sequestro in danno dei Riva sarebbe il costo delle opere di risanamento ambientale che Riva in questi anni non avrebbe fatto per ambientalizzare lo stabilimento. Si tratta chiaramente di una cifra esagerata, cui si è giunti sulla base della stima di uan semplice impiegata dell’Arpa Puglia Barbara Valenzano. Peraltro Riva ha acquistato l’impianto sedici anni fa (1996) e il massimo dell’utile netto di esercizio è stato di 800 milioni di euro. Poi ci sono stati anche gli anni in cui l’utile è stato sensibilmente inferiore. Riva – peraltro – ha già investito in ambientalizzazioni quattro miliardi e mezzo di euro. Dunque quelle somme non le ha mai guadagnate. Come si può pretendere da un imprenditore che debba spendere più di quanto incassa? Ad imposibilia nemo tenetur – dicevano i latini. I tecnici del Ministero dell’Ambiente che hanno revisionato l’AIA hanno invece quantificato il valore delle opere di ambientalizzazione in un miliardo e ottocento milioni di euro. Naturalmente nessuno dice la verità. La verità è che l’Ilva di Taranto guadagna in modo esponenziale in funzione della produzione ed è congegnata nel senso che se produce sette milioni di tonnellata d’acciaio pareggia i costi, se produce otto milioni di tonnellate d’acciaio guadagna se produce nove milioni di tonnellate di acciaio guadagna bene se produce dai dieci milioni di tonnellate in su straguadagna. Fino al 2002 Riva è stato autorizzato a produrre fino a otto milioni di tonnellate di acciaio. Dopo il 2002 con la concentrazione su Taranto delle produzioni a caldo di Taranto e di Genova Riva è stato autorizzato a produrre fino a dodici milioni di acciaio a caldo con l’intesa però che il superguadagno sarebbe stato destinato anche al risanamento ambientale, risanamento che, fino a oggi, con le violazioni che denunciava Vignola, aveva fatto solo parzialmente. Gli aneliti affaristici e i giochi di potere di cui abbiamo parlato nelle puntate scorse, confermati da questa sinergia fra Procura di Taranto e Procura di Milano (i due Uffici fanno anche riunioni congiunte per meglio coordinarsi) hanno fatto sì che tutte le regole codicistiche che ripartiscono funzioni e ruoli dei vari uffici giudiziari in questo processo siano saltate. Soprattutto è mancata la figura del giudice terzo fra accusa e difesa ruolo totalmente obliterato dalla dott.sa Patrizia Todisco. Com’è noto il legislatore istituì la figura del g.i.p. come giudice terzo che doveva verificare se l’attività istruttoria dei P.M. fosse eccessivamente sbilanciata rispetto alle posizioni dell’accusa e nel caso attenuarla. Invece in questo processo il g.i.p. Patrizia Todisco si è spesso affiancata all’azione dei pubblici ministeri a volte scavalcandoli come quando ad esempio con un’ordinanza di 500 pagine ha sollecitato l’incriminazione del governatore della Puglia Niky Vendola (per molto meno la dott.ssa Clementina Forleo fu trasferita su due piedi da Milano a Cremona) oppure (caso ancora più clamoroso) quando ha sequestrato al liquidità delle aziende dei Riva a Brescia e a Verona contro la volontà dichiarata anche alle stampe del Procuratore capo della Repubblica di Taranto Franco Sebastio. Avendo capito che identificandosi ancora in Riva la titolarità dell’azienda ogni mossa della magistratura tarantina (e milanese) provocava il plauso fragoroso del popolo ambientalista e grillino schizzato a Taranto a percentuali vicine al 33% dei consensi, il Potere Politico ligure abilmente gestito dal valoroso esponente del P.D. Andrea Orlando attuale ministro dell’ambiente e quello nazionale a un certo punto hanno sostituito Riva con due figure neutre i commissari Sandro Bondi e Edo Ronchi ma l’aggressione giudiziaria contro l’Ilva al di là dei buoni intendimenti del Procuratore generale di Lecce Giuseppe Vignola è continuata lo stesso. Quattro mesi fa invocando l’ottemperanza di una legge salva-Ilva il commissario Bondi aveva chiesto lo sblocco di 230 milioni di euro sequestrati ai Riva per destinarli al risanamento dell’impianto. Per quattro mesi la dott.sa Patrizia Todisco non ha risposto. Dopo quattro mesi ha risposto: rigetto perchè il lavori si stanno svolgendo con ritardo. In realtà le opere sono state tutte appaltate ma sono ferme perchè i sindacati nazionali vorrebbero il coinvolgimento delle imprese locali. E mentre l’Ilva rischia di fermarsi di nuovo, l’impresa Marcegaglia (pannelli fotovoltaici) ha annunciato la cessazione delle attività della sua azienda a Taranto, con la conseguente chiusura e il licenziamento di 134 dipendenti, dal prossimo 31 dicembre 2013. Vestas (turbine eoliche) ha confermato la indisponibilità’ a riaprire l’attività’ di produzione delle turbine eoliche nel sito di Taranto e conseguentemente ha confermato l’esubero di 120 unità’ lavorative (solo parte dei quali saranno riassorbiti in un altro sito industriale della stessa azienda sul posto). A giorni anche Evergrin (trasporti marittimi) annuncerà il proprio disimpegno da Taranto per trasferirsi in un porto istriano, con il licenziamento di altre migliaia di lavoratori. Poi sarà la volta dell’Ilva stessa che annuncerà che a Taranto continuerà solo la produzione a freddo perché la produzione a caldo sarà trasferita almeno momentaneamente in Brasile (il che significherà il licenziamento di altri 5.000 dipendenti). Certo, ognuno ha le sue buone ragioni ufficiali, ma perchè tutti assieme? Quanto avrà inciso alla fine su questa devastazione occupazionale di Taranto il conflitto – che c’è, nessuno lo può negare – tra una parte della Magistratura tarantina e il Potere Politico Nazionale?

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

INTERCETTAZIONI. PIOGGIA DI FANGO SU BERLUSCONI.

Pioggia di fango. Agguato ad Emilio Fede: intercettazioni illegali (subito smentite) mentre attacca Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Nel momento in cui Silvio Berlusconi rialza la testa, quando gli schizzi del fango con cui lo hanno colpito negli anni del processo Ruby vengono lavati via dall'assoluzione in secondo grado, putacaso, ecco spuntare una vecchia intercettazione. Altro fango, insomma. Dalle fantasie del "pornoprocesso" si torna alle prime accuse rivolte al leader di Forza Italia, allora come oggi: quelle di vicinanza alla mafia tramite Vittorio Mangano. Succede che proprio oggi, con grande enfasi, si parla di un'intercettazione - abusiva ed illegale - nei confronti di Emilio Fede, registrato a tradimento dal suo personal trainer, Gaetano Ferri, nel 2012. Il dialogo, che ha tra i suoi protagonisti anche - e soprattutto - Marcello Dell'Utri fu poi consegnato da Ferri ai magistrati di Monza. Un'intercettazione abusiva e ad orologeria, insomma, una pioggia di calunnie puntualmente smentite dall'intercettato, Fede in persona, che infuriato afferma: "E' tutto falso. L'ho già detto ai magistrati e ho denunciato quel truffatore per calunnia e minacce gravi. Lui - ha aggiunto l'ex direttore del Tg4 - ha manipolato le mie dichiarazioni". Nell'audio smentito da Fede, per altro in molte parti incomprensibile, si sente il giornalista affermare: "Guarda a Berlusconi cosa gli sta mangiando. Perché lui è l'unico che sa... Ti rendi conto che ci sono 70 conti esteri, tutti che fanno riferimento a Dell'Utri?". La conversazione, ripulita dai rumori di sottofondo, fu poi spedita dalla procura di Monza ai magistrati di Palermo: ora l'intercettazione è stata depositata agli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia. Nell'audio si sente poi Fede affermare: "C'è stato un momento in cui c'era timore... Che loro hanno messo Mangano attraverso Marcello (Dell'Utri, ndr)". Quindi altre accuse, infamanti e subito smentite: "La vera storia della vicenda Berlusconi...mafia, mafia...soldi, mafia, soldi...Berlusconi". Frasi che, afferma il direttore, "sono state manipolate ad arte". E ancora, nella registrazione si sente: "Sì, sì. Dell'Utri era praticamente quello che investiva... Chi può parlare? Solo Dell'Utri". Fede prosegue: "Mangano era in carcere. Mi ricordo che Berlusconi arrivando - afferma il giornalista riferendo di un presunto dialogo tra il Cav e Dell'Utri -... 'hai fatto?'... 'sì, sì...gli ho inviato un messaggio...gli ho detto a Mangano: sempre pronto per prendere un caffè". Fede aggiunge che "era un messaggio per rassicurare lui su certe cose che non so. E devo dire che questo Mangano è stato un eroe. E' morto per non parlare". Frasi sconnesse, e come detto in molte parti incomprensibili. Frasi secondo Fede anche "manipolate". Affermazioni che con un tempismo eufemisticamente sospetto spuntano all'indomani della vittoria di Berlusconi in tribunale. Frasi del 2012 sulle quali Il Fatto Quotidiano, per pescarne uno dal mazzo, ha subito iniziato una nuova campagna denigratoria. Nell'attacco del pezzo in cui il giornale dà conto della vicenda, il tutto viene sintetizzando spiegando che "Quando Dell'Utri veniva a Palermo doveva ricordarsi della famiglia di Vittorio Mangano (...). In che modo e perché dovesse sostenerla è un mistero. Ma per evitare che se ne dimenticasse, Silvio Berlusconi in persona, almeno in un'occasione, si è adoperato per rammentarglielo". E ancora, si legge sul sito del Fatto: "A raccontarlo ai pubblici ministeri di Palermo non è un mafioso pentito, e non è nemmeno un collaboratore di giustizia. L'inedito esplosivo arriva invece dalla viva voce (...) di Emilio Fede". Quasi a volerci far credere che il giornalista avesse parlato direttamente con le toghe di Palermo, quando invece si tratta di un'intercettazione abusiva, indecifrabile, il cui significato è tutt'altro che chiaro e, infine, subito smentita con la massima fermezza.

«Guarda a Berlusconi cosa gli sta mangiando. Perché lui è l’unico che sa... Ti rendi conto che ci sono 70 conti esteri, tutti che fanno riferimento a Dell’Utri?». È una conversazione tra Emilio Fede e il suo personal trainer, Gaetano Ferri, in cui si fa riferimento a Marcello Dell’Utri. Il dialogo è stato registrato da Ferri che l’ha consegnato ai magistrati di Monza, scrive “Il Corriere della Sera”. La conversazione tra l’ex direttore del Tg4 e Ferri è del 2012. Dopo avere «ripulito» il sonoro dai rumori di sottofondo, a maggio la Procura lombarda l’ha mandata ai pm di Palermo. Ora l’intercettazione è stata depositata agli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia. Molti brani del dialogo sono scarsamente comprensibili. «C’è stato un momento in cui c’era timore ...,dice Fede, che loro hanno messo Mangano (il boss morto in carcere noto come lo stalliere di Arcore ndr) attraverso Marcello (Dell’Utri ndr)». «La vera storia della vicenda Berlusconi, prosegue - ...mafia, mafia ...soldi, mafia, soldi...Berlusconi». «Sì, sì, aggiunge Fede, Dell’Utri era praticamente quello che investiva...Chi può parlare? Solo Dell’Utri». «Mangano era in carcere. Mi ricordo che Berlusconi arrivando, dice Fede riportando una sorta di dialogo tra Berlusconi e Dell’Utri, ..’hai fatto?’...’sì sì..gli ho inviato un messaggio..gli ho detto a Mangano: sempre pronto per prendere un caffè’». «Era un messaggio per rassicurare lui su certe cose che non so.., spiega a Ferri. E devo dire che questo Mangano è stato un eroe. È morto per non parlare». «A Samorì, che voleva passare con Berlusconi, io gli avevo dato una mano...poi è intervenuto Dell’Utri e gli faccio: rivolgiti a Dell’Utri, ma stai attento perché Dell’Utri è un magna magna. Mi ha detto Samorì “cazzo se non avevi ragione...gli ho chiesto mettimi in lista e sai cosa mi ha chiesto: 10 milioni di euro”». Fede avrebbe detto questo sulle presunte richieste di denaro che Marcello Dell’Utri avrebbe fatto ad Alberto Samorì, imprenditore che si è candidato con un suo movimento alle Politiche del 2012. «Samorì, continua Fede, disse che non è un farabutto...peggio. È una delle persone peggiori che abbia incontrato». E Ferri gli chiede: «e quindi Berlusconi è costretto ad averlo questo onorevole (riferendosi sempre a Dell’Utri ndr)?» «Sì per risparmiargli l’arresto, risponde Fede, per non farlo arrestare ..Devo dire che per me è stato sempre di grande cortesia siciliana. Ho conosciuto segreti di tutti e due con i segreti che so non me ne approfitto». «È tutto falso, l’ho già detto ai magistrati e ho denunciato quel truffatore per calunnia e minacce gravi», replica il giornalista. «Lui ha manipolato le mie dichiarazioni», ha aggiunto Fede. «In relazione alla conversazione tra Ferri e Fede, registrata dallo stesso Ferri, l’ex direttore del Tg4 chiarisce immediatamente ai pm, durante l’interrogatorio di maggio, lo spessore criminale del suo interlocutore, aduso a calunniare e a estorcere denaro». Lo ha detto il legale di Marcello Dell’Utri, l’avvocato Giuseppe Di Peri. «Quel che risulta in buona sostanza dall’interrogatorio di Fede, ha aggiunto, è che lo stesso abbia escluso in modo categorico di essere a conoscenza di comportamenti men che leciti da parte di Berlusconi e Dell’Utri o di sapere di conti esteri attribuiti a Dell’Utri». «Fede, ha spiegato il legale, ha precisato inoltre ai magistrati che la circostanza che Dell’Utri sarebbe intestatario di ben 70 conti esteri è frutto di una vera e propria manipolazione della conversazione effettuata dallo stesso Ferri». «La registrazione, ha concluso, non è altro che un’ulteriore visibile tentativo di strumentalizzazione a fini utilitaristici».

ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.

Riina: "Borsellino era intercettato". Il Capo dei capi parla in carcere: "Sapevamo doveva andare perché le ha detto 'domani mamma vengo'", scrive “La Repubblica”. Riina e il boss Lorusso ripresi in carcere Cosa nostra teneva sotto controllo il telefono del giudice Paolo Borsellino o dei suoi familiari. E' lo stesso Totò Riina, in una conversazione intercettata, a rivelarlo a un compagno di carcere. "Sapevamo che doveva andare là perché lui gli ha detto: 'domani mamma vengo'", racconta il boss, riferendo le parole dette dal magistrato alla madre. "Questa del campanello però è un fenomeno...Questa una volta il Signore l'ha fatta e poi basta. Arriva, suona e scoppia tutto". E' un pezzo della conversazione intercettata in cui il boss Totò Riina, racconta all'uomo con cui trascorre l'ora d'aria in carcere, Alberto Lorusso, che a innescare l'esplosione che uccise Paolo Borsellino fu lo stesso magistrato, suonando al citofono in cui era stato piazzato un telecomando. La conversazione - il cui contenuto era noto, ma non il testo - è stata depositata al processo sulla "trattativa". "Il fatto che è collegato là è un colpo geniale proprio. Perché siccome là era difficile stare sul posto per attivarla... Ma lui l'attiva lo stesso", commenta Lorusso il 29 agosto del 2013. Il boss detenuto racconta di avere cercato di uccidere Borsellino per anni. "Una vita ci ho combattuto - dice - una vita... Là a Marsala (il magistrato lavorava a Marsala ndr)".  "Ma chi glielo dice a lui di andare a suonare?" si chiede Riina. "Ma lui perché non si fa dare le chiavi da sua madre e apre", aggiunge confermando che a innescare l'esplosione sarebbe stato il telecomando piazzato nel citofono dello stabile della madre del magistrato in via D'Amelio. "Minchia - racconta - lui va a suonare a sua madre dove gli abbiamo messo la bomba. Lui va a suonare e si spara la bomba lui stesso. E' troppo forte questa". Secondo gli inquirenti Cosa nostra avrebbe predisposto una sorta di triangolazione: un primo telecomando avrebbe attivato la trasmittente, poi suonando al citofono il magistrato stesso avrebbe inviato alla ricevente, piazzata nell'autobomba, l'impulso che avrebbe innescato l'esplosione. La tecnica, per i magistrati, sarebbe analoga a quella usata per l'attentato al rapido 904 per cui Riina è stato recentemente rinviato a giudizio come mandante. Questo genere di innesco si renderebbe necessario quando è pericoloso o impossibile per chi deve agire restare nei pressi del luogo dell'esplosione.

CORRUZIONE A NORMA DI LEGGE.

"Corruzione a norma di legge", piaga italiana. Nel libro di Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi la ricostruzione dell'intreccio che tra controllati e controllori, il quadro di un fenomeno che è oggi più grave di quanto non fosse all'epoca di Tangentopoli: allora le norme venivano violate, oggi sono state "aggiustate" per permettere gli abusi, scrive “La Repubblica”. La lobby delle Grandi opere affonda l'Italia, recita il sottotitolo del libro di Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, Corruzione a norma di legge (Rizzoli) dedicato alla palude e al malaffare che per due decenni, con gli scandali del MoSE di Venezia, dell'Expo di Milano o dell'Alta velocità hanno inquinato il Paese durante la Prima e la Seconda Repubblica, allungando i tempi e gonfiando a dismisura i costi di realizzazione. Ed è assai chiaro il messaggio che fa da filo conduttore alla ricostruzione del fitto intreccio che ha legato controllori e controllati lungo il percorso delle Grandi opere. Oggi la corruzione è perfino più grave che in passato e questo avviene perché, se con Tangentopoli gli imprenditori che avevano violato le leggi potevano essere perseguiti, ai nostri giorni punire i responsabili è diventato assai più arduo. Poiché sono le stesse leggi a essere state "aggiustate" a monte per permettere il vantaggio dei privati a discapito dello Stato, chi corrompe non viola norme, ma le usa e sfrutta per il proprio tornaconto. Una desolante realtà di fronte alla quale la giustizia ha le armi spuntate e che potrebbe essere combattuta soltanto dai cittadini e dalla politica. Ma come fare per promuovere e dar corso alle Grandi Opere necessarie al Paese, evitando il sistema corruttivo che ha imperversato negli ultimi vent'anni e cambiato la percezione che i cittadini hanno della politica, mai stata come ora al minimo del gradimento? Innanzi tutto, rispondono Giorgio Barbieri, giornalista, e Francesco Giavazzi, economista, la politica dovrebbe radicalmente cambiare il modo d'intendere il suo ruolo e dunque  impedire (e non  promuovere) quelle leggi ad hoc che finora hanno permesso i tornaconti privati, a tutto svantaggio dell'interesse pubblico. E qui entrano in gioco i cittadini che, con il loro voto, possono pretendere di sostenere solo chi s'impegna contro la "corruzione delle leggi". Inoltre, suggeriscono gli autori, le imprese dovrebbero potersi assicurare presso una compagnia privata così come le "gole profonde", che denunciano la corruzione, dovrebbero poter contare su una rete di protezione efficiente e reale. Infine, è dovere di chi controlla qualità e costi delle Grandi opere essere finalmente del tutto indipendente dalla politica.

Perché la vicenda del MoSe è emblematica della corruzione diffusa?

«Perché meglio di ogni altra dimostra che la corruzione più grave, cioè quella che più costa ai cittadini, non è quella che avviene tramite violazione delle leggi, di cui per lo più si occupa la stampa, bensì quella che avviene per "corruzione delle leggi". Leggi ad hoc, come la legge del 1984 che creò il concessionario unico, ovvero assegnò buona parte dei lavori di salvaguardia della laguna di Venezia (18 miliardi di euro di oggi) ad un monopolista. Costui, il Consorzio Venezia Nuova, in questi 30 anni ha realizzato lavori per il MoSE per oltre 6 miliardi (in euro di oggi), con un sovrapprezzo per lo Stato, e quindi per i cittadini, che supera i 2,4 miliardi di euro. La "corruzione" della legge è più ambigua della "violazione", perché nel primo caso nessuna legge viene violata: sono le leggi stesse a essere state "corrotte", cioè scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l'interesse dello Stato, o per alcuni privati a svantaggio di altri. Di fronte a questo tipo di corruzione la giustizia non ha armi e che può essere combattuta solo dalla politica e dai cittadini».

Tutti gli scandali da Tangentopoli in poi...

«Gli imprenditori sono usciti dall'esperienza di Tangentopoli con danni giudiziari limitati e una lezione: per non cedere tutta la rendita della corruzione ai politici occorre trattare da una posizione di forza, costruendo un'unica impresa monopolista per eliminare la possibilità che il politico tratti con altri. Di qui nasce l'idea del consorzio di imprese che tratta con politici e amministrazioni come fosse un'unica impresa, rappresentando tutti i soci, e quindi evitando anche l'imbarazzo di incontri diretti fra politica e imprenditori. Non a caso nel Consorzio Venezia Nuova si ritrovano gli stessi imprenditori attivi al tempo di Tangentopoli. Trattando da una posizione di forza si può anche fare in modo che i benefici ottenuti non siano sanzionati dalla legge, e così evitare il rischio della prigione. I politici sono quindi pagati per ottenere non solo una parte della rendita, ma anche leggi che la rendano "legale". Durante Tangentopoli politici e imprenditori violavano le leggi, e infatti in molti sono finiti in prigione. Con il MoSE tutto diventa legittimo perché le leggi sono scritte in modo tale che appropriarsi di una parte della rendita destinata alla realizzazione della grande opera diventi legale».

Come uscire dall'ennesima palude che ha coinvolto la Prima e la Seconda repubblica?

«Il libro si chiude con tre proposte concrete. 1: richiedere che, per partecipare a un appalto, le imprese si assicurino con una compagnia privata, come avviene negli Stati Uniti. In Italia una legge in questo senso esiste, ma i decreti attuativi non sono mai stati scritti. 2: la creazione di un'efficiente rete di protezione per le "gole profonde", ossia chi denuncia sospetti episodi di corruzione, ma anche di ogni altra forma di comportamento illegale. 3:. l'indipendenza dalla politica di chi deve controllare qualità e costi. Ma queste misure non risolvono il problema più grave, che è la corruzione delle leggi. Questo è compito esclusivamente della politica. L'amara vicenda che ha travolto il Mose di Venezia può però trasformarsi in un'occasione affinché politica e cittadini, con il proprio voto, trovino l'antidoto affinché simili casi di corruzione delle leggi non si ripetano».

Leggi sbagliate, non solo gli uomini. Nel libro di Barbieri e Giavazzi, l’analisi di due tipi di corruzione: le tangenti e quelle norme scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l’interesse dello Stato, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. I veneziani dei tempi d’oro non ci avrebbero pensato due volte: ogni colpevole sarebbe stato portato dopo la condanna a San Marco, legato mani e piedi a quattro cavalli che con un colpo di frusta sarebbero schizzati via in direzioni opposte. Era implacabile, la Serenissima, sul furto e lo spreco di soldi pubblici. Più ancora era rigida nella difesa del delicato equilibrio della laguna. Figuratevi dunque la collera che sarebbe esplosa alla scoperta che il Mose, senza avere ancora dato prova se funzionerà o meno, è già costato, a prezzi aggiornati grazie a preziose ricostruzioni storiche, trenta volte più della grandiosa e costosissima deviazione del Piave compiuta mezzo millennio fa dai nostri bisnonni con mezzi tecnici immensamente inferiori a quelli di oggi. Per l’esattezza sono stati sottratti alle tasche dei cittadini 6,2 miliardi di euro: più del triplo di quanto dichiarato inizialmente. Quasi il doppio di quanto costò, in moneta attuale, l’Autostrada del Sole. È un cazzotto allo stomaco, il saggio Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia, scritto da Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, in libreria da domani per Rizzoli. Ma se volete capire «come mai» annaspiamo nella corruzione, nell’inefficienza e nella paralisi delle opere pubbliche (e come sia obbligatorio cambiare tutto), dovete assolutamente leggerlo. Perché la storia scellerata del Mose, intorno alla quale ruota il libro, è un impasto di tutto ciò che ci affligge: la cattiva politica, la cattiva imprenditoria, le cattive regole. Ci sono infatti, per gli autori, due tipi di corruzione. Il primo, che vede scattare piuttosto spesso le manette, è quello classico: la tangente. Ma è il secondo tipo a essere più pericoloso e ambiguo «perché nessuna legge viene violata: sono le leggi stesse a essere state corrotte, cioè scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l’interesse dello Stato, o per alcuni privati a svantaggio di altri. Di fronte a questo tipo di corruzione la giustizia non possiede armi. Nel momento in cui la regola corrotta viene applicata nessuno commette alcun reato; i reati semmai sono stati compiuti quando il Parlamento ha approvato le leggi, ma sono più difficili da dimostrare e sanzionare». «Chi ha pagato chi ed esattamente per cosa?» Mica facile rispondere. Certo è che tutta la vicenda delle paratie mobili trabocca di deroghe decise per scassinare le regole. La scelta iniziale di un concessionario unico per prendere in contropiede Bruxelles, che avrebbe imposto gare d’appalto europee. La nascita di un cartello che si accaparra il monopolio dei lavori e dà soldi a tutti e «tratta con politici e amministrazioni come fosse un’unica impresa, rappresentando tutti i soci, e quindi evitando anche l’imbarazzo di incontri diretti fra politica e imprenditori». Le disinvolte scorciatoie per scansare ogni intralcio normativo in nome dell’urgenza («Le opere per salvare Venezia verranno ultimate entro il 1995», giurava Craxi nel 1986), col risultato che chi oggi chiede se «una scelta tecnologica fatta quarant’anni fa sia tuttora idonea, soprattutto alla luce dell’analisi costi-benefici», si sente rispondere che «è troppo tardi, ma è una domanda che, in quarant’anni, mai è stato consentito porre, sempre con la scusa che “ormai i lavori sono quasi finiti”».  Erano anni e anni, accusano Barbieri e Giavazzi, che l’andazzo era sotto gli occhi di tutti. Lo dicono le parole dei magistrati Felice Casson e Ivano Nelson Salvarani, che nella stagione di Mani pulite fecero arrestare l’allora presidente del Veneto Gianfranco Cremonese e la spalla di Gianni De Michelis, Giorgio Casadei, scrivendo nella richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro Carlo Bernini di «un accordo spartitorio tra i partiti che investe il Consorzio Venezia Nuova». Lo ripete un micidiale rapporto degli ispettori ministeriali contro l’allora Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta, rimosso nel 2001 per «un uso improprio dei poteri d’urgenza» e un mucchio di irregolarità, comprese «234 giornate lavorative di assenza su 381», e ciò nonostante rimesso al suo posto anni dopo dal berlusconiano Altero Matteoli. Lo conferma un dossier giudiziario secondo cui «l’80% dell’attività del Magistrato era in realtà istruito, redatto e preparato da personale del Consorzio Venezia Nuova». Lo ribadisce una relazione della Corte dei conti sui collaudi delle opere: «Gli emolumenti ai collaudatori sono integralmente posti a carico del concessionario». Una schifezza, denunciano Barbieri e Giavazzi: il collaudatore opera per conto e nell’interesse dello Stato e «dovrebbe essere la naturale controparte del concessionario, cioè del Consorzio, ed è un evidente conflitto d’interessi se le parcelle sono saldate da chi deve essere controllato». Parcelle enormi, tra l’altro: 23.868.640 euro nel solo quinquennio 2004-2008. Con tariffe, come rivelò Sergio Rizzo, «maggiorate del 60% per rimborso forfettario delle spese». E distribuite persino a potenti dirigenti ministeriali, che poi avevano voce in capitolo sui finanziamenti al Consorzio. L’impasto di interessi appiccicosi era tale, ricorda il libro, che a un certo punto Carlo Azeglio Ciampi decise con un decreto di dire basta al concessionario unico. Ma ancora quell’impasto di interessi fece sì che l’anno dopo il decreto fosse svuotato da Lamberto Dini, con due righe che blindavano gli affari del Consorzio: «Restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti». Per non dire come fu presa per i fondelli Bruxelles, che, furente per le violazioni alla concorrenza sulle gare d’appalto comunitarie, abboccò all’impegno del governo di destra di un cambio di rotta e dell’assegnazione con gare europee del 53% dei lavori «per circa 3.160 milioni di euro». Una bufala: «Il Consorzio ha infatti messo a gara forniture per una cifra inferiore ai 200 milioni di euro, il 5% circa». Ma quanto è costata agli italiani questa miliardaria poltiglia di interessi, dove le mazzette sono solo la parte più visibile? Il libro risponde che, sommando i ribassi mancati (1,6 miliardi circa) all’aggio di 744 milioni trattenuto da Venezia Nuova, si arriva a quasi 2,4 miliardi di euro. «E questa cifra non include il maggiore costo dei lavori eseguiti dal Consorzio per altre opere di salvaguardia, che ammonta a 3 miliardi di euro circa». Un bottino spropositato. Che ci ricorda l’urgenza di cambiare finalmente, prima ancora che gli uomini, le regole. Ne va del destino di Venezia. Dell’Expo. Delle grandi opere. Del Paese stesso: «Il rischio è che l’opinione pubblica, sconcertata dai casi di eclatanti violazioni della legge, scordi che il problema principale è la corruzione delle leggi».

SE NASCI IN ITALIA…

Se potesse aiutarmi….

Illustre parlamentare, inanemente non è la prima volta che mi rivolgo a lei od ai suoi colleghi. Ma a chi dovrei rivolgermi per avere un interessamento? Una richiesta di ispezione o di inchiesta. Una interrogazione al Ministro. Io non dispero che in questo Parlamento, finchè dura, possa trovare qualcuno con il cuore d’oro. Le farebbe onore se, con analitica cognizione di causa che io le prospetto, potesse affrontare una questione che attanaglia me dal 1998, ma anche centinaia di migliaia di giovani meritevoli impediti all’accesso ad una professione o ad un impiego pubblico. La differenza tra il dire e il mare è il fare. Vediamo quanto lei vale e quanto lei sia propenso a battersi per i diritti calpestati. Giusto per non avere io vergogna di essere un italiano.

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

PARLIAMO DI ORDINI PROFESSIONALI. 

A cosa servono gli Ordini se non tengono ordine tra i loro iscritti, pretendendo il rispetto delle regole deontologiche? E’ una domanda lecita dopo la scelta dell'Ordine degli Avvocati di non muover foglia contro i neo-colleghi imputati della truffa all'esame di Catanzaro, quando copiarono in 2.295 su 2.301 lo stesso tema, ovvero di insabbiare tutto, finanche lo scandalo nazionale, da cui ha preso spunto la denuncia del Sottosegretario all’Interno, Alfredo Mantovano, che accusava la conoscenza, precedente di giorni, delle tracce dei temi dell’esame forense. Ma è una domanda obbligata oggi dopo la lettura di "La zona grigia - Professionisti al servizio della mafia"; edizioni «La Zisa», in cui Nino Amadore, del Sole 24 Ore, ricostruisce le ambiguità e i silenzi dei vari Ordini nei confronti degli associati coinvolti in faccende di mafia, camorra, 'ndrangheta. Colletti bianchi che, a sentire il Presidente di Cassazione Gaetano Nicastro, sono indispensabili ai criminali: «Cosa Nostra gode purtroppo di una vasta rete di fiancheggiatori nell'ambito di una certa borghesia mafiosa, fatta di tecnici, di professionisti, di imprenditori, di esponenti politici e della burocrazia». Come potrebbero certi padrini potentissimi ma semi-analfabeti investire nell'edilizia in Lussemburgo, nell'acquisto di un pacchetto azionario alle Cayman o nell'acquisto di 12 miliardi di metri cubi di gas dall'azienda ucraina Revne per «un valore di mercato di tre miliardi di euro» senza «un'accorta analisi fatta da gente preparata, che conosce i mercati »? Come potrebbero appropriarsi degli appalti pubblici senza la complicità di architetti, ingegneri, commercialisti, funzionari regionali e comunali ben decisi a regolarsi sul loro lavoro come le tre scimmiette che non vedono, non sentono, non parlano?

PARLIAMO DI MAFIA ED INFORMAZIONE.

Mafia e informazione, ecco la relazione: “Non solo minacce, così i giornali sono contigui alla criminalità organizzata”. Dai licenziamenti in tronco agli attentati in chiaro scuro, dagli endorsement editoriali targati Camorra ai reporter rimproverati in redazione da boss di Cosa nostra, dagli editori indagati per concorso esterno agli amici dei padrini: ecco il documento esclusivo della commissione Antimafia sulle testate contigue e compiacenti a mafia, 'ndrangheta e camorra, scrive Giuseppe Pipitone il 5 agosto 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Sangue e inchiostro, notizie censurate e rimproveri che in redazione arrivano dalla viva voce di Cosa nostra, licenziamenti in tronco e attentati in chiaro scuro, endorsement editoriali targati Camorra e giornalisti pagati per non lavorare, basta che mettano il cappuccio alla penna. Non ci sono solo le minacce contro i giornalisti, non ci sono solo i tentativi di mettere a repentaglio l’incolumità dei reporter pur di bloccare l’uscita di una notizia, di un’inchiesta, di uno scoop. C’è, infatti, un’altra faccia dell’informazione nostrana ancora a grandi tratti sconosciuta, un aspetto finora mai raccontato sui giornali, perché è proprio dentro le redazioni che va in onda: un fenomeno rimasto per troppo tempo nell’ombra e che da sempre influisce direttamente sulla 73esima posizione occupata dall’Italia nella classifica della libertà di stampa. L’hanno battezzata “informazione contigua, compiacente o persino collusa con le mafie”, ed è l’oggetto della relazione approvata pochi minuti fa dalla commissione parlamentare antimafia. Decine di audizioni per ascoltare a palazzo San Macuto giornalisti, direttori di testata e magistrati, centinaia di pagine di verbali giudiziari, articoli di quotidiani, pezzi di storia nera dell’informazione italiana raccontati dai protagonisti superstiti per arrivare a dire che “esiste un reticolo di interessi criminali che ha trovato in alcuni mezzi d’informazione e in alcuni editori un punto di saldatura e di reciproca tutela”. È questo l’oggetto sul quale lavorano da più di dodici mesi un pugno di parlamentari dell’Antimafia guidati da Claudio Fava, vicepresidente di palazzo San Macuto, figlio di Giuseppe, giornalista ucciso da Cosa nostra nel 1984. Ottanta pagine di relazione finale, che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare in anteprima, per ripercorrere i due macro insiemi che pesano come un macigno sull’informazione italiana: da una parte le decine di cronisti minacciati ogni anno nei modi più diversi (dalle querele temerarie, agli avvertimenti, alle lesioni personali), dall’altra i giornali collusi con le associazioni criminali. “In entrambi i casi – scrive Fava nella sua relazione finale – a patirne le conseguenze è la libertà dell’informazione: chi intimidisce un giornale o corrompe un giornalista procura un immediato e rilevante danno sociale all’intera comunità civile”. Se l’Italia è il Paese con il più alto numero di reporter minacciati e sotto scorta del mondo occidentale, ha probabilmente battuto ogni record per quanto riguarda gli episodi di opacità che legano i giornali alla criminalità organizzata. Il gruppo parlamentare guidato da Fava ha messo nero su bianco un elenco di casi, in cui non occorre che mafia, ‘ndrangheta e camorra si attivino per minacciare i cronisti scomodi: è direttamente l’editore o il direttore a mettere loro il bavaglio.

Il caso Castaldo: pagato per non scrivere. È la terra che ha versato il contributo di sangue maggiore alla libertà d’informazione, con otto cronisti su nove assassinati perché facevano il loro lavoro. Ma dopo gli assassini di Mauro De Mauro e Mario Francese, dopo le minacce a Lirio Abbate, in Sicilia è calata la pax: non si spara più. Al massimo per far tacere un cronista lo si paga per non lavorare. È quello che è successo a Franco Castaldo: il quotidiano La Sicilia di Mario Ciancio gli paga regolarmente lo stipendio, dopo decine di cause, ma lui non lavora, e Ciancio gli impedisce di entrare nella redazione di Agrigento, dove risiede. Il motivo? Nel 1995 Castaldo ha raccontato le accuse di contiguità alla mafia mosse dalla magistratura a Filippo Salamone, l’imprenditore poi condannato definitivamente a sei anni e mezzo di carcere. “In seguito a un incontro tra Ciancio e il Salamone, ricevetti una letterina di tre righe: intendendo avvalerci della sua alta professionalità, la trasferiamo a Catania al settore cronache. Trasferito a Catania mi hanno messo in uno sgabuzzino. Ricordo che non avevo una scrivania né un telefono, mi sedevo nel posto del collega che quel giorno era di corta”, racconta lui davanti alla commissione antimafia. “Dopo effetto del mio primo articolo Salamone ha querelato e citato per danni me e il mio editore, ma prima ancora di arrivare al processo scoprii che Salamone aveva rinunciato ad ogni attività risarcitoria e ritirato le querele nei confronti di Ciancio”. Risultato? “Dal 1996 ad oggi sono diciotto anni che percepisco lo stipendio e ogni due anni un risarcimento del danno ma non ho più messo piede in redazione ad Agrigento”. Dopo aver perso una serie di cause Ciancio si è arreso: paga Castaldo basta che non scriva un rigo sul suo quotidiano.

Il caso Telecolor: una redazione epurata. E se Castaldo è pagato per non lavorare, licenziati in tronco (salvo cause vinte davanti al giudice del lavoro) sono stati invece i dipendenti della televisione catanese Telecolor. La loro colpa? “Eravamo un gruppo di giornalisti che non dovevano dire grazie a nessuno e quindi lavoravamo in maniera assolutamente autonoma”, spiega a palazzo San Macuto uno degli epurati, Domenico Valter Rizzo, raccontando anche le tappe della “normalizzazione” dell’emittente. “Ciancio crea un’agenzia, che si chiama Asi, diretta dalla figlia Angela: convoca i rappresentanti sindacali della redazione, il comitato di redazione e il direttore e dice in maniera molto chiara che l’agenzia avrebbe dovuto occuparsi totalmente dell’informazione, sarebbe stata una sorta di redazione parallela che avrebbe seguito i casi più sensibili, mentre noi ci saremmo occupati della parte residuale. La risposta è stata categorica: non se ne parla. Quindi vengono eseguiti i primi due licenziamenti: il direttore Nino Milazzo si è rifiutato e si è dimesso per protesta. A quel punto Ciancio convoca una redattrice, Michela Giuffrida (oggi europarlamentare del Pd ndr) che doveva essere anche lei licenziata, e la nomina direttore. Noi non votiamo la fiducia nei confronti di questa persona e sono scattati i licenziamenti per gli altri colleghi che rimanevano”. L’agenzia di stampa Asi chiuderà i battenti poco dopo.

Il caso Ciancio: deus dell’informazione sotto inchiesta per mafia. Il patron de la Sicilia Ciancio, con partecipazioni azionarie nel Giornale di Sicilia e nella Gazzetta del Mezzogiorno, già presidente Fieg e vicepresidente di Ansa, è attualmente indagato dalla procura di Catania per concorso esterno a Cosa nostra: recentemente gli inquirenti hanno rintracciato 52 milioni di euro nelle sue disponibilità depositati su conti svizzeri, 12 di questi sono stati sequestrati. Nella sua relazione Fava si occupa del caso Ciancio in maniera molto approfondita: dall’arrivo in redazione di Pippo Ercolano per rimproverare il giornalista Concetto Mannisi, reo di averlo definito un boss mafioso, con l’editore del giornale a fare gli onori di casa, alla lettera del boss Vincenzo Santapaola, recluso in regime di 41 bis, pubblicata integrale senza tagli o commenti, fino al necrologio del commissario Beppe Montana, assassinato da Cosa nostra, che invece viene respinto. Il motivo? “Il testo parlava di un delitto di mafia dagli alti mandanti”, spiegherà il giornale. “Anni dopo – dice la commissione – La Sicilia non mostrerà gli stessi scrupoli quando – il 30 luglio 2012, il giorno dopo la morte del capomafia Giuseppe Ercolano (lo stesso ricevuto da Ciancio nel suo ufficio in occasione della reprimenda verso il suo cronista) – il giornale pubblicherà ben tre necrologi di amici e parenti che ricordano l’Ercolano”.

Il caso del Giornale di Sicilia. Ma non c’è solo il caso Ciancio in Sicilia. “L’editore del Giornale di Sicilia era amico di Michele Greco, che in quel momento era il capo di Cosa nostra palermitana, e alcuni giornalisti erano amici di mafiosi. Stefano Bontate e Mimmo Teresi frequentavano spesso la redazione”, è uno dei passaggi della deposizione davanti la commissione di Lirio Abbate, ex collaboratore del principale quotidiano palermitano, poi giornalista dell’Ansa e oggi inviato dell’Espresso, oggetto di pesanti minacce di morte. “Come si vedrà – continua Abbate – e come si è visto da alcune indagini, a loro questi giornalisti rivelavano notizie e retroscena su alcuni fatti, in modo da tenere aggiornata e informata Cosa nostra. La mentalità mafiosa di mettere mano all’informazione fino a pochi anni fa, almeno fino a quando sono rimasto a lavorare a Palermo, non è cambiata”. Sono gli anni ’80, Palermo è scossa dalla guerra di mafia, dagli assassini di Carlo Alberto Dalla Chiesa e altre decine di servitori dello Stato, e Federico Ardizzone, patron del Giornale di Sicilia, decide di “normalizzare” il quotidiano. “Viene consegnata la lettera di licenziamento al direttore Fausto De Luca, mentre è in ospedale per fare la chemioterapia per un cancro ai polmoni. Lo licenziano in ospedale. Cambia di nuovo il consiglio di amministrazione, Ardizzone dice: “Abbiamo scherzato. Prima di dire mafioso a uno, voglio la foto”, racconta Francesco La Licata, firma storica de La Stampa, ex cronista de L’Ora e del Giornale di Sicilia, dove viene considerato cronista ingestibile, a causa di un problema: è l’unico che porta notizie al giornale. “Mi ricordo che se parlavi di un imputato mafioso te lo trovavi in redazione. Cassina veniva di persona, Lima pure… Le carte del maxi processo furono mandate per fax alle esattorie di Palermo. Nasce così la filosofia del presunto e l’interprete per eccellenza è stato Pepi, che è ancora lì”. Il riferimento è per Giovanni Pepi, il direttore più longevo d’Italia, in sella da 33 anni. “Lo vidi in occasione del matrimonio della figlia di Lipari, Pino Lipari, che lo salutò affettuosamente e mi disse che era un amico”, metterà a verbale il pentito Angelo Siino. “La Lipari – si giustificherà Pepi – era una collaboratrice del giornale, ed era la figlia. Per questa ragione mi trovavo a quel matrimonio. Mi presentò suo padre e lo salutai”. “In occasione di un altro mio colloquio con il Lipari questi mi disse che il Pepi avrebbe dovuto fare un’intervista al latitante Riina, concordata con il Lipari. Poi, però, non se ne fece nulla per l’opposizione di Antonio Ardizzone, che si preoccupava dei possibili riflessi negativi sul giornale” è un’altra delle accuse lanciata da Siino, molto simile a quella di un altro pentito, Vincenzo Sinacori. “Riina parlando di un suo possibile arresto aveva fatto riferimento alla necessità di proseguire con la linea dura che, qualora arrestato, egli avrebbe potuto rilasciare un’intervista solo al Pepi che riteneva l’unico giornalista serio”. Identica la reazione alle due contestazioni da parte di Pepi davanti la commissione antimafia. “Ne vengo a conoscenza solo adesso”. Il direttore del Giornale di Sicilia ha poi ricordato che il suo giornale ha appoggiato il movimento Addio Pizzo, ed ha intervistato l’imprenditore Libero Grassi, poi assassinato per essersi opposto al racket delle estorsioni. “Per completezza – annota la relazione – bisogna anche dar conto che, sotto il periodo della condirezione di Pepi, il Giornale di Sicilia ha dato spazio alle notizie su Cosa Nostra, in tempi più remoti pubblicando le inchieste di Mario Francese su argomenti che altri giornali non toccavano o, come già riferito dallo stesso Pepi, pubblicando i resoconti integrali del maxiprocesso che hanno fatto conoscere gli orrori di Cosa Nostra attraverso il racconto dei mafiosi divenuti collaboratori di giustizia”.

In Campania la pubblicità ai giornali la fa la Camorra. Dalla Sicilia si passa alla Campania, dove i rapporti tra giornali e associazioni criminali sono, secondo l’Antimafia, più evidenti. Nella terra che ha dato i natali a Giancarlo Siani e a Roberto Saviano capita anche che i boss della Camorra facciano endorsement pubblici in favore di un giornale. “In un caso, la Gazzetta di Caserta pubblicò la lettera che gli era stata spedita da Francesco Schiavone, all’epoca capo del clan dei Casalesi, che si congratulava con il direttore per quanto fosse bello quel giornale, lettera pubblicata in prima pagina, con l’indicazione che quel giornale gli piaceva più dell’altro, cioè del Corriere di Caserta, e che quindi avrebbe detto a tutti i suoi amici di cambiare giornale. In effetti, la Dda accertò che da un giorno all’altro ci fu un passaggio di 2.000 copie da una testata all’altra”, ha spiegato la senatrice del Pd Rosaria Capacchione, giornalista del quotidiano Il Mattino, finita sotto scorta.

Giornalisti minacciati in Calabria. Sansonetti: “Mica facevo il poliziotto”. “Il pentito Moio diceva: la ‘ndrangheta a Reggio vota a destra. E il giorno dopo mi ritrovo l’articolo con il virgolettato: la ‘ndrangheta a Reggio vota a destra perché è la parte politica che governa, altrimenti voterebbe a sinistra”, è uno dei passaggi messi a verbale a san Macuto da Lucio Musolino, ex giornalista di Calabria Ora, oggi collaboratore de ilfattoquotidiano.it. Musolino è stato destinatario di pesanti minacce da parte della ‘ndrangheta proprio negli stessi giorni in cui il suo ex giornale cambia direttore: dopo Paolo Policchieni arriva Piero Sansonetti. È con Sansonetti che si propone a Musolino il trasferimento da Reggio Calabria a Lamezia Terme, ed è sempre sotto la sua direzione che Musolino viene licenziato.”Ma la preoccupazione per le sorti personali, la salute fisica, l’incolumità di Musolino, è stata mai presente?” chiede la commissione Antimafia a Sansonetti. Che risponde: “Sono andato a fare il direttore lì, non il poliziotto”. La gestione di Sansonetti del quotidiano Calabria Ora è finita sotto la lente della commissione soprattutto per un altro motivo: le posizioni della testata sui collaboratori di giustizia. “Maria Concetta Cacciola apparteneva a una famiglia di ‘ndrangheta di Rosarno, ci parla di una serie di omicidi e viene messa sotto protezione. Succede però che i familiari riescono a rimettersi in contatto con lei, la costringono a tornare a Rosarno, la costringono a registrare una ritrattazione delle dichiarazioni che aveva reso a noi e poi la trovano morta per aver ingerito acido muriatico, che purtroppo è anche un gesto evocativo, cioè una fine che viene riservata ai collaboratori di giustizia, a chi parla troppo”, racconta all’antimafia Giovanni Musarò, sostituto procuratore a Roma, ex pm a Reggio Calabria. “Qualche giorno dopo – continua il pm – partì una campagna stampa molto pesante su un quotidiano, L’Ora della Calabria. Erano degli articoli in esclusiva fatti per giorni e il titolo era: Cronaca di un suicidio annunciato. Veniva attaccata pesantemente la Dda di Reggio Calabria, il modo in cui era stata gestita”. Una situazione simile si verifica con il pentimento, poi ritrattato di Giuseppina Pesce, dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta: L’Ora della Calabria da ampio risalto alla sua ritrattazione e attacca i pm pubblicando la lettera della pentita. Solo che in questo caso, Pesce fa di nuovamente marcia indietro, torna a collaborare e racconta agli inquirenti quello che era successo. “La lettera – spiega il pm Musarò – con la sua ritrattazione sarebbe stata data a Sansonetti perché l’avvocato diceva che era l’unico disposto a pubblicargliela e a sposare la loro causa”. Come si giustifica Sansonetti a San Macuto davanti a queste accuse? Con una semplice opinione: “Penso che spesso i pentiti siano indotti a parlare e che non sempre siano credibili”. Più o meno la stessa sensazione che viene fuori dopo aver letto il resoconto fatto dall’Antimafia sugli ultimi trent’anni di stampa italiana.

Sono più di duemila i giornalisti finiti nel mirino della mafia. L’Antimafia svela il dramma dei cronisti di frontiera. Sono giovani, senza contratto. Vittime di intimidazioni - anche al Nord - undici sono già morti, scrive Marco Sarti su “L’Inkiesta”. «Sono spesso corrispondenti, vivono in piccoli centri nei quali rappresentano l’unica voce informativa. Le ostilità solo all’ordine del giorno: gli sguardi maligni, le mezze parole, gli incontri per strada. Il termine “infame”, quello con il quale vengono apostrofati questi giornalisti, dice chiaramente della schizofrenia ambientale cui sono costretti: abitano quel territorio, ne sono parte integrante per cultura e abitudini, eppure sono considerati, per il lavoro che fanno, un corpo estraneo, qualcosa da espellere, un cancro». Ascoltato dalla commissione Antimafia, il giornalista Roberto Rossi ha descritto così la condizione di tanti cronisti calabresi. È un argomento che conosce bene, con la collega Roberta Mani ha pubblicato un libro su questa realtà. Si intitola Avamposto, nella Calabria dei giornalisti infami. Racconta l’isolamento che tanti colleghi sono costretti a vivere insieme alle loro famiglie, colpevoli solo del mestiere che hanno scelto. Sono professionisti di frontiera, spesso giovanissimi. In molti casi lavorano per pochi euro ad articolo, senza tutele contrattuali né legali. Ma la Calabria non c’entra. Quello dei giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata è un fenomeno diffuso in tutta Italia. Anche nell’insospettabile Nord. Adesso, per la prima volta, la commissione parlamentare Antimafia solleva l’attenzione su queste vicende. Al termine di un’indagine durata oltre un anno – con 34 audizioni e numerosi atti giudiziari raccolti - è stata approvata all’unanimità una lunga relazione. Il risultato è a tratti sorprendente. Negli ultimi otto anni sono stati denunciati oltre duemila atti di ostilità nei confronti di giornalisti italiani. Storie di violenza e intimidazione in costante crescita. Solo nel 2014, i cronisti vittime di minacce sono stati almeno cinquecento. Ormai si registrano tre casi ogni due giorni. Episodi gravi, che quasi sempre restano impuniti. Senza considerare gli oltre trenta giornalisti già sottoposti a misure di tutela dal Viminale. Sono professionisti di frontiera, spesso giovanissimi. In molti casi lavorano per pochi euro ad articolo, senza tutele contrattuali né legali. I risultati dell’indagine sono preoccupanti. In un Paese che ha già assistito all’assassinio di undici cronisti, si continua a sottovalutare il problema dell’influenza mafiosa sull’informazione. Chi si aspetta di leggere solo storie di giornalisti siciliani e calabresi rischia di rimanere deluso. In Italia non ci sono zone immuni dalla criminalità organizzata, né dai suoi tentativi di condizionare la libera informazione. Lo dicono i dati: lo scorso anno solo in Valle d’Aosta e Molise non si sono registrate intimidazioni nei confronti della stampa. L’area più pericolosa è il Lazio. Dall’inizio del 2015 qui sono stati denunciati 26 episodi di violenza. Seguono la Campania e la Lombardia. Due tra i casi più recenti riguardano proprio il Nord Italia. L’attentato sventato al giornalista Giovanni Tizian, che aveva raccontato le infiltrazioni mafiose nell’economia emiliana, ad esempio. E le minacce, ripetute, nei confronti della giovane giornalista Ester Castano in Lombardia. Salvo qualche eccezione, nella relazione non ci sono nomi di giornalisti famosi (era stato chiesto l’intervento di Roberto Saviano, che non ha dato la sua disponibilità ad essere ascoltato). Il fenomeno riguarda quasi sempre anonimi cronisti di provincia. «Sono professionisti poco conosciuti - spiega il vicepresidente della commissione Fava – Schivi, generosi, determinati. Raramente li incontreremo sulle ribalte mediatiche, ma leggeremo o ascolteremo spesso i loro racconti sul sistema di potere mafioso e i suoi innominabili amici». Professionisti giovani, spesso sotto i trent’anni. E quasi sempre impegnati in prima linea, nelle periferie d’Italia. Davanti alla commissione Enrico Bellavia, giornalista di Repubblica, ha raccontato bene la realtà siciliana. «Io ho avuto la grande fortuna di lavorare in una grande città, Palermo, il che consente comunque un certo anonimato nel privato. Cosa diversa è per chi lavora in un piccolo centro. In un posto piccolo il boss lo incontri al bar. Lui sa quanti cannoli comprerai per andare a pranzo dalla suocera, dove vanno a scuola i tuoi figli, che percorso fanno, chi frequentano….». In un Paese che ha già assistito all’assassinio di undici cronisti, si continua a sottovalutare il problema dell’influenza mafiosa sull’informazione. Proiettili inviati per posta, telefonate minatorie, vere e proprie aggressioni fisiche. Alle violenze tradizionali si è recentemente aggiunta un’altra forma di pressione. «Un uso spregiudicato e intimidatorio di alcuni strumenti del diritto». Sono le querele temerarie, azioni civili per danni. Interventi legali che non hanno tanto l’obiettivo di far valere i propri diritti, quanto di mettere a tacere i cronisti più scomodi, per spaventarli e indurli ad autocensurarsi. Esemplare il caso di Milena Gabanelli, volto noto della Rai e responsabile del programma di inchieste Report. «Al momento ho sessanta cause aperte» ha raccontato in commissione. «Buona parte senza presupposti». La sua è una vicenda paradossale. Negli anni la trasmissione ha ricevuto richieste di risarcimento per una cifra complessiva superiore ai 250 milioni di euro. «Ma ne abbiamo persa solo una in appello, per 30mila euro». L’effetto è evidentemente più perverso quando a ricevere la richiesta danni è un giornalista di un piccolo giornale locale. O, peggio, un freelance senza tutele legali. La commissione ha incontrato Pino Maniaci, direttore della siciliana Telejato. A suo dire la testata ha il primato delle querele ricevute: più di trecento. «Le abbiamo vinte tutte (…) molte archiviate (…) ne abbiamo ancora una in sospeso. Io non me ne occupo più, perché ho delegato un avvocato che segue le 314 querele». A volte basta un avvocato per censurare una notizia. «In Italia si può mettere a tacere un giornale e un giornalista senza ricorrere alla violenza» dice l’ultimo rapporto elaborato da “Ossigeno per l’informazione”, acquisito dalla commissione Antimafia. «Si possono usare strumenti legali potenti ed efficaci come le querele per diffamazione, come le citazioni per danni che – anche quando vengono attivate senza fondato motivo – riescono a determinare forti condizionamenti. Veri e propri abusi del diritto, consentiti da leggi anacronistiche e punitive nei confronti dell’informazione giornalistica e di chi la produce e la diffonde». Le prime vittime sono i giornalisti contrattualmente più deboli. Freelance e blogger che lavorano in prima linea. Spesso per pochi euro ad articolo, «con editori raramente disponibili ad andare oltre una solidarietà di penna e di facciata». Nel settore rappresentano una realtà tutt’altro che secondaria. Stando ai dati dell’Antimafia su 60mila operatori dell’informazione, solo 15.891 sono i giornalisti con contratto di lavoro stabile. «A ciò va aggiunta una complessiva e crescente contrazione delle retribuzioni dei giornalisti non coperti da contratto» si legge nella relazione. Professionisti pagati tre o quattro euro ad articolo, compensi riconosciuti a mesi di distanza. Come nel caso di Ester Castano, che con i suoi articoli ha contribuito allo scioglimento per mafia del comune di Sedriano, il primo in Lombardia. Vittima di gravi intimidazioni e costretta a «lavorare fino a tutta la primavera del 2015 in un fast food, non riuscendo a mantenersi con il ricavato delle proprie collaborazioni». Anche per questo la relazione dell’Antimafia propone di intervenire sul contratto nazionale. «Siamo l’unico Paese in cui la figura del freelance è considerata marginale – racconta Fava – anche dal punto di vista economico e delle tutele. Una figura che è di fatto l’ossatura dell’intero sistema informativo italiano». In Italia non ci sono zone immuni dal fenomeno delle intimidazioni mafiose ai giornalisti. Stando alle denunce l’area più pericolosa è il Lazio. Seguono Campania e Lombardia. A fronte di tanti cronisti coraggiosi, altri si adeguano alle minacce. Il lavoro della commissione si occupa anche di loro. «L’informazione contigua, compiacente, persino collusa con le mafie». Professionisti che censurano e si autocensurano, nascondono le notizie. E, di conseguenza, colleghi costretti a subire una seconda forma di violenza. Più subdola delle intimidazioni. «Molte testimonianze raccolte – si legge nella relazione – raccontano di un clima difficile in alcune redazioni, di giornalisti isolati, allontanati o persino licenziati anche quando queste decisioni li ponevano oggettivamente in una condizione di maggior rischio». Di questo argomento ha parlato il cronista di Repubblica Carlo Bonini, ascoltato dalla commissione: «Quasi sempre la minaccia produce un effetto perverso, perché il collega minacciato, intorno al quale immediatamente si stringe una qualche forma di solidarietà, passati un mese, due mesi o tre mesi, diventa un problema per la sua redazione e per gli altri colleghi. Normalmente, quindi, diventa due volte vittima. È vittima prima di chi lo minaccia, e poi di un clima di sostanziale fastidio, indifferenza o addirittura isolamento nel suo stesso contesto di lavoro». Nonostante tutto, la relazione si conclude con un dato positivo. Un segnale di speranza «che non era scontato all’inizio di questa indagine». Il testo riconosce «la determinazione con cui una nuova generazione di giornalisti ritiene che la funzione etica del loro mestiere non possa essere svilita da condizioni di lavoro a volte umilianti. E che ha scelto di non piegare la schiena pur sapendo che quella scelta li espone ai morsi del pericolo e della precarietà». Claudio Fava insiste molto su questo tema. «Degli undici giornalisti uccisi da mafie e terrorismo in Italia, questa silenziosa e tenace comunità di giovani cronisti è l’eredità più autentica. Certamente la più preziosa».

Contro di me una macchina del fango che si chiama antimafia, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Contiguo alla mafia. Una commissione parlamentare ha solennemente deciso così: il giornale che ho diretto per più di tre anni in Calabria, e che si chiamava “Calabria Ora”, era “contiguo alla mafia”. Contiguo, dice il dizionario, significa vicino, molto vicino, quasi “appiccicato”. Due cose contigue sono così vicine che si toccano. Il numero 1, per esempio – in matematica – è contiguo al numero 2. Se il mio giornale era “appiccicato” alla mafia evidentemente anch’io, che lo dirigevo, ero appiccicato alla mafia. E, ragionevolmente, lo erano anche altri giornalisti che lavoravano sotto la mia direzione. Su che basi mi si rivolge questa accusa sconvolgente? Su nessuna base. L’accusa si concretizza applicando il seguente sillogismo: Le Procure combattono la mafia; “Calabria Ora” (e il suo direttore in particolare) criticava le Procure; dunque “Calabria Ora” (e in particolare il suo direttore) era contigua alla mafia. Si capisce, di conseguenza, che “Calabria Ora” e il suo direttore criticavano le Procure per conto della mafia, o per favorire la mafia, o addirittura su mandato della mafia. Naturalmente ho chiesto al mio avvocato di procedere contro i calunniatori. In particolare contro l’edizione on line del “Fatto Quotidiano” che ha dato grande risalto a queste calunnie condendole con proprie considerazioni. Mi sarà più difficile procedere contro la commissione antimafia perché è un organismo parlamentare e tutti i suoi componenti sono coperti dall’immunità parlamentare completa (il famoso articolo 68 della Costituzione prevede che le opinioni espresse nel corso dell’attività parlamentare siano insindacabili e impunibili: un parlamentare può dire quel che vuole anche di un privato cittadino, può dire che è un assassino, mentendo – più o meno quel che ha fatto con me – senza che questo cittadino possa denunciare per calunnia). Decideranno i giudici se ho ragione o torto e cioè se è possibile o no criticare le Procure anche senza necessariamente essere affiliati alla ‘ndrangheta o giù di lì. Io però vorrei raccontarvi ben bene quali sono le tre ragioni per le quali il mio giornale è stato giudicato contiguo alla mafia, sulla base di informazioni, molto approssimative  – alcune del tutto errate, ma questo è un dettaglio persino di scarsa importanza – fornite all’antimafia dai suoi consulenti che, quasi tutti, sono o giornalisti o magistrati che hanno sempre dichiarato la loro ostilità verso “Calabria Ora” ( e ora la dichiarano verso il “Garantista”). La prima si chiama questione Cacciola. La seconda si chiama questione Pesce. La terza si chiama affare-Musolino. Poi ci sono moltissime altre questioni che davvero riguardano il problema del rapporto tra giornali e lotta alla mafia, delle quali la commissione non ha voluto nemmeno occuparsi (per esempio la guerra furiosa tra magistrati all’interno della Procura di Reggio, o intorno alla Procura, che forse è ancora in corso e della quale la commissione antimafia si è infischiata, probabilmente anche perché è all’oscuro di tutto).

Capitolo Cacciola. Il motivo dello scontro tra “Calabria Ora” e la Procura, al quale accenna, se ho capito bene, uno dei magistrati interrogati dalla Commissione, è il seguente: alla signora Cacciola (testimone antimafia che poi ritrattò e poi tornò ad accusare) , dopo la ritrattazione fu levata la “protezione” che le era stata garantita dallo Stato. Successivamente fu trovata morta perché aveva bevuto acido muriatico (forse suicida, forse assassinata, forse costretta al suicidio). Noi siamo stati l’unico giornale che ha chiesto con insistenza perché le fu tolta la protezione. Nessuno ci ha risposto, e la Commissione antimafia che, trovatasi di fronte a questo problema avrebbe fatto bene ad indagare sul tema, visto che la Procura non aveva indagato, se ne è fregata. Non indagare su un suicidio sospetto o, meglio, su un possibile omicidio di ‘ndrangheta non è una bella cosa, no? E se un giornale denuncia, fa una azione antindrangheta, credo. Poi ci si accusa per avere dato conto della famosa cassetta inviata dalla Cacciola ai giornali nella quale ritrattava le sue accuse alla propria famiglia. Mi auguro che il sindacato dei giornalisti, come ha fatto altre volte, intervenga per spiegare che se si entra in possesso di una cassetta con grande interesse per l’informazione, come è successo in questo caso, i giornali sono obbligati a informare e a pubblicare. Anche se la pubblicazione danneggia o comunque non piace a una Procura.

Caso Pesce. Analogo, ma per fortuna meno tragico. La signora Pesce si pente e accusa la sua famiglia. Poi scrive una lettera nella quale accusa invece la Procura di averla costretta a pentirsi, mentre era in prigione, portandola in un carcere nel quale le era impossibile vedere i suoi figli. Noi entriamo in possesso di questa lettera e del verbale di interrogatorio nel quale la signora dice: “riavvicinatemi ai bambini e dirò tutto quello che volete”. Pubblichiamo l’una e l’altro (e pubblichiamo anche la risposta della Pm che replica correttamente: “lei non deve dirci quel che vogliamo, deve dirci la verità”). Successivamente la signora ritratta la ritrattazione e torna a collaborare. Ma questo non vuol dire che la lettera fosse falsa o che fosse falso il verbale (tipo caso-Crocetta). La lettera e il verbale erano autentici. Di cosa ci si accusa? Di avere ricevuto lettera e verbale dall’avvocato della signora (che è uno dei più famosi penalisti italiani). Non ho capito che male c’è: ricevere materiale da un magistrato è consentito, riceverlo da un avvocato no? Cioè, l’avvocato è considerato più o meno un complice? Roba da Cile di Pinochet…(Comunque nella ricostruzione dell’antimafia c’è anche una imprecisione, dovuta alla scarsa attendibilità degli informatori della commissione. Io, personalmente, non ho mai incontrato l’avvocato né ho mai avuto contatti con lui. Non che ci sarebbe stato niente di male se l’avessi fatto: preciso questo dettaglio solo per dire che gli informatori sono un po’ approssimativi e poco informati).

Capitolo Musolino.  Lucio Musolino, quando io sono arrivato a “Calabria Ora” nell’estate del 2010, è un giornalista del quotidiano. Si occupa di giudiziaria a Reggio Calabria. E’ un bravo giornalista di giudiziaria, credo, nel senso che possiede molte informazioni che vengono dalla Procura, anche se all’epoca dei fatti – mi pare di aver capito – non ha rapporti idilliaci con la Procura di Reggio, cioè non è molto simpatico al Procuratore. Anche perché Musolino conduce una campagna battente contro il governatore Scopelliti, accusandolo delle peggiori malefatte, ma soprattutto (cosa che scrive spessissimo) di aver partecipato non ricordo più bene se a un battesimo o a un pranzo dove c’era un mafioso. Musolino non ha buoni rapporti con il resto della redazione di Reggio. Anzi, pessimi. Nella prima proposta di riorganizzazione del giornale, nella quale si prevedono vari spostamenti (resi necessari dal fatto che prima che io arrivassi si erano dimessi dieci redattori del giornale) propongo a Musolino di trasferirsi da Reggio, sia per via dei cattivi rapporti che aveva con la redazione di Reggio, sia perché avevamo deciso di rafforzare le redazioni di Catanzaro e Lamezia (cosa che poi non facemmo). Lui mi risponde con durezza, dicendomi che non intendeva lasciare Reggio e accusandomi di dire le stesse cose che dice la ‘ndrangheta. Mi incazzai come un ape, naturalmente, e gli chiusi il telefono in faccia, ma siccome sono una persona pacifica e che non ama i conflitti, e siccome ero appena arrivato in Calabria e non ero in grado di capire tutto, decisi immediatamente di rinunciare al trasferimento, e comunicai questa decisione sia all’editore, che fu contrariato, sia al comitato di redazione. Quando presentai il piano di riorganizzazione, il trasferimento di Musolino non c’era. Non c’è mai stato il suo trasferimento. Qualche giorno dopo Musolino dichiarò all’Ansa che sarebbe stato trasferito, per motivi politici, provocando una polemica politica accesa, e poi andò in Tv a dichiararsi perseguitato dal giornale. L’editore andò su tutte le furie e licenziò Musolino perché aveva danneggiato con le sue dichiarazioni l’immagine e gli interessi dell’azienda. Io mi rifiutai di firmare il licenziamento. E siccome il contratto dei giornalisti prevede che i licenziamenti li faccia il direttore, quel licenziamento fu annullato dal tribunale. Io però non lasciai sotto silenzio le accuse di Musolino e lo querelai. Un paio d’anni fa, attraverso un amico comune, Musolino mi chiese, gentilmente, di ritirare la querela (e insistette molto perché io la ritirassi dicendomi che gli procurava un sacco di guai) , cosa che io – che ormai non avevo più niente contro di lui – feci di buon grado. Andammo insieme dai carabinieri di Reggio, lui, io e l’amico comune, e procedemmo al ritiro. (Quando Musolino era ancora al giornale, un giorno andai a intervistare Scopelliti, e lo feci di fronte a molti testimoni. Nel corso dell’intervista Scopelliti attaccò Musolino dicendo che scriveva balle. Io mi infuriai, gli dissi che Musolino era un ottimo giornalista e che il Presidente della Regione non doveva attaccare i giornalisti. Lui accettò il rimprovero. E il giorno dopo riferii dello scontro sul giornale). Posso finire qui, il racconto, ma voglio aggiungere una cosa, visto che si è insinuato che il motivo del mio scontro con Musolino era una mia amicizia con Scopelliti. Vi racconto come si è conclusa la mia esperienza a “Calabria Ora”. Sono stato licenziato perché mi ero rifiutato di esautorare un redattore di Reggio Calabria che non piaceva a Scopelliti. Vi dico anche il nome del redattore: Consolato Minniti, capo della redazione di Reggio. Scopelliti allora chiese al mio editore di mandare via me visto che io non rimuovevo Minniti, e lui lo fece (anche se portò come motivo ufficiale del mio licenziamento il mio rifiuto a licenziare una quarantina di giornalisti per ridurre il deficit del giornale). Non mi stupii né mi indignai. Ho sempre saputo del peso che hanno i politici nei giornali, e anche in passato mi era capitato di essere allontanato da un incarico di direzione, in altri giornali, su richiesta di leader politici. E infatti, nonostante l’ingiustizia subita ho mantenuto buoni rapporti umani sia con Scopelliti (che ho difeso quando è stato cacciato dai giudici dalla Presidenza della Regione) sia con il mio editore. Ora mi chiedo se nel Parlamento italiano debba esistere una commissione che non ha mai disturbato la mafia, non ha mai neppure in modo impercettibile contribuito alla lotta alla mafia, è composta in gran parte da parlamentari che ignorano il fenomeno mafioso e non se ne sono mai occupati, e che ha il solo scopo di gettare fango dove i famosi professionisti dell’antimafia (amatissimi, per altro, dalla mafia) chiedono che sia gettato.

I documenti del ministero dell’Interno che riportano il tentativo da parte del suo direttore di ostacolare le indagini; il «confino» al quale fu destinato quando i vertici del suo giornale lo spostarono inspiegabilmente dalla cronaca allo sport; i diari della figlia che denunciano l’indifferenza della direzione del quotidiano comunista “L’Ora” dopo la sua scomparsa; il ruolo oscuro, a margine del rapimento, di personaggi vicini al Pci e di avvocati di apparato. Tante ombre, sospetti, tradimenti. Sull’omicidio di mafia di Mauro De Mauro, cronista de «L’Ora» di Palermo, «icona» della sinistra antimafia militante, vittima il 16 settembre 1970 di «lupara bianca», si addensano oggi nuovi e ingombranti sospetti. Proprio sul comportamento di colleghi, proprietari ed entourage di quel giornale «democratico e antifascista», come lo definiva il suo direttore, Vittorio Nisticò, si sviluppa il bel libro «Mauro De Mauro, la verità scomoda» (Aliberti editore) scritto con coraggio da Francesco Viviano, inviato di Repubblica. Scavando nelle carte e nelle vecchie raccolte del giornale, Viviano si è imbattuto in una notizia destinata a fare rumore e riaprire le indagini: all’atto del sequestro, poco prima di essere ammazzato, De Mauro fu portato a casa di una persona che conosceva bene. E che molto probabilmente gli chiese conto di cose che solo il cronista conosceva. Chi interrogò De Mauro prima di ucciderlo? Chi fece da «talpa» per il sequestro? Dopo aver esplorato i possibili moventi del rapimento(a cominciare dal golpe Borghese attraverso un documento inedito rinvenuto da Viviano nel quale De Mauro parlava appunto di «colpo di stato») Viviano si sofferma a lungo sul giornale de «l’Ora» e sulle accuse a «Mister X», il potente avvocato siciliano Vito Guarrasi, fondamentale amico dei comunisti siciliani ed ex consigliere d’amministrazione del quotidiano, che il giudice Rocco Chinnici aveva definito «la testa pensante della mafia in Sicilia». L'inviato di «Repubblica» spulcia ogni indizio, ogni testimonianza che possa dare concretezza a quelle che sono molto più che semplici teorie. «In quei giorni - scrive Viviano - pur sapendo che De Mauro stava lavorando a uno scoop sensazionale, il direttore lo aveva spostato allo sport». Sospetto sempre respinto da Nisticò, che in un articolo vergato tre anni dopo la scomparsa del suo cronista, prima spiega come quella scelta avesse alla base il semplice tentativo di rilanciare la cronaca sportiva, poi però getta ombre sullo stesso De Mauro, sottolineando i suoi rapporti con alcuni democristiani «personaggi-chiave di quel sistema clientelare impastato di mafia e politica (...)». Nello stesso articolo Nisticò si lamenta del fatto che mai nessuno gli ha chiesto nulla sulla personalità di De Mauro. Da qui i dubbi di Viviano: perché mai il direttore e i colleghi del cronista ucciso si sono lamentati solo dopo anni? Perché, se avevano in mano qualcosa di utile, non si sono mai recati dagli inquirenti? L’autore del libro racconta anche di come il coinvolgimento di Guarrasi nell’«affaire» De Mauro, anche se non giudiziario, porti al deterioramento dei rapporti tra il direttore dell’«Ora» e la famiglia del cronista sparito nel nulla il 16 settembre 1970. Accade il giorno in cui Tullio De Mauro, il linguista fratello di Mauro, riceve una telefonata da un amico che lo mette in guardia proprio su Guarrasi. I De Mauro raccontano tutto ai due poliziotti che stavano seguendo il caso, Boris Giuliano e Bruno Contrada. Nisticò pare non prenderla bene: «Ancora oggi per me restano indefinibili i reali motivi che indussero i De Mauro ad affidarsi pienamente ed esclusivamente alla polizia». Inquietanti le pagine del diario della figlia di De Mauro pubblicati nel libro: «A partire dal terzo giorno del sequestro (...) il giornale aveva cominciato a tenere un contegno tra il prudente e (a parer mio) l’indifferente. Nessuno dell'“Ora”, sebbene casa nostra brulicasse di inviati e corrispondenti, era più venuto da noi; e gli articoli su un fatto tanto clamoroso e che toccava direttamente il giornale di mio padre erano affidati alle giovani leve del quotidiano (...)». Sulla scena compare poi improvvisamente anche un «inquietante personaggio», come lo definisce Viviano. Si tratta di un commercialista palermitano amico di Guarrasi, che quando ancora nessuno sa del rapimento di De Mauro, telefona a casa sua tentando di indirizzare le indagini su una pista che non avrebbe portato a nulla. Il commercialista finì agli arresti, poi venne rimesso in libertà: gli indizi a suo carico caddero.

PARLIAMO DI BUROCRAZIA E DI BENI MAI CONFISCATI.

Introdotta dalla legge Rognoni–La Torre del 13 settembre 1982, la confisca dei beni mafiosi si dovrebbe realizzare attraverso l’assegnazione dei beni immobili a comuni, province, regioni, associazioni di volontariato, cooperative sociali, e così via per realizzare scuole, comunità di recupero, case per anziani, centri per rifugiati politici, e altro ancora. I beni mobili e le aziende confiscate vengono per lo più trasformati in denaro contante e il ricavato viene versato nel Fondo unico per la giustizia. Nel 1996 il parlamento votò all’unanimità la prima legge di iniziativa popolare contro le mafie, la legge 109, sostenuta da un milione di firme di cittadini raccolte dall’Associazione Libera. Secondo l’articolo 3 “i beni confiscati sono devoluti allo Stato”. I beni immobili confiscati possono essere “mantenuti al patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile”, oppure “trasferiti al patrimonio del comune ove l'immobile è  sito, per finalità istituzionali o sociali”, o ancora “il comune può amministrare direttamente il bene o assegnarlo in concessione a titolo gratuito a comunità, ad enti, ad organizzazioni di volontariato”, “a cooperative sociali” “o a comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti”. Con la finanziaria del 2007 i beni confiscati possono essere assegnati anche a Province e Regioni. Detto questo, l’articolo 2 della finanziaria 2010 sancisce che i beni “di cui non sia possibile effettuare la destinazione o il trasferimento per le finalità di pubblico interesse ivi contemplate entro i termini previsti – vale a dire 90 giorni – sono destinati alla vendita i cui proventi saranno destinati a finalità istituzionali e sociali”. Don Ciotti, presidente di “Libera”: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra". Antonio Giangrande, presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie: “I beni confiscati sono cosa di tutti, non degli apparati appoggiati dalla sinistra. Basta favoritismi ed ipocrisie. Ben venga la riforma. I proventi della vendita dei beni non assegnati vadano a finanziare i bisogni della Giustizia e non essere un peso al bilancio dello Stato”. “Libera”, è un coordinamento di oltre 1500 associazioni o comitati locali, che spesso si appoggiano presso le sedi ARCI, ACLI, CGIL. Esse sono assegnatari dei beni confiscati e beneficiari dei finanziamenti per la fruizione e la funzionalità di immobili ed aziende. Loro santificano i magistrati e sono appoggiati dall’apparato dei media, dei docenti, degli intellettuali, dei politici e dei magistrati di sinistra. Con un apparato del genere e con molte Giunte che la sovvenzionano, “Libera” non ha bisogno di elemosinare sostegno, finanziamenti e visibilità. “Noi non siamo di sinistra – dice il presidente dr Antonio Giangrande - ma vogliamo portare all’attenzione della collettività una verità alternativa a quella della sinistra militante dove vige il motto: La mafia sono gli altri e nessuno tocchi i “Dei” magistrati. Noi non abbiamo visibilità, nè sostegno, perché palesiamo una verità eclatante: la mafia è l’istituzione che collude, i media che tacciono e i cittadini che emulano. Mafie, lobbies, caste e massonerie gestiscono la nostra vita. E ne riportiamo gli esempi sui nostri siti e per sunto nel libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”. Noi non siamo tanto forti da rompere questo muro di gomma erto dalla “inteligentia” e dagli apparati di sinistra, ma siamo forti della nostra ragione. Per questo diciamo che i beni dei mafiosi, devono essere “cosa di tutti” e non “cosa di sinistra”. Si può perdere la lotta alla mafia anche per burocrazia, inefficienza, inadeguatezza della macchina dello Stato. Succede da anni, e succede tutti i giorni, se si guarda ai patrimoni sequestrati ai boss mafiosi e mai entrati in possesso del Demanio. Sentenze dello Stato disattese, da un lato, rendite e benefici lasciati in possesso dei clan, dall'altro. Cioè soldi, finanziamenti e risorse di cui la mafia gode alla luce del sole. Anzi, all'ombra della burocrazia. Riguardo all´utilizzazione dei beni confiscati alla mafia, la norma omette di riparare a una lacuna gravissima: nulla, infatti, prevede in ordine ai criteri in base ai quali i beni confiscati devono essere concessi e a chi. Tale concessione resta una graziosa elargizione del potente di turno ad amici e clienti. Basta seguire le cronache sui giornali per notare che i beni sono destinati quasi sempre ad una singola associazione, mediaticamente attenzionata. Tra le agevolazioni previste per le vittime del racket vi è la precedenza nell´assegnazione in concessione di aree consortili. Immaginate il gioielliere o il salumiere a cui è stato distrutto il negozio, andarlo a ricostruire in un´area industriale? Di contro, l'impegno della difesa delle parti civili è spesso particolarmente gravoso: nei processi di mafia accade spesso che la linea della pubblica accusa, giustamente mirante esclusivamente alla condanna dell´imputato, si ponga in contrasto o, quantomeno, tenda a ignorare la posizione della vittima del reato. La difesa della parte civile dovrà, quindi, fare accertare e sottolineare il ruolo e la posizione della vittima e ciò a volte (si pensi a esempio a tutti i casi in cui emergono responsabilità istituzionali che ragion di Patria consigliano di far dimenticare) in contrapposizione con la medesima pubblica accusa.

Il tesoro delle mafie e dell'antimafie.

Inchiesta di Francesco Viviano ed Alessandra Ziniti su “La Repubblica”. Magistrati e forze dell'ordine hanno portato via a Cosa Nostra, camorra e ndrangheta 20 miliardi di euro. Ma l'Agenzia nazionale per i beni confiscati fa i conti con le banche. Ben l'80 per cento di questi beni è sostanzialmente ingestibile, al 65 per cento per i gravami ipotecari avanzati dagli istituti di credito. Quel patrimonio da 20 miliardi tenuto in 'ostaggio' dalle banche. Aziende, società, edifici, case, magazzini, terreni, auto di lusso, barche. Il prefetto Giuseppe Caruso, direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, lotta per gestire al meglio il patrimonio ottenuto dei beni delle mafie. Ma sulla sua strada ha trovato le banche. L'80 per cento di questi beni è sostanzialmente ingestibile, al 65 per cento per i gravami ipotecari avanzati da decine di istituti di credito sui quali adesso Caruso ha deciso di fare chiarezza. Per apportare a quel latifondo una serie di migliorie, il Banco di Sicilia aveva concesso al "Papa" un mutuo di un miliardo e mezzo di lire senza battere ciglio. Erano altri tempi e le banche, specialmente in Sicilia, non andavano tanto per il sottile con i mafiosi soprattutto se, come Michele Greco, frequentavano i salotti bene e conoscevano le persone giuste. Quel miliardo e mezzo, tramutatosi in una pesantissima ipoteca, per 25 anni è stata "l'arma" con la quale, nonostante la confisca, Cosa nostra è riuscita ad impedire allo Stato di riprendersi e far fruttare un pezzo del suo patrimonio. Solo ora, grazie alle insistenti pressioni del prefetto Giuseppe Caruso che ha quasi obbligato Unicredit a rinunciare a buona parte del suo credito e a rateizzare il resto, nei 150 ettari del feudo di Verbumcaudo, sulle colline delle Madonie, vero e proprio emblema della forza economica della mafia siciliana, è già partita la semina del grano e sta per essere realizzato un impianto di produzione prima di olivi e poi di vini e sorgerà la prima Banca vitivinicola siciliana. Purtroppo una goccia nel tempestoso mare del riutilizzo dei beni mafiosi, la trincea più avanzata della lotta alla criminalità organizzata dal sud al nord del paese, che rischia di essere travolta dall'inarrestabile onda d'urto dei gravami finanziari sui beni confiscati.

Un patrimonio conteso dalle banche. È un tesoro da 20 miliardi di euro quello che è stato sottratto alle mafie: aziende, società, edifici, case, magazzini, terreni, auto di lusso, barche, che il lavoro incessante di anni di magistrati e forze dell'ordine è riuscito a portare via dai bilanci di Cosa nostra, camorra, 'ndrangheta. Il ministro della giustizia Paola Severino, alla commissione antimafia, ha dato una valutazione positiva dell'attività di contrasto fin qui svolta parlando di oltre il 50 per cento dei beni confiscati come già destinati ma il prefetto Giuseppe Caruso, direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati al quale è affidata la gestione di questo patrimonio, lotta contro un nemico a cui adesso ha dato un nome: le banche. Come è possibile, si è chiesto, che quasi l'80 per cento di questi beni è sostanzialmente ingestibile, al 65 per cento per i gravami ipotecari avanzati da decine di istituti di credito? "Ho già firmato oltre 200 istanze all'Avvocatura dello Stato per chiedere direttamente l'accertamento della buona o mala fede di chi ha concesso crediti ai mafiosi. È davvero impressionante constatare quante banche hanno erogato soldi senza verificare chi fosse il destinatario di questo fido". Oggi il rischio concreto è di mancare clamorosamente un obiettivo decisivo nel contrasto alla criminalità organizzata, la reimmissione in un circuito economico virtuoso dei soldi sporchi. Un bel problema considerato che adesso, a differenza di quando la competenza era del Demanio, l'Agenzia può destinare solo beni totalmente privi di criticità. Il che equivale a dire che un patrimonio da almeno 10-12 miliardi è totalmente a perdere. Un allarme rilanciato anche dal presidente di Libera, don Luigi Ciotti che con il circuito dei beni confiscati ha avviato un meccanismo virtuoso che produce e dà lavoro a centinaia di giovani. "Le banche dicono ai Comuni di pagargli l'ipoteca che il mafioso o il prestanome hanno fatto, ma le associazioni antimafia interessate al bene per un uso sociale non hanno i soldi per pagare un'ipoteca e le banche, salvo rare eccezioni, rivendicano il denaro. Questo è un nodo politico che va sciolto".

Mutui e danneggiamenti, ecco il "piano casa" dei boss. In testa ci sono le regioni meridionali. Tra terreni, giardini, ville e appartamenti detengono il primato dei beni sottratti alle cosche. Negli ultimi anni i boss, sapendo di essere sotto inchiesta, hanno acceso mutui sui loro beni immobili a rischio sequestro, incassando così soldi liquidi più facili da riciclare e rendendo estremamente complicata l'assegnazione definitiva di un bene. In alternativa c'è anche chi rende inutilizzabile l'immobile o chi lo occupa. La strategia dei boss. Sicilia, Campania, Puglia e Calabria detengono il primato dei beni sottratti alle cosche, ma purtroppo anche i casi più eclatanti dimostrano come troppo spesso le confische siano delle occasioni sprecate. L'ultimo in ordine di tempo è quello del Parco dei Templari e della ex masseria di Altamura, in provincia di Bari, un meraviglioso parco da 66 mila metri quadrati con fabbricati per 8.500 metri quadri, valore stimato 16 milioni di euro, confiscato nel 2007 e gestito fino ad ora in una sorta di partnership pubblico-privato tra l'Agenzia nazionale e lo chef Gianfranco Vissani che aveva accettato la scommessa di rilanciare la struttura con 36 dipendenti. Alta cucina per banchetti e ricevimenti aveva anche assicurato un certo introito ma un buco finanziario da 600 mila euro ha indotto l'Agenzia a fare un passo indietro e a chiedere alla Regione Puglia di intervenire. Ma chi dovrebbe accollarsi l'onere di gestione di un bene così indebitato con le banche? A Pomigliano d'Arco, la Masseria Castello, 8.000 metri di terreno e lo scheletro di un edificio, sequestrato al clan Foria, è in totale stato di abbandono. Confiscato a giugno del 2000 e assegnato al Comune, vede il progetto di realizzazione di un centro giovanile già finanziato con 3 milioni e 364 mila euro del Pon (programma operativo nazionale) sicurezza bloccato per un'ipoteca da 10 mila euro. A Villaricca, un appartamento confiscato tre anni fa e destinato a una casa accoglienza per disabili, anche questa finanziata con il Pon sicurezza, è stata stoppata da due azioni di pignoramento, una da 41 mila euro e l'altra da appena 1360 euro perché l'Enel intende riscuotere 20 anni di bollette non pagate. In Campania una recente ricerca del Consorzio Sole conferma: non più del 20 per cento dei beni acquisiti dallo Stato riescono ad essere rigenerati con finalità sociali. E quella dei gravami finanziari, ha spiegato Lucia Rea, responsabile del Consorzio, sembra essere una vera e propria strategia: i camorristi che sanno di essere sotto inchiesta accendono mutui sui loro beni a rischio sequestro, incassano soldi liquidi più facili da riciclare e rendono molto difficile la loro assegnazione definitiva. Case occupate e case inesistenti. Ci sono poi le decine di immobili già assegnati ai Comuni ma che restano occupati dai familiari dei boss che nessuno si azzarda a sfrattare. A Castellammare di Stabia, resta tranquillamente a casa sua la moglie del capo della cosca D'Alessandro perché l'appartamento è confiscato solo per metà e peraltro è abusivo. In Calabria è stata persino aperta un'inchiesta con oltre 350 indagati per far luce sulle centinaia di immobili, alcuni confiscati da più di 15 anni, che continuavano a rimanere nelle mani dei familiari dei boss, come un intero palazzo sottratto a Reggio Calabria nel '97 a Pasquale Condello ma nel quale risiedevano tutti i suoi parenti. Se non possono fare altro, poi, i Casalesi passano ai danneggiamenti di quelli che un tempo erano i bunker dotati di ogni comfort che ospitavano le latitanze dorate dei loro capi: così la villa di Walter Schiavone a Casal di Principe o i terreni di Lubrano a Pignataro Maggiore vandalizzati dagli stessi uomini del clan per renderli inutilizzabili, addirittura con la compiacenza del sindaco, il pidiellino Giorgio Magliocca, avvocato, arrestato a marzo dell'anno scorso proprio con l'accusa di aver consentito al clan Lubrano di continuare ad utilizzare beni confiscati assegnati in gestione al Comune. A Bologna Villa "la Celestina", tre piani in una zona di prestigio, sta ormai cadendo a pezzi, la via in cui sorge, ora via Boccaccio, ha cambiato nome ma la cosa non è mai stata comunicata al catasto. A rendere impossibile l'utilizzazione di un bene c'è una miriade di piccole quanto insormontabili difficoltà tecniche o burocratiche. Basta spulciare l'elenco dei beni assegnati al Comune di Palermo: un palazzo confiscato all'ex sindaco Vito Cancimino per metà occupato da inquilini e per l'altra metà da ristrutturare, un terreno da 1700 metri quadri a Ciaculli, il regno dei Greco, dove continuano a pascolare le pecore perché "senza confini", un altro confiscato ad uno dei killer di via d'Amelio, Gaetano Scotto, ufficialmente "inaccessibile".

Le confiscate non reggono il mercato, nove si dieci chiudono battenti. Quando un'azienda passa allo Stato iniziano i problemi di gestione. In fase di sequestro le banche revocano i fidi, i clienti ritirano le commesse e la regolare fatturazione porta ad un inevitabile innalzamento dei costi di gestione. Inoltre spesso gli amministratori giudiziari sono incompetenti. Ci sono poi decine di casi in cui le attività sono ingestibili perché il provvedimento della magistratura riguarda il patrimonio societario ma non le azioni. Le aziende decotte C'è poi un immenso patrimonio capace di dare occupazione a migliaia di persone che si perde giorno dopo giorno. È l'economia sommersa delle aziende delle mafie che, sequestrate, confiscate e affidate ad amministratori giudiziari non reggono l'impatto con il mercato e si avviano a un mesto fallimento. L'ultimo caso è quello del gruppo catanese Riela trasporti. Quella che tredici anni fa era la quattordicesima azienda più ricca della Sicilia, 30 milioni di fatturato, 250 dipendenti, ha avviato le procedure di liquidazione "perché non riesce a stare sul mercato", si legge nella determinazione adottata dall'Agenzia per i beni confiscati. I titolari ai quali era stata sottratta hanno fondato un nuovo consorzio che ha tolto i clienti alla Riela riuscendo persino a diventare il suo principale creditore per sei milioni di euro. D'altra parte l'azienda in amministrazione giudiziaria, rispettando tutti i parametri di legalità, era costretta a praticare prezzi superiori fino al 30 per cento rispetto ai concorrenti. E la Calcestruzzi Ericina, fiorentissima azienda che, fino a quando apparteneva al boss trapanese Vincenzo Virga, operava quasi in regime di monopolio, appena passata in amministrazione giudiziaria, ha visto prosciugarsi le commesse e persino parte del personale ha "preferito" rimanere fuori. Alla fine, prossima al fallimento, ha rialzato la testa grazie alla caparbietà di un gruppo di lavoratori riunitisi in cooperativa che, con il sostegno di Libera di Don Ciotti e delle istituzioni locali, è riuscito a mantenerla in vita. A Palermo l'avviatissimo Hotel San Paolo Palace, già dei Graviano, registra perdite su perdite. Ci sono poi decine di casi in cui le attività sono ingestibili perché il provvedimento della magistratura riguarda il patrimonio societario ma non le azioni. Accade così che in provincia di Novara il servizio di ristorazione del castello di Miasino, sottratto al boss camorrista Galasso, sia ancora in mano alla moglie. Ma perché un'azienda florida quando è nelle mani della mafia poi fallisce quando viene confiscata e passa allo Stato? Spiega il prefetto Caruso: "Già in fase di sequestro le banche revocano i fidi, i clienti ritirano le commesse e la regolare fatturazione porta ad un inevitabile innalzamento dei costi di gestione. In più molti amministratori giudiziari sono incompetenti. Come faccio a mettere a reddito aziende così?". E proprio dal primo congresso nazionale degli amministratori giudiziari arriva la conferma: su dieci aziende confiscate alla criminalità, nove muoiono. "Si tratta di aziende che fino a quel momento si sono mosse fuori dai confini della legalità - spiega il presidente Domenico Posca - e risulta quasi impossibile mantenerle sul mercato con l'inevitabile aumento del conto economico al quale si aggiunge quasi sempre un irrigidimento delle banche e dei fornitori. La scommessa dello Stato deve essere quella di salvare centinaia di posti di lavoro, know how e validi impianti produttivi. È assolutamente necessario intervenire favorendo il mantenimento delle linee di credito e prevedendo un regime fiscale e previdenziale agevolato". Vendere i beni inutilizzabili. Ecco perché anche il prefetto Caruso invoca la possibilità di vendere i beni confiscati anche ai privati. "Ovviamente con tutte le garanzie del caso sull'acquirente. Il nostro sistema è così avanzato che, anche se qualcosa dovesse sfuggire, saremmo in grado di riconfiscarli. D'altra parte ditemi cosa dovrei fare di particelle di terreno indivisibili o di due stanze divise fra cinque eredi o di edifici con un'errata indicazione di dati catastali?". Al Parlamento, Caruso chiede benzina per far girare una macchina da Formula 1. "La sfida immensa - dice - è quella di mettere in grado l'Agenzia di lavorare bene. Ma come si fa a gestire beni che raggiungono il valore di una finanziaria con un organico carente e inadeguato?". Trenta persone in tutto per la sede principale di Reggio Calabria (che Caruso chiede di cambiare per le difficoltà di collegamento) e gli uffici di Roma, Palermo, Milano e quelle di prossima apertura di Napoli e Bari. Un budget da 4 milioni di euro che comporterà un taglio persino alle retribuzioni del personale che, accettando di lavorare all'Agenzia, guadagna meno rispetto ai colleghi delle amministrazioni di appartenenza. E ora, con l'entrata in vigore dei regolamenti attuativi, un ulteriore aggravio di lavoro. Perché all'Agenzia toccherà fare da supporto alla magistratura anche nella fase di sequestro e non solo più della confisca. "L'unica strada - è la proposta di Caruso - è trasformare l'Agenzia in un ente pubblico economico".

Come ottenere un bene confiscato. Possono farne richiesta tutte le associazioni di volontariato e le cooperative sociali. Servono i documenti che ne attestino l'effettiva esistenza.

1. La legge 109 del 96 regola le modalità di assegnazione per usi sociali dei beni già consegnati agli enti locali dall'Agenzia nazionale dei beni confiscati.

2. L'assegnazione può essere chiesta da tutte le associazioni di volontariato o dalle cooperative sociali che devono presentare un'istanza corredata dalla documentazione che attesti i requisiti previsti dalla legge.

3. I documenti necessari sono: statuto, atto costitutivo, iscrizione all'albo di appartenenza (albo degli Enti locali per le associazioni di volontariato, Onlus della Prefettura per le associazioni no-profit, Camera di Commercio per le cooperative).

4. Tutte le richieste vengono passate al vaglio per la verifica dei requisiti e poi si procede all'assegnazione.

Così dice la Legge, ma in realtà l’assegnazione ha un canale privilegiato: basta essere di sinistra e santificare i magistrati e essere compiacente con il Prefetto competente.

«L’antimafia che ha potere, è come la mafia (..) I professionisti dell’antimafia evocano la mafia laddove non c’è, e a Salemi la mafia non c’è. Ci sono comportamenti mafiosi e omertosi, ma non esiste più una mafia attiva. Questa è la verità, e chi è contro la verità è contro la legalità».

Cose che si sanno, ma non si devono dire. Diavolo di uno Sgarbi. E giù botte dalla saccente sinistra che con i suoi plotoni d’esecuzione, media e social network, tacitano ed isolano anche il più duro degli intellettuali liberi.

“L’antimafia che ha potere, è come la mafia”. Si conclude così l’intervista con il critico d’arte Vittorio Sgarbi a margine della presentazione del suo ultimo libro presso lo Spazio Krizia a Milano il 25 novembre 2011. E’ stata l’occasione per chiedere a Sgarbi del ritiro, da parte dello Stato, della delega che permette di scegliere e assegnare i Beni sequestrati alla mafia nel comune di Salemi. A chi era stata assegnata la delega? Al sindaco del Comune siciliano, ovvero a Sgarbi stesso, che ha spiegato così i retroscena della vicenda: «Volevo fare qualcosa di diverso coinvolgendo Slow Food, ma servivano soldi, e non se ne è fatto nulla.... Mi stanno sui coglioni i preti, soprattutto quelli che si occupano e gestiscono la cosa pubblica....I professionisti dell’antimafia evocano la mafia laddove non c’è, e a Salemi la mafia non c’è. Ci sono comportamenti mafiosi e omertosi, ma non esiste più una mafia attiva. Questa è la verità, e chi è contro la verità è contro la legalità». Sgarbi una idea precisa l’aveva, la sua voce è stata intercettata mentre diceva, parlando di quel terreno con un assessore, “mai a Don Ciotti”. Il 16 ottobre 2009 Sgarbi fu intercettato a parlare con un suo assessore, Caterina Bivona, a proposito della sollecitazione giunta dalla Prefettura di Trapani che pretendeva l’immediata assegnazione di quel terreno agricolo. Sgarbi chiedeva al suo assessore chi avesse presentato domanda per l’assegnazione di quel terreno. Il sindaco apprendeva che l’interesse era stato dichiarato da Slow Food e da Libera, e Sgarbi fu sentito subito dire “a quelli di Don Ciotti no”. L’assessore, d’accordo con lui, allora gli ricordava “il volere di Giammarinaro”, cioè darlo in gestione ad una associazione che si prende cura dell’assistenza ai portatori di handicap, l’Aias, e al suo presidente, Francesco Lo Trovato. Sgarbi telefonava a Giammarinaro e questo gli ribadiva quello che l’assessore gli aveva detto, il terreno a “Don Ciotti mai”, ma semmai all’Aias, una associazione di assistenza a portatori di handicap. Non è comunque accaduto nulla. Immobilismo totale. E ora il terreno non sarà più nelle disponibilità del Comune.

Il 19 maggio 2011 a Roma, nella sala conferenze dell’Hotel Nazionale il sindaco di Salemi Vittorio Sgarbi ha tenuto una conferenza stampa nel corso della quale ha affrontato la questione dei beni confiscati alla mafia: «Rivendico la decisione di non dare quei terreni a «Libera». Sono amico di don Luigi Ciotti, ma non credo che ci debba essere il monopolio della gestione dei beni confiscati alla mafia. E con lo stesso ragionamento non ho voluto darli a Padre Francesco Fiorino che in nome di una chiesa salvifica oggi gestisce quasi tutti i beni confiscati alla mafia».

Libera replica alle dichiarazioni di Sgarbi su terreni confiscati a Salemi. In riferimento a quanto ha sostenuto Vittorio Sgarbi nei giorno scorsi in una conferenza stampa riguardo la destinazione dei terreni confiscati alla mafia nei pressi di Salemi: «Rivendico la decisione di non dare quei terreni a Libera. Sono amico di don Luigi Ciotti, ma non credo che ci debba essere il monopolio della gestione dei beni confiscati alla mafia». si precisa che Libera è un coordinamento nazionale di circa 1600 associazioni che, nel segno della più ampia trasversalità culturale, condividono l'impegno per la giustizia sociale e la legalità. Nasce nel 1995, con la raccolta di 1 milione di firme per sostenere la legge 109 sulla confisca dei beni alla mafia e il loro riutilizzo sociale. Da quel momento Libera ha contribuito, in collaborazione con le Prefetture, i Consorzi di Comuni e altri enti, all'apertura e alla promozione di sei cooperative (tre in Sicilia, una in Calabria, una in Puglia, una in Campania) attraverso bando pubblico, per favorire in quelle regioni, insieme a realtà che si spendono sul territorio come la Fondazione San Vito Onlus di padre Francesco Fiorino, che da anni svolge attività umanitarie e di riscatto sociale promuovendo e gestendo iniziative caritatevoli e assistenziali in ambito diocesano su indicazione della Caritas, l'occupazione e il protagonismo dei giovani. L'unico bene confiscato che Libera ha avuto in assegnazione è quello di Via IV Novembre a Roma dove si trova la sede nazionale. Per la promozione dei prodotti del marchio "Libera terra" si è costituita "Cooperare con Libera terra", una realtà che vede circa 60 soggetti del mondo della cooperazione, "Slow food" e altri enti impegnati a qualificare e sostenere la diffusione di prodotti biologici che hanno un valore insieme etico e commerciale, dimostrazione di come il bene e l'utile possano coincidere. Anche in Provincia di Trapani si è avviato, in collaborazione con l'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, la Prefettura e il Consorzio trapanese per la legalità e lo sviluppo, il percorso per la nascita di una nuova cooperativa sociale, formata da giovani del territorio selezionati con bando pubblico, che andrà a gestire terreni confiscati nei Comuni di Paceco, Partanna e Castelvetrano. Tra i partner del progetto ci sono la Diocesi di Mazara del Vallo e il Parco archeologico di Selinunte. La proposta avanzata da Libera è stata quella di inserire i terreni di Salemi in questione in questo progetto e non di ottenerne l' affidamento diretto. In conclusione non c'è dunque nessun "monopolio" sulla gestione dei beni confiscati. Il progetto di Libera di contrasto sociale alle mafie attraverso la creazione di posti di lavoro, di percorsi educativi, di investimenti culturali, di scommesse sulle risorse morali di chi non vuole cedere al fatalismo e alla rassegnazione, si regge da sempre sul "noi". Con i suoi molti limiti, Libera continuerà ad essere espressione di corresponsabilità, nella convinzione che la lotta contro le mafie e le "zone grigie" di corruzione e illegalità che le alimentano, si può vincere solo se ciascuno di noi farà la propria parte.

Nella polemica sui beni confiscati alla mafia intercorsa tra Vittorio Sgarbi e il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Mogavero è intervenuta il neonato “Movimento dei Forconi”, una associazione di agricoltori, allevatori e pastori siciliani che si autoproclamano “stanchi del disinteresse quando non del maltrattamento da parte delle istituzioni”. In un documento inviato al vescovo Mogavero, al Presidente nazionale di «Libera», Don Luigi Ciotti e al Pontefice, gli agricoltori Ignazio Ardagna e Martino Morsello, in rappresentanza del movimento hanno manifestato solidarietà a Vittorio Sgarbi e lanciato un durissimo atto di accusa contro la «oscura e poco “socialmente utile” gestione dei terreni agricoli sequestrati alla mafia e affidati a società apparentemente benefattrici». Nel documento questi signori, uno dei quali crediamo sia un grosso viticoltore salemitano, denunciano, come «queste società, nella conduzione di tali terreni, attingono a fondi pubblici, nascondendo la redditività aziendale, falsando quindi il mercato con la scusa del reintegro sociale di giovani disagiati.” Il riferimento è alle cooperative di giovani che, sotto l’egida dell’ Associazione “Libera” di Don Ciotti, da alcuni hanno gestiscono i beni confiscati conducendo aziende agricole di produzione e di trasformazione. Ebbene, secondo questa organizzazione, tutto questo costituirebbe una “offesa per il mondo agricolo che vede disintegrate le sue famiglie e che non trova più sostegno da parte della politica, dei sindacati, del mondo intellettuale e tanto meno della chiesa che in questo momento di sgomento dovrebbe scendere in campo per difendere veramente le aziende agricole e non strumentalizzarle”. In precedenza, come si ricorderà, rispondendo a Mogavero che lo aveva accusato di «gettare discredito nei confronti di associazioni ecclesiastiche», Sgarbi aveva tuonato che “La legalità è verità. E la Sicilia, nell’azione attuale dell’antimafia, diffonde menzogne”. A cui l’alto prelato mazarese aveva prontamente controreplicato affermando “Il mio modello di verità, è Giovanni Paolo II”. Fin troppo evidente il riferimento alla celebre invettiva lanciata dal Pontefice all’ombra dei Templi agrigentini. Cessata quella con il vescovo, ecco ora accendersi una ennesima polemica. Questa volta il bersaglio del sarcasmo del Sindaco di Salemi è il Prefetto di Trapani Marilisa Magno. Colpevole per avere invitato Sgarbi allo scambio degli auguri di Natale per il 16 dicembre. Saranno tutti presenti i sindaci della provincia. Mancherà all’appello solo il critico ferrarese. E fa sapere che quel giorno andrà alla Sagra del Culatello. In quale località non è specificato. Sappiamo solo che quella più importante si tiene nel mese di giugno. Poco importa. Vittorio Sgarbi infatti precisa di non potere essere a Trapani “perché impegnato alla Sagra del Culatello. Non mancherò di suggerire di partecipare al concerto agli esponenti del Consiglio Comunale che garantiscono le suggestive infiltrazioni mafiose nella nostra Amministrazione. Come lei sa, si tratta di eletti. Lei, fortunatamente, è stata nominata”. Per poi molto diplomaticamente concludere “Sperando di non vederla presto a Salemi, le invio i miei auguri di buon anno”.

PARLIAMO DELLE BANCHE COME LA PIU' GRANDE RETE DI CONNIVENZA CON LA MAFIA.

Le banche rappresentano la rete più estesa della connivenza con gli interessi finanziari della mafia. I soldi vengono ripuliti lì. Ne è convinto Francesco Forgione, già Presidente della Commissione Antimafia.  Le banche rappresentano la rete più estesa della connivenza con gli interessi finanziari della mafia. I soldi vengono ripuliti lì.  Ne è convinto Francesco Forgione, presidente della commissione Antimafia, in una intervista a Sintesi Dialettica. "La politica - spiega Forgione - non ha avuto la forza di approvare una buona legge come quella sull'anagrafe dei conti correnti - legge Mancino del 1993, mai applicata in 15 anni. Da qui, quando si arresta un mafioso e gli si vogliono congelare subito i conti correnti, il mafioso, o l'amministratore del mafioso, ha tutto il tempo per svuotarli e movimentarli via internet in uno dei tanti paradisi fiscali del pianeta. Noi non abbiamo neanche la possibilità, attraverso l'anagrafe dei conti correnti e l'anagrafe degli immobili, di capire anche gli spostamenti di proprietà e le movimentazioni catastali. Manca, quindi, la possibilità di intervenire proprio lì dove si concentra il potere mafioso". Insomma, per il presidente della commissione Antimafia il ruolo delle banche è centrale. Per Forgione, dunque, è necessario aggredire "il santuario del mercato", altrimenti non si possono sconfiggere le mafie. "100.000 milioni di euro all'anno è l'ammontare di movimentazione delle mafie di cui almeno il 60% entra nell'economia legale - dice ancora -. Da qui si apre il problema della rintracciabilità dei flussi e dei patrimoni. Le mafie non hanno più la coppola e la lupara dei film in bianco e nero. Hanno capito che investire in patrimoni è rischioso per cui "finanziarizzano" le loro attività. E per colpire questo livello di "finanziarizzazione" e intercettarne i flussi, bisogna aggredire il sistema bancario".